Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2021
LA SOCIETA’
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA SOCIETA’
INDICE PRIMA PARTE
AUSPICI, RICORDI E GLI ANNIVERSARI.
Gli Auspici per il 2021.
Le profezie per il 2021.
2020. Un anno di Pandemia.
Cosa resta dell’anno passato. I Fatti.
Cosa resta dell’anno passato. Le Cazzate.
Cosa resta dell’anno passato. I Morti Illustri.
Perché febbraio ha 28 giorni ed è il mese più corto dell’anno?
109 anni dall’affondamento del Titanic.
84 anni dal Disastro dell’Hindenburg.
21 anni dalla fine del Concorde.
75 anni dalla nascita del Bikini.
75 anni dalla nascita della Vespa.
70 anni dalla nascita del Totocalcio.
60 anni dalla nascita di Diabolik.
200 anni dalla morte di Napoleone Bonaparte.
100 anni dalla morte di Enrico Caruso.
72 anni dalla morte del grande Torino.
66 anni dalla morte di James Dean.
61 anni dalla morte di Fred Buscaglione.
52 anni dalla morte di Rocky Marciano.
51 anni dalla morte di Jimi Hendrix.
50 anni dalla morte di Jim Morrison.
50 anni dalla morte di Fernadel.
50 anni dalla morte di Coco Chanel.
46 anni dalla morte di Joséphine Baker.
44 anni dalla morte di Charlie Chaplin.
44 anni dalla morte di Maria Callas.
44 anni dalla morte di Elvis Presley.
41 anni dall’uscita di “The Blues Brothers”.
40 anni dalla morte di Natalie Wood.
40 anni dalla morte di Rino Gaetano.
40 anni dalla morte di Alfredino Rampi.
39 anni dalla morte di Romy Schneider.
37 anni dalla morte di Truman Capote.
33 anni dalla morte di Christa Paffgen, in arte: Nico.
31 anni dalla morte di Sergio Corbucci.
31 anni dalla morte di Ugo Tognazzi.
30 anni dalla morte di Pier Vittorio Tondelli.
30 anni dalla morte di Yves Montand.
30 anni dalla morte di Dino Viola.
30 anni dalla morte di Walter Chiari.
29 anni dalla morte di Astor Piazzolla.
28 anni dalla morte di Sun Ra.
28 anni dalla morte di Albert Sabin.
27 anni dalla morte di Ayrton Senna.
27 anni dalla morte di Moana Pozzi.
27 anni dalla morte di Giulietta Masina.
27 anni dalla morte di Massimo Troisi.
27 anni dalla morte di Domenico Modugno.
25 anni dalla morte di Marcello Mastroianni.
25 anni dalla morte di Dario Bellezza.
24 anni dalla morte di Ivan Graziani.
24 anni dalla morte di Gianni Versace.
24 anni dalla morte di Renzo Montagnani.
23 anni dalla morte di Frank Sinatra.
21 anni dalla morte di Nicola Arigliano.
20 anni dalla morte di Ferruccio Amendola.
17 anni dalla morte e 100 anni dalla nascita di Nino Manfredi.
17 anni dalla morte di Michele Profeta.
15 anni dalla morte di Mario Merola.
15 anni dalla morte di James Brown.
15 anni dalla morte di Oriana Fallaci.
14 anni dalla morte di Ingmar Bergman.
14 anni dalla morte di Guido Nicheli.
13 anni dalla morte di Paul Newman.
13 anni dalla morte di Heath Ledger.
10 anni dalla morte di Giorgio Bocca.
10 anni dalla morte di Amy Winehouse.
9 anni dalla morte di Marie Colvin.
9 anni dalla morte di Lucio Dalla.
9 anni dalla morte di Donna Summer.
8 anni dalla morte di Little Tony.
8 anni dalla morte di Ottavio Missoni.
6 anni dalla morte e 100 anni dalla nascita d Mario Cervi.
6 anni dalla morte di Anita Ekberg.
6 anni dalla morte di Laura Antonelli.
5 anni dalla morte di Prince.
5 anni dalla morte di Silvana Pampanini.
4 anni dalla morte di Hugh Hefner.
4 anni dalla morte di Jake La Motta.
4 anni dalla morte di Pasquale Squitieri.
4 anni dalla morte di Paolo Villaggio.
3 anni dalla morte di Bernardo Bertolucci.
3 anni dalla morte di Fabrizio Frizzi.
3 anni dalla morte di Marina Ripa di Meana.
3 anni dalla morte di Davide Astori.
2 anni dalla morte di Luciano De Crescenzo.
2 anni dalla morte di Jeffrey Epstein.
2 anni dalla morte di Mattia Torre.
1 anno dalla morte di Gigi Proietti.
1 anno dalla morte di Paolo Rossi.
1 anno dalla morte di Diego Maradona.
1 anno dalla morte di Stefano D'Orazio.
1 anno dalla morte di Ezio Bosso.
1 anno dalla morte di Roberto Gervaso.
1 anno dalla morte di Ennio Morricone.
1 anno dalla morte di Kobe Bryant.
Le Frecce Tricolori.
Chi erano Stanlio e Ollio.
I Queen.
I Beatles.
Gli ABBA.
Dire Straits.
Spice Girls.
La Notte di San Lorenzo.
INDICE SECONDA PARTE
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI? (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Avvocato.
L’Operazione Stellantis.
John Elkann.
Lapo Elkann.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le Famiglie Reali.
Lo stile dei reali inglesi.
Presagi nefasti.
La Regina Vittoria.
Elisabetta.
Filippo.
Carlo.
Diana.
William e Kate.
Harry e Meghan.
Andrea.
Sarah Ferguson.
INDICE TERZA PARTE
I MORTI FAMOSI.
L'Apocalisse.
La linea piatta del fine vita.
Sesto Senso: sentire i morti.
Coscioni ed il diritto a morire.
La razzia delle tombe.
La morte sociale: gli Eremiti.
La Successione.
Le morti “del cazzo”.
È morto l’attore James Michael Tyler.
E’ morto il rapper svedese Yasin.
Morto il grande direttore d'orchestra Bernard Haitink.
È morto il compositore Leslie Bricusse.
E’ morto il jazzista Franco Cerri.
E’ morto l'ex segretario di Stato Usa Colin Powell.
E’ morto il fumettista Robin Wood.
Morto Angelo Licheri, “l’uomo ragno” che si calò nel pozzo del Vermicino per salvare Alfredino Rampi.
È morto il pittore Achille Perilli.
E’ morto il giornalista Gianluigi Gualtieri.
E’ morto lo scienziato Abdul Qadeer Khan.
È morto l’attore Elio Pandolfi.
E’ morto il filosofo ultra comunista Salvatore Veca.
E’ morta l’attrice Luisa Mattioli.
Morto il rugbista Lucas Pierazzoli.
E’ morto il calciatore Daniel Leone.
Morto lo scrittore Antonio Debenedetti.
È morto Bernard Tapie.
E’ morto l’ex ministro Agostino Gambino.
Muore lo scrittore Takao Saito.
E’ morta la giornalista Marida Lombardo Pijola.
E’ morto l’attore Basil Hoffman.
Morto il pilota Nino Vaccarella.
E’ morto l’attore Robert Fyfe.
E’ morto il calciatore Romanino Fogli.
È morto l’attore Willie Garson.
E’ morto Carlo Vichi, il fondatore della Mivar.
Morto il compositore Sylvano Bussotti.
È morto l’inventore Clive Sinclair.
E’ morto l’ex presidente dell’Algeria Abdelaziz Bouteflika.
È morto l’editore Tullio Pironti.
Morto l’attore Art Metrano.
È morto il terrorista Abimael Guzmán.
E’ morto l’attore Carlo Alighiero.
È morto l’attore Michael Constantine.
Morto l’attore Nino Castelnuovo.
Morto l’ex calciatore Jean-Pierre Adams.
E’ morto l’attore Michael K. Williams.
È morto l’attore Jean-Paul Belmondo.
È morta la cantante Sarah Harding.
E’ morta la giornalista Anna Cataldi.
Morto lo scrittore Daniele Del Giudice.
Morto il musicista Theodorakis.
E' morto l’artista Paolo Ramundo.
E' morto l’ex calciatore Francesco Morini.
Morto il giornalista Gianfranco Giubilo.
Morto il cantante Lee “Scratch” Perry.
È morto l’attore Ed Asner.
E’ morto il giornalista sportivo Mario Pennacchia.
E’ Morto Fritz McIntyre, tastierista dei Simply Red.
E’ Morto Charlie Watts, il batterista dei Rolling Stones.
E' morto il poeta rivoluzionario Jack Hirschman.
Morto Luca Silvestrin, storico pivot della Reyer Venezia.
È morta Nicoletta Orsomando, storica signorina buonasera.
È morto l'attore Nino D'Agata.
È morto l’atleta Albert Rienzo.
È morto l’atleta Giovanni Di Lauro.
È morto il senatore Paolo Saviane.
E’ morta la giornalista e scrittrice Gaia Servadio.
E’ morto l’avvocato Luca Petrucci.
E’ morto l’attore Sonny Chiba.
E’ morto il youtuber Omar Palermo.
E’ morto il calciatore Gerd Muller.
Morto il comico Gianfranco D'Angelo.
E’ morto il giornalista Ranieri Polese.
E’ morta l’attrice Piera Degli Esposti.
E’ morto Enzo Facciolo, il disegnatore di Diabolik.
E’ morto Gino Strada.
E’ morta Patricia Alma Hitchcock, figlia di Alfred.
E’ morto il doppiatore Giorgio Lopez.
È morto Nadir Tedeschi, ex esponente delle DC.
È morto il musicista Dennis "Dee Tee" Thomas, il leader di Kool & The Gang.
E’ morta l’editrice Laura Lepetit.
È morta «Mamma Ebe» Gigliola Giorgini.
È morto lo scrittore Antonio Pennacchi.
Morto il batterista Charles Connor.
È morta l’atleta cubana Alegna Osorio.
E’ morto Roberto Calasso, scrittore ed editore di Adelphi.
E’ morto il bassista degli ZZ top Dusty Hill.
E’ morto l’attore Jean-Francois Stevenin.
E’ Morto il cantante Gianni Nazzaro.
Morto Giuseppe De Donno, curò Covid con plasma iperimmune.
Morto l’attore Dieter Brummer.
Addio a Nicola Tranfaglia. Storico, giornalista e politico.
E’ morta l’artista Sabrina Querci.
È morto il fisico Miguel Virasoro.
E’ morto lo scrittore Christian La Fauci.
E’ morta l’attrice Joyce MacKenzie: fu Jane in Tarzan.
È morto Kurt Westergaard, il fumettista danese della famosa vignetta su Charlie Hebdo.
E’ morto il sarto Mario Caraceni.
E’ morto il giornalista antimafia Peter de Vries.
E’ morto il fotoreporter Danish Siddiqui.
E’ morta l’ambientalista Joannah Stutchbury.
E’ morto l’attore Libero De Rienzo.
E’ morto l’ex presidente della Corte Costituzionale e dell’Antitrust Giuseppe Tesauro.
E' morto il pilota automobilistico Carlos Reutemann.
È morto il regista Richard Donner.
Addio a Raffaella Carrà: la signora della tv.
E’ morto il regista Paolo Beldì.
È morto Donald Rumsfeld, ex segretario della Difesa USA.
E’ morto lo stilista Pino Cordella.
E’ morto il giornalista Giangavino Sulas.
E’ morto l’attore Antonio Salines.
E’ morto John McAfee, pioniere degli antivirus.
Morta la giornalista Diana De Feo, moglie di Emilio Fede.
E’ morto l’editore Egidio Gavazzi.
E’ morto il pilota acrobatico Alex Harvill.
E' morto Paolo Armando, ex concorrente di MasterChef Italia.
E' morto Giampiero Boniperti.
Morta l’attrice Lisa Banes.
E’ morta la pornostar Dakota Skye.
E’ morto il fumettista Andrea Paggiaro in arte Tuono Pettinato.
Addio al giornalista Livio Caputo.
E’ morto l’attore Ned Beatty.
E’ morta l’atleta Paola Pigni.
E’ morto il politico e sindacalista Guglielmo Epifani.
E’ morto il cantante Michele Merlo.
E’ morto Angelo Piovano: l’uomo più tatuato d’Italia.
È morto Daniele Durante, della pizzica salentina.
E’ morto l’allenatore Loris Dominissini.
E’ morto il calciatore Seid Visin.
Morto il calciatore Silvio Francesconi.
Morto l’attore Robert Hogan.
E’ morto Amedeo Savoia d’Aosta.
È morto il regista Peter Del Monte.
E’ morto l’attore Joe Lara.
Morto l’attore Gavin MacLeod.
E’ morto l’attore Kevin Clark.
E’ morta Luciana Novaro, la più giovane étoile della Scala.
I MORTI FAMOSI.
E’ morto l'attore Paolo Calissano.
E’ morto l’attore Renato Scarpa.
E’ morto Franco Ziliani.
E’ morta Assunta Maresca, detta Pupetta.
È morto Desmond Tutu.
E’ morto il regista e produttore Jean-Marc Vallée.
E’ morta la scrittrice Joan Didion.
È morta l’avvocato abortista Sarah Weddington
Morto il meccanico della tv Emanuele Sabatino.
E' morta Lina Wertmuller.
Addio al giornalista Rai Demetrio Volcic.
È morto il cantante Toni Santagata.
E’ morto l’attore aborigeno David Gulpilil.
E’ morto il manager di F1 Frank Williams.
E’ morta la scrittrice Almudena Grandes
E’ morto il direttore creativo di moda Virgil Abloh.
E’ morta l’attrice Arlene Dahl.
Addio alla contessa Olghina di Robilant.
È morto il compositore Stephen Sondheim.
E’ morto il banchiere Ennio Doris.
Addio al cantautore Paolo Pietrangeli.
È morto lo scrittore Wilbur Smith.
E’ morto il giornalista Giampiero Galeazzi.
E’ morto il fotografo ritrattista Dino Pedriali.
È morto l’imprenditore Glen de Vries.
E’ morto l’ex presidente e premio Nobel Frederik de Klerk.
Morto il tronista Riccardo Ravalli.
E’ morto l’attore Dean Stockwell.
E’ morto il giornalista Enrico Fierro.
E’ morto l’industriale Gianfranco Castiglioni.
E’ morto lo 007 Paolo Samoggia.
Morto l’architetto Carlo Melograni.
È morta l’attrice Joanna Cameron.
È morto il cantante Terence Wilson.
E’ morta la stilista Federica Cavenati.
E' morta la cofondatrice di Italia Nostra Desideria Pasolini.
Morto il pasticciere Ado Campeol.
E’ morto Rossano Rubicondi.
E’ morto lo chef Alessio Madeddu.
E’ morta la modella Ivy Nicholson.
E’ morta l’attrice e doppiatrice Ludovica Modugno.
E’ morto l’industriale Renzo Salvarani.
E’ morto il sarto Ciro Paone.
E’ morta Carla Fracci.
E’ morta l’attrice Isabella De Bernardi.
E’ morto il calciatore Tarcisio Burgnich.
Morto Max Mosley, ex "Re" della Formula 1.
E’ morto l’attore René Cardona III rip.
E’ morto il calciatore Filippo Viscido.
E’ morto il fantino del Palio Andrea Mari.
E’ morto il cantautore Franco Battiato.
E’ Morto Alessandro Talotti, campione del salto in alto.
E’ morto Neil Connery rip.
E’ morto il serial killer Michel Fourniret.
E’ morta Beryl Cunningham, l’attrice, modella e cantante giamaicana.
E' morto il modello e cantante britannico Nick Kamen.
E’ morta la giornalista Rita di Giovacchino.
È morta Olympia Dukakis, premio Oscar per "Stregata dalla luna".
E’ morto il compositore Shunsuke Kikuchi.
È morto Filippo Mondelli, campione del mondo di canottaggio.
E’ morto Giulio Biasin, l'ultimo corazziere del Re.
E’ morta Milva.
E’ morta la star di burlesque Annie Blanche Banks.
E’ morto il regista Monte Hellman.
E’ morto il ballerino Liam Scarlett.
E’ morto lo l’inventore del pdf Charles Geschke.
E’ morta l’attrice Helen McCrory.
E’ morto l’attore Lee Aaker di Rin-Tin-Tin.
E’ morto il finanziere Bernie Madoff.
E' morto il truccatore Giannetto De Rossi.
E' morto il cartellonista cinematografico Enzo Sciotti.
E’ morto l’attore-cantante Harold Bradley.
E’ morto il regista Richard Rush.
E’ morto il filosofo Ernesto Paolozzi.
E’ morto il rugbista Marco Bollesan.
E’ morto il rugbista Massimo Cuttitta.
E’ morto il rapper Earl Simmons.
E’ morta la stilista Fiorella Mancini.
È morto il campione di pallavolo Michele Pasinato.
È morto il teologo Hans Küng.
E’ morto il Nobel economista Robert Mundell.
È morto Roland Thoeni, ex campione di sci.
E’ morto Gabriele Nobile, giornalista sportivo.
E’ morto Luca Villoresi, giornalista.
È morto il giornalista Rocco Di Blasi.
E’ morto il cantante Patrick Juvet.
E’ morto l’autore tv Enrico Vaime.
E’ morto lo sceneggiatore Larry McMurtry, rip.
E’ morto il regista Bertrand Tavernier.
E' morto l'attore George Segal.
E’ morto Moraldo Rossi, amico di Fellini.
E’ morto il musicista Pasquale Terracciano.
E’ morta la pilota Sabine Schmitz.
E’ morta Elsa Peretti, designer.
E’ morto il giornalista Mario Sarzanini.
E’ morto James Levine, direttore d'orchestra.
Addio a Ombretta Fumagalli Carulli.
E’ morto Bruno Tinti.
E’ morto Marco Bogarelli.
E’ morto l’attore Yaphet Kotto.
E’ morto Marvin Hagler.
È morto Raul Casadei.
E’ morto il fotografo Giovanni Gastel.
E’ morto il regista Marco Sciaccaluga.
E’ morta va l’attrice Isela Vega.
E’ morto Lodewijk Frederik Ottens, delle musicassette.
E’ morto Carlo Tognoli, l’ ex sindaco di Milano e ministro.
E' morto Bunny Wailer, leggenda del reggae.
È morto il dj Claudio Coccoluto.
Si è ucciso Antonio Catricalà.
E’ morto Lawrence Ferlinghetti, poeta della Beat Generation.
E’ morto il sociologo Franco Cassano.
E’ morta la giornalista Fiammetta La Guidara.
E’ morto il regista Giancarlo Santi.
E’ morto Fausto Gresini.
E’ morto l’attore Sandro Dori.
E’ morto il paroliere Luigi Albertelli.
E’ morto Mauro Bellugi.
E' morto lo scultore Arturo Di Modica.
E’ morto Gianni Corsolini, uno dei padri fondatori del basket in Italia.
E’ morto l'attore e doppiatore Claudio Sorrentino.
E’ morto l’attore Reginald Bernie Lewis.
E’ morto Johnny Pacheco, il musicista.
Morto l'ex presidente dell'Argentina Carlos Menem.
E’ morto Erriquez, il frontman della Bandabardò.
E’ morto Marco Dimitri dei “Bambini di Satana”.
E’ morto Maurizio Liverani.
E’ morto il critico musicale Paolo Isotta.
È morto Chick Corea, leggenda del jazz.
E’ morto il re del porno Larry Flynt.
E’ morto il politico George Shultz.
E’ morto lo sceneggiatore Jean-Claude Carrière.
E’ morta la cantante Mary Wilson.
E’ morto l’ex presidente del Senato Franco Marini.
E’ morto Giuseppe Rotunno.
E’ morto Leon Spinks.
E’ morta l’attrice Haya Harareet.
Addio all’artista Felice Botta.
E’ morto l’attore Christopher Plummer.
È morta Tiana Tola, campionessa italiana di Judo.
E’ morta Nori Corbucci, moglie del grande regista Sergio.
E’ morto l’investigatore privato Jack Palladino.
E' morto l’attore Dustin Diamond.
E’ morta l’attrice Cicely Tyson.
E’ morta l’attrice Cloris Leachman.
Morto Francesco Cavallari.
E’ morto Michele Fusco.
E’ morto il produttore Alberto Grimaldi.
E’ morto Rémy Julienne. il più grande cascatore del mondo.
E’ morto Walter Bernstein, leggendario sceneggiatore americano.
È scomparso il re dei cristalli, Gernot Langes-Swarovski.
E' morto Larry King.
Morto l’attore Roberto Brivio dei “Gufi”.
E’ morta Francine Canovas, ossia: Nathalie Delon.
E’ morto l’alpinista Cesare Maestri.
Morto Emanuele Macaluso.
E’ morto lo storico produttore musicale Phil Spector.
E’ morto il ballerino di tango Juan Carlos Copes.
E’ morto il pianista/raider Adriano Urso.
È morto il senatore Romano Misserville.
E’ morto l’attore Antonio Sabato.
E’ morto il giornalista Giuseppe Turani.
E’ morto il sensitivo Paolo Bucinelli, in arte Solange.
E' morta l’attrice Tanya Roberts?
E’ morto Ernesto Gismondi.
LA SOCIETA’
TERZA PARTE
I MORTI FAMOSI.
· L'Apocalisse.
Se l'Apocalisse diventa lo specchio (oscuro) dell'inquieto presente. Geminello Alvi, analizzando il testo biblico, svela perché il libro di Giovanni parla a noi. Camillo Langone, Mercoledì 03/02/2021 su Il Giornale. Adesso ci vorrebbe un commento del commento. Il commento all'Apocalisse scritto da Geminello Alvi (Necessità degli apocalittici, Marsilio) nonostante sia molto più lungo è poco meno denso del testo commentato. E non è particolarmente esplicativo, anzi lo è pochissimo, l'autore non fa né finge di fare divulgazione e mette subito in guardia il lettore definendo l'oggetto delle sue ricerche un «labirinto», un «libro senza esito», un testo «scritto per farci perdere nei suoi enigmi snervanti», insomma «di complicatissima lettura». Di complicatissima attribuzione, per giunta. Io pensavo e speravo che l'Apocalisse di Giovanni fosse per l'appunto di Giovanni ossia di San Giovanni Evangelista... Ingenuo che non sono altro, e poco aggiornato: molti studiosi, sulla base delle forti differenze stilistiche, pensano ora che il quarto vangelo e l'Apocalisse siano di due autori diversi, sebbene omonimi. Ma non voglio perdermi nella filologia, convinto che il papiro autografo con tanto di data, località e firma non lo troveranno mai (ammesso esista ancora in qualche grotta, sotto qualche sabbia), e se lo troveranno non sarà leggibile, e se sarà leggibile non offrirà risposta alla domanda: Giovanni chi? Meglio lanciarsi, da bieco giornalista, a caccia di riferimenti all'attualità. In questo «diario enciclopedico di quanto appreso durante tanti anni leggendo e rileggendo il libro dell'Apocalisse» non sono tantissimi ma in compenso, sparsi fra le 460 pagine, sono terribili. C'è il rogo di Notre Dame, «cielo squarciato», «rito scoperchiato», ovviamente «sintomo apocalittico». C'è internet, «bestialità omologante che riplasma in automatismo dispotico ogni umanità». C'è lo statalismo che ha trasformato lo Stato in «recita grottesca per la quale tutti ormai si industriano per vivere alle spese di tutti». Non poteva non esserci Papa Francesco a cui Alvi riserva definizioni talmente dure che, pur sospettando la validità delle medesime, e pur non nutrendo simpatia alcuna per l'uomo Bergoglio, sono tentato di omettere. Ma verrei meno al mio compito di servire il lettore. E allora tenetevi forte: «Papa facente funzione, di umore instabile e volentieri fuori fuso orario: il suo viso somiglia alla statua che Arnolfo di Cambio fece a Bonifacio VIII. Come lui profitta della rinuncia di un altro papa; e ha voluto il suo Giubileo, atona cantata senza solennità e fede». Tenetevi fortissimo: «Devoto a Giuda». E infine, se possibile, inchiodatevi alla sedia: «Il viso del papa arrabbiato, cupo, è lo stesso di Giuda prima di impiccarsi, che guarda per terra e al cielo non crede: barcolla, biascica sociologie, dalle quali non trae sollievo, tantomeno sa darne. Un volto disgustato certifica conclusi duemila anni di papato». Il bello è che simili affermazioni non provengono da un ateo, da un anticristiano, ma da un esegeta che scruta il più visionario dei libri biblici dal punto di vista della fede: «Senza la rivelazione di Cristo io direi sconsigliabile al lettore meditare le profezie apocalittiche». Alvi è un cristiano capace di turbarsi leggendo Teilhard de Chardin (fra gli apocalittici necessari del titolo) che negli anni Trenta si turbò a sua volta ascoltando queste parole di un vecchio missionario: «La storia stabilisce che nessuna religione si è potuta mantenere nel Mondo per più di due millenni. Passato questo tempo muoiono tutte. Ora per il Cristianesimo saranno presto due millenni». E mi turbo anch'io, buon ultimo, a leggere tale citazione che mi ricorda un pensiero di Sossio Giametta, il grande nicciologo: Nietzsche come fondatore-anticipatore di una nuova religione materialista destinata a soppiantare il cristianesimo allo scadere dei duemila anni fatali. Sembra che ci siamo e infatti Alvi, per una volta semplificando la sua prosa ipnotica, scrive: «L'Apocalisse è ora». Poteva mancare il virus famigerato in un libro come questo? Non poteva. L'ultimo capitolo ha il titolo più inquietante, «Provvisorio epilogo durante la prima epidemia», e qui i versetti sembrano intrecciarsi ai dpcm: «I governi sono evoluti a esplicito tramite provvidente della prima bestia dell'Apocalisse, per rinchiudere gli abitanti della terra in esistere di popolazione biologica, disciplinata...». Si sta parlando della Bestia con sette teste che gli esegeti del passato identificavano nell'impero romano mentre nelle pagine di Alvi ha le sembianze dell'attuale potere covidista, dell'arbitrio statale che esaltato dalle nuove tecnologie diviene dispotismo bio-informatico. Chiaramente è un libro per pochi, Necessità degli apocalittici, per noi felici pochi e dico felici, aggettivo all'apparenza del tutto incongruo, non per citare Shakespeare ma proprio per interpretare Alvi che è al contempo, miracolosamente, apocalittico e sereno: «Una calma mite e immensa, imperturbabile, emana fino a invadere ogni veridico lettore di Giovanni». Siccome «la beatitudine è la morte in Cristo e la fine del mondo».
· La linea piatta del fine vita.
Vittorio Feltri, le indiscrezioni sul punto di non ritorno: "Ecco cosa si prova nell'istante prima di morire". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 12 aprile 2021. Un libro giunge a fagiolo, come si dice. Mi è stato omaggiato da qualcuno che vorrebbe morissi «più contento». Ha aggiunto, per evitare l'accusa di iettatore: «il più tardi possibile, ma soprattutto sereno». Lo considero un pensiero giudizioso. Non sono pagine facili da masticare, vanno dal filosofico allo scientifico, con alto tasso di difficoltà, ma salire su queste cime vale la fatica della scalata. Insegna che cos' è il dolore (fisico), che cos' è la sofferenza (morale, psichica), e come la scienza e la letteratura, l'umanesimo e insieme la cibernetica possano aiutare a non far essere la fine della vita qualcosa di ripugnante. Cioè senza disperazione né pene atroci. La solitudine è inevitabile. Come scrisse Martin Heidegger: «Si muore», non è un caffè in compagnia, non c'è zucchero, e il Vate della Foresta Nera è universalmente riconosciuto come il filosofo più grande degli ultimi cento anni. Perché questo argomento? Tutto è cominciato la domenica di Pasqua. Nel giorno dedicato dalla religione cristiana alla vittoria sulla morte, mi sono dichiarato alquanto sfiduciato sul tema. Dal mio sepolcro, o più probabilmente dal loculo del colombario, non salterà fuori alla fine dei tempi alcun Vittorio Feltri vispo e radioso. Non credo insomma né alla resurrezione della carne e neppure all'immortalità dell'anima o a qualsiasi forma di sopravvivenza. Il cimitero è l'ultima parola sulla vita. Punto e basta così. Anzi, pensavo bastasse. Invece no. Mi sono giunte domande di chiarimento e talune civili contestazioni non però sull'esistenza o meno dell'aldilà: ciascuno si tiene la propria convinzione, sempre colma di dubbi. Sono gli argomenti sui quali Alessia Ardesi ha intervistato cardinali, artisti e giornalisti, tra i quali - giusto a Pasqua - il sottoscritto. Ma non è sull'oltretomba e le mie idee in merito che alcuni vorrebbero ulteriori notizie. Ma i quesiti si riferiscono all'ultimo miglio, all'ultimo metro, centimetro, millimetro prima della morte. Cioè sul morire. Mi ha chiesto Alessia: «Pensa mai alla morte?». Ho risposto: «Una volta al giorno, tutti i giorni. Non la temo; temo il morire. Ho paura del modo in cui arriverà. Vorrei evitare la sofferenza fisica. Il dolore fisico mi agita. Quando fui ricoverato per una prostatite acuta, che rischiava di diventare qualcosa di più grave, ero molto spaventato. Un giorno provò anche a entrare nella mia stanza dell'ospedale un frate. Lo fermai sulla porta: "Lasci perdere". Lui se ne andò ridendo». Ho rimosso il frate, ma non ho rimosso quel bruciore e quella desolazione che avverto considerando l'ultima ora. Mi fa paura. Non mi vergogno di dirlo. Per questo mi sono sentito solidale con Laura Boldrini quando ha confessato questo sentimento mentre si accingeva a sottoporsi ad un'operazione chirurgica difficile.
SOLITUDINE. Detto questo non procedo in mie ulteriori considerazioni. Lascio spazio ai due autori, che sono una coppia che dialoga mettendo insieme competenze diversissime. Rizzi è presidente dell'Istituto Alti Studi Strategici Politici (Iassp) ed è docente di filosofia morale. Cetta è professore ordinario di medicina, docente presso l'Università San Raffaele di Milano. I due si protendono l'uno verso l'altro, mettendo a tema appunto «la solitudine del dolore», che è tale quando si sta morendo, negli hospice sempre più spesso, e questa condizione umana non può essere sdrammatizzata od occultata con eufemismi. Loro non lo fanno, e meritano gratitudine. Non serve mettere la testa sotto il lenzuolo (almeno finché si è vivi, poi ci penseranno mani pietose). Oggi, credendo di smorzarne la tragedia, si tende a igienizzare la fase terminale dell'esistenza, inserendola in un contesto disinfettato, con camici puliti, mentre gli altri la vivono tutti dall'esterno, partecipi sì, empatici fin quando si vuole, ma intanto a morire è un altro. E questa assoluta solitudine il morente la percepisce. E nutre invidia per i sopravviventi. In fondo pensa che meriterebbero di più di essere spacciati coloro che ti stanno intorno, anche se non vorrebbe pensarlo, ma non sfugge a queste riflessioni. Non mi sento di racchiudere in qualche frase la tesi di fondo del volume. Gli autori invocano la congiunzione di spiritualità e di tecnica. Non tenute separate come accade ora, e cioè con il medico che si preoccupa di eliminare la percezione del dolore, e con il prete o l'amico o la filosofia buddista che attenuano l'angoscia e consentono di sciogliere l'agonia in dolcezza. Figuriamoci. Prima di tutto bisogna accettare un limite insuperabile. «Non esiste un dolce morire... C'è poca memoria di persone amate o conosciute che non siano morte nel patimento e nella consunzione, né crediamo ci si possa ingannare rispetto a ciò che ci attende». Eppure è possibile aiutarsi a morire bene, anche se sembrano parole che fanno a pugni tra loro. È possibile almeno un poco spezzare la campana di vetro della solitudine. A questo tendiamo. Anche se pesa la sentenza di un altro grande filosofo, Edgar Morin: «L'uomo nasconde la sua morte come nasconde il suo sesso, come nasconde i suoi escrementi. Si presenta ben abbottonato e sembra ignori qualunque lordura. Lo si direbbe un angelo... Fa l'angelo per rifiutare la bestia. Si vergogna della sua specie: la trova oscena». Mi riconosco in questa visione, parola per parola.
BRIVIDO. Scrive Rizzi che chi è intorno si sforza di ridurre questa distanza, e vivere la morte di una persona amata porta con sé «il brivido dell'identico». Sappiamo che quel morire accadrà anche a noi, ma infine lo rifiutiamo. Ci ritiriamo. E lasciamo l'altro solo. Non è una vigliaccheria o mancanza d'amore. Siamo fatti così. Come scrisse Lev Tolstoj nell'immortale (immortale?) racconto de La morte di Ivan Il'ic, il protagonista dentro di sé aveva ammesso e ammetteva ancora, nel momento supremo, che Tizio o Caio essendo mortale era giusto morisse, ma lui proprio no, «per lui era un'altra cosa». Era pieno di sentimenti, di pensieri unici. «E non era possibile che dovesse morire. Sarebbe stato troppo spaventoso». La conclusione è che «esiste il morire, la morte non esiste più». Un po' come diceva Epicuro, invitando a non temere la morte. Se tu non esisti più, come puoi sperimentarla? E qui scopro di aver ragione io quando sostengo di aver paura del morire e non della morte. Come dice Tolstoj, il più grande scrittore di sempre: «La morte non è umana, lo è il morire».
UN SOGNO. Ho ripetuto ossessivamente questi lemmi con i relativi verbi: morte, morire, mortale. Ho voluto evitare i cosiddetti sinonimi, che sono dolcificazioni: trapasso, scomparsa, perdita, dipartita. Quali rimedi allora all'«angoscia mortale» al «cattivo morire»? Dal lavoro degli autori emerge che la scienza ormai è in grado di annullare o quasi il «dolore fisico» (non sapevo che il «dolore parossistico estremo» insiste sull'intestino retto, sull'occhio e sotto la mandibola, ma ce n'è di ogni tipo come le caramelle al mercato, ahimè). E lo sforzo congiunto di più discipline consente di sedare lasciando la possibilità di pensare, di avere coscienza. E c'è modo di insistere chimicamente su certe parti del cervello per indurre una visione più colorata della livida morte. Ma è giusto? E siamo sicuri che la sofferenza non ti afferri più in profondità? E che cos' è a quel punto la libertà di coscienza? Siccome non ci sono passato, non so dirlo. E quando ci sarò passato, non avrò modo di farlo sapere. Lazzaro che è tornato da là, non ci ha fatto sapere nulla.
Amanda Van Beinum e Sonny Dhanani per "it.businessinsider.com" il 14 marzo 2021. Quanto devono aspettare i dottori dopo che è apparsa la “linea piatta” prima di dichiarare la morte di una persona? Come fanno a essere certi che il cuore non riprenda a battere facendo circolare il sangue? Il modo più comune in cui muoiono le persone è in seguito a un arresto cardiaco. Però, non ci sono molte prove a supporto di quanto a lungo aspettare per determinare il decesso una volta che il cuore si è fermato. Questa informazione mancante ha ripercussioni sulla pratica clinica e sulla donazione di organi. Un principio fondamentale della donazione di organi è la regola del donatore morto: i donatori devono essere morti prima dell’espianto degli organi, e l’espianto degli organi non deve essere la causa della morte. Una mancanza di prove circa il tempo di attesa prima di dichiarare il decesso crea tensione: se i dottori aspettano troppo dopo che il cuore si è fermato, la qualità degli organi inizia a peggiorare. D’altro canto, non aspettare abbastanza introduce il rischio di procedere all’espianto degli organi prima che sia effettivamente avvenuto il decesso. Il nostro team interdisciplinare di dottori, bioingegneri ed esperti ricercatori clinici ha passato gli ultimi dieci anni studiando cosa succede quando una persona muore in seguito ad arresto cardiaco. Ci siamo concentrati sui pazienti dei reparti di terapia intensiva che sono morti in seguito allo spegnimento delle macchine, dato che questi pazienti possono essere anche idonei alla donazione di organi. In particolare, eravamo interessati a capire se è possibile che il cuore si riattiva da solo, senza alcun intervento quale rianimazione cardiopolmonare (RCP) o farmaci.
Uno sguardo più attento alla linea piatta di fine vita. Il nostro recente studio, pubblicato nel New England Journal of Medicine, presenta l’osservazione della morte di 631 pazienti tra Canada, Repubblica Ceca e Paesi Bassi, deceduti nei reparti di terapia intensiva. Le famiglie di tutti i pazienti avevano dato il consenso a partecipare alla ricerca. Oltre alla raccolta di informazioni mediche su ogni paziente, abbiamo realizzato un programma informatico per raccogliere e controllare battito cardiaco, pressione sanguigna, livello di ossigenazione del sangue e modelli respiratori direttamente dai monitor collegati alle macchine. Come risultato, siamo riusciti ad analizzare i modelli di linea piatta di fine vita di 480 pazienti su 631 — e anche a osservare se e quando ogni eventuale attività circolatoria o cardiaca riprendeva dopo essersi interrotta per almeno un minuto. Questo video mostra la pressione del sangue arterioso e i segnali dell’elettrocardiogramma fermarsi per 64 secondi prima di riprendere, e infine fermarsi dopo quasi tre minuti. Il video è accelerato otto volte.
Come si è capito, la classica linea piatta della morte non è così lineare. Abbiamo scoperto che l’attività cardiaca umana spesso s’interrompe per riprendere varie volte durante il processo che porta alla morte. Su 480 segnali di “linea piatta”, abbiamo scoperto uno schema di interruzione-e-riavvio in 67 (14 per cento). Il periodo più lungo in cui il cuore è rimasto inattivo prima di ripartire da solo è stato di quattro minuti e 20 secondi. Il periodo più lungo in cui l’attività cardiaca ha continuato in seguito alla ripresa è stato di 27 minuti, ma la maggior parte delle ripartenze è durata appena uno o due secondi. Nessuno dei pazienti che abbiamo seguito è sopravvissuto o ha riacquistato conoscenza. Abbiamo inoltre scoperto che era normale che il cuore continuasse a mostrare attività elettrica molto tempo dopo che il flusso sanguigno o i battiti si erano fermati. Il cuore umano funziona come risultato di una stimolazione elettrica dei nervi che provoca la contrazione del muscolo cardiaco e contribuisce alla circolazione del sangue — il battito che puoi sentire nelle tue arterie e nelle tue vene. Abbiamo scoperto che il ritmo cardiaco (la stimolazione elettrica causa il movimento del muscolo cardiaco) e il battito (movimento del sangue nelle vene) si fermavano insieme solo nel 19 per cento dei pazienti. In alcuni casi, l’attività elettrica del cuore proseguiva per oltre 30 minuti senza provocare alcuna circolazione del sangue.
Perché è importante capire la morte. I risultati del nostro studio sono importanti per alcune ragioni. Primo, l’osservazione che le interruzioni e le riprese dell’attività cardiaca e della circolazione fanno spesso parte del naturale processo di morte sarà rassicurante per dottori, infermieri e membri della famiglia al capezzale. A volte, segnali intermittenti sui monitor delle macchine possono allarmare se gli osservatori li interpretano come segnali di un inatteso ritorno della vita. Il nostro studio fornisce prove che interruzioni e riprese devono essere previste durante un normale processo di morte senza RCP (rianimazione cardio-polmonare), e che non portano a riprendere coscienza o alla sopravvivenza. Secondo, la nostra scoperta che la pausa più lunga prima della ripresa autonoma dell’attività cardiaca era di quattro minuti e 20 secondi supporta la pratica corrente di aspettare cinque minuti dopo che la circolazione si è fermata prima di dichiarare il decesso e procedere all’espianto degli organi. Ciò contribuisce a rassicurare le organizzazioni che si occupano di donazione degli organi su fatto che le pratiche volte a determinare il decesso sono sicure e adeguate. I nostri risultati saranno impiegati a livello internazionale per migliorare le pratiche informative e le linee guida per la pratica della donazione di organi. Affinché i sistemi di donazione funzionino, quando qualcuno è dichiarato morto, deve esserci la fiducia che la dichiarazione sia davvero veritiera. La fiducia permette alle famiglie di scegliere la donazione nel momento del dolore e consente alla comunità medica di assicurare cure di fine vita sicure e coerenti. Questo studio è importante anche perché migliora la nostra comprensione più ampia della storia naturale della morte. Abbiamo mostrato che forse non è così semplice capire quando un morto è davvero morto. Ci vogliono un’osservazione attenta e uno stretto monitoraggio fisiologico del paziente. È inoltre necessario comprendere che, proprio come la vita, il processo di morte può seguire molti schemi. Il nostro lavoro rappresenta un passo avanti verso l’apprezzamento della complessità del morire e indica che dobbiamo andare oltre l’idea di una semplice linea piatta che indichi quando è avvenuta la morte.
· Sesto Senso: sentire i morti.
Un fantasma per coinquilino, le case più infestate da visitare o comprare. Valentina Ferlazzo su La Repubblica il 29 ottobre 2021. Arriva Halloween e se i luoghi abitati da oscure presenze sono la vostra passione, ecco una selezione di sinistre dimore sul mercato e non. Dalla tenuta che ha ispirato la saga horror The Conjuring all’insospettabile maniero del cantante Robbie Williams firmata dall’architetto Norman Foster. Nulla lascerebbe presagire che il maniero inglese di Robbie Williams nasconda un oscuro segreto. Eppure nella Compton Bassett House nel Wiltshire, appartenuta anche all’architetto Norman Foster che l’ha ampiamente modificata nei primi anni Novanta, «c’è una stanza di cui sono sospettoso, mi dà i brividi», ha dichiarato in una diretta Instagram il cantante. E così questa casa dei sogni è diventa un incubo tanto che oggi è tornata di nuovo sul mercato per 9,2 milioni di dollari dopo che l’ex Take That ha tentato di venderla anche nel 2010. Lo rivela il sito immobiliare TopTenRealEstateDeals.com che, in occasione di Halloween, ha fatto il giro del mondo per selezionare le case più spaventose. Alcune sono in vendita, altre sono state appena comprate, altre ancora sono in affitto a testimonianza di un mercato immobiliare attivo. Infatti come rivela anche un’indagine di Realtor.com non mancano di certo curiosi o coraggiosi pronti a sfruttare i prezzi molto appetibili: basti pensare che il 33 per cento degli intervistati ha risposto "sì" alla domanda compreresti una casa stregata?. Sempre in Europa si cerca un facoltoso acquirente per la Loftus Hall. Due milioni di dollari per vivere nella spettrale struttura irlandese con 22 camere da letto. La leggenda narra che alla fine del 1700 Anne Tottenham abbia accolto in casa il diavolo sotto mentite spoglie che, scoperto, fuggì in una sfera infuocata. Da allora si verificano strani fenomeni e angoscianti apparizioni tanto da attirare numerosi visitatori amanti del genere.Un interno della Loftus Hall: la leggenda narra che ospitò il diavolo in persona alla fine del 1700. Da allora si verificano paurosi avvenimenti (foto Top Ten Archives) Seppur a fatica ha trovato un proprietario Amityville, la casa in stile coloniale olandese di Long Island, New York, dove Ronald DeFeo Jr. nel 1974 si alzò nel cuore della notte per sterminare con un fucile la sua famiglia mentre dormiva. Dopo la strage, si sono verificati numerosi fenomeni paranormali tanto da ispirare molti registi e scrittori (si contano circa diciassette romanzi e tredici film dell’orrore). È stata venduta nel 2017 per soli 605mila dollari. La casa infestata di Amityville a Long Island, qui agli inizi degli anni Settanta Ronald DeFeo Jr. ha sterminato la sua famiglia. Anche oggi si registrano attività paranormali (foto Top Ten Archives) E a proposito di cinema si può affittare (a 595 dollari a notte) la casa di Buffalo Bill, tra i protagonisti de Il Silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, film culto del 1991: residenza di 7mila metri quadrati lungo il fiume Youghiogheny in Pennsylvania, lanciata sul mercato proprio a Halloween dello scorso anno e venduta pochi mesi dopo per 290mila dollari. Il nuovo proprietario ha deciso di trasformarla in una meta turistica, la sfida è riuscire a dormire nel macabro seminterrato dove il folle serial killer uccideva le sue vittime. Il nuovo proprietario dell'abitazione di Buffalo Bill, il serial killer protagonista de Il Silenzio degli innocenti, ha deciso di trasformarla in una meta turistica. Si può affittare a 595 dollari a notte È un B&B anche la Magnolia Mansion di New Orleans, una residenza in stile greco risalente al 1857 e finita nel 2011 nella classifica dei 20 migliori posti per dormire con un fantasma di USAToday.com. Tutti parlano di un’energia paranormale “buona” che si limita a giocare con le luci, ad aprire o chiudere le serrature delle porte, a vedere strane presenze riflesse negli specchi con gli ospiti che raccontano di avere la sensazione che qualcosa accarezzi la loro pelle. L’atmosfera è tutt'altro che da pelle d’oca. Eppure chi alloggia nella Magnolia Mansion di New Orleans rileva numerosi strani fenomeni (foto Top Ten Archives) Sempre a New Orleans, non a caso ribattezzata la città più infestata d’America per i suoi cimiteri spettrali e i legami con l'occulto, sorge la Gardette-LePrete Mansion. Un esempio di architettura creola classica che nel 1836 è stata protagonista di uno degli omicidi di massa più raccapriccianti nella storia americana. Diventata un appuntamento fisso del Tour dei fantasmi e dei misteri di New Orleans, poiché i residenti riferiscono di scricchiolii inspiegabili in tutta la villa. La Gardette-LePrete Mansion, famosa per essere il posto più infestato del quartiere francese di New Orleans (foto Top Ten Archives) Tra le ultime finite sul mercato c’è anche la tenuta che ha ispirato una delle saghe horror più apprezzate: The Conjuring. Secondo quanto riferito dal Wall Street Journal, per oltre un milione di dollari si può abitare a Burrillville, nel Rhode Island, inquietante magione del XIX secolo in cui gli ultimi proprietari, che avevano acquistato la casa solo nel 2019, hanno confessato di sentire «porte che si aprono e si chiudono da sole, passi, bussare e voci disincarnate». Non solo fantasmi. È stata venduta di recente la Boulder House, in Arizona, la casa progettata dall'architetto Charles Johnson nel 1980 particolare perché si fonde con il paesaggio desertico circostante essendo incastonata nei massi di granito risalenti a più di un miliardo di anni fa. All’equinozio di primavera e d’autunno, tra le rocce dell’abitazione si verifica un suggestivo gioco di luce che illumina un’antica incisione rupestre, in molti pensano possa essere un segnale per le creature spaziali.
Francesca Nunberg per “il Messaggero” il 31 ottobre 2021. Non guardare i film di paura, sviluppa la tua autostima, vai dallo psicanalista. Sono i consigli che internet elargisce a chi ha paura dei fantasmi. Ma anche: cerca delle spiegazioni logiche e riconosci il potere della suggestione. Esattamente il contrario di quello che ha fatto Giulio D'Antona, 36 anni, scrittore e produttore, che pur avendo una formazione scientifica, ha appena dato alle stampe per Bompiani il bellissimo Atlante dei luoghi infestati illustrato da Daria Petrilli, un giro del mondo in cerca di tutte le anime perse, ombre, ectoplasmi e presenze maledette attraverso le loro residenze. Nel libro sono raccolti cinquanta fra i luoghi più spaventosi del pianeta, dal Regno Unito a villaggi remoti dell'Africa e dell'Asia, fino all'Antartide: si gira per vecchi castelli, foreste, cimiteri e sanatori abbandonati, ma anche alberghi tuttora in uso e ville dell'800 finemente restaurate. Per alimentare, come dice l'autore, «il piacere dell'inquietudine» basta raggiungere il molo del Principato di Monaco, dove è attraccata la goletta infestata dal fantasma dell'attore Errol Flynn, che ancora beve, fuma e impartisce ordini dal cassero, mentre dalle acque dell'isola Sainte-Marie in Madagascar certe notti (e che notti) riemerge il vascello del leggendario corsaro William Kidd. «Se credo ai fantasmi? - dice D'Antona - Non ne ho mai visto nessuno: questo è il mio cruccio e la mia fortuna. Ma il metodo scientifico impone, fino a prova contraria, di tenere una finestra aperta ed è quello che ho fatto». Alla vigilia di Halloween, da quella finestra escono scheletri danzanti e fanciulle misteriose e l'Atlante diventa una guida turistica per viaggi da brividi. «Era il libro che avrei voluto avere quando ho cominciato a visitare i luoghi infestati - dice D'Antona - fin da piccolo sono stato attratto (e terrorizzato) dai fantasmi. Ho letto Giro di vite di Henry James e non ho dormito per giorni, poi Stephen King, poi La casa d'inferno di Richard Matheson e Abbiamo sempre vissuto nel castello di Shirley Jackson. Sono cresciuto a Taino, sul Lago Maggiore, un posto pieno di boschi, leggende e ville abbandonate, e adesso in una di queste, col fantasma ovviamente, sono pure andato a vivere...». Le premesse c'erano tutte e il campionario è sterminato. Davanti ai resti del castello di Noisy in Belgio incontriamo il soldato sdentato che ogni notte fissa un cappio all'albero (tanto per saperlo, prima che lo demolissero, l'edificio venne usato per diversi film, ma le riprese audio erano sempre disturbate...), la ragazza che si getta dal tetto del Sanatorio di Nummela in Finlandia, ex ospedale per malati di Tbc, in Egitto si aggira per l'aere il faraone eretico Akhenaton con la sua collera eterna, in Louisiana lo spirito della schiava Cloe impiccata e gettata nel Mississippi con il turbante a coprire l'orecchio tagliato. In Pakistan c'è il Picco dei bambini perduti dove vivono tra giochi e risate gli spettri dei 40 figli di una donna abbandonati senza sepoltura, nel deserto di Atacama, in Cile, gli scheletri danzanti dei minatori morti nel pozzo di estrazione del salnitro. Incidenti sul lavoro, femminicidi, infanticidi: decisamente il mondo dei fantasmi è lo specchio del nostro. Due i luoghi italiani inseriti nell'Atlante, ma Giulio D'Antona si ripromette di dedicare il prossimo ai fantasmi nostrani. «Andrò a cercare quelli romani - dice - la Capitale è piena di spettri, da Villa Borghese all'Olgiata, molti sono gli spiriti dei cristiani che si aggirano nei luoghi delle persecuzioni o nascosti nelle catacombe». Per adesso in Italia possiamo incontrare il musicista senza pace magro come un chiodo che entra nella sua villa a Sesta Godano in provincia della Spezia senza aprire la porta, oppure ascoltare i pianti innocenti dei neonati illegittimi gettati nel pozzo di Palazzo Serbelloni a Taino, in provincia di Varese. Non bastassero i vagiti infantili, qui si materializza anche la marchesa morta negli anni Venti, con gli occhi opachi come quelli di un cieco che levando il suo dito rugoso si rivolge all'interlocutore chiedendo Chi sei?. Domandare è lecito, rispondere è cortesia. Tra donne murate vive (come la sfortunata Celina di Dragsholm in Danimarca), processioni demoniache (nel castello di Chateaubriand in Francia), locande maledette (l'Ancient Ram Inn in Inghilterra, dove vivono le anime di streghe e impiccati vari e dove nell'800 si riunivano gli studenti del Ghost Club), impariamo a riconoscere un luogo abitato dai fantasmi. Segni sulle piastrelle, graffi sui muri, scalfitture nelle travi dei tetti, solchi nel verde: tracce lasciate da chi non è più tra i vivi, ma dall'altra parte non è riuscito a trovare dimora. Anche nelle nostre caotiche città: «Un giorno io e la mia compagna - racconta l'autore - siamo entrati nel Congress Plaza di Chicago, considerato tra gli hotel più infestati d'America, volevamo solo farci qualche risata esplorando le stanze con la nomea peggiore, come la 441, dove si narra che alla fine dell'800 una donna dai capelli rossi si gettò di sotto con i suoi bambini. E solo uno dei tre corpi venne ritrovato. Ma ci ha preso una sensazione di disagio e di terrore, senza motivo apparente, e siamo scappati a gambe levate». È vero o non è vero? Chi lo racconta c'è ancora.
Da "tgcom24.mediaset.it" il 30 agosto 2021. Barbara Chiappini ha ancora un rapporto fortissimo con la mamma, morta quando lei era bambina. Un legame soprannaturale, tanto che dall'Aldilà la donna l'avrebbe salvata da un incidente stradale e avrebbe risolto la crisi matrimoniale. "Mi ha mandato un messaggio tramite mia cugina. Le ha detto: 'Devi dire a Barbara che lei e Carlo che devono stare insieme per amore dei figli", ha affermato la showgirl a "Dipiù". Lo scorso giugno la Chiappini era in crisi con il marito, il manager Carlo Marini Agostini. Una rottura tenuta nascosta a tutti, ma non alla mamma che dall'Oltretomba ha voluto mandare un messaggio alla figlia. La donna è infatti apparsa in sogno a sua cugina, per metterla in guardia. "Proprio in quei giorni, mio marito e io ci eravamo separati. Non lo sapeva nessuno, tantomeno mia cugina. Quando lei mi ha detto ciò che desiderava mamma per me, ho capito che stavo facendo un errore grandissimo", ha raccontato. "Era chiaro che mia madre volesse dirmi che stavamo facendo una stupidaggine, che le crisi sono normali e che vanno superate". Ma non è la prima volta che la madre la guida dall'Aldila. Qualche anno fa, infatti, sentì la sua presenza a fianco durante un incidente che le costò quasi la vita. "Mentre sbandavo e avevo perso il controllo, ebbi la sensazione che il tempo si fosse fermato. All’improvviso sentii una grande pace nel cuore e una voce che mi diceva: 'Barbara, non ti capiterà nulla'. Mia madre, che sentii accanto a me in quella macchina, mi salvò da morte certa".
Francesco Santin per "tech.everyeye.it" il 24 gennaio 2021. Il mondo dello spiritismo, dottrina che ipotizza la possibilità di comunicare con gli spiriti durante sedute con persone definite “medium”, è sin dagli inizi criticato da scettici, filosofi e religiosi. Eppure, di recente, una ricerca scientifica ha cercato di spiegare se effettivamente queste persone riescono ad “ascoltare i morti”. Lo studio, tra l’altro il più grande studio scientifico sulle esperienze dei medium registrato fino a oggi, è stato condotto dalla Durham University e pubblicato sulla rivista Mental Health, Religion and Culture come parte di uno studio interdisciplinare chiamato “Hearing the Voice”. Attraverso tale indagine, che ha visto la partecipazione di 65 medium chiaroudenti della Spiritualists’ National Union inglese e 143 cittadini casuali, si è cercato di scoprire se esiste o meno una risposta scientifica-psicologica al fenomeno in questione. Per farlo, i ricercatori hanno raccolto descrizioni dettagliate del modo in cui i medium ascoltano le "voci" dello spirito e confrontato la predisposizione alle allucinazioni, aspetti dell'identità e credenza nel paranormale. I risultati mostrano che il 44,6% dei medium partecipanti sentirebbero le voci dei defunti su base giornaliera, con il 33,8% che le ha sentite nel giorno dell’indagine; ancora, il 79% ha affermato che queste esperienze venivano e vengono vissute come parte della vita quotidiana sia quando si trovano da soli, sia quando lavorano come medium per altre persone o frequentano chiese con altri medium. Inoltre, sebbene gli spiriti siano stati ascoltati principalmente all'interno della testa (65,1%), il 31,7% dei partecipanti spiritisti ha affermato di avere sentito voci spirituali provenienti sia dall'interno che dall'esterno della testa. Rispetto alla popolazione comune, gli spiritisti credono molto più fortemente nel paranormale e si preoccupano meno di ciò che le altre persone pensano di loro. Infine, non c'era alcuna differenza nei livelli di credenza superstiziosa o propensione alle allucinazioni visive tra i partecipanti spiritualisti e non spiritualisti. Ma non mancano dettagli interessanti riguardanti l’età e la memoria degli “incontri” con i defunti: gli spiritisti, infatti, hanno riferito di avere vissuto il primo contatto a un’età media di 21,7 anni, con il 71% di loro che non era entrato in conoscenza con il movimento religioso dello spiritismo prima delle loro prime esperienze. A livello scientifico, tutto ciò andrebbe ricondotto all’assorbimento, una delle manifestazioni dissociative più comuni dello stato di coscienza, ritenuta in molti casi benigna e non necessariamente correlata a disturbi psicopatologici di alcun tipo. Insomma, in parole povere, delle “disconnessioni” dalla realtà che ci portano in mondi immaginari per un tempo limitato. Il ricercatore capo Dr. Adam Powell del Dipartimento di Teologia e Religione ha affermato: “I nostri risultati dicono molto su 'apprendimento e desiderio'. Per i nostri partecipanti, tra i principi dello spiritualismo sembrano avere un senso le esperienze dell'infanzia, così come i frequenti fenomeni uditivi che sperimentano come medium praticanti. Ma tutte queste esperienze possono derivare più dall'avere certe tendenze o abilità precoci che dal semplice credere nella possibilità di contattare i morti”. Anche il co-autore dello studio Dr. Peter Moseley ha rilasciato un commento al riguardo: “Gli spiritualisti tendono a segnalare esperienze uditive insolite che sono positive, iniziano presto nella vita e che spesso sono poi in grado di controllare. Capire come si sviluppano è importante perché potrebbe aiutarci a capire di più sulle esperienze angoscianti o non controllabili del sentire le voci [dei defunti]”. I ricercatori di Durham sono ora impegnati in ulteriori indagini sulla realtà dei medium chiaroudenti, lavorando con i professionisti per ottenere un quadro più completo di cosa si prova a vivere queste esperienze insolite e significative. Intanto altre ricerche recenti nel mondo della psicologia hanno dimostrato che giocare ai videogiochi violenti non aumenta l’aggressività, ma anche che esistono davvero alcune canzoni che ci possono aiutare ad addormentarci rapidamente e avere un buon sonno.
Matteo Persivale per “il Corriere della Sera” il 25 gennaio 2021. Harry Houdini, il più grande mago del mondo, fece una promessa solenne alla moglie Bess: se gli fosse successo qualcosa durante una delle sue incredibili esibizioni, avrebbe fatto di tutto per mettersi in contatto con lei dopo la morte. Se non avesse ricevuto nessun segnale, spiegò l'artista della fuga, voleva semplicemente dire che non esiste un al di là dal quale poter scappare, almeno per un istante. Che Houdini, post mortem, non si sia mai fatto vivo con la moglie non rappresenta un ostacolo per il milionario di Las Vegas Robert Bigelow. Imprenditore di enorme successo nel campo degli affitti brevi low cost, creatore della startup aerospaziale Bigelow Aerospace che fornisce componenti a Nasa e a SpaceX di Elon Musk, intrepido finanziatore di numerose ricerche sulla vita extraterrestre e i fenomeni paranormali, Bigelow ha ammesso con il New York Times di aver finora speso circa 350 milioni di dollari per il suo insolito hobby. Bigelow ha ora offerto tre premi, con ricompense totali di un milione di dollari (820mila euro) a chiunque gli dimostri (i vincitori verranno annunciati il 1 novembre 2021) «la sopravvivenza della coscienza dopo la morte corporea permanente». Non è una boutade: Bigelow dirige e finanzia il Bigelow Institute for Consciousness Studies che ora ha interpellato scienziati, studiosi della religione, esperti di neuroscienze e chiunque altro possa fornire prove dell'esistenza di un aldilà. Il centro studi è stato formato «per cercare di condurre ricerche sulla possibilità di sopravvivenza della coscienza umana oltre la morte corporea», ha detto al sito Mystery Wire. Purtroppo però la vita di Bigelow non è materia da romanzo letterario di Don DeLillo o di genere popolare parafantascientifico cospiratorio tipo quelli, anni 70, dell'indimenticato Peter Kolosimo: è più simile a una tragedia shakespeariana. È una storia di fantasmi. Se la passione per le ricerche aerospaziali è sempre appartenuta al 75enne imprenditore, al quale i nonni raccontarono dell'incontro ravvicinato con un Ufo nel deserto del Nevada nel 1947, quando lui aveva due anni, l'interesse per l'al di là risale a un evento tragico: la morte, nel 1992, per suicidio, del suo figlio 24enne, Rod Lee, padre dell'allora neonato Rod II, anch' egli suicida, a vent' anni, nel 2011 (Bigelow ha un'altra figlia, Blair, che ha lavorato per il padre sia nel campo aerospaziale sia in quello immobiliare, la cassaforte di famiglia, e candidata alla successione). Dalla morte del figlio, e più ancora dopo quella del nipote (che aveva problemi di dipendenze) in poi, Bigelow ha ridotto le ricerche sulle forze interdimensionali (dice comunque che i suoi ricercatori abbiano una volta intercettato degli umanoidi e non nega di avere in suo possesso materiale di origine aliena). Da allora ha di frequente interpellato medium e altri personaggi che gli promettevano la possibilità di un contatto con i due ragazzi. Contatto mai avvenuto, ma Bigelow si è convinto che ci sia qualche margine nella sua ricerca. E ora che anche la moglie Diane, 72 anni, è scomparsa per un tumore, la ricerca di Bigelow assume i contorni di un'ossessione, la cognizione del dolore di un marito, padre, e nonno in cerca di risposte.
· Coscioni ed il diritto a morire.
Federico Capurso per "la Stampa" il 23 novembre 2021. "Mario" è un nome di fantasia. Usato per difendere la privacy e la dignità di un uomo delle Marche, malato tetraplegico immobilizzato a letto da 10 anni. È stato usato per la prima volta sulle pagine di questo giornale, lo scorso agosto, in calce a una lettera in cui chiedeva alla politica di aiutarlo a vedere riconosciuto il suo diritto al suicidio assistito. Il ministro della Salute Roberto Speranza rispose, sempre dalle pagine di questo giornale, sostenendo le sue richieste. Poi qualcosa si è mosso. E oggi, finalmente, Mario ha vinto la sua battaglia: è il primo malato in Italia a ottenere il via libera al suicidio medicalmente assistito. «Mi sento più leggero, mi sono svuotato di tutta la tensione accumulata in questi anni», fa sapere. La strada per poter mettere fine alle sue sofferenze ha riservato tanti, troppi ostacoli da superare. Da oltre un anno Mario chiedeva all'azienda ospedaliera locale che fossero verificate le sue condizioni di salute per poter accedere alla somministrazione di un farmaco letale. E aspettare un anno di tempo, per chi soffre ogni giorno, equivale a una vita. Si era rifiutato di andare a morire in Svizzera o in un altro Paese che riconoscesse il suicidio assistito, perché è suo diritto morire in Italia, nelle Marche. Per poter godere di questo suo diritto, nell'ultimo anno ha però dovuto fronteggiare un primo diniego dell'Azienda sanitaria unica regionale delle Marche (Asur), oltre a due decisioni definitive del tribunale di Ancona, ed è stato costretto a ricorrere a due diffide legali all'Asur. Dopo l'estate, dopo le lettere e l'aiuto sempre offerto dall'associazione Luca Coscioni, il Comitato etico si è mosso per verificare le sue condizioni, tramite la relazione di un gruppo di medici specialisti nominati dall'Asur, e ha confermato che Mario possiede i requisiti per l'accesso legale al suicidio assistito. Quattro condizioni essenziali, dettate nel 2019 dalla sentenza «Cappato-Dj Fabo» emessa dalla Corte Costituzionale: è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale; è affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili; è pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; non è sua intenzione avvalersi di altri trattamenti sanitari per il dolore e la sedazione profonda. La sentenza della Consulta ha a tutti gli effetti legalizzato il suicidio assistito, ma «nessun malato ha finora potuto beneficiarne, perché il servizio sanitario si nasconde dietro l'assenza di una legge che definisca le procedure», punta il dito Marco Cappato, tesoriere dell'associazione Luca Coscioni. La battaglia è così andata avanti tra le aule dei tribunali e sui media, fino a questa vittoria. Manca ancora, però, la definizione del processo di somministrazione del farmaco letale. Un percorso tortuoso dovuto alla paralisi del Parlamento che ancora, a tre anni dalla richiesta della Corte costituzionale, non riesce a votare una legge che stabilisca le procedure da seguire. «Il risultato di questo scaricabarile istituzionale - accusa Cappato - è che persone come Mario sono costrette a sostenere un calvario giudiziario, in aggiunta a quello fisico e psicologico dovuto dalla propria condizione». E di fronte a questo immobilismo, «per avere regole chiare che vadano oltre la questione dell'aiuto al suicidio e regolino l'eutanasia in senso più ampio sarà necessario l'intervento del popolo italiano, con il referendum che depenalizza parzialmente il reato di omicidio del consenziente». Anche per la Segretaria dell'associazione Coscioni, Filomena Gallo, «è molto grave che ci sia voluto tanto tempo». Su indicazione di Mario, si darà nei prossimi giorni una risposta all'Asur Marche e al comitato etico, per stabilire come Mario potrà morire. «Forniremo, in collaborazione con un esperto, il dettaglio delle modalità di auto-somministrazione del farmaco idoneo, in base alle sue condizioni», spiega Gallo. Un ultimo passaggio formale. Poi, il nome "Mario" potrà diventare qualcosa di più di un nome di fantasia. Un simbolo del diritto alla dignità del malato. Più alto della burocrazia e della lentezza della politica.
Da "la Stampa" il 23 novembre 2021. Mario ha scelto di ricorrere al suicidio assistito e lo ha fatto grazie al sostegno dell'Associazione Luca Coscioni. La battaglia giuridica per vedersi riconosciuto il diritto è stata costruita attorno alla sentenza della Corte Costituzionale che, alla fine del 2019 esprimendosi sul caso di Marco Cappato e la morte in una clinica svizzera di dj Fabo, aveva definito «non punibile» chi agevola l'esecuzione del suicidio. Quel pronunciamento ha aperto la breccia in un vuoto normativo enorme che finora aveva costretto i malati italiani come Mario a restare imprigionati nel dolore oppure a recarsi all'estero per porre fine alle loro esistenze. Con la sentenza 242/2019, i giudici della Consulta per la prima volta avevano messo nero su bianco i criteri per l'accesso al trattamento che porta alla morte volontaria: deve essere una «decisione autonoma e libera», deve riguardare pazienti che ricevono «trattamenti di sostegno vitale» quindi persone affette da «patologie irreversibili che sono fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili». E in ogni caso vanno considerati solo pazienti «pienamente capaci di prendere decisioni libere e consapevoli». Proprio il caso di Mario che però, ha impiegato molti mesi per vedersi riconoscere il diritto al suicidio assistito.
Suicidio assistito, arriva il primo sì. Ma scatta la guerra di ricorsi. Patricia Tagliaferri il 24 Novembre 2021 su Il Giornale. Il comitato etico dell'Azienda sanitaria delle Marche dà il via libera per un 43enne tetraplegico. La regione frena: decide il tribunale di Ancona. Battaglia sul farmaco Letale. I dubbi della Chiesa: meglio le cure palliative. È il primo malato ad ottenere il via libera al suicidio assistito in Italia. Dopo dieci anni costretto a vivere una vita che non è più vita, ma solo sopravvivenza, Mario (ma non è il suo vero nome) potrà decidere quando mettere fine alle sue sofferenze, così come stabilito dal Comitato etico dell'Azienda sanitaria Marche. «Mi sento più leggero, mi sono svuotato di tutta la tensione accumulata in questi anni», le sue prime parole.
Faceva il camionista quest'uomo di Pesaro di 43 anni che da tempo si batte con l'Associazione Coscioni per ottenere il diritto a morire con dignità. Da quando è diventato tetraplegico in seguito ad un devastante incidente stradale è immobile nel letto, stanco di soffrire. Può muovere solo un mignolo, quello con il quale potrà somministrarsi il farmaco scelto per morire, perché nessun medico lo potrà aiutare. È lucido e consapevole, ma è arrivato al limite e vuole sentirsi libero di andarsene, quando lo vorrà, in casa sua, circondato dagli affetti e non in una clinica Svizzera, dove pure aveva pensato di andare ad agosto, prima di cambiare idea per seguire la strada tracciata dalla Corte costituzionale. Un percorso ad ostacoli tra giudici e politica, con una legge bloccata in commissione alla Camera e un referendum che aspetta di essere ammesso. Da più di un anno Mario aveva chiesto all'azienda ospedaliera delle Marche di verificare le sue condizioni di salute per poter accedere legalmente ad un farmaco legale che ponesse fine alle sue pene. Dopo una serie di rinvii, dinieghi e diffide, la decisione è arrivata: nel suo caso ci sono le condizioni per decidere come morire, come stabilito dalla sentenza della Consulta Cappato/dj Fabo del 2019 che indica la non punibilità dell'aiuto al suicidio assistito. Il Comitato etico ha accertato la sussistenza dei quattro parametri richiesti dai giudici: Mario è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale; è affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze che reputa intollerabili; è pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; non è sua intenzione avvalersi di altri trattamenti per il dolore e la sedazione profonda. «È molto grave che ci sia voluto tanto tempo, ma finalmente per la prima volta un Comitato etico ha confermato per una persona malata l'esistenza delle condizioni per il suicidio assistito», sostiene Filomena Gallo, co-difensore di Mario. La strada è ancora in salita. Ora ci sono da definire le modalità di autosomministrazione del farmaco, ma la Regione Marche, guidata dal centro-destra, ha già fatto sapere che sarà il Tribunale di Ancona a decidere se il paziente potrà avere diritto al suicidio assistito perché il Comitato etico non ha specificato come iniettare il medicinale. Solo «una trappola burocratica», per la Gallo e Marco Cappato, entrambi dell'Associazione Coscioni. «La responsabilità di definire le procedure tecniche non è del malato, ma del Servizio sanitario, che però si rifiuta di farlo», replicano. Una pagina comunque importante per l'Italia, quella scritta grazie alla battaglia di Mario. «Una piccola conquista in visione di quella che si spera diventi una futura legge», gioisce Valeria Imbrogno, la fidanzata di dj Fabo, che nel 2017 scelse di morire in una clinica svizzera, accompagnato da Cappato, che per questo fu processato e assolto in Cassazione. Cappato torna ora a denunciare la «paralisi del Parlamento» e a sollecitare il referendum: «La discussione sulla legge sta andando talmente per le lunghe che è superata dai fatti». «La proposta di legge sull'eutanasia giace da quattro anni a prendere polvere. Il problema è che non c'è volontà politica», osserva Emma Bonino. Il Vaticano sollecita invece riflessioni su una materia così controversa come il fine vita. Per la Pontificia accademia per la vita la strada più convincente è quella delle cure palliative, che «contemplano la possibilità di sospendere i trattamenti considerati sproporzionati dal paziente». Patricia Tagliaferri
"Ok al suicidio assistito". Ma il magistrato smentisce: "Non è così". Francesco Boezi il 23 Novembre 2021 su Il Giornale. Alfredo Mantovano, vicepresidente del Livatino e magistrato, smentisce che il Comitato etico delle Marche abbia dato l'ok al suicidio assistito del signor "Mario". Dietro agli entusiasmi ci sarebbe il furore ideologico. Il primo caso di ok al suicidio assistito in Italia anima il dibattito in queste ore, ma c'è anche chi ritiene che non sia arrivato un vero e proprio "via libera" sul caso del signor "Mario", che non è il reale nome della persona interessata pure dalla decisione balzata oggi agli onori delle cronache. La questione è complessa ed Alfredo Mantovano, magistrato e vicepresidente del Centro studi Rosario Livatino, in punta di diritto, smentisce la ricostruzione che verte sulla sussistenza giuridica di un' autorizzazione. La premessa del ragionamento del giudice è tutta in questa frase: "Il parere del comitato etico - dichiara Mantovano - non dà alcun via libera. L'accanimento - aggiunge - è quello mediatico e politico". Il magistrato contraddice il taglio maggioritario dato alla notizia: "'Suicidio assistito, primo via libera ad un malato italiano', così titolano le testate che si occupano della vicenda di 'Mario', dopo il parere rilasciato dal Comitato etico regionale delle Marche. Ma è realmente così?". La risposta è diretta: "La versione integrale del parere non autorizza questa conclusione, intanto perché, nella confusione normativa attuale, se un qualsiasi Comitato etico avesse autorizzato un suicidio assistito avrebbe violato la legge, poiché sarebbe andato oltre le competenze che le varie disposizioni gli riconoscono". Dunque il Comitato etico delle Marche, per Alfredo Mantovano, non può dare l'ok di cui si fa un gran parlare. E questo, in buona sostanza, perché un Comitato etico non ha avrebbe facoltà giuridica di poter autorizzare un suicidio assistito. Il tema, semmai, è comprendere l'idoneità del farmaco che potrebbe essere previsto in circostanze come queste rispetto alle condizioni della persona, con l'ovvio riguardo relativo a quanto previsto dalla Corte Costituzionale. Ma la disamina del magistrato diviene è ancora più minuziosa di così. Il vicepresidente del Livatino, infatti, passa ad analizzare le motivazioni individuate dal Comitato etico delle Marche: "E poi perché - prosegue Mantovano - , chiamato dal Tribunale di Ancona a verificare la sussistenza nel caso specifico delle condizioni previste dalla Corte costituzionale con la cosiddetta sentenza Cappato, a proposito del requisito della sofferenza intollerabile, il Comitato parla di 'elemento soggettivo di difficile interpretazione', di difficoltà nel 'rilevare lo stato di non ulteriore sopportabilità di una sofferenza psichica', e di 'indisponibilità del soggetto ad accedere ad una terapia antidolorifica integrativa'". In estrema sintesi, l'organo chiamato ad esprimere un parere avrebbe presentato più di qualche dubbio all'interno di una disamina espressa per chiarie la presenza di una "sofferenza intollerabile" nella persona che avrebbe richiesto il suicidio assistito. E anche per questo non saremmo dinanzi ad un "via libera", mentre le felicitazioni espresse per il "primo ok al suicidio assistito", avrebbero soprattutto natura ideologica. Il magistrato chiude la sua riflessione, puntando proprio sulle spinte che avrebbero in qualche modo distorto quanto accaduto attorno alla vicenda del signor "Mario": "Confermato pertanto che il Comitato etico non ha autorizzato alcun suicidio assistito, resta lo sconcerto - sulla base della lettura del parere - della percezione di uno sforzo comune teso a togliere la vita a un grave disabile: la cui sofferenza di ordine psicologico merita aiuto e affiancamento, non l’individuazione della sostanza più idonea a ucciderlo", chiosa l'ex sottosegretario del ministero dell'Interno.
Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju".
LEGGE ANCORA IMPANTANATA, PASSA L'OBIEZIONE DI COSCIENZA. C.Gu. per "Il Messaggero" il 24 novembre 2021. Tre anni fa la Corte costituzionale ha squarciato il buio sul suicidio assistito, stabilendo la non punibilità (a determinate condizioni) di chi lo agevola. Ma ha detto anche che una materia così complessa non può essere lasciata al giudizio dei singoli Tribunali, sollecitando il Parlamento a intervenire e giudicando «indispensabile» una legge. Era il 22 novembre 2019 e la legge non c'è ancora. «Il governo, lo Stato, dopo la sentenza Cappato si sono eclissati. La commissione che discute il ddl procede per rinvii, prima c'erano altre urgenze, poi il Covid. La verità è che in tutto questo tempo non hanno preso posizione e ciò è politicamente molto grave, perché non hanno rispettato le direttive di un organo costituzionale», riflette Emilio Coveri, presidente di Exit Italia. L'associazione promuove il testamento biologico e segnala alle persone con patologie dichiarate incurabili quattro cliniche della Svizzera (Lugano, Basilea, Berna e Zurigo) dove il suicidio assistito è legale. Le richieste sono tante e danno la misura della necessità di una legge. «Ogni settimana ricevo novanta telefonate di persone disperate. Dei nostri associati, una quarantina ogni anno va in Svizzera a morire. A volte mi richiamano i parenti e mi dicono: Grazie, se ne è andato serenamente. Ha bevuto quel bicchierino di veleno con avidità, come una liberazione. Ricordiamoci sempre: se uno arriva a tanto, non ha più un futuro. Noi non contattiamo nessuno, consigliamo loro a chi appoggiarsi, per fortuna in Italia informare non è ancora un reato. Il nostro timore è che, se cade il governo, crolli tutto: non si farebbe più la legge sul suicidio assistito, né il referendum per l'eutanasia. Eppure un recente sondaggio Eurispes ha rivelato che 78,9% degli italiani è favorevole alla libera scelta sul fine vita», spiega Coveri. Dal 98 a oggi la Dignitas di Zurigo, che accompagna alla morte chi soffre per malattie irreversibili, ha dato accesso al suicidio assistito a 159 malati italiani, nel 2020 sono stati 14. Sempre nelle Marche, la regione che si occupa della tragica vicenda di Mario, c'è anche un secondo caso da un anno in attesa di una chiamata per la verifica delle condizioni: è Antonio, anche lui tetraplegico dopo un incidente stradale, avvenuto otto anni fa. E a Senigallia viveva Max Fanelli, malato di Sla e protagonista della battaglia per la legge sul fine vita, morto nel 2016. Nel 2013 aveva fatto ricorso al suicidio assistito, in Svizzera, l'ex assessore del Comune di Jesi Daniela Cesarini, che per andarsene aveva scelto la data emblematica del 25 aprile. A fronte di ciò, la legge va a rilento. Solo nelle scorse settimane il centrodestra ha accantonato l'ostruzionismo sul ddl e le commissioni Affari sociali e Giustizia della Camera hanno iniziato a votare gli emendamenti al testo. L'approdo in aula era previsto per il 25 ottobre, ma dopo un primo slittamento al 22 novembre c'è stato un ulteriore rinvio al 29 novembre. «L'esame del testo è a buon punto ma abbiamo dovuto bilanciare i tempi delle due commissioni dove sono all'ordine del giorno numerosi e non rinviabili provvedimenti. Riteniamo che ci sia il tempo adeguato per discutere e concludere i lavori nella più ampia garanzia del confronto», hanno riferito i presidenti. Il percorso però è messo in dubbio dal capogruppo della Lega Roberto Turri e da Fabiola Bologna di Coraggio Italia: «Rispettare la data del 29 novembre è oggettivamente impossibile. Dobbiamo ancora votare 380 emendamenti». Ieri intanto i relatori hanno accolto la richiesta del centrodestra di prevedere l'obiezione di coscienza per il personale sanitario. Il titolo del ddl è Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell'eutanasia. Ma di eutanasia non c'è traccia nel testo. La Cassazione prima e poi la Corte costituzionale dovranno pronunciarsi sull'ammissibilità del referendum sull'eutanasia legale, a sostegno del quale è stato presentato un milione di firme. Se ci sarà il via libera, si voterà l'anno prossimo in primavera.
Francesco Grignetti per "La Stampa" il 24 novembre 2021. Un grande passo c'è stato, con il comitato etico dell'Asur delle Marche che ha riconosciuto come Mario abbia diritto a mettere fine alle sue sofferenze. Ma non è mica finita qui. L'Asur, che è l'azienda sanitaria unica regionale delle Marche, ha già comunicato che ritiene concluso il suo compito. Il resto, cioè la decisione sul prodotto letale e la somministrazione, in assenza di una legge, spetta di nuovo al tribunale. Il comitato etico, peraltro, nel dare il suo giudizio positivo, ha messo una zeppa terribile al procedimento. «Ha sollevato dubbi - scrive la Regione - sulle modalità e sulla metodica del farmaco che il soggetto avrebbe chiesto (il tiopentone sodico nella quantità di 20 grammi, senza specificare come dovesse essere somministrato)». Ecco dunque che il braccio di ferro si sposta un po' più in là. «Non è ancora finita per Mario - spiega Marco Cappato dell'associazione Luca Coscioni - perché non hanno stabilito le modalità tecniche per l'autosomministrazione del suicidio. Per l'accompagnamento attivo bisognerà invece aspettare l'esito del referendum per abrogare il reato di omicidio del consenziente che permetterebbe ad un medico di fare ciò che già fanno medici in Olanda, Belgio, Spagna e Lussemburgo». Non è finita qui, dunque. È più di un anno, dopo la sentenza della Corte costituzionale del 2019, che Mario chiede all'Asur della sua regione di essere aiutato a morire. Dapprima ha ricevuto un diniego secco. Poi, un primo ricorso al tribunale di Ancona è stato rigettato nel marzo scorso. Ha avuto ragione invece al suo secondo ricorso, a giugno. Adesso Mario e i legali dell'associazione Coscioni non reclamano più un diritto all'assistenza al suicidio, ma il diritto alla morte e basta. Per arrivarci, mancando la legge, ma con la sentenza della Consulta alla mano, occorre che un Comitato etico del Servizio sanitario nazionale stabilisca che il ricorrente vive esclusivamente grazie alle macchine, che la sua patologia è irreversibile, che soffre dolori intollerabili sotto il profilo fisico e psichico, e che è lucido nel chiedere di finirla. Queste condizioni, nel caso di Mario, ci sono tutte e il Comitato etico lo ha messo per iscritto. C'era un quinto quesito, però, che il tribunale aveva indicato al Comitato etico: se la sostanza indicata da Mario, ovvero il tiopentone sodico nella quantità di 20 grammi, era idonea a garantirgli una morte rapida e indolore. E qui la risposta del Comitato etico aggiunge problemi a problemi. «L'interessato - ha scritto il Comitato al tribunale - non motiva quali siano i presupposti per i quali è stata richiesto il dosaggio indicato di 20 grammi, quantità non supportata da letteratura scientifica. Non spiega se e con quali modalità si debba procedere tecnicamente alla somministrazione e, se in via preventiva, per conculcare lo stato d'ansia derivante dall'operazione, si voglia avvalere di ansiolitici». Per concludere: «Il Comitato etico ritiene non essere di sua competenza l'eventuale individuazione di altre modalità». Ma qui l'associazione Coscioni insorge contro la Regione, che è governata dal centrodestra e ha un governatore di FdI, gridando alla «trappola burocratica che è stata tesa contro Mario da 14 mesi. Ciò che la Regione non dice è che la responsabilità di definire le procedure tecniche non è del malato, ovviamente, ma del Servizio sanitario, che però si rifiuta di farlo. Se necessario e se i tempi dovessero dilatarsi ancora, siamo pronti ad azionare tutti gli strumenti necessari per far rispettare il diritto di Mario a porre fine alle proprie sofferenze». Ricapitolando: la Regione Marche, l'Asur e il Comitato etico - che finora hanno fatto opposizione in tutte le sedi - girano la decisione fatale al tribunale di Ancona. Siano i magistrati a decidere se la sostanza è quella giusta, e quali debbano essere le modalità di somministrazione. «La verità è che manca la legge tanto auspicata - sospira l'assessore regionale alla Sanità, Filippo Saltamartini - e ormai ineludibile. È necessario che il Parlamento proceda». Anche la Corte costituzionale nella celebre sentenza del 2019 sul caso di dj Fabo, sollecitava il legislatore ad affrontare la materia. Ma poi in Parlamento la questione si è impaludata. Ora non resta che attendere il referendum.
Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 24 novembre 2021. È strano sentire una persona che dice «mi sento contento, strafelice» mentre racconta di aver ottenuto, finalmente, il diritto di morire. Ma, come ha sempre detto lui, «a chi pensa che io stia sbagliando vorrei chiedere: vieni qui accanto a me per una settimana, una sola. Poi capirai». A volte il dolore può diventare così insopportabile che puoi anche sognare di morire. Mario non ha mai avuto dubbi: il Comitato etico non poteva negare che lui avesse i requisiti per accedere al suicidio assistito. Hanno capito che «non c'è stata nessuna bugia in tutto quello che ho raccontato. Ho messo in fila le parole, le sensazioni, i sentimenti assolutamente fedeli alla realtà. Sono una persona al limite della sopportazione». È tetraplegico, immobile in un letto nella sua stanzetta, con un pezzo di cielo sullo sfondo - sempre lo stesso pezzo - da 11 anni. La sofferenza è la sua più grande compagna di vita. Mangia se gli danno da mangiare, si lava se lo lavano, si veste se lo vestono...Ma l'incidente che l'ha ridotto così gli ha lasciato la parola, la vista, la lucidità, e un piccolo movimento del braccio destro che muove con sforzi inenarrabili: per esempio per far cadere il mignolo sul telecomando e accendere la tivù - almeno quello - senza l'aiuto di sua madre. «Come sto? Vado a giorni alterni. Ci sono giorni con più dolori e altri in cui soffro meno», racconta. Ma adesso tutti i suoi pensieri sono per questa «rivoluzione», così la chiama, «che sono riuscito a fare stando fermo. Il Comitato etico ha riconosciuto come vere tutte le cose che ho detto finora, da quello che raccontai agli amici dell'Associazione Coscioni quando ancora non mi conoscevano, a quel che ho detto alla commissione medica a settembre. E questo mi ha fatto un gran piacere. E poi hanno rilevato che sono pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, e ho la capacità di autodeterminarmi. Hanno riconosciuto che le mie sofferenze, fisiche e psicologiche, sono intollerabili, sennò non avrei raggiunto questo traguardo. Mi ha dato tanto orgoglio questo riconoscimento». Ad agosto del 2020 era pronto per andare a morire in Svizzera, oggi Mario sa che potrà farlo a casa sua, vicino a sua madre, a suo fratello, all'amico infermiere che si è preso cura di lui amorevolmente in questi anni. Insomma: alle persone più care. «Questo mi fa sentire contento, strafelice», dice a tutti da due giorni. Ma c'è un pensiero che solo adesso si fa largo fra gli altri: l'amarezza per il dolore che proveranno le persone care quando lui deciderà di andarsene. «Chi mi sta vicino comincia a rendersi conto... per loro, soprattutto per mia madre, cresce il dispiacere nel realizzare quello che farò, cioè schiacciare quel bottone e accedere al farmaco». Parole che valgono per sua madre più che per chiunque altro. Lei che si illumina e sorride ogni volta che guarda il suo Mario, che non si è mai lamentata una volta per le fatiche infinite di ogni giornata accanto a lui, che lo ha sempre sostenuto perché «ha ragione, vivere così che vita è?»...Lei l'altro giorno, quando ha saputo che adesso è tutto più concreto, più vicino, si è immaginata i giorni che verranno senza più quello spilungone nel letto, senza la sua voce squillante e allegra che riempie l'aria. E ha riflettuto che sì, «sono fiera e orgogliosa per quello che mio figlio ha saputo fare, ma adesso che è arrivato questo momento il pensiero mi fa soffrire perché so che lo perderò». Mai come in questi ultimi due giorni Mario ha sentito la forza della gratitudine verso Marco Cappato e il team dei legali che hanno seguito il suo caso, a cominciare da Filomena Gallo, avvocata, segretaria nazionale dell'Associazione Coscioni e, a questo punto, anche grande amica. «Insieme stiamo facendo la storia di questo Paese», dice lui. Che ora aspetta «l'ultimo passo che manca e che riguarda la scelta del farmaco. Sono fiducioso che non si perderà altro tempo. Mi sento rilassato, svuotato della tensione accumulata in 11 anni e diventata insopportabile in questi mesi. Sono orgoglioso di quello che ho fatto». Ne è passato di tempo da quella domenica pomeriggio in cui decise di voler morire. Era il 2015 «ed ero con babbo in cortile. Mi ha chiesto che intenzioni avessi per il futuro e gli ho risposto: finché riesco vado avanti, poi faccio di tutto per avere il suicidio assistito in Italia, se non riesco vado in Svizzera. Io so che lui ha capito. È morto l'anno dopo». Mario è già andato ben oltre quel «finché riesco vado avanti» che aveva immaginato allora. Ora è tempo di pensare ai saluti, a una data.
Nelle mani del padre. Francesco D’Agostino su Avvenire il 12 novembre 2021. Si ripropongono costantemente ipotesi di situazioni patologiche, tecnicamente non terminali, a carico di pazienti di ogni fascia di età (ma naturalmente i casi più patetici sono quelli che coinvolgono minori e/o neonati), che li fanno sprofondare in stati vegetativi dalla durata non prevedibile facendo perdere loro le normali capacità relazionali, soprattutto con il contesto familiare e amicale. Come gestire situazioni così tragiche? Una soluzione corretta ed equilibrata è sembrata, all’inizio, quella di avvalorare legalmente le cosiddette Dat, cioè le dichiarazioni anticipate di trattamento, che possono portare alla sospensione delle cure di sostegno vitale. Fino a quando, però, non ci si è resi conto che soltanto una piccola minoranza di cittadini ama sottoscrivere documenti così delicati oltre che di un’oggettiva complessità. Anche la scelta di affidare ai Comitati etici decisioni di vita e di morte sembra perdere continuamente di forza, e così prendono piede altre e diverse forme di appello, come quelle all’autorità giudiziaria.
E i giudici sembrano a loro volta sempre più smarriti di fronte a situazioni casistiche sovente non solo nuove, ma anche dottrinalmente fastidiosamente intricate: dico 'fastidiosamente' non perché non meritino rispetto, ma perché il rispetto che esse meritano richiede dai medici e dai bioeticisti che se ne occupano competenze sottili, che non sembrano essere, obiettivamente, alla portata di tutti. Il caso della trentenne Samantha D’Incà, emerso nelle ultime settimane, è esemplare: bloccata a letto per un’infezione contratta dopo un’operazione in ospedale, Samantha non ha lasciato dichiarazioni scritte, in previsione di eventi così tragici che avrebbero potuto colpirla, ma avrebbe più volte dichiarato ai familiari il suo deciso rifiuto a qualsiasi accanimento medico. È facile immaginare le divisioni e le controversie che si sono accese nel contesto religioso cui appartiene la famiglia di Samantha e ancor più in quello ospedaliero (peraltro prestigioso) nel quale la ragazza è stata accolta e ancor più le lacerazioni emotive, psicologiche, familiari che sono state attivate da questo 'caso'. Ma la situazione è divenuta ancora più incandescente quando, come per molti era inevitabile che accadesse, il caso è stato portato in un’aula giudiziaria. I magistrati hanno utilizzato, come criterio ultimo per risolvere la terribile questione, quello dell’attribuzione al padre della potestà decisionale in merito al proseguimento (o no) delle terapie di sopravvivenza vitale a favore di Samantha (come, per esempio, la ventilazione forzata). Questo criterio, dotato indubbiamente di una sua ragionevolezza, anzi di una sua forza, va inevitabilmente riconnesso all’idea che la tutela e la protezione della vita umana vadano alla fin fine riportate sotto l’ombrello di un 'potere' e in particolare di quel potere genitoriale che per secoli ha tolto alle generazioni più giovani la loro autonomia e soprattutto la loro dignità, collocando i figli nella più totale e spesso arbitraria disponibilità dei genitori. Ciò che si può dedurre da questa vicenda è che la questione dell’eutanasia, in molti casi, come in quello di Samantha, non dovrebbe essere riportata al superamento delle sofferenze dei malati terminali, spesso trattabili con efficacia attraverso raffinate tecniche palliative, ma a quella della dignità della fragilità assoluta (condizione che non è propria solo della vita morente), che non dovrebbe in nessun caso essere fatta gestire (per dir così) soltanto da singoli contesti familiari, sociali o spirituali. L’alleanza tra affetti, scienza e coscienza, anche qui, resta concetto e pratica essenziale. Non perché soffrono il disabile gravissimo o il malato terminale hanno una dignità, ma in quanto persone e perché solo attraverso la loro condizione noi siamo in grado di percepire quella sottile linea di confine che separa immanenza e trascendenza: cioè, da una parte, vita biologica e, dall’altra, quella misteriosa dimensione dell’esistenza che carica la vita biologica di senso. Al padre di Samantha spetta ora la decisione più tagliente che possa spettare a un padre, quella di individuare nel corpo della figlia trentenne questa dimensione di senso, che non può ridursi alle sole lacrime. Che Dio l’aiuti a prendere una decisione di cui non debba mai pentirsi.
Il dibattito sul green pass. Vaccino e eutanasia, il mio corpo è mio: fermiamoci a riflettere. Alberto Cisterna su Il Riformista il 17 Ottobre 2021. La battaglia sul, o meglio, per il Green pass potrebbe essere solo agli inizi. Gli assalti e gli scontri, le prese di posizione più o meno violente e strampalate in fondo rappresentano un piccolo microcosmo che si potrebbe anche ignorare, se non fosse che dietro le linee dei renitenti al vaccino sono asserragliati qualche milione di cittadini. Qualche milione, non le poche migliaia che strepitano, urlano, fanno a botte con la polizia. Occuparsi di questi è, tutto sommato, un gioco da ragazzi. Non appena la scure giudiziaria sarà piombata sui più violenti ed esagitati, tutto si placherà. Già l’operazione di polizia condotta alcune settimane or sono sulle reti social e il tintinnare di un’imputazione per terrorismo aveva sopito tanti bollori barricaderi; qualche arresto renderà più esplicito il messaggio. Però non ci sono solo facinorosi e violenti tra quei 5 milioni scarsi di italiani. Ci sono lavoratori, casalinghe, madri di famiglia, cittadini onesti e persone perbene, tutte racchiuse insieme in quella gigantesca bolla che si vorrebbe far esplodere con lo spillo del Green pass. Un’astuzia che sarà certo servita a convincere tanti ragazzi a vaccinarsi, tanti lavoratori a cedere, ma che da oggi inizia a mostrare tutti i segni della propria debolezza. Era uno stratagemma senza una strategia e oggi se ne coglie tutta la fragilità di fronte al ricatto che proviene dalle frange più agguerrite di un corporativismo che scavalca qualunque sindacato, e si fa beffe di ogni proclama o rassicurazione e pretende tamponi gratis per tutti. Si inizia a cedere e sarà così nei prossimi giorni, sino a quando il fronte della fermezza dovrà fare i conti con l’impossibilità di privarsi di centinaia di migliaia di lavoratori in un sistema economico interconnesso che da un battito di ali nel porto di Trieste vede una tempesta abbattersi sulle industrie del Nord-est. Perché tutto questo abbia un senso bisognerebbe tenere distinte le pseudo ragioni scientifiche che alimentano i no vax, i loro discorsi, le loro chat, i loro ambigui canali social da quello che è, invece, il fondamento ultimo del loro dissenso. Finora è stato semplice irridere la protesta prendendo a pretesto le sciocchezze che vengono diffuse contro i vaccini o l’inconsistenza dei personaggi che dovrebbero alimentarne il retroterra scientifico. Ma di fronte a una solida e compatta falange di cittadini che non sono disponibili a mettere a disposizione il loro corpo per poter continuare a lavorare, che sono pronti a subire la sospensione dello stipendio per non ricevere il vaccino, sarebbe bene fermarsi a riflettere prima di passare alle maniere forti o di arrischiarsi in una disonorevole marcia indietro. Il corpo umano è intangibile. La fisicità di ciascun essere è al centro di complesse e tormentate discussioni; un crocevia denso di implicazione. A esempio, eutanasia e vaccino hanno un comune, non così labile, comune denominatore; in tutti e due i casi si discute del diritto che ciascun uomo ha di disporre del proprio corpo, della vita stessa che lo attraversa. Persino la donazione d’organi tra viventi è soggetta a regole rigidissime per evitare il mercimonio di pezzi dell’essere nella sua inarrivabile perfezione. Certamente ragioni sanitarie possono consentire di comprimere questo diritto, di agire sul corpo. All’infermo di mente che mette in pericolo se stesso o gli altri si possono applicare coercizioni (il Tso); così legittimamente si può imporre una vaccinazione di massa con una legge approvata dal Parlamento. Non si è scelto questa strada, si dice, per ragioni tutte politiche, ma la verità è che nessun vaccino ha veramente superato la fase sperimentale e può dirsi conosciuto in tutti i suoi effetti collaterali e, quindi, neppure per legge può imporsi a un’intera nazione di sottoporsi a un trattamento sanitario non interamente sotto controllo. Tutti quanti abbiamo optato per il vaccino lo abbiamo fatto consapevolmente, firmando un complicato e minuto modulo di consenso informato con cui siamo (anche) entrati formalmente in una gigantesca operazione di sperimentazione su larga scala; la più grande che si sia mai vista. In Israele la Pfizer ha negoziato con quel governo, addirittura, l’acquisizione di tutti i dati sanitari della propria popolazione. È tutto legittimo ed è tutto, purtroppo, necessario. Sicuramente i vaccini sono innocui e non ci saranno conseguenze su larga scala e nel medio periodo. Ma questo è un auspicio e non una certezza scientifica; una speranza non una rassicurazione che nessuno, infatti, ha finora esplicitamente dato; tant’è che si continuano a compilare i moduli di consenso informato che una vaccinazione obbligatoria, ovviamente, esclude per definizione. In questo scenario non si tratta di irridere le idee dei no vax , non si tratta di garantire a costoro un’ovvia libertà di opinione, ma di comprendere che la macchina statale si deve arrestare quando si arriva alle soglie del corpo di ciascun essere umano e della sua volontà di conservarlo intangibile, fosse pure da un ago. Alberto Cisterna
Assuntina Morresi per “Avvenire” il 9 ottobre 2021. L'impatto nel tempo delle normative che in vari Paesi hanno consentito la pratica Dai Paesi Bassi al Canada, dal Belgio all'Australia: in forte aumento i decessi provocati e i suicidi assistiti. Avanza l'idea di escludere i medici dalle valutazioni. In Olanda nel 2020 le segnalazioni di morti per eutanasia sono state 6.938, il più alto numero dal 2002 quando la legge è entrata in vigore, con un aumento del 9% rispetto all'anno precedente. Nel 2003 le uccisioni su richiesta erano state 1.815, pari all'1,28% dei decessi nella popolazione, mentre adesso sono il 4,5%, se si escludono quelli per Covid. Trasferendo il calcolo al nostro paese, è come se in Italia nel 2020 fosse stata procurata la morte legalmente a circa 30.000 persone. Basterebbe questo nudo numero per toccare con mano l'enormità del fenomeno, che si chiami eutanasia o con uno dei suoi tanti sinonimi: morte volontaria assistita, morte medicalmente assistita, suicidio razionale, suicidio assistito, morte pianificata, morte su richiesta, morte procurata. La differenza, quando c'è, è solo procedurale, non sostanziale: si fa morire una persona che lo chiede e dichiara di soffrire in modo intollerabile, e non è reato se lo si fa secondo modalità e limiti indicati in una legge, solitamente all'interno del servizio sanitario nazionale. È un evento che rientra nelle esperienze non più eccezionali ma possibili nella vita di comuni cittadini, e in quanto tale il ricorrervi sempre più diffusamente non fa notizia. Le morti assistite sono in aumento in tutti i paesi dove consentite, e la pandemia non sembra aver influenzato il trend. E d'altra parte, come osserva Jeroen Recourt, il Presidente della Rte, la Commissione olandese che verifica ex post la legalità dei decessi procurati «Sempre più generazioni vedono l'eutanasia come una soluzione per una sofferenza insopportabile... il pensiero che l'eutanasia sia un'opzione di fronte a una sofferenza senza speranza porta pace [a molte persone]». Se aumenta la domanda cresce anche l'offerta del "servizio" eutanasico: in Olanda, ad esempio, nel tempo si è sviluppata una rete di professionalità dedicate a chi vuole pianificare la propria morte. Nel 2012 è nata la End of Life Clinic, che nel settembre 2019 ha cambiato il nome in Expertisecentrum Euthanasie (Centro di Competenza per l'Eutanasia). È una organizzazione che conta circa 140 dottori e infermieri in tutto il paese, a cui ci si rivolge quando il proprio medico curante non può o non vuole accogliere la richiesta di eutanasia. La pandemia non ha modificato il trend in aumento delle domande a questo centro, che dal 1° settembre 2019 al 31 agosto 2020 ne ha ricevute 2.790 e ne ha accolte 848 (il 17% in più rispetto al 2018). Ma c'è anche chi vuole morire senza la presenza di terzi, in un momento e in un luogo a sua scelta, e allora può rivolgersi alla Coöperatie Laatste Wil (Cooperativa Ultimo Testamento) una organizzazione che si batte perché la morte assistita possa essere offerta legalmente anche da personale non medico. Nella home page del loro sito si legge: «L'autodeterminazione è un diritto e un punto di partenza. Molte persone vogliono decidere da sole come e quando porre fine alla loro vita. Senza che un medico, un consulente o chiunque altro possa bloccarlo. Perché solo noi possiamo determinare se la nostra vita è finita o quando la sofferenza è insopportabile. Insieme, possiamo assicurarci di avere il controllo della fine della vita e di avere a disposizione le informazioni e le risorse necessarie». Intanto nel luglio del 2020 la parlamentare olandese Pia Dijkstra ha presentato la proposta di legge per l'eutanasia per "vita completata", dopo che nel gennaio dello stesso anno il comitato presieduto da Els van Wijngaarden dell'Università per gli Studi Umanistici a Utrecht aveva consegnato al parlamento uno studio in merito. Anche nel vicino Belgio la legge che depenalizza l'eutanasia è in vigore dal 2002, con un aumento fino agli anni 2018/2019 - da 2.359 a 2.656 i casi, e una diminuzione in pandemia, nel 2020, quando ne sono stati segnalati 2.444. Molti esperti, però, denunciano da tempo che le cifre ufficiali sono sottodimensionate, e rappresentano il 60% delle morti realmente procurate. In Canada nel 2020 le eutanasie sono state 7.595: il 34% in più rispetto all'anno precedente, il 2,5% di tutti i decessi. Da metà 2016, quando è entrata in vigore la legge, le morti su richiesta sono state 21.589. La legge è già stata modificata rispetto al suo testo iniziale: dopo consultazioni che hanno coinvolto 300.000 cittadini e 120 esperti, a marzo di quest'anno l'accesso si è ampliato includendo anche coloro per cui la morte non è ragionevolmente prevedibile. Dal marzo 2023 la morte pianificata sarà possibile anche per chi soffre solo di malattie mentali, cioè di patologie psichiatriche: depressione e disordini della personalità (non le neurodegenerative). Lo scorso agosto il dibattito si è riacceso in Quebec per via della richiesta di eutanasia da parte della madre di un bambino di 4 anni affetto da una malattia rara incurabile. In Australia, lo stato di Victoria consente l'eutanasia dal giugno 2019: fino al 30 giugno 2021 le richieste sono state 836, accolte 597, eseguite 331. Anche durante la pandemia le domande di accesso alla morte procurata sono aumentate, insieme al numero di medici disponibili ad effettuarle. Nel più recente report relativo ai primi sei mesi del 2021, si legge: «Sono passati due anni da quando Victoria è diventato il primo stato in Australia a introdurre la morte assistita volontaria. Da allora, l'Australia occidentale ha attuato la propria legislazione, l'Australia meridionale e la Tasmania hanno approvato la propria legislazione, e il Queensland ha introdotto la propria legislazione in Parlamento e il Nuovo Galles del Sud inizierà presto il dibattito parlamentare. Non c'è dubbio che lo stato di Victoria abbia giocato un ruolo influente nell'ispirare la riforma legislativa in tutta l'Australia». Dalla abbondante casistica presentata dai report ufficiali emerge un'ulteriore tendenza: sono in crescita i casi di eutanasia per "polipatologia", in Belgio diventati la seconda motivazione dopo il cancro, pari al 17% delle richieste, mentre in Olanda nel 2020 la Rte ha ricevuto 235 segnalazioni di decessi pianificati di questo tipo, rispetto ai 172 dell'anno precedente. Si tratta di «un accumulo di disturbi legati all'età come disturbi della vista, dell'udito, osteoporosi, artrosi, problemi di equilibrio e declino cognitivo (diminuzione delle conoscenze e delle abilità) - può anche essere la causa di una sofferenza insopportabile e senza speranza. Queste condizioni, spesso degenerative, si verificano di solito in età avanzata e possono essere la somma di uno o più sintomi correlati. Portano a una sofferenza che, in combinazione con la storia della malattia, la biografia, la personalità, il sistema di valori e le capacità del paziente, può essere considerata senza speranza e insopportabile». È l'eutanasia della vecchiaia, quando di irreversibile non c'è una patologia ma solo l'età e le condizioni ad essa legate. Significativo a proposito il "caso tipico" di polipatologia, riportato come esempio nel report ufficiale olandese: una donna di oltre 90 anni, che vive in casa, indipendente e autosufficiente, senza alcuna forma di assistenza, cade, si rompe l'anca, si ricovera in ospedale per due mesi e quando ne esce deve andare in una casa di cura. Non può più stare in piedi, muoversi, camminare, e deve essere issata dentro e fuori il letto. Ha dolori all'anca, problemi di udito e di vista, incontinenza urinaria. «Nella struttura dove si è dovuta trasferire vive sola nella sua stanza. Il ricovero nella casa di cura e la completa dipendenza sono stati terribili per lei. La donna ha vissuto la sua sofferenza come insopportabile». Il dottore ritiene che la sofferenza della anziana donna sia «insopportabile e senza speranza. Non c'erano altre possibilità per la donna di alleviare le sue sofferenze che fossero accettabili per lei. Dal momento in cui la donna è stata ammessa nella casa di cura aveva discusso dell'eutanasia con il medico», e la morte è stata procurata quasi tre mesi dopo. Una storia semplice.
Dagospia il 23 settembre 2021. Comunicato stampa. "Dj Fabo disse: “se non mi aiuti trovo qualcuno che mi spari, non è un problema per me, al Giambellino conosco le persone giuste, non sto scherzando”". Così l'ex radicale e tesoriere dell’associazione Luca Coscioni Marco Cappato, ospite della nuova stagione de La Confessione, in onda sul Nove da venerdì 24 settembre alle 22:45, ha raccontato al conduttore Peter Gomez il suo primo incontro con Fabiano Antoniani, noto a tutti come dj Fabo, il 40enne rimasto tetraplegico in seguito a un incidente stradale, che scelse di morire con il suicidio assistito in una clinica svizzera, il 27 febbraio del 2017. Con lui c’era proprio Marco Cappato che il giorno successivo si autodenunciò. La procura di Milano fu costretta ad accusarlo di aiuto al suicidio e per lui iniziò il processo, arrivato fino alla Consulta e conclusosi il 23 dicembre 2019 con l'assoluzione dell'attivista. "A un certo punto, Fabo ha smesso di nutrirsi, perché pensava che noi, in particolare Carmen, la mamma, e Valeria, la fidanzata, gli volessero impedire di fare quello che lui voleva, o che io magari gli stessi facendo perdere tempo - ha detto Cappato, promotore del referendum per l'eutanasia legale - Per cui, la sua determinazione su quella scelta era veramente ferrea e quelle sono state le sue testuali parole". "L'Italia sarà davvero un paese più civile quando le persone potranno decidere di morire?", ha chiesto ancora il direttore de Ilfattoquotidiano.it? "La Corte Costituzionale, sul mio processo, ha stabilito che anche il suicidio assistito è legale, a determinate condizioni. Quindi abbiamo fatto, secondo me, grandi passi avanti - ha risposto l'ex radicale - In quale direzione? Nell'idea che sulla vita di ciascuno, ciascuno decide. E non si può imporre una condizione di sofferenza insopportabile contro la volontà di una persona. Questo è il punto di fondo, che non dipende dalla tecnica, se mi attacchi e stacchi il respiratore, se è attiva o passiva, se lo fai tu da solo, o no, ma dipende dal rispetto della volontà individuale". "Io qui lo dico: sono molto d'accordo con lui, per quanto riguarda il referendum sull’eutanasia e anche quello sulla cannabis", ha chiosato Gomez. Domani sera in onda anche l'intervista a Rita Dalla Chiesa.
Impegnati, consapevoli, sensibili: i giovani della generazione Fabo che hanno spinto il referendum eutanasia. Poco più che ragazzi quando in Italia scoppiava il caso di Eluena Englaro, i millennials sono stati indispensabili per arrivare alle 750mila firme raccolte per il quesito radicale. Ecco chi sono. Marco Grieco L'Espresso il 6 settembre 2021. Ci sono vite compresse nella meccanica di un ventilatore polmonare, scandite dal suono di una macchina. Apparecchi salvavita suggerisce la scheda tecnica, che talvolta hanno il potere sinistro di trasformare la morte in un fallimento della medicina piuttosto che in un evento naturale. Per Fabiano Antoniani, andato a morire in una clinica in Svizzera, il fallimento sarebbe stato continuare a vivere dopo un incidente che nel 2015 lo aveva immobilizzato: «Da quel giorno vivo di quantità, non più di qualità», aveva detto a Le Iene, ricordando i due minuti di buio cerebrale sul ciglio della strada che avevano trasformato i due anni successivi in un inferno complesso per un ragazzo che desiderava soltanto una vita semplice, a partire dal suo nome: Fa-bo, due sillabe per un’esistenza lineare che la legge avrebbe complicato a lui e all’esponente dei Radicali, Marco Cappato, imputato per aiuto al suicidio, poi assolto in via definitiva nel febbraio 2018. Da questa storia nasce la “generazione Fabo”, un movimento di giovani cresciuti nella morsa di attentati mondiali con i volti delle vittime di un martirio che non ha nulla da spartire col fuoco purificatore dell’eroismo partigiano o l’autocoscienza, ma è solo l’ombra del fondamentalismo religioso. Sono loro oggi, poco più che ragazzi quando nel 2009 si concludeva la battaglia giudiziaria sulla sorte di Eluana Englaro, a credere che, per un mondo giusto, sia necessaria una legge che permetta a un malato di essere aiutato a morire, se la sua sofferenza è indicibile. È grazie a loro se, in un poco più di un mese, sono state raccolte oltre 750mila firme necessarie a chiedere un referendum sull’eutanasia, e cancellare così la parte dell’articolo 579 del codice penale che prevede 15 anni di carcere per il reato di omicidio del consenziente. A Torino neppure il caldo estivo ha fermato i giovani. Paola Stringa è una millennial di 35 anni, tra le prime avvocate autenticatrici in Italia: «Nel 2011 ho perso mio padre, poco prima di dare lo scritto dell’esame di avvocatura», ricorda con la voce rotta: «È mancato in un mese, mi sono spesa tanto perché nei suoi ultimi giorni non soffrisse». Anche se non hanno vissuto la sofferenza sulla propria pelle, tanti giovani lo fanno per senso civico: «A Santa Giulia, nel cuore della movida di Torino, un giovane è venuto a firmare a mezzanotte, non appena compiuti gli anni». I minorenni non possono firmare, ma tanti danno comunque una mano: «Sono sensibili a un concetto di giustizia trasversale in tutti i popoli. Sono gli stessi giovani che portano la borraccia per non impattare sul pianeta e sono sensibili al domani, specialmente in termini di diritti civili», spiega l’avvocata, che pone uno iato con altre generazioni: «I giovani di oggi firmano perché vivono la disabilità o la sofferenza e hanno un concetto di libertà diverso. Non dimentichiamo l’aspetto dei diritti: frequentano scuole composte da classi miste, sono abituati a convivere con compagni di banco a cui sono negati diritti, perché non hanno la cittadinanza italiana». Paola è tra le centinaia di volontari che hanno messo i moduli della raccolta firme nella borsa mare, oppure hanno deciso di rimandare le vacanze. «La sofferenza non va in vacanza, riposerò dopo, l’estate è l’ultimo dei miei problemi», spiega Grazia Coppola, coordinatrice di 25 anni della regione Lombardia: «Mi occupo delle province di Bergamo, Brescia, Lodi e Mantova» puntualizza aggiungendo che, per seguire le attività, a maggio ha lasciato la quiete della sua Bergamo per il fermento di porta Genova, dove sorge la cellula milanese della Luca Coscioni. «Al mattino è sede operativa, al pomeriggio raccogliamo le firme», spiega: «Avere una sede fisica è importante anche se, per la prima volta nella storia di un referendum, c’è la possibilità di firmare online: specialmente anziani e diversamente abili ci chiamano per sapere tempi e luoghi fisici dove raggiungerci». La sede di via Colombo è un andirivieni anche di giovani: «All’inizio ero sorpresa dei tanti diciottenni in fila. Poi ho parlato con molti di loro e la cosa bella è che, in larga parte, sapevano già per cosa avrebbero firmato», aggiunge. Per Grazia è riduttivo spiegare quest’affluenza con l’effetto Ferragnez: «Sarebbe limitante dire che li ha spinti un post di Chiara Ferragni. I giovanissimi utilizzano le piattaforme social anche per informarsi, poi il merito va all’attività di divulgazione e comunicazione che la Luca Coscioni sta facendo sui social». Lo spiegano Avy Candeli e Federica Nuzzo, direttore creativo e social strategist dell’associazione, e promotori del referendum Eutanasia legale: «Abbiamo fatto conoscere l’iniziativa ai giovanissimi sui social e le condivisioni sono state subito virali. Da una parte perché il tema politico era già noto, per storie importanti o esperienze personali. Dall’altra forse perché il concetto di libertà e di responsabilità, insieme alla possibilità concreata di contribuire a un mondo migliore o almeno più giusto, sono elementi che fanno sempre battere il cuore, in particolare ai più giovani», sottolineano. «Sono soddisfatto di come ha risposto l’Abruzzo», ammette Riccardo Varveri, 24 anni compiuti ad aprile, da luglio coordinatore della sua regione. «Due terzi dei votanti sono under 30 e ci sono tanti giovanissimi che chiedono di essere attivisti: è la risposta a chi ci bolla come gioventù bruciata», ironizza. La città più attiva? «L’Aquila, con oltre 2mila firme: dice tanto, per una città che vive sulla resilienza e conosce il valore della vita», spiega. Riccardo, che per la sua laurea ha destinato parte dei suoi risparmi alla Luca Coscioni, crede che questo referendum sia il campo di prova di una nuova politica: «La nostra generazione ha una visione diversa da chi ci governa, spesso plasmata da esperienze di malattia e sofferenze personali», aggiunge, menzionando quella di un suo amico, con il padre malato terminale: «Gli chiedeva di soffocarlo: un padre a un figlio, capisci? Quando ho letto la lettera di Piergiorgio Welby ho compreso quanto un male possa essere invasivo», spiega. Pensa che il referendum sia l’inizio di un nuovo modo di fare politica anche Feliciano Rossi, 25enne coordinatore dell’Emilia-Romagna, uno che la politica la respira da quando è maggiorenne: «Nella società di oggi, chiediamo che non ci sia più ambiguità sui diritti. Esistono posizioni divisive su temi così importanti, ma noi giovani le scavalchiamo, prescindiamo da una politica ambigua infestata di retorica spesso usata contro di noi. Lo dimostra la campagna di vaccinazione: noi giovani ci stiamo mostrando più responsabili degli adulti».
Assolti per il caso Trentini. Aiuto al suicidio, Cappato e Mina Welby assolti anche in Appello: “Precedente importante ma Parlamento silente”. Il Riformista il 28 Aprile 2021. Mina Welby e Marco Cappato, rispettivamente copresidente e tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, sono stati assolti dai giudici della corte d’assise d’appello di Genova, che hanno confermato così la sentenza di primo grado. I due erano accusati di aiuto al suicidio offerto al 53enne Davide Trentini, malato di sclerosi multipla, deceduto in una clinica in Svizzera. Il procuratore generale Roberto Aniello aveva chiesto la conferma dell’assoluzione. Prima della sentenza di assoluzione Cappato aveva ribadito la richiesta di “regole certe di legalizzazione dell’eutanasia per le persone che adesso vivono questa urgenza. Il tribunale a Genova può stabilire un precedente importante sul diritto anche per le persone che non sono attaccate a una macchina, ma per la legge nell’inerzia del parlamento puntiamo a raccogliere le firme sul referendum e a quel punto saranno direttamente i cittadini italiani a scegliere. Oggi c’è in gioco la libertà delle persone di poter scegliere, alla fine della propria vita se in condizioni di sofferenza insopportabile di malattia, di terminare la propria sofferenza. Il parlamento italiano non si assume la responsabilità di una decisione e quindi l’unica aula dove si discute è quella del tribunale. Non si può attendere quattro anni e nove udienze per vedere affermato un diritto”. Una decisione che secondo Cappato “stabilisce un precedente importante cioè che non sia necessario essere attaccati ad una macchina per essere aiutati a morire se si è anche dipendenti da un trattamento di sostegno vitale. Ma ci sono voluti quattro anni e nove udienze per arrivare alla conferma di questo risultato”. Per Massimiliano Iervolino e Giulia Crivellini, segretario e tesoriera di Radicali Italiani, l’assoluzione di Mina Welby e Marco Cppato “è un’altra vittoria di civiltà dopo quella di ieri che ha assolto Walter De Benedetto dall’accusa di coltivazione di sostanza stupefacente. “Temi tradizionalmente radicali come la legalizzazione della cannabis e dell’eutanasia per ora si affrontano solo nei tribunali – che pure rispondono assolvendo – mentre il Parlamento continua a rimanere in silenzio. Quindici anni fa l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano disse a Piergiorgio Welby che in materia di fine vita ‘l’unico atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio’. Nel 2013 abbiamo raccolto insieme all’Associazione Luca Coscioni 70 mila firme sulla proposta di legge di iniziativa popolare “EutanasiaLegale”. Ci sono state poi le storie, le lotte, tra cui quella di Davide Trentini, di DjFabo, dei loro famigliari e delle migliaia di persone che chiedono solo il diritto di morire con dignità'”, si legge in una nota dei Radicali..
Giancarlo Aimi per mowmag.com il 2 maggio 2021. È stato definito “il disobbediente tranquillo”, ma nonostante la mitezza sta portando avanti alcune delle battaglie civili più importanti degli ultimi anni. Difficile tenere il conto. Per rimanere a quelle recenti, è stato assolto (insieme a Mina Welby) dall'accusa di assistenza al suicidio offerto a Davide Trentini, malato di Sla e morto in una clinica in Svizzera nel 2017. Una sentenza storica, che ora apre la strada al referendum per il diritto all’eutanasia. Nel frattempo, si sta spendendo nella campagna Stop Global Warming, con la raccolta firme per chiedere all’Europa di fermare il climate change spostando le tasse dal lavoro alla CO2, idea supportata da 27 premi Nobel e oltre 5mila scienziati. Come se non bastasse, ha avviato anche in Italia Politici per caso, comitato promotore di un nuovo strumento di governance democratica: le assemblee di cittadini estratte a sorte per discutere di temi importanti, visto che è convinto non basti più esprimersi soltanto alle urne a distanza di anni. Tutto questo, Marco Cappato lo sta portando avanti senza ricoprire cariche istituzionali. Insomma, c’è vita oltre il Parlamento. E mentre tutti correvano a candidarsi, lui ha lasciato ogni carica rappresentativa e si è trasformato in un attivista puro attraverso l’associazione Luca Coscioni e il movimento Eumans ottenendo un risultato dopo l’altro. Lo abbiamo intervistato perché questo mese ricorrono due date importanti: il 19 maggio sono 5 anni dalla scomparsa di Marco Pannella, lo storico leader dei Radicali e suo padre spirituale. E il 25 “Marco il Giovane” – com’era chiamato quando iniziò a farsi strada nel partito – compirà 50 anni tondi tondi.
Cappato, partiamo dall’assoluzione di qualche giorno fa. Se la aspettava o ha temuto il peggio?
È stato un passo importante, più che per noi per tutti. Noi ci siamo autodenunciati, per cui non avevamo paura per l’esito finale. Però il precedente che è stato stabilito è che non è obbligatorio rimanere attaccati a una macchina per sopravvivere se non lo si ritiene più opportuno.
Ora sarà più facile arrivare a una legge sul diritto all’eutanasia?
È quello che vogliamo, ma il Parlamento avrebbe dovuto già rispondere alla Corte costituzionale che per due volte l’ha richiesta. Anche perché questa vicenda processuale è durata 4 anni e 9 udienze di tribunale fra primo e secondo grado. Non è immaginabile che un malato terminale debba ogni volta affrontare un iter così lungo. In assenza di una legge, attraverso il referendum vogliamo stabilire il principio fondamentale alla legalizzazione all’eutanasia.
Parallelamente sta portando avanti la campagna Stop Global Warming. Vi servono 1 milione di firme entro luglio. Perché è così importante anche per il nostro paese aderire?
Qui il problema è che, da un lato i governi sembrerebbero essersi resi conto della necessità di intervenire e sono stati fissati obiettivi molto ambiziosi sulla riduzione di emissioni di CO2 e sulla neutralità carbonica, ma quel che non è chiaro sono gli impegni vincolanti sul come arrivarci. Qui subentra la nostra proposta, cioè di far pagare un prezzo minimo per le emissioni, spostando le tasse dal lavoro, da tassare men, verso le emissioni da tassare sempre di più. Il tutto, utilizzando gli strumenti dell’economia di mercato per incentivare il risparmio energetico e l’uso di fonti rinnovabili.
Da qualche anno non fa più parte dei Radicali, non ricopre cariche elettive, non ha ruoli istituzionali. Ma chi è oggi Marco Cappato politicamente?
Faccio politica senza né elezioni né essere eletto da qualche parte, ma attivando gli strumenti della partecipazione civica e della non violenza. Non voglio ripudiare una storia o prendere le distanze dalle posizioni di questo o quel partito, semplicemente ritengo urgente oggi fare politica in modo diverso. Perché la politica elettorale è orientata al breve periodo, mentre i grandi problemi del nostro tempo, dai cambiamenti climatici alle conseguenze delle rivoluzioni digitale, scientifica e dell’intelligenza artificiale travalicano i confini degli stati nazionali e vanno governate con l’occhio al lungo periodo e non al consenso immediato del marketing della campagna elettorale. Sono quindi un attivista politico, con l’associazione Luca Coscioni e il movimento Eumans e utilizzo gli strumenti di partecipazione popolare.
La sanità è uno dei temi cardine, come ha dimostrato anche lei in alcune battaglie recenti. Ma lei ha fiducia nel ministro Speranza, che sulla pandemia è stato aspramente criticato?
Credo che sia difficile puntare il ditino di fronte a una tragedia enorme che nessuno aveva previsto. In realtà avrebbe dovuto esserci un piano prevenzione pandemica che molti governi precedenti non hanno mai rinnovato. Su quello c’è stata una responsabilità della politica. Oggi penso che il peggio sia stato dato nella gestione delle informazioni e dei dati. A 14 mesi di distanza non sono ancora stati messi a disposizione della comunità scientifica e sono ancora gestiti centralmente soltanto dal governo. Credo che diffonderli avrebbe contribuito positivamente sulle misure da prendere. E poi ci sarebbero le riforme…
A cosa si riferisce?
Le riforme strutturali più urgenti come sul potenziamento della ricerca scientifica e della medicina sul territorio, la telemedicina, la medicina a domicilio e l’assistenza psichiatrica, sulle quali purtroppo non mi sembra siano stati dati segnali concreti.
Mentre lei combatte battaglie su temi civili rischiando in prima persona e andando spesso e volentieri a processo, cosa prova a vedere Matteo Renzi che fa la spola tra l’Italia e l’Arabia Saudita e viene accusato di fare più gli interessi di un paese discutibile dal punto di vista dei diritti umani, rimanendo comunque senatore della Repubblica italiana?
In questi casi le regole sono più adeguate dei richiami alla moralità, perché se una commistione così forte tra interessi privati e ruoli istituzionali è possibile evidentemente è perché non si sono poste regole adeguate. Per esempio, per separare con un lasso di tempo adeguato l’assunzione di incarichi aziendali da ruoli politici. Renzi non è l’unico. Anche Minniti guida una Fondazione promossa da Leonardo e Padoan è entrato nel Cda di Unicredit. Per cui, invece di prendermela con il comportamento del singolo, sarebbe meglio avere delle norme che impediscono alla radice questo tipo di commistione di interessi.
Non mi dica che non le fa un certo effetto, quando entra in libreria, vedere l’autobiografia di Roberto Formigoni, proprio a lei che nel 2010 ne denunciò l’illegittimità di essere eletto per la quarta volta presidente della Lombardia…
Io con Formigoni ho vinto due cause per diffamazione con il pignoramento di una parte della sua liquidazione per avere ripagato il danno che non voleva pagare. Noi avevamo scoperto una truffa elettorale senza la quale non avrebbe potuto neanche candidarsi. Se la magistratura fosse intervenuta subito, non sarebbe diventato presidente per la quarta volta della regione Lombardia e gli avremmo evitato tanti guai. Su quell’ultimo mandato, infatti, si sono concentrate le inchieste e i processi per i quali è stato chiamato a pagare un pensante dazio. Di certo è una persona che ha esperienza e attraversato molte vicende interessanti, per cui non è un problema che abbia scritto un libro, ma che abbia potuto impunemente violare le leggi senza che le responsabilità siano state accertate in tempo utile.
Dopo il caso Palamara ogni giorni escono nuovi scandali che interessano la magistratura italiana. Ma si può ancora avere fiducia nella giustizia?
Bisogna vedere se si poteva già avere... Io non l’avevo già prima fiducia nel sistema giustizia. La maggior parte dei magistrati fanno un grande lavoro e mettono a rischio la propria incolumità, ma il sistema di governo della giustizia è gestito con logiche clientelari e spartitorie, questo da tempo. Il referendum di Enzo Tortora che chiedeva la responsabilità civile dei magistrati è degli anni ’80. E anche qui vale la stessa risposta per il conflitto di interessi: sono necessarie le regole. Non ci si può basare solo sui buoni magistrati. Il potere giudiziario oggi è fondamentalmente irresponsabile e governato da un sistema di correnti. Se non lo si aggredisce con responsabilità civile dei magistrati, con la separazione delle carriere e il rispetto dei diritti degli imputati e dei detenuti non si riforma la giustizia.
Il 19 maggio ricorrono i cinque anni della morte di Marco Pannella. Cosa le manca di più?
Pannella era riuscito a tenere insieme la lotta istituzionale con quella fuori dal palazzo, onorando le istituzioni ma attivando all’esterno tutti gli strumenti della non violenza politica. Credo sia l’insegnamento più forte che ha lasciato, perché è quello di cui ci sarebbe più bisogno oggi. Le istituzioni sono invece sempre più sconnesse dalla realtà e anche le organizzazioni sociali rinunciano troppo spesso a interagire con loro e con la politica. Questo impoverisce sia l’uno che l’altro fronte di iniziativa.
Invece lei, che al tempo dei Radicali veniva chiamato “Marco il Giovane”, il 25 maggio compirà 50 anni. Con che spirito arriva a questa data?
È un’ottima data per scherzarci sopra con gli amici. Però non ha per me un particolare significato.
Il prossimo sogno di Marco Cappato?
Proprio in questi giorni abbiamo posto una nuova questione molto importante, che sta prendendo piede in altri paesi europei. Mi riferisco alle assemblee di cittadini estratti a sorte sui temi più importanti. Credo sia un contributo decisivo per uscire dalla trappola del consenso immediato nella quale è costretta la politica elettorale. Lo stiamo facendo con la proposta di legge PoliticiPerCaso.it e spero che presto otterremo questo risultato.
Mauro Zanon per "il Giornale" il 7 aprile 2021.
«Tesi numero 1: nessuno ha voglia di morire. In generale, si preferisce una vita indebolita a un'assenza totale di vita; perché si può ancora beneficiare di piccole gioie. La vita, ad ogni modo, non è forse, e quasi per definizione, un processo di indebolimento? Ed esistono forse altre gioie al di fuori delle piccole gioie (questa cosa meriterebbe un approfondimento)?
Tesi numero 2: nessuno ha voglia di soffrire. Di soffrire fisicamente, intendo. La sofferenza morale ha un suo fascino, si può persino farne una materia estetica (e io non mi sono privato dal farlo). La sofferenza fisica, invece, non è altro che un vero e proprio inferno, svuotato di interesse così come di senso, da cui non si può trarre alcun insegnamento. La vita potrà anche essere stata descritta sommariamente (e ingannevolmente) come una ricerca del piacere; ma sicuramente è molto più un evitamento della sofferenza; e pressoché chiunque, posto dinanzi all'alternativa tra una sofferenza insostenibile e la morte, sceglie la morte.
Tesi numero 3, la più importante: la sofferenza fisica può essere eliminata. All'inizio del Diciannovesimo secolo: scoperta della morfina; da allora sono apparse un gran numero di molecole simili. Alla fine del Diciannovesimo secolo: riscoperta dell'ipnosi; continua a essere poco utilizzata in Francia. L'omissione di questi fatti può spiegare da sola i sondaggi sconcertanti in favore dell'eutanasia (96% di opinioni favorevoli, se mi ricordo bene)».
Inizia così l'intervento dello scrittore francese Michel Houellebecq sul tema dell'eutanasia, nella settimana in cui verrà discussa in Parlamento una proposta di legge che mira a legalizzarla. La presa di posizione di Houellebecq, apparsa ieri sulle pagine del Figaro, nasce dalla volontà di scuotere un'opinione pubblica assuefatta dal pensiero unico in materia bioetica. «I sostenitori dell'eutanasia fanno i gargarismi con parole di cui sviano il significato, a tal punto che non dovrebbero nemmeno più avere il diritto di pronunciarle. Nel caso della compassione, la menzogna è palpabile. Nel caso della dignità, siamo di fronte a qualcosa di più insidioso. Ci siamo seriamente allontanati dalla definizione kantiana di dignità sostituendo gradualmente l'essere morale (negando la nozione stessa di essere morale?) con l'essere fisico, rimpiazzando la capacità propriamente umana di agire per obbedienza all'imperativo categorico con la concezione, più animale e più piatta, di stato di salute, che è diventato una specie di condizione di possibilità della dignità umana, fino a rappresentarne l'unico vero significato», scrive lo scrittore francese. La litania secondo cui la Francia sarebbe «in ritardo» rispetto a «Paesi più civili» lo fa sorridere: «La motivazione del progetto di legge a favore dell'eutanasia che verrà presto depositato è comica a questo proposito: cercando i Paesi rispetto ai quali la Francia è in ritardo, si trovano il Belgio, l'Olanda e il Lussemburgo; non sono molto impressionato». Dietro il vento che soffia verso la legalizzazione dell'eutanasia, ci sono anche le «sordide ragioni» di alcuni economisti: «È stato Jacques Attali che, in un vecchio libro, ha insistito molto sul costo per la comunità di mantenere in vita persone molto anziane; e non c'è da stupirsi che Alain Minc, più recentemente, sia andato nella stessa direzione, Attali è solo un Minc più stupido». I cattolici proveranno a resistere «ma, triste a dirsi, ci siamo più o meno abituati al fatto che i cattolici perdano ogni volta», sottolinea Houellebecq, prima di aggiungere: «Rimangono i medici, sui quali avevo riposto poche speranze, probabilmente perché li conoscevo poco, ma è innegabile che alcuni di loro resistano e rifiutino ostinatamente di dare la morte ai loro pazienti, e forse rimarranno l'ultima barriera. Non so da dove provenga questo coraggio, forse è solo il rispetto del giuramento di Ippocrate». Per Houellebecq, la battaglia contro l'eutanasia non è solo una battaglia per salvare «l'onore di una civiltà» ma anche, dal punto di vista antropologico, «una questione di vita o di morte»: «Dovrò essere molto esplicito: quando un Paese una società, una civiltà arriva a legalizzare l'eutanasia, perde ai miei occhi ogni diritto al rispetto. Diventa allora non solo legittimo, ma auspicabile distruggerlo; in modo che qualcos' altro un altro Paese, un'altra società, un'altra civiltà abbia la possibilità di nascere».
Da tgcom24.it il 7 marzo 2021. E' morto nella clinica svizzera a cui si era rivolto per il suicidio assistito il 34enne sardo Roberto Sanna, malato di Sla da oltre un anno. Ad accompagnarlo nell'ultimo la madre, la fidanzata, il fratello e uno zio. "Per me è un momento di grande dolore per un fatto così privato e intimo di fronte al quale bisogna porsi con rispetto, senza pregiudizi né giudizi che non servono a nessuno. Penso solo che sia bene stare vicini alla famiglia con amore, pregare, comunque s'intenda la preghiera: è un momento molto difficile", aveva detto Carla Medau, sindaca di Pula, la città di Roberto, prima che il giovane morisse. La malattia - La diagnosi per Roberto è arrivata all'improvviso, quando la sclerosi laterale amiotrofica aveva già cominciato a minarne la mobilità. In un anno la malattia è progredita e Roberto ha sentito che non voleva proseguire una vita che non considerava più dignitosa. Consapevole che non avrebbe potuto scegliere il suicidio assistito in Italia, per l'assenza di una legge sul fine vita, il 34enne ha preso contatti, in autonomia, con un centro svizzero e anche con un'agenzia funebre della sua città, una volta che gli era apparsa chiara l'irreversibilità della sua condizione di salute.
15 anni fa la morte per Sla dell'attivista radicale. Luca Coscioni come Giordano Bruno, a 15 anni dalla morte il suo nome fa ancora paura. Maria Antonietta Farina Coscioni su Il Riformista il 20 Febbraio 2021. E infine, giunto allo stremo, a gran voce, grida: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni…», «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Un interrogativo angoscioso, quello che riporta Marco nel suo Vangelo (15, 34-35). Gesù il Nazareno lo sa che il suo sacrificio si inserisce in un disegno divino, di cui lui, consapevole e consenziente, è parte integrante. E tuttavia, quella disperata invocazione… Duemila anni dopo, che cosa possono invocare altri “sacrificati”, loro pure consapevoli ma non consenzienti? Luca Coscioni, piagato (ma non piegato) da una malattia che non lascia scampo, la Sclerosi Laterale Amiotrifica, quante volte, avrà lui pure gridato “dentro”, e chiesto ragione della sua condanna pur innocente… Mille volte me lo sono chiesta; ho cercato risposte senza trovarne, pur avendo vissuto con Luca, e per Luca, tutto il Golgota del suo martirio. Appartiene all’imperscrutabile: perché tra tanti, proprio lui; e perché un percorso prima della morte atroce, così doloroso, angoscioso e angosciante? Senza scomodare l’inconoscibile, perché la tremenda solitudine sua e di noi suoi familiari? Perché tanta indifferenza e perfino fastidio da parte di una società che a parole si dice solidale, partecipe, e fissa tra i suoi doveri, nelle sue leggi, quello di sostenere il debole? Perché questo è accaduto, ai tanti Luca Coscioni, prima che mio marito Luca rendesse “politica”, nel modo letterale e sostanziale, la sua malattia. E accade ancora. L’ho detto mille volte e mille volte lo ripeterò: non sono stati Marco Pannella e il Partito Radicale a strumentalizzarci. Piuttosto il contrario: Luca e io abbiamo strumentalizzato Marco e i radicali; li abbiamo deliberatamente usati, abbiamo imposto loro un fronte di lotta a cui non avevano pensato; siamo entrati nella loro casa, ma l’abbiamo abitata e vissuta, e imposto la nostra presenza.
8 febbraio 1600: Benedetto Mandina, Pietro Millini e Francesco Pietrasanta, cardinali inquisitori, condannano per eresia Giordano Bruno. Il 17 dello stesso mese Bruno è condotto in piazza Campo de’ Fiori a Roma, denudato, legato ad un palo, la lingua serrata da una mordacchia per impedirgli di parlare; arso vivo. Le sue ceneri disperse nel Tevere. Solo 289 anni dopo lo scultore Ettore Ferrari, sostenuto da eminenti personalità (Giosué Carducci, Victor Hugo, Henrik Ibsen, Ernest Renan, Herbert Spencer), può realizzare il monumento che sorge al centro della piazza, vincendo le resistenze e le opposizioni delle autorità ecclesiastiche di allora. E da allora quella statua è il simbolo del libero pensiero; della libertà di ricerca. Quella libertà che ancora oggi (e da quel rogo sono trascorsi 421 anni), minacciata, ostacolata, perseguitata. È una forzatura sostenere che i Giordano Bruno di oggi sono le persone che hanno condiviso il destino di Luca Coscioni? 421 anni fa, anche Luca sarebbe stato messo al rogo, colpevole di invocare quella dea che dovrebbe essere da tutti venerata e difesa: la libertà. Non lo hanno messo al rogo, ma la mordacchia, quella sì: hanno cercato in tutti i modi di impedirgli di fare e di “essere” politica. Le liste con il suo nome non ci dovevano essere, e non ci sono state. Sono saltati accordi politici con forze e partiti progressisti, timorosi di quel nome. Quel che è più grave, si sono frapposti mille e mille ostacoli a scienziati e ricercatori, cui si è impedito in ogni modo di poter fare ricerca: negando loro i fondi necessari, e costruendo attorno al loro “fare” selve e barriere sotto forma di leggi assurde e normative senza senso. Nessuno intende tirare il presidente del Consiglio Mario Draghi per la giacchetta, ma una eco di tutto ciò la si trova nel suo intervento programmatico al Senato. Il presidente Draghi ci esorta a chiederci se abbiamo davvero fatto tutto quello che è in nostro potere, per non deludere le future generazioni, e ci sprona a dare «risposte concrete e urgenti» per non costringerli a «emigrare da un Paese che troppo spesso non sa valutare il merito e non ha ancora realizzato un’effettiva parità di genere». E ancora: «Occorre investire adeguatamente nella ricerca, senza escludere la ricerca di base, puntando all’eccellenza, ovvero a una ricerca riconosciuta a livello internazionale, per l’impatto che produce sulla nuova conoscenza e sui nuovi modelli in tutti i campi scientifici». È quello che chiedeva Luca. Farlo, lavorare in queste direzioni è il modo migliore per ricordarlo, a quindici anni dalla sua morte; per erigere quel monumento a Luca che equivale a quello di Bruno; per aiutare i tanti Luca Coscioni senza volto e voce che vivono tra noi; perché non debbano più gridare anche loro: “Eloì, Eloì, lemà sabactàni!”.
LA STORIA Luca Coscioni nasce il 16 luglio 1967 a Orvieto. È qui che parte il suo impegno politico quando nel 1995 viene eletto consigliere comunale. Lo stesso anno si ammala di sclerosi laterale amiotrofica e decide di dimettersi. Trascorre alcuni anni passando da un ospedale all’altro, da un ricovero a un altro, fino a quando gli viene definitivamente confermata la diagnosi iniziale. Nel 1999 decide di candidarsi alle elezioni amministrative. Questo è il momento in cui comincia a reagire veramente alla malattia e a ritrovare quella passione per la politica che aveva perso. Nel mese di luglio scopre il sito dei Radicali e comincia ad interessarsi alle iniziative e alla storia di questo partito. Nell’aprile 2000 si candida nella Lista Bonino alle elezioni regionali in Umbria. Nel mese di agosto del 2000 diventa membro del Comitato di Coordinamento dei radicali. È così che inizia la sua avventura politica con Marco Pannella e Emma Bonino. Durante i mesi di campagna elettorale 48 Premi Nobel e oltre 500 scienziati e ricercatori di tutto il mondo sostengono la sua candidatura. Luca Coscioni muore il 20 febbraio 2006: la triste notizia è stata data in diretta a Radio Radicale da Marco Pannella.
Maria Antonietta Farina Coscioni: «Io e Luca un unico corpo contro paure e grettezze di questo Paese. Maria Antonietta Farina Coscioni su Il Dubbio il 20 Feb 2021. A quindici anni dalla scomparsa di Luca Coscioni è ancora vivo il suo messaggio per la libertà di ricerca scientifica e dignità della vita. Il ” personale è politico”, si diceva un tempo. Luca Coscioni ed io, questo slogan che si scandiva nelle manifestazioni e nei convegni, lo abbiamo vissuto nel senso più letterale e autentico. Per Luca e per me “personale è politico” è stato una realtà vissuta per anni, ogni giorno: ora dopo ora, minuto secondo dopo minuto secondo. Immagino che molti lettori sappiano chi è stato, cosa ha fatto, che cosa ha rappresentato e rappresenta ancora, Luca Coscioni: il “maratoneta”. Tale era, quando l’ho conosciuto: sportivo appassionato, divideva il suo tempo tra l’insegnamento universitario, la passione per l’economia, lo sport e l’impegno politico e civile locale, nella sua Orvieto. Poi, un giorno, i primi sintomi della terribile malattia, la Sclerosi Laterale Amiotrofica. Una malattia che scolpisce in modo determinante il confine tra un “prima” e un “dopo”. Per lui; e per me, che accetto di sposarlo, di unire le nostre vite in un unico destino; ed è un tutt’uno lottare contro la malattia anche se nessuno di noi si fa illusioni: sappiamo bene che non concede scampo. Ma non ci diamo per vinti e Luca soprattutto è determinato, ostinato, caparbio. Vuole lottare e lotta per il suo diritto alla vita, per la sua dignità; accetta di essere “cavia” e sperimenta su se stesso possibili farmaci nella speranza di dare anche così un contributo perché un giorno la malattia che lo ha colpito possa essere contrastata e vinta. La speranza: non si limita a nutrirla, è lui stesso speranza, col suo “fare” e il suo “dire”; per lui e per migliaia di altri malati di cui nessuno sembra curarsi: la politica li ignora, non vuole conoscere la loro sofferenza, vuole ignorare il loro calvario. Incontriamo il Partito Radicale. Luca lo usa, non ne viene usato. Marco Pannella ha l’intelligenza e la lungimiranza di comprendere che Luca non è solo un corpo martoriato da una malattia. È, come dicevo, quel “personale” che si fa politica, nel senso più alto e nobile. Pannella lo comprende perché anche lui, come Luca, da sempre con il “corpo”, con la sua fisicità, fa politica; e accetta di farsi strumento della politica dettata da Luca. Il Partito Radicale fino a quel momento era digiuno di quelle tematiche che Luca impone e fa diventare un lessico comune: libertà di ricerca scientifica; dignità della vita, ma anche libertà e possibilità di poter decidere se, come e quando non la si ritiene più degna di essere vissuta. Per tutto il tempo che gli è restato da vivere Luca si è battuto per questo; e si può dire che sia riuscito, almeno in parte, nella sua “missione”: quei temi in un modo o nell’altro sono entrati nell’agenda politica. Se ne è presa coscienza e consapevolezza. Certo: Luca in vita ha patito una quantità di odiosi ostracismi. Il suo nome faceva paura al “Palazzo”. Centinaia di premi Nobel, scienziati e ricercatori di tutto il mondo, con il Partito Radicale, si sono mobilitati in suo sostegno e favore. La politica politicante di questo Paese è rimasta insensibile, arcigna e tetragona nelle sue stupide certezze, nelle sue grette paure. Ma siamo stati come la goccia che, instancabile, scava la roccia, non ci siamo arresi, è stata la malattia a vincere Luca, irriducibile sempre. Viviamo in un Paese il cui Parlamento è ancora timoroso di semplicemente discutere una legge sulla eutanasia; un Paese che non lascia libera la ricerca scientifica, e costringe i suoi scienziati e ricercatori ad emigrare; un paese dove ciclicamente accade che si accreditino le terapie più strampalate, che promettono miracolose guarigioni e sono in realtà odiose truffe ai danni di chi soffre e delle loro famiglie. Un Paese i cui codici e le cui leggi sono elenchi sterminati di divieti assurdi, e negano opportunità e facoltà. Con Luca ci siamo impegnati a fondo per liberare questo Paese dai retaggi ideologici da cui è ancora oppresso, e che non sa, non vuole, governare laicamente problemi e questioni che ognuno di noi vive ogni giorno. Luca non ha avuto la possibilità di vederlo, ma quel giorno, un giorno, verrà; e sarà anche per merito suo. Il cammino temo, è ancora lungo, la strada accidentata, tanti gli ostacoli, i trabocchetti. Ha dato tutto se stesso, fino all’ultimo. Il suo esempio ancora ci illumina: è una sorta di stella polare. Tanti sono i messaggi, i videomessaggi che sono arrivati e che stanno arrivando a quindici anni dalla sua scomparsa. A partire dalle 12 di oggi, da Radio Radicale, ricorderò Luca assieme al direttore Alessio Falconio, e con Rita Bernardini, Fausto Bertinotti, Edoardo Camurri, Maria Laura Cattinari, Fabrizio Cicchitto, Stefano Corradino, Stefania Craxi, Sergio D’Elia, Maria Antonietta Farina Coscioni, Lucilla Franchetti, Flavia Fratello, Carlo Fusi, Giuseppe Giulietti, Alessandro Grispini, Luca Landò, Carmen Lasorella, Simona Maggiorelli, Giampiero Mughini, Giuseppe Rossodivita, Mario Sabatelli, Irene Testa, Salvo Toscano, Maurizio Turco, Valter Vecellio, Guido Vitiello, Elisabetta Zamparutti. Le battaglie politiche per cui si è battuto Luca non le abbiamo ancora conquistate come avrebbe voluto e desiderato. Occorrerà fantasia e pragmatismo, flessibilità e determinazione; consapevolezza e volontà di dialogo e confronto.
Adelaide Pierucci per "il Messaggero" il 26 novembre 2021. Il primo colpo di fulmine al Verano, 27 anni fa, era il 1994. Vede la foto di una ragazza fissata su una lapide e la ruba. Perché lo abbia fatto non lo sa spiegare, ma è certo che da quel momento il brivido di circondarsi di ceramiche con volti di giovani ragazze morte lo ha continuato ad attrarre come una droga. Marco C., l'ex elettricista di Portonaccio, divenuto noto alle cronache per aver rubato le ceneri di Elena Aubry recuperate dai carabinieri dopo settimane di ricerche, rischia di dover scontare con un secondo procedimento penale la sua mania di collezionare fotoceramiche di defunte, specie se belle. Il pm Laura Condemi, che gli ha già contestato la sottrazione di cadavere per il furto dell'urna della motociclista morta sull'Ostiense, gli imputa ora, nel filone di indagine relativo alle foto, il reato di ricettazione di 358 immagini, tutte di donne, morte giovani, e particolarmente avvenenti. Per il magistrato il necrofilo ruba-fotografie, infatti, non sempre avrebbe agito direttamente ossia smurando le immagini da lapidi e tombe, ma si sarebbe attivato anche comprando le fotoceramiche, frutto di due reati collaterali commessi da altri, il furto e la violazione di sepolcro. Il necrofilo dopo la chiusura dell'indagine per la ricettazione delle foto cimiteriali, rischia di finire a processo considerato che una perizia lo ha ritenuto sano di mente, escludendo incapacità processuali. La ricostruzione che lui stesso ha fatto della mania lugubre durante la perizia psichiatrica, infatti, è sembrata lucida e coerente. «Ho iniziato nel 1994», ha raccontato l'uomo, «prendendo, per motivi che non so precisare, una foto da una lapide del Verano. In seguito al primo furto ho sviluppato una vera e propria dipendenza. Non sono riuscito più a fermarmi...». «Le più belle - ha sottolineato l'indagato - le tenevo esposte, con le cornici. Per me erano sacre. Altre le nascondevo per non farne vedere troppe». La camera da letto trasformata in camposanto. E su un diario gli appunti dei nuovi acquisti con il giorno del nuovo accaparramento e i dati delle decedute. È così che i carabinieri scoprono anche il giorno del furto delle ceneri di Elena. Il 4 marzo 2020, all'indomani del lockdown: «4.3.20 Presa Elena Aubry Nata 28.10.1992 Morta 6.5.2018», annota il necrofilo nel suo diario. Il successivo aggiornamento è del 5 maggio 2020, alla riapertura del Verano, il giorno in cui Graziella Viviano la madre di Elena si accorge della sparizione delle ceneri della figlia. 'Presa Licia Perla'', morta nel 65 a trent' anni. E, stessa data, 'Presa Alberta Mostacci, 'nata 14.5.1939 morta 22.9.1970'', a 31 anni. L'elenco è lungo, lunghissimo, da brivido. Nell'ultima contestazione il pm conteggia «358 fotografie di donne riprodotte su fotoceramica per lapidi ma anche porzioni di lapidi cimiteriali tra cui quelle di Anna Frezza, Isabella Borsari, Iolanda Braconi», e tante altre ancora. L'indagato, difeso dall'avvocato Daniele Bocciolini, sarà presto interrogato
Nuove accuse al ladro di foto di donne morte. Alessandro Imperiali il 26 Novembre 2021 su Il Giornale. La prima volta al cimitero del Verano 27 anni fa. Non ha mai smesso e oggi è accusato di ricettazione per aver rubato 358 foto dalle tombe. Un ex elettricista di Portonaccio di nome Marco C., noto alle cronache per aver rubato le ceneri di Elena Aubry, rischia di dover subire un nuovo procedimento penale. Questa volta il reato che gli viene contestato è la ricettazione: hanno trovato a casa sua 358 immagini tutte di donne con in comune due cose: la bellezza e l'essere morte giovani. Il pm Laura Condemi, lo stesso che già gli ha contestato la sottrazione di cadavere per il furto della motociclista morta sull'Ostiense (fortunatamente le ceneri furono ritrovate dopo settimane di lavoro dai carabinieri) gli imputa anche il furto e la violazione di sepolcro. Il magistrato, stando a quanto riporta il Messaggero, ritiene che il necrofilo ruba-fotografie non abbia sempre agito da solo, smurando le immagini da lapidi e tombe, ma spesso le abbia comprate. L'uomo rischia di finire a processo dal momento che una perizia lo ha ritenuto sano di mente. La prima volta che l'uomo ha rubato una fotoceramica è successo al Verano nel 1994, ventisette anni fa. Osserva attentamente la foto di una ragazza fissata su una lapide e decide di rubarla. Da quel momento non è mai riuscito a smettere. Una mania lugubre anche se la perizia psichiatrica ha descritto la sua mente come lucida e coerente. "Ho iniziato nel 1994 - spiega l'uomo - prendendo, per motivi che non so precisare, una foto da una lapide del Verano. In seguito al primo furto ho sviluppato una vera e propria dipendenza. Non sono riuscito più a fermarmi". Nel suo racconto sottolinea: "Le più belle le tenevo esposte, con le cornici. Per me erano sacre. Altre le nascondevo per non farne vedere troppe". Senza dimenticare il diario dove scriveva cosa era riuscito ottenere quel giorno e i dati della vittima. Proprio così i carabinieri sono riusciti a scoprire il giorno del furto delle ceneri di Elena Aubry. Ma l'elenco è lunghissimo, dettagliato e da brividi: "4.3.20 Presa Elena Aubry Nata 28.10.1992 Morta 6.5.2018". Oppure "Presa Licia Perla'', morta nel 65 a trent' anni. Ancora, nello stesso giorno: "Presa Alberta Mostacci, 'nata 14.5.1939 morta 22.9.1970''. Stando alla contestazione del pm sono state conteggiate "358 fotografie di donne riprodotte su fotoceramica per lapidi ma anche porzioni di lapidi cimiteriali tra cui quelle di Anna Frezza, Isabella Borsari, Iolanda Braco". A breve verrà interrogato anche l'avvocato che difende l'uomo, Daniele Bocciolini.
Alessandro Imperiali. Nato il 27 gennaio 2001, romano di nascita e di sangue. Studio Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Sapienza e ho preso la maturità classica al Liceo Massimiliano Massimo. Sono vicepresidente dell'Associazione Ex Alunni Istituto Massimo e responsabile di ciò che riguarda il terzo settore. Collaboro con ilGiornale.it da gennaio 2021 e con Rivista Contrasti. Ho tre credo nella vita: Dio, l’Italia e la Lazio.
Ospedale Sacco, soldi per entrare all'obitorio e in camera mortuaria: il caso sconvolge Milano, tre arresti. ". Libero Quotidiano il 30 settembre 2021. Smantellato un giro di corruzione all'obitorio dell'ospedale Sacco di Milano, dove in cambio di denaro veniva garantito a impresari delle onoranze funebri libero accesso alla camera mortuaria e alla documentazione relativa ai decessi. Stando a quanto riporta l'Adnkronos, l'indagine è partita da quattro esposti e ora il gip Stefania Donadeo ha emesso tre misure cautelari nei confronti di un operatore obitoriale dell'Asst Fatebenefratelli Sacco e di due dipendenti di onoranze di Milano e Baranzate. Per il primo è scattata la sospensione dall'esercizio del pubblico servizio, per i secondi il divieto di esercitare l'attività di impresario funebre. Con gli esposti si denunciavano in particolare atteggiamenti confidenziali tra impresari delle onoranze funebri e operatori obitoriali, i quali consentivano agli impresari stessi l'accesso alla camera mortuaria senza che vi fosse richiesta dei parenti del defunto. Non solo, perché veniva loro consegnata anche la documentazione sui cedessi in cambio di denaro. A partire da febbraio 2021 sono anche state intercettate delle conversazioni che per gli inquirenti sono state indicative di una diffusa pratica corruttiva. In particolare l'operatore sospeso era costante in queste condotte contro il regolamento aziendale per i decessi intraospedalieri e per l’accesso alle camere mortuarie dell’Asst, per le quali riceveva contanti dalle onoranze funebri.
Cesare Giuzzi per corriere.it il 16 settembre 2021. La storia sembrava la trama di un film dell’orrore. Teschi umani nascosti dentro pacchi diretti all’estero e intercettati per caso dagli addetti alle spedizioni del corriere Ups di via Fantoli. Due pacchi indirizzati in Svizzera e a San Francisco negli Stati Uniti d’America. Uno spedito il 28 agosto e l’altro il 29, con all’interno addirittura tre teschi. Un mistero che per qualche giorno aveva fatto temere incredibili intrighi internazionali, macabri riti satanici e addirittura l’ombra di un serial killer. La realtà però è stata svelata in una settimana d’indagine dei carabinieri della compagnia Monforte che hanno ricostruito (almeno in parte) i contorni di questa vicenda e denunciato per traffico di resti umani tre persone tra Milano e il Piemonte. Si tratta di collezionisti che rivendevano le ossa attraverso i canali commerciali web di eBay e Facebook: un commercialista, un tecnico informatico e un ingegnere. Tutti e tre si sono definiti «appassionati» del genere e si sono giustificati sostenendo di non sapere che in Italia sia vietato detenere ossa umane per scopi non scientifici e soprattutto rivenderle. Tanto che avevano indicato nome e indirizzo del mittente sui pacchi. Una giustificazione però piuttosto improbabile visto che i tre — che pare in realtà non si conoscessero tra loro — avevano una rete internazionale di contatti che andava dagli Usa alla Svizzera, mentre i resti venivano acquistati dalla Repubblica Ceca. Non si sa ancora se attraverso venditori «leciti» o se sul mercato nero. Per capirlo bisognerà aspettare l’esito delle indagini per rogatoria disposte dal pm Francesco Cajani che ha anche ordinato approfondimenti sui canali di vendita via Internet agli investigatori del pool reati informatici della Procura. Quel che è certo è che i tre avevano una discreta disponibilità di ossa. I carabinieri, infatti, mercoledì hanno perquisito le loro case e hanno trovato parecchi reperti: 15 teschi, tibie, peroni, frammenti di ossa delle braccia e delle gambe con articolazioni complete e due scheletri intatti. Ossa che sono state affidate ai tecnici del Laboratorio di antropologia forense di Medicina legale, guidato dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo. A loro toccherà datare i reperti e tentare di individuarne la provenienza. Da un primo esame sembra che le ossa siano state disseppellite. Segno che potrebbe trattarsi di reperti trafugati da cimiteri dell’ex Cecoslovacchia. Le ossa, una volta in Italia, venivano messe «in vetrina» sul web e rivendute in tutto il mondo. Un teschio umano in buone condizioni veniva pagato 100 euro e rivenduto a oltre 600. Duecento euro, invece, il costo di un singolo osso. Un mercato macabro ma florido, che in passato aveva interessato soprattutto paesi asiatici. Ma vietato dalla legge in quasi tutti gli Stati.
Da liberoquotidiano.it il 16 agosto 2021. E' esplosa una bara nel loculario del cimitero dell'Aquila che di conseguenza non sarà accessibile per i prossimi giorni. "Il provvedimento si è reso necessario a seguito di un fenomeno particolarmente raro come l'esplosione di una bara all'interno di un loculo", ha spiegato il sindaco Pierluigi Biondi, che ha disposto l'ordinanza di chiusura. L'area dovrà essere ripulita e il feretro recuperato per poi essere nuovamente inumato. "Abbiamo immediatamente allertato l'Azienda sanitaria locale, che non potrà intervenire prima di lunedì mattina (16 agosto, ndr)", ha proseguito il sindaco. "Sino a quel momento, pertanto, l’accesso al loculario sarà interdetto a chiunque non sia autorizzato", ha ribadito l'amministrazione comunale. Il fenomeno è inquietante e raro ma del tutto naturale. Può dipendere da un difetto di funzionamento della valvola di sfiato delle bare che può incepparsi e quindi bloccare il lento defluire dei gas che si formano durante la decomposizione dei corpi. Alcune casse da morto possono essere difettose di loro oppure possono essere state costruite con materiali scadenti, valvole comprese. Non solo. Il caldo torrido di questi ultimi giorni può aver accelerato la decomposizione del corpo e di conseguenza l'innaturale fuoriuscita di gas può aver fatto scoppiare improvvisamente la bara.
"Esplodono le bare": è allarme al cimitero di Palermo. Valentina Dardari il 17 Agosto 2021 su Il Giornale. Nel cimitero dei Rotoli le bare accatastate sono quasi mille. La Lega ha annunciato una interrogazione parlamentare. Il cimitero dei Rotoli di Palermo è in piena emergenza. Sono infatti quasi mille le bare accatastate in attesa di essere interrate. Tutto ha avuto inizio nell’autunno del 2019 e da allora le bare hanno cominciato ad aumentare e, complici le alte temperature degli ultimi mesi, a diventare un "grave pericolo sanitario, perfino secondo il Comune di Palermo. Lo scandalo del cimitero Rotoli nel capoluogo siciliano, sarà oggetto di una interrogazione parlamentare del senatore Matteo Salvini che prossimamente intende fare un sopralluogo" ha fatto sapere l'ufficio stampa della Lega al Senato. Oggi, come riportato da il Giornale di Sicilia, il report di inizio agosto della Reset, partecipata del Comune di Palermo, registra 242 bare a terra e altre 733 sugli scaffali fino a esaurimento posti.
Il cimitero in emergenza dal 2019. Immagine terribile aggravata anche dal gran caldo che, provocando la rottura dei feretri, fa letteralmente “scoppiare” le bare. Il direttore del cimitero, Leonardo Cristofaro, ha spiegato che "senza fosse di inumazione o cassoni di zinco la situazione non potrà che ulteriormente peggiorare sino a diventare un pericolo sanitario grave”. Quello che sta accadendo al camposanto dei Rotoli è una situazione che si protrae dagli anni ’80 ma che dalla fine del 2019 è diventata sempre più preoccupante. Soluzioni tampone adottate negli scorsi anni non sono riuscite a risolvere il problema. Alcuni interventi sono stati programmati in passato, ma nessuno è stato mai fatto o comunque completato. Primo fra tutti quello riguardante le estumulazioni dei loculi a parete lungo l'asse che costeggia la via Papa Sergio, dove in questo modo si potrebbero utilizzare circa mille posti. Proprio il numero che servirebbe adesso. Nel 2020 il cimitero era finito alla cronaca anche per la compravendita illegale dei loculi con un presunto giro di mazzette. Erano stati indagati 8 dipendenti comunali e 2 medici, oltre ad alcune agenzie funerarie. Nel 1982 venne costruito un forno crematorio durante una preoccupante saturazione dei posti. Peccato però che il servizio in questione non funzioni da parecchio, costringendo coloro che vogliono cremare i propri defunti a rivolgersi a Reggio Calabria o a Messina. In progetto ci sarebbe un nuovo forno finanziato nel 2015 con una posta di bilancio di circa 3 milioni di euro, ma non è mai stato fatto. Si è provato anche a un gemellaggio con il cimitero di Sant'Orsola, sempre a Palermo, dove dirottare lentamente qualche decina di feretri. Ma anche questa soluzione non ha aiutato granchè.
Salvini farà un sopralluogo. Nelle ultime settimane la situazione è peggiorata ulteriormente. Prima di Ferragosto Cristofaro ha scritto al capo di gabinetto Sergio Pollicita, spiegando che "a causa della mancanza di fosse dove operare inumazioni, oltre alle elevate temperature, numerosi feretri hanno cominciato a percolare copiosamente. La situazione è ormai tale da imporre l'immediata inumazione o l'acquisto improcrastinabile e urgentissimo di un congruo numero di sovracasse di zinco destinate a contenerli". A intervenire è stato il leader della Lega Matteo Salvini che ha annunciato una interrogazione parlamentare. In una nota l’ufficio stampa del Carroccio ha sottolineato che vi sono bare accatastate da mesi e che adesso, complici le alte temperature, possono diventare un grave pericolo sanitario. “Lo scandalo del cimitero Rotoli nel capoluogo siciliano sarà oggetto di una interrogazione parlamentare del senatore Matteo Salvini che prossimamente intende fare un sopralluogo" è stato infine comunicato.
Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.
Barbara Palombelli denuncia: "Mia zia morta e senza sepoltura". Ecco da quanto tempo: altro orrore a Roma. Libero Quotidiano il 29 aprile 2021. Dopo il duro sfogo del deputato del Pd Andrea Romano, che da mesi attende di seppellire il figlio 24enne morto, arriva quello di Barbara Palombelli. Ancora una volta si parla della Capitale a guida grillina: "Penso al caos dei cimiteri di Roma. A mia zia in attesa di sepoltura dal 5 marzo…a mio cugino addolorato… e mi chiedo cosa possiamo fare, a parte continuare a parlarne in tv". La conduttrice di Stasera Italia ha perso la zia quasi due mesi fa e ancora attende di poterle garantire una degna sepoltura. Come lei centinaia di cittadini che denunciano le condizioni in cui riversa Roma, gestita dalla sindaca Virginia Raggi. È stata proprio lei a intervenire in seguito allo scandalo fatto emergere da Romano. Per il dem non è bastata la morte del figlio per una grave malattia che aveva fin dalla nascita. Ad aggiungersi anche l'impossibilità, una volta cremato, di farlo tumulare nella tomba di famiglia nel cimitero del Verano. "Ciò che è accaduto alla famiglia di Andrea Romano e ad altre famiglie è ingiustificabile. Sono vicina a tutti loro – aveva dichiarato Raggi nei giorni scorsi – Posso solo immaginare lo strazio e il terribile dolore che stanno vivendo. Ho convocato Ama che mi ha assicurato di stare lavorando ad una soluzione per dare risposte ai cittadini in questo momento di emergenza coronavirus". Eppure sono migliaia le bare impilate all'interno dei depositi in attesa di essere cremate o tumulate. Una situazione che ha dell'assurdo. Tanto da spingere i dirigenti romani della Lega, Fabrizio Santori e Monica Picca, con la portavoce del Comitato per la Tutela dei Cimiteri Flaminio Prima Porta Verano e Laurentino, Valeria Campana, a presentare un esposto presso la Procura della Repubblica con lo scopo di "esortare scelte congrue ed efficienti per trovare in tempi rapidi soluzione ad una situazione inammissibile con il fine di riportare rispetto e decoro nei cimiteri romani".
Felice Cavallaro per corriere.it il 27 marzo 2021. Il dramma e la vergogna delle bare accatastate fra magazzini e tendoni di fortuna si consuma da anni in una Palermo dove sulla gestione dei cimiteri la procura della Repubblica ha aperto sei inchieste con arresti e incriminazioni. Periodicamente arrivano impegni e promesse per risolvere un problema che invece si amplifica. Appena due mesi fa il sindaco Leoluca Orlando, sostituito l’assessore al ramo, aveva detto di assumersi ogni responsabilità: «Comprese quelle non mie perché un cittadino non può tirarsi indietro». Ne parlò dopo Capodanno davanti all’imbarazzo di 600 bare ammucchiate al cimitero dei Rotoli. E adesso, più di due mesi dopo, abbiamo superato le 800 bare che un consigliere di opposizione, il leghista Igor Gelarda, ha filmato con il suo cellulare.
La concessione dei loculi. Un documento che, al di là di ogni contrapposizione politica o di ogni eventuale uso strumentale, costituisce una denuncia pesante. Orlando aveva detto a gennaio, con una certa soddisfazione, che su questa drammatica questione un po’ tutti stavano forse evitando speculazioni elettorali. E tanti hanno atteso i progetti annunciati. A cominciare dal reperimento di alcune centinaia di posti per procedere a una riduzione delle concessioni dei vecchi loculi da 50 a 30 anni, in modo da liberarne in prospettiva più di tremila. Seppure con disappunto di chi vorrebbe potere continuare a pregare i propri cari là dove riposano.
L’affare del forno crematorio. Devastante il quadro illustrato da Gelarda: «Ci sono 800 salme a deposito, molte per terra, fra tensostrutture e vari depositi disseminati all’interno cimitero». Nessuna notizia sull’annunciata sistemazione del vecchio forno crematorio. Altra vergogna che si trascina da anni con soddisfazione di chi offre costosissimi servizi trasportando le bare dalla Sicilia fino in Campania per le operazioni relative. E il nuovo forno crematorio tante volte annunciato? «Manca il collegamento con la rete fognaria, un grosso problema», hanno risposto i responsabili del cimitero a Gelarda che invoca date certe sul progetto del nuovo cimitero. Anche questo rimasto sulla carta in una città dove già si parla di trasferire alcune centinaia di salme in altre regioni. Senza pace per chi se ne va e per chi resta piangendo sotto un capannone.
Resti della figlia scomparsi dal cimitero, giudice condanna i genitori (che chiedevano risarcimento…). Viviana Lanza su Il Riformista il 6 Maggio 2021. «Il sentimento di pietà per i defunti, inteso quale diritto soggettivo degli attori ad esercitare il culto dei propri morti, non è di necessità automaticamente leso». Così i giudici della sezione civile della Corte di appello di Napoli hanno respinto il ricorso presentato da una coppia di coniugi di Pozzuoli che nel 2003 perse la figlioletta a poche ore dal parto e poche settimane dopo scoprì che i resti della piccola erano spariti dal cimitero della cittadina flegrea. In questi 17 anni i due genitori hanno cercato di avere giustizia, ritenendo di non doversi rassegnare al fatto di non avere una tomba per la loro bambina, e mai avrebbero pensato che a essere condannati sarebbero stati proprio loro: ebbene sì, i giudici li hanno condannati a pagare 9mila di spese legali in favore del Comune di Pozzuoli. «È allucinante», tuona l’avvocato Angelo Pisani che assiste la coppia, annunciando ricorso in Cassazione e alla Corte europea dei diritti dell’uomo. «Scriveremo anche a Papa Francesco», annuncia il legale. La vicenda sembra destinata a diventare un caso. Nei motivi della decisione i giudici sostengono che «i genitori potrebbero pur sempre continuare a praticare i riti tipici del culto dei defunti, contraddistinto da una spiritualità che si esprime in larga parte in preghiere, ricordi, pensieri, commozioni. Detti sentimenti non di necessità debbono mutare sol perché non vi è l’assoluta certezza che nella fossa contrassegnata dal numero o in area cimiteriale vicina a quella fossa vi siano i resti del feto comunque destinati a rapidissima distruzione per consunzione», si legge in uno dei passaggi della sentenza che la difesa dei coniugi è intenzionata a impugnare. «La legge 30 marzo 2001, numero 134, ad esempio – continuano i giudici – consente, in presenza di determinati presupposti, la dispersione delle ceneri dei cadaveri anche in mare, nei laghi e nei fiumi». Come a dire che la tomba non è necessaria. «In dottrina – si legge ancora nella sentenza – è stato osservato come in tali casi i congiunti eserciteranno pur sempre il culto dei loro cari defunti, le cui ceneri sono state disperse, invece che davanti a una tomba, con altre modalità ma certamente i loro sentimenti non cambieranno, rimarranno pur sempre i ricordi, i pensieri, le commozioni». I genitori di Pozzuoli, però, non avevano scelto di cremare la loro piccola e disperderne le ceneri in mare o altrove: avevano scelto di darle sepoltura in cimitero. Infatti, quando a luglio 2003 la piccola morì, il papà della neonata si recò personalmente al cimitero di Pozzuoli, consegnando tutti i documenti al personale amministrativo e il feretro agli operai inumatori. Fu assegnato un numero alla fossa e lì avvenne la sepoltura a cui il papà della piccola assistette assieme a un cognato. A poche settimane dalla tragedia, sulla tomba della piccola i due genitori notarono la presenza di fiori freschi diversi da quelli che abitualmente portavano e fu così che scoprirono che dinanzi alla stessa tomba pregava un’altra mamma che aveva prematuramente perso il suo bambino. Scattò quindi un’indagine e dalle verifiche emerse che nella fossa non erano più presenti i resti della figlia della coppia di Pozzuoli, ma solo quelli dell’altro bambino. «Tale incresciosa situazione era senza dubbio conseguenza diretta e immediata di un errore esclusivo del personale addetto ai servizi del cimitero di Pozzuoli che per negligenza, omissioni e gravi superficialità organizzative – si legge nel passaggio della sentenza in cui si ricostruiscono i fatti – aveva omesso di annotare le operazioni di sepoltura determinando la sepoltura di un altro bambino nella stessa fossa». In sede penale l’indagine fu archiviata per assenza del dolo. E per i genitori della piccola non ci sarà alcun ristoro, nessun diritto e nessun risarcimento per il danno subìto. Anzi, la sentenza dell’altro giorno in sede civile ha stabilito che quei genitori debbano pagare tutte le spese del processo e piangere la loro piccola a casa loro o dove vogliono, ma non al cimitero.
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
La paradossale vicenda di Pozzuoli. Resti della figlia scomparsi dal loculo, polemiche dopo sentenza choc: “Risparmiateci lezioncine sui sentimenti”. Salvatore Prisco su Il Riformista il 7 Maggio 2021. La vicenda sulla quale ha richiamato l’attenzione il Riformista nel suo numero di ieri si riepiloga in poche parole, dolorosamente semplici. A Pozzuoli, all’esito di una gravidanza all’evidenza problematica, nasce prematuramente una bambina. Viva, si badi, ancorché destinata a una rapidissima fine che purtroppo sopravviene. I genitori si attivano per una dignitosa sepoltura, o almeno credono di farlo, giacché – essendosi dopo qualche tempo proceduto all’esumazione del corpicino – constatano che, nel loculo in cui avrebbero dovuto trovare custodia e riposo, le spoglie non ci sono più e ce ne sono altre o forse nessuna. Ne nasce un giudizio civile contro il Comune e gli operatori dei servizi cimiteriali, che – dopo un primo grado – giunge alla cognizione della Corte d’Appello di Napoli, la quale con propria sentenza non solo disconosce la pretesa di una famiglia, ovvia in ogni Paese che voglia dirsi civile, ad avere un luogo certo in cui piangere il proprio caro, visto che alla custodia degli addetti i suoi resti erano stati pietosamente affidati, ma condanna financo alle spese i “temerari” appellanti. Sui profili giuridico-formali di questa decisione si è già dottamente intrattenuto, commentandola con la sua solita elegante penna, il collega Marco Plutino. Non su questo punto mi interessa oggi infatti ritornare, ma su un altro aspetto. Premetto che non sono solito commentare decisioni giudiziarie che non abbia letto e studiato e non intendo contraddirmi nemmeno adesso. Mi limito a qualche osservazione sul tenore dei passi della decisione che riporto di seguito: «I genitori potrebbero pur sempre continuare a praticare i riti tipici del culto dei defunti, contraddistinto da una spiritualità che si esprime in larga parte in preghiere, ricordi, pensieri, commozioni. Detti sentimenti non di necessità debbono mutare sol perché non vi è l’assoluta certezza che nella fossa contrassegnata dal numero o in area cimiteriale vicina a quella fossa vi siano i resti del feto comunque destinati a rapidissima distruzione per consunzione. La legge 30 marzo 2001, numero 134, ad esempio (…) consente, in presenza di determinati presupposti, la dispersione delle ceneri dei cadaveri anche in mare, nei laghi e nei fiumi (…) In dottrina è stato osservato come in tali casi i congiunti eserciteranno pur sempre il culto dei loro cari defunti, le cui ceneri sono state disperse, invece che davanti a una tomba, con altre modalità ma certamente i loro sentimenti non cambieranno, rimarranno pur sempre i ricordi, i pensieri, le commozioni». Va ribadito innanzitutto che non si era di fronte al seppellimento di un feto in area cimiteriale, notorio cavallo di battaglia e bandiera di quanti hanno una sensibilità contraria all’aborto volontariamente praticato, ossia che si era inteso seppellire il cadaverino di un corpo nato vivo. Dobbiamo inoltre osservare che, essendo il giudizio che si richiama in appello, la storia si è verificata in epoca pre-pandemica. È stata infatti (come abbiamo tristemente constatato) l’epidemia che ci ha colpiti a imporre di congedarci dai nostri cari ammalati in primo luogo senza poter loro stringere la mano mentre si spegnevano, quindi privandoli e privandoci perfino di un ultimo abbraccio e di un sorriso, non potendoli nemmeno accompagnare al sepolcro e dovendosi cremare i cadaveri anche di chi non avesse disposto in tale senso dopo avere oltrepassato la soglia della vita terrena. In questo caso, tuttavia, il virus non si era ancora manifestato per nulla. Riteniamo che una sentenza del genere, se verrà impugnata, possa ragionevolmente defungere – è con amarezza il caso di dire – in Cassazione, perché non ricorre nella specie quell’eccezionalità di cui siamo stati nell’anno passato testimoni né ci si trova in presenza di eventuali casi analoghi in cui si imponga la dispersione delle ceneri in mare o dall’alto di un monte, che qui non era stata richiesta da alcuno, ma a un caso di triste incuria, se (come pare) il dolo dei becchini andava escluso. Le frasi riportate – con la finale aggiunta, che suona beffarda, della condanna alle spese, quando in genere le si compensa per molto meno – segnalano, come si può facilmente comprendere leggendo sopra, qualcosa di più grave di un errore di motivazione: l’insopportabile lezioncina (nelle intenzioni dell’autore o dell’autrice dei passi richiamati perfino, forse, consolatoria nelle intenzioni, in fatto peraltro irridente) su come ciascuno possa e perfino debba piangere i propri affetti perduti. È singolare il fatto che a ricordarlo debba essere qualcuno che si professa agnostico, quanto a fede religiosa, come accade a chi sottoscrive queste righe. Una certa parte della magistratura italiana ha, in questo momento, molte rogne di cui grattarsi e la responsabilità di evitare le “supplenze” e invadenze ingombranti di cui si è negli anni nutrita. Potrebbe dunque almeno farsi e farci grazia dell’etica e della sensibilità religiosa di Stato, ma del resto non è che si possa poi pretendere l’impossibile: compassione umana, discrezione etica e raffinatezza culturale non sono “materie” il cui superamento sia richiesto in sede di concorso per uditore giudiziario. Salvatore Prisco
Claudia Osmetti per "Libero quotidiano" il 5 maggio 2021. Adesso razziano pure le tombe. Se n' è accorta subito, quando è andata a trovare il suo nipotino che riposa al camposanto di Nocera Inferiore, in provincia di Salerno. Lei, la nonna, quel bambino venuto a mancare troppo presto (ad appena dieci anni) non l' ha mai dimenticato. Va a fargli visita spesso, pulisce la lapide, porta i fiori freschi: il dolore che col tempo non se ne va ma lascia spazio al ricordo che, alle volte, è l' unica cosa a cui ci si può aggrappare. Così entra nel cimitero comunale di Nocera, sono gesti quasi automatici ormai: percorre il viale alberato, forse in mano ha l' annaffiatoio di plastica. Si china per assicurarsi che non ci siano erbacce o foglie secche da rimuovere e resta sbigottita a fissare la piccola tomba. È vuota. Manca la statuetta di un angelo che aveva donato al bimbo un' associazione di assistenza per i malati di tumore. Mancano i fiori che, la donna ne è certa, erano stati portati giorni prima. Mancano altri oggetti. È l' ennesimo furto dentro un luogo sacro, l' ennesimo scippo al camposanto. La nonna non si perde d' animo, è stufa di quella storia: esce dal cimitero ed entra in un commissariato locale, sporge denuncia. Perché se son bravate son di cattivo gusto e se non lo sono, be', a maggior ragione: non si ruba al cimitero. C' è un limite a tutto. Sui social network parte il tam tam, l' indignazione cresce ed è un coro unanime di vergogna-vergogna. Però c' è persino di più: in mezzo alla gente disgustata, che chiede a gran voce controlli più stringenti, iniziano a farsi largo diversi altri commenti. Anche-a-me, è-capitato-lo-stesso, non-è-la-prima-volta. Già, non si tratta di un episodio (incivile e) isolato. A Cellino San Marco (Brindisi) la mamma di un ragazzo di 17anni tragicamente morto in un incidente d' auto, nei giorni scorsi, si accorge che dalla lampada votiva della tomba manca una rosa di cristallo: il valore materiale dell' oggetto è di circa 100 euro, quello emotivo non si può calcolare. Qualche mese fa le avevan portato via pure la foto della lapide. Ma quale riposo eterno, uno non sta in pace neanche al camposanto. Ché prima bisogna sudare sette camicie per scucire una degna sepoltura (vedi lo scandalo dei cimiteri romani, con le bare impilate e gli esposti in procura) e dopo tocca sperare di non incappare in quale mariolo più o meno organizzato. Ragazzate, si dirà. E comunque non ci sono scuse: mica si può sempre far spallucce e dar colpa alla noia. Oppure piani più elaborati, addirittura studiati: ad Andria, in Puglia, quella che sembra a tutti gli effetti essere una banda di malviventi ha approfittato delle recenti chiusure dovute alla zona arancione per intrufolarsi tra i loculi cittadini e scippare 3mila metri di cavi elettrici. Per ripulire l'intero camposanto han divelto numerosi pozzetti di smistamento, adesso indaga la polizia di stato. A Trento (chè il malcostume è quella cosa che si generalizza subito, non ci son differenze territoriali) l'amministrazione comunale ha deciso di comprare qualcosa come sessanta telecamere per vegliare sul riposo dei suoi defunti e per chetare i famigliari che non ne potevano più di portar loro i fiori alla mattina e di non ritrovarli la sera. Vasi, statuette, croci, busti commemorativi e drappelli: non si salva niente. Che siano di bronzo, d' oro, di marmo o di semplice pietra, poi, non c' è differenza: fan sempre gola. E il risultato è che rimangono solo quelle tombe spoglie, profanate e quindi offese. Assieme alla rabbia sconsolata dei parenti, ché va bene tutto e si può capire altrettanto: ma certi gesti lasciano l'amaro in bocca e basta. Cosenza, Forlì, Caltanissetta, Pesaro: è cronaca di questa settimana. A Jesi (metà aprile) i famigliari di una coppia a cui sparivano sempre i fiori hanno deciso di giocare d' astuzia e hanno piazzato una microcamera sulla lapide: hanno scovato il ladro in men che non si dica, era un signore di mezza età, stempiato e con la mascherina sulla bocca. A Carmagnola, in provincia di Torino, (fine aprile), il Comune ha spedito i vigilantes fin dentro il cimitero: i furti di rame son troppo frequenti, pare, l'ultimo è avvenuto in una tomba di famiglia scoperchiata dal tetto e ripulita da cima a fondo. Come a Pavia dove, poche settimane fa, han sradicato addirittura le grondaie della cappella, pur di portarsi via l'oro rosso.
· La morte sociale: gli Eremiti.
Caterina Maniaci per "Libero quotidiano" il 26 luglio 2021. Non ne poteva più di un mondo cinico e ingiusto, in cui regnano sovrani il caos e il rumore. Meglio ritirarsi in una grotta nascosta, tra gli alberi e gli animali e vivere di cibo procacciato qua e là, digiuno, pane e acqua, e di preghiera. Fratel Biagio Conte, il laico fondatore della "Missione Speranza e Carità" che accoglie a Palermo centinaia di persone in difficoltà, ora ha deciso che la sua scelta deve essere più drastica, estrema e che deve anche diventare un grido di protesta. «Non posso più accettare una società che stravolge e manipola il Creato, gli uomini e le donne, che stravolge i valori, la morale, i costumi e le tradizioni. Per queste ingiustizie mi ritiro in montagna, in una grotta (in provincia di Palermo) in preghiera e in digiuno a pane e acqua», come ha spiegato lui stesso qualche giorno fa prima di ritirarsi nel suo nuovo eremo, per affidarsi completamente alla Divina Provvidenza.
LE STORIE
La scelta di fratel Biagio è l'ultima, in ordine cronologico, ed è anche quella che ha avuto un certo clamore mediatico. Ma non è certo l'unica. Se risaliamo idealmente la Penisola e ci fermiamo in Calabria, possiamo imbatterci in un'altra storia straordinaria. Quella di Frederick Vermorel e dell'angolo di terra dalla storia antichissima in cui vive in romitaggio dal 2003, nel santuario di Sant' Ilarione, che con le sue mani ha restaurato. Seguendo un desiderio insopprimibile, quella dell'eremitaggio, che a prima vista appare anacronistico rispetto ai nostri tempi iperconnessi e extrasocial, senza contare la crisi delle vocazioni e il "deserto" in tante chiese, e che invece risulta essere ancora molto "praticata". Un'onda di fede e di desiderio di autenticità che, da grotte, cimiteri, chiese diroccate e rimesse in piedi, case costruite ai margini di boschi e paesi, piccoli appartamenti nel cuore delle città, si diffonde in questo nostro mondo smarrito. La storia della sua "trasformazione" Vermorel ora l'ha raccontato in un libro che è diario, racconto, guida spirituale, intitolato "Una solitudine ospitale. Diario di un eremita contemporaneo", pubblicato dalle edizioni Terra Santa e da pochi giorni in libreria. Nella sua vicenda si intrecciano la Francia delle sue origini, Le Mans, poi Parigi, dove si laurea in scienze politiche, tra la contestazione e l'impegno politico, la comunità di Taizé, il Sahara, il sacerdozio, gli studi di teologia, tanti viaggi, tante esperienze, tanta vita intensa, ma anche un senso di insoddisfazione. Fino all'approdo a Sant' Ilarione, nei pressi della frazione San Nicola del comune di Caulonia, il posto cercato da tanti anni, quello in cui si sono incarnate le tre parole decisive per la sua vita: preghiera, lavoro, accoglienza. Sull'esempio dei monaci vissuti oltre mille anni fa.
Un fenomeno che si potrebbe definire in crescita, quello dell'eremitaggio contemporaneo, Ma chi sono questi nuovi eremiti? Perché persone che conducono vite normali e an zi, sono magari in carriera scelgono di ritirarsi dal mondo? Una sorta di censimento, che risale comunque già a qual che anno fa, in Italia ne aveva contato circa 200, un numero indicativo perché censirli è difficile. Uomini e donne, di età media sui 50-55 anni. I religiosi o consacrati seguono una Norma di vita approvata per ciascuno dal rispettivo vescovo in base al Codice di diritto canonico, che prevede silenzio e preghiera ma anche un rapporto con le comunità localie la diocesi. C'è anche chi ha scelto di vivere separato dal mondo, senza null'altro che non sia indispensabile non tanto per una spinta religiosa ma perché colpito al cuore dalla bellezza di un luogo e dal desiderio di farne quasi fisicamente parte.
Nella minuscola isola di Filicudi, in una grotta trasformata in spartana abitazione vive un ex capitano di navi da crociera, Gisbert Lippelt, noto a tutti come "l'eremita tedesco". Ultrasettantenne, Lippelt è nato in Germania da mamma architetto e papà giudice e dopo aver girato il mondo con le navi da crociera con il ruolo di secondo ufficiale, ha dato un taglio alla sua vita e ha realizzato la sua "casa" in un antro naturale di contrada Serro, a 400 metri sul livello del mare. La prima volta che Gisbert ha conosciuto le Eolie è stato nel 1968, navigando a bordo di uno yacht di amici. Da quasi cinquant' anni dunque passa le sue giornate senza luce, elettrodomestici, tv e acqua diretta, faccia a faccia con il mare, con il vento, con le rocce, le capre, qualche gatto, e gli abitanti dell'isola che lo hanno felicemente adottato. Per vivere in terra il suo "paradiso terrestre". La "mappa" della ricerca di questo "tesoro" che stravolge la vita è molto vasta, si dispiega dalle Eolie allo Yorkshire e Lincolnshire in Inghilterra, in grotte o in eremi in mezzo alla natura, in Francia, in Georgia, nell'India del Sud, nel deserto della California.
O dentro ad una città come Firenze, come ha scelto di fare Antonella Lumini da oltre trenta anni. Ha studiato filosofia, ha lavorato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze ed ha iniziato un percorso di silenzio e solitudine. Da quarant' anni vive in un appartamento nel centro di Firenze ispirandosi alla pustinia, vocazione al silenzio della tradizione ortodossa, una sorta di monachesimo interiorizzato. È conosciuta come eremita metropolitana ma preferisce definirsi semplice battezzata custode del silenzio. Scrive libri e partecipa a seminari e incontri, a lei si rivolgono in molti per chiedere un aiuto spirituale. Ma la sua esistenza più autentica si svolge tra le pareti del suo appartamento, in preghiera davanti ad una icona.
Prelievo dal conto di un defunto? Ecco cosa accade. Federico Garau il 16 Settembre 2021 su Il Giornale. L'istituto bancario non è tenuto ad informarsi sullo stato in vita del proprio correntista. Cosa può accadere al conto corrente di un contribuente dopo il suo decesso? La prima cosa da sapere è che la banca non è tenuta ad essere a conoscenza delle condizioni di salute del proprio correntista, specie nell'eventualità in cui, a seguito della morte, qualcuno decida di effettuare dei prelievi in modo non legittimo. È compito degli eredi inoltrare tale comunicazione all'istituto di credito, cosa che può essere fatta anche non di persona ma tramite Pec, oppure via fax o raccomandata A/R. Da questo momento in poi la banca ha il compito di bloccare il conto corrente, cosicché nessuno possa prelevare del denaro almeno fino al momento in cui non sarà stabilita definitivamente la successione. Una possibilità spesso concessa dall'istituto di credito, sempre che tutti gli eredi siano d'accordo, è quella di accedere al deposito per pagare le spese funebri. Sono autorizzati anche eventuali pagamenti domiciliati o periodici, come affitto, bollette ed abbonamenti a qualche servizio.
Blocco del conto. Tale procedura viene messa in atto per evitare che chiunque, anche colui il quale detiene la regolare delega per effettuare dei prelievi in vece del titolare del conto, possa accumulare del denaro prima della successione, sottraendolo di fatto agli altri eredi. Se ciò dovesse accadere e venire a galla, il responsabile dovrà rifondare la somma sottratta con gli interessi, ma la banca non sarà ritenuta responsabile, come stabilito dalla Cassazione, in quanto non tenuta ad informarsi sulle condizioni di salute del proprio correntista.
La procedura. Prima di poter prelevare da detto conto corrente occorre rispettare uno specifico iter. Dopo la comunicazione del decesso del congiunto, infatti, bisogna innanzitutto accettare l'eredità e stabilire chi sono gli aventi diritto. Si deve quindi presentare la dichiarazione di successione all'Agenzia delle entrate e portarne una copia in banca a seguito della registrazione ufficiale da parte del Fisco. Ultimo passo prima dello sblocco è quello di chiedere all'istituto di credito di produrre e mettere a disposizione dei legittimi eredi un documento riepilogativo con tanto di conteggio della somma di denaro conservata nel conto corrente.
Conto cointestato. Anche in questo caso resta il divieto per gli eredi di accedere al deposito prima della dichiarazione di successione. Una volta ottenuta questa, tuttavia, costoro potranno dividersi solo il 50% delle somme presenti sul conto, vale a dire la quota del defunto. Il restante 50%, infatti, resta al cointestatario, che non sempre può disporre subito del denaro. Se si tratta di un conto cointestato a firma congiunta, ogni operazione deve avere il consenso di entrambi i titolari: ecco perché in caso di morte di uno dei due la sua quota (50%) passa agli eredi ed il conto viene bloccato fino alla successione. In caso di conto cointestato a firma disgiunta, in teoria, il titolare rimasto in vita potrebbe operare sulla quota che gli spetta. In genere, per evitare problemi con gli eredi, la banca tende a bloccare l'intero conto, mossa che può essere contestata in tribunale. Federico Garau
Jessica D'ercole per “La Verità” il 21 novembre 2021. Negli ultimi mesi tempeste di fulmini si sono abbattute su tutt'Italia, dalla Liguria alla Sicilia. Un fulmine ha danneggiato un campanile di Palermo, un altro ha mandato in tilt dei citofoni a Napoli e un altro, sulle montagne di Massa Carrara, ha sterminato un intero gregge di pecore - 47 capi morti in una manciata di secondi - e, più di recente, a Verona ha folgorato un operaio che stava lavorando su un traliccio. Secondo le statistiche mondiali, le probabilità per una persona di essere colpita da un fulmine sono remote. Nel 2020 si sono contati 441.211.344 lampi, di questi però 409.645.512 si sono sviluppati tra nuvola e nuvola e solo 31.549.740 si sono scaricati al suolo. Tuttavia, stando a uno studio dell'Università di Washington, questi numeri tra un secolo saranno raddoppiati. Gli scienziati hanno rilevato un aumento del 12% per ogni grado di rialzo della temperatura. L'esperimento è stato condotto nell'Artico che nell'ultimo decennio ha visto i termometri salire di ben 0,9 gradi centigradi e il numero di fulmini crescere da 35.000 nel 2010 a 240.000 nel 2020. Numeri impressionati che riportano a un pensiero di Seneca: «Noi riteniamo che i fulmini siano emessi perché le nubi entrano in collisione. Gli etruschi pensano che le nubi entrino in collisione apposta per emettere i fulmini. Poiché tutto quello che accade ha un significato, si tratta di interpretare i segni che il dio ci manda e adeguare il proprio comportamento». In Italia si contano in media un milione e 600.000 lampi che provocano ogni anno una quindicina di morti. Nel mondo la conta annuale dei morti folgorati sta aumentando. Se qualche anno fa si registravano un migliaio di vittime, nel primo trimestre del 2021 se ne contano già 4.000. A morire per un colpo di fulmine sono per la maggior parte contadini venezuelani, brasiliani e indiani che lavorano in mezzo a campi sterminati ma anche qualche sprovveduto turista in cerca del selfie perfetto. Fortunatamente, secondo il National Weather Service degli Stati Uniti, l'80-90% delle vittime di fulmini sopravvive. Alcuni però possono riportare danni a breve o a lungo termine, come aritmie cardiache, confusione, convulsioni, capogiri, dolori muscolari, sordità, mal di testa, perdite di memoria, problemi di attenzione, cambi di personalità, dolore cronico o ustioni. Lo sa bene Lucia Annunziata che ancora oggi ne paga le conseguenze. Aveva un anno appena quando un fulmine ha colpito la casa in cui abitava in Irpinia: «S' è propagato attraverso tutti i locali e una scheggia di fulmine mi ha colpito un occhio, bruciandolo per sempre. Vivere con un solo occhio ti abitua a un controllo delle tue risorse. Si è più attenti a quello che si fa». Anche l'attrice Sharon Stone ha vissuto quest' esperienza. Anche lei era in casa, stava riempiendo il serbatoio del ferro con l'acqua del rubinetto per stirare alcuni panni, «quando il pozzo è stato colpito da una saetta. La scarica è passata attraverso l'acqua con una potenza tale da sollevarmi da terra e sbalzarmi metri più in là, contro il frigorifero. Svenni». A soccorrerla per fortuna c'era la madre: «Mi ha schiaffeggiato per farmi rinvenire, poi mi ha portato in ospedale, dove i medici mi hanno praticato un elettrocardiogramma per valutare quanta elettricità avessi accumulato». Il record di uomo più colpito da saette appartiene a Roy Cleveland Sullivan, ranger forestale di Waynesboro, in Virginia, fulminato sette volte, tra il 1942 e il 1977. La prima volta, sorpreso sulla torre di guardia antincendio, perse un'unghia del piede sinistro. La seconda, nel 1969, venne colpito mentre guidava su una strada di montagna: svenne ma se la cavò con qualche ustione e la perdita delle sopracciglia. Il terzo fulmine gli danneggiò la spalla sinistra mentre stava nel suo giardino, il quarto gli bruciò i capelli, il quinto il cappello. La sesta volta, durante un picnic lo centrò all'anca. L'ultima, il 25 giugno 1977, fu costretto al ricovero. La saetta lo aveva colpito al bacino mentre era a pesca provocandogli forti bruciori allo stomaco. Morì suicida nel 1983, a 71 anni, per una delusione amorosa si sparò un colpo di pistola dritto nella tempia. Paradossalmente andata meglio a Melvin Roberts, un 68enne del Sud Carolina che sostiene di essere stato colpito da 11 fulmini: «È come sentirsi cotti, dentro e fuori. Non puoi mangiare nulla per 3 giorni, hai diverse ferite e problemi alla memoria e nel linguaggio, ma tutte le volte sono riuscito a sopravvivere e a ricominciare la mia vita di tutti i giorni». Tuttavia qualche anno fa il Guinness dei primati ha rifiutato la sua iscrizione nell'albo dei record per insufficienza di prove. Non avrà la gloria ma, almeno lui, la moglie ce l'ha ancora al suo fianco. È entrato invece di pieno diritto nel Guinness il fulmine che il 31 ottobre del 2018 s' è esteso per 709 chilometri - più o meno la distanza tra Milano e Napoli - tra il sud del Brasile e il nord-est dell'Argentina. Sempre in Argentina ma nel 2019, secondo la World Meteorological Organization, è scoccato il fulmine più lungo in termini di tempo: è durato 16,7 secondi. In entrambi i casi i lampi si sono verificati tra una nuvola e l'altra.La scarica elettrica sprigionata da un fulmine può arrivare a 1 milione di volt. Per capire la potenza basti pensare che i volt che passano nelle nostre prese sono 220 volt. Un lampo può originare una temperatura fino a 30.000 gradi celsius, cinque volte più calda della superficie del Sole. Con la sua energia una sola saetta potrebbe alimentare una lampadina da 100 watt per 3 mesi. La luce di lampo viaggia a 300.000 km/s, ovvero a una velocità 900.000 maggiore rispetto al suono che non percorre più di 330 m/s. Sin dalla notte dei tempi la potenza dei fulmini ha spaventato l'uomo. Gli antichi greci ritenevano che fossero il simbolo dell'ira di Zeus, nel medioevo si credeva che fossero un elemento della malasorte, tanto che per allontanarli ci si affidava a pozioni e pietre magiche. D'altronde pare che fu un lampo a convincere Martin Lutero a prendere i voti. Era il 2 luglio del 1505 quando, ritornando ad Erfurt dopo una visita ai genitori, incappò in un temporale e un fulmine s' abbatté a pochi metri da lui. In quel momento fece voto a Sant' Anna che se fosse sopravvissuto si sarebbe fatto monaco. Chissà che ne sarebbe stato del protestantesimo se fosse nato due secoli e mezzo dopo, quando a sfatare la spiritualità di un fulmine bastò un aquilone, o meglio, un cervo volante. Infatti nel giugno del 1752, qualche decennio prima di farsi padre fondatore dell'America, un giovane Benjamin Franklin scienziato, convinto i fulmini fossero «fuochi elettrici», decise di fare un esperimento durante un temporale a Philadelphia. Con l'aiuto del figlio, unì due bastoncini di legno, li ricoprì con un fazzoletto di seta e, all'estremità del suo cervo volante, pose una punta di ferro. A questa legò una fune di canapa - conduttrice - che terminava poi con un cordone di seta - non conduttore - lì dove si congiungevano i due cordoni pose una chiave metallica che legò, tramite un sottile filo di metallo, a una Bottiglia di Leida, il primo condensatore elettrico, inventato qualche anno prima dal fisico olandese Pieter van Musschenbroek. Dopo aver fatto volare il suo aquilone, la chiave iniziò a scintillare. Affascinato, tese la mano fino a toccarla e ne rimase folgorato. Senza danni, una scarica elettrica gli attraversò letteralmente il corpo. In un sol colpo aveva dimostrato la reale natura di un fulmine, trovato il modo per attirarlo e condurlo a terra. Inventò il parafulmine, una lunga asta di metallo a punta da porre sui tetti delle abitazioni, collegata a terra mediante un conduttore. Pochi mesi dopo a Torino, Gianni Battista Beccaria, un prete considerato da molti stregone per via dei suoi esperimenti scientifici, ripeté la prova del collega americano. Installò un parafulmine sopra il suo appartamento al civico 1 di via Po e, al primo temporale, lo strumento funzionò benissimo. Da allora intrattenne una fitta corrispondenza con lo scienziato americano e, dopo una lunga battaglia per far capire che non si trattava di magia ma di fisica, i parafulmini vennero montati sulla Basilica di San Marco a Venezia e sul Duomo di Milano. L'esperimento andò bene anche in Francia: fu il naturalista Georges-Louis Leclerc de Buffon a posizionarne uno sulla torre di Montbar. Andò peggio al collega russo Georg Wilhelm Richmann, che morì a San Pietroburgo «mentre cercava di quantificare la risposta di un'asta a una tempesta vicina» durante un esperimento sui fulmini globulari. La saetta lo colpì dritto in testa.
Filippo Limoncelli per blitzquotidiano.it il 5 dicembre 2021. Si è lasciato cadere nel vuoto da oltre venti metri ed è morto per salvare una turista rimasta bloccata lungo la teleferica. Joaquin Romero, un 34enne addetto a una teleferica nella riserva indiana di La Jolla, nella Pauma Valley, in California, è morto lunedì dopo due giorni di agonia in ospedale dove era arrivato in condizioni disperate a seguito della caduta. L’incidente è avvenuto sabato scorso. Per cause ancora da chiarire, la donna ha iniziato a scivolare lungo la teleferica senza imbracatura attaccata. A questo punto l’uomo ha afferrato la turista per impedirle di scivolare ma è stato trascinato sulla linea con lei ed entrambi sono rimasti penzolanti. Secondo quanto ricostituito dalla polizia, il 34enne ha prima agganciato la donna ma poi, quando si è reso conto che la struttura rischiava di cedere per il troppo peso (la teleferica in questione ha una capacità massima di 120 chilogrammi), si è lasciato cadere nel vuoto per evitare che la turista perdesse la vita. Dopo la caduta Joaquin Romero era ancora vivo ed è stato subito soccorso e trasportato in elicottero al più vicino ospedale dove però è arrivato in condizioni critiche. I medici hanno fatto di tutto per salvargli la vita. Lunedì purtroppo il suo cuore ha smesso di battere. L’azienda che gestisce la linea ha dichiarato di essere “distrutta” per la morte del 34enne e ha assicurato di aver avviato “un’indagine approfondita e completa, in coordinamento e cooperazione con le autorità federali e statali” per stabilire quanto accaduto.
Killfie, i selfie in situazioni estreme che portano alla morte. In aumento l’inquietante fenomeno: sono quasi 380 le persone decedute mentre si scattavano una foto in condizioni di pericolo. Valeria Chichi su Il Quotidiano del Sud il 29 novembre 2021. Nell’agosto 2013 l’Oxford English Dictionary includeva per la prima volta la parola “selfie”, ovvero «una fotografia di sé stessi, tipicamente ripresa con uno smartphone o una webcam e caricata su un social network». Nell’ottobre dell’anno successivo il termine veniva introdotto anche nel vocabolario Zingarelli, anche se nelle nostre vite, il selfie, era entrato già molto prima, con l’avvento dei social network. I selfie ormai sono un’abitudine entrata nel nostro quotidiano. Ma quando il rapporto con i social diventa esasperato e il desiderio di attrarre l’attenzione e guadagnare like spinge a ignorare ogni rischio e a mettere a repentaglio la vita per realizzare scatti che possano generare interesse sui social, allora siamo di fronte al Killfie, il selfie scattato in situazioni estreme che diventa fatale. Il neologismo nasce dalla crasi del verbo to kill, uccidere con la parola selfie e rappresenta un fenomeno sempre più diffuso nel mondo, soprattutto tra i giovanissimi, e che dopo il lockdown ha registrato un’impennata. Se il selfie è quell’immagine da pubblicare online che ci coglie nella nostra vita quotidiana e che dovrebbe raccontare di noi agli altri, il killfie è la sua espressione paradossale, l’esigenza di mostrarci dotati di qualità straordinarie: più coraggiosi degli altri, più originali, dotati di una vita più interessante. Pur di ottenere quello scatto perfetto, capace di ottenere lo stupore e l’ammirazione altrui, ecco che si sottovalutano i rischi. Precipitati, investiti da treni in arrivo, sbranati da animali troppo vicini. Così si muore con killfie. Solo un mese fa in Lussemburgo, una donna di 33 anni, si è sporta eccessivamente per scattarsi una foto da un belvedere ed è precipitata con un volo di 30 metri nel fiume sottostante annegando, sotto lo sguardo impotente del marito. A luglio sull’Appennino tosco-emiliano è toccato a Andrea Cimbali, 29 anni: voleva immortalarsi con uno scorcio montano spettacolare, durante un’escursione, ma è precipitato nel vuoto per 200 metri e a nulla è servito il pronto intervento degli operatori del soccorso alpino e dell’elisoccorso. Lo scorso settembre in Zimbabwe, un uomo è stato calpestato da un elefante mentre cercava di scattarsi una foto accanto al pachiderma. L’uomo è morto, e anche l’elefante, giustiziato dai ranger. Le statistiche parlano chiaro: sono quasi 380, a partire dal 2008, le persone decedute mentre si scattavano un selfie in condizioni estreme. È quanto emerge da uno studio spagnolo della iO Foundation. In base alla ricerca, sono almeno 379 le persone morte accidentalmente nel mondo tra il gennaio del 2008 e il luglio del 2021. Solamente dall’inizio del 2021 si sono verificati 31 incidenti mortali di questo tipo, con una chiara tendenza al rialzo. Un esame della casistica mostra che la maggior parte dei decessi (216) è dovuta a cadute, mentre le altre cause di morte sono legate ai mezzi di trasporto (incidenti stradali, incidenti ferroviari, ecc.) e ad annegamento. C’è poi un numero non irrilevante di incidenti dovuti ad un uso improprio di armi da fuoco (24), scariche elettriche e ad attacchi di animali selvatici (17). I dati sono comunque al ribasso. Per la realizzazione dello studio infatti, i ricercatori hanno tenuto conto solo degli episodi riportati dalla stampa a partire dal 2008, escludendo di fatto tutti quelle morti in cui non è stata individuata la causa killer nel selfie e quelli che non sono balzati agli onori della cronaca. La ricerca rileva inoltre che in un caso su tre il protagonista dell’incidente mortale era in viaggio. Mete esotiche scelte magari proprio perché instagrammabili, come si dice oggi per definire le mete gettonate perché particolarmente adatte ad essere immortalate sui social. Nella classifica dei Paesi dove si sono verificati il maggior numero di incidenti l’India è al primo posto con 100 morti dal 2008. Seguono gli Stati Uniti (39) e la Russia (33). «I dati per l’India si spiegano in parte con il fatto che molte persone nel Paese si fanno selfie mentre si sporgono dal finestrino o dalla porta dei treni», ha spiegato Cristina Juesas, una delle cofirmatarie dello studio. Juesas ha sottolineato che dai dati emerge chiaramente che i più esposti al rischio di incidenti sono i giovani, l’età media delle vittime si aggira infatti intorno ai 24 anni. Nel complesso, tra i decessi, il 41% sono sotto i 19 anni. Ma non è tutto: le morti per autoscatti in situazioni rischiose sono addirittura triplicate dalla fine del lockdown. Lo mette in evidenza un altro studio effettuato da una società di consulenza inglese il Rhino Safety che valuta il rischio e la sicurezza in vari ambiti. Se nel 2020 i decessi dovuti al tentativo di scattare un selfie in circostanze estreme sono stati sette, nei primi mesi del 2021 il numero sale a quota 24. Secondo i dati raccolti dalla Rhino Safety, al primo posto tra le cause principali si collocano le cadute, responsabili di un terzo degli incidenti mortali totali. Al secondo posto, gli annegamenti, causa della morte di un quinto delle vittime. Le statistiche fanno un bilancio anche in base al sesso: gli uomini sembrano avere una tendenza notevolmente maggiore al rischio: (64%) rispetto alle donne (30%). Simon Walter, direttore del Rhino Safety, nel far emergere l’aumento delle vittime per selfie incauti successivo al lockdown, mette in guardia sui rischi dovuti dalla somma di due fattori: l’allentamento delle misure restrittive contro il Covid e il timore di essere tenuti fuori dal flusso di informazioni che scorre lungo le homepage dei social (FOMO o fear of missing out). «Mentre le piattaforme di social media possono essere luoghi sorprendenti per costruire connessioni con le persone in tutto il mondo, la pressione per distinguersi può spingere le persone a correre rischi per creare contenuti ‘emozionanti’ che possono, purtroppo, trasformarsi in tragedie», ha dichiarato il direttore del Rhino Safety. «È importante, ora più che mai, riflettere sui rischi che siamo disposti a correre, e se vale davvero la pena di perdere la vita per un selfie», conclude Walter. In Italia il fenomeno dei selfie killer è finito sotto la lente di ingrandimento anche dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza che ha analizzato i dati degli incidenti, tra cui quelli mortali a causa di autoscatti in situazioni estreme in cui erano coinvolti i più giovani, andando ad analizzarne le cause. Secondo i dati dell’Osservatorio circa l’8% degli adolescenti è stato sfidato a fare un selfie estremo e 1 su 10 ha fatto un autoscatto mettendo a rischio la propria incolumità, per dimostrare il proprio coraggio. La percentuale sale nei più piccoli, dagli 11 ai 13 anni, raggiungendo il 12%. «Stiamo assistendo ad un numero sempre più in crescita di adolescenti che si fanno del male pur di scattare un selfie estremo, un’immagine al limite, arrivare dove gli altri non hanno il coraggio di arrivare e dimostrare al pubblico dei social ciò che si è riusciti a fare. In un certo senso, lo fanno per rinforzare il proprio ruolo social e sociale, dimostrare a se stessi il proprio valore, senza capire realmente la gravità di certe condotte e che si rischia anche di morire: da qui il nome di selfie killer». spiega la psicologa Maura Manca, Presidente Osservatorio Nazionale Adolescenza. Uno scatto inquietante, il suo, sugli effetti nefasti della corsa ad apparire sui social.
Simonetta Sciandivasci per "la Stampa" il 28 ottobre 2021. C'è almeno un grosso discrimine da fare tra le 379 persone che, negli ultimi tredici anni, sono morte con lo smartphone in mano, mentre si scattavano un selfie. C'è chi è morto per farsene uno, e questo dice forse qualcosa sul senso dell'impresa, oggi, e del modo in cui è slegata dall'avventura, e c'è chi è morto facendosene uno. In entrambi i casi, s' è trattato di un tragico errore, un calcolo sbagliato, un incidente, ma c'è differenza tra l'alpinista influencer che si arrampica su una sommità rocciosa per farsi una foto e, nel prendere il telefono, scivola, cade e muore, e la mamma che, per fotografarsi con la figlia neonata, sulle scale mobili, perde la presa della bambina, che precipita nel vuoto e muore. Conta valutare quella differenza, se l'esito è lo stesso? Sì, conta. Da una parte c'è un Icaro, dall'altra c'è un imbranato. Muoiono nello stesso modo e questo è solamente uno dei molti esempi di come il tragico sia diventato eminentemente grottesco. Ieri, molte agenzie hanno diffuso le rilevazioni dello studio di iO Foundation, un'organizzazione no profit che si occupa di diritti digitali che ha analizzato tutte quelle 379 morti per selfie: viene fuori che l'aumento dei casi è costante (e infatti se n'è parlato spesso, c'è un bollettino ogni anno), e che quindi si può ormai parlare di un fenomeno (sinistro, naturalmente, ma pure ridicolo); che il Paese con più vittime è l'India (100 di quei 379 sono indiani), seguito da Stati Uniti e Russia; che le vittime sono soprattutto giovani con meno di venticinque anni. Sono morti animalisti che si sono incautamente avvicinati a squali, orsi, leoni, naturalmente per fare una foto di gruppo; turisti che hanno messo il piede dove non avrebbero dovuto; acrobati; chef; youtuber disposti a un pericoloso show dei record pur di uscire dall'anonimato. Solo quest' anno, trentuno persone sono morte facendosi un selfie o per farsi un selfie. Sembra nulla, non è vero? Rispetto ai numeri enormi del Covid, tutto o quasi tutto è risibile. Tanti o pochi che siano, i morti per selfie esistono ed esisteranno: il selfie è ormai da considerare una delle cause di morte del nostro tempo, un rischio dal quale esistono infatti cartelli stradali, indicazioni e linee guida che ci mettono in guardia. Un tragicomico opuscolo distribuito in Russia alcuni anni fa, cerchiava in rosso omini stilizzati che si facevano una foto sui binari, su una gru, aggrappandosi a un'antenna della tv in terrazza (sì, davvero), dando un biscottino a un orso polare. In India, già dal 2015 - l'anno che il Guardian definì «the year of dangerous selfie» - sono state istituite le no selfies zone, in particolare vicino alla costa: grandi cartelli gialli sbarrano gli smartphone come se delimitassero un campo minato. Esiste persino una piattaforma online, #selfietodiefor, che offre informazioni e supporto per le vittime, tenta di fare prevenzione e tenta, soprattutto, di coinvolgere tutti nella sua campagna - in che modo? Per esempio, se hai un amico incauto, che è solito fotografarsi la faccia mentre guida a 220 all'ora sulla Bradanica, ti dice come farlo ragionare e disintossicarlo da quella sua abitudine andrenalinica. Sul sito, si legge che #selfietodiefor è «un movimento educativo»: vuole dirci non semplicemente quali rischi corriamo quando ci autoscattiamo una foto, ma pure creare massa critica, fare in modo che le persone non trovino accattivanti le foto mozzafiato e rischiose, così che chi le scatta non abbia più ragione di farle per cercare engagement. Se sia un intento ingenuo è difficile stabilirlo, tuttavia è piuttosto chiaro che chi scala un grattacielo per farsi una fotografia mentre barcolla in cima non è semplicemente a caccia di like. C'è qualcosa di più: c'è Icaro. C'è l'umanissimo tentativo di travalicare l'umano, che è ciò che rende pericoloso qualsiasi mezzo a nostra disposizione - ci ammazziamo con le automobili, con il cibo, con i vibratori, con i piercing, con il sesso. In Io e Annie, Woody Allen dice a un certo punto: «Tutto quello che prima faceva bene, ora fa male, come il latte». La funzione fa l'uso, l'uso fa l'abitudine, il rischio libera dall'abitudine. Poi ci sono gli sbadati, i goffi che non cercano impresa, né un antidoto alla pigrizia, e muoiono inciampando mentre si fanno una foto per puro caso: sarebbero potuti morire inciampando mentre calavano la pasta. A una giusta distanza tra i primi e i secondi, ci sono i morti per selfie che finiscono nelle classifiche del Darwin Awards, il riconoscimento per chi muore da fesso e «migliora il pool genetico umano rimuovendosi da esso in modo platealmente stupido». Tra gli insigniti della targa, i morti per selfie non sono i più grotteschi: una volta, ci è finito un poveretto morto saltando da un aereo per filmare dei paracadutisti, dimenticandosi però di indossare anche lui un paracadute. Le storie di chi perde la vita in modi tanto assurdi mostrano quanto è facile morire: basta la distrazione di un attimo. Basta la descrizione di un attimo: la foto, appunto.
Dagotraduzione dal Sun il 14 ottobre 2021. Mentre dormiva nel suo letto, Ruth Hamilton, residente a Golden, in Canada, è stata svegliata da un rumore improvviso. Si è così accorta che un meteorite aveva sfondato il tetto della sua casa ed era atterrato a pochi centimetri dalla sua testa. «Sono saltata su e ho acceso la luce, non riuscivo a capire cosa diavolo fosse successo» ha raccontato la donna. Quando però ha guardato il suo cuscino, si è resa conto che una roccia era caduta proprio vicino a dove posava il capo. La donna, in stato di shock, ha chiamato la polizia per capire se l’oggetto non provenisse da un cantiere lì vicino. «Abbiamo chiamato il progetto Canyon per vedere se stavano facendo esplosioni, ma ci hanno risposto di no. Ma avevano visto una luce brillare nel cielo, poi un’esplosione e qualche botto» ha raccontato Hamilton. «Quando è successo pensavo che qualcuno fosse entrato in casa o avesse sparato, o qualcosa del genere. È stato un sollievo quando ci siamo resi conto chela roccia poteva solo essere caduta dal cielo». E ha aggiunto: «Sono stupita dal fatto che sia il pezzo di una stella, che viene dal cielo e forse ha miliardi di anni». Ci sono miliardi di meteore che volano attraverso l’atmosfera terrestre, e possono essere osservate fino a 120 chilometri sopra la superficie terrestre e viaggiare alla velocità di 70 km al secondo.
Da blitzquotidiano.it il 12 ottobre 2021. Padova, nel tombino un cadavere incastrato a metà. Incastrato a metà dentro a un tombino, testa e busto sotto l’asfalto di via Palestro, gambe per aria. Lo hanno trovato così, morto, forse nel tentativo disperato di cercare qualcosa cui teneva chissà come scivolato laggiù in fondo. L’uomo ha un nome, Salvatore Masia, 55enne originario di Sassari, sembra fosse assiduo bevitore, viveva a Padova. Che fosse ubriaco appare al momento la giustificazione più plausibile per questa assurda morte. Dapprima lo sconcerto più totale. Alle 3 e mezza, una guardia giurata durante il suo solito giro notturno, avvista un cadavere, si vedono solo le gambe. Il resto del corpo è dentro il tombino. La guardia chiama subito la Polizia di Stato. Si capisce da subito che Salvatore Masia è morto per soffocamento. Era riuscito a rimuovere la lastra di ghisa, prima di affacciarsi pericolosamente nel buco e rimanere incastrato sopra un letto di fanghiglia. Il corpo è a disposizione dell’Autorità giudiziaria, sul caso indaga la squadra Volante della polizia.
Da "liberoquotidiano.it" il 12 ottobre 2021. Una tragedia sotto agli occhi dei figli. La 33enne Yevgenia Leontyeva è morta mentre faceva bungee jumping. La donna si è lanciata dal tetto di un hotel a Karaganda, in Kazakistan in un salto sportivo "a volo libero con la corda". A immortalare quanto accaduto un video, in cui si vede Yevgenia legata avanzare verso il bordo del tetto. Poi il salto. Ma una corda di supporto nn è stata adeguatamente fissata all'albero e la 33enne è precipitata per 25 metri. La donna sarebbe stata trascinata per qualche metro prima di sbattere contro un muro. Yevgenia, amante dell'avventura, una saltatrice esperta, è stata portata d'urgenza in ospedale dove è stata operata per gravi ferite alla testa, ma è morta poco dopo. Nel filmato che riprende l'accaduto si sentono anche le urla dei presenti e quelle di un'amica che avrebbe dovuto saltare dopo di lei. Al momento si cerca ancora di capire se la caduta è stata causata dalla corda non agganciata bene o se è stata provocata dall'impossibilità di questa di reggerla. In ogni caso, assicura chi c'era, il salto è stato autorizzato prima che un organizzatore avesse il tempo di fissare la corda su un albero." Poco prima del tragico evento Yevgenia e la sua amica si mostravano entusiaste dell'esperienza: Vivilo" e "Voleremo", dicevano in alcune storie pubblicate sui social.
Da "Ansa" l'1 ottobre 2021. L'eritreo Natabay Tinsiew è morto all'età di 127 anni, come annunciato dalla sua famiglia che spera si guadagni un posto nel Guinness dei primati mondiali come persona vissuta più a lungo. Questa posizione, infatti, è attualmente occupata dalla francese Jeanne Calment, morta nel 1997 a 122 anni. "Pazienza, generosità e una vita gioiosa" sono stati i segreti del defunto, come ha detto suo nipote Zere Natabay alla Bbc. L'uomo è morto lunedì nel suo villaggio, Azefa, circondato da montagne e che ha una popolazione di circa 300 abitanti. Suo nipote ha detto che i registri della chiesa e il suo certificato di nascita mostrano l'anno di nascita, 1894, in cui fu battezzato, anche se la sua famiglia credeva che fosse nato nel 1884 e battezzato solo dieci anni dopo, quando nel loro villaggio arrivò un sacerdote. Padre Mentay, un prete cattolico che ha prestato servizio nel villaggio per sette anni, ha confermato che i documenti indicano la nascita di Natabay nel 1894, aggiungendo di aver partecipato alla festa del suo 120esimo compleanno nel 2014.
Usa, vince la lotteria ma muore annegato prima di incassare i soldi. Redazione Tgcom24 il 30 settembre 2021. Vince alla lotteria ma muore prima di incassare il biglietto vincente. E' successo negli Stati Uniti: Gregory Jarvis di Caseville è annegato il 24 settembre. Il suo corpo è stato ritrovato lungo una spiagga privata sulla baia di Saginaw in Michigan. L'uomo aveva in tasca il biglietto vincente della lotteria. Non era riuscito a riscuoterlo: il valore era di 45 mila dollari. Secondo la ricostruzione, la vittima aveva giocato alla lotteria al Club Keno al Dufty's Blue Water Inn a Caseville il 13 settembre. Aveva scoperto la vincita, ma non poteva riscuotere la somma non avendo rinnovato la tessera di previdenza sociale, requisito necessario per ricevere i soldi. Viste le diverse ferite alla testa, inizialmente la polizia aveva ipotizzato un'aggressione. L'autopsia ha confermato l'annegamento ritenendo le ferite compatibili con la caduta dall'imbarcazione. "Aveva intenzione di prendere quei soldi - ha commentato uno dei suoi amici su come Jarvis voleva utilizzare la somma - desiderava andare a trovare sua sorella e suo padre in North Carolina". Adesso saranno i parenti dell'uomo a riscuotere il denaro.
Caterina Galloni per blitzquotidiano.it il 12 settembre 2021. Morire facendo l’amore ad alcune persone può sembrare il modo migliore di lasciare questa terra. In realtà, come riferisce il Sun, può avvenire in circostanze orribili.
Morire facendo l’amore, i casi più strani e famosi.
In India un uomo che non aveva dietro un preservativo ha avuto la pessima idea di sigillare il pene con la colla, pensando così di avere un rapporto in sicurezza. Prima di fare sesso con la fidanzata in un hotel nel Gujarat, Salman Mirza, 25 anni, ha applicato l’adesivo sul pene. Sembra sia deceduto per insufficienza multiorgano. Ma è solo l’ultimo esempio di persone, anche note, morte mentre avevano un rapporto sessuale.
Nelson Rockefeller, vicepresidente degli USA all’epoca di Gerald Ford, nel 1979 ebbe un infarto mentre era in “compagnia” della giovane assistente. L’anno scorso, l’attore Matthew McConaughey ha rivelato che il padre è morto facendo l’amore con la madre.
Ma altri esempi sono davvero orribili: dagli attacchi dei leoni alle cadute mortali. L’atto sessuale in sé può essere pericoloso per la vita. Il Sun scrive che all’inizio del 2020, un uomo è morto dopo aver avuto quello che l’autopsia ha definito un “super orgasmo”.
Charles Majawa, 35 anni, di Phalombe, in Malawi, dopo un incontro con una prostituta ha perso conoscenza. I poliziotti e un medico legale del Migowi Health Center hanno visto il corpo e hanno confermato che la causa della morte era dovuta a “un super orgasmo che ha provocato la rottura dei vasi sanguigni nel cervello”.
Sbranato da un leone mentre fa l’amore in un bosco. Anche fare l’amore all’aperto, quando nelle vicinanze ci sono animali pericolosi, è stato motivo di morte.
Nel 2013, un sito web di notizie dello Zimbabwe ha riferito che una coppia mentre faceva sesso in un bosco è stata aggredita un leone. Dopo aver interrotto il rapporto, il felino ha ucciso Sharai Mawera mentre l’amante, non identificata, è riuscita a scappare.
Viagra tra le cause più frequenti. La pillola blu è stata collegata ad alcuni decessi scioccanti. In Thailandia, il turista britannico Michael Soden sembra sia morto per un attacco di cuore dopo aver assunto il farmaco e aver fatto sesso con una prostituta.
Nel 2016, il 54enne è stato trovato morto nella sua stanza degli ospiti a Pattaya City. “Aveva ricevuto la ragazza nella sua stanza, aveva preso il Viagra e poi è morto”, aveva detto all’epoca l’ufficiale superiore Pitak Neonsaeng. “Pensiamo che dopo il rapporto sia andato in bagno dove poi è morto”. L’anno scorso il farmaco avrebbe provocato un altro decesso, sempre in Thailandia. Khun Thep , 44 anni, dopo aver assunto un cocktail di sostanze – incluso il Viagra – ha avuto un infarto ed è morto durante un’orgia.
Soffocato dal seno dell’amante muore durante il rapporto. A Washington, USA, nel 2013 Donna Lange ha ucciso l’amante all’interno di un camper. La donna, in quel momento ubriaca, aveva affermato di non avere idea come fosse morto l’uomo, ma un testimone aveva riferito di averla vista schiacciare il seno contro il volto dell’uomo. Un anno prima, un avvocato tedesco aveva accusato la fidanzata di aver tentato di ucciderlo con il suo seno. La donna indossava la taglia XL di reggiseno. La presunta vittima aveva sostenuto che l’aggressione a sorpresa è avvenuta mentre erano in preda alla passione. Secondo quanto riportato dal Daily Mail, in tribunale Tim aveva testimoniato: “Improvvisamente mi ha afferrato la testa e l’ha spinta contro il seno con tutta la forza. Non riuscivo più a respirare, devo essere diventato blu. Non riuscivo a liberarmi e pensavo che sarei morto”. Ma è riuscito a liberarsi e in seguito ha detto di aver fatto confessare la femme fatale. “Le ho chiesto perché volesse uccidermi con il seno e lei ha risposto: “Tesoro, volevo che la tua morte fosse il più piacevole possibile'”.
Si sente sola: la vincitrice di 31 milioni di euro alla lotteria si toglie la vita. Roberta Damiata il 13 Settembre 2021 su Il Giornale. Margaret Loughrey, meglio conosciuta come “Maggie Millions”, si è suicidata dopo aver vinto nel 2021, 31 milioni di euro alla lotteria. Aveva sempre dichiarato che quel Jackpot le aveva rovinato la vita. “Il denaro non mi ha portato altro che dolore”. Queste le parole pronunciate qualche tempo fa da Margaret Loughrey, conosciuta in Inghilterra con il nome di “Maggie Millions”, che dopo aver vissuto per anni con il sussidio dello Stato di 58 sterline a settimana, si era aggiudicata il primo premio dell’EuroMillions di oltre 26 milioni di sterline, circa 31 milioni di euro. Una vincita che avrebbe cambiato in meglio la vita di molti, ma non la sua. La donna di 56 anni è stata infatti trovata morta nel suo piccolo appartamento di Belfast, che non aveva mai cambiato nonostante il premio. Dai primi rilievi della Polizia accorsa sul posto, c'è la conferma che si tratta di suicidio. Margaret aveva acquistato il biglietto nel 2013, mentre tornava dall’ufficio di collocamento in cerca di lavoro. Aveva chiamato per primo suo fratello Paul, ma subito dopo aver incassato la vincita, lo aveva allontanato dalla sua vita, insieme agli altri quattro fratelli, pur donando ad ognuno di loro un milione di euro. In seguito però, aveva dichiarato spesso durante le interviste, che quell'enorme quantità di denaro, l’avevano distrutta. “Se c’è un inferno, ci sono stata. Mi pento di aver centrato il Jackpot. Prima ero una persona felice, ma la vincita ha rovinato la mia vita”. La donna non si era mai sposata e non aveva figli, e la maggior parte del denaro vinto lo aveva poi donato a istituti di beneficenza. Negli ultimi anni aveva anche acquistato un pub, un vecchio mulino, che aveva trasformato in un centro ricreativo, e anche un bungalow. Subito dopo la vittoria, probabilmente per la grande pressione, aveva cominciato ad avere problemi di salute e di alcolismo. Era stata poi condannata per aver aggredito un tassista, ed ed aveva svolto 150 ore di lavori per la comunità. Attualmente aveva ancora in suo possesso 5 milioni di euro, e il suicidio non è quindi da imputarsi alla mancanza di denaro, bensì alla solitudine di cui soffriva. "Non ha senso avere 31 milioni di euro ed essere sola. Questo non può rendermi felice, può farlo solo la felicità delle altre persone”. Forse per questo motivo, aveva deciso di donare molti dei suoi soldi in beneficenza. Margaret Loughrey, non è stata comunque la sola a cui tanto denaro non ha portato altrettanta felicità. Anche per il postino Adrian Bayford che aveva vinto ben 148 milioni di sterline alla lotteria, le cose non sono andate benissimo. Suo figlio Cameron di 13 anni, è uscito da poco dal coma dopo che il suo quad, un regalo di suo padre, si era schiantato il mese scorso, nella vasta tenuta di famiglia nel Suffolk. Un suo amico ha detto che Adrian: "Si sente consumato dal senso di colpa". Diverso invece il destino di un muratore inglese che ha vinto quasi 123 milioni di euro, ma ha deciso di continuare a lavorare perché come ha dichiarato: “Ho dei lavori da finire, e non posso abbandonare i miei clienti”.
Roberta Damiata. Sono nata a Palermo ma Roma mi ha adottato da piccola. Ho iniziato a scrivere mentre andavo ancora al liceo perché adoravo la British Invasion. Mi sono poi trasferita a Londra e da lì ho scritto di musica per vari anni. Sono tornata in Italia per dirigere un teen magazine e un paio di testate gossip. Amo la cronaca nera, il gossip, raccontare i personaggi e guardare sempre oltre la notizia. Il mio motto è "treat people with kindness", ma le mie grandi passioni sono i gatti e scrivere romanzi.
Da blitzquotidiano.it il 12 settembre 2021. In Irlanda del Nord, Margaret Loughrey, 56 anni, vincitrice di 31 milioni di euro alla lotteria, è stata trovata morta nella sua abitazione a Strabane, nella contea di Tyrone. La polizia afferma che il decesso non è sospetto, probabilmente si tratta di suicidio. Secondo quanto riportato dal Daily Mail, “Maggie Millions” così chiamata per il jackpot a EuroMillions otto anni fa, aveva più volte ammesso che la vincita aveva «distrutto la sua vita». La dea bendata l’aveva baciata quando ha comprato il biglietto che le ha fatto vincere l’enorme somma di denaro. Maggie stava tornando a casa dall’Agenzia di collocamento, viveva con un sussidio di sole 58 sterline a settimana, poco più di 61 euro. Dopo la vincita ha regalato 1 milione di sterline (circa 1 milione e 160mila euro) a ciascun familiare. Ha donato una considerevole fetta della somma in beneficenza e alla città di Strabane affinché venisse trasformata in una mèta turistica. Ha investito il denaro in un piccolo impero immobiliare, tra cui un bungalow, un pub e un ex mulino convertito in un centro ricreativo. Ma quattro mesi dopo la vincita e anche in seguito ha così definito la vita da da multimilionaria: «Se esiste l’inferno ci sono stata. Il denaro mi ha portato solo dolore. Ha distrutto la mia vita». Loughrey aveva affermato che le persone le avevano “rubato milioni” e aggiunto: «Mi dispiace di aver vinto alla lotteria. Prima ero una persona felice». Di recente aveva detto che le erano rimasti solo 5 milioni di sterline. Paul Gallagher, vicino e consigliere locale ha rivelato che poco prima di morire Meggie aveva trasformato un fienile nella casa dei suoi sogni. Aveva acquistato Herdman’s Mill a Sion Mills nel 2014, ma era stata presa di mira da incendi e atti di vandalismo. Nel 2015 a Loughrey era stato ordinato di fare 150 ore di servizio alla comunità dopo essere stata condannata per aver aggredito un tassista. Nel 2018 fu condannata a pagare 30.000 sterline a un ex dipendente che aveva maltrattato, deriso per la fede religiosa e poi licenziato.
(ANSA il 28 agosto 2021) Due persone sono morte in un incidente durante il Rally dell'Appennino reggiano. È successo verso le 9 in località Riverzana, territorio comunale di Canossa (Reggio Emilia). Sul posto, la polizia locale Unione Val d'Enza e i carabinieri per ricostruire la dinamica di quanto successo, oltre all'elisoccorso del 118. Era in corso la prima prova speciale della giornata. In seguito all'incidente la manifestazione è stata sospesa. (ANSA).
Da ilrestodelcarlino.it il 28 agosto 2021. Due giovani, entrambi spettatori, sono morte durante il Rally dell'Appennino reggiano, un evento molto noto tra gli appassionati. Sull'accaduto è già aperta un'inchiesta. Dalle prime notizie, l'incidente è avvenuto in un tratto rettilineo del circuito in località Riverzana, nel comune di Canossa: l'equipaggio numero 42, una Peugeot 208 guidata dal duo Gubertini-Ialungo ha perso il controllo del mezzo che è uscita dal circuito. A causa della forte velocità e di un terrapieno che ha fatto da rampa, l'auto si è staccata dal suolo ed è precipitata su una collinetta dove si erta radunato il pubblico. L'auto è piombata sulla gente, travolgendo e uccidendo i due giovani. I due componenti l’equipaggio sono rimasti illesi, ma sono entrambi sotto choc. Immediati i soccorsi degli operatori sanitari in servizio sul percorso e, in un disperato tentativo di salvare la vita alle due persone, è stato fatto levare in volo anche l'elisoccorso dall'Ospedale Maggiore di Parma: purtroppo ogni soccorso è risultato vano. La polizia municipale della Unione Val d'Enza assieme ai carabinieri stanno ora ricostruendo la dinamica di quanto successo. Era in corso la prima prova speciale della giornata. In seguito all'incidente la manifestazione è stata sospesa. Stanotte, in provincia di Ferrara, due amici sono morti in un terribile incidente avvenuto a Codigoro: avevano 42 e 53 anni. Nello schianto sono rimaste ferite tre persone.
L'auto gli è piombata addosso dopo un salto. Davide e Andrea, i due giovani travolti durante la gara di rally. “Non c’erano barriere”. Riccardo Annibali su Il Riformista il 28 Agosto 2021. Le due vittime dell’incidente al Rally dell’Appennino sono il 21enne Davide Rabotti, reggiano, studente di ingegneria informatica all’Università di Modena e di Reggio Emilia e il 35enne Cristian Poggioli di Lama Mocogno in provincia di Modena. I ragazzi assistevano al noto evento motoristico sopra un terrapieno alto circa tre metri e sono morti travolti da un’auto che partecipava alla competizione e che è uscita di strada. Sull’incidente è già aperta un’inchiesta. “In quel punto – ha spiegato il sindaco di san Polo d’Enza (Reggio Emilia) Franco Palù – non c’erano barriere”. Secondo i testimoni e le prime ricostruzioni l’incidente è avvenuto in un tratto rettilineo del circuito in località Riverzana, nel comune di Canossa (Reggio Emilia). L’equipaggio numero 42 della Peugeot 208 guidata dal duo Claudio Gubertini e Alberto Ialungo, ha perso il controllo del mezzo e l’auto, a causa della forte velocità e di un terrapieno che ha fatto da rampa, si è staccata dal suolo ed è piombata proprio dove si trovavano Davide e Cristian, uccidendoli. I due componenti l’equipaggio sono rimasti illesi, ma sono entrambi sotto choc. Gli operatori sanitari in servizio sul percorso hanno effettuato un disperato tentativo di salvare la vita ai due ragazzi richiedendo anche l’arrivo dell’eliambulanza dell’Ospedale Maggiore di Parma, purtroppo ogni soccorso è risultato vano. La polizia municipale della Unione Val d’Enza assieme ai carabinieri stanno ora ricostruendo la dinamica di quanto successo. Era in corso la prima prova speciale dell’ultima giornata della competizione iniziata ieri. In seguito all’incidente la manifestazione è stata sospesa.
IL SINDACO – “Il punto in cui si trovavano i due ragazzi travolti e uccisi dalla vettura del Rally dell’Appennino reggiano era una specie di collinetta, un ‘montarotto’, alto 3-4 metri e distante una ventina di metri dalla strada, non c’erano barriere”. A dirlo all’Ansa è Franco Palù, il sindaco di San Polo d’Enza in provincia di Reggio Emilia, che si è recato sul posto dell’incidente. “È stato un incidente particolare – ha detto il sindaco – in una zona che di per sé non era pericolosissima, era al termine di un breve rettilineo in cui l’auto avrebbe dovuto girare a sinistra ma, non so per quale motivo, forse per una perdita di controllo dello sterzo, è finita sulla destra andando sul "montarotto" dove c’erano i due ragazzi deceduti. Che io sappia lì c’erano solo i due ragazzi e non altre persone”. Il Rally dell’Appennino reggiano è una manifestazione storica e seguita da molti appassionati della zona, “un classico del nostro Appennino” ha aggiunto il sindaco. Questa era l’edizione numero 41, tornata a disputarsi dopo un anno di stop per il Covid. Riccardo Annibali
Claudia Guasco per “Il Messaggero” il 27 agosto 2021. Una gita tra amici, una giornata spensierata nella natura. Fino a quando Simona Cavallaro, vent'anni, si incammina nel bosco in compagnia del fidanzato. All'improvviso si avventa su di lei una muta di cani randagi e per la giovane non c'è scampo, viene sbranata e uccisa. Sembra un film dell'orrore ciò che è accaduto ieri pomeriggio sulle montagne che circondano Satriano, comune sul versante ionico delle Serre calabresi in provincia di Catanzaro. La comunità di Soverato è sconvolta, perché al dolore per la scomparsa di una ragazza si aggiunge il dramma della morte terribile: mangiata viva dagli animali, più di dieci, senza poter fare nulla per difendersi. Simona Cavallaro era arrivata qualche ora prima con degli amici per una scampagnata nella zona di Monte Fiorino, nei pressi di un'area picnic. Poi insieme al fidanzato ha deciso di addentrarsi nei boschi circostanti per un sopralluogo, un luogo impervio dove avrebbero voluto organizzare una gita nei prossimi giorni. In lontananza i due ragazzi hanno visto avvicinarsi un gregge di pecore seguite da alcuni pastori maremmani. Il ragazzo impaurito dagli animali si è subito allontanato nascondendosi dietro a un capanno, mentre Simona ha iniziato a giocare con i cani. Accorgendosi, troppo tardi, che erano pericolosi. Così ha cercato di mettersi in salvo, ma è stata azzannata e subito dopo aggredita da almeno dieci cani spuntati all'improvviso. Il giovane, sconvolto, ha chiamato i soccorsi che hanno impiegato un po' di tempo per raggiungere la zona impervia. I primi ad arrivare sul posto sono stati i vigili urbani di Satriano: per allontanare i cani, che si stavano avventando anche su di loro, hanno dovuto sparare diversi colpi di pistola in aria. È toccato ai carabinieri il compito di informare della tragedia i familiari della ragazza. Sotto shock gli amici della vittima che erano partiti con lei per trascorrere qualche ora in spensieratezza. La notizia della morte della ventenne si è subito diffusa a Soverato dove la vittima viveva con la famiglia, conosciuta nella cittadina. La morte di Simona Cavallaro riporta purtroppo in primo piano l'emergenza randagismo in Calabria. Sono circa 15 mila i cani rinchiusi nei rifugi, di cui oltre 5.700 nella sola provincia di Crotone. Nel 2019 sono state effettuate 1.492 adozioni, circa 20 milioni di euro è invece la stima del costo annuo per il mantenimento dei cani nelle strutture e per i risarcimenti a carico delle aziende sanitarie per incidenti causati dai randagi. I dati del 2020 sul randagismo in Italia, condivisi dal ministero della Salute, registrano 76.192 ingressi in canili sanitari, 42.665 in canili rifugio e 42.360 adozioni di cani randagi. Ma il numero di quelli fuori dalle strutture sarebbe ben più alto: il dato del 2019 registra 500-700 mila cani randagi. Un fenomeno diffuso soprattutto in alcune regioni, dove prosperano colonie di animali vaganti e dove gli abbandoni di animali domestici si intensificano nel periodo estivo o in concomitanza con l'apertura della stagione di caccia. Le differenze tra regioni, tuttavia, sono marcate, con un profondo divario tra nord e sud. Il 67% dei cani rinchiusi è nel Mezzogiorno e il 43% dei canili è concentrato sempre al sud.
Da lastampa.it il 28 agosto 2021. E' stata attaccata dal branco alle spalle e alle gambe Simona Cavallaro, la ragazza di 20 anni di Soverato, uccisa giovedì scorso da alcuni cani nell'area picnic di località Monte Fiorino, nel comune di Satriano, mentre stava perlustrando la zona con un amico in previsione di un scampagnata da fare domenica prossima. E' il risultato dell'autopsia, durata 5 ore, eseguita dal medico legale Isabella Aquila su disposizione del pm di Catanzaro Irene Crea, alla presenza dei periti nominati dalla famiglia della ragazza e dell'indagato, un pastore di 44 anni, proprietario del gregge che i cani, tra maremmani e meticci, forse stavano custodendo. La ragazza, probabilmente stava cercando di fuggire e ha anche tentato di difendersi: sotto le sue unghie sono stati trovati peli di cane. Starà ora a un team di esperti stabilire a quali tra i 12 cani catturati appartengano i peli prelevati. Tra gli animali catturati solo uno aveva impiantato il microchip che consente di risalire al proprietario. Nelle ultime ore sono stati effettuati prelievi dal pelo degli animali, alcuni dei quali avevano il capo sporco di sangue. Sulla vicenda stanno indagando i carabinieri della compagnia di Soverato, agli ordini del tenente Luca Palladino, che per primi sono arrivati sul posto, lo scorso giovedì, allertati dall'amico che si trovava in compagnia di Simona. Al momento i militari, con l'aiuto dei veterinari, hanno catturato 12 animali, per otto dei quali si è resa necessaria la sedazione. Gli animali sono affidati in custodia al canile municipale mentre i carabinieri sono alla ricerca degli ultimi esemplari che mancano alla cattura. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, in un primo momento i due ragazzi si sarebbero rifugiati in una chiesetta in legno che si trova nell'area picnic. Solo in un secondo momento Simona, forse pensando che gli animali fossero andati via, ha cercato di raggiungere l'auto, ma è stata assalita dal branco. L'area è attualmente interdetta, dal momento che occorre capire se possano esservi altri cani in circolazione che potrebbero, eventualmente, creare ulteriori problemi. Sono stati attimi concitati, nei quali Simona Cavallaro e l'amico che si trovava con lei hanno dovuto prendere una decisione in pochi istanti. Il giovane ha iniziato a correre verso quel capanno, urlando ripetutamente il nome di Simona e invitandola a seguirlo. Lei, invece, terrorizzata, ha cercato probabilmente di raggiungere l'auto non molto distante. Ovviamente sono tutti racconti poco lucidi, visto il terrore che si è vissuto in quei momenti e su cui i carabinieri puntano a fare chiarezza.
Da catanzaro.gazzettadelsud.it il 28 agosto 2021. C'è un indagato per la morte assurda di Simona Cavallaro, la studentessa ventenne assalita ed uccisa da un branco di cani nelle vicinanze di un’area picnic in località Monte Fiorino nel territorio del comune di Satriano, nel catanzarese. Si tratta di un pastore 44enne di Satriano, Pietro Russomanno, che sarebbe stato individuato dai carabinieri come il proprietario del gregge di pecore che pascolava poco distante dal luogo dell’aggressione e a guardia del quale sarebbero stati almeno alcuni dei cani - in prevalenza pastori maremmani - che hanno aggredito la giovane. Il pastore, che sarà assistito dall'avvocato Vincenzo Cicìno, è stato iscritto nel registro degli indagati - con l'ipotesi di reato di omicidio colposo - anche a sua garanzia, per permettergli, cioè, di nominare un proprio perito in vista dell’autopsia disposta dal pm della Procura di Catanzaro Irene Crea che sarà effettuata oggi (28 agosto 2021). Ma solo al termine degli accertamenti in corso da parte dei carabinieri della Compagnia di Soverato e del Nucleo investigativo del Comando provinciale di Catanzaro, la posizione dell’uomo sarà definita.
Le indagini. Nella zona continuano le ricerche per catturare tutti gli animali, in tutto una quindicina, che si sono avventati sulla ventenne. Per adesso ne sono stati presi due, ancora sporchi di sangue, che sono adesso all’esame dei veterinari che dovranno accertare se hanno impiantato il chip di riconoscimento che permette di risalire al proprietario. Si tratta di cani che, hanno riferito gli investigatori, si presentavano particolarmente aggressivi. Tanto che, al loro arrivo, hanno anche tentato di assalire i carabinieri e la polizia locale. Militari ed agenti sono stati costretti a sparare alcuni colpi di pistola in aria per farli allontanare. Gli investigatori, oltre a dover stabilire se i cani che hanno aggredito Simona fossero del pastore, stanno anche valutando se il gregge di pecore fosse al pascolo in una zona consentita o meno. La morte della ragazza, infatti, è avvenuta vicino ad un’area picnic dove Simona ed un amico stavano facendo un sopralluogo in vista di una scampagnata in programma domenica con un gruppo di amici. Il ragazzo è riuscito a fuggire rifugiandosi in un capanno poco distante, mentre la ragazza non ce l’ha fatta.
La testimonianza dell'amico. I morsi non avrebbero dato tregua alla ragazza che non sarebbe riuscita a divincolarsi e scappare. Neanche le urla di auto avrebbero fatto allontanare gli animali che invece l'hanno ferita in modo mortale. Il ragazzo che era con lei, invece, probabilmente fuggito nella direzione opposta, è riuscito miracolosamente a trovare riparo nelle vicinanze, all'interno di una baita, salvandosi così la vita. È stato lui a chiamare i soccorsi. Sul posto sono immediatamente accorsi i sanitari del 118, che non hanno potuto far altro che constatare il decesso e i carabinieri della Compagnia di Soverato, guidati dal tenente Luca Paladino, che hanno avvisato dell'accaduto i familiari della ragazza, oltre al magistrato di turno che è giunto sul posto per coordinare le indagini. Comprensibilmente sotto choc l'amico della ragazza che era andato con lei a trascorrere qualche ora in spensieratezza. Il ragazzo ha comunque fornito agli inquirenti elementi utili a ricostruire l'accaduto, per tracciare dinamica ed eventuali responsabilità. Ulteriori chiarimenti verranno dalle testimonianze di quanti, trovandosi nelle vicinanze, hanno potuto in qualche modo assistere ai fatti. Intanto la notizia si è sparsa in un baleno nella cittadina jonica, visto che la ragazza è figlia di un imprenditore locale, dove i conoscenti della famiglia sono rimasti sbigottiti e increduli quando hanno appreso la notizia.
Il dolore del padre. "La mia amata figlia Simona è venuta a mancare su questa vita terrena, il mio dolore è immenso come se avessero esportato metà del mio corpo. Simona, pura come l'acqua di fonte, solare come l'alba e il tramonto, sorridente e scherzosa come una bambina". In queste parole c'è tutto il dolore di un padre, Alfio Cavallaro, che su Facebook ha provato a tracciare un ricordo di sua figlia Simona, la 22enne sbranata ieri pomeriggio da un branco di cani pastore a Satriano. Alle parole, il noto gioielliere di Soverato, ha aggiunto le foto di Simona per ricordare "uno spaccato della sua poca vita vissuta nel pieno amore della famiglia e degli amici più cari". "Le nostre vite saranno distrutte". “Quanto avvenuto a Satriano lascia sgomenti. La giovane Simona Cavallaro ha perso la vita dopo essere stata aggredita da un branco di cani in una pineta attrezzata. Si fa davvero fatica a crederci. È una tragedia immane che poteva e doveva essere evitata. Non si può morire in questo modo, a vent’anni. Mi auguro che gli inquirenti, che hanno già avviato le indagini, facciano luce al più presto su quanto accaduto e riescano a individuare gli eventuali responsabili. A nome di tutta la Giunta regionale, mi unisco allo straziante dolore della famiglia di Simona ed esprimo il più sentito cordoglio a tutta la comunità di Soverato, sotto choc per un evento incomprensibile, inaccettabile”. È quanto afferma il presidente della Regione Calabria, Nino Spirlì.
Gli ultimi istanti di vita della giovane 20enne. Simona sbranata dai cani, il racconto dell’amico: “Urlavo il suo nome, siamo scappati in direzioni opposte”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 28 Agosto 2021. Era insieme a un amico Simona Cavallaro quando si è ritrovata di fronte un branco di una decina di cani che ha attaccato e sbranato la giovane ventenne nei boschi di Satriano, in provincia di Catanzaro. Gli inquirenti sono a lavoro sugli ultimi istanti di vita della giovane originaria di Soverato, morta giovedì 26 agosto. Sono stati attimi concitati quelli vissuti dalla coppia di amici nei boschi del Monte Fiorino. I due si erano staccati dal gruppo di coetanei per addentrarsi in altre zone: lì il branco di cani li ha circondati. A questo punto Simona e l’amico, anche lui ventenne, hanno preso decisioni opposte: quest’ultimo ha deciso di correre verso un capanno; lei invece verso l’autovettura con la quale avevano raggiunto la zona. Ma l’auto Simona non riuscirà a raggiungerla. A raccontare i dettagli degli ultimi istanti di vita della giovane è stato l’amico, ancora sotto choc. Agli inquirenti, secondo la ricostruzione dell’agenzia Agi, ha spiegato che si sono imbattuti prima nel passaggio del gregge di pecore, poi, poco dopo, si è palesato il branco di cani, oltre una decina. Qui l’amico di Simona ha iniziato a correre verso il capanno pronunciando più volte il nome della 20enne, nella speranza che lo seguisse. Lei invece, terrorizzata, ha provato a raggiungere l’autovettura che si trovava non molto distante. Ma è stata prima accerchiata dal branco di maremmani e meticci e poi aggredita dopo aver provato a riprendere la fuga. Un racconto ancora confuso sul quale sono in corso le indagini dei carabinieri. Intanto la notizia dell’orribile morte di Simona ha gettato nello sconforto l’intero comune di Soverato. Un paese in lutto che si stringe intorno al dolore dei familiari. A parlare il papà della 20enne, un gioielliere molto noto in città che in un post sui social ha scritto: “La mia amata figlia Simona è venuta a mancare su questa vita terrena, il mio dolore è immenso come se avessero esportato metà del mio corpo. Simona, pura come l’acqua di fonte, solare come l’alba e il tramonto, sorridente e scherzosa come una bambina”. Il sindaco di Soverato, Ernesto Alecci, ha detto: “Per un dolore di questo tipo non esistono parole di conforto adeguate”, quindi ha proclamato il lutto cittadino durante il giorno in cui si terranno le esequie, mentre ieri ha vietato qualsiasi attività musicale sul territorio comunale, anche durante la notte. Intanto è stata effettuata in giornata l’autopsia sul corpo di Simona da parte del medico legale dell’Università di Catanzaro, Isabella Aquila. Al momento l’unico indagato è un pastore, proprietario del branco di cani che ha ucciso la giovane. L’accusa è quella di omicidio colposo, un atto dovuto per completare gli accertamenti. Le ricerche dei carabinieri della Compagnia di Soverato proseguono serrate alla ricerca degli animali che hanno sbranato Simona. In due giorni, con l’ausilio dell’Azienda sanitaria provinciale, sono stati accalappiati dodici cani maremmani e meticci nella zona di Monte Fiorino. Molti degli animali catturati sono sporchi di sangue e saranno alcuni rilievi scientifici a ricostruire quanto accaduto nell’aggressione. Gli esperti hanno prelevato, infatti, alcuni campioni di peli per identificare con certezza gli animali che hanno effettivamente aggredito la ragazza.
Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.
Scozia, bambino annega nel lago. Anni dopo ricompare nelle foto di addio al nubilato. Valentina Mericio il 28/08/2021 su Notizie.it. In Scozia è accaduto un fatto curioso. Un bambino morto annegato nel lago è ricomparso anni dopo in alcune foto di addio al nubilato. Quando si parla di miti, fantasmi, esseri misteriosi che poco hanno a che fare con il mondo reale (pensiamo ad esempio agli extraterresti ndr), spesso ci viene da chiederci se una determinata cosa esista veramente. Questo potrebbe essere il caso dei fantasmi che sono stati raffigurati in numerosi modi e in diverse occasioni. Checché se ne dica, o ci si creda o meno alla loro esistenza, in Scozia è avvenuto un fatto alquanto curioso. Un bambino dichiarato morto anni addietro dopo essere annegato nel lago, è comparso misteriosamente in alcune foto di addio al nubilato. Un effetto dunque se possibile, incredibilmente inquietante.
Bimbo foto nubilato, la storia della misteriosa immagine. Correva l’anno 2017 e un gruppo di ragazze aveva prenotato un soggiorno presso il “The Coylet Inn”, una struttura particolarmente suggestiva che si affaccia sul lago Eck in Scozia. È stato proprio di fronte alle acque cristalline del lago che le dieci ragazze, comprese la sposa si sono messe in posa, pronte per essere immortalate nelle foto di gruppo. Proprio allora è successa una cosa inaspettata. In una delle foto è comparsa la figura di un bambino misterioso che guardava le ragazze. Una figura apparsa dal nulla che, secondo prime ricostruzioni sarebbe appartenuta a quella di un bambino morto alcuni anni prima.
Bimbo foto nubilato, l’identità del bambino misterioso. Ma chi era il bambino misterioso ritratto nella foto? Secondo quanto emerso dall’immagine il bambino apparso in basso sulla sinistra, non configurava tra i clienti dell’hotel, senza contare che la sua presenza è stata riscontrata soltanto in uno scatto. Alla vista di questa inquietante immagine le ragazze – riporta “the little things” – prese dalla sensazione di disagio hanno ritenuto di non prolungare ulteriormente il loro soggiorno e di partire prima del previsto.
Bimbo foto nubilato, la leggenda del “Blue Boy”. Leggenda o realtà? Questo è sicuramente uno dei nodi legati a questa storia. La figura del bambino è legata alla leggenda metropolitana del”Blue Boy”, secondo la quale un bambino di soli 4 anni che viveva con la madre presso l’hotel e colpito da sonnambulismo, morì annegato nelle acque del lago Loch Eck. A dare il nome alla storia, è stato il colore della pelle del giovane reso blu a causa del freddo delle acque.
Daniele Luttazzi per “il Fatto quotidiano” il 24 agosto 2021. Ritenere che stelle, pianeti e satelliti influenzino le vicende umane è pensiero magico: non c'è alcuna causa scientifica a collegare quelli a queste. Ciò non toglie che sia divertente leggere gli oroscopi a giornata conclusa, per vedere se ci hanno preso. Qualora piacciano anche a voi le coincidenze (c'è chi ne ricava un senso di ordine cosmico, e chi addirittura le ritiene la prova che dall'aldilà ci stanno comunicando che sono ancora vivi, poiché la probabilità di certi sincronismi è talmente remota che solo una volontà sovrannaturale può giustificarla), la lettura post hoc dell'oroscopo è un hobby che potete senz' altro perfezionare: per esempio, verificando quello dei vip pubblicato nel giorno del loro decesso.
Nicoletta Orsomando, Capricorno. Morta il 21 agosto. Branko: Sarai felice che un amico che pensavi perso comunichi con te, non solo per salutarti, ma per fare grandi proposte. Marco Pesatori: Vitalità e forza garantite. Paolo Fox: Tutto procede per il meglio e potresti risolvere molte incomprensioni.
Gianfranco D'Angelo, Leone. Morto il 15 agosto. Branko: Qualcosa potrebbe scuotere il terreno su cui ti trovi. Marco Pesatori: Quando c'è la Luna problematica come oggi, tutto diventa meno semplice. Paolo Fox: Giornata di luna opposta quindi potrebbe emergere un po' di tensione.
Roberto Calasso, Gemelli. Morto il 29 luglio. Branko: Preparati, perché oggi sarà un viaggio particolarmente utile per pianificare tutti i desideri che hai desiderato nella tua vita. Sappi che presto sarai in grado di raggiungerli. Marco Pesatori: La Luna ti ama, ti accarezza, ti premia, ti solleva attorno ondate di simpatia, ti spiana la strada e ti toglie ogni genere di ostacolo davanti. Paolo Fox: Sul lavoro aspettatevi chiamate e novità.
Raffaella Carrà, Gemelli. Mortail 5 luglio. Branko: Una persona cara può esprimere dispiacere per come stanno le cose. Marco Pesatori: Non sei di quelle che aspettano la soluzione dei problemi per l'eternità. Sei concentrata e pronta allo scatto rapido, efficace e anche inesorabile. Paolo Fox: È ideale questo periodo per cercare risposte.
Carla Fracci, Leone. Morta il 27 maggio. Branko: I desideri di cambiamento diventeranno più forti. Marco Pesatori: Quando ti lasci andare sei irresistibile e in ogni duello non perdi mai. Paolo Fox: Sul lavoro questa giornata è ottimale per fare nuovi piani.
Franco Battiato, Ariete. Morto il 18 maggio. Branko: Dovrai fare affidamento sulle tue capacità analitiche e sul tuo autocontrollo d'acciaio per navigare nei mari in tempesta in cui ti trovi oggi. E non c'è modo di sfuggire allo stress. Questa è un'opportunità per mettere alla prova la tua fiducia. Assicurati solo di passarlo. Marco Pesatori: Oggi carichi la vita a testa bassa. Paolo Fox: Sul lavoro potrebbe arrivare una bella notizia.
Milva, Cancro. Morta il 23 aprile. Branko: L'avventura del vostro 2021 inizia proprio oggi, alle 11e 50, con l'arrivo di Marte nel segno. Marco Pesatori: Benissimo. Ora sei proprio te stessa. Paolo Fox: Impegnatevi di più nelle cose che vi piacciono. Il resto, lasciatelo perdere.
Raoul Casadei, Leone. Morto il 13 marzo. Branko: Hai una forza interiore in grado di gestire qualsiasi problema. Non abbassare le braccia, chiudi gli occhi e continua. Marco Pesatori: Marte ti spinge ad agire con la famosa zampata, che è decisione inesorabile. Paolo Fox: Godetevi questo bel periodo.
Rovigo, tragedia per un giovane pallanuotista. Come lo ha ucciso la civetta: una morte atroce. Libero Quotidiano il 17 agosto 2021. Una morte atroce, sconcertante. Un pallanuotista di Ariano Polesine, in provincia di Rovigo ha perso il controllo della moto su cui viaggiava dopo essere stato colpito sul casco da una civetta e si è schiantato perdendo la vita. La vittima è un giovane di 24 anni, Nico Duò, che ieri sera 16 agosto, attorno alle 20,30 in via Linea ad Ariano, guidava la sua Ducati quando è caduto a terra. Un incidente tragico che non gli ha lasciato scampo. Secondo i carabinieri, intervenuti sul posto per i rilievi del caso, il ragazzo è stato colpito sul casco da una civetta. Per le ferite riportate il 24enne è deceduto dopo essere stato portato d'urgenza in ospedale. "Non ci sono parole per commentare una tragedia simile, solo una profonda tristezza. La PN Padovanuoto è vicina ai familiari e agli amici di Nico in questo momento di dolore". Sono le parole con cui sui suoi profili social la PN Pallanuoto Padova ricorda Nico Duò. Come pallanuotista rivestiva il ruolo di “centroboa”. "Una terribile notizia sconvolge la PN Padovanuoto - conclude la società sportiva -. La PN Padovanuoto è vicina ai familiari e agli amici di Nico in questo momento di dolore".
Da "tgcom24.mediaset.it" il 16 agosto 2021. Una donna è morta a Buoncovento (Siena) cadendo da un'altezza di 10 metri dopo essere stata sbalzata fuori da una mongolfiera di cui era alla guida. E' accaduto intorno alle 7, sul posto, insieme ai carabinieri della compagnia di Montalcino, sono intervenuti per i soccorsi i sanitari del 118, ma al loro arrivo la donna era già deceduta. A perdere la vita una donna di 40 anni, pilota di mongolfiera. Dopo aver atterrato e fatto scendere i turisti che stava accompagnano per un tour panoramico nei cieli la donna era ancora a bordo quando, la dinamica e le cause sono ancora da chiarire, la mongolfiera si è improvvisamente rialzata in volo facendo cadere dall'alto l'operatrice che è deceduta sul colpo. La mongolfiera è stata posta sotto sequestro. A dare l'allarme, un'altra operatrice a bordo di una seconda mongolfiera. Incolumi tutti i turisti che erano da poco scesi. Anche l'Agenzia nazionale per la sicurezza del volo ha "aperto un'inchiesta di sicurezza ed inviato sul posto un proprio investigatore per svolgere sopralluogo operativo" a Buonconvento (Siena).
Mauro Giordano per il "Corriere della Sera" il 17 agosto 2021. «Volare mi fa sentire libera, in pace con il mondo. Stacco i piedi da terra e inizia la magia. Questo è quello che cerco di trasmettere a tutti coloro che vengono a volare con me». Elisa Agnoletti, 39enne di Cesena esperta pilota di mongolfiere raccontava così la sua passione per il volo: per anni ha studiato e vissuto in Romagna, negli ultimi tempi viveva in Toscana, a Prato. Un incidente avvenuto nel comune di Buonconvento, in provincia di Siena, ha purtroppo spezzato il suo sogno proprio durante l’attività che la giovane donna aveva scelto come attività e scopo per la vita: volare con la mongolfiera e fare appassionare gli altri a questa attività.
La passione per il volo e l’incidente. Per cause ancora in corso di accertamento è stata sbalzata fuori dal mezzo: un volo di alcune decine di metri, prima di schiantarsi al suolo. Aveva da poco finito un giro con dei turisti e si era rialzata in volo, ma qualcosa è andato storto. La «Mongolfiera di Iside» era la sigla con la quale svolgeva questa attività e sul sito della società, con un blog, la 39enne raccontava perché aveva deciso di fare la pilota e cosa provava tra le nuvole. «Secondo voi nella mia famiglia c’erano persone che volavano in mongolfiera? Assolutamente no – scriveva Elisa Agnoletti -. Anzi penso che ancora oggi, dopo tanto tempo, si chiedono come ci sia finita in questo mondo così lontano dal loro. Il mio primo pensiero è stato “io ci devo assolutamente salire”».
Una preparazione durata due anni. E così era iniziata l’avventura, la ricerca su internet per capire dove e come poter realizzare quel sogno. «Ma come ogni sogno che si vuole realizzare bisogna faticare e impegnarsi. Ci credereste se vi dico che per fare il mio primo volo ci sono voluti due anni?» ricordava la pilota ai suoi lettori: «E forse questo vi fa capire che volare in mongolfiera non è poi così semplice, ma vi fa capire anche che è una cosa straordinaria e che devi volerlo fortemente per riuscire a realizzare questo sogno».
Il ricordo del primo volo: «Da subito ho amato questo mondo». Particolarmente emozionante il racconto del primo volo: «Il mio primo volo è stato folgorante! Ore 4 del mattino ero già presente sul campo di decollo, era ancora buio e non c’era nessuno. Ho trascorso quelle ore completamente assorta nella magia che mi circondava e quando ho rimesso i piedi per terra mi sono detta “devo conoscere di più di questo mondo incantato”».
I rischi, quando diceva «bisogna studiare e essere prudenti». La pilota non nascondeva i rischi del mestiere. «La mongolfiera è complessa nella sua semplicità – spiegava -. Il vento è un fattore importantissimo, è indicatore di possibilità o meno di volare ed è anche lo strumento che ci guida durante il volo perché decide il nostro percorso. Ma non c’è solo il vento. La mongolfiera effettua un volo “a vista” così si chiama perché il pilota deve essere in grado di vedere dove va, quindi non ci deve essere nebbia e chiaramente non deve piovere».
Le indagini e il dolore del compagno. A nulla sono serviti i soccorsi del personale del 118, intervenuto su segnalazione del gruppo di turisti che aveva assistito alla scena. Anche il compagno di Elisa, a terra, ha visto tutto e ha urlato durante le drammatiche fasi dell’incidente. Sul posto sono intervenuti i carabinieri per svolgere accertamenti. Anche l’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo ha «aperto un’inchiesta di sicurezza ed inviato sul posto un proprio investigatore per svolgere sopralluogo operativo». Sull’accaduto indaga il pm di Siena Niccolò Ludovici che ha disposto l’autopsia sulla salma della donna. Tre le ipotesi al vaglio su cui si stanno concentrando gli inquirenti: errore umano, guasto tecnico alla mongolfiera oppure un inaspettato evento atmosferico.
La morte di Elisa Agnoletti, sbalzata dalla sua mongolfiera. I suoi sogni: "Emozionarmi, liberarmi di tutto e volare libera". Trentanove anni, aveva trasformato una passione in lavoro, conducendo in volo i clienti nei cieli di Romagna e Toscana. Sull'incidente nel Senese che le è costato la vita è stata aperta un'inchiesta. La Repubblica il 17 agosto 2021. "Vivere di sogni , emozioni che restano nel cuore... volare in mongolfiera regala momenti unici". Il volo in mongolfiera era tutta la vita della cesenate Elisa Agnoletti, 39 anni: era un sogno che si era concretizzato e diventato un lavoro. Una passione che però ieri si è trasformata in tragedia: dopo aver sorvolato le terre senesi con alcuni clienti, che erano appena sbarcati a terra, la mongolfiera per cause ancora da accertare si è rialzata in volo e la donna è stata sbalzata fuori dal cestello, cadendo da alcune decine di metri, sotto gli occhi del compagno. L'impatto è stato fatale e i soccorsi, subito allertati, non hanno potuto fare nulla: Elisa era già morta. Il dramma è avvenuto a Buonconvento. Romagna e Toscana erano le terre più conosciute dallo staff de "La mongolfiera di Iside", la realtà creata da Elisa e l'ex marito: organizza voli liberi, voli vincolati, partecipa a raduni e balloon festival. C'è chi è salito a bordo con Elisa per festeggiare il compleanno, chi un addio al nubilato, chi ha voluto semplicemente provare l'emozione più grande: quella di volare, il grande desiderio che Elisa Agnoletti aveva realizzato. "Niente è impossibile, circondati di persone che credono in te. Io ho sognato in grande e questo è il risultato. Volare... sognare... emozionarmi ed emozionare", scriveva la donna pubblicando immagini della sua mongolfiera che volava sui campi e i paesi. "Liberarsi di tutto e volare liberi". Volare sopra le nuvole, toccare il cielo con un dito, nuotare in quel cielo. Ora resta il dolore. E restano i dubbi sul perché dell'incidente, capitato a un'operatrice esperta. La mongolfiera è stata sequestrata; l'Agenzia nazionale per la sicurezza del volo ha "aperto un'inchiesta di sicurezza ed inviato sul posto un proprio investigatore per svolgere sopralluogo operativo" a Buonconvento. Tre le ipotesi al momento vagliate: errore umano, guasto tecnico alla mongolfiera oppure un inaspettato evento atmosferico. I carabinieri stanno ascoltando i turisti, una decina (tutti incolumi), che hanno assistito all'accaduto dopo essere scesi dalla mongolfiera che ha ripreso il volo improvvisamente, e da un'altra rimasta a terra.
Caduti “in” guerra o “di” guerra? Risponde la Crusca. L'Inkiesta il 14/8/2021. Tratto dall’Accademia della Crusca. Un lettore ci chiede se sia corretto usare la parola caduti in mare (ormai diffusa nelle espressioni caduti in guerra, in mare, sul lavoro) anche per indicare gli annegati, che effettivamente non muoiono cadendo. Un altro, in occasione dell’inaugurazione a Riccione di un monumento ai caduti del mare, si domanda se sia meglio utilizzare la preposizione del o invece nel mare.
Risposta. Per rispondere alla prima domanda bisogna, almeno brevemente, riassumere che cosa si intende per “caduto” e in che rapporto questa parola sta con altre usate come sinonimi del sostantivo/aggettivo morto. La morte (come la malattia, il sesso, le funzioni corporali, ecc.) è un referente colpito da tabù linguistico, inteso come tendenza a evitare di far entrare nei discorsi le parole esplicite e dirette con cui tali concetti vengono nominati. Così le lingue hanno sviluppato strategie di sostituzione con sinonimi o con la creazione di metafore e forme eufemistiche per poter far riferimento a tali referenti, senza nominarli direttamente: restando nel campo semantico della morte e del morire basta pensare a espressioni come ultimo viaggio, passare a miglior vita, andare tra i più, mancare, ecc. Il sostantivo/aggettivo morto non fa eccezione e anche in questo caso abbiamo a disposizione alternative come defunto, scomparso, estinto (il caro estinto) e il più tecnico-burocratico deceduto. A questi sinonimi eufemistici va aggiunto anche caduto, che, a partire dai primi dell’Ottocento, si è specializzato per indicare ‘il morto in guerra, sul campo di battaglia o nell’adempimento del proprio dovere’: una parola che riproduce visivamente molto bene l’atto dell’andare a terra di qualcuno perché colpito, atterrato appunto, da un colpo nemico e che permette di evitare morto o ucciso, espressioni decisamente più crude e non nobilitanti. In effetti, proprio per dare dignità e grande considerazione pubblica ai moltissimi morti causati dalle guerre, tra Ottocento e Novecento in Europa si è formato il mito dei caduti (Cfr. George L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-Bari, Laterza, 1998) e, con il concetto, si è diffusa e ha cominciato a circolare la parola. Si tratta di un processo che – come ha ben ricostruito Mosse – inizia dal 1813, con le guerre di liberazione: nella Germania protestante si cominciarono a commemorare i morti in guerra durante le regolari funzioni religiose (soprattutto venerdì santo e Pasqua) mettendo così in risalto il parallelo tra la morte dei caduti e il miracolo della resurrezione cristiana. Con gli inizi della guerra moderna e una nuova coscienza nazionale, i morti in guerra vennero assimilati ai martiri del cristianesimo o delle cause rivoluzionarie, sostituendo alla fede religiosa o laica, la nazione. Parallelamente cambiarono anche le strutture dei cimiteri, fino alla realizzazione dei sacrari di guerra intesi come templi del culto nazionale e poi all’istituzione dei monumenti ai caduti. Con la prima guerra mondiale e l’esperienza della morte di massa, nell’urgenza propagandistica di trascendere la morte in guerra, vengono alimentati “i simboli del Mito dell’Esperienza della Guerra” (Mosse, p. 54). Dal concetto di eroe/martire per la Nazione (in Francia e in Germania in primo luogo) si passa, soprattutto durante la Prima guerra mondiale, a costruire il mito del caduto in guerra, prima in forma personale, con il recupero dei corpi e le sepolture, e poi in forma collettiva con i cimiteri di guerra, i monumenti commemorativi e i parchi della rimembranza, fino all’istituzionalizzazione con i monumenti al milite ignoto che diventano il simbolo unitario nazionale per celebrare tutti i morti in guerra, senza più distinzione di status e di gerarchia militare. La lingua, anche in questo caso, segue le “necessità” della storia e degli eventi, tanto che l’uso di caduto come sostantivo per indicare il "morto in guerra, sul campo di battaglia o nell’adempimento del proprio dovere" è attestato, come detto sopra, a partire dai primi dell’Ottocento: lo utilizza Monti nella sua traduzione dell’Iliade (1810, “Sentì pietade del caduto il forte Asteropèo; e di zuffa desioso / si scagliò tra gli Achei”), e poi lo si trova in un esempio tratto dalla poesia di Tommaseo A Pio IX (1872, “Non io le membra de’ caduti in guerra / a’ piè nemici ed agli estivi ardori / empio esporrò, ma la dolente terra / ricoprirò di fiori”). Questo secondo esempio è davvero significativo perché mostra come lo stesso Tommaseo avvertisse uno iato tra l’uso a lui contemporaneo e la tradizione lessicografica: benché nella poesia utilizzi caduti come sostantivo (al plurale preceduto da preposizione articolata), nel suo vocabolario, il famoso Tommaseo-Bellini, caduto è registrato solo come aggettivo (dal part. pass. del verbo cadere) e prevalentemente riferito a cose, nei significati di ‘mancato’, ‘venuto meno’ (già peraltro presenti nel Vocabolario della Crusca); salvo poi inserire una brevissima osservazione alla voce cadere in cui lascia trapelare questa possibilità: “cadere, sottinteso ferito o morto”. Il GDLI, dopo queste due prime attestazioni (Monti e Tommaseo), elenca brani di autori otto-novecenteschi tratti da opere in cui si descrivono guerre, con toni più o meno celebrativi, da Guerrazzi (“Onore ai caduti!”), a Prati, Carducci, D’Annunzio fino a Pavese («Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: “E dei caduti che facciamo? Perché sono morti?”»). Rimanendo ancora in ambito esclusivamente militare, i caduti in o di guerra non sono soltanto i morti sui campi di battaglia: la Marina militare e l’Aeronautica militare hanno dato un altissimo contributo di vite umane, perse in conflitti bellici o in disastri navali o aerei. La celebrazione dei caduti in guerra si estende così anche al ricordo dei marinai, a quei caduti del mare (questa la dizione ufficiale secondo l’Associazione Nazionale Marinai d’Italia – ANMI, marinaiditalia.com) in memoria dei quali si innalzano in tutta Italia monumenti e cippi: il sito ufficiale dell’ANMI offre una rassegna di 562 tra monumenti, cippi, targhe e intitolazioni dedicati ai caduti del mare e distribuiti su tutto il territorio italiano. In rete, attraverso la consultazione di Google libri, si rintraccia però anche un’altra espressione (forse di più antica attestazione): caduti in mare nel significato di "morti in operazioni belliche di mare": si tratta di un articolo pubblicato nel 1914 sulla rivista “Patria e colonie” (uscita dal 1912 al 1918, Letture mensili sotto gli auspici della Società Nazionale Dante Alighieri, anno III, sem. I, p. 382), che riferisce appunto dell’inaugurazione di un monumento per i “caduti in mare”: Un monumento per i caduti in mare. Forse nessun monumento ha più alto significato di pietà di questo che fu recentemente innalzato alla memoria dei caduti in mare. Ogni volta che nel mondo si spande la notizia di un disastro marittimo, noi sentiamo ridestarsi nell’animo nostro tutti gli affetti che ci stringono alla umanità in un senso di solidarietà che è quasi sempre a noi stessi sconosciuto. Scompaiono le divisioni di razza, scompaiono i dissidi politici, e solo resta avanti a noi l’immensità della tragedia, la inanità degli sforzi umani, di fronte alla forza bruta ma possente e suprema della natura. Il monumento per i caduti in mare dice la nostra debolezza di fronte al destino, e la nostra pietà per le vittime dell’ineluttabile. Purtroppo non si precisa il luogo in cui è avvenuta l’inaugurazione, ma è una coincidenza abbastanza indicativa il fatto che a Napoli, proprio nel 1914, fu completato il famoso monumento della colonna spezzata (che però riporta la dicitura “Ai caduti combattendo sul mare”; corsivo mio), con il posizionamento di una colonna di epoca romana su un basamento che, già collocato nel 1867 e rimasto “orfano”, avrebbe dovuto sostenere una lapide in ricordo di tutti i caduti del mare durante la battaglia di Lissa del 1866. L’articolo citato sopra sembra però riferirsi a tragedie marittime non causate da guerre: doveva essere ancora vivo il trauma dei disastri del Titanic (1912) e del recentissimo (maggio 1914) Empress of Ireland con migliaia di morti (in questo anche molti italiani), caduti in mare “vittime dell’ineluttabile”. A prescindere dalla locuzione impiegata, caduti del/in mare, per rispondere quindi al lettore che ci chiede se sia corretto l’uso di caduto esteso anche a vittime non di guerra, si vede come il termine caduto abbia ampliato il suo spettro semantico fino a indicare "il morto da celebrare, da onorare" non solo, dunque ‘chi si è sacrificato in guerra (per terra o per mare che sia), ma anche “chi rimane vittima in un conflitto, in una lotta (anche ideale), o cade nell’adempimento del proprio dovere, ecc.: i c. per la libertà; i c. sul lavoro” (Vocabolario Treccani online). La metafora della battaglia/guerra che genera morti e lascia come unica consolazione la celebrazione dei suoi caduti è stata adattata a eventi storici e sociali tragici: dai naufragi accidentali, alle morti sul lavoro alle terribili stragi di migranti nel Mediterraneo. Ed è senza dubbio la metafora più utilizzata per raccontare le questioni migratorie degli ultimi decenni: non stupisce quindi che, per esprimere la volontà di tener viva la memoria della perdita di così tante vite umane, si ricorra al termine caduti. Un nuovo impulso alla diffusione della sequenza caduti del mare (che abbiamo visto essere la dizione ufficiale scelta dall’ANMI) si è avuto dopo l’istituzione, l’8 luglio 2014, della Prima Giornata internazionale del Mar Mediterraneo, promossa da Earth Day Italia, Ancislink (International No-Profit Association), Asc-Coni (Attività Sportive Conferederate) con il supporto della Marina Militare Italiana e dedicata ai “caduti del nostro mare. Tutti i caduti del mare: dai migranti ai pescatori, ai marinai, alle persone che nel mare avevano trovato il lavoro o inseguivano una speranza”. Scopo dalla giornata è quello di tenere alta l’attenzione internazionale sui problemi geo-politici dell’area mediterranea, promuovendo il ricordo dei migranti che hanno perso la vita nel Mar Mediterraneo. Nella denominazione di questa celebrazione, nata anche sull’onda dello sgomento di fronte alla strage di Lampedusa (3 ottobre 2013 con 368 morti; dal 2015 il 3 ottobre è la Giornata in memoria delle vittime dell’immigrazione), ritorna la formula caduti del mare. Nelle diverse espressioni fin qui considerate, è evidente la presenza di varianti dovute all’alternanza delle preposizioni di (caduti di guerra), in (caduti in guerra/battaglia/mare), della/del (caduti della guerra/del mare/del lavoro), sul (caduti sul campo/lavoro). Per un quadro quantitativo delle occorrenze di ciascuna variante Google può offrire qualche dato anche se, in questo caso in particolare, sono necessarie alcune precisazioni. Si tratta di numeri da prendere con molta cautela perché la ricerca risente inevitabilmente di interferenze dovute a più fattori: 1) le moltissime occorrenze di caduti senza specificazione nel significato di "morti in guerra"; 2) le ancor più numerose occorrenze di caduti nel significato letterale di "cascati"; 3) in particolare per caduti in mare la sovrapposizione con le occorrenze in cui l’espressione si riferisca effettivamente a qualcosa o a qualcuno cascato accidentalmente da un’imbarcazione.
Dagotraduzione dal Sun il 5 agosto 2021. Diventare una star di Tik Tok è l’ultima frontiera della celebrità, eppure un buon numero di giovanissimi talenti emergenti dall’app sono morti in circostanze diverse.
L’ultimo in ordine cronologico a perdere la vita è stato Timbo the Redneck, ucciso da un camion che lo ha centrato mentre preparava delle ciambelle. Prima di lui avevano perso la vita Anthony Barajas, Ethan Peters, Dazharia Shaffer e Caitlyn Loane. Molti dei tanti utenti del social, cresciuto enormemente durante i mesi di pandemia, sono rimasti molto colpiti da queste morti improvvise. «Non può essere morto, aveva appena iniziato», ha detto un fan di Timbo questa settimana. «Ci mancherai e non dimenticherai mai», hanno aggiunto altri. Timbo the Redneck, vero nome Timothy Hall, 18 anni, è morto lo scorso fine settimana mentre eseguiva un’acrobazia con il suo pickup. Il ragazzo stava cercando di eseguire un donut, una manovra in cui il conducente gira intorno a un punto disegnando un cerchio mentre accelera. Ma il veicolo si è ribaltato, lui è «volato fuori dal finestrino e il mezzo è atterrato su di lui» ha raccontato il cognato Tony in un post. Sul camion insieme a Timbo c’era anche la sua ragazza, ma non è chiaro se sia rimasta ferita oppure no. Timbo aveva accumulato su Tik Tok oltre 2 milioni di “Mi piace” ed aveva 200.000 follower.
L’inflluencer Anthony Barajas, 19 anni, è stato ucciso da un criminale mentre era al cinema a vedere il film “Purge” insieme alla diciottenne Rylee Goodrich. A sparargli, a lui un colpo tra gli occhi, a lei alla testa, è stato Joseph Jiminez, arrestato per rapina e omicidio. Barajas è rimasto in rianimazione parecchi giorni, ma nonostante i tentavi di salvarlo è morto il 31 luglio. Secondo le autorità la sparatoria non è stata provocato e Jimenez non conosceva le sue vittime. Barajas aveva accumulato quasi 1 milione di follower su TikTok e aveva oltre 35 milioni di Mi piace sui video che pubblicava sulla piattaforma. Un GoFundme per l'influencer aveva già raccolto oltre 74.000 per coprire le spese mediche, superando il suo obiettivo. L'organizzatrice del fondo, Julia Barajas, ha scritto: «Anthony è stato la luce della vita di così tante persone [sic] e ci aspettano tempi difficili, ma abbiamo una famiglia e degli amici fantastici per superare tutto questo».
Il guru della bellezza Ethan is Supreme, vero nome Ethan Peters, è morto nel settembre 2020 all'età di 17 anni dopo aver presumibilmente perso la sua battaglia con le droghe e la tossicodipendenza. Peters era un famoso influencer di bellezza e make-up noto per il suo stile stravagante e i suoi eccentrici post sui social media. La sua amica Ava Louise ha annunciato la triste notizia su Twitter, dicendo che era «senza parole» per la morte dello YouTuber. Ha affermato che Ethan, che aveva raggiunto mezzo milione di follower su Instagram, stava combattendo contro la tossicodipendenza. Ha pubblicato su Twitter: «Circa un anno fa si è rivolto alla droga per affrontare la pressione di essere famoso in così giovane età. Di recente è diventato problematico a causa della mania indotta dalla droga. Ethan aveva una dipendenza e la dipendenza non dovrebbe essere una vergogna. Sto discutendo apertamente della sua causa di morte per salvare il prossimo ragazzo. «Era così brillante e così intelligente. Aveva bisogno di vivere». Nel suo ultimo messaggio sui social media, pubblicato il 5 settembre 2020, Ethan aveva condiviso questo testo: «Vorrei solo ringraziare tutti coloro che mi hanno maltrattato. Lo faccio una volta all'anno per vedere quanto sono cambiato e l'unica cosa che non è cambiata sono le occhiaie».
Il ballerino di TikTok Swavy è morto per una ferita da arma da fuoco in Delaware all'inizio di luglio. Il 5 luglio 2021, un amico di Swavy, Damaury Mikula, ha confermato per la prima volta la sua morte. In un video di YouTube intitolato "Rest up Bro", l’amico ha rivelato che gli hanno sparato, dicendo: «Gli hanno sparato e voglio solo farvi sapere che sto per prendere il posto per quella ****. Tutto quello che ha fatto è stato fare video, fratello. È vero come l'inferno». I poliziotti hanno detto che la star diciannovenne, il cui vero nome era Matima Miller, è stata portata d'urgenza in ospedale ma è deceduta per le ferite riportate. Il movente della sparatoria rimane sconosciuto e sono in corso le indagini. I fan hanno reso omaggio all'influencer, famoso per la pubblicazione di video comici e che vantava circa 98 milioni di Mi piace sui social media. «A nome della nostra famiglia, vorremmo ringraziarvi per il continuo supporto e amore per Matima Miller, noto anche come Swavy o Babyface», ha scritto la sua famiglia online. «Purtroppo, a causa dell’indagine, non siamo in grado di fornire molte informazioni sugli eventi che circondano la sua scomparsa. Tuttavia, la famiglia sta lavorando diligentemente per ottenere giustizia per Swavy». Swavy aveva più di 2,3 milioni di follower su TikTok e vantava oltre 350.000 fan su Instagram.
Il suo nome utente era @babyface.s. Più comunemente conosciuta con il suo nome utente @bxbygirldee, la diciottenne Dazharia Shaffer sarebbe morta suicida a febbraio. La sua morte è stata confermata il 9 febbraio da suo padre, Joseph Santiago. «Voglio solo ringraziare tutti per l’amore e supporto per mia figlia», ha scritto accanto a un montaggio TikTok di sue foto. «Purtroppo non è più con noi ed è andata in un posto migliore».
L'adolescente, di Baton Rouge, Louisiana, era una star di TikTok con 1,4 milioni di follower. Aveva anche una pagina YouTube in cui avrebbe vlogato la sua vita e tentato sfide virali. La star dei social media aveva anche appena aperto la sua linea di bellezza prima della sua morte. «Potrebbe sembrare molto facile, ma fidati di me non lo è particolarmente visto che sono l'unico lavoratore lol... devo fare così tante cose ma sono grata per questo!» aveva scritto.
La star del Maine TikTok, Rochelle Hager, è morta a marzo dopo che un albero le è caduto addosso durante uno strano incidente d'auto. Secondo le forze dell'ordine locali, la ragazza stava percorrendo una strada a Farmington quando i forti venti hanno fatto cadere un albero sul suo parabrezza mentre procedeva a più di 50 miglia orarie. La 31enne sarebbe stato ucciso sul colpo. Il capo della polizia Charles ha definito l'incidente «tragico e unico». «Non c'era niente che potesse fare per evitarlo», ha detto l'ufficiale a Press Herald in una nota. Nessun'altra persona è rimasta ferita nell'incidente che ha causato la chiusura delle strade per quasi due ore. La compagna di Hager e collega star di TikTok, Brittanie Lynn, ha pubblicato un tributo emotivo dopo che la sua morte è stata confermata. «Non riesco a mangiare o dormire. Tutto quello che posso fare è fare video e desiderare che tu sia qui con me #rip #myangel», ha scritto. Nell'ultimo anno, Hager ha guadagnato un ampio seguito sulla piattaforma di condivisione video. Ha raccolto oltre 1,2 milioni di Mi piace e ha avuto oltre 123.000 follower su TikTok.
L’australiana Caitlyn Loane, 19 anni, è morta suicida l'8 luglio. Era diventato famoso su TikTok per aver documentato la sua vita quotidiana lavorando nel settore agricolo della Tasmania settentrionale. Loane lavorava nella proprietà di 600 ettari della sua famiglia come allevatrice di bestiame ed era nota per la sua passione per il bestiame.Aveva pianificato di rilevare l'azienda di famiglia quando sarebbe diventata più grande. Parlando della loro perdita, il padre di Caitlyn, Phillip Loane, ha dichiarato: «Le parole non possono descrivere la nostra perdita. Era una giovane donna adorabile e pazza, un membro inestimabile della nostra famiglia».La madre di Loane, Richele, ha detto che il «sorriso di sua figlia ha illuminato la stanza» e che «non aveva paura di sporcarsi le mani». Pochi giorni prima, aveva pubblicato una clip finale inquietante per le sue decine di migliaia di follower. Il video mostrava un fotomontaggio della vita del contadino pioniere insieme a una canzone. Chiedeva: «Quanto lontano guideresti per la ragazza dei tuoi sogni?». Nella didascalia, aveva scritto: «Che ne dici della Tasmania?». La sua pagina TikTok aveva un seguito di oltre 50k persone e 700k Mi piace.
Siya Kakkar di Nuova Delhi, in India, è morta tragicamente suicida lo scorso giugno dopo che la sua famiglia aveva affermato di aver «ricevuto minacce». La notizia della sua morte è stata confermata dal suo manager Arjun Sarin, che ha gestito tutto il suo lavoro e le sue sponsorizzazioni. «Questo deve essere dovuto a qualcosa di personale... dal punto di vista lavorativo stava andando bene», ha detto in una dichiarazione all'epoca. «Ho parlato con lei la scorsa notte per un nuovo progetto e sembrava normale. Io e la mia azienda Fame Experts gestiamo molti artisti e Siya era un talento brillante. Sto andando a casa sua a Preet Vihar». Kakkar era una ballerina appassionato ed è apparsa in vari video di coreografia sul canale YouTube "Fluid Dance Academy". Secondo quanto riportato, la famiglia della star 16enne di TikTok ha chiesto un'indagine dettagliata della polizia sulla sua morte. Kakkar aveva raccolto un grande seguito online prima della sua morte con 1 milione di fan di TikTok. Aveva anche oltre 104k follower su Instagram e aveva accumulato oltre 1,1 milioni di follower su TikTok.
L'influencer cinese Xiaoqiumei è morta dopo essere caduta da 50 metri mentre tentava un video da grandi altezza. Aveva ancora il telefono in mano quando si è schiantata a terra. Xiaoqiumei, che aveva più di 100.000 follower, condivideva regolarmente video della sua vita quotidiana e del suo lavoro alla guida di un’enorme gru. Secondo quanto riportato dai media locali, aveva 23 anni ed era madre di due bambini piccoli. Hanno aggiunto che era una professionista al lavoro e teneva il cellulare nella borsa durante l'orario di lavoro. Nonostante ciò, la sua famiglia ha confermato che è morta mentre rientrava da un turno di lavoro con la gru vicino a casa sua nella città di Quzhou, nella provincia di Zhejiang, nella Cina occidentale. I familiari hanno detto che è inciampata ed è caduta.
La star cinese dei social media Ram è morta nell'ottobre dello scorso anno: il suo ex marito le ha dato fuoco durante una trasmissione in diretta tv. È rimasta in coma un mese prima di morire. Il movente del delitto non è chiaro.
Francesco Gentile per "il Messaggero" il 2 agosto 2021. È morta in alta montagna per il desiderio romantico di catturare l'alba con una foto. Francesca Mirarchi, 19enne di Lissone vicino Milano, promessa dell'atletica leggera, è stata ritrovata venerdì in fondo a una scarpata di 15 metri. Aveva passato la notte in tenda con tre amici, una ragazza e due ragazzi, vicino ai Laghi Gemelli, una delle mete più famose del Parco delle Orobie Bergamasche, e verso le cinque e mezza si era allontanata da sola per fare una foto con lo smartphone. Si era alzata quando fuori faceva ancora buio, stando attenta a fare poco rumore per non svegliare la comitiva. Senza paura si è incamminata sui prati ancora bagnati di rugiada alla ricerca del punto migliore per immortalare l'alba. Quando i suoi compagni di escursione si sono svegliati hanno subito capito che qualcosa non andava. I quattro infatti erano rimasti d'accordo di scendere a valle di buon mattino perché le previsioni davano brutto. Verso le 9 sono arrivati due elicotteri e i cinofili dei vigili del fuoco e grazie all'aiuto di un drone i soccorsi hanno trovato il corpo della ragazza alla base di un salto di roccia. Una caduta di 15 metri che le è stata fatale e su cui l'autopsia toglierà ogni dubbio. Il timore dei compagni è che avrebbero potuto accorgersi prima della sua scomparsa e forse fare in tempo a salvarla. Uno di loro, in particolare, si sarebbe ricordato che Francesca aveva detto di voler vedere l'alba. Ora il mondo dell'atletica leggera è in lutto. Le condoglianze riempiono la pagina Facebook dell'Atletica Riccardi 1946, società sportiva milanese che la ragazza ha rappresentato dal 2017 al 2020, conquistando il titolo regionale Allieve della staffetta 4x400 nel 2018 e disputando i campionati italiani di categoria nello stesso anno sui 400 metri a ostacoli. Di «angelo chiamato in cielo» scrive Peppe; «che dolore per tutta la famiglia dell'atletica», lamenta Esther; e di «incidente incredibile» parla Franco, mentre tutti descrivono la ragazza come «estroversa, solare, educata e discreta».
GENITORI DISTRUTTI La stranezza è che i social di Francesca non sono pieni di foto, di pose e di panorami, come qualcuno sospettava, ma spogli, essenziali, quasi distratti. Può darsi che la giovane atleta volesse fare una foto per sé, o semplicemente cogliere il momento per due passi e pensieri, ma questo nessuno lo saprà mai. I genitori, distrutti, l'avevano cresciuta a pane e sport. Il padre Beppe è presidente della Cinisello Balsamo Atletica, realtà di riferimento dove Francesca aveva cominciato il servizio civile da maggio. «Era diventata la mascotte dell'ufficio - la ricorda l'assessora allo Sport Daniela Maggi. - Siamo tutti increduli, era una ragazza meravigliosa e si era subito inserita senza problemi in un ambiente in cui era la più giovane. Non ci si può pensare: l'avevo sentita qualche giorno fa per preparare l'open day dello sport in città. Stava formando un bel gruppo con gli altri ragazzi del servizio civile, qui in comune, che sono rimasti tutti sconvolti. Era educata, riservata, l'espressione della sua famiglia. Non si può morire così». «Una tragedia per cui non ci sono parole», chiosa il sindaco di Cinisello Giacomo Ghilardi. Cordoglio anche nella sua città, Lissone, dove la sindaca esprime «grande sgomento ed enorme tristezza, manifestando idealmente vicinanza sia alla famiglia sia agli amici che erano con lei».
L'ULTIMO SALUTO Ieri alla casa funeraria Pirovano di Cinisello era una via vai di famigliari, amici e sportivi per un ultimo saluto a Francesca. I funerali si tengono oggi Lissone, nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo alle 14,30, e nonostante il generale agosto ci si aspetta la riunione del mondo dell'atletica milanese, colpito dal lutto di una ragazza che come emerge dalle foto pubblicate nelle ultime ore era bella, bionda, solare e pronta a dedicarsi agli altri in famiglia, con gli amici e nel servizio civile declinato, anche quello, in versione sportiva.
Tik Tok, 23enne balla su una gru e cade: le urla e il volo di 43 metri, raccapricciante tragedia in diretta. Libero Quotidiano il 27 luglio 2021. Una delle più conosciute Tik Toker della Cina è morta a soli 23 anni mentre registrava un video da pubblicare sulla nota piattaforma social. Si tratta di Xiao Qiumei, che è caduta da una gru mentre eseguiva alcuni passi di danza: il suo è stato un volo di circa 43 metri, per lei non vi è stata alcuna speranza. La tragedia avvenuta a Quzhou, nella provincia di Zhejiang, ha ovviamente scosso le decine di migliaia di suoi follower, ma non solo. La ragazza in questione era solita pubblicare contenuti social dalle gru, dove lavorava, ma stavolta il momento di pausa a 43 metri da terra è finito in tragedia: si stava fotografando e riprendendo in diretta quando improvvisamente è precipitata nel vuoto, con i fan che hanno sentito le urla e assistito loro malgrado a una parte della caduta. I testimoni hanno dichiarato che la 23enne aveva il telefono in mano al momento dell’incidente, quindi la sua morte potrebbe essere dipesa da una distrazione. Sul caso si è espresso anche Giovanni D’Agata, presidente dello Sportello dei Diritti, che ha parlato di una strage silenziosa da selfie: “Una messa in fila di vite sprecate, che davvero è difficile da decifrare con qualsiasi parametro riconducibile al buonsenso della persona umana. Una follia che, come rileva il Rapporto Italia 2019 di Eurispes, in sei anni, nel periodo compreso tra il mese di ottobre 2011 e quello di novembre 2017, ha contato ben 259 vittime, giovanissimi che hanno perso la vita nel tentativo di scattarsi un selfie pericoloso per poi condividerlo sui social”.
Marco Gasperetti per il "Corriere della Sera" il 26 luglio 2021. Yara era la sua amica del cuore. Compagna di banco al liceo linguistico, complice di tanti segreti. Stessa età, stessi valori, stessi sogni da adolescente. Identica voglia di vivere. «Sono disperata, ho la morte nel cuore», aveva confessato questa ragazzina agli amici dopo l'incidente accaduto a Yara che stava lottando tra la vita e la morte in un letto del reparto di terapia intensiva dell'ospedale di Siena. E quando la morte è arrivata, dopo due giorni di agonia, Giovanna (nome di fantasia) ha visto il mondo crollarle addosso. Non riesce quasi più a parlare. Non si muove di casa, è distrutta dal dolore, non vuole vedere nessuno. È lei che, per uno sciagurato errore, ha ingranato la marcia sbagliata sulla Mini Minor di seconda mano che il nonno le aveva comprato. Le serviva a fare un po' di pratica nella corte privata della casa colonica dove abitava, ad Abbadia San Salvatore sulle montagne dell'Amiata, in attesa di prendere la patente. Quella macchina giovedì notte ha travolto l'amica Yara Gattavecchi, 17 anni a dicembre, e l'ha schiacciata contro un muro. Nel giorno della morte sarebbe dovuta partire con i genitori per le vacanze estive. «Anche l'amica di Yara è una vittima di questa tragedia - dice Luca Gattavecchi, fratello del babbo di Yara -. Non abbiamo rancore. I suoi genitori disperati sono venuti da noi qui a Montepulciano a farci le condoglianze, a chiedere scusa. Hanno abbracciato mio fratello Gionata, il babbo di Yara e la mamma Lilian». I Gattavecchi sono una famiglia storica di Montepulciano. Sono i proprietari di una delle cantine più blasonate del Vino Nobile e gestiscono anche un ristorante, annesso alla cantina, dove spesso Yara arrivava con la sua amica. «E accoglieva tutti con un sorriso contagioso - ricorda ancora lo zio -. Non ho mai conosciuto una ragazzina capace di sprigionare così tanta gioia». L'amica Giovanna sarebbe dovuta partire con i genitori in vacanza in Sicilia, ma poi aveva deciso di rimanere dai nonni e organizzare una festicciola nella sua casa. Quando arriva l'ambulanza della Misericordia, la stessa società di soccorso dove lavora il padre di Giovanna, medici e volontari capiscono che la situazione è tragica. Ma c'è ancora una flebile speranza. Che si spegne nella tarda mattinata di sabato. I genitori decidono di donare gli organi della figlia, mentre tutta Montepulciano partecipa al dolore della famiglia (Yara ha una sorella di 21 anni, Maria, e due fratelli, Yannik e Maurizio, nati dal precedente matrimonio della madre). Nel giorno del funerale il sindaco proclamerà il lutto cittadino. «Ho visto l'ultima volta Yara poche ore prima dell'incidente - ricorda lo zio Luca -. Mi ha accolto con un grande "ciao zio" e un sorriso luminosissimo. E con quel sorriso la voglio ricordare»
Dagotraduzione dal Daily Mail il 22 luglio 2021. Ashanti Smith aveva solo 18 anni. Eppure se ne sentiva addosso 144. Otto per ogni anno che aveva vissuto. La sindrome di Hutchinson-Gilford Progeria, la malattia descritta nel film “Benjamin Button”, non le ha dato scampo. Se n’è andata il 17 luglio, poche settimane dopo aver festeggiato il suo compleanno. Alla madre, che le stava vicino, ha detto: «Mamma ti amo, ma devi lasciarmi andare». Ashanti si è sentita male mentre passeggiava con le amiche. «L’abbiamo portata a casa perché voleva sua madre». Poi la situazione è degenerata – soffriva di artrite e insufficienza cardiaca – e ha smesso di respirare. Nonostante la sua condizione, la mamma, Phoebe Louise Smith, ha racconta che Ashanti non si è fatta fermare mai nella vita. «La vita di Ashanti è stata una gioia. La progeria ha influito sulla sua mobilità, ma su nient’altro. Non ha influenzato il suo cuore, la sua forza di volontà o il modo in cui si vedeva: si sentiva bella ogni giorno. Me ne sono assicurata ogni giorno». Ashanti si era recentemente goduta la sua prima serata tra ragazze dopo aver compiuto 18 anni e aveva sorseggiato il suo cocktail preferito, Sex on the Beach, con Phoebe e le sue amiche. Nonostante le sue gravi condizioni, era determinata a essere trattata come qualsiasi altra adolescente. «Aveva un’anca rotta, ma è uscita lo stesso per andare festeggiare». «Quando le chiedevi se voleva un drink, lei ti rispondeva: «Lo prendo – ma perché mi tratti in modo diverso?. La sindrome non ha influito sulla sua volontà. Ma sulla sua salute: aveva problemi di mobilità e malattie cardiache». Adesso i genitori di Ashanti stanno preparando il suo funerale. Vogliono che sia una grande festa, e hanno lanciato una raccolta fondi su JustGiving per organizzare «il più grande e brillante addio di sempre».
Francesca Pierantozzi per "il Messaggero" il 19 luglio 2021. A Mangaldan, nel nord delle Filippine, lo conoscevano tutti come Boy Ahas, l'uomo serpente. Bernardo Alvarez, 62 anni, non amava parlare troppo. Nonostante fosse un cacciatore di cobra («li addomestico, sono immune al loro veleno») non era un esibizionista. All'inviato di una tv che nel 2017 era venuto a trovarlo a casa sua, una specie di capanna in mezzo alle risaie della provincia di Pangasinan, aveva preferito mostrare i segni sulla pelle, piccole cicatrici scure sulle braccia e sulle gambe, tutti morsi di serpenti, con cui fin da piccolo aveva imparato a coabitare, in quelle piane piene di vegetazione patria dei cobra, quello reale, quello con gli occhiali. «Non mi fanno più niente, troppe volte mi hanno morso, il mio corpo si è abituato al veleno» ripeteva semplicemente. Per questo quando lo hanno visto stramazzare per terra, il pomeriggio del 9 luglio, quasi non ci hanno creduto, hanno aspettato un momento prima di cominciare a gridare, di chiamare i soccorsi. Boy Ahas è finito sui siti di mezzo mondo, l'uomo serpente ucciso dal morso del cobra che mille volte aveva provocato, girato intorno al collo, lasciato che gli mordesse le mani, le braccia, le gambe. Gli abitanti di Mangaldan lo amavano e lo rispettavano, un po' come un mago, un uomo dai poteri magici, un po' perché li aiutava a tenere lontani questi animali pericolosissimi.
VELENO MICIDIALE Il cobra che il 9 luglio lo ha ucciso era probabilmente un Naja Naja. Il suo veleno è terribile, è simile al curaro, colpisce i nervi e il cuore, paralizza e fa precipitare la pressione del sangue, in pochi secondi può bloccare tutto, spezzando il respiro. È quello che è accaduto a Bernardo mentre intorno la folla acclamava per l'ennesima volta il suo Boy Ahas: lui come al solito ha stretto la testa del serpente in una mano e se l'è avvicinata alla bocca, per un ultimo bacio. Ma è in quel momento, così hanno poi raccontato testimoni citati da diversi giornali locali, che il serpente è sfuggito alla presa e lo ha morso sulla lingua. L'effetto del veleno è stato folgorante. Bernardo è caduto in terra totalmente paralizzato. Inutili i soccorsi arrivati quasi subito. Le persone presenti non hanno potuto fare altro che omaggiarlo con una vendetta postuma: hanno catturato il serpente e lo hanno ucciso. Quando la notizia che l'Uomo serpente aveva dovuto arrendersi al veleno, quegli stessi medici che fino a poco tempo fa andavano in tv per spiegare il miracolo di un uomo che sembrava immune ai più terribili veleni («i tanti morsi hanno funzionato come un vaccino» dicevano) hanno ora spiegato che «il morso del cobra del nord può uccidere in pochi secondi, che spezza in un istante il respiro, arresta il fluire dell'ossigeno nell'organismo e colpisce dritto al cuore». Anche Tommy Wibowo, il medico che ha esaminato il corpo all'arrivo in ospedale, ha confermato che i poteri di Bernardo non erano abbastanza sovrannaturali: «I tanti morsi ricevuti durante la sua vita lo avevano in parte immunizzato, ma soltanto da piccole quantità di veleno. Il morso ricevuto in bocca è stato lungo, una grande quantità di sostanze tossiche sono entrate nell'organismo. Quel cobra secerne una sostanza composta da micotossine, cardiotossine, neurotossine e citotossine, un cocktail micidiale». Tra la folla che ha assistito alla morte di Bernardo c'era anche sua sorella, Teresa Oca. «Un poliziotto e un medico sono arrivati quasi subito, ci hanno detto che non sentivano più il polso, hanno tentato di rianimarlo, ma non c'è stato niente da fare. Era lì teso, tutti i muscoli paralizzati. È stato terribile, e adesso mi chiedo come faremo ad accettare quello che gli è successo».
FUNERALI DA EROE Soltanto tre giorni fa sono stati organizzati i funerali. È stata una grande cerimonia, che ancora dura, perché l'inumazione ci sarà questa settimana. I bambini della città lo celebrano come un eroe: lui c'era sempre quando occorreva catturare uno di quei serpenti che da subito devono imparare ad evitare. Il cobra che ha ucciso Boy Ahas era riuscito a infilarsi tra le strade di terra del paese. Per questo tutti lo avevano particolarmente acclamato quando si era avvolto attorno al collo quel serpente luccicante, per questo avevano applaudito quando lo aveva avvicinato al volto, dicendo agli altri di non aver paura, che lui era più forte, perché lo aveva addomesticato.
Donne morte in un campo, identificati i due amici che erano con loro. Giampiero Casoni l'08/07/2021 su Notizie.it. Donne morte in un campo, identificati i due amici che erano con loro, uno è stato già portato dai carabinieri in Procura per essere ascoltato. Un nuovo pezzo di verità nella vicenda delle donne morte in un campo di mais a San Giuliano Milanese, sono stati identificati i due amici che erano con loro ed uno di essi è stato già condotto in Procura per essere ascoltato sui tragici fatti che avevano portato alla morte di Sara El Jaafarii e Hanan Nekhla. I due identificati hanno 35 e 21 anni e sono di nazionalità marocchina. Ad identificarli i I carabinieri del Nucleo investigativo di Milano, che dopo aver rintracciato il più anziano lo hanno condotto presso la Procura di Lodi per essere sentito in merito ai fatti dal Sostituto procuratore Aragno. I due sarebbero senza fissa dimora o domicilio e farebbero la spola fra centro e centro del Milanese. E quello che gli inquirenti sperano è che dalle parole due emergano elementi che possano far capire meglio cosa sia successo il 4 luglio scorso in quel campo di mais. Scartata da subito la tesi della trebbiatrice era emersa una priva verità: Sara ed Hanan, di 28 e 32 anni, erano state sorprese e travolte alle prime luci dell’alba da un Grim, un mezzo agricolo che sparge medicinali sulle coltivazioni. Ma cosa ci facevano le due in un campo? Probabilmente, ritengono gli inquirenti, erano lì dopo una notte di eccessi e passata proprio in compagnia dei due fermati. Il mezzo agricolo, alla cui guida c’era un uomo già indagato, aveva investito e travolto le due, probabilmente inconscienti a terra: una era stata uccisa sul colpo dallo schiacciamento, mentre l’altra era stata schiacciata fino al bacino ed avrebbe trovato la forza di chiamare il 112. Le risultanze delle autopsie effettuate all’Istituto di Medicina legale di Pavia avrebbero dato questo esito. E pare che lo stesso medico legale abbia sostenuto che Hanan, la donna morta ma non sul colpo, aveva lesioni tali che avevano reso vano ogni soccorso. In un primo momento si era pensato che a dare una sorta di “colpo di grazia” alla donna potesse essere stato anche l’inalamento del pesticida sparso dal mezzo, ma la morte per cause meccaniche sembra tesi accertata. Adesso a far maggiore luce su quel tremendo incidente dovranno essere i due fermati, sul cui capo non è escluso che gravino, in mera ipotesi per ora, responsabilità penali in ordine alle due morti.
Milano, trovato uno degli amici delle giovani schiacciate dal mezzo agricolo: "Eravamo insieme quella notte. Ma quando abbiamo sentito quel forte rumore siamo andati via". Massimo Pisa su La Repubblica il 7 luglio 2021. Rintracciato dai carabinieri, l'uomo si difende dall'ombra di aver abbandonato le due donne investite dal mezzo agricolo. "Non era la prima volta che andavamo in quel campo. Eravamo in quattro". «Sì, eravamo tutti e quattro in quel campo. E non era la prima volta, era una zona che conoscevamo». Parla con calma, quasi soppesando ogni frase, mentre i carabinieri del Nucleo investigativo guidati dai colonnelli Michele Miulli e Antonio Coppola gli chiedono di non trascurare nessun dettaglio. Di quella nottata tossica e di quella mattinata tragica in cui Hanan Nekhla e Sara El Jaafari, le due amiche e connazionali di 31 e 28 anni, hanno trovato una morte atroce tra i fusti e le pannocchie di mais in fondo a un viottolo sterrato che comincia in via della Misericordia, a Sesto Ulteriano, e finisce a Locate Triulzi, a ridosso della Tangenziale Ovest.
Andrea Galli per il "Corriere della Sera" il 7 luglio 2021. Dalle 11.30 di venerdì (l'orario della disperata chiamata d'aiuto al 112 in lingua araba, interrotta dalla batteria del cellulare scarica) alle 20 di sabato (l'orario del rinvenimento dei cadaveri): per oltre trenta ore, i due o tre uomini testimoni del ferimento e della morte di Sara El Jafaari e Hanan Nekhla avrebbero potuto informare, anche in modo anonimo, fornendo indicazioni precise, utili alla localizzazione, della disgrazia avvenuta nel campo di mais a Locate Triulzi, hinterland sud di Milano. Ovvero il passaggio di un Grim, un mezzo agricolo che sparge medicinali sulle coltivazioni e manovrato da un agricoltore italiano di 28 anni indagato per omicidio colposo, che ha urtato di sicuro una delle donne, come evidenziato dalle ecchimosi sul corpo mentre la seconda donna potrebbe essere stata avvelenata dalle medesime sostanze sparse dal Grim. Se l'investitore ha giurato di non essersi accorto di quelle persone, nonostante la cabina di pilotaggio sia sopraelevata e garantisca una visuale dall'alto, i fuggiaschi erano accanto a Sara e Hanan, entrambe marocchine, la prima 28enne e con un'esistenza difficile tra droga e un figlio piccolo trasferito in comunità, la seconda 31enne e con lavori in nero nei bar e il continuo rimpianto di non guadagnare abbastanza per inviare denaro ai genitori in Nordafrica. Quegli uomini erano accanto, hanno visto, si sono scansati, sono scappati. Da allora, sono scomparsi. Ma pare ormai, in conseguenza dell'insistita caccia dei carabinieri del Nucleo investigativo, per ancora poche ore soltanto. Anche in coincidenza di errori fatti sulla scena del crimine e dell'immediata lettura investigativa. Lo spiazzo nel quale, giovedì sera, si erano accampati le due donne e gli uomini (sembra ugualmente di origini marocchine), è un tratto isolato che si raggiunge camminando a lungo. Specie se l'appuntamento, organizzato in chat tra uno degli uomini e Sara, che la scorsa settimana avevano avviato una corrispondenza attraverso i social network come racconta un'amica al Corriere, era stato fissato in località «Rogoredo». Estrema periferia di Milano e già area del notorio ex «boschetto della droga». In quella telefonata al 112, alla richiesta di fornire il luogo esatto da parte dell'operatore per innescare le ricerche, la donna al cellulare aveva detto di essere appunto dalle parti di Rogoredo. Forse perché il quartiere le era noto e c'era stata in passato; forse perché, avendo da lì vagato per chilometri, il gruppo era approdato in un tratto ignoto a Sara e Hahan, perso in effetti com'è nelle campagne della provincia. Eppure il luogo ha offerto elementi giudicati inequivocabili che comprovano il fatto che fosse abitato. Abitato dagli uomini e non a caso. Nell'ignobile allontanamento dinanzi alle donne che agonizzavano, quegli uomini hanno abbandonato dei telefonini. Gli apparecchi erano privi delle Sim ma la misura adottata non ha impedito l'analisi del contenuto da parte dei carabinieri, evidenziando una messaggistica tipica degli spacciatori. Le molteplici operazioni contro l'ex «boschetto della droga» hanno sì disarticolato il sistema criminale ma spesso spostandolo e frazionandolo. Dapprima in guerra per un perimetro vasto però circoscritto, adesso le bande, in misura esclusiva nordafricane, si sono sparse nei campi fuori città mantenendo l'abituale modus operandi: una mappa di punti dislocati anche lontano, in zone impervie, per le postazioni di sentinella e il nascondiglio delle dosi, eroina di infima fattura. Il campo di granturco potrebbe perciò essere una delle tane. Eppure, la composizione di uno scenario quasi definitivo sul tema, nell'inchiesta, della droga, non coincide con Hanan, a differenza di Sara la quale alternava periodi di disintossicazione ad altri di ricadute, come nell'ultimo mese: aveva compiuto una rapina per arraffare delle banconote, non le bastavano i soldi donati dalle amiche che la ospitavano e che lei ricambiava offrendosi come baby-sitter, anche per contenere il dolore di una madre allontanata dal figlio che forse non avrebbe mai più rivisto. La scena del crimine ospitava cinque bottiglie di birra, zampironi, scatole di cibo, coperte. Una coperta copriva una delle donne, rannicchiata come se stesse dormendo. Forse dormivano tutti e non si sarebbero accorti dell'avvicinamento del mezzo agricolo, sul quale elementi provano gli urti con il corpo oppure i corpi. Quando verranno presi, gli uomini potrebbero affermare la loro distanza rispetto a quello spiazzo, che andrebbe invece confermata oltre alla presenza dei cellulari (la Rilievi ha esplorato il terreno alla ricerca di tracce biologiche per l'associazione con il Dna). Allo stesso modo, se posti di fronte a dati oggettivi, potrebbero riferire d'essersene andati per il terrore di finire a loro volta investiti o avvelenati: ma certo le versioni mai potranno evitare l'accusa di omissione di soccorso o altro ancora poiché, tra i misteri, uno comanda gli altri: quali fossero le reali intenzioni del viaggio nel buio, tra i topi, con Sara e Hanan, la quale aveva rinunciato alla comodità di un letto nell'appartamento di un'amica per avventurarsi in lande di miseria e di violenza, trascinata da Sara forse desiderosa di droga e però priva dei soldi per pagare. A meno che qual viaggio non sia stato una scelta ma costrizione. «Una trappola», hanno sentenziato le amiche.
CBas. per "il Giornale" l'8 luglio 2021. Sono stati identificati i due uomini che si trovavano insieme a Sara El Jaafari e Hanan Nekhla, le ragazze ritrovate morte sabato scorso in un campo di mais a San Giuliano Milanese, ai margini della tangenziale ovest. Gli amici delle vittime hanno 35 e 21 anni e sono anche loro marocchini. I carabinieri del Nucleo investigativo di Milano hanno dato loro un nome nelle scorse ore e sarebbero vicini a rintracciarli per interrogarli. I due uomini, entrambi con precedenti penali, non avrebbero un domicilio fisso, ma pare che si muovano tra Milano e altri centri della Lombardia. In questi ultimi giorni si sono poi allontanati per provare a fuggire agli investigatori. Secondo le indagini, le due amiche morte sarebbero state sorprese e travolte venerdì mattina, mentre dormivano, da un mezzo agricolo che stava spargendo sostanze chimiche sulle coltivazioni. Avrebbero trascorso una notte tra alcol e droga appunto con i due marocchini. L'autista del mezzo che le ha investite, un agricoltore 28enne indagato per omicidio colposo, ha detto di non averle viste e di non essersi accorto di nulla. La sua versione sarebbe compatibile con i primi risultati delle indagini. Mentre gli amici scappati, è l'ipotesi degli inquirenti, avrebbero sentito il rumore del veicolo e si sarebbero allontanati. Avrebbero quindi lasciato le amiche a terra agonizzanti, senza prestare loro soccorso e senza avvertire nessuno dell'incidente. Fondamentale per trovarli è stato il contenuto dei telefonini, intestati a prestanome, lasciati nel campo. Sono inoltre emersi anche i primi risultati dell'autopsia sulle vittime eseguita ieri. Le giovani di 28 e 32 anni sarebbero morte per le ferite derivate dall'investimento del mezzo agricolo. Secondo le prime analisi dell'Istituto di medicina legale di Pavia infatti, il cadavere di Sara riporta segni evidentissimi di lesioni compatibili con lo schiacciamento da mezzo pesante e risulta che sia morta praticamente sul colpo. Hanan, ferita anche lei, ha avuto il tempo di chiedere aiuto con una breve telefonata al 112 nella mattinata di venerdì. Poi il suo cellulare ha smesso di ricevere. Aveva le gambe schiacciate fino al bacino e sarebbe morta dopo ore di agonia per dissanguamento. Stando al medico legale tuttavia, le lesioni a gambe e bacino erano talmente gravi che difficilmente sarebbe stata salvata dai soccorsi, anche nel caso in cui gli amici presenti avessero chiamato qualcuno. I corpi delle donne sono stati trovati dai carabinieri la sera del giorno successivo alla loro morte. Ora la Procura di Lodi dovrà cercare di capire se siano ipotizzabili responsabilità del 35enne e del 21enne nel decesso di Sara e Hanan.
Milano, le ragazze schiacciate da un mezzo agricolo: erano in sette nel campo di mais per una notte di alcol e droga. La Repubblica l'8 luglio 2021. Il racconto di uno dei presenti ascoltato a lungo in procura e indagato per omissione di soccorso. La serata, iniziata a casa di una conoscente, era proseguita nel campo della tragedia dove le due giovani e i due connazionali erano stati raggiunti da altri due uomini e una donna romena. Si chiariscono sempre di più i contorni della tragica fine di Hanan e Sara, le due giovani di origine marocchine investite e uccise da un mezzo agricolo in un campo di mais nella zona tra San Giuliano e Locate Triulzi alla periferia Sud di Milano. I nuovi particolari vengono dal racconto di uno dei due amici che si trovavano hanno trascorso la serata insieme alle vittime. L'uomo, 35 anni, anche lui marocchino è stato ascoltato fino alla tarda serata di ieri dagli investigatori in procura a Lodi e al termine della deposizione è stato iscritto nel registro degli indagati per omissione di soccorso. L’uomo ha raccontato di aver conosciuto le due donne, tramite un amico connazionale, la sera di giovedì 1 luglio e di aver trascorso la serata e la successiva nottata a consumare alcolici e sostanze stupefacenti, dapprima presso l’abitazione di una conoscente e poi all’interno del campo di mais nei pressi di Locate di Triulzi. Una volta giunti nelle campagne, al gruppo si sarebbero uniti due uomini, anche loro connazionali, e una donna di nazionalità romena, con i quali avevano continuato a bere e consumare sostanze stupefacenti, finché, mentre i 7 si trovavano seduti a terra ad ascoltare musica, si erano improvvisamente accorti dell’arrivo del mezzo che aveva subito travolto le due giovani sdraiate nel punto più prossimo a quello di arrivo del mezzo. Anche il 35enne era poi rimasto ferito al collo del piede sinistro, riuscendo però a scappare ed allontanarsi dal campo, senza più farvi ritorno né accertarsi delle condizioni degli altri. Sono tuttora in corso le indagini volte ad identificare e rintracciare gli altri soggetti presenti al momento dei fatti.
Andrea Galli per il "Corriere della Sera" il 26 luglio 2021. «In quel campo di mais, cioè il campo della morte, io urlavo, urlavo contro il conducente del trattore che si avvicinava, ma quello non mi sentiva, urlavo con tutta la forza in corpo ma niente, c'era un boato da rompere le orecchie... Allora sono corsa via, nel panico, verso la casa abbandonata dove sto... Pensavo che Sara potesse scappare, che potesse farcela. E Hanan, ecco, Hanan non credevo fosse morta, nemmeno lei... Che erano morte tutte e due, l'ho letto sul giornale. Ho trovato il giornale in giro, non avevo niente da fare, mi sono messa a leggere. L'italiano ormai lo capisco bene... Ero ferita anche io, sì, ma non ho voluto andare in ospedale. Avevo botte un po' dappertutto... Forse c'era, oppure c'è qualcosa di rotto, non ne ho idea... Avevo paura, ad andare in ospedale, non sapevo cosa mi sarebbe potuto succedere. Io vivo per strada». Ha 21 anni e la sua strada è il quartiere periferico di Rogoredo, quello dell'«ex boschetto della droga» che non è ancora «ex». La figlia, di quattro anni, starebbe con l'ex fidanzato, altrove. Lei è una fattorina: riceve la commissione, va in bicicletta a ritirare le dosi, effettua la consegna. La mattina di venerdì 2 luglio si era anche fermata a consumare. Nel campo di mais a Locate Triulzi, hinterland milanese, fatale per Sara El Jaafari e Hanan Nekhla, di 28 e 31 anni, le amiche di origini marocchine uccise da un mezzo agricolo che spargeva medicinali sulle coltivazioni e guidato da un operaio italiano di 28 anni, sotto indagine per omicidio colposo. Il granturco era alto, molto alto; probabile che non abbia visto proprio niente, come ha ripetuto agli inquirenti. Quest'altra ragazza è di nazionalità romena. Era la terza donna del gruppo, insieme a quattro uomini nordafricani, due dei quali individuati dal Nucleo investigativo dei carabinieri, e i restanti ancora ricercati, in un'insistita attività di perlustrazione (gli identikit, le soffiate, le rotte metropolitane della droga, le esplorazioni dei cellulari recuperati). Chi sia, e cosa la ragazza faccia, emerge anche da un atto della meticolosa inchiesta coordinata dalla Procura di Lodi, nonché dai suoi racconti. È stata l'ultima persona rimasta con le vittime: «Non mi sono accorta di quel trattore gigantesco... Non ce ne siamo accorti... Nessuno... Il trattore ci ha colpito. Tutti, senza distinzione. Ricordo che ha schiacciato completamente Hanan e poi ha colpito anche Sara. A me mi ha preso sul braccio e sul fianco e sulla schiena... Soffro di asma, sono stata colta da un attacco devastante, mi ha preso ancora di più la paura. Dovevo sparire da quel posto». Il campo di mais è la geografia terminale della notte di misteri delle amiche. I carabinieri hanno certificato le ore trascorse nell'appartamento di una donna (affittuaria del bilocale, poi si era sfilata dal gruppo), tra cocaina, alcolici e sesso, ancora s'ignora se con costrizioni e violenze contro Sara e Hanan, la prima senza occupazione e con un passato di stupefacenti (un figlio piccolo trasferito in comunità), la seconda pronta alla convivenza con il compagno connazionale, cameriera in un bar e perseguitata dall'oppressiva preoccupazione di non guadagnare abbastanza per inviare soldi ai genitori in Marocco. Una donna a proposito della quale, con decisa insistenza, le conoscenti ascoltate dal Corriere hanno escluso ogni accostamento alla droga. Impossibile. Forse non avevano capito, forse era stata abile a nascondersi. Dopo il festino in quell'abitazione, dove erano presenti due dei quattro uomini, anziché rincasare le amiche hanno proseguito. Una sosta da un baracchino ambulante per comprare panini e birra, quindi la ricerca del punto segnalato per l'incontro dagli altri due uomini, che lì aspettavano. Uno spiazzo nel mais, che per caratteristiche rimanda a una base degli spacciatori (specie come nascondiglio delle dosi) in una zona isolata, così tanto che soltanto l'elicottero dei vigili del fuoco ha permesso il rinvenimento dei cadaveri, oltre trenta ore dopo; e così tanto che anche la fattorina, pur abituata a vagabondare da queste parti, si stava smarrendo. Erano quasi le 6 di quel venerdì (Sara e Hanan sono morte alle successive 11.30, anche se forse Sara al termine di una lunga agonia). La fattorina ha ricevuto un messaggio su WhatsApp. Giusto le coordinate: dove ritirare la cocaina, il compenso, la destinazione. Chi le aveva inviato l'sms aveva già organizzato l'acquisto. Serviva soltanto l'addetto alla consegna. La ragazza ha raggiunto in bicicletta via Orwell, il punto di smercio, e ha ripreso a pedalare. Ore, chilometri. Le campagne. Sentieri, topi. La destinazione coincideva con dei binari. Si è palesato uno degli uomini, che l'ha accompagnata nello spiazzo. Quello con Sara e Hanan. Musica ad alto volume. «Ci siamo messi a fumare la coca che avevo portato. Siamo andati avanti fino a quando Hanan si è addormentata, era molto stanca e aveva continuato a bere birra. Beveva, beveva... Siamo rimasti a fumare, fino a quando è venuto fuori il trattore... Nel casino ho perso il cellulare, ho provato a cercarlo... Mi sono girata e i maschi già non c'erano più. Scomparsi. C'eravamo io e le due amiche. Ho visto che una si è messa al telefonino, forse Sara, per chiamare i soccorsi, ho visto che parlava, e se parlava qualcuno sarebbe venuto ad aiutarle... Non ci fosse stato l'asma, forse avrei aspettato... Ma soffocavo, sarei morta, e pensavo alla mia bambina».
Locate Triulzi, Sara e Hanan morte nel campo di mais: chiuso il cerchio sui fuggiaschi. Gli interrogatori a San Vittore di Amine. Nel gruppo anche una spacciatrice di cocaina. I carabinieri identificano il penultimo uomo sparito dopo l’uccisione. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 13 settembre 2021. Parla, Amine. E aiuta gli investigatori. Anche nell’ultimo interrogatorio reso nel carcere di San Vittore, uno dei cinque sopravvissuti all’incidente mortale nel campo di mais ha collaborato. Nello specifico, ha riconosciuto dall’album fotografico un altro uomo, poi rintracciato dai carabinieri del Nucleo investigativo i quali, coordinati dalla Procura di Lodi, indagano sulla morte, alle 11.30 del 2 luglio, un venerdì, delle amiche di 28 e 31 anni Sara El Jafaari e Hanan Nekhla. Entrambe di origini marocchine (come Amine), erano state travolte a Locate Triulzi da un mezzo agricolo che spargeva medicinali sulle piante e guidato da un 28enne italiano, indagato per omicidio colposo: prima dell’arrivo del veicolo, Sara e Hanan erano a terra in mezzo al mais insieme per appunto a cinque persone. Di queste ne manca una soltanto, ma c’è fiducia in un nuovo contributo dello stesso Amine, arrestato dopo il rintraccio in quanto doveva scontare una pena: gli saranno mostrate ulteriori fotografie, assemblate dai carabinieri alla fine di una lunga operazione che ha poggiato sulle conoscenze della località dell’uccisione, una di quelle utilizzate dalle bande nordafricane per spacciare droga, in continuità con quanto succedeva nel bosco della periferica Rogoredo. Il completamento della lista dei presenti in quella mattinata, permetterà di terminare gli accertamenti e ricostruire nella sua esattezza sia la dinamica dell’investimento sia la notte precedente, nonché, nel caso, di stabilire eventuali responsabilità. A parte le due amiche, in quel gruppo c’era una terza donna, una 21enne di nazionalità romena, l’unica finora che ha saputo oppure voluto fornire elementi concreti relativi a quegli istanti. Forse in quanto l’ultima ad andarsene, a differenza dei quattro uomini, lesti a sparire lasciando Sara e Hanan ferite, anche se sembra che Hanan sia deceduta nell’immediatezza dell’impatto mentre Sara avrebbe agonizzato per ore, lunghe ore. I cadaveri furono scoperti soltanto il tardo pomeriggio del successivo sabato e in via esclusiva grazie alla visuale garantita da un elicottero dei vigili del fuoco, tanto era isolata e impervia la zona della scena del crimine. Questa 21enne, mamma, residente nelle aree dismesse e fattorina della cocaina su una bicicletta, come da sua ammissione era stata convocata da uno degli uomini (i quattro complessivi sono tutti marocchini) direttamente nel campo di mais, per portare delle dosi. Effettuata la consegna, non agevole in considerazione della distanza da colmare al buio e nelle campagne dell’hinterland, quella giovane si era a sua volta fermata a consumare. Di cocaina ce n’era stata anche in precedenza, da quando Sara e Hanan, in compagnia di due degli uomini avevano raggiunto l’appartamento di una loro amica. Un festino di droga e sesso, s’ignora ancora se con situazioni di abusi contro le amiche; un festino concluso con l’arrivo in quell’abitazione della coinquilina della donna che aveva ordinato agli estranei di andarsene. Da lì, con una tappa in un baracchino di Binasco per comprare birra e panini, la comitiva si era aggregata a due uomini che attendevano fra il mais, in un punto nel quale erano soliti sostare e che somigliava a una postazione di spacciatori. Sdraiati (e soprattutto per niente lucidi) com’erano, il guidatore del mezzo non poteva certo scorgere quegli estranei. La medesima 21enne, che aveva riportato delle ferite a causa dell’urto ma aveva evitato di andare in ospedale «per paura delle forze dell’ordine», ha raccontato che il veicolo procedeva come se loro nemmeno ci fossero. Avendo visto Sara al telefono con il 112, aveva pensato che i soccorritori avrebbero rimediato alla situazione ed era corsa via, ignorando che la comunicazione si era interrotta per lo spegnimento improvviso, ancor prima di fornire una pur approssimativa localizzazione, del cellulare, scarico.
S.G per "Il Messaggero" il 14 giugno 2021. Doveva essere una domenica di relax e invece la gita alle cascate dell'Acquafraggia, in Val Bregaglia, in provincia di Sondrio, si è trasformata in tragedia. Il tentativo di osservare più da vicino le cascate, spingendosi oltre i limiti, forse per fare un selfie, è stato fatale. Una donna di 42 anni, residente a Seregno ma di origini calabresi, è morta e il suo compagno di 36 è rimasto gravemente ferito nel tentativo di salvarla. La tragedia si è consumata ieri mattina intorno a mezzogiorno. Secondo le prime ricostruzioni, i due escursionisti si sarebbero spinti in una zona interdetta al pubblico, uscendo dai sentieri consentiti, per poter osservare più da vicino le cascate. La donna, però, avrebbe perso l'equilibrio scivolando per decine di metri e finendo nell'acqua ghiacciata del bacino sottostante. Al primo salto delle cascate. Il compagno nel tentativo di soccorrerla, ha fatto anche lui un volo di 50 metri. Per lei non c'è stato scampo, lui è ricoverato con codice rosso. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco e gli uomini del soccorso alpino della guardia di finanza. I Vigili del Fuoco li hanno recuperati entrambi, ma per la donna non c'è stato nulla da fare; troppo serie le lesioni, dopo la caduta dal sentiero. L'altro escursionista, residente in Piemonte, è stato invece ricoverato in gravissime condizioni all'ospedale Moriggia Pelascini di Gravedona. L'incidente è avvenuto sotto gli occhi dei turisti atterriti che si trovavano nell'area verde. Da pochi giorni per l'ingresso nell'area si paga un biglietto, per evitare, come avvenuto lo scorso anno, l'assalto dei turisti nella riserva naturale che aveva incantato anche Leonardo da Vinci. Dove si biforca il torrente Acquafraggia, a monte delle cascate, che cominciano circa dieci metri più giù, c'è un sentiero da trekking. In quel punto un'insegna avverte gli escursionisti circa il pericolo, vietando di scavalcare la recinzione di acciaio, perché è un punto pericoloso. La donna, nonostante il cartello, invece, avrebbe oltrepassato la rete probabilmente per fare alcune foto. Secondo una prima ricostruzione avrebbe anche tentato di attraversare il torrente che, soprattutto in questa stagione dell'anno, è particolarmente impetuoso a causa dello scioglimento del ghiacciaio. A quel punto avrebbe perso l'equilibrio. L'escursionista sarebbe stata inghiottita dalle acque. L'uomo si sarebbe addirittura tuffato per salvarla. Per il recupero della salma è stato necessario anche l'intervento dei sommozzatori.
Dagotraduzione dal DailyMail il 9 giugno 2021. Un uomo è morto dopo essersi gettato in mare da una scogliera di 36 metri ed essere accidentalmente atterrato su una barca turistica. Fahd Ibrahim Jamil Al-Lakma è saltato dal lato delle rocce Raouche a Beirut, in Libano, domenica scorsa. Il siriano non ha sentito le grida di avvertimento degli spettatori che lo avvisavano di una barca proprio sotto di lui. La barca turistica era appena uscita da un tunnel sotto la scogliera che ha probabilmente oscurato la vista a chi guidava. Si sentono rantoli udibili quando l'uomo, che proveniva dalla città di Hajin nel governatorato di Deir ez-Zor orientale della Siria, si scontra con la barca con un tonfo udibile. L’uomo e caduto da un'altezza di 36 metri e ha sbattuto la testa sulla barca: è morto all'istante e ha ferito anche il capitano della barca. Agenti della Protezione civile libanese hanno tirato fuori dall'acqua il corpo del giovane e lo hanno portato in ospedale, dove è stato dichiarato morto. Il capitano è stato portato in un altro ospedale, dove è stato medicato per le ferite. Buttarsi dalle rocce di Raouche nel mare sottostante è un'attività popolare tra i giovani della capitale libanese. Non è chiaro da quanto tempo la vittima fosse in Libano, ma la sua città natale in Siria è stata occupata dal gruppo dello Stato Islamico nel 2014.
Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" il 17 maggio 2021. Anche il termine è cambiato, adesso li chiamano killfie e non più semplicemente selfie. Si tratta dell'autoscatto con lo smartphone ad alto tasso di rischio. Talmente pericoloso che spesso la foto immortala l'ultimo istante di vita. E i numeri degli incidenti finiti in tragedia sono li a confermarlo. Il rapporto Eurispes 2019 svela i dati in relazione alle morti per selfie: 259 per l'esattezza, nel mondo, tra l'ottobre 2011 e il novembre 2017. Un' altra ricerca più aggiornata, che abbraccia un decennio, dal 2011 al 2021 ne conteggia 329. Inoltre, secondo lo studio dell'India Institute of Medical Sciences di Nuova Delhi, la fascia d' età con la più alta incidenza è quella compresa tra i 20 e i 29 anni con 106 vittime, seguita dai più giovani 10-19enni (76 vittime). Queste due fasce d' età rappresentano il 70,3% del totale dei morti a causa di un selfie. Altre 20 vittime si contano nella fascia tra i 30 e i 39 anni, 2 tra i 50 e i 59 anni e 3 persone tra i 60 e i 69 anni. Delle 259 vittime, 153 sono uomini, 106 sono donne. Dallo studio emerge che le 259 morti sono legate a 137 incidenti: l'84% di questi sono stati determinati da giovani tra i 10 e i 29 anni che non hanno calcolato bene i rischi. In particolare, 70 persone sono annegate, 51 sono rimaste vittime di incidenti legati a mezzi di trasporto, 48 sono state le cadute sfidando la legge di gravità; 48 persone sono rimaste bruciate, 16 fulminate da scariche elettriche, 11 colpite da arma da fuoco, 8 vittime di attacchi da parte di animali selvatici. Per quanto riguarda gli incidenti: 41 sono avvenuti per caduta da altezze estreme come palazzi, montagne e scogliere, 32 per annegamento, 13 per folgorazione, 7 causati da animali selvatici, 1 a causa del fuoco, 11 per armi, 28 sui mezzi di trasporto. In quest' ultimo caso, i treni detengono il primato.
ULTIMO SCATTO In Italia aveva destato scalpore la morte di due ragazzi in auto a maggio del 2019. Avevano postato un video mentre percorrevano l'autostrada, l' A1 tra Modena Nord e Modena Sud, a 220 km all' ora. Subito dopo si schiantarono. La morte dei due amici, Luigi Visconti e Fausto Dal Moro, è solo l'ultimo di una serie di incidenti, avvenuti negli ultimi tempi, come conseguenza di irresponsabili sfide via web. Un problema che nasce già nei primi anni Duemila negli Usa. Ecco cosa accadde il 15 ottobre del 2011 a tre adolescenti (due sorelle e un'amica) che morirono travolte da un treno mentre posavano per una foto. Istantanea trovata successivamente sul loro telefono. Poco prima, avevano postato il messaggio «Stare in piedi accanto a un treno ahaha è fantastico»! A Taranto, una studentessa di 16 anni, era precipitata (poi deceduta) da un ponte mentre si stava scattando un killfie. In Messico, il 2 agosto del 2014, un 21enne aveva deciso di farsi una foto con la pistola in mano da pubblicare su Facebook. Prima di mettersi in posa si sparò accidentalmente. Ma questi sono solo alcuni degli esempi. Il 12 gennaio del 2020 una 21enne inglese è morta, cadendo con il cellulare in mano da una scogliera alta 30 metri nella Diamond Bay Reserve a Sydney.
Chi ci ha lasciato nel 2021. I personaggi del mondo della cultura, dello spettacolo, dello sport e dell’imprenditoria che se ne sono andati negli ultimi dodici mesi. Silvia Morosi su il Corriere della Sera il 28 dicembre 2021.
Marco Formentini. Politico
(14 aprile 1930 – 2 gennaio 2021) Primo e unico sindaco della Lega di Milano, in carica dal 1993 al 1997, aveva 90 anni ed era malato da tempo. Nella giunta dell’epoca chiamò personalità della società civile e della cultura come Philippe Daverio, anche lui scomparso di recente (il 2 settembre 2020, ndr). Oltre che primo cittadino, fu anche parlamentare ed eurodeputato per dieci anni, non tutti - però - nelle file del Carroccio. «Seppe farsi apprezzare per quelle doti umane che un sindaco non deve mai dimenticare di esercitare nei confronti dei suoi cittadini. Non ti dimenticheremo», ha dichiarato l'attuale sindaco, Giuseppe Sala.
Emilia De Biasi. Politica
(6 febbraio 1958 –5 gennaio 2021) Volto storico del Partito democratico della Lombardia, l'ex senatrice aveva 63 anni. Era responsabile tematica "Salute e nuovo welfare" nella segreteria regionale dei dem e membro della direzione nazionale del Pd e della direzione milanese e lombarda. Animatrice della "Conferenza delle Donne Democratiche", dal dicembre 2020 era anche presidente del Consiglio di Indirizzo dell'Azienda Servizi alla Persona Golgi Redaelli. «Una vera combattente che ha messo la sua vita a servizio della comunità», ha scritto l'attuale sindaco Giuseppe Sala.
Tanya Roberts. Attrice
(15 ottobre 1955 – 4 gennaio 2021) Dopo una serie di fraintendimenti e smentite, alla fine è stata confermata la morte dell'attice, ex Bond Girl ed ex Charlie's Angel. All'anagrafe Victoria Leigh Blum, secondogenita di un venditore irlandese di penne stilografiche di Manhattan, l'attrice dal 2001 si era allontanata dalle scene.
Paolo Bucinelli ("Solange"). Personaggio televisivo
(25 aprile 1952 –7 gennaio 2021) Sensitivo e personaggio televisivo conosciuto con il nome d’arte Solange, si era rivelato al pubblico con una partecipazione al programma di Davide Mengacci Perdonami. Da quel momento aveva partecipato a diversi show televisivi. Risale al 2006 l'incisione del singolo Sole, Sole Solange. Ha scritto di lui il comico e amico Dario Ballantini: «Era una persona buona, di rara intelligenza, e aveva una sensibilità assoluta, che gli consentiva di guardare nell’animo della gente».
Phil Spector. Produttore discografico, compositore e musicista
(26 dicembre 1939 – 16 gennaio 2021) Un genio del suono. Leggendario produttore di artisti pop e rock, tra i suoi lavori anche Let It Be dei Beatles e alcuni album di John Lennon. Spector è morto per complicanze legate al Covid: stava scontando una condanna che prevedeva da un minimo di 19 anni fino all'ergastolo per l'assassinio nel 2003 dell'attrice Lara Clarkson.
Emanuele Macaluso. Politico e giornalista
(21 marzo 1924 – 19 gennaio 2021) Giornalista, politico, scrittore e sindacalista. Difficile trovare un'unica definizione per questa figura che ha avuto un ruolo di grande rilievo nella storia politica dell'Italia. Ricoverato per problemi cardiaci aggravati dai postumi di una caduta, Macaluso era stato esponente del Partito comunista sin dai tempi della clandestinità e venne chiamato da Palmiro Togliatti alla Segreteria. Il primo maggio del 1947 fu tra i testimoni della strage di Portella della Ginestra, nel comune di Piana degli Albanesi in provincia di Palermo, compiuta dalla banda di Salvatore Giuliano. Parlamentare nazionale per sette legislature (1963-1992), fu anche direttore de L'Unità dal 1982 al 1986 e ultimo direttore de Il Riformista dal 2011 al 2012. Quando il Pci si sciolse, aderì al Pds.
Larry King. Giornalista e conduttore televisivo
(19 novembre 1933 – 23 gennaio 2021) Giornalista, conduttore televisivo e radiofonico, volto storico della Cnn, era ricoverato da fine dicembre 2020 per Covid. Nel 2010, dopo settemila puntate e una collezione infinita di interviste (tutti i presidenti degli Stati Uniti dal 1974, leader mondiali come Yasser Arafat e Vladimir Putin, celebrità del calibro di Frank Sinatra, Marlon Brando, Liz Taylor, Barbra Streisand, Lady Gaga, solo per citarne alcuni), aveva chiuso il suo storico talk show Larry King Live. Era da poco tornato con una versione online del suo programma.
Walter Bernstein. Regista e sceneggiatore
(20 agosto 1919 – 23 gennaio 2021) Sì è spento a 101 anni il regista e sceneggiatore americano, autore di oltre novanta film. Qualche esempio? Il prestanome, con protagonista Woody Allen e diretto da Martin Ritt, che gli valse nel 1977 una candidatura agli Oscar; Il diavolo in calzoncini rosa, film del 1959 diretto da George Cukor con Sophia Loren; Quel tipo di donna di Sidney Lumet, sempre con l'attrice italiana.
Cloris Leachman. Attrice
(30 aprile 1926 – 27 gennaio 2021) È morta a 94 anni, nella sua casa a Encinitas, in California, l'attrice nota soprattutto per aver ricoperto il ruolo di Frau Blücher nella straordinaria commedia Frankenstein Junior di Mel Brooks (1974). Nel 1972 ottenne l’Oscar come miglior attrice non protagonista per la sua interpretazione di Ruth Popper nel film L’ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich. Per le sue interpretazioni in televisione ha ricevuto 22 nomination ai Primetime Emmy Awards , vincendone 8.
Cicely Tyson. Attrice
(19 dicembre 1924 - 28 gennaio 2021) L'attrice afroamericana, icona per generazioni di attrici, è morta all'età di 96 anni. Conosciuta per la sua nomination all'Oscar per "Sounder" nel 1973, era anche apparsa nei film Pomodori verdi fritti alla fermata del treno e The Color of Feelings , e più recentemente nella serie televisiva Murder . Tyson è passata alla storia per aver sempre rifiutato di interpretare cameriere nere o altri ruoli che riteneva lesivi della sua persona.
Tom Moore. Ufficiale e militare
(30 aprile 1920 – 2 febbraio 2021) Un uomo straordinario: veterano delll'esercito britannico nella Seconda Guerra Mondiale, è morto in ospedale per complicanze legate al Covid. Sir Tom era diventato famoso quando aveva deciso di festeggiare i 100 anni facendo 100 giri del suo giardino con il solo supporto di un deambulatore. Obiettivo? Raccogliere mille sterline per il servizio sanitario nazionale. Alla fine, era riuscito a raccogliere addirittura 30 milioni di sterline in donazioni («Continuerò dopo il mio compleanno. Finché le persone contribuiranno al servizio sanitario nazionale non smetterò di camminare», aveva detto). Il suo impegno - non a caso - è stato riconosciuto anche dalla regina Elisabetta con il cavalierato e il titolo di sir.
Christopher Plummer. Attore
(13 dicembre 1929 – 5 febbraio 2021) Attore di formazione shakespeariana, dal lunghissimo curriculum tra cinema, televisione e teatro, aveva esordito al cinema nel 1958 in Fascino del palcoscenico, accanto a Henry Fonda e Susan Strasberg. A regalargli il successo fu il ruolo del capitano Von Trapp nel musical Tutti insieme appassionatamente (1965), con Julie Andrews. E proprio l'attrice ha dichiarato a Abc News : «Faccio tesoro dei nostri ricordi insieme e di tutto l'umorismo e il divertimento che abbiamo condiviso nel corso degli anni».
George Shultz. Ex Segretario di Stato degli Stati Uniti d'America
(13 dicembre 1920 – 6 febbraio 2021) Segretario di Stato sotto la presidenza di Ronald Reagan e pilastro della politica del Disgelo negli anni '80, aveva cento anni. Tra le sue sfide più rivelanti anche il tentativo di raggiungere una pace stabile nel Medio Oriente. Dopo la laurea alla Princeton University e quella al Mit di Boston, venne chiamato dal presidente Richard Nixon come ministro del Lavoro. Divenne, poi, direttore del nuovo ufficio del Bilancio e segretario del Tesoro.
Franco Marini. Sindacalista e politico
(9 aprile 1933 – 9 febbraio 2021) Sindacalista, ex ministro del Lavoro ed ex presidente del Senato, aveva 87 anni: era stato dimesso a fine gennaio dall’ospedale di Rieti dopo un ricovero per Covid-19. Era soprannominato Lupo marsicano per il suo carattere da vero abruzzese molto legato alla propria terra. Primogenito di una numerosa famiglia di modeste condizioni, a nove anni si trasferì a Rieti per esigenze di lavoro del padre, impiegato nella Supertessile, e si diplomò al liceo classico. Una curiosità? Conseguita la laurea in Giurisprudenza, svolse il servizio di leva come ufficiale negli Alpini.L'APPROFONDIMENTOdi Enrico Marro
Enrico Greppi ("Erriquez"). Cantautore e chitarrista
(1 settembre 1960 – 14 febbraio 2021) Un'anima libera e scatenata, un amio dei deboli e degli emarginati. Volto e anima della Bandabardò, Erriquez combatteva con un brutto male da tempo. Con il gruppo musicale aveva da poco festeggiato i 25 anni di carriera con un evento al Mandela Forum di Firenze. Il coro Se mi rilasso collasso ha fatto compagnia a tanti di noi e continua a essere cantato tra concerti e manifestazioni. E allora, lo ricordiamo così: «Odio il pigiama e vedo rosso. Se la terra mi chiama non posso restare chiusa tra quattro mura. Ho premura di vivere perciò.. Attenziò, concentraziò, ritmo e vitalità...».
Carlos Saúl Menem. Ex Presidente dell'Argentina
(2 luglio 1930 – 14 febbraio 2021) Presidente dell’Argentina dal 1989 al 1999 e senatore negli anni successivi, era stato ricoverato a metà dicembre per un’infezione urinaria e per problemi cardiaci. Eletto per la prima volta nel 1989, durante uno dei periodi di crisi economica che hanno interessato l’Argentina, fu responsabile di importanti tagli alla spesa militare e di grandi privatizzazioni. Venne - però - anche accusato di corruzione, appropriazione indebita di fondi pubblici ed evasione fiscale.
Mauro Bellugi. Calciatore e allenatore
(7 febbraio 1950 – 20 febbraio 2021) L’ex calciatore e difensore dell’Inter aveva subito l’amputazione delle gambe dopo essere stato colpito dal Covid. In carriera aveva vestito anche le maglie di Bologna, Napoli, Pistoiese, oltre che quella della Nazionale (32 presenze). Il suo unico gol in carriera con l’Inter fu in Coppa Campioni contro il Borussia Monchengladbach. «Abbiamo fatto i Mondiali del 1974 insieme. Era un ragazzo simpaticissimo e divertente. E c'è un aneddoto che me lo fa ricordare in particolare: siccome lui era bravo con i piedi, era un difensore anomalo. Faceva il pallonetto anche agli attaccanti e io gli dicevo: "Mauro se per caso scivoli e prendiamo gol, comincia a correre..." e lui mi diceva "sì, lo so ma tanto non mi avresti preso..."», le parole di Roberto Boninsegna per ricordarlo.
Luca Attanasio. Diplomatico
(23 maggio 1977 - 22 febbraio 2021) Ambasciatore italiano in Congo, originario di Limbiate, è stato ucciso con il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo in un attacco presso il villaggio di Kibumba, vicino alla città di Goma. Si era sposato nel 2015 con Zakia Seddiki, originaria del Marocco, con la quale ha avuto tre figlie. Nel 2017 avevano fondato a Kinshasa l'ong Mama Sofia.
Fausto Gresini. Pilota motociclistico e dirigente sportivo italiano
(23 gennaio 1961 – 23 febbraio 2021) «La notizia che non avremmo mai voluto darvi e che siamo costretti a scrivere. Dopo due mesi di lotta al Covid, Fausto Gresini ci lascia con 60 anni appena compiuti. Ciao Fausto». Così il Team Gresini ha annunciato la morte dell'ex pilota e manager della scuderia che porta il suo nome. Due volte campione del mondo da pilota a metà degli anni Ottanta (con la 125), dopo essersi ritirato dalla pista ha proseguito la carriera come manager delle due ruote.
Lawrence Ferlinghetti. Poeta, editore e libraio
(24 marzo 1919 – 22 febbraio 2021) Poeta, scrittore ed editore americano tra i padri e i maggiori ideologi della Beat Generation, aveva 101 anni. «Sono un fanciullo cresciuto da romantico contestatore, che ha conservato la sua giovanile visione di una vita destinata a durare per sempre, immortale come lo è ogni giovane convinto che la sua identità speciale non morirà mai», scriveva nella propria autobiografia Little Boy pubblicata nel 20219 alla vigilia del suo centesimo compleanno.
Antonio Catricalà. Avvocato, magistrato, politico
(7 febbraio 1952 - 24 febbraio 2021) L'ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ed ex Garante dell'Antitrust, è stato trovato morto nella sua abitazione a Roma. Si sarebbe tolto la vita sparandosi un colpo di pistola. Magistrato del Consiglio di Stato dal 2014, era stato candidato dal centrodestra a giudice della Corte Costituzionale.
Claudio Coccoluto. Disc jockey
(17 agosto 1962 – 2 marzo 2021) Tanti, tantissimi, hanno ballato con la sua musica. L'artista - considerato uno dei più grandi dj sulla scena italiana e internazionale - lottava da un anno contro una grave malattia. Aveva cominciato a giocare con i dischi da ragazzo nel negozio di elettrodomestici del padre a Gaeta, città di cui era originario. Il collega e amico dj Ringo ha voluto ricordare “Cocco” così: «Ti voglio ricordare così, smico mio... Ci rivedremo in qualche club lassù, intanto testami i suoni e impianto come sai fare solo tu. Eri un signore della musica. Rip».
Carlo Tognoli. Politico e giornalista
(16 giugno 1938 – 5 marzo 2021) Ex sindaco socialista di Milano dal 1976 al 1986, era stato colpito dal coronavirus mentre si trovava in ospedale per una frattura al femore. Prima di intraprendere l'attività politica aveva lavorato per anni in una azienda farmaceutica. Ministro nei governi Goria e De Mita e nell'ultimo governo Andreotti, fu direttore del mensile Critica Sociale dal 1981 al 1992. Fu anche Presidente del Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano (2003-2005).
Raoul Casadei. Musicista
(15 agosto 1937 – 13 marzo 2021) Per tutti era il Re del Liscio. Dal 2 marzo 2021 era ricoverato all'ospedale Bufalini di Cesena dopo aver contratto il coronavirus. «Gli artisti come Raoul non moriranno mai rimarrà sempre vivo nella sua musica e nelle sue canzoni che ritrovano nell'aria e continuano a esistere», ha detto il figlio Mirko al Tgr Rai dell'Emilia-Romagna. «Oggi è un giorno triste per la Romagna, per tutta Italia, per la musica popolare».
Giovanni Gastel. Fotografo
(27 dicembre 1955 - 13 marzo 2021) Figlio di Giuseppe Gastel e Ida Visconti di Modrone, nipote di Luchino Visconti, si affermò come fotografo di moda, per poi occuparsi anche di progetti con fini artistici e di ritratti. Tra le personalità che ha immortalato in scatti memorabili anche Barack Obama e Maradona. Ricordiamo la sua personale, curata dal critico d`arte Germano Celant alla Triennale di Milano nel 1997 e l'autobiografia Un eterno istante. La mia vita(Mondadori), uscita in occasione dei suoi 60 anni.L'APPROFONDIMENTOdi Gian Luca Bauzano
Ombretta Fumagalli Carulli. Politica
(5 marzo 1944 – 16 marzo 2021) È morta a 77 anni compiuti da pochi giorni la prima donna docente di Diritto canonico. Entrata per la prima volta in Parlamento nel 1987, venne eletta nelle file della Dc come deputato. Sottosegretaria di diversi governi, terminata l'attività parlamentare, nel 2001 tornò all'attività di docente all'Università Cattolica di Milano e nel 2003 fu nominata da Giovanni Paolo II Accademico Pontificio presso la Pontificia accademia delle Scienze sociali.
George Segal. Attore e musicista
(13 febbraio 1934 – 23 marzo 2021) Nominato all'Oscar come miglior attore non protagonista nel 1967 per la sua interpretazione in Chi ha paura di Virginia Woolf, è morto a Santa Rosa, in California, all'età di 87 anni. Aveva vinto un Golden Globe per il suo ruolo in Un tocco di classe (1973) con Glenda Jackson. Era noto anche per i suoi ruoli in televisione, principalmente nelle sitcom.
Larry McMurtry. Scrittore e sceneggiatore
(3 giugno 1936 – 25 marzo 2021) Prolifico scrittore e sceneggiatore statunitense vincitore di un Pulitzer per il romanzo Un volo di colombe (1986), aveva 84 anni. Vinse anche un Oscar con Diana Ossana per la sceneggiatura non originale di I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee, tratto dal racconto Gente del Wyoming di Annie Proulx. Da alcuni suoi romanzi sono stati tratti film di successo. Una frase per ricordarlo? «Le librerie sono una forma di allevamento; invece di allevare il bestiame, io allevo libri. Anche la scrittura è una forma di pastorizia; raggruppo le parole in piccoli gruppi simili a paragrafi».
Hans Küng. Teologo, presbitero e saggista
(19 marzo 1928 – 6 aprile 2021) Teologo svizzero, ordinato sacerdote nel 1954, si dedicò allo studio della storia delle religioni, in particolare quelle abramitiche. Era noto per le sue posizioni in campo teologico e morale spesso critiche verso alcune tematiche della dottrina cattolica: si espresse, ad esempio, contro il dogma dell'infallibilità papale così come inteso dal Concilio Vaticano I. Nel 1979 gli venne revocata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede la facoltà di insegnare come teologo cattolico, ma continuò a lavorare come professore emerito all'Università di Tubinga. Come scrive Marco Rizzi sul Corriere delal Sera: «Dopo tante polemiche, il riavvicinamento di Küng alla Chiesa di Roma era stato segnato dall’incontro con l’antico collega Ratzinger, allora sul soglio pontificio, nel settembre 2005, e dalla lettera che papa Francesco gli aveva inviato il 20 marzo 2016 in occasione del suo ottantottesimo compleanno, che si apriva con le parole Lieber Mitbruder, "Caro confratello"».
Filippo di Edimburgo. Principe
(10 giugno 1921 - 9 aprile 2021) Ha chiuso gli occhi a due mesi dal traguardo del secolo. Sotto lo stesso tetto della regina Elisabetta II, la donna a cui è stato al fianco per oltre sette decenni in veste di principe consorte. Nato a Corfù, in Grecia, si era ritirato dalla vita pubblica e dagli impegni ufficiali nel 2017. Il Duca di Edimburgo è passato alla storia anche per alcune gaffe che lo hanno vitso protagonista. Una per tutte? «Avremo bisogno di tappi per le orecchie?», disse dopo aver appreso che Madonna avrebbe cantato la colonna sonora del film di James Bond del 2002.
Bernard Madoff. Banchiere
(29 aprile 1938 – 14 aprile 2021) "Bernie" Madoff, il finanziere che costruì il più grande "schema Ponzi" della storia, è morto nel carcere federale di Butner, North Carolina, dove stava scontando la sua pena di 150 anni. Nel 2009 si era dichiarato colpevole di una frode che ha colpito circa 37mila persone in 136 Paesi. Tra le sue vittime anche personaggi famosi come Steven Spielberg, Kevin Bacon e il premio Nobel per la Pace Elie Weisel.
Maria Ilva Biolcati. Cantante e attrice teatrale
(17 luglio 1939 – 23 aprile 2021) «Con Milva scompare una protagonista della musica italiana», ha scritto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. rendendo omaggio alla cantante, malata da tempo. Soprannominata La Rossa per il colore della sua chioma - Enzo Jannacci le scrisse anche una canzone con questo titolo -, calcò i palcoscenici di tutto il mondo realizzando più di sessanta album. Nata a Goro, in Emilia Romagna, partecipò 15 volte al Festival di Sanremo, un record di presenze che detiene insieme a Peppino Di Capri, Toto Cutugno e Al Bano.
Michael Collins. Astronauta
(31 ottobre 1930 – 28 aprile 2021) Uno dei tre astronauti dell'Apollo 11, da tempo combatteva contro il cancro. Era soprannominato l'astronauta dimenticato perché al contrario di Neil Armstrong e Buzz Aldrin, non camminò mai sulla Luna ma nella storica missione del 1969 rimase ai comandi dell'Apollo 11, dal quale si staccò il Lem. Una curiosità? Era nato a Roma il 31 ottobre 1930, figlio di un diplomatico Usa. La frase che mi piace citare per ricordarlo? «Siamo fortunati ad avere questo Pianeta. Io lo so, ne ho visto un altro».
Nick Kamen. Cantante
(15 aprile 1962 – 4 maggio 2021) Modello e cantante britannico, raggiunse la notorietà come protagonista di uno spot televisivo della Levi’s. Ve lo ricordate? Entrato in una lavanderia, si toglieva i jeans, li metteva a lavare e rimaneva in boxer ad aspettare leggendo il giornale. Anche grazie a quella pubblicità venne notato da Madonna, che nel 1986 gli produsse con Stephen Bray il brano Each Time You Break My Heart.
Alessandro Talotti. Atleta
(7 ottobre 1980 - 6 maggio 2021) Campione azzurro del salto in alto, è morto a 40 anni dopo una brutta malattia. In carriera stabilì un personale di 2 metri e 32 - suo primato indoor - e partecipò a due edizioni delle Olimpiadi: Atene nel 2004 (finalista) e Pechino nel 2008. Nel 2002 ottenne anche un quarto posto agli Europei. «Con i tuoi salti ci hai regalato tante emozioni...oggi, purtroppo, un grandissimo dolore», sono le parole di Giovanni Malagò, presidente del Coni. «Sei volato troppo in alto ma resterai per sempre con noi... uno di noi».
Franco Battiato. Cantautore, musicista, artista
(23 marzo 1945 – 18 maggio 2021) Un Maestro. Un artista visionario, ironico, eclettico, sperimentatore, che ha saputo rivoluzionare (non solo) la musica italiana. Per molti rimarrà un Centro di gravità permanente , come recita uno dei suoi brani più famosi, insieme a La cura , Voglio vederti danzare o Bandiera Bianca, solo per citarne alcune. Da tempo era assente dalle scene musicali ed artistiche. Nel 2015 una caduta dal palco era stato uno dei primi segnali dell'aggravarsi delle sue condizioni di salute. Si era rifugiato nella sua villa alle pendici dell'Etna, circondato dai suoi familiari. Ebbe una breve esperienza (non retribuita) come assessore alla Regione Sicilia con la giunta Crocetta, dal novembre 2013 al marzo 2014.
Tarcisio Burgnich. Calciatore e allenatore
(25 aprile 1939 – 26 maggio 2021) Ex difensore protagonista dell'epopea della Grande Inter di Helenio Herrera negli anni '60, è scomparso in Versilia dove viveva da anni. Vincitore con la maglia nerazzurra di quattro scudetti, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali, era stato anche campione d'Europa con l'Italia nel 1968 e vicecampione del mondo nel 1970. Originario di Ruda, in Friuli-Venezia Giulia, è considerato (non a caso) uno dei migliori difensori italiani di sempre.
Isabella De Bernardi. Attrice
(12 luglio 1963 – 26 maggio 2021) Attrice e pubblicitaria, divenne popolare - e ancora oggi lo era - per il ruolo di Fiorenza, la fidanzata hippy di Carlo Verdone in Un Sacco Bello (1980). Nata a Roma, era figlia del grande sceneggiatore Piero De Bernardi. Recitò anche in Borotalco (1982) e Il bambino e il poliziotto (1989), e poi con Alberto Sordi ne Il Marchese del Grillo (1981) e Io so che tu sai che io so (1982). Lasciò il cinema per seguire la sua passione per grafica e disegno.
Carla Fracci. Ballerina
(20 agosto 1936 - 27 maggio 2021) Una vita sulle punte, la sua. Nata a Milano, figlia di un tramviere, la Divina cominciò a danzare a 10 anni alla scuola della Scala. Si diplomò nel 1954 e divenne, seguiti alcuni stage internazionali, prima ballerina tre anni dopo. Fino agli anni '70 danzò con varie compagnie straniere, dal London Festival Ballet al Royal Ballet, dallo Stuttgart Ballet al Royal Swedish Ballet. Dagli anni '80 diresse il corpo di ballo del San Carlo, poi dell'Arena di Verona, infine dell'Opera di Roma, dove rimase sino al 2010, fedele all'attività didattica che tanto amava. Ha avuto al suo fianco ballerini del calibro di Rudolf Nureyev, Vladimir Vasiliev, Mikhail Baryshnikov, Amedeo Amodio. A lei - eterna e immensa Giselle - dedicò una poesia anche Eugenio Montale: La danzatrice stanca.
Amedeo di Savoia-Aosta. Imprenditore e membro di Casa Savoia
(27 settembre 1943 – 1 giugno 2021) Il Duca d'Aosta è morto per le complicazioni legate a un intervento chirurgico a un rene. Per decenni aveva vissuto nella tenuta del Borro, tra Laterina e San Giustino Valdarno (Arezzo), poi venduta nel 1999 ai Ferragamo. Legatissimo alla sua terra, nel 1999 fece stampare e affiggere manifesti di saluto per gli abitanti delle frazioni vicine per poterli ringraziare, uno a uno. Figlio di Aimone di Savoia e Irene di Grecia, dopo aver passato i primi anni di vita in un campo di prigionia tedesca, divenne capo della casa Savoia-Aosta dopo la morte del padre nel 1948. In seguito si dedicò prima alla Marina e poi a rappresentare le aziende italiane all'estero.
Guglielmo Epifani. Sindacalista e politico
(24 marzo 1950 – 7 giugno 2021) - Ex leader della Cgil ed ex segretario del Pd, attualmente deputato di Leu, è deceduto dopo una breve malattia. Da sempre molto attivo sui temi del lavoro, è stato fino all'ultimo a fianco dei lavoratori in crisi, come quelli della Whirpool di Napoli. Una delle sue ultime battaglie. Una delle frasi per cui lo ricordo? «Sappiamo per certo che ogni qualvolta si contrappone la piazza al Parlamento lì comincia la notte della democrazia. Guai a contrapporre una forma di democrazia all'altra».
Gianpiero Boniperti. Calciatore e dirigente sportivo
(4 luglio 1928 – 18 giugno 2021) Presidente onorario della Juventus, di cui è stato una bandiera prima come calciatore e poi come dirigente, è deceduto per un'insufficienza cardiaca. Con i bianconeri disputò 469 partite totali segnando 178 gol dal 1946 al 1961; con la Nazionale 38 presenze e 8 reti. Fu anche europarlamentare dal 1994 al 1999 con Forza Italia. Una delle sue affermazioni più famose? «Alla Juve posso fare solo un augurio: continuare a vincere perché, come sapete, rimane sempre l'unica cosa che conta...».
John Mcafee. Programmatore
(18 settembre 1945 - 23 giugno 2021) Nato a Cinderford, in Inghilterra, in una base dell’esercito americano da padre statunitense e madre inglese, ideò uno degli antivirus più famosi e utilizzati al mondo. Accusato di evasione fiscale negli Stati Uniti, era in cella a Barcellona dove era stato arrestato su mandato internazionale.
Donald H. Rumsfeld. Politico e diplomatico
(9 luglio 1932 – 29 giugno 2021) Ex segretario della Difesa Usa, è morto all'età di 88 anni a Taos, nel Nuovo Messico. «É con profonda tristezza - riferisce la famiglia - che condividiamo la notizia della scomparsa di Donald Rumsfeld, statista americano e marito devoto, padre, nonno e bisnonno» . Era stato uno dei principali artefici dell'invasione americana dell'Iraq nel 2003, durante la presidenza di George W. Bush. La sua storia è stata raccontata anche nel documentario The Unknown Known dell'Oscar Errol Morris, incuriosito dalle migliaia di appunti manoscritti da Rumsfeld durante la sua attività politica.
Raffaella Carrà. Ballerina, conduttrice e autrice televisiva
(18 giugno 1943 – 5 luglio 2021) Non basterebbe un libro per ricordare la regina indiscussa della televisione italiana, icona per generazioni di ragazzi e ragazze. Cantante, conduttrice, ballerina, il suo successo non ha avuto confini. Chi di noi non ha ballato sulle sue canzoni, almeno a Capodanno? A dare il senso di cosa ha rappresentato la Raffa nazionale sono le parole di Renzo Arbore: «Gli storici parleranno della fine della bella epoque del piccolo schermo. Io provo un grande dolore per aver perso un'amica». All'anagrafe Raffaella Maria Roberta Pelloni, la "Raffa" nazionale ha cambiato il volto della televisione con il suo talento, uno scandaloso - per l'epoca - ombelico di fuori, e brani come il Tuca tuca, A far l'amore comincia tu e Fiesta.
Angelo Del Boca. Storico e giornalista
(23 maggio 1925 - 6 luglio 2021) Tra i maggiori studiosi del colonialismo italiano, era direttore della rivista di storia contemporanea "I sentieri della ricerca". Fu inviato speciale della Gazzetta del Popolo e del Giorno , che lasciò nel 1981. Tra le sue tantissime pubblicazioni, i quattro volumi de Gli italiani in Africa Orientale , i due de Gli Italiani in Libia e le biografia di Hailé Selassi e Gheddafi. Nel 2000, in occasione del suo settantacinquesimo compleanno, Del Boca (in un contributo raccolto da un altro grande storico italiano, Nicola La Banca) scrisse: «Per più di cinquant’anni, prima come giornalista, poi come storico e docente, ho lavorato per fornire informazioni agli altri... È stato soprattutto un grande bisogno di testimoniare, di denunciare menzogne e mistificazioni, che mi ha fatto scegliere quelle professioni».
Libero De Rienzo. Attore
(24 febbraio 1977 – 15 luglio 2021) Il suo volto, non solo per me, è quello del giornalista Giancarlo Siani nel film Fortapàsc di Marco Risi. Una passione, quella per il mondo del cinema, ereditata dal padre, Fiore De Rienzo, aiuto regista di Citto Maselli. Nel 2001 "Picchio" aveva vinto con Santa Maradona , pellicola di Marco Ponti, il David di Donatello come Miglior Attore non protagonista. «Dalla fine degli anni 90 tutti lo hanno riconosciuto come il Mozart degli attori, era il più grande di tutti, forse perché riusciva a mettere il dolore al servizio di quello che faceva», ha detto Elio Germano, ricordando l'amico.
Nicola Tranfaglia. Storico e politico
(Napoli, 2 ottobre 1938 – Roma, 23 luglio 2021) Autore di studi sulla storia politica e istituzionale del Novecento italiano e specialista di storia del giornalismo, era stato ricoverato da tre mesi in seguito a un'emorragia cerebrale da cui non si era più ripreso. Dal 1976 al 2006 era stato titolare delle cattedre di storia contemporanea, di storia dell'Europa e del giornalismo all'Università di Torino. Ebbe anche un'esperienza politica come deputato del Partito dei Comunisti Italiani tra il 2006 e il 2008.
Gianni Nazzaro. Cantante e attore
(27 ottobre 1948 – 27 luglio 2021) Si è spento a 72 anni, in seguito a un tumore ai polmoni, l'artista napoletano autore di successi che sono rimasti nella storia della musica italiana: da Quanto è bella lei a Mi sono innamorato di mia moglie, da A modo mio a Senza luce/Estate senza te . Da tempo lottava contro una grave malattia. Sulla propria pagina Instagram, Pupo ha pubblicato una foto del collega scrivendo un pensiero che ha commosso i fan: «Conoscevo molto bene Gianni, era un’artista poliedrico e una brava persona. Aveva la fragilità degli uomini belli e affascinanti, che tanto piacciono alle donne», ha scritto Enzo Ghinazzi.
Roberto Calasso. Scrittore ed editore
(30 maggio 1941 – 28 luglio 2021) Scrittore ed editore, saggista e narratore, era il proprietario e direttore editoriale della casa editrice Adelphi. I suoi libri sono stati tradotti in 25 lingue e pubblicati in 28 Paesi.Tra le sue narrazioni più famose L’impuro Folle e Le nozze di Cadmo e Armonia. Il giorno della sua morte è anche quello dell’uscita di due suoi libri autobiografici, Memè Scianca, dove narra la sua infanzia a Firenze, e Bobi, in ricordo di Roberto Bazlen, ideatore con Luciano Foà di Adelphi, nata nel 1965 e diretta da Calasso a partire dal 1971.
Antonio Pennacchi. Scrittore
(26 gennaio 1950 – 3 agosto 2021) È morto nella sua casa di Latina, all'età di 71 anni, lo scrittore vincitore nel 2010 del premio Strega con lo straordinario Canale Mussolini («Il dramma della condizione umana è proprio questo: sei quasi perennemente condannato a vivere nel torto, pensando peraltro d’avere pure ragione», si legge in un famoso passaggio del libro). Era stato operaio all’Alcatel Cavi. Prima di dedicarsi alla scrittura, la sua grande passione era stata la politica: prima nelle file del Msi, poi in quelle del Partito marxista-leninista Italiano. Nel 1994, a 44 anni - sfruttando un periodo di cassa integrazione - si era laureato in Lettere con una tesi su Benedetto Croce all'Università "La Sapienza" di Roma.
Gino Strada. Medico e attivista
(21 aprile 1948 - 13 agosto 2021) «Quando si bombarda si chiama guerra. Poi si possono utilizzare tutti gli aggettivi che si vuole, ma rimane sempre guerra». Si è sempre schierato, fino all'ultimo, firmando dalla Normandia dove era per una breve vacanza un editoriale su La Stampa per commentare la situazione in Afghanistan, 24 ore prima di morire. Emergency, la sua creatura, fondata 25 anni fa insieme alla moglie Teresa Sarti, scomparsa nel 2009, è cresciuta fino ad arrivare in 18 Paesi del mondo. Unica speranza di una vita diversa, migliore, per milioni di persone. «Ha portato le ragioni della vita dove la guerra voleva imporre violenza e morte. Ha invocato le ragioni dell'umanità dove lo scontro cancellava ogni rispetto per le persone. La sua testimonianza, resa sino alla fine della sua vita, ha contribuito ad arricchire il patrimonio comune di valori quali la solidarietà e l'altruismo, espressi, in maniera talvolta ruvida ma sempre generosa, nel servizio alla salvaguardia delle persone più deboli esposte alle conseguenze dei conflitti che insanguinano il mondo», ha ricordato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Piera Degli Esposti. Attrice e regista
(12 marzo 1938 – 14 agosto 2021) Definita da Eduardo De Filippo 'o verbo nuovo, con la sua voce e il suo corpo, la sua vena anticonformista e spregiudicata, ha scritto un capitolo importante della storia del teatro e del cinema del nostro Paese, formandosi "con le donne", come amava ripetere, e mai con le accademie. Ha vinto il David di Donatello per L'ora di religione (2002) di Marco Bellocchio e Il divo (2009) di Paolo Sorrentino. Nel 1980 ha collaborato con la scrittrice Dacia Maraini al libro Storia di Piera, ispirato ai fatti della sua infanzia, da cui nel 1983 è stato tratto il film omonimo diretto da Marco Ferreri.
Gianfranco D'Angelo. Attore e comico
(19 agosto 1936 – 15 agosto 2021) Attore, comico, cabarettista, doppiatore, imitatore e cantante, debuttò in Rai all'inizio degli anni '70, a fianco dei personaggi di punta dell'epoca, da Raffaella Carrà a Sandra Milo. Ha fatto parte del gruppo del Bagaglino con Pippo Franco e ha recitato in molti film, a teatro e in televisione, dove ha partecipato a numerosi programmi. Il più famoso? Drive in di Antonio Ricci Dopo aver vinto quattro Telegatti, nel 2001 vince il Delfino d'oro alla carriera. Nel 2019 appare nel film W gli sposi di Valerio Zanoli, insieme tra gli altri a Paolo Villaggio, alla sua ultima interpretazione cinematografica..
Gerhard Muller. Calciatore e dirigente sportivo
(3 novembre 1945 – 15 agosto 2021) Soprannominato der Bomber der Nation («Il capocannoniere della Nazione»), è passato alla storia per i molti gol segnati in carriera. Qualche esempio? Fu atutore di 68 gol in 62 partite con la nazionale tedesca, con cui vinse gli Europei nel 1972 e i Mondiali nel 1974, segnando in entrambe le finali. E ancora, fu autore di una rete nella semifinale contro l'Italia a Messico '70. Con il Bayern realizzò 566 reti in 607 partite ufficiali. Era affetto da Alzheimer.
Nicoletta Orsomando. Annunciatrice televisiva
(11 gennaio 1929 – 21 agosto 2021) Morta a 92 anni, era la più famosa delle signorine buonasera. Attiva come annunciatrice Rai dal 1953 al 1993, esordì in televisione il 22 ottobre del 1953 per presentare, dagli studi di Roma, un documentario sull’Enciclopedia Britannica per i ragazzi. Nella sua carriera ha condotto anche diversi programmi. Nel 1994 è stata insignita del ruolo di Commendatore della Repubblica Italiana.
Charlie Watts. Batterista
(2 giugno 1941 – 24 agosto 2021) Semplicemente un mito. Il leggendario batterista e cofondatore dei Rolling Stones è morto a 80 anni dopo un'operazione di emergenza al cuore. «Per una volta sono andato fuori tempo», aveva spiegato lui ad agosto, dopo aver annunciato alle 13 date del tour negli Stati Uniti. Un ritiro consigliato dai medici che gli avevano imposto assoluto riposo. «Sto lavorando duramente per tornare completamente in forma, ma oggi su consiglio degli esperti ho accettato il fatto che questo richiederà un po' di tempo», aveva - però - aggiunto.
Ed Asner. Attore
(15 novembre 1929 - 29 agosto 2021) È morto a 91 l'attore statunitense conosciuto da tutti come Ed, vincitore di sette Emmy Awards e cinque Golden Globes. Doppiatore e attore, è stato anche presidente della Screen Actors Guild. Il suo ruolo più famoso fu quello del giornalista della Cbs Lou Grant all'interno del Mary Tyler Moore Show e successivamente nello spin-off Lou Grant.
Mikis Theodorakis. Politico e compositore
(29 luglio 1925 – 2 settembre 2021) Addio al compositore e politico greco, autore della colonna sonora di Zorba il greco, film del 1964 che rese popolare nel mondo il sirtaki. Negli anni Sessanta e poi dagli anni Ottanta, prima e dopo la "Dittatura dei Colonnelli", fu anche membro del Parlamento greco, eletto con il partito comunista greco. Negli ultimi anni era stato più volte ricoverato in ospedale per problemi di salute e, nel 2019, gli è stato impiantato un pacemaker.
Jean-Paul Belmondo. Attore
(9 aprile 1933 – 6 settembre 2021) Nato a Neuilly sur Seine, alle porte di Parigi, nelle vene aveva sangue italiano: il padre Paolo Raimondo, infatti, era uno scultore. Icona del cinema francese, girò 80 film e fu protagonista di numerose storiche pellicole tra le quali Il Clan dei marsigliesi con Claudia Cardinale (1972). Recitò anche in Italia diretto, tra gli altri, da Alberto Lattuada, Vittorio De Sica e Renato Castellani accanto a Gina Lollobrigida, Claudia Cardinale, Sophia Loren e Stefania Sandrelli.L'APPROFONDIMENTOdi Stefano Montefiori
Nino Castelnuovo. Attore
(28 ottobre 1936 - 6 settembre 2021) L'attore, che interpretò Renzo nella miniserie tv I Promessi Sposi, trasmessa a fine anni Sessanta, si è spento a Roma dopo un lunga malattia. Aveva 84 anni. Nino (all'anagrafe Francesco) era originario di Lecco: esordì al cinema in Un maledetto imbroglio (1959) di Pietro Germi, e proseguì con ruoli secondari in numerose pellicole come Il gobbo (1960) di Carlo Lizzani e Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti. Viene ricordato anche per il celebre salto della staccionata nella pubblicità dell'Olio Cuore, in onda negli anni '80.
Dean Berta Viñales. Motociclista
( 20 aprile 2006 - 25 settembre 2021) Morto ad appena 15 anni, era cugino di Maverick. Il pilota spagnolo è deceduto a seguito di un grave incidente avvenuto sul tracciato di Jerez durante Gara 1 della SuperSport 300. La fidanzata Rebecca Ortolá ha scritto una lettera per ricordarlo: «Come è ingiusta la vita, perché ti porta via le persone che ami di più al mondo? Non ho la forza per esprimere il mio dolore. Dal primo giorno sapevo che eri tu la persona giusta, ero sicura che saremmo rimasti insieme per sempre. Ti prometto che ci vedremo presto, ti amo con tutta me stessa. Sarai sempre l'amore della mia vita».
Bernard Tapie. Imprenditore, politico e attore
(26 gennaio 1943 – 3 ottobre 2021) Dopo una lunga lotta contro il cancro, a 78 anni, è venuto a mancare l'ex ministro francese, uomo d’affari, presidente dell’Olympique Marsiglia e proprietario di Adidas. A causa della malattia, a maggio scorso aveva rinunciato a comparire alle udienze del suo processo d'appello per frode nel controverso caso arbitrale del Credit Lyonnais.
Salvatore Veca. Filosofo
(31 ottobre 1943 - 7 ottobre 2021) Ricordato come un maestro dal mondo della cultura e della politica per la sua riflessione sulla giustizia globale, è morto a Milano a 77 anni. Filosofo politico e accademico, si laureò in Filosofia a Milano con Enzo Paci e Ludovico Geymonat, e qui iniziò la sua carriera accademica. In parallelo, ha portato avanti un'intensa attività editoriale a partire dalla direzione scientifica della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. «I nostri rapporti con la verità hanno qualche cosa a che vedere con i nostri rapporti fra noi e il mondo», si legge nel suo Da Dell'incertezza: tre meditazioni filosofiche del 1997.
Angelo Licheri. L'eroe di Vermicino
(20 agosto 1944 - 18 ottobre 2021) Addio all'uomo che nel 1981, come volontario, si calò nel pozzo di Vermicino per tentare di salvare, invano, Alfredino Rampi. Un gesto coraggioso che commosse l’Italia. «Il bambino era a 64 metri di profondità. Gli ho tolto il fango dagli occhi e dalla bocca e ho cominciato a parlargli, dolcemente. So che capiva tutto. Non riusciva a rispondere ma l’ho sentito rantolare e per me era quella la sua risposta. Quando smettevo di parlare rantolava più forte, come per dirmi: continua che ti sto ascoltando. Dopo vari tentativi andati a vuoto, l’ultimo che ho fatto è stato prenderlo per la canottierina, ma appena hanno cominciato a tirare ho sentito che cedeva… E allora gli ho mandato un bacino e sono venuto via. “Ciao piccolino”», ha ricordato in questi anni parlando di quelle tragiche ore.
Colin Powell. Generale e politico
(5 aprile 1937 - 18 ottobre 2021) L'ex segretario di Stato americano è scomparso per «complicazioni legate al Covid». Nato negli Stati Uniti da genitori di origine giamaicana, dopo la laurea iniziò la carriera militare prestando servizio in Vietnam, ma già nel 1972 ricoprì ruoli di rilievo alla Casa Bianca. Nel 1989, a 52 anni, diventò il più giovane capo di Stato Maggiore della Difesa e il primo uomo di colore a ricoprire l'incarico. Un ruolo nel quale gestì anche l’operazione Desert Storm durante la Prima Guerra del Golfo. Tra il 2001 e il 2005 venne scelto da Bush come segretario di Stato, trovandosi a gestire l’invasione americana dell’Iraq del 2003.
Franco Cerri. Chitarrista
(29 gennaio 1926 - 18 ottobre 2021) Chitarrista e docente, è considerato tra i più grandi e autorevoli chitarristi italiani nel campo del jazz, nonostante fosse autodidatta. A dare la notizia della scomparsa il figlio Nicholas, in un post su Facebook: «Le sette note e le tre chitarre salutano con tanto affetto Franco Cerri, grande musicista e grande uomo. Fai buon viaggio, babbo». Ma, come dimenticare, quando negli anni Settanta recitò nello spot del detersivo per il bucato Bio Presto?! Inquadrato a mezzo busto, immerso in una vasca, venne soprannominato e passò alla storia (anche) come «l'uomo in ammollo».
Luigi Amicone. Giornalista e saggista
(4 ottobre 1956 – 9 ottobre 2021) È scomparso improvvisamente, a 65 anni, a causa di un infarto, lo scrittore, giornalista e politico milanese. Aveva fondato il settimanale - poi diventato mensile - Tempi, di cui era stato direttore. Esponente di spicco di Comunione e Liberazione, nel 2016 era entrato in Consiglio comunale a Milano con Forza Italia. «Come si fa a soddisfare le minime esigenze di "bene comune" con istituzioni della giustizia di geometrica potenza distruttiva?», scrisse in un famoso articolo su Tempi, scuotendo le coscienze di tanti.
Rossano Rubicondi. Attore e modello italiano
(14 marzo 1972 - 29 ottobre 2021) Volto noto della tv e del jet set, quarto marito di Ivana Trump, era malato da tempo. 972. Trasferitosi a Londra a 22 anni, aveva iniziato a lavorare prima come modello e in seguito come attore. «Sono stata molto fortunata per aver vissuto accanto a lui quasi vent'anni della mia vita. Come nella maggior parte delle amicizie e dei matrimoni, abbiamo avuto anche noi la nostra parte di alti e bassi, ma siamo rimasti amici per tutto il tempo e ci siamo sempre protetti l'uno con l'altro: mi mancherà la sua amicizia, l'energia, le risate, la devozione nei miei confronti», si legge nel messaggio d'addio proprio di Ivana, affidato a Mara Venier e letto in una puntata di Domenica in.
Frederik de Klerk. Politico
(18 marzo 1936 - 11 novembre 2021) Ultimo presidente bianco del Sudafrica, scarcerò Nelson Mandela dopo 27 anni di prigionia, aprendo così la strada alle prime elezioni multi-partitiche del 1994. Con Madiba condivise il Premio Nobel per la Pace, ricevuto il 10 dicembre del 1993 «per aver svolto un ruolo decisivo nello smantellamento del sistema di segregazione razziale nel loro Paese». Fu vice di Mandela fino al 1996 e si ritirò dalla politica attiva l'anno successivo. Nel 2004 ha fondato la Global leadership foundation, organizzazione indipendente che si pone come obiettivo quello di orientare i leader politici nella promozione delle istituzioni democratiche e nella difesa dei diritti umani.
Gian Piero Daniele Galeazzi. Telecronista sportivo e conduttore televisivo
(18 maggio 1946 - 12 novembre 2021) Per il suo fisico venne soprannominato Bisteccone. Nel canottaggio vinse il titolo italiano nel 1967 e partecipò alle selezioni per le Olimpiadi del Messico dell’anno successivo. In Rai cominciò in radio e subito fu inviato alle Olimpiadi di Monaco di Baviera del 1972. Il passaggio successivo alla tv gli regalò, oltre alle telecronache del canottaggio, anche quelle del tennis. Condusse per diversi anni 90° Minuto e come inviato sei edizioni dei Giochi. Da anni combatteva con una grave forma di diabete.
Wilbur Smith. Scrittore
(9 gennaio 1933 –13 novembre 2021) Uno degli autori più famosi al mondo, maestro indiscusso della scrittura d'avventura, con i suoi romanzi ha catturato i lettori vendendo oltre 140 milioni di copie in tutto il mondo in più di trenta lingue. «L'autore di bestseller globale Wilbur Smith è morto inaspettatamente questo pomeriggio nella sua casa di Città del Capo dopo una mattinata passata a leggere e scrivere con sua moglie Niso al suo fianco», l'annuncio pubblicato sul sito web personale dello scrittore. Courtney, la sua serie più famosa, «è stata anche la più lunga nella storia dell'editoria, segue le avventure della famiglia Courtney in tutto il mondo, attraversando generazioni e tre secoli, attraverso periodi critici dagli albori dell'Africa coloniale alla guerra civile americana e all'era dell'apartheid in Sud Africa», prosegue la nota.
Paolo Pietrangeli. Cantautore, regista e sceneggiatore
(29 aprile 1945 – 22 novembre 2021) È morto all'età di 76 anni il cantautore, regista e sceneggiatore che con le sue Valle Giulia e Contessa ha accompagnato l'impegno politico di tanti. Figlio del regista Antonio Pietrangeli e di Margherita Ferrone, iniziò a scrivere canzoni negli anni '60, diventando presto uno dei più importanti rappresentanti del filone della canzone di protesta sessantottina. Negli anni Settanta si dedicò anche al cinema e alla tv, firmando programmi come Maurizio Costanzo Show e Amici di Maria De Filippi per la Fininvest. Scelta professionale che non gli impedì, certo, di candidarsi nel 1996, per Rifondazione comunista, senza essere eletto, per aderire poi a Sinistra Ecologia Libertà e, infine, a "Potere al popolo". Il miglior modo per ricordarlo? Continuare a cantare un verso dei suoi "inni": «Voi gente perbene che pace cercate, la pace per fare quello che voi volete. Ma se questo è il prezzo l'abbiamo pagato, nessuno più al mondo dev'essere sfruttato!».
Ennio Doris. Imprenditore e banchiere
(3 luglio 1940 – 24 novembre 2021) Fondatore e presidente onorario di Banca Mediolanum, per oltre quarant'anni è stato protagonista della grande finanza italiana. Sposato dal 1966 con Lina Tombolato, lascia due figli - Massimo e Sara - e sette nipoti. Nel 1992 gli fu conferita l'Onorificenza di Ufficiale dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana e nel 2002 quella di Cavaliere del Lavoro. «Abbiamo perso un grande uomo, un grande imprenditore, un grande patriota, un grande italiano. Un uomo generoso, altruista, sempre attento agli altri, sempre vicino a chi aveva bisogno. Ci mancherà molto, mi mancherà moltissimo», le parole dell'amico Silvio Berlusconi.
Almudena Grandes. Scrittrice
(7 maggio 1960 – 27 novembre 2021) Una delle voci più rilevanti della letteratura spagnola contemporanea, impegnata nel femminismo e nelle battaglie politiche di sinistra, è deceduta nella sua casa di Madrid a causa di un cancro diagnosticato a settembre 2020. Vincitrice del "Premio Nacional de Narrativa", autrice di romanzi come Las Edades de Lulú o Malena es un nombre de tango, era moglie del poeta Luis Garcia Montero, attuale direttore dell'Istituto Cervantes.
Frank Williams. Manager
(16 aprile 1942 – 28 novembre 2021) Uno dei principali protagonisti della Formula 1 di tutti i tempi, vincitore dinove titoli costruttori, aveva iniziato la sua carriera nel 1972, come patron della Politoys, scuderia che tre anni dopo avrebbe portato il suo nome. Rimasto nel 1986 in sedia rotelle a causa di un incidente automobilistico, fino al 2012 aveva fatto parte del consiglio di amministrazione della Williams. Poi nel 2020 la svolta del team, con il cambio di proprietà e la cessione al fondo d'investimenti Usa Dorilton Capital.
Lina Wertmüller. Regista, sceneggiatrice e scrittrice
(14 agosto 1928 - 9 dicembre 2021) All'anagrafe Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich, la grande regista firmò film indimenticabili come Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare di agosto, Pasqualino settebellezze, Mimì metallurgico, ma anche alcuni musicarelli e il televisivo Gian Burrasca con Rita Pavone, girato tra il 1964 e il 1965. «Ho sempre avuto un carattere forte fin da piccola», raccontava di sé, sottolineando: «Sono stata addirittura cacciata da undici scuole e sul set ho sempre comandato io». Fu la prima regista donna a ottenere una candidatura per la "Miglior Regia" ai Premi Oscar. Nel 2020 l’Academy decise di premiarla con l’Oscar onorario alla Carriera con la seguente motivazione: «Per il suo provocatorio scardinare con coraggio le regole politiche e sociali attraverso la sua arma preferita: la cinepresa».
Anne Rice. Scrittrice
(4 ottobre 1941-11 dicembre 2021) Autrice del ciclo delle Cronache dei vampiri, è morta nella sua abitazione all'eta' di 80 anni in seguito alle complicazioni di un ictus, come annunciato su Facebook dal figlio Christopher. I volumi della serie, cominciata nel 1976, hanno avuto un enorme successo di pubblico, vendendo 80 milioni di copie in tutto il mondo. Da Intervista con il vampiro, il primo romanzo con protagonista Lestat de Lioncourt, un giovane nobile francese del XVIII secolo divenuto vampiro, fu tratto nel 1994 il famoso film con Tom Cruise e Brad Pitt. Nata a New Orleans nel 1941 da una famiglia cattolica di origini irlandesi, rimase orfana di madre a 15 anni, e fu spedita in un collegio dal padre insieme alle sorelle. Un'esperienza che segnò la sua vita per sempre.
bell hooks. Scrittrice e attivista femminista
(25 settembre 1952 – 15 dicembre 2021) Addio a una delle scrittrici icone del femminismo contemporaneo. All'anagrafe Gloria Jean Watkins, era conosciuta con lo pseudonimo di bell hooks (tutto minuscolo perché «enfatizza la sostanza dei libri, non chi sono», amava sottolineare): Bell come la madre, Rosa Bell Watkins, Hooks come la nonna materna, Bell Blair Hooks. Nell'arco della sua carriera, ha pubblicato più di 30 libri oltre a numerosi articoli accademici nei quali ha affrontati temi come razza, classe e genere nell'istruzione, sessualità e femminismo. Nella newsletter de La27Ora, poche settimane fa, ho recensito il suo Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata, dal quale mi piace citare questo passaggio per ricordarla: «Il movimento femminista progredisce quando un maschio o una femmina di qualsiasi età lavorano a mettere fine al sessismo». In questo testo ben sintetizza come il femminismo debba riuscire ad arrivare alle persone che non ne hanno mai sentito parlare, o ne hanno sentito parlare in modo inesatto e fuorviante, per essere presentato (e vissuto) come teoria in grado di liberare la società dalla violenza delle sue gerarchie. Perché «femministe non si nasce, lo si diventa».
Richard Rogers. Architetto
(23 luglio 1933 - 18 dicembre 2021) Tra i pionieri del movimento "high-tech", che si distingue per le sue strutture in vetro e acciaio e le tubature a vista, aveva 88 anni. Nato a Firenze da genitori di origini britanniche poi tornati in Inghilterra con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, nel 2007 aveva vinto il premio Pritzker, uno dei principali premi per l'architettura nel mondo, spesso chiamato anche "Nobel per l'architettura". Decine i progetti con cui ha impreziosito le nostre città: dalla sede della assicurazioni Lloyd's, un ufo architettonico inaugurato nel 1986 nella City di Londra, alla sede della Corte europea dei diritti dell'uomo a Strasburgo. Passando per gli uffici a Berlino in Potsdamer Platz e per il centro Georges Pompidou di Parigi, progettato insieme a Renzo Piano. Divenuto lord Rogers di Riverside, l'architetto sedeva dal 1996 alla Camera dei Lord del parlamento britannico, tra i laburisti.
Desmond Tutu. Arcivescovo e attivista
(7 ottobre 1931 - 26 dicembre 2021) Si è spento a 90 anni l'arcivescovo sudafricano, premio Nobel per la pace nel 1984 e simbolo della lotta all'apartheid. "La scomparsa dell'arcivescovo emerito Desmond Tutu è un altro capitolo di lutto nell'addio della nostra Nazione a una generazione di eccezionali sudafricani che ci hanno lasciato in eredità un Sudafrica liberato", ha affermato il presidente Cyril Ramaphosa. Dopo la fine della politica di segregazione razziale, Tutu ideò e fu a capo della "Commissione per la Verità e la Riconciliazione" (Trc), creata nel 1995, che mise in luce la verità sulle atrocità commesse durante i decenni di repressione da parte dei bianchi. Una frase per ricordarlo? «Il perdono ti dà la possibilità di ricominciare... Se vuoi la pace non parli con gli amici, ma con i nemici».
Franco Ziliani. Enologo e creatore della cantina Berlucchi
(21 giugno 1931 - 26 dicembre 2021) Addio all'enologo e creatore nel 1961 insieme a Guido Berlucchi delle cantine Berlucchi di Erbusco, nel Bresciano. Viene considerato uno dei "padri" della moderna enologia italiana: è scomparso a 90 anni, ricorda l'Azienda Berlucchi, nell'anno che ha celebrato il 60esimo anniversario dalla prima bottiglia di Franciacorta da lui creata. Parlando degli inizi della sua carriera, nell'ultima intervista al Corriere della Sera, disse: «Ero un giovane enologo, che lavorava già in varie cantine, venni convocato da Berlucchi. Quando arrivai era al pianoforte e ricordo benissimo che suonava Georgia on my mind. Il conte richiuse il piano, e iniziò a chiedermi accorgimenti per migliorare il suo vino bianco, il Pinot del Castello, che era instabile e opaco. Risposi senza paura alle domande, e nel salutarlo osai ancora di più dicendogli “E se facessimo anche uno spumante alla maniera dei francesi?” Era perplesso, ho insistito e mi ha dato via libera. È andata così, mi creda».
· È morto l’attore James Michael Tyler.
È morto James Michael Tyler, Gunther di Friends. Vanityfair.it il 25/10/2021. Dietro al bancone del Central Perk, tutti lo conoscevano come Gunther, il barista di Friends, il confidente che ha tenuto compagnia ai fan della serie per la bellezza di 150 episodi. Nel mondo reale, invece, si chiamava James Michael Tyler, un professionista che ieri, domenica 24 ottobre, si è spento a causa di un cancro alla prostata all'età di 59 anni. Il tumore, in uno stadio molto avanzato, gli era stato diagnosticato la prima volta nel 2018: «Il mondo lo conosceva come Gunther, dalla serie di successo Friends, ma i suoi cari lo conoscevano come attore, musicista e marito amorevole», ha scritto il suo manager Toni Benson in un tributo. «Michael amava la musica dal vivo, tifava per i suoi Clemson Tigers, e spesso si trovava in avventure divertenti e non pianificate». Prima di approdare nella grande famiglia di Friends, nel 1994, James Michale Tyler è apparso, in alcune serie cult degli anni Novanta come Just Shoot Me! e Sabrina - Vita da strega. Tyler è stato scritturato per la seconda stagione di Friends, della quale divenne una ricorrente guest star, mentre lavorava come barista presso la caffetteria Bourgeois Pig a Los Angeles. La Warner Bros. Television, che ha prodotto la serie, lo ha ricordato come «un attore amato e parte integrante della nostra famiglia di Friends». Insieme agli studios, anche Jennifer Aniston e Courtney Cox hanno reso omaggio alla memoria di Tyler sui social. «Friends non sarebbe stato lo stesso senza te. Grazie per le risate che hai portato sul set e nelle vite di tutti noi. Mi mancherai tantissimo», ha scritto Jennifer Aniston, ossia Rachel, la ragazza per la quale Gunther aveva una cotta. «La grandezza della gratitudine che hai portato con te e che hai mostrato ogni giorno sul set è la grandezza della gratitudine che ho per averti conosciuto. Riposa in pace James», ha, invece, scritto Cox. Dopo la chiusura di Friends, nel 2004, James Michael Tyler è apparso, tra gli altri, anche in Scrubs e Modern Music.
Morto James Michael Tyler di Friends: era Gunther. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 25 ottobre 2021. L’attore si è arreso a un cancro alla prostata contro cui lottava da tempo. Aveva recitato anche in alcuni episodi delle serie «Scrubs» e «Modern Music». È morto James Michael Tyler, l’attore noto per il suo ruolo ricorrente di Gunther in «Friends». Aveva 59 anni. Tyler è morto ieri, domenica 24 ottobre, nella sua casa di Los Angeles per un cancro alla prostata. Lo ha riferito il suo manager, Toni Benson. Il tumore, già in uno stadio avanzato, gli era stato diagnosticato per la prima volta nel 2018. «Il mondo lo conosceva come Gunther, dalla serie di successo “Friends”, ma i suoi cari lo conoscevano come attore, musicista e marito amorevole», ha scritto Benson in un tributo. «Michael amava la musica dal vivo, tifava per i suoi Clemson Tigers, e spesso si trovava in avventure divertenti e non pianificate». Tyler è apparso in alcune serie degli anni ‘90 come «Just Shoot Me!» e «Sabrina the Teenage Witch» prima di essere scelto come personaggio di sfondo nella seconda stagione di «Friends» nel 1994. Per un anno, è stato la guest star più ricorrente nella serie interpretando Gunther, il barista di Central Park con un affetto non corrisposto per Rachel (Jennifer Aniston). Tyler è stato inizialmente scelto mentre lavorava come barista presso la caffetteria Bourgeois Pig a Los Angeles. Nel corso dei 236 episodi della serie, Tyler è apparso in 150 di essi. La Warner Bros. Television, che ha prodotto «Friends», lo ha commemorato come «un attore amato e parte integrante della nostra famiglia di “Friends”». Anche Jennifer Aniston e Courtney Cox hanno ricordato Tyler sui social. «”Friends” non sarebbe stato lo stesso senza te — ha scritto Rachel/Jennifer Aniston —. Grazie per le risate che hai portato sul set e nelle vite di tutti noi. Mi mancherai tantissimo». Mentre Cox ha postato: «La grandezza della gratitudine che hai portato con te e che hai mostrato ogni giorno sul set è la grandezza della gratitudine che ho per averti conosciuto. Riposa in pace James». Una volta concluso «Friends» nel 2004, Tyler è apparso in «Scrubs», «Modern Music» e si è esibito in un episodio di «Episodes» di Matt LeBlanc nel 2012. Dopo che gli è stato diagnosticato il cancro, Tyler ha recitato in due cortometraggi mentre era in cura e ha recitato a voce la poesia di Stephan Kalinich «If You Knew» per sostenere la Prostate Cancer Foundation. Tyler lascia la moglie, Jennifer Carno.
Friends, morto "Gunther". Il dramma di James Michael Tyler: come lo aveva ridotto il cancro. Libero Quotidiano il 25 ottobre 2021. I telespettatori di mezzo mondo in lutto per la morte di James Michael Tyler: era Gunther in Friends, personaggio secondario ma amatissimo della sit-com simbolo a cavallo tra anni 90 e Duemila. L'attore americano è scomparso nella sua casa di Los Angeles a 59 anni, stroncato da cancro alla prostata che gli era stato diagnosticato nel 2018. Sui social non ha mai smesso di pubblicare foto e pensieri anche nei momenti più duri, quelli della chemioterapia, delle terapie purtroppo inutili fino alle cure anti-dolore degli ultimi mesi. La sua ultima foto social risale allo scorso giugno, poco prima un commovente scatto in sedia a rotelle, in ospedale. Era diventato famoso per il ruolo del manager della caffetteria Central Perk, il punto di ritrovo della combriccola di Friends. "Il mondo lo ha conosciuto come Gunther - lo ha ricordato il suo agente Toni Benson - ma per chi gli voleva bene era un attore, un musicista e un marito". Prima personaggio di sfondo, poi vera e propria guest star di Friends fin dai primi episodi, aveva acquisito sempre maggior risalto tanto da farlo entrare nella trama principale come innamorato, non corrisposto, della bellissima (e ambitissima) Rachel, il personaggio interpretato da Jennifer Aniston. Alla celebre reunion del cast di qualche tempo fa, Gunther/James Michael, già gravemente malato, aveva partecipato solo in videocollegamento.
· E’ morto il rapper svedese Yasin.
Aveva subìto un tentativo di rapimento dal rivale Yasin. Chi è Einar, il 19enne rapper svedese ucciso a colpi di arma da fuoco. Redazione su Il Riformista il 22 Ottobre 2021. Giovanissima e pluripremiata star del rap svedese, il 19enne Einar è stato ucciso ieri sera a colpi di arma da fuoco in un quartiere a sud di Stoccolma. L’omicidio, secondo i media locali, potrebbe essere legato al mondo delle gang. Il rapper è stato “colpito da diversi proiettili nel sobborgo di Hammarby, che lo hanno ucciso sul colpo” ha detto il portavoce della polizia Ola Osterling all’agenzia di stampa svedese TT. La polizia sta cercando almeno due sospettati che avrebbero sparato al rapper. CHI È EINAR – Il vero nome è Nils Gronberg, è nato a Stoccolma ed è diventato famoso all’età di 16 anni quando la sua canzone ‘Katten i trakten’ dal suo album di debutto ‘Forsta klass’ ha scalato le classifiche svedesi nel 2019. È stato premiato con il premio Canzone dell’anno nel 2019 e il premio come esordiente dell’anno un anno dopo. In Svezia aumenta la criminalità La Svezia ha visto un aumento dell’attività della criminalità organizzata negli ultimi anni e diverse sparatorie tra bande si sono verificate a Stoccolma, Goteborg e Malmo. Il movente della sparatoria rimane poco chiaro ma il quotidiano svedese Aftonbladet ha riferito che il rapper recentemente aveva ricevuto diverse minacce. Secondo l’emittente pubblica svedese SVT, la sparatoria sarebbe legata alle gang. Einar era stato premiato con il premio canzone dell’anno nel 2019 e il premio come esordiente dell’anno un anno dopo. Il rapper ha avuto anche conflitti pubblici con il suo rivale Yasin. Quest’ultimo è stato condannato a luglio a dieci mesi di carcere per un progetto fallito di rapimento di Einar nel 2020. La Svezia ha visto un aumento dell’attività della criminalità organizzata negli ultimi anni e diverse sparatorie tra bande si sono verificate a Stoccolma, Goteborg e Malmo.
Da "huffingtonpost.it" il 23 ottobre 2021. Il rapper svedese Einar, il cui vero nome è Nils Kurt Erik Einar Gronberg, è stato assassinato nella notte nel quartiere di Hammarby Sjostad a Stoccolma. Lo riferiscono diversi meda svedesi come l’emittente Svt. “Una giovane vita si è spenta. Capisco che la sua figura fosse importante per tanti ragazzi. È tragico”, ha commentato il Primo ministro svedese Stefan Lofven all’agenzia di stampa Tt. La polizia di Stoccolma in una nota ha dichiarato solamente che un uomo ha perso la vita a causa delle ferite riportate, non confermando l’identità della vittima. Un’inchiesta è stata aperta, ma finora nessuno è stato arrestato. In Svezia da tempo c’è un problema relativo alle gang criminali, che riemerge ripetutamente con casi di violenza come l’ultimo. Fino al 15 ottobre, solo nel 2021 sono state registrate 273 sparatorie con 40 morti. Nel luglio scorso, due bambini sono stati accidentalmente colpiti e feriti in una sparatoria appena fuori dalla capitale. Un mese dopo è toccato ad altre tre persone, stavolta nella città di Kristianstad. Nel Paese Einar era una delle star della musica, grazie al singolo ‘Katten i trakten’ (Il Gatto del quartiere) con cui nel 2019 era diventato l’artista più popolare su Spotify davanti a star come Ed Sheeran e Billie Eilish. Aveva all’attivo quattro album e decine di milioni di stream sulle piattaforme musicali.
· Morto il grande direttore d'orchestra Bernard Haitink.
Morto il grande direttore d'orchestra Bernard Haitink. Angelo Foletto su La Repubblica il 22 ottobre 2021. Aveva 92 anni. Aveva rivoluzionato il modo di stare sul podio: piuttosto che dirigere, cercava di far parlare le partiture. Bernard Haitink, morto ieri a 92 anni a Londra, era un benedetto sopravvissuto. Era nato a Amsterdam nel 1929, cresciuto sotto l'occupazione nazista quando il mondo intellettuale europeo, brutalmente orfano di artisti ebrei o antinazisti, stava cercando se stesso anche nella musica. Nella direzione d'orchestra, la lezione dei maestri del secolo era ammansita dall'età e dal disincanto ma alcuni giovani seppero coglierne il significato e tenerlo in vita. Cioè l'idea che la letteratura musicale avesse una grandezza propria, uscita intatta anche dai crimini di guerra: bastava far parlare le partiture, ascoltarne e riceverne il significato. 'Dirigerle' il meno possibile. Lavorare sullo spirito più che sul dettaglio, sull'aura più che la scorza, sulle tensioni formali più che le strutture sintattiche, sulla capacità di comunicare tutto ma non a tutti. Haitink aveva iniziato come violinista nell'Orchestra della Radio Olandese, negli anni in cui la vita musicale olandese si incarna nella figura di Willem Mengelberg, il primo grande testimone "moderno", cioè entrato anche nell'era della registrazione discografica di Beethoven e Mahler, e creatore del mito-Concertgebouw Orchestra. Hatink divenne a sua volta il direttore-simbolo del complesso per vie inizialmente fortuite (la sostituzione all'ultimo momento di Carlo Maria Giulini) poi per meriti artistici tradotti di amore reciproco. Sarebbe diventata la sua compagna di vita musicale quasi esclusiva, direttore musicale dal 1961 al 1988, poi direttore emerito del 1999. Anche direttore principale della London Philharmonic, del Festival di Glyndebourne e del Covent Garden (quindi con importante attività in ambito del teatro musicale), della Staatskapelle di Dresda e della Chicago Symphony Orchestra, negli ultimi anni s'era dedicato con passione al lavoro con le orchestre giovanili: dalla European Union Youth Orchestra alla Gustav Mahler Jugendorchester. Costruendo, dal dicembre 2013, quando sostituì Abbado, gravemente malato, in un concerto con Maurizio Pollini, un rapporto profondo con l'Orchestra Mozart, che poi diresse per tre anni nelle stagioni di ripartenza, dal 2017: a Bologna e tournée europee. Divenne così un musicista meno ignoto al pubblico italiano che per varie ragioni non aveva avuto altrimenti poche occasioni di ascoltare dal vivo con le nostre orchestre. Alla Scala, debuttò nel 1996 con un Ein Deutsches Requiem di Brahms accorato ma non drammatico, toccante ma a ciglio asciutto, senza ammiccamenti confessionali o genericamente edificanti, scandito più che articolato, sospeso, quasi aleatorio, negli episodi praticamente a sole voci. Una meditazione, più che una preghiera. Così come il ritorno, nel 2017 era stato con una Missa Solemnis beethoveniana severa e avventurosa, tesa e inquieta, in cui Haitink si era svelato maestro di oratoria nelle pagine declamatorie del coro in cui la singola sillaba latina acquista importanza affrescando con laconica opulenza gli squarci haendeliani e i tortuosi episodi contrappuntistici. Negli ultimi decenni la sua attività si era rivolta esclusivamente ai suoi autori sinfonici preferiti (Mahler, Bruckner, Sostakovic, Brahms), ma la sua testimonianza discografica è significativamente aperta anche all'opera, con importanti titoli di Britten e Wagner, soprattutto. Se il Festival di Lucerna aveva chiamato Haitink a dirigere nell'anno successivo alla scomparsa di Abbado, prima della nomina di Riccardo Chailly (suo successore alla Concertgebouworkest, nel 1988), il 90enne direttore olandese scelse la grande sala del KKL in riva al lago di Lucerna, per il suo ultimo concerto, il 6 settembre 2019. Alla testa dei Wiener Philharmoniker, il maestro diresse senza rinunciare a nulla della sua storia e statura interpretativa, la Settima di Bruckner. Ma alla fine, più ancora dell'emozione per l'esecuzione, agli spettatori della prima file e di chi seguiva la serata in ripresa, è rimasto impresso il respiro profondo (di sollievo per la fine di una grande storia personale e artistica, di soddisfazione per aver ancora una volta svolta il suo compito di musicista-interprete senza divisimi né compromessi?) con cui ha accompagnato il faticoso appoggiarsi alla balaustra prima di voltarsi verso il pubblico ch'era già in piedi per l'ovazione. Poche uscite, poi: a passi lenti, con l'aiuto del bastone. L'ultima dando il braccio, quello della bacchetta, alla giovane moglie. L'ultimo saluto è stato agitando il bastone. Quasi un paradosso per un direttore che la musica e gli autori non li aveva mai "comandati" ma fatti suonare comunicando conoscenza, amore e pensiero profondo.
· È morto il compositore Leslie Bricusse.
È morto Leslie Bricusse: aveva lavorato ad Harry Potter e 007. Redazione Notizie.it il 20/10/2021. Il compositore premio Oscar aveva lavorato a tante canzoni celebri del cinema. Da "007" ad "Harry Potter" e "Mamma ho perso l'aereo", tutto il mondo del cinema piange la sua scomparsa. Si è spento a 90 anni Leslie Bricusse. Nato a Londra il 29 gennaio del 1931, aveva alle sue spalle una brillante carriera da artista che l’ha portato ad essere uno dei compositori più riconoscibili e rispettati del panorama cinematografico. Autore di musiche e testi per più di quaranta film e spettacoli teatrali. Vincitore dei premi Oscar e Grammy, Leslie non sarà mai dimenticato.
La carriera
La carriera di Bricusse inizia come paroliere per le opere di famosi compositori come Henry Mancini, John Williams e Anthony Newley. Tra i suoi brani più importanti ci sono i famosissimi “What Kind of Fool Am I?” e “The Candy Man”, portati al successo da Sammy Davis jr. nel celeberrimo “Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato”. Altre opere importantissime sono state “You Only Live Twice” di Frank Sinatra, “Le Jazz Hot” di Julie Andrews e “When I Look in Your Eyes” di Diana Krall. Leslie è stato il paroliere anche de “Goldfinger” il brano più celebre della famosa saga di James Bond.
I riconoscimenti
I riconoscimenti più importanti a Leslie Bricusse sono arrivati proprio dal mondo del cinema. La sua collaborazione ad un brano del film “Il favoloso dottor Dolittle” l’ha portato alla vittoria del premio Oscar per la miglior canzone dell’anno 1968. Questa non è stata l’unica nomination agli Oscar, ricordiamo infatti anche quelle avvenute dopo aver scritto la colonna sonora di film come “Goodbye”, “Mr. Chips”, “La più bella storia di Dickens”, “Victor Victoria”, “Così è la vita”, “Mamma, ho perso l’aereo” e “Hook-Capitan Uncino”. Una delle sue opere più recenti è stata anche una di quelle di maggior successo e che è più rimasta nelle menti di tanti appassionati di cinema. È stato infatti autore della colonna sonora di “Harry Potter e la pietra filosofale” un fil cult degli anni duemila, che ha segnato l’adolescenza di tantissimi di noi.
· E’ morto il jazzista Franco Cerri.
È morto il jazzista Franco Cerri: era stato anche l’Uomo in ammollo. Claudio Sessa su Il Corriere della Sera il 18 ottobre 2021. Milanese, autodidatta era tra i più grandi chitarristi del genere e aveva collaborato con i più grandi, da Billie Holiday a Chet Baker. Ma la fama era arrivata anche con uno spot. Se ne è andato la notte scorsa Franco Cerri, uno dei più squisiti musicisti italiani. Ha avuto vita e carriera lunghissimi, essendo nato il 29 gennaio 1926, ma avrebbe avuto ancora tanto da dire con il suo esempio strumentale e la sua umanità. Era nato a Milano da una famiglia operaia, si era innamorato della chitarra da autodidatta e la sua rivelazione era stata simile alle storie che raccontano le fiabe: la notte del Venticinque Aprile nel cortile di una casa di ringhiera, la gente a far festa, lui ad accompagnare i balli e un tizio che passa e gli dice «sei bravo, domani vieni a trovarmi». Il tizio era Gorni Kramer, una delle figure più popolari della musica leggera (e del jazz) in Italia. Da quel momento Franco Cerri conosce una costante ascesa; suona con il Quartetto Cetra e altri popolari cantanti, ma soprattutto si dedica al jazz più attuale. Nel 1949 ha l’occasione di accompagnare il suo idolo, Django Reinhardt, di passaggio in Italia; in seguito affiancherà altri miti come Bille Holiday, Toots Thielemans, Chet Baker, Lee Konitz, Dizzy Gillespie. Il Gotha dei chitarristi internazionali, da Barney Kessel a Jim Hall, lo accoglie come collega e amico; George Benson dichiarerà pubblicamente di avere appreso molto da lui. Nel frattempo Cerri intraprende anche una carriera come leader e incide sempre più spesso (aveva iniziato nel 1947, l’ultimo disco è del 2015). Ma allora il jazz non permette certo di vivere. Cerri accompagna tutte le personalità di rilievo della sua lunga epoca, da Mina a Joao Gilberto. Nonostante la timidezza, o forse proprio per questo, diventa un personaggio pubblico della televisione in crescita degli anni Sessanta. Molti ricordano ancora la sua pubblicità di un detersivo in qualità di “uomo in ammollo”, ma è anche ospite di spettacoli popolari come “Senza Rete” e soprattutto, con la sua cortesia mai invasiva, conduce qualche rara trasmissione che la Rai dedica al jazz. La sua chitarra ha la stessa pacatezza dell’uomo che la maneggia, a lui piacciono i colori pastello del jazz californiano, la bossa nova, le melodie dei grandi standard. Al tempo stesso conosce bene la grande unità che lega ogni stagione di questa musica, ama i suoi protagonisti da Louis Armstrong a Charlie Parker e oltre, e per questo dagli anni Settanta la sua musica entra in una sorta di classicità che tutto contiene in un linguaggio estremamente personale e subito identificabile. Purtroppo conosce anche la tragedia familiare, suo figlio Stefano, talento del basso elettrico cresciuto anche musicalmente al suo fianco, muore ancor giovane di tumore. Suona sempre più spesso con il pianista Enrico Intra, altro monumento del jazz alla milanese; con lui fonda un’associazione culturale, organizza concerti, poi fonda una scuola di musica tuttora attiva, quei Civici Corsi di Jazz nei quali ha formato decine, centinaia di chitarristi. Umorista di grande finezza, come mostrano i giochi di parole nei titoli dei suoi brani, aveva inciso gli ultimi dischi con un trio ritmico di grande caratura (Dado Moroni, Riccardo Fioravanti e Stefano Bagnoli) in un gruppo chiamato Barber Shop, il negozio di barbiere: a simboleggiare con sottile understatement quel bisogno di colloquialità informale, e magari anche di pulizia interiore, che del vero jazz è parte inalienabile. Purtroppo conosce anche la tragedia familiare, suo figlio Stefano, talento del basso elettrico cresciuto anche musicalmente al suo fianco, muore ancor giovane di tumore. Suona sempre più spesso con il pianista Enrico Intra, altro monumento del jazz alla milanese; con lui fonda un’associazione culturale, organizza concerti, poi fonda una scuola di musica tuttora attiva, quei Civici Corsi di Jazz nei quali ha formato decine, centinaia di chitarristi. Umorista di grande finezza, come mostrano i giochi di parole nei titoli dei suoi brani, aveva inciso gli ultimi dischi con un trio ritmico di grande caratura (Dado Moroni, Riccardo Fioravanti e Stefano Bagnoli) in un gruppo chiamato Barber Shop, il negozio di barbiere: a simboleggiare con sottile understatement quel bisogno di colloquialità informale, e magari anche di pulizia interiore, che del vero jazz è parte inalienabile.
Marco Molendini per Dagospia il 18 ottobre 2021. Franco Cerri era un uomo discreto, come il suo jazz in punta di piedi, come la sua vita di uomo di pianura che ha affrontato una sola volta la vetta del successo popolare, quando è finito in ammollo in una vasca di vetro. Una storia paradossale per un jazzista in giacca e cravatta, elegante e ironico, capace di ridere anche di quella improvvisa, inattesa e smisurata popolarità. Non c'è giornale o notiziario che non lo ricorderà per quell'episodio, anche se è stato del tutto ininfluente per il corso della sua lunga vita musicale. Perché Franco Cerri è stato soprattutto innamorato della sua musica, un italiano nato nel ventennio, diventato adulto durante la guerra, uomo del Dopoguerra quando la sua chitarra si è messa a macinare swing con un pugno di amici. Ed è successo tutto per caso, come era accaduto per quello spot di Biopresto conquistato soffiando la parte a Peter Sellers (già famosissimo e che, naturalmente, sarebbe costato molto di più). Anche il jazz è arrivato per via naturale: «Era il 1943. Una sera papà venne a casa con una chitarra. L'aveva pagata 78 lire. Disse: so che la desideravi, ma ora arrangiati». E Franco si è arrangiato, da autodidatta di talento. Suonava nelle orchestrine che facevano ballare i cortili della Milano del Dopoguerra. Suonava e si arrangiava, muratore e poi ascensorista. Una sera in uno di quei cortili arrivò Gorni Kramer, chiese se qualcuno conosceva dei pezzi americani e Franco si è fatto avanti. Era ancora una schiappa, ma pieno di entusiasmo, adorava lo swing, l'America, la gioia che la nuova musica portava in quell'Italia devastata dal fascismo e dalla guerra. Ha continuato a suonare con Kramer per vent'anni, è diventato un grande specialista delle sei corde (discreto, elegante, attento), ha animato il jazz a Milano, città vivacissima, piena di ragazzi curiosi come lui (Oscar Valdambrini, Enrico Intra, Gil Cuppini, Renato Sellani e tanti altri), ha ondeggiato come tutti fra la purezza dei sogni e la musica commerciale, quella però che sapeva strizzare l'occhio all'amato jazz, come quella del Quartetto Cetra di Virgilio Savona e come lo swing di Natalino Otto che, durante la registrazione di uno dei suoi successi, La classe degli asini, sapendo dell'ironia del suo chitarrista, gli chiese: «Cominciamo con l'interrogare il più intelligente. Tu Franco Cerri, sai dirmi dove si trovano i Pirenei?». E , con la sua aria svagata, imitando la voce di Gilberto Govi: «I Pirenei... I Pirenei si trovano, se si cercano. Ma, se non si cercano, no!". E la battuta rimase in tutte le edizioni della canzone. E poi Nicola Arigliano, Van Wood, Johnny Dorelli, Mina, l'amico Jannacci. Non ha perso un'occasione, Franco. Ha incontrato maestri come Duke Ellington (aprì un suo concerto a Bologna), Gerry Mulligan, che lo chiamava ogni volta che era a Milano e voleva che suonasse il contrabbasso, Django Reinhardt, uno dei suoi eroi, Chet Baker. Una sera riuscì ad accompagnare Billie Holiday. Lady Day era finita in una serata infernale allo Smeraldo, allora specializzato in spettacoli di varietà destinati, fischiata da un pubblico assai lontano dal jazz. Così i jazzisti milanesi organizzarono per lei una serata di riparazione al Teatro Girolamo e ad accompagnarla c'erano il suo pianista di allora, Mal Waldron, Gene Victory alla batteria e Franco alla chitarra. Era un'epoca eroica del jazz, passione e quattro soldi e anche quattro gatti. Ingenuità e ammirazione sincera per quei grandi miti americani. Ma che musica. E così quei ragazzi sono diventati dei grandi musicisti, come Franco Cerri che si è fatto le ossa on the road, ha vissuto di musica (cosa non facile all'epoca), ha saputo utilizzare la popolarità guadagnata con Carosello, con il suo spirito sottile da showman, che gli ha permesso di fare anche televisione e radio, ma non ha mai trascurato la passione che ha guidato i suoi 95 anni di vita fino all'ultimo, dedicandosi all'impegno quotidiano con la sua scuola di musica (fondata con il vecchio amico, Enrico Intra).
Marco Giusti per Dagospia il 18 ottobre 2021. “Nooo! Non esiste sporco impossibile!” Se ne va una delle più grandi e popolari chitarre jazz mai sentite in Italia, nonché attore protagonista di una delle più popolari serie di Caroselli mai viste in tv, Franco Cerri, 95 anni, elegante, sofisticato, simpatico, perfetto per interpretare L’Uomo in Ammollo del Bio Presto. Iniziò in pieno 1968, in un’Italia che iniziava a liberarsi proprio allora da giacche e camicie, lui, dentro una vasca d’acqua con camicia e cravatta dove il Bio Presto avrebbe sciolto perfino lo “sporco impossibile”, nei primi episodi ideati da Alberto De Maria per la SSC&B Lintas e diretti per la Recta Film di Vittorio Carpignano, il nonno del giovane regista Jonas Carpignano, da una serie di registi anche importanti, Piero Benedetti, Vittorio De Sisti, Moraldo Rossi, Lionello Massobrio, Ruggero Deodato. E andò avanti per anni, passando poi dalla Recta alla Film Makers negli anni ’70, ma sempre con la stessa situazione dell’uomo in ammollo. Che poi, come ricordò il copy Alberto De Maria, non era affatto semlice acqua, ma acqua distillata e per sopportare il freddo, sotto la camicia Cerri indossava una muta da sub, mentre dei pesi lo tiravano a fondo per renderlo così naturale. Cerri, che fu un chitarrista di grande valore, scoperto nel dopoguerra da Gorni Kramer e poi entrato nel gruppo jazz di Enrico Intra assieme a talenti del calibro di Enrico Rava, Enzo Jannacci, Gene Victory, era in realtà già attivissimo nel mondo della pubblicità, soprattutto milanese, fin dalla fine degli anni ’50. Fu Mario Fattori a usarlo sia come musicista che come attore per i caroselli della Palmolive con Johnny Dorelli e il gruppo di Intra nel 1959, solo musicista per la più celebre serie “Fierezza e nobiltà”, quella di “Ullallà è una cuccagna!” con Enrico Viarisio e Lia Zoppelli, o “Il Ballista” con Dario Fo per la pasta Barilla. Lo troviamo perfino attore nella serie “L’audace colpo del solito ignoto” con Nino Manfredi per i televisori Philco nel 1963. Ma il successo televisivo arrivò solo con l’Uomo in Ammollo. Fece anche dei film come attore, come “L’uomo che bruciò il suo cadavere” diretto e prodotto da Gianni Vernuccio nel 1963, molto attivo anche nel mondo pubblicitario milanese del tempo. Sempre sorridente, Cerri se ne va senza aver davvero mai perso il suo sorriso e la sua grazia di grande musicista. “No, non esiste sporco impossibile”.
· E’ morto l'ex segretario di Stato Usa Colin Powell.
Da leggo.it il 18 ottobre 2021. L'ex segretario di Stato Usa Colin Powell, 84 anni, è morto per le conseguenze del Covid. Lo annuncia la famiglia. Ex generale, Colin Powell è stato il primo Segretario di Stato di origini africano-americane. Ha servito dal 2001 al 2005 sotto George W. Bush. E' deceduto per complicazioni legate al Covid-19.
Colin Powell, chi era. Colin Powell ha lavorato per Ronald Reagan, poi per Bush senior, e infine Bush junior. Fu uno degli strateghi della prima guerra del Golfo, per liberare il Kuwait invaso dall'Iraq. È stato poi uno dei registi della seconda guerra, nel 2003. Era pienamente vaccinato. La sua dottrina militare era «entrare in guerra con forze eccezionali e largo dispiego, combattere e riportare le truppe a casa al più presto». La sua fama di uomo corretto fu oscurata quando abbracciò la teoria che Saddam Hussein aveva armi di distruzioni di massa e lo sostenne alle Nazioni Unite, riferendo quel che l'intelligence gli aveva dato. Le informazioni si rivelarono infondate. E' stata la famiglia stessa a dare notizia della sua morte su Facebook e a confermare che il generale era vaccinato in pieno, e che la sua è stata una infezione «breakthrough».
Addio al generale a 5 stelle. Chi era Colin Powell, soldato perfetto che stregò Reagan e Clinton. Piero Sansonetti su Il Riformista il 19 Ottobre 2021. Colin Powell è morto a 84 anni. Sembra che sia morto per le conseguenze del Covid, anche se era vaccinato. È stato un grande personaggio degli Stati Uniti a cavallo dei due secoli. È il primo nero ad entrare a far parte dell’establishment. Il primo nero a comandare l’esercito. Il primo nero ad assumere l’incarico di segretario di Stato, che è il ruolo, all’incirca, che coincide con il ruolo del nostro primo ministro. Aveva un’anima progressista e non era un guerrafondaio, io penso che fosse una persona anche molto onesta, ma è passato alla storia come l’imbroglione che mostrò al mondo false prove di una presunta arma chimica nelle mani di Saddam Hussein, nel 2002, la famosa provetta che poi scatenò una delle guerre più nefaste della storia recente americana. Powell era un nero di Harlem. Ed era nato in tempi di razzismo vero, duro. Probabilmente il grado del razzismo a New York era leggermente inferiore rispetto agli stati del Sud. Ma le regole della segregazione erano serie anche lì. Lui viveva nel quartiere degli afroamericani, il più vivace di tutti gli Stati Uniti. Quello che aveva visto crescere l’arte dei neri, la poesia dei vecchi bardi come Langston Hughes, James Weldon Johnson, Countee Cullen, l’allegria dell’Harlem Renaissance. Era nato più o meno alla fine di quel periodo di fantasia e creatività impetuosa, nell’aprile del 1937, ma ne aveva subìto l’influenza. I suoi genitori erano immigrati giamaicani, lui – diciamo così – era un immigrato di seconda generazione, quelli che nella pur rude America degli anni 30 avevano il diritto a godere del famigerato Ius Soli (e ancora hanno questo diritto). Era povera la famiglia di Colin e lui un giorno, quando aveva 16 anni, andò dalla madre e le disse che avrebbe voluto iscriversi alla New York University. Era molto studioso, aveva ottimi voti. La madre lo guardò con sguardo triste e severo, gli diede una banconota da 20 dollari, che aveva preso dal salvadanaio, e gli disse di andare a fare l’iscrizione al City College. La Nyu non è per noi, ragazzo, è per i signorini bianchi. Colin ha vissuto da bravo ragazzo, ma abituato alla selezione di ferro dei bad boys. Sapeva fare a sassate, difendersi. Se volevi sopravvivere a Harlem, negli anni della guerra, dovevi imparare anche a tirare i pugni. Colin si trovò benissimo al College e si laureò a pieni voti. Poi fece la scelta forse più semplice per un “negro” povero e studioso: si arruolò e tentò la carriera militare. Gli riuscì benissimo. Scalò in fretta le gerarchie. Nel ‘68, a trent’anni, era già colonnello e fu mandato in Vietnam. Nella sua autobiografia c’è un racconto esilarante della guerra. È un episodio del ‘69, mi pare, e Powell dice che quel giorno capì che la guerra era persa. Non perché mancassero armi, o potenza di fuoco, o uomini, o occasioni militari. Per la semplice ragione che la guerra era diventata burocrazia. Sì, certo, burocrazia molto sanguinosa, ma demenziale e ridicola come tutte le burocrazie. Racconta Powell di essere andato a ispezionare un avamposto americano nella giungla. Guidato da un capitano e presidiato da qualche centinaio di uomini. Powell fece notare al capitano che non gli sembrava collocato nel posto più ragionevole: era proprio ai piedi di una parete boscosa dalla quale poteva piombare in qualunque momento un attacco dei Vietcong. Il capitano gli disse che il rischio era stato valutato, ma era inevitabile. Perché?, chiese Powell? Perché questo avamposto ci serve a difendere quella pista degli elicotteri che sta laggiù a poche decine di metri… Powell chiese per quale motivo quella pista di atterraggio fosse così importante, e il capitano rispose che era importantissima perché solo con gli elicotteri era possibile rifornire l’avamposto di viveri e di armi… A cinquant’anni appena compiuti Powell diventò capo di Stato maggiore. Un nero al vertice dell’esercito non si era mai visto. Fu Reagan a mettercelo. È stata forse, da un punto di vista simbolico, la più clamorosa rivoluzione antirazzista della storia americana. Tenete conto che fino alla guerra di Corea, nel 1954, l’esercito americano era ancora “segregato”. Cioè esistevano i battaglioni neri e quelli bianchi. I neri poveri potevano anche servire in un battaglione bianco, ma solo come soldati semplici. Il principio era che mai nessun nero poteva avere il comando su un bianco. Poteva solo obbedire. E questo succedeva ai tempi quasi socialisti di Roosevelt. Un giorno – racconta sempre Powell nella sua autobiografia – negli anni ‘70, quando lui era già un generale dell’esercito americano, autorevolissimo e abbastanza famoso, si fermò, durante un viaggio, a prendere un hamburger in una friggitoria. Non era in divisa. Jeans e maglietta. Si avvicinò al banco e il padrone, gentilmente, lo pregò di uscire e di accomodarsi sul retro. I negri, spiegò senza arroganza, li servivano sul retro. Powell non fece una piega e mangiò il suo hamburger allo sportello dei negri. Non so se questo episodio testimonia la poca combattività, la rassegnazione che sicuramente erano caratteristiche di Powell, o invece la sua umiltà, la capacità di non farsi forte col potere o col distintivo. In fondo aveva reagito nello stesso modo, con un sorriso, e adattandosi, quel giorno che la mamma gli aveva dato 20 dollari e gli aveva detto di scordarsi l’Università dei ricchi. Nel 1991, quando Bush padre scatenò la prima guerra del Golfo contro Saddam Hussein, Powell era il capo di Stato maggiore. Il ministro della difesa era Dick Cheney. Powell e Cheney rappresentavano due visioni opposte, e il vecchio Bush mediava. Un giorno Powell entrò nell’ufficio di Cheney, convocato da lui, e si sentì proporre l’idea di chiudere in fretta la guerra con una azione di guerra rapidissima. Disse Cheney: «Usiamo delle piccole bombe atomiche tattiche e facciamo piazza pulita senza lasciare neppure un cadavere americano». Powell racconta di non avere neppure risposto. Di aver girato i tacchi ed essere uscito dalla stanza, indignato. Quella volta però non restò in silenzio, pare. Ebbe un ripensamento mentre stava uscendo, tornò indietro, si affacciò di nuovo alla porta del ministro e sibilò, furioso, solo due parole: “Fuck You”. Che vuol dire vaffanculo. Poi Powell entrò in politica a pieno titolo. Si schierò coi repubblicani anche se le sue idee erano idee democratiche. Parlò alla Convention repubblicana di San Diego, nel ‘96, per sostenere Bob Dole (che affrontava Clinton) ma dichiarandosi pro aborto e indignando parecchio i delegati. Fu un gran discorso. Powell aveva una visione. Quattro anni dopo accettò di diventare il primo segretario di Stato nero, con Bush figlio. E lì si trovò a dover gestire la follia della seconda guerra in Iraq, e commise la sciocchezza assoluta di mostrare la provetta falsa che accusava Saddam di un delitto che Saddam non aveva commesso. Powell, quando Barack Obama si candidò alla presidenza, disse che era con lui. Non poteva non sostenere un presidente nero. E otto anni dopo, nello scontro tra Hillary Clinton e Trump si schierò apertamente con Hillary. Anche George W. Bush si schierò con Hillary. Quant’è difficile capire i gesti e l’anima di Powell. Se li capisci davvero hai capito tutto dell’America.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
La morte di Colin Powell. Piccole Note il 19 ottobre 2021 su Il Giornale. Ieri è morto Colin Powell, deceduto di Covid-19 nonostante fosse vaccinato. Ma non interessa qui interpellarsi sull’efficacia dei vaccini, dato che la prova della loro efficacia, benché probabilmente meno di quanto ci hanno detto, è data dal calo dei contagi italiani, ma sull’uomo passato alla storia per aver trascinato il mondo nella guerra irachena con la bufala delle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Il mondo, non solo gli Stati Uniti, perché quella guerra infame (ci si perdoni il termine, ma è il meno duro che ci viene in mente) non solo ha devastato un Paese prospero – pur se ristretto nella morsa del rais -, ma ha anche fatto dilagare il terrorismo internazionale, come acclarato in maniera inequivocabile dalla Commissione Chilcot, la commissione d’inchiesta istituita in seno al Parlamento britannico. Non è certo per caso che l’Isis è nato in Iraq in quel tormentato dopoguerra. Così quel conflitto ha prodotto la strage del Bataclan, quella di Manchester e tanto, tanto altro. Per questo si resta perplessi, ma anche no, dalle parole di Biden, che ha ricordato il primo generale nero della storia americana come “caro amico” e “patriota”. Ma d’altronde anche Biden votò a favore di quella guerra e amici lo erano davvero. Nel tracciarne un ricordo Scott Ritter, ex ufficiale dell’intelligence del corpo dei marines, ricorda che Powell ebbe un ruolo di primo piano nella distensione internazionale che fiorì al tempo in cui Reagan intraprese un dialogo fecondo con Gorbacev, e che, nonostante fosse un soldato tutto d’un pezzo, Powell era un guerriero riluttante.
La guerra umanitaria
È noto che il suo show alle Nazioni Unite, dove mostrò le “prove” delle armi di distruzioni di massa di Saddam, non era farina del suo sacco, ma basato su falsi rapporti della Cia. Rapporti ai quali si sommavano le pressioni dei neocon, che avevano preso in mano tutte le leve del potere, e l’esplicita richiesta del suo presidente, che non ebbe il coraggio di contraddire, come scrive The Intercept, dimostrando di non avere la dote che più richiede l’esercito a un soldato, il coraggio (come quello dimostrato, ad esempio, dall’ufficiale israeliano Avner Wishnitzer, la cui storia è raccontata in nota alla quale rimandiamo). Powell, come Biden, ebbe poi modo di dire di aver sbagliato, come accade spesso ai politici americani in questi casi. Sempre per restare sull’Iraq, clamoroso fu anche il dietrofront dell’ex Segretario di Stato Madeleine Albright, alla quale fu chiesto conto del fatto che le sanzioni emanate dagli Usa contro l’Iraq dopo la prima guerra del Golfo avevano ucciso 500mila bambini: “ne valeva la pena“, aveva risposto al suo basito interlocutore, accorgendosi solo dopo il profluvio di critiche dell’atrocità della risposta. Così la morte di Powell, più che far tornare a galla l’orrore di quella guerra, fa emergere ancora una volta l’irresponsabilità di tanti politici dell’Impero, il quale è sempre pronto a perdonare gli errori dei suoi comandanti, politici e militari. Ciò gli permette di non dover fare ammenda delle iniziative, ricomprendole nel suo seno e, di fatto, legittimando anche quelle più palesemente sbagliate, derubricate a semplici incidenti di percorso di una storia che vede gli Stati Uniti sempre e comunque dalla parte dei buoni. Ciò permette all’Impero di evitare processi di riforma e di continuare a spandere nel mondo la sua immagine di faro di civiltà e libertà. Evitando anche che tali errori possano porre criticità a iniziative presenti, la cui dinamiche essenziali ricalcano quelle del passato.
L’occupazione umanitaria dell’Iraq
Il caso Iraq è eclatante in tal senso, dal momento che quell’errore non fu solo foriero di una guerra sanguinaria spacciata per umanitaria, ma ha legittimato la presenza dell’esercito americano in quel lontano Paese fino a oggi. E come quella guerra fu umanitaria, anche il protrarsi dell’occupazione militare americana si è basato su ragioni umanitarie, dovendo quella presenza militare, a detta dei suoi propugnatori, evitare che il Paese sprofondasse nel caos e garantire la nascita di una democrazia irachena. Il caos non è stato affatto evitato, anzi, per decenni ha infuriato una guerra tra sunniti e sciiti, con attentati terroristici quotidiani, terminata solo alcuni anni fa. Detto questo, proprio quella democrazia parlamentare che gli Usa dicono di aver fatto nascere, gli ha chiesto di andarsene con voto unanime del Parlamento, inutilmente. Così l’errore sulle armi di distruzione di massa di Saddam non ha portato gli Usa a essere quantomeno più prudenti nel valutare le identiche accuse mosse contro Assad, che avrebbe usato armi chimiche contro i cosiddetti ribelli moderati, con accuse del tutto infondate. Solo se e quando Assad sarà rimosso o il regime-change siriano archiviato (oggi è solo sospeso), si potrà, forse, vedere l’ammissione da parte degli Stati Uniti di incidenti di percorso analoghi a quelli iracheni. Così in questa esaltazione di Colin Powell, il grande patriota che commise un “errore”, sta tutta la supponenza della nazione che si crede “indispensabile” al mondo, come ribadiva alcuni giorni fa l’ex diplomatico Usa David Robinson (The Hill). E sta la sua incapacità di riformarsi. Detto questo, almeno Powell e Biden, e altri con loro, hanno ammesso l’errore e quest’ultimo sta anche provando a porre un freno certe derive. I neocon e i liberal, che furono e sono il motore immobile di questa politica muscolare, continuano a rivendicare la legittimità di quelle iniziative, con la stolidità propria dei deliri di onnipotenza.
La nazione prima della fazione. Colin Powell, ritratto intellettuale dell’ultimo vero repubblicano. Matteo Muzio su L'Inkiesta il 18 Ottobre 2021. Generale a quattro stelle e politico cauto e refrattario alle improvvisazioni (nonostante la fialetta all’Onu). Dopo Bush, ha votato due volte Obama abbandonando il suo partito prima ancora della catastrofe Trump. Cosa resta oggi del partito repubblicano che fu, dopo l’opa ostile trumpiana? Di sicuro non può più contare su una figura come Colin Powell, scomparso all’età di 84 anni che incarnava il modello eisenhoweriano di servizio: prima militare poi politico al servizio della «nazione prima che della fazione». Powell, fa sapere la famiglia, è molto per complicazioni di salute legate al Covid e al mieloma multiplo di cui soffriva. Era da anni affetto dal Parkinson e aveva completato il ciclo di vaccinazione a inizio anno. Colin Powell però aveva da tempo abbandonato il partito repubblicano. Ben prima di Trump, nel 2008, quando annunciò che avrebbe votato per il senatore Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Scelta riconfermata quattro anni più tardi, con tanto di sottolineatura fatta registrando degli spot elettorali: «Colin Powell, generale a quattro stelle, repubblicano». Già in queste parole era contenuto parte del suo percorso politico e umano. Figlio di una coppia di immigrati giamaicani ad Harlem, New York, la sua storia personale sembra tratta da un libro di possibilità offerte dal sogno americano. Dopo aver iniziato a studiare presso il City College of New York, si arruola nel 1958. Qualche anno dopo, nel 1962, arriva in Vietnam, prima come consigliere militare dell’esercito sudvietnamita poi come ufficiale. Nel 1968 la sua unità è coinvolta nel massacro di My Lai, che riconobbe con grande onestà molti anni più tardi, nel 2004, in piena campagna elettorale. Fu lì che realizzò quando una leadership carente potesse danneggiare anche le sorti militari di una guerra come quella del Vietnam, che macchiò a lungo la reputazione degli Stati Uniti. Nel 1972 vinse una White House Fellowship, un programma ideato dall’amministrazione di Lyndon Johnson per avvicinare personale qualificato al governo federale. In un periodo difficile trasse parte del suo credo politico costituito da un conservatorismo moderato sia in politica interna che estera. Lo sviluppò poi quando entrò nell’entourage del segretario alla Difesa Caspar Weinberger nel 1983, quella che sarebbe poi diventata, anni dopo, la dottrina Powell. Nel 1987, dopo lo scandalo Iran-Contras, diventa consigliere nazionale per la sicurezza nazionale, il primo afroamericano, nel ruolo che fu di Henry Kissinger. Quando diventò capo di stato maggiore, nel 1989, sotto George Bush senior, avrebbe consigliato prima della Guerra del Golfo contro Saddam un approccio cauto, per sopportare eventualmente una guerra di attrito contro quella che era una potenza regionale. In politica estera, invece, un multilateralismo il più largo possibile. La guerra andò meglio del previsto e in certi circoli repubblicani le sue idee, che aveva abbozzato nel 1984 nel discorso scritto per il segretario Weinberger intitolato “L’uso del potere militare”, vennero accantonate. Ma cosa diceva quella che in seguito venne definita “la Dottrina Powell”. Eccolo riassunto per sommi capi: per dire di sì a un intervento militare servono una capacità di fuoco schiacciante e un consenso molto largo nell’opinione pubblica. Oltreché, naturalmente, un interesse nazionale chiaramente messo in pericolo. Cosa accadde quindi, quando Powell, nella sua veste di primo segretario di Stato afroamericano, sostenne con entusiasmo mediatico l’intervento in Iraq tanto da arrivare al famigerato discorso alle Nazioni Unite del febbraio 2003 a sostegno dell’intervento contro l’Iraq di Saddam Hussein, accusato di aver, agitando una fialetta di antrace finta, performance che anni dopo avrebbe definito come «una macchia nei suoi lunghi anni di servizio». Ciò non voleva dire che Powell non fosse d’accordo con una robusta difesa della democrazia a livello internazionale: ma che la base dei volenterosi scelta dal presidente Bush non fosse affatto sufficiente a sostenere quello che si annunciava come uno sforzo bellico ingente. La sua critica, contrariamente a quanto si disse, fu sul dopoguerra e sugli sforzi di ricostruzione visti come «improvvisati» e assolutamente non adeguati alla costituzione di una società civile irachena che portasse al progresso della nazione. Lo affermò anche in occasione del suo primo endorsement a Barack Obama durante un’intervista alla Cnn: «Ho fatto tutto il possibile per evitare la guerra, ma quando si è trattato di decidere, ho sostenuto il presidente Bush. E non ho mai avuto esitazioni su questo, nemmeno in seguito». Forse anche per questo suo essere cauto e refrattario alle improvvisazioni da uomo forte che decise sempre di non candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti, nemmeno nel 2000 quando sembrava che il suo profilo di generale politico fosse l’ideale per superare il clintonismo della Terza Via trionfante. Non stupisce, quindi, la sua totale ostilità alla presidenza di Trump, che rappresenta tutto il contrario della sua parabola politica: faziosità, improvvisazione e disprezzo delle procedure. Nella narrazione facilona di Fox News e di altri media trumpiani Powell negli ultimi anni ormai era diventato «un democratico». Se il partito repubblicano però vorrà tornare a essere un’entità politica che ha a cuore gli interessi americani più del presidente deposto di Mar-a-Lago, dovrà recuperare questi principi di integrità e di studio dei problemi, contro il dilettantismo trumpiano prevalente.
Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" il 19 ottobre 2021. «Hai visto che Colin Powell è morto di Covid nonostante avesse fatto due dosi di vaccino? Ecco la prova che vaccinarsi non serve a niente». In realtà è la prova che neanche il vaccino rende immortali. Colin Powell aveva 84 anni (7 in più della aspettativa media di vita di un maschio statunitense) e soffriva di una grave patologia pregressa, il mieloma. Eppure, in America e non solo, furoreggia il dibattito sulla morte di «Covid Powell». Ci si aggrappa a un'eccezione (fra l'altro capziosa, lo abbiamo appena visto) per delegittimare una regola suffragata da dati inequivocabili, come conferma l'inchiesta di Milena Gabanelli e Simona Ravizza sul Corriere : ormai, tra morti e ricoverati, si trovano quasi soltanto persone che non hanno fatto il vaccino, e aggrapparsi a quel «quasi» per delegittimarne l'efficacia è un'operazione disonesta intellettualmente. Il guaio è che nell'era delle fake news (a cui pure Powell diede il suo contributo con la pantomima sulla bomba di Saddam) non è solo la scienza a essere messa in dubbio, ma la stessa oggettività dei dati, il loro valore di prova inconfutabile. Anzi, più un dato proviene da fonte autorevole, più è sospettabile di essere stato manipolato. Negare la realtà non è più considerato sintomo di malafede o di follia, ma di libertà. Se non mi sta bene che oggi sia martedì, troverò sicuramente un sito che mi conforterà nell'idea che oggi è domenica e che il calendario che mi obbliga ad alzarmi dal letto conferma l'esistenza di un complotto contro di me.
Anna Guaita per "il Messaggero" il 19 ottobre 2021. Era un militare e aveva combattuto eroicamente in prima linea, ma proprio la sua esperienza al fronte lo aveva convinto che gli Stati Uniti tendono a entrare in guerra troppo precipitosamente e senza obiettivi chiari. Colin Powell lottò per decenni per creare una nuova mentalità e fare adottare alle Forze Armate e ai politici la sua dottrina bellica, ed ebbe interlocutori attenti in Ronald Reagan e George Bush senior, ma non fu così con Bush junior, che preferì ascoltare i falchi e portare gli Usa nella guerra in Iraq del 2003. Eppure ieri le parole dell'ex presidente sono state di grande stima. Quando si è diffusa la notizia che l'ex generale, a 84 anni, indebolito da un mieloma multiplo, era stato stroncato dal Covid nonostante fosse vaccinato, Bush ha salutato in lui «un grande servitore dello Stato». Ma proprio con Bush junior, Powell era stato un servitore recalcitrante, e nelle vesti di segretario di Stato si oppose fino all'ultimo all'invasione dell'Iraq, caldeggiata dal vice presidente Dick Cheney e dal ministro della Difesa Donald Rumsfeld. Powell era convinto che mantenere Saddam Hussein, comunque indebolito dalle sanzioni Onu, a fare da contrafforte all'Iran, fosse nell'interesse di tutti. Ma alla fine cedette quando la Cia gli presentò le prove che Saddam stava preparando armi di distruzione di massa. A quel punto Powell stesso andò alle Nazioni Unite a chiedere la guerra, per poi pentirsene amaramente quando gli ispettori provarono che quelle armi non esistevano. Appena un anno dopo, Powell usciva dall'Amministrazione Bush e tornava alla vita privata. Da allora non si era più occupato di politica se non per dare il proprio sostegno a Barack Obama nel 2008 e poi per opporsi a Donald Trump nel 2016 e nel 2020, sostenendo Hillary Clinton e Joe Biden. Dunque, sul deserto iracheno si concluse quella che era stata una delle più brillanti carriere militari della storia, che avevano trasformato Colin Powell in un eroe nazionale. Era figlio di immigrati giamaicani, «venuti con i barconi» come lui stesso diceva. Cresciuto nel Bronx, nel 1958 entrò nell'esercito, dove trovò «chiarezza di obiettivi e di doveri». Salì velocemente la scala gerarchica, pur sperimentando sulla propria pelle il razzismo più rozzo ogniqualvolta si trovava nelle basi del sud, segregate fino alla fine degli anni Sessanta. In Vietnam, dove servì per due turni, agì eroicamente. Poi fu dislocato in Germania, nel pieno della Guerra Fredda, e nel 1979, a soli 42 anni fu promosso generale. Ronald Reagan in persona lo richiamò dalla Germania, per averlo come consigliere per la sicurezza nazionale, primo afro-americano a ricoprire quella carica. E Powell, che con i suoi anni in Germania aveva capito la Guerra Fredda, fu uno dei pochi alleati del presidente nell'apertura verso Michail Gorbaciov, in contrasto con i falchi dell'Amministrazione. Nel 1989 Powell divenne capo degli Stati Maggiori e in quanto tale riuscì a convincere il nuovo presidente, George Bush senior, ad adottare la sua dottrina di guerra sia per l'invasione di Panama che per la prima guerra del Golfo: sia per catturare Manuel Noriega, il dittatore panamense, che per liberare il Kuwait invaso da Saddam Hussein, Powell chiese e ottenne «obiettivi chiari, sostegno popolare, dispiego massiccio di forze e veloce ritiro una volta compiuta la missione». Ma quando Powell tornò al fianco di un altro presidente, nel 2000, con Bush junior, le cose andarono diversamente. Basti ricordare che ancora oggi ci sono truppe Usa in Iraq.
· E’ morto il fumettista Robin Wood.
Lutto nel mondo del fumetto, è morto Robin Wood. Il Quotidiano del Sud il 18 ottobre 2021. Robin Wood, uno dei più prolifici ed entusiasmanti autori che abbia dedicato il proprio genio al fumetto e all’arte sequenziale, si è spento domenica 17 ottobre del 2021, all’età di 77 anni, al termine di una lunga malattia. Non è stato ancora calcolato il numero preciso di storie che Wood abbia scritto, ma una prima stima ipotizza che il computo esatto possa aggirarsi intorno alle oltre 7.000 storie. Tra i suoi personaggi più celebri Dago, Nippur, Savarese, Amanda, Gilgamesh, Martin Hel, in un elenco che può essere solo esemplificativo e non certamente esaustivo. Wood, che poteva vantare ben tre nazionalità diverse (paraguayana, argentina e danese) è, senza ombra di dubbio, uno degli scrittori più importanti della storia del fumetto argentino, ed internazionale. La sua capacità di caratterizzare dettagliatamente un’infinità di personaggi e comprimari, riuscendo sempre a creare nuove trame e soggetti tanto originali, quanto appassionanti, l’ha reso un autore amato e seguito da innumerevoli lettori. Le storie di Wood sono state pubblicate in Italia prima da Eura Editoriale e poi Aurea Editoriale, su Skorpio e Lanciostory, per essere successivamente raccolte in volumi, distribuiti principalmente in edicola. Premiato nel 1996 con lo Yellow Kid come migliore autore a Lucca Comics, ha scritto per la Sergio Bonelli Editore alcune storie di Dylan Dog, tra cui L’esercito del Male, pubblicato nella collana Albo Gigante. Robin Wood è stato un maestro della narrazione per immagini, un profondo conoscitore dei meccanismi del raccontare e del linguaggio fumetto. Lascia, con il suo immenso contribuito all’immaginario collettivo, un’eredità immaginifica e narrativa sconfinata.
· Morto Angelo Licheri, “l’uomo ragno” che si calò nel pozzo del Vermicino per salvare Alfredino Rampi.
Debora Faravelli il 18/10/2021 su Notizie.it. Angelo Licheri, l'uomo che si calò nel pozzo del Vermicino nel tentativo di salvare Alfredino Rampi, è morto all'età di 77 anni. Addio a Angelo Licheri, ribattezzato come “l’uomo ragno” per essere stato colui che, quarant’anni fa, si è calato per 60 metri nel pozzo artesiano per cercare di salvare Alfredino Rampi. Scelto per la sua bassa statura, l’uomo era riuscito a raggiungere il bambino fino a toccarlo senza purtroppo riuscire a riportarlo in superficie. Ospite in una casa di riposo della provincia di Roma da otto anni a causa di una invalidità legata al diabete, se n’è andato all’età di 77 anni. Licheri si trovava costretto sulla sedia a rotelle e negli ultimi anni ha ricevuto diverse visite dei giornalisti interessati ad ascoltare la sua storia. In più occasioni ha raccontato quegli attimi in cui era riuscito a raggiungere Alfredino, salvo poi perderlo, che lo hanno segnato per sempre. “Il bambino era a 64 metri di profondità, gli ho tolto il fango dagli occhi e dalla bocca e ho cominciato a parlargli dolcemente”, aveva spiegato. Il piccolo non riusciva a rispondere ma Angelo l’ha sentito rantolare e per lui era quella la sua risposta. Quando smetteva di parlare rantolava più forte, come per dirgli di continuare a parlare che riusciva a sentirlo. Poi il tragico epilogo: “Dopo vari tentativi andati a vuoto, l’ultimo che ho fatto è stato prenderlo per la canottierina, ma appena hanno cominciato a tirare ho sentito che cedeva. E allora gli ho mandato un bacino e sono venuto via”.
Angelo Licheri morto: chi era. Sardo originario di Gavoi, all’epoca dei fatti di Vermicino Licheri aveva 37 anni, era padre di tre bimbi piccoli e faceva il fattorino per una tipografia a Roma. Dopo aver visto in tv la diretta sulle operazioni di salvataggio, la sera del 12 giugno si era recato sul luogo della tragedia per tentare di salvare il bambino offrendosi di calarsi nel pozzo data la sua magrezza: “Al capo dei Vigili del Fuoco ho detto: sono piccolo, fatemi scendere. Lui mi ha detto che ero troppo emotivo e avevo qualche malattia e qualche problema. Al che l’ho interrotto e gli ho detto: ‘Senta, io sto benissimo, voglio solo scendere‘“.
Laura Bogliolo per “il Messaggero” il 19 ottobre 2021. «Sentivo Alfredino gridare mamma basta, non ce la faccio più, adesso tiratemi fuori. Intanto io ero pronto a calarmi, insieme ad altri volontari eravamo in fila, la squadra responsabile dei soccorsi stava prendendo le misure dei nostri toraci, sono alto un metro e sessanta, piccolino insomma, ma ci voleva un corpo più esile del mio». È la notte degli Inferi, quando il fango in un campo che è terra di nessuno alle porte di Roma mangia il corpicino di Alfredino Rampi. La folla quasi soffoca il luogo dei soccorsi: sotto terra, al buio, c'è un bimbo terrorizzato.
Enrico Mariani, 61 anni, volontario dello Speleo Club di Orvieto, quella notte era insieme ad altri volontari a Vermicino.
«Con due colleghi speleologi ci siamo subito offerti di entrare in quel pozzo, la polizia stradale organizzò una staffetta che in pochissimo tempo ci portò da Orvieto a Vermicino. Eravamo pronti a calarci, eravamo in fila insieme a tanti altri per farci imbracare, ci misuravano il torace perché quel pozzo era strettissimo, poi ci hanno chiesto di aspettare perché avrebbero potuto avere bisogno di noi».
Poi cosa è accaduto?
«All'improvviso è apparso quel piccolo uomo, sardo, passò davanti a tutti, era deciso e non sembrava neanche avere paura, si sbracciava, voleva arrivare davanti al pozzo a ogni costo».
Era Angelo Licheri?
«Sì, si fece strada tra tutti con una determinazione impressionante e fu scelto dai soccorsi grazie alla sua piccola statura nonostante non avesse alcuna esperienza come speleologo, la situazione dopotutto era drammatica, il fango rendeva tutto difficilissimo e più passava tempo e minori erano le possibilità di salvare Alfredino».
Quindi ha visto Angelo calarsi?
«Lo hanno agganciato per le caviglie ed è sceso a testa in giù, i medici prendevano il tempo, non si può restare in quelle condizioni per più di 15 minuti, ma sentivo Licheri da quel pozzo gridare disperato sto bene! Lasciatemi qua sotto, non tiratemi su, sto ancora provando a prenderlo!».
Intanto la voce di Alfredino era sempre più debole.
«Aveva smesso da un po' di chiedere aiuto alla mamma, Angelo diceva che sentiva solo dei rantoli, aveva provato a pulirgli il visino dal fango, ma il piccolino non reagiva più, la mamma disperata sull'orlo di quel maledetto pozzo ha continuato a chiamarlo, ma non c'erano più segnali».
Angelo provò anche con una cinghia a salvare Alfredino.
«La agganciò al piccolino, ma si spezzò, provò anche ad afferrarlo per la canottiera e la maglietta si stracciò, quando lo prese per un polso disse che aveva sentito l'osso rompersi e si disperò, ma Alfredino ormai non era più cosciente».
Chiese anche di essere lasciato in caduta libera per cercare di sfondare le rocce?
«Sì fu un vero eroe, c'era una occlusione e tentò in ogni modo di aprire un varco».
Alla fine tornò su...
«Passò un tempo interminabile, quando lo tirarono fuori era una palla di fango, stravolto, piangeva disperato e ripeteva non c'è più niente da fare...».
E intanto intorno c'era il caos.
«La folla stava vicinissima al pozzo, qualcuno si era portato anche i panini, fu veramente drammatico, non c'era affatto organizzazione».
Ieri Angelo se ne è andato.
«Sono addolorato, quell'uomo ha fatto di tutto per salvare Alfredino, non ce l'ha fatta, ma per tutti noi resta un grande eroe».
Laura Bogliolo per “il Messaggero” il 19 ottobre 2021. La cinghia si spezza, la canottierina si straccia, le dita intanto scavano nel fango, la presa sul polso scivola e il cuore batte forte quando Alfredino, a pochi centimetri di distanza, ormai rantola. Gli incubi segnano il volto di dolore, straziano il corpo e il resto della vita di Angelo Licheri, il piccolo grande uomo che tentò di salvare il bimbo di sei anni precipitato in un pozzo artesiano a Vermicino, poco distante da Roma. «Gli ho mandato un bacetto con le dita e sono risalito» raccontò in lacrime quell'anima pura che a testa in giù per oltre quaranta minuti provò a salvare Alfredino Rampi, il figlio dell'Italia intera in quell'estate del 1981. «Di fronte alle tenebre ha avuto un coraggio sovrumano» dice Tullio Bernabei, all'epoca responsabile del soccorso speleologico del Lazio. Fu Bernabei il primo a scendere negli inferi, a tentare di raggiungere Alfredino. Fu sempre lui ad agganciare le funi alle caviglie di Angelo e a calarlo per oltre 60 metri. «Ripeteva fatemi scendere, mentre altri si erano spaventati alla vista di quel cunicolo strettissimo, ma Angelo non aveva paura: mi convinsero il coraggio e la determinazione che aveva e allora decisi di calarlo» aggiunge Bernabei affranto ieri per la scomparsa di Licheri. L'angelo di Vermicino se ne è andato nella notte tra domenica e lunedì, a 77 anni, in silenzio e con umiltà, come piaceva a lui. Nessun riflettore, nessuna luce mediatica come invece accadde quella notte quando l'Italia si diede appuntamento a Vermicino. C'era anche Sandro Pertini e da quella esperienza nacque la Protezione Civile. «Angelo non voleva si sapesse che stava male» racconta in lacrime Donatella Cionco, 48 anni, operatrice sanitaria della casa di riposo Fondazione San Giuseppe di Nettuno dove alle 3 si è spento Licheri. Era ospite della struttura dal 2014, una gamba amputata poi la lotta contro una lunga malattia. «Per noi era un amico - ripete Donatella, portavoce di Alessandra Franco, la responsabile della struttura - e guai a chiamarlo eroe, proprio non voleva». Originario di Gavoi, in provincia di Nuoro, all'epoca era un fattorino di una tipografia a Roma. Lesse sui giornali di quel bambino incastrato nel pozzo e corse a Vermicino perché sentiva che poteva provare a salvarlo. «Per non far preoccupare mia moglie dissi che andavo a comprare le sigarette». E invece Angelo andò da Alfredino. «Passò davanti a tanti altri volontari che aspettavano di calarsi - racconta Giorgio Bellocchio, all'epoca speleologo del nucleo di Orvieto - era il più piccolo di statura e fu scelto per introdursi in quel pozzo a testa in giù». Provò per sette volte a portare su Alfredino. Negli anni è fuggito da ogni tipo di riconoscimento. «Ho rifiutato 27 medaglie d'oro e tanti premi, ho fallito: come potevo accettare?» diceva. Ma è sempre stato presente durante le manifestazioni organizzate dal Centro Alfredo Rampi Onlus fondato dalla famiglia di Alfredino. «Ha partecipato fino all'ultimo - spiega Rita Di Iorio, responsabile dell'associazione - era un volontario puro, un uomo buono e quella notte lo segnò per tutta la vita». «Avevo perso ogni vivacità» raccontò, ma fu sempre al fianco della famiglia Rampi. Portò la bara di Alfredino, ebbe un mancamento e chiese «scusa per il disturbo». A Roma nascerà un murales per il bimbo grazie a una raccolta fondi che sosteneva anche Licheri. Il centro Rampi ieri lo ha ricordato parlando di «valore, coraggio, tenacia e anche della simpatia del piccolo grande eroe, prototipo del volontario disposto ad andare più in là, cercando di superare ogni ostacolo per salvare una vita, con il solo vessillo del proprio cuore». «Si sentiva spesso con mamma Franca - aggiunge l'operatrice sanitaria Donatella - non amava parlare di quella notte, ma non ha mai rifiutato la visita di sconosciuti che negli anni sono passati in clinica per portargli un saluto affettuoso». Fece molti lavori nella sua vita, anche all'estero. «Conosceva tante lingue, ogni tanto ci parlava in spagnolo...» dicono dalla clinica. Oggi alle 15, a Nettuno, i funerali nella parrocchia San Paolo Apostolo. Ci saranno la famiglia, gli amici, ma anche quegli sconosciuti che fecero il tifo per lui quella maledetta notte di giugno di quaranta anni fa. «Fu straordinario - aggiunge Bernabei - mi chiese di mollarlo giù per fare da ariete con il proprio corpo contro le rocce per aprire un varco». E conclude: «Collaboro con la Protezione civile per creare il prototipo di un robot che possa salvare i bimbi dispersi nei pozzi e a quel robot vogliamo dare il nome di Angelo Licheri».
· È morto il pittore Achille Perilli.
È morto il pittore Achille Perilli vero maestro dell'astrattismo italiano. Vittorio Sgarbi il 18 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'artista aveva fondato con Accardi, Dorazio e Turcato, il gruppo "Forma 1". È morto a Orvieto il pittore Achille Perilli, maestro dell'astrattismo italiano. Era nato il 28 gennaio 1927 a Roma. La camera ardente - afferma la pagina Facebook relativa al pittore - Sarà aperta sino alle 20 presso l'ospedale di Orvieto. I funerali si terranno sabato, 23 ottobre, nella sua casa di Orvieto. Commosso, stupito e addolorato, penso ad Achille Perilli, come al primo artista contemporaneo su cui, iniziando la mia attività di critico, in parallelo con quella di storico dell'arte,scrissi, alla metà degli anni Settanta. Perilli aveva una intelligenza lucida e geometrica, ma ciò che lascia interdetti, e contemporaneamente indica una razionale provvidenza, è che, come presidente del Mart di Rovereto, ho fortemente voluto, in collaborazione con Lorenzo Zichichi, e con le cure di Daniela Ferrari e Marco Di Capua, sensibili esegeti, una mostra di Perilli, in dialogo con Piero Guccione (1935 - 2018), nel museo trentino. I due artisti hanno temperamenti opposti ma pari tensione creativa. Ciò che appare incredibile è che la mostra, già pronta, che tristemente e solennemente celebrerà il maestro, con un rinnovato impegno critico nella rilettura del secondo Novecento, inaugura il 20 ottobre. In questa coincidenza, mista di dolore e onore, c'è il mistero della vita e della morte, che soltanto l'arte risolve. Entrambi gli artisti sono davanti a noi, con le loro opere,in dialettica e umana tensione, vivi. Tanto diversi e tanto intensi, nell'indicare percorsi divergenti. Perilli ha aperto il mondo dell'astrattismo, condiviso con Piero Dorazio, Carla Accardi, Giulio Turcato, nel gruppo «Forma Uno», a una dimensione non legata all'istinto ma alla ragione, a un nuovo ordine del mondo, in cui la forma restituisce la realtà senza interrompere la grande tradizione figurativa italiana, risalendo al De divina proportione del grande matematico Luca Pacioli (1445 - 1517). La visione astratta di Perilli non è fuga dal mondo, ma idea di un mondo governato dalla ragione. Il confronto con Piero Guccione, abbandonato alla infinità dei sensi, rende ancora più chiara la ricerca coerente e rigorosa di Perilli. Vittorio Sgarbi
· E’ morto il giornalista Gianluigi Gualtieri.
Grave lutto al Tg5: è morto il conduttore Gianluigi Gualtieri. Valentina Dardari il 14 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il giornalista è stato tra primi a entrare nella squadra del Tg5 nel 1992, se n’è andato dopo una lunga malattia. È morto il noto giornalista Mediaset Gianluigi Gualtieri a 59 anni, scomparso nelle scorse ore dopo una lunga malattia. La terribile notizia è stata data dal direttore del Tg5 Clemente Mimum, che sul suo account Twitter ha scritto: “Se n’è andato il nostro Gianluigi Gualtieri, un bravo giornalista, un carissimo amico, era al Tg5 fin dagli esordi. Mi-ci-mancherà moltissimo”. In un secondo tempo Mimum ha voluto esprimere il proprio cordoglio anche attraverso alcune brevi dichiarazioni rilasciate all’agenzia LaPresse: “È stato un ottimo giornalista e un collega che faceva squadra come pochi. Le sue doti? Capacità professionale, stile e gentilezza”.
Gualtieri lascia due figli
Tra i primi a darne il triste annuncio anche il Tgcom24, sotto la firma del direttore Paolo Liguori, che ha voluto ricordare il collega e amico, uno tra i primi a entrare, nel lontano 1992, nella squadra del Tg5. Come si legge sul sito: “Caporedattore, conduttore, Gianluigi era soprattutto un uomo e un giornalista perbene vulcanico, ironico e generoso. Lascia due figli e per tutti noi un grande vuoto. Alla famiglia vanno le condoglianze del direttore di Tgcom24 Paolo Liguori e di tutta la redazione”. Il noto giornalista ha iniziato la sua carriera al Tg5 quasi trent’anni fa, quando è stata fondata la testata, e nel telegiornale dell'ammiraglia Mediaset ha occupato sia il ruolo di conduttore che di caporedattore. Sulla pagina Facebook del noto giornalista si stanno susseguendo molti messaggi di addio.
Tra i primi al Tg5
La notizia della scomparsa di Gianluigi Gualtieri, nato il 22 maggio del 1962, era arrivata pochi minuti prima dell'edizione della sera del Tg5, che con la conduttrice Cesara Buonamici ha ricordato il collega: "Il nostro collega Gianluigi Gualtieri ci ha lasciati oggi dopo una lunga malattia. Era un bravo giornalista, uomo per bene e carissimo amico. Alla sua famiglia va l'abbraccio di tutti noi". La prematura scomparsa di Gualtieri, a soli 59 anni, è giunta dopo una lunga malattia. Il giornalista lascia due figli.
Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.
· E’ morto lo scienziato Abdul Qadeer Khan.
Flavio Pompetti per "Il Messaggero" l'11 ottobre 2021. Il Covid 19 ha mietuto un'ennesima vittima eccellente. Si è spento in un ospedale di Islamabad all'età di 85 anni per complicazioni polmonari Abdul Qadeer Khan, celebrato in patria come il padre dell'atomica pachistana, e condannato all'estero come un mercenario devoto alla vendita di tecnologia per la proliferazione nucleare. È stato lui a rendere il Pakistan il primo paese musulmano con l'atomica. Spinto dalle pressioni del dipartimento di Stato Usa, il presidente Pervez Musharraf nel 2001 l'aveva rimosso dalla direzione dei laboratori nucleari nazionali del Pakistan, e tre anni dopo lo stesso scienziato nel corso di una deposizione aveva ammesso di aver ceduto segreti nucleari ad attori internazionali ad alto rischio come la Libia, la Corea del Nord e l'Iran. Nel 2010 Khan aveva ritrattato tutto, e accusava Musharraf di avere infangato la sua reputazione su richiesta dell'alleato statunitense. Il regime di prigionia domestica al quale era stato sottoposto dalla giustizia pakistana fu rimosso, ma la sua reputazione è rimasta ancorata a giudizi di segno opposto, in patria e all'estero. Abdul Qadeer Khan era nato a Bhopal in India, e cinque anni dopo la divisione del paese nel 1947 con la creazione di quello che al tempo si chiamava Pakistan orientale aveva raggiunto i fratelli maggiori a Karachi, dove si laureò in fisica e scienze metallurgiche. Una borsa di studio lo portò a proseguire gli studi in Germania e a terminarli in Olanda, dove iniziò a lavorare in una centrale dedicata all'arricchimento dell'uranio. Quando l'India annunciò di essere in possesso della bomba atomica nel 1974, la voce di Khan, il quale premeva per dotare il suo paese di una simile arma, fu ascoltata dal primo ministro pachistano Zulfikar Ali Bhutto, che lo convocò per un colloquio. Khan chiese di sostituire il materiale fissile oggetto degli studi di arricchimento già in corso in Pakistan dal plutonio all'uranio. La sua idea fu accettata, e il giovane studioso lasciò l'Olanda con la borsa piena di segreti nucleari che aveva appreso in quel paese, e che trasferì clandestinamente per lanciare la nuova ricerca nel suo paese adottivo. Allo stesso modo importò illegalmente dall'Olanda tra il 1977 e il 1981 l'uranio e altri materiali necessari al compimento del progetto. I servizi degli Stati Uniti scoprirono presto l'attività in corso, ma non riuscirono a fermarla. A partire dal 1985 il legislativo di Washington richiese che il presidente in carica alla Casa Bianca certificasse ogni anno lo stato del Pakistan come una potenza non nucleare. Solo cinque anni dopo George H. Bush fu costretto ad ammettere che non era più in grado di dare una simile garanzia, e l'esplosione di un ordigno atomico quattro anni dopo, in risposta ad un simile esperimento effettuato in India, diede al mondo la conferma definitiva del risultato raggiunto ad Islamabad. Nel frattempo un tribunale olandese aveva condannato Khan in contumacia per il furto della tecnologia e l'acquisto illegale dell'uranio. Denunce incrociate dalla Cina e da alcuni dei paesi arabi lo ponevano al centro di trame internazionali per vendere il know-how accumulato al migliore offerente. Alcune delle trattative erano condotte dallo scienziato per conto del governo, e contemplavano lo scambio con forniture belliche per l'esercito pakistano. Altre erano di puro interesse personale, e prevedevano la cessione in cambio di soldi. L'ultima immagine pubblica di Kahn è quella di un'intervista televisiva del 2010, nella quale indossava abiti poveri e discinti, e accusava l'ex benefattore Musharraf di averlo tradito e lasciato languire nella povertà. Il premier attuale del Pakistan Imran Khan nel dare la notizia del decesso si è invece detto rattristato, e lo ha proclamato icona nazionale. Il corpo del controverso scienziato sarà custodito nella moschea Faisal di Islamabad, la più grande dell'asia meridionale.
· È morto l’attore Elio Pandolfi.
È morto Elio Pandolfi, una vita tra radio e palcoscenico. Attore, cantante e doppiatore, aveva 95 anni. La Repubblica l'11 ottobre 2021. È morto questa notte nella sua casa romana l'attore Elio Pandolfi. Aveva 95 anni. Attore e cantante, era nato a Roma il 17 giugno del 1926. Lascia il figlio adottivo Natale Orioles. Per sua stessa volontà non si terranno funerali. Tra i più grandi doppiatori italiani, con oltre 500 film all'attivo, voce anche di Stanlio della coppia Laurel & Hardy, Pandolfi era tra gli ultimi rappresentanti di quella generazione di attori che avevano attraversato con egual risultati la prosa, l'operetta (con Wanda Osiris), il teatro musicale, la commedia, il cinema, la radio e la tv. Diplomato all'Accademia nazionale d'arte drammatica di Roma, aveva debuttato a Venezia nel 1948 come mimo-ballerino in Les malheurs d'Orphée di Milhaud, per poi entrare con Orazio Costa al Piccolo Teatro di Roma. Il grande pubblico lo ricorda soprattutto per i tanti anni in coppia con Antonella Steni e per i grandi varietà come Studio 1 con Mina. L'ultima volta in palcoscenico, nel 2019 a Roma in Io mi ricordo con Riccardo Castagnari e la regia di Paolo Silvestrini.
Elio Pandolfi, morto l’attore voce di Stan Laurel in «Stanlio & Ollio». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera l'11 ottobre 2021. Pandolfi aveva 95 anni. Diplomato all’Accademia nazionale d’arte drammatica di Roma, debuttò a Venezia nel 1948 come mimo-ballerino in «Les malheurs d’Orphée» di Milhaud. Lavorò molto per la tv e come doppiatore. È morto nella notte tra domenica e lunedì nella sua casa romana l’attore Elio Pandolfi. Aveva 95 anni. Lo si apprende da fonti della famiglia. Terzo dei quattro figli di Saturno Pandolfi, custode dell’Istituto Tecnico Commerciale «Vincenzo Gioberti», e di Maria Queroli, Elio Pandolfi si era diplomato all’Accademia nazionale d’arte drammatica di Roma. L’esordio sul palco a Venezia nel 1948 come mimo-ballerino in «Les malheurs d’Orphée di Milhaud»; nello stesso anno entrò con Orazio Costa al Piccolo Teatro di Roma. Alla radio approdò nel 1949, scritturato da Nino Meloni per la Compagnia del teatro comico musicale di Roma. Dalla fine degli Anni 40 partecipò a trasmissioni di rivista come «La Bisarca» di Garinei e Giovannini (1949-51), «Briscola» di Puntoni e Verde (1949-51), «Giringiro» (1951), «Caccia al tesoro» (1952-54) di Garinei e Giovannini, «La canasta» di Fiorentini, «Rosso e nero» con Corrado (1951-57) e «Campo de’ Fiori», diretto da Giovanni Gigliozzi (1955). Luchino Visconti lo scelse per interpretare il ruolo del cantante castrato nello spettacolo «L’impresario delle Smirne», insieme a Rina Morelli. Nel 1954 debuttò come cantante nell’operetta di Alfredo Cuscinà «La barca dei comici», per poi dedicarsi all’attività teatrale con Wanda Osiris, Carlo Dapporto, Lauretta Masiero, Febo Conti e Antonella Steni. Negli Anni 60 prese parte con Dino Verde a numerose trasmissioni radiofoniche di varietà, fra cui «Urgentissimo, Scanzonatissimo», con Antonella Steni e Alighiero Noschese, «I discoli per l’estate» (1974-75) e «20.30 Express», insieme alla Steni. Come doppiatore è stato la voce italiana dell’attore francese Jacques Dufilho in tutti i film della serie sul Colonnello Buttiglione. Pandolfi ha doppiato anche Stanlio della coppia Laurel & Hardy, assieme a Pino Locchi che dava la voce a Ollio, in alcuni ridoppiaggi tra i quali quelli di «Allegri eroi» (1957) e «La bomba comica» (1958). Ha doppiato anche due personaggi Disney: Paperino, nei cartoni degli anni sessanta e settanta come seconda voce alternato a Oreste Lionello, e Le tont ne «La bella e la bestia». Negli anni 1960 e 1970, Elio Pandolfi doppiò anche Daffy Duck, come la seconda voce nei cortometraggi dei Looney Tunes e Merrie Melodies. Attore fra i più affezionati alla radio, Pandolfi ha partecipato al programma di Rai Radio 3 «Hollywood Party» e ha condotto dal 2002 «Di tanti palpiti». Tra il 2004 e il 2005, prodotto da Teatro Il Primo di Arnolfo Petri, si è dedicato all’operetta, interpretando col Maestro Marco Scolastra due recital musicali, «Operetta mon amour» (2004) e «Le Vispe Terese» (2005). Nel 2012 è stato di scena al teatro Manhattan di Roma con lo spettacolo «Letterine per Silvia e altri sogni» scritto e diretto da Paolo Silvestrini. Nel 2016 è stato premiato alla casa del Cinema di Roma, con il Nastro d’argento alla carriera per il documentario a lui stesso dedicato dal titolo «A qualcuno piacerà», diretto da Caterina Taricano e Claudio De Pasqualis.
Una voce troppo grande per avere limiti. Addio a Pandolfi, leggenda del doppiaggio. Massimo M. Veronese il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. Aveva 95 anni, era adorato da Visconti e fece teatro con Masiero e Osiris. Da anni il suo mondo lo aveva messo in un angolo, come fosse un pezzo di antiquariato prezioso, ma parcheggiato nel retrobottega. C'era, ma era come se non ci fosse più. E nella vecchiaia, a giugno aveva compiuto 95 anni, tutto diventa lontano, anche la stanza accanto. Viveva nella casa romana che fu di Lucia Bosè «quando era fidanzata con Walter Chiari», ci teneva a dire, nel suo salottino pieno di ricordi e ninnoli troneggiava una libreria enorme che conteneva solo dischi e videotape, le foto degli amori che non c'erano più, le sorelle morte giovanissime, l'amica del cuore Bice Valori, Antonella Steni, compagna nel lavoro e nella vita, Toto e Tata in un fortunato Carosello degli anni Sessanta. Fosse stato americano Elio Pandolfi, scomparso ieri a Roma, sarebbe stato adorato e venerato come Mel Blanc, l'uomo dalle mille voci che ha inventato i cartoon della Looney Tunes, o Don LaFontaine, padre di tutti i trailer, a cui ne bastò una, sempre uguale, per diventare leggenda. Il limite di Pandolfi invece era la sua grandezza, il suo essere tutto, attore, cantante, ballerino, mimo, imitatore e quindi niente; il suo essere uno, nessuno e centomila anche nel doppiaggio, aveva tolto a lui, capace di fare tutte le voci, un'identità che lo rendesse unico: era stato Spencer Tracy e Michel Serrault, Philippe Noiret e Groucho Marx, Mickey Rooney e David Niven. Ed era la voce del Colonnello Buttiglione, del Dracula di Bela Lugosi persino Stanlio in un ridoppiaggio. Così multiforme da dare voce anche alle donne. Una volta sostituì Tina Lattanzi, che pure era la voce di Greta Garbo, senza che nessuno si accorgesse, fece anche la sua amica Rina Morelli in una scena de Gli zitelloni. Imitava persino la Magnani. La sua scuola era stata la campagna «da piccolo passavo ore ad imitare una gallina con cui ho vissuto per tanto tempo» e la radio a onde medie che trasmetteva strane voci che arrivavano da angoli misteriosi del mondo: «Lì capii che la parola aveva un suono». Sentiva le voci e le riproduceva come un registratore, in qualunque lingua, cambiando tono, timbro e impostazione una, due, dieci volte. Era terzo di quattro figli «e la famiglia, escluso mio padre, mi ha sempre incoraggiato». Papà Saturnino che era bidello e lo sognava ragioniere, viveva nel palazzo patrizio dove lui era nato e andava a scuola: «Non potevo nemmeno bigiare perché ero lì». Diplomato all'Accademia d'arte drammatica di Roma, una vita dedicata alla radio, dal teatro comico alla rivista musicale, fino al varietà negli anni Settanta, Luchino Visconti, che lo adorava, lo scelse per interpretare il ruolo del cantante castrato in L'impresario delle Smirne, e gli cambiò la vita. Poi teatro, tanto, con Wanda Osiris, Carlo Dapporto, Lauretta Masiero, dall'operetta, al musical. E cinema, teatro, tv, radio: lavora con Bolognini, Patroni Griffi, Salce. Restando sempre se stesso: tutti e nessuno.
Massimo M. Veronese. Pioniere della radio privata in Italia ha lavorato per Gente, Retequattro e Raitre prima di essere assunto al Giornale da Indro Montanelli. Ha scritto libri per Mondadori, Feltrinelli e Mursia. Solo negli ultimi anni ha curato gli inserti sui 40 anni e sui 45 anni del Giornale, sul Muro di Berlino e sullo Sbarco sulla Luna, la collana Firme Fuori dal coro, da Gianni Brera a Jorge Luis Borges, e l’antologia «Te lo do io il ’68 ». Ha contribuito alla realizzazione del film «Indro, l’uomo che scriveva sull’acqua», il suo ultimo libro «Senti chi parla» (Anniversary book) è stato presentato al Festival del cinema di Venezia e all’IIC di Los Angeles.
Aveva 95 anni. È morto l’attore Elio Pandolfi: “Ultimo protagonista di un mondo dello spettacolo che non c’è più”. Antonio Lamorte su Il Riformista l'11 Ottobre 2021. Se n’è andato stanotte, a 95 anni, nella sua casa di Roma Elio Pandolfi. Attore eclettico, per il cinema, la televisione, il teatro. Oltre che conduttore radiofonico, doppiatore e cantante. Aveva 95 anni. A dare la notizia l’agenzia di stampa Ansa, che ha appreso della scomparsa da fonti della famiglia. “Non ho rimpianti né debiti – aveva detto in un’intervista ad Avvenire – ma vanto un credito… nei confronti del cinema. Mi chiamavano sempre per fare le stesse parti e alla fine mi sono scocciato e ho detto basta. Un bel film da protagonista me lo sarei meritato”. A Roma si è spento, e a Roma era nato Pandolfi, una Roma tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, il 17 giugno 1926 e si era Diplomato all’Accademia Nazionale d’Arte drammatica di Roma. Era entrato al Piccolo Teatro di Roma con Orazio Costa. E in quasi un secolo di carriera aveva attraversato l’operetta, la prosa, la commedia, il teatro musicale e le rese e le sperimentazioni delle stesse per i mezzi che cambiavano, la televisione e la radio. Oltre alle pubblicità di Carosello.
Per anni fu in coppia con Antonella Steni e per i grandi varietà come Studio 1 con Mina. Ha doppiato oltre 500 film. Era stato voce di Stanlio, della più famosa coppia di comici della storia del cinema, Laurel & Hardy, e di Paperino. Ha lavorato (tra i tanti) con Totò, Fred Buscaglione, Walter Chiari, Adriano Celentano, Lina Wertmuller e Marco Bellocchio. Le riviste invece: La Bisarca di Garinei e Giovannini, La Briscola di Puntoni e Verde, Giringiro, Rosso e Nero con Corrado. Gli anni ’60 furono quelli di numerose trasmissioni radiofoniche con Dino Verde. La sua ultima volta sulla scena, sul palcoscenico, nel 2019 a Roma per Io mi ricordo con Riccardo Castagnari e la regia di Paolo Silvestrini. Lascia il figlio adottivo Natale Orioles. Non si terranno funerali come da lui stesso richiesto. Pandolfi era personaggio di un mondo dello spettacolo che non esiste più. In questi termini Pino Strabioli, conduttore e regista, all’Ansa. “Era davvero uno degli ultimi di quella generazione di attori che avevano fatto di tutto, dalla prosa alla rivista. Ed era una vera memoria vivente: ricordava tutto, ogni incontro con Wanda Osiris e quel mondo che oggi non c’è più – ha detto Strabioli – Forse è stato poco riconosciuto e onorato. Mi rimproverava sempre: "In tv hai dedicato uno speciale a tutti tranne che a me". Colpa della pigrizia della Rai. Ed era un vero peccato perchè lui da sempre filmava anche tutto. Aveva un archivio pieno di immagini di Panelli, Mastroianni, Bice Valori”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
· E’ morto il filosofo ultra comunista Salvatore Veca.
PIERLUIGI PANZA per corriere.it l'8 ottobre 2021. Salvatore Veca, scomparso a 77 anni, si era laureato nel 1966 con Enzo Paci e Ludovico Geymonat, due dei grandi maestri di Filosofia che vantava allora l’Università di Milano. Da giovane assistente Veca si occupò per un decennio di studi teoretici e riflessioni su Marx e divenne condirettore della rivista «Aut Aut» con Enzo Paci e Pier Aldo Rovatti. Dopo un breve passaggio a Bologna, diventando docente a Scienze Politiche a Milano scoprì e fece proprio il pensiero di John Rawls. In Una teoria della giustizia del 1971, che Veca fece tradurre da Feltrinelli nel 1982, il filosofo di Harvard aveva riattualizzato il contrattualismo di Locke, Hobbes e Rousseau. La politica non doveva aspirare a un astratto bene comune, ma ricercare procedure per rendere le istituzioni più giuste e i beni equamente distribuiti. Il giusto prendeva il sopravvento sul bene e ne conseguiva un liberalismo di stampo egalitario, in cui i vantaggi economici erano ammissibili solo se a beneficiarne erano i meno fortunati. È l’idea di giustizia come equità. Veca, che dal 1990 al 2006 fu docente di Filosofia politica a Pavia (dove rivestì la carica di preside), portò in Italia questa riflessione declinandola, oltreché negli studi e nella didattica, in un’incessante attività di partecipazione alla vita sociale, culturale ed editoriale, che lo rese uno dei più noti intellettuali progressisti. Anche se oggi, nella stagione della disintermediazione, profili come il suo non accendono più i giovani, Veca non si ritirò mai dalla vita attiva. A partire dalla direzione scientifica della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, assunta nel 1974, il filosofo promosse infaticabilmente lo sviluppo di un Centro di Scienza politica, gli Annali della Fondazione e un’ampia attività di ricerca, documentazione, dibattiti e pubblicazioni nell’ambito della teoria politica e sociale. Consulente di saggistica anche del Saggiatore, di cui aveva diretto (con Marco Mondadori) la collana «Theoria», Veca, persona disposta ad ascoltare, entrò a far parte di innumerevoli comitati scientifici e di riviste quali «Rassegna italiana di sociologia», «Teoria politica», «Biblioteca della libertà», «Politeia», «European Journal of Philosophy», «Reset», «Quaderni di Scienza politica», «Il Politico», «Rivista di filosofia», «Italianieuropei» e altre. Aveva fatto parte anche del Consiglio nazionale della Società filosofica italiana, era stato componente del Consiglio nazionale del ministero dei Beni culturali, collaboratore della Fondazione Corriere della Sera e, dal 2005, componente del Comitato generale Premi della Fondazione Balzan. Con generosità aveva promosso anche attività musicali, come la nascita dell’ensemble cameristico I solisti di Pavia, presentato mostre d’arte (anche contemporanea), era stato garante per il Fondo ambiente italiano, membro di istituti scientifici e accademie come quelli di Bologna e di Torino e vicino all’Anpi. Quest’ampia attività, che lo rese noto specialmente a Milano, dove fu presidente della Casa della cultura e portatore di un «riformismo ambrosiano» e intervenne anche in dibattiti sulle scelte dei sindaci, quasi distoglie da un accenno ai suoi libri. I volumi più legati a Rawls e a una teoria normativa sono La società giusta e Questioni di giustizia (declinati in forma divulgativa in L’altruismo e la morale con Francesco Alberoni). I successivi sviluppi del suo pensiero, incentrati sulla difesa del pluralismo come valore per la società democratica e sulla cittadinanza, si trovano in Libertà e eguaglianza o divulgati in Progetto Ottantanove scritto con Alberto Martinelli e Michele Salvati. Nel 1997, con Sebastiano Maffettone, pubblicò l’antologia L’idea di giustizia da Platone a Rawls un po’ in controcanto a La società aperta e i suoi nemici (1945; Armando 1973-74) di Karl R. Popper, il cui primo volume si intitola Platone totalitario. Veca è stato una figura che, negli anni Settanta, i giovani avrebbero definito maître à penser. Se chi oggi lo piange sono le istituzioni culturali e la politica è forse perché non si sono affermate quelle pari opportunità di accesso egalitario e meritocratico a tutti i ruoli del Paese sostenute proprio da Veca. La camera ardente di Salvatore Veca sarà allestita l’8 ottobre dalle 11 alle 19 presso la Casa della Cultura di Milano, in via Borgogna. I funerali si svolgeranno sabato 9 ottobre mattina alle 11 nella Chiesa degli Angeli Custodi, in via Pietro Colletta, a Milano.
Scomparso a 77 anni. Chi era Salvatore Veca, il filosofo comunista che voleva superare Marx. Corrado Ocone su Il Riformista l'8 Ottobre 2021. Con Salvatore Veca se ne va un mondo, molto milanese e molto cosmopolita, di sinistra convinta ma anche sempre molto lontana da fanatismi e ideologismi. Non dovette essere facile per il giovane Veca, nato a Roma e di origini meridionali ma ben radicato nella città ove aveva prima studiato e poi sempre vissuto, formatosi alla scuola di Enzo Paci e Ludovico Geymonat, affrancarsi non dico dalle chiusure dall’anacronistico e illiberale materialismo dialettico di quest’ultimo, che non fu mai il proprio, ma dall’idea stessa che Marx rappresentasse in qualche modo l’autore centrale in ogni impegno culturale e politico a sinistra. Al filosofo di Treviri egli dedicò studi e libri teoreticamente notevoli nella prima parte della sua ricerca. E in ottica marxista lesse pure il tema della fondazione e della modalità in Kant (l’idea di giustificare filosoficamente gli ambiti della ricerca gli fu sempre propria). L’affrancamento avvenne senza dubbio con la scoperta di John Rawls, più o meno a metà degli anni Settanta del secolo scorso. Fu Veca, insieme a pochi altri (Marco Mondadori, Sebastiano Maffettone) ad introdurre in Italia quel filone di ricerca sulla giustizia allora dominante in area anglosassone e che sembrava dare alla sinistra una prospettiva più à la page rispetto a quella del classico “riformismo ambrosiano” con cui pure era facilmente integrabile e che, nello stesso periodo, rappresentò in qualche modo la cultura politica in cui si forgiò il craxismo. La grande illusione che Veca coltivò, soprattutto poi quando implose il comunismo e gli stessi comunisti italiani si trovarono allo sbando, fu quella di credere che il grande partito di massa potesse fare fino in fondo i conti con la sua tradizione e liberarsene sotto la guida degli intellettuali. A ben vedere, però, l’idea di una normatività morale della scienza politica, la ricerca di un’etica che la fondi, tutto ciò che è stato nel bene e nel male il rawlsismo, conservavano non pochi tratti di teologismo politico. Che Veca, con la sua acutezza e finezza intellettuale, con il suo tratto gentile e cortese, attenuava in mille modi: con l’innato buon senso; mettendo in tensione il lato normativo e prescrittivo con quello realistico e descrittivo (sempre attento a non ridurre la complessità del mondo); con l’interesse per autori in lato senso storicisti (da Collingwood a Oakeschott, fino a Bernard Williams). Che la sinistra potesse diventare tutta, anche quella di origine comunista, liberal fu appunto la sua illusione. Fu una pia illusione anche quella portata a sopravvalutare il ruolo dei filosofi, che nel nuovo contesto più non contavano come un tempo. Quando il tentativo naufragò, Veca ne prese atto e si ritirò sempre più e intensamente nell’ambito degli studi: pubblicò libri, promosse traduzioni e ricerche, fu presidente di enti e fondazioni (soprattutto quella dedicata a Giangiacomo Feltrinelli dal 1984 al 2001), continuò con costanza la sua carriera accademica (fino a stabilizzarsi in quell’Università di Pavia, di cui fu per un periodo anche preside nella facoltà di Scienze Politiche). Non c’è dubbio che il tema della giustizia, e quindi della sua teoria, sia stato al centro dei suoi interessi e che esso si sia intrecciato in maniera spesso contraddittoria con quelli della libertà e del pluralismo che pure gli stavano a cuore. Nelle sue opere ricorre perciò spesso anche il nome di Isaiah Berlin, di cui fa propria sia la distinzione fra libertà positiva e negativa sia l’idea di pluralismo. Con due distinguo non inessenziali, però: poiché Veca intende sempre unire l’aspetto normativo a quello descrittivo, come abbiamo detto, la libertà positiva, intesa come partecipazione alla cosa pubblica e impegno, è posta sempre un gradino più in alto rispetto all’altra; il pluralismo a cui egli tende perde molto della sua intrinseca conflittualità, ben evidenziata da Marx, e tende a sottovalutare la forza che nella “società globale” (altro suo ambito di ricerca nell’ultimo periodo) hanno visioni del mondo contrapposte e non facilmente risolvibili. Né integrabili in una nuova idea di laicità. La sua concezione resta perciò fortemente illuministica, come è dato osservare sia nella sua continua rivisitazione dei temi classici di quella stagione (Progresso, Laicità, Tolleranza) sia nella sua critica radicale del “romanticismo politico” che si legge nel volumetto Libertà pubblicato recentemente (2019) dalla Treccani. Non è che qui Veca abbia di colpo perso la sua capacità di cogliere le sfumature, o non tenga presenti le sue teorie sulla incompletezza e incertezza di ogni teoria. È che probabilmente in lui le ragioni del cuore, che batteva senza indugi a sinistra, erano altrettanto potenti di quelle della mente, che lo portava ad essere più scettico e disincantato. Non a caso, egli ha riflettuto molto anche su sentimenti e vita privata, arrivando a scrivere un volume divulgativo con Francesco Alberoni su L’altruismo e la morale (1988). E illuministicamente ritenne che compito dell’intellettuale restasse quello di emancipare, di portare a termine quel Progetto Ottantanove (per dirlo col titolo di un volume scritto con Alberto Martinelli e Michele Salvati nel 1989) che era partito con la grande Rivoluzione. Della sua vasta bibliografia si possono ricordare anche: La società giusta (1982); Questioni di giustizia (1985); Etica e politica (1989); Cittadinanza. Riflessioni filosofiche sull’idea di emancipazione (1990); Dell’incertezza (1997); La bellezza e gli oppressi (2002); L’idea di incompletezza (2011); Tolleranza. Le virtù civili; Un’idea di laicità (2013); La gran città del genere umano (2014); Il senso della possibilità (2018); Qualcosa di sinistra. Idee per una politica progressista (2019) Ultimamente aveva riflettuto in modo non banale anche sull’idea di sostenibilità (Laboratorio Expo, 2015). Con lui scompare una figura civile di intellettuale, impegnato ma nel contempo indisponibile ad ogni compromesso con la politica urlata e con le dinamiche della cultura spettacolo. Corrado Ocone
· E’ morta l’attrice Luisa Mattioli.
Luisa Mattioli è morta, aveva 85 anni: fu la terza moglie di Roger Moore. Paolo Foschi su Il Corriere della Sera il 6 ottobre 2021. La notizia riportata dal Daily Mail e confermata dal figlio Geoffrey Moore. È morta in Svizzera all’età di 85 anni l’attrice Luisa Mattioli, terza moglie dell’ex James Bond, Roger Moore: lo riporta il Daily Mail senza indicare la data del decesso. Il tabloid britannico cita amici di famiglia, secondo i quali Mattioli «era malata da qualche tempo», e il figlio Geoffrey Moore, che ha confermato la notizia. Moore, scomparso nel maggio del 2017, fu legato a Doorn van Steyn dal 1946 al 1953. Successivamente sposò la vocalist Dorothy Squires, che lasciò per Mattioli. La coppia si sposò nel 1969, quando Squires concesse all’attore il divorzio. Il matrimonio durò 24 anni e dalla Mattioli Moore ha avuto tre figli: l’attrice Deborah Moore (nata il 27 ottobre 1963), l’attore Geoffrey Moore (nato il 28 luglio 1966) e il produttore Christian Moore. Moore e Mattioli divorziarono nel 1993.
Morta attrice Luisa Mattioli, ex moglie di Roger Moore. Redazione Rai News il 6 ottobre 2021. E' morta in Svizzera all'età di 85 anni l'attrice veneziana Luisa Mattioli, terza moglie di Roger Moore da cui aveva avuto tre figli. La notizia è stata data dal "Daily Mail", spiegando che era malata da tempo. Aveva fatto tv e cinema tra gli anni '50 e '60. Con l'attore di James Bond, deceduto nel maggio 2017, Luisa Mattioli si era sposata nel 1969 dopo il divorzio tra Moore e la vocalist Dorothy Squires. Il matrimonio durò 24 anni dall'unione nacquero l'attrice Deborah Moore (1963), l'attore Geoffrey Moore (1966) e il produttore Christian Moore (1973). Moore e Mattioli divorziarono nel 1993. L'attrice Luisa Mattioli, moglie dell'attore di James Bond Roger Moore,1973 Denham, in Inghilterra (Getty) E' morta in Svizzera all'età di 85 anni l'attrice veneziana Luisa Mattioli, terza moglie di Roger Moore da cui aveva avuto tre figli. La notizia è stata data dal "Daily Mail", spiegando che era malata da tempo. Aveva fatto tv e cinema tra gli anni '50 e '60. Con l'attore di James Bond, deceduto nel maggio 2017, Luisa Mattioli si era sposata nel 1969 dopo il divorzio tra Moore e la vocalist Dorothy Squires. Il matrimonio durò 24 anni dall'unione nacquero l'attrice Deborah Moore (1963), l'attore Geoffrey Moore (1966) e il produttore Christian Moore (1973). Moore e Mattioli divorziarono nel 1993.
Aveva 85 anni. È morta Luisa Mattioli: addio all’attrice che aveva sposato Roger Moore, ex James Bond. Antonio Lamorte su Il Riformista il 6 Ottobre 2021. È morta in Svizzera Luisa Mattioli. L’attrice aveva 85 anni. Era stata la terza moglie di Roger Moore, l’ex 007 James Bond. A riportare la notizia il quotidiano britannico Daily Mail che ha citato fonti vicine alla famiglia dell’attrice. Secondo quanto trapela dal quotidiano Mattioli “era malata da qualche tempo”. La notizia è stata confermata dal figlio Geoffrey Moore. Mattioli aveva fatto tv tra gli anni ’50 e ’60. Aveva sposato l’attore di James Bond nel 1969 dopo che l’uomo aveva divorziato dalla vocalist Dorothy Squires. Il matrimonio era durato 24 anni. I due ebbero tre figli: l’attrice Deborah Moore, nata nel 1963, l’attore Geoffrey Moore, nel 1966 e il produttore Christian Moore, nel 1973. La coppia si era separata nel 1993. Moore è morto invece nel maggio del 2017. I due si erano conosciuti quando lei lo aveva intervistato per una trasmissione televisiva. Avevano lavorato insieme nel film del 1961 Il ratto delle Sabine. La coppia fu una delle più note e rappresentative della Dolce Vita romana. Il divorzio era arrivato infine nel 2002.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
· Morto il rugbista Lucas Pierazzoli.
Tragedia nel rugby, l’asso Lucas Pierazzoli morto in campo. Giampiero Casoni il 04/10/2021 su Notizie.it. Tragedia nel rugby, l’asso Lucas Pierazzoli morto in campo dopo un terrificante testa a testa durante una mischia: è stato soccorso ma era già in agonia. Tragedia nel rugby e Argentina in lutto, l’asso Lucas Pierazzoli è morto in campo vittima di un terribile scontro durante una mischia. Il campione 28enne dell’Hurling Club è morto in maniera terribile: è rimasto a terra dopo uno scontro testa a testa con un avversario nel corso di una mischia negli ultimi minuti del match tra Sitas e Hurling. La partita della tragedia si è disputata sabato 2 ottobre, nel pomeriggio. Si trattava di un match valido per la nona giornata della categoria Superior di Prima B in Argentina. Pierazzoli è stato subito soccorso da entrambi gli staff medici presenti a bordo campo in quei minuti terribili, medici a cui si sono aggiunti altri tre sanitari presenti sugli spalti perché genitori di altri giocatori presenti in campo. Purtroppo non c’è stato nulla da fare: il giocatore è rimasto esanime per 40 minuti, poi è stato rianimato e condotto a razzo con un’ambulanza all’ospedale Posadas. Pierazzoli aveva alcune vertebre fratturate ed il midollo spinale compromesso, tanto che lo si era dovuto ventilare. La società aveva chiesto a tutti di pregare per il ragazzo, con una nota sul proprio profilo Twitter: “Informiamo i nostri soci che l’Hurling Club sarà chiuso. Continuiamo a pregare per Lucas. Grazie”. Purtroppo le preghiere non sono servite e il campione di seconda linea è spirato dopo il ricovero.
· E’ morto il calciatore Daniel Leone.
Calcio, morto Daniel Leone: l’ex portiere aveva solo 28 anni. Marco Alborghetti il 03/10/2021 su Notizie.it. Lutto nel mondo del calcio: si è spento a soli 28 anni Daniel Leone, ex portiere di lega Pro morto a causa di un tumore al cervello. Lutto nel mondo del calcio: è morto a soli 28 anni Daniel Leone, ex portiere di Catanzaro e Reggina. Il giocatore si era ritirato da anni per combattere contro un tumore al cervello che questa volta non gli ha lasciato scampo. L’ultima foto sui social risale allo scorso agosto 2021, sempre sorridente. Il mondo della Serie C ma del calcio italiano è in lutto per la scomparsa di Daniel Leone, ex portiere di Catanzaro e Reggina, colpito da un tumore al cervello che lo ha portato via a soli 28 anni. Nel 2014 la prima diagnosi, dopo un lungo periodo in cui lamentava un forte mal di testa. Da quel momento è iniziato un lungo calvario di 7 anni, tra chemioterapie, interventi e speranze di poter tornare un giorno a giocare su un campo di calcio. Come abbiamo detto, nel 2014 la prima diagnosi di tumore al cervello, quando era tesserato per la Reggina in Lega Pro. Operato a ottobre, terminò le cure a Milano, e dopo un altro ciclo di chemio, a gennaio 2015 tornò ad allenarsi con la squadra. Purtroppo però il tumore si ripresentò nel 2017, quando era in forze al Catanzaro. Un altro lungo stop che gli fece meditare l’addio definitivo al calcio. Altri giri di chemioterapie per cercare di evitare il peggio, perché in fondo Daniel nutriva ancora una piccola speranza di poter guarire e seguire la sua passione per il pallone. Nel 2018, anno in cui Daniel tornò a lottare contro il tumore, l’ex portiere postò sui social una foto con lo scopo di tranquillizzare i suoi affetti e amici, con questa didascalia: “Apriamo la testolina e speriamo di aggiustarla” . Un racconto che lo accompagnò fino al 2021, perché non aveva nessuna intenzione di mollare e sapeva che l’affetto dei suoi amici e familiari gli avrebbero dato la forza necessaria ad andare avanti, a combattere. L’ultimo post su Instagram è datato 8 agosto 2021 e lo ritrae sorridente all’interno di un’auto, a Caserta. Un sorriso che lo ha caratterizzato lungo tutta la sua battaglia in questi anni, e proprio così lo ricorderanno amici, familiari e compagni.
· Morto lo scrittore Antonio Debenedetti.
Morto Antonio Debenedetti. Nei suoi racconti amori e destini. Cristina Taglietti su Il Corriere della Sera il 4 ottobre 2021.Figlio del grande critico Giacomo, la sua vita e la sua opera è radicata nel Novecento letterario italiano. La sua scrittura elegante e misurata al servizio della forma breve. Una vita e un’opera radicate nel Novecento letterario, quella di Antonio Debenedetti, morto domenica 3 ottobre a Roma a 84 anni. Nato a Torino il 12 giugno 1937 fin dall’infanzia aveva frequentato la grande letteratura, a cominciare dall’eccentrico padre, il grande critico Giacomo (Giacomino nella biografia che gli ha dedicato il figlio), dagli autori che aveva conosciuto personalmente nella casa romana dei genitori, poi letto e fatto suoi, da Moravia a Landolfi a Soldati. Per molti anni redattore culturale del «Corriere della Sera», facondo narratore di storie legate ai personaggi e agli ambienti, soprattutto romani, della cultura, Debenedetti è stato un grande scrittore di racconti, genere in cui la sua scrittura elegante e misurata ma inventiva ha toccato storie essenziali di amori infelici, occasioni perse, destini incrociati. L’esordio era stato poetico, nel 1958, con la prima e unica raccolta, Rifiuto di obbedienza, prefata da Giorgio Caproni, il maestro amico di famiglia che quando era bambino gli faceva lezione e gli correggeva i compiti. La sua opera narrativa vede l’affiancarsi di romanzi come Monsieur Kitsch (1972) , La fine di un addio (1985), Se la vita non è vita ; Un giovedì, dopo le cinque (2000, finalista Premio Strega) e raccolte di racconti come Ancora un bacio (1981); Spavaldi e strambi, Racconti naturali e straordinari ; Amarsi male (1998); E fu settembre ; Il tempo degli angeli e degli assassini (2011). Una selezione di questi è stata raccolta nel volume Racconti naturali e straordinari, come il titolo della raccolta pubblicata nel 1993, si intitola il volume edito ora da Bompiani nei Classici, curato da Cesare De Michelis .
L'uomo dalle mille vite. È morto Bernard Tapie, ex ministro e presidente del Marsiglia campione d’Europa. Antonio Lamorte su Il Riformista il 3 Ottobre 2021. È morto Bernard Tapie. Ex ministro del governo in Francia, imprenditore, ex Presidente dell’Olympique Marsiglia, venditore di televisori, campione di audienze, perfino cantante, alla guida di Adidas. Una vita intensa, chiacchierata, una personalità che ha fatto discutere e appassionare, impegnata su mille progetti e settori. Aveva 78 anni “l’uomo dalle mille vite”. Chiacchierato e controverso. Ha segnato un’epoca. Quattro anni fa l’annuncio a France 2, in televisione: sono ammalato di cancro allo stomaco. “Quando si hanno 70 anni e più, bisogna accettare che a un certo punto si va verso l’ultima prova, che è la morte. Non ho alcuna voglia di andarmene, ma bisogna trovare la saggezza per dire che quando capita a una coppia giovane con la donna che ha 35 anni e tre bambini e si ammala di cancro al seno, è un’altra cosa“. La diagnosi della malattia l’aveva paragonata a un “colpo di mazza da baseball sulla testa”. Forse causata dal forte stress. Aveva scelto di farsi curare all’ospedale pubblico Sant-Louis di Parigi. Amava descriversi come “un figlio di nessuno, un ragazzo della banlieue” e quindi “a un certo punto bisogna tornare con i piedi per terra e sono felice di essere seguito dal servizio sanitario. I pazienti che mi incontrano devono potere dire ‘accidenti, anche lui viene a curarsi qua!'”. Tapie divenne ministro delle Città con Mitterand. Fu presidente del grande Marsiglia che vinse la Coppa dei Campioni nel maggio 1993, in finale contro il Milan di Fabio Capello a Monaco di Baviera. La società ha espresso “profonda tristezza” per la scomparsa di Tapie e colorato di nero i suoi account social in segno di lutto. Cordoglio espresso anche da parte del primo ministro Jean Castex e dal sindaco di Marsiglia Benoît Payan che ha garantito “un omaggio popolare alla sua altezza: Bernard Tapie, sarai per sempre marsigliese»”. “L’uomo dalle mille vite” fu eletto deputato a Marsiglia nel 1989 con l’etichetta “maggioranza presidenziale” a sostegno del presidente socialista François Mitterans. Passato alla storia dei talk televisivi il duello con Jean-Marie Le Pen, padre del Front National. Invitato sul palco di un comizio a Orange, proprio da Bruno Gollnisch dei rivali dell’Fn, cominciò a dire che i migranti bisognava mandarli via, affondarli se necessario, e dopo gli applausi disse: “Non mi ero sbagliato su di voi. Ho parlato di un massacro, di ammazzare uomini, donne e bambini, e voi avete applaudito. Domattina, mentre vi fate la barba o vi truccate, guardatevi allo specchio e vomitatevi addosso”. Tapie è stato venditore di televisori e poi campione di audience in tv, tifoso di ciclismo e di calcio e poi vincitore (come presidente) del Tour de France e della Champions League, cantante e attore con Claude Lelouch, ministro di Mitterrand e poi citato in giudizio dallo Stato francese nell’ambito della vicenda Adidas-Crédit Lyonnais. Partito dal nulla, al 2016 il suo patrimonio ammontava a 150 milioni di euro, e quindi tra i 400 imprenditori più ricchi del mondo.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Da ilsole24ore.com il 3 ottobre 2021. E’ morto dopo una lunga malattia, a 78 anni, Bernard Tapie, ex ministro francese, uomo d’affari, presidente dell’Olympique Marsiglia. Lo si apprende dai media francesi. Immediate le reazioni da parte del mondo politico e sportivo dopo la diffusione della notizia sui media francesi. L’annuncio della morte è stato diffuso domenica mattina direttamente dalla famiglia, che in un comunicato scrive: «Dominique Tapie e i suoi figli hanno l’infinito dolore di comunicare il decesso di suo marito e del loro padre, questa domenica 3 ottobre alle 8,40 a seguito di un cancro». Il suo coinvolgimento nello sport spaziò dal ciclismo al calcio e come presidente dell’Olympi que Marsiglia vinse quattro campionati consecutivi e una Champions League nel 1993 battendo il Milan in finale. «L’Olympique Marseille ha appreso con profonda tristezza della scomparsa di Bernard Tapie - si legge in una nota della società –. Lascerà un grande vuoto nel cuore dei marsigliesi e rimarrà per sempre nella leggenda del club». Il primo ministro Jean Castex ha reso omaggio a Tapie, ex ministro negli anni ’90, descrivendolo come un «combattente». «La prima immagine che mi viene in mente - ha detto Castex ai giornalisti a margine di una riunione del partito presidenziale La République en Marche ad Avignone, nel sud - è quella del combattente, per le sue idee, le sue convinzioni. E’ sempre stato molto impegnato contro l’estrema destra, ma soprattutto per alcune cause, per la sua squadra di calcio, la sua città, anche la sua impresa. Insomma un uomo molto impegnato, che ha dato tutto e credo che questo lo si sia visto anche contro la malattia. Ha lottato colpo su colpo, da combattente come è sempre stato. Mi inchino alla sua memoria». Tapie, i cui interessi commerciali includevano anche una partecipazione nella società di abbigliamento sportivo Adidas, soffriva di cancro allo stomaco da diversi anni. È stato al centro di un’inchiesta giudiziaria e in prigione per corruzione in uno scandalo di partite truccate nella prima divisione francese. Come ha dichiarato lui stesso in una vecchia intervista, «ho vissuto in un modo incredibile, meraviglioso, fortunato». Nato il 26 gennaio 1943 in un quartiere popolare di Parigi, ha svolto diversi mestieri prima di diventare ricco, famoso e controverso. Ha iniziato come cantante realizzando dischi e tour con il nome di Tapy. A 37 anni si fa strada nel mondo degli affari ottenendo la gestione del marchio Manufrance e si specializza in particolare nell’acquisto di aziende in crisi che rivende dopo averle rilanciate. Negli anni ’80 sbarca a modo suo nel mondo del ciclismo con la squadra La vie claire e vince due volte il Tour de France con il fuoriclasse Bernard Hinault. Diventa anche conduttore televisivo e, nel 1986, acquista la società calcistica Olympique Marsiglia che sarà il primo club francese a diventare campione d’Europa. A 46 anni viene eletto deputato e si distingue in particolare in un dibattito acceso contro il leader della destra Jean-Marie Le Pen
Da ilnapolista.it il 4 ottobre 2021. La morte di Bernard Tapie è ovviamente la prima notizia sui giornali francesi. Il quotidiano sportivo L’Equipe nell’edizione on line gli dedica la copertina col titolo: «Una vita in chiaroscuro». Ha vissuto una vita come nessun’altra. (…) Questa vita era la storia di un uomo che voleva diventare re. Nessuno ha dimenticato la data dell’incoronazione e la data della sua caduta è stata quasi la stessa: il maggio 1993. (…) Era la principale figura mediatica della Francia, all’altezza di una vita romanzesca attraversata al galoppo come un ussaro, così ha trovato tutto quel che cercava: la luce e la fortuna, il potere e i guai. L’Equipe, in un articolo straordinario a firma Vincent Duluc, scrive che non si sa fino a che punto quei tempi avessero modellato o lui avesse contribuito a rendere così affascinante la sua epoca. Aveva una corte, i modi di un monarca, ma era sempre lui che lusingava, lui che prometteva. L’Equipe ricorda il suo passato nel ciclismo, con La Vie Clair vinse il Tour nel 1985 con Hinault e nell’86 con LeMond. E come il calcio allora fosse un ambiente arcaico refrattario alla cultura aziendale. Ma Tapie era un’altra cosa, non era un imprenditore, la sua cifra era di natura diversa, a volte velenosa, la Francia mormorava sulla catena dei suoi acquisti aziendali, lo smantellamento e le vendite che gli attiravano l’accusa di essere un giocatore di domino. Non aveva costruito altro che la propria ricchezza. Nella costruzione del Marsiglia fu scortato da Hidalgo che però, ricorda il giornale, non ebbe mai un vero e proprio incarico, un ruolo ufficiale. L’Equipe ricorda le ombre. Le accuse di doping, i succhi d’arancia adulterati che fecero addormentare all’intervallo i giocatori del Rennes, l’allora allenatore del Monaco Arsène Wenger che confidò di aver avuto la sensazione di aver giocato alcune partite contro il Marsiglia come se fossero nove contro tredici. Il caso che portò al suo declino calcistico fu Valenciennes-Marsiglia del 20 maggio 93. Tre giorni prima della finale di Champions vinta contro il Milan. In quei quattro giorni c’è il punto più alto e il più basso della vita di Tapie. Le accuse di un giocatore del Valenciennes: Jacques Glassmann che nel 95 ricevette il premio Fair Play dalla Fifa per la sua onestà. Ancora oggi, ricorda il calciatore, incontra per strada qualcuno che lo insulta. Scrive L’Equipe: Alla fine sarebbe emerso tutto, anche i contanti dal terreno di un giardino. È stato questo caso che ha provocato la sua rovina. Il Marsiglia finì in Serie B e fu costretto a cedere i giocatori migliori. Lui fu allontanato dal club, finì in prigione per “corruzione e subornazione di testimoni”, poi condannato per “falso e violazione della fiducia e proprietà del club”. Fu condannato a due anni di carcere. Poi, ci fu l’interminabile battaglia giudiziaria con Crédit Lyonnais sulla rivendita di Adidas, i 404 milioni, le accuse di truffa e appropriazione indebita di fondi pubblici. Quando nel 2000, spinto dalla nostalgia e dall’immobilismo, voleva tornare al Marsiglia, era già troppo tardi. Era lui a essere diventato l’uomo di un altro tempo. Sii era inserito nell’intervallo esatto tra il paternalismo e l’avvento degli imprenditori, ma ora incarnava una terza via che lo avrebbe lasciato ai margini. Fondamentalmente – scrive L’Equipe – le sue vittorie furono belle e gloriose, ma brevi, come se avesse scelto una vita sulle montagne russe per essere sicuro di salire molto in alto e non annoiarsi mai anche durante la discesa. Era diventato attore, ufficialmente questa volta, Lelouch e TF1, teatro e commissario Valence, veniva chiamato per dibattiti sul calcio o sulla politica. (…) È rimasto l’uomo di un’epoca, fino alla fine circondato dal ricordo della sua leggenda, e, al crepuscolo, da un moto di affetto popolare che equivaleva a un perdono.
Da ilnapolista.it il 4 ottobre 2021. In Italia il nome di Jacques Glassmann non dice granché. Una modesta carriera di calciatore: in tutto 34 presenze in Ligue1, il grosso nella Serie B francese tra Mulhouse, Tours, Valenciennes. È qui, nell’unica stagione in Ligue1 del Valenciennes che diventa uno dei giocatori più famosi del calcio francese. Perché fu a lui – e a Burruchaga – che si rivolse il Marsiglia di Tapie per accomodare la partita contro il Marsiglia d’oro che era in lotta col Psg per la conquista del campionato. Mancavano tre giornate alla fine del campionato. La partita era in programma il 20 maggio. Il 23 si sarebbe disputata la finale di Champions contro il Milan. In quei quattro giorni, come ha scritto L’Equipe, Tapie visse il momento più alto e il momento più basso della propria storia calcistica e non solo. Finì condannato, il Marsiglia in Serie B e dovette vendere i calciatori migliori. Fu la fine del ciclo d’oro. In Francia è famoso come il caso VA-OM. Glassmann oggi ha 59 anni. Di interviste ne ha rifiutate tantissime. Nel 1995 la Fifa gli consegnò il Premio Fair Play per la sua onestà. Da quando ho denunciato il tentativo di corruzione di Bernard Tapie, c’è sempre un truffatore che mi insulta, per strada, al cinema. Qualche settimana fa, qui a Valenciennes, un ragazzo mi ha minacciato. Ma la situazione progressivamente migliora. Tuttavia, preferisco non giocare partite senior nel Sud. Glassmann fu il testimone decisivo. Raccontò la sua versione alla magistratura. Il 19 maggio 1993 il suo compagno di squadra Christophe Robert lo avvicinò: “Il Marsiglia deve assolutamente vincere. Hanno scelto noi tre, con Burruchaga, per un accordo”. Glassmann rifiutò. Venne contattato telefonicamente da Bernès il direttore del Marsiglia (l’Olympique Marseille) che gli disse: “Preferisci perdere con i soldi in tasca o perdere con zero franchi? Non avete nessuna chance”. Il difensore rivela tutto la sera stessa della partita. Burruchaga confermò le sue accuse. Una busta contenente 250.000 franchi francesi venne scoperta nel giardino della zia del giocatore Christophe Robert. Glassmann ha conosciuto anche sette mesi di galera. Ha scritto un libro su quella vicenda. Oggi, con l’Unione calciatori professionisti, si occupa dei giocatori che si ritirano, li aiuta a entrare nella vita “normale”. Un anno e mezzo fa, ha concesso un’intervista a “L’Alsace” dopo averne rifiutate tantissime ed essere rimasto in silenzio per tanto tempo. “Qualche tempo fa mi hanno contattato anche quelli di Netflix, non so cosa volevano. Sin dalla prima udienza ho detto tutta la verità. Non ho mai cambiato una parola. E l’indagine mi ha dato ragione. È da molto tempo che non c’è più nulla da dire dell’argomento e che tutte le persone coinvolte in questa vicenda hanno imparato a vivere con la loro coscienza”. Dice di rifiutare l’etichetta di persona onesta. «Non sono un eroe e non sono più “bravo ragazzo” di altri. Non ho cambiato il mondo, ho solo fatto qualcosa che in linea con i valori». È cresciuto nella fede cattolica di una modesta famiglia alsaziana che si stabilì a Bourtzwiller. «Ho sofferto più per l’infortunio al ginocchio quando ero al Racing Strasbourg: schiacciamento del nervo sciatico e paralisi della parte inferiore della gamba. Ero sicuro che la mia carriera fosse finita. L’allenatore non mi schierava più, nemmeno dopo il recupero, e chiesi di lasciare il Mulhouse senza compenso». Dell’ormai celebre caso di corruzione dice: «Avrei dovuto tradire i miei compagni di squadra che non sapevano nulla, i fan del Valenciennes che vivevano per noi, i miei principi. Seriamente, perché avrei dovuto farlo?» Agli insulti e agli striscioni contro, preferisce conservare le migliaia di lettere di sostegno che ha ricevuto e apprezzato.
· E’ morto l’ex ministro Agostino Gambino.
Da adnkronos.com il 3 ottobre 2021. E' morto Agostino Gambino, 88 anni, giurista italiano, già ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni del governo Dini dal 17 gennaio 1995 al 17 maggio 1996. A lui si deve il decreto sulla Par Condicio con cui si è regolamentata per la prima volta in Italia la parità di accesso ai mezzi di comunicazione durante le campagne elettorali. Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Avvocato dal 1958, allievo e assistente di Alberto Asquini, divenne professore di ruolo all'università nel 1965. Gambino ha insegnato diritto commerciale e diritto fallimentare presso le università di Sassari, Venezia e alla Sapienza di Roma. È stato nominato professore emerito di diritto commerciale nel 2005 e membro del cda di diverse società, bancarie, tra le quali la Banca Nazionale dell'Agricoltura, e assicurative, Meie e Fata. Ha rivestito l'incarico collegiale di commissario governativo della Federazione Italiana dei Consorzi Agrari. A seguito del dissesto del Banco Ambrosiano e delle banche e società estere da esso possedute, è stato co-presidente della Commissione internazionale mista, nominata dalla Santa Sede e dal Governo italiano per l'accertamento dei rapporti tra il Gruppo Banco Ambrosiano e l'Istituto per le Opere di Religione. È stato componente di diverse Commissioni legislative: Ministero Grazia e Giustizia per la riforma delle società di capitali, per la formazione di uno Statuto dell'impresa a seguito della riforma della legge fallimentare.
Fu uno dei tre saggi che elaborò le norme sul conflitto di interessi. Al ministero delle Partecipazioni Statali per la riforma del sistema giuridico delle partecipazioni statali stesse, al ministero dell'Industria, per la redazione della legge sull'amministrazione straordinaria delle grandi imprese e, poi, per la riforma legislativa di essa; Commissione per l'intervento pubblico nelle imprese in crisi. Nel 1994 è stato membro della Commissione governativa dei cosiddetti "tre saggi" incaricati di elaborare una soluzione legislativa ai problemi dei conflitti di interessi tra l'attività di governo e le proprietà ed incarichi personali del presidente del Consiglio dei Ministri. È autore in vari settori del Diritto commerciale di volumi - per uno dei quali, L'assicurazione nella teoria dei contratti aleatori gli è stato attribuito il premio internazionale dell'Accademia dei Lincei.
Politica in lutto, è morto l’ex ministro Agostino Gambino, inventore della “par condicio”. Giampiero Casoni il 03/10/2021 su Notizie.it. Politica in lutto, è morto l’ex ministro Gambino, inventore della “par condicio” che mise fine alla "voce grossa dei partiti grandi" a discapito dei piccoli
Politica in lutto, è morto ad 88 anni l’ex ministro Agostino Gambino, inventore della controversa legga sulla “par condicio”. Gambino fu membro del governo Dini con la delega alle Poste e Telcomunicazioni ed è il padre del codice che regola le competizioni elettorali dal 1996 e che fino a poche ore fa ha regolato la campagna elettorale per le importanti amministrative in corso. Il professor Gambino era nato a Genova nel 1933, e 25 anni fa Lamberto Dini lo chiamò in esecutivo, dove restò in carica per poco più di un anno. Quei pochi mesi furono però sufficienti a incasellare Gambino fra i politici che hanno lasciato un segno indelebile nella politica italiana. Perché? Perché in occasione delle elezioni anticipate del 21 aprile del ‘96 esordì una novità. Quelle delicate consultazioni infatti si tennero sotto l’egida normativa di un decreto che Gambino aveva varato solo pochi mesi prima, a gennaio: con esso per la prima volta in Italia si regolamentava la parità di accesso ai mezzi di comunicazione durante le campagne elettorali. Insomma, era finita l’era dei partiti “grossi che facevano la voce grossa” e di quelli piccoli a cui rimanevano scampoli di spazio e tempo per esporre le loro ragioni agli elettori sui media. All’Italia dell’appena nata Seconda Repubblica quel decreto piacque poco: il Corriere della Sera riporta che l’allora Garante dell’Editoria Giuseppe Santaniello mise perfino in dubbio la sua legittimità ma Gambino non si scompose e rispose: “Lo miglioreremo”. Gambino era avvocato e Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana. Docente universitario e giurista, fu anche co-presidente della Commissione internazionale mista, nominata da Vaticano e Governo italiano per l’accertamento dei rapporti del gruppo Banco Ambrosiano e lo Ior. Il professor Gambino aveva insegnato Diritto commerciale e fallimentare presso le università di Sassari, Venezia e alla Sapienza di Roma. Fu anche del cda di diverse società bancarie ed assicurative, tra cui Banca Nazionale dell’Agricoltura, Meie e Fata. Inoltre fu commissario governativo della Federazione Italiana dei Consorzi Agrari.
· Muore lo scrittore Takao Saito.
Muore Takao Saito, l'autore del manga più longevo al mondo. La Repubblica il 29 settembre 2021. Pubblicata per la prima volta nel 1968, la serie del sicario "Golgo 13" è il suo più grande successo. È morto a 84 anni il mangaka Takao Saito: tumore al pancreas. Si lascia alle spalle una carriera florida, con riconoscimenti di rilievo fino dagli anni Settanta per la sua serie, Golgo 13, dal 1968 la più longeva della storia e la seconda più venduta: con oltre 300 milioni di copie è superata solo dal mezzo miliardo di One Piece. In realtà dietro al successo di Golgo, negli anni, non c'era solo Saito, ma un intero dipartimento, come succede nelle opere più complesse e serializzate (in misura non diversa dai fumetti Bonelli che tutte le settimane escono in edicola). È anche per questo che la casa editrice, la Shogakukan - sulla cui rivista Big Comic uscì il primo numero di Golgo - potrà senza problemi accontentare l'ultimo desiderio di Saito: lasciar continuare la sua storia senza vederla bruscamente interrotta dalla sua morte. Vediamo di cosa parla Golgo, però, che in Italia esce per Edizioni BD. È la vicenda di Duke Togo, un sicario professionista che ha per nome in codice, appunto, quello di Golgo 13, dal Golgota, il luogo del calvario di Cristo, e dal numero ritenuto tra i più sfortunati al mondo. Il logo del killer è uno scheletro con una corona di spine. Nelle numerose storie della serie, Togo (o Golgo) gira per il mondo a compiere missioni di ogni tipo, non tutte necessariamente letali. Tutt'oggi pubblicato su Big Comic, Golgo 13 è stato raccolto in circa 200 volumi standard (o tankobon, il formato con cui si ripubblicano i manga dopo essere usciti sulle riviste, ad esempio) ad aprile 2021. Ne sono stati ricavati due live action negli anni Settanta, poi alcune serie anime e dei videogiochi, anche per Nintendo. Un'interruzione nell'infinita produzione di Golgo però c'è stata: durante la pandemia di Covid. A causa del lockdown giapponese, la storia si è bloccata da maggio a luglio 2020, prima di ripartire a pieno regime. E così dovrebbe continuare, o almeno questo sperano i fan del cult giapponese, anche dopo la dipartita del suo creatore.
· E’ morta la giornalista Marida Lombardo Pijola.
Lutto nel giornalismo italiano. Morta la storica firma, addio dopo una lunga carriera. Caffeinamagazine.it il 27/9/2021. Lutto nel giornalismo italiano. La giornalista ha combattuto ma ha perso la sua battaglia contro la malattia. È morta dopo una vita passata al Messaggero come inviata, poi scrittrice di successo. Negli ultimi anni collaborava con il Corriere della Sera come editorialista per l’edizione romana. La giornalista aveva 65 anni e solo pochi mesi fa prima della presentazione del suo nuovo libro “L’imperfezione delle madri”, rinviata a causa della pandemia da Covid-19, spiegava agli amici: “Sarebbe bellissimo vedervi, anzi guardarvi negli occhi oltre la mascherina”, riporta Leggo. Nata a Bari nel 1956, era figlia di un penalista e di un’insegnante, e comincia a lavorare negli anni settanta a Telebari, la prima televisione via etere italiana tra quelle che romperanno il monopolio Rai, alla cui fondazione partecipa. Marida Lombardo Pijola inizia a scrivere per il Quotidiano di Puglia nel 1979 e dopo sette anni alla redazione di Bari della Gazzetta del Mezzogiorno viene trasferita presso la redazione romana del quotidiano. Arriva al Messaggero, per cui ha lavorato per circa 30 anni, 25 come inviato speciale, diventando una delle firme del quotidiano. Per il quotidiano romano Marida Lombardo Pijola ha raccontato moltissimi tra i principali eventi di politica, di lotta alla mafia e di cronaca che hanno segnato il passaggio tra un secolo e l’altro. Si è occupata di mafia, ha raccontato la morte di Falcone e Borsellino e violenze sui minori con la grande inchiesta che condusse sull’adolescenza violata tra discoteche e scuole della Capitale. Marida Lombardo Pijola è stata anche scrittrice. Ha pubblicato “Ho dodici anni, faccio la cubista, mi chiamano Principessa” (Bompiani), che raggiunse nel 2007 ben 17 edizioni. A quel libro seguirono poi un saggio sull’adolescenza e due romanzi toccanti: “L’età indecente” (2009) e “L’imperfezione delle madri” (La nave di Teseo). Ha fatto parte della commissione disciplinare dell’Ordine dei giornalisti del Lazio. Marida Lombardo Pijola era sposata con il chirurgo Carlo Eugenio Vitelli, padre dei suoi figli Alessandro, Andrea e Luca.
Germana Consalvi per leggo.it il 27 settembre 2021. Segni particolari: bellissima. Così tanto che il suo notevole talento giornalistico sembrava quasi una benevola quadratura del cerchio del Destino, che aveva concentrato il meglio che un essere umano possa esprimere – bellezza, bravura, intelligenza, coraggio e umanità in dosi molto generose – in lei: Marida Lombardo Pijola, una vita al Messaggero da inviata, poi scrittrice di successo. Una malattia spietata contro la quale la giornalista ha combattuto a testa alta, come tutto ciò che ha affrontato nella sua vita privata e professionale, se l’è portata via ieri. Aveva 65 anni e cuore ed energia da vendere. Solo pochi mesi fa invitava così i tanti amici alla presentazione rinviata causa Covid del suo ultimo libro, “L’imperfezione delle madri”: “Sarebbe bellissimo vedervi, anzi guardarvi negli occhi oltre la mascherina” . Barese, Lombardo Pijola ha iniziato a lavorare nel 1979 al Quotidiano di Puglia per poi approdare dopo sette anni al Messaggero: in circa 30 anni è stata una firma di punta in particolar modo dei retroscena della politica italiana, ma si è occupata anche della lotta alla mafia. Custodiva con affetto intenso una foto che la ritraeva insieme al giudice Giovanni Falcone, suggello di un collaudato e reciproco rapporto di stima e di rispetto. Occhi da cerbiatta, fisico da mannequin, gentilezza e dolcezza indimenticabili, Marida era una giornalista ammiratissima. Ha circumnavigato questo mestiere, tuffandosi a capofitto anche nel mondo tormentato dall’adolescenza con inchieste importanti sulle pagine del Messaggero. Un’esperienza culminata nel 2007 nel libro” Ho 12 anni, faccio la cubista, mi chiamano principessa”, in cui ha documentato la doppia vita di ragazzine-lolite tra 11 e 14 anni. Da questo libro ha poi preso ispirazione la serie Netflix Baby. Famiglia, condizione femminile, femminicidi sono stati altri temi molto cari a Lombardo Pijola. Era una grande firma, ma non era a caccia di riflettori. Uno degli ultimi impegni giornalistici che svolse con buona voglia fu un concorso letterario femminile lanciato proprio dal Messaggero. Sposata con il chirurgo oncologo Carlo Vitelli, tre figli, Marida aveva affrontato con dolore il pensionamento, o meglio, il distacco dall’amato quotidiano di via del Tritone: tanto che salutò i colleghi invitandoli ad entrare nella sua stanza il giorno dopo per prendere il suo “regalo”. Aveva riempito la sua ormai ex scrivania di copie del libro dedicato al Messaggero, scritto da uno storico ex direttore, Vittorio Emiliani. Purtroppo quella uscita fu accompagnata dalla comparsa di una malattia che lei ha affrontato con forza e coraggio ammirevoli, scegliendo di mostrarsi anche sui social. La malattia è dura prova, non una vergogna. Innamorata della scrittura, che per Marida era vita, sul suo profilo twitter aveva dato in tempi recenti un messaggio ironico, ridimensionando il messaggio-chiave originale, “Scrivo”, manifesto del suo grande amore, in “Scrivo, più di frequente la lista della spesa”. Mancherà a tutti Marida, e la grande bellezza della sua sensibilità.
Morta Marida Lombardo Pijola, giornalista e scrittrice. Denunciò e raccontò l’adolescenza violata. Giuseppe Di Piazza su Il Corriere della Sera il 26 settembre 2021. L’ ultimo suo editoriale per il Corriere della Sera di Roma è stato, pochi giorni fa, in difesa dei bambini di Castro Pretorio ai quali il cuore cattivo della città aveva rubato le giostre. Un episodio minimo, si potrà dire, ma erano questi per lei, e lo sono per noi, i fatti che meglio di mille editoriali raccontano le disparità del nostro mondo. E a Marida Lombardo Pijola, scomparsa ieri a 65 anni dopo un lungo combattimento con la malattia, le disparità e i soprusi non sono mai piaciuti: le veniva naturale proteggere i più deboli, animata com’era da un calore umano forte, assistito da un’enorme capacità professionale. Aveva cominciato a Bari, la sua città, per poi trasferirsi presto a Roma, prima alla Gazzetta del Mezzogiorno, poi, per quasi trent’anni, al Messaggero. Lì è stata una delle firme di punta, coprendo nel corso del tempo – da inviata speciale - la grande e piccola cronaca giudiziaria italiana: dallo scacco al pool antimafia di Palermo alla morte di Falcone e Borsellino, dalle violenze sui minori alla grande inchiesta che condusse sull’adolescenza violata tra discoteche e scuole della Capitale. Questo lavoro diede origine al suo bestseller editoriale, «Ho dodici anni, faccio la cubista, mi chiamano Principessa» (Bompiani), che raggiunse nel 2007 ben 17 edizioni. A quel libro seguirono poi un saggio sull’adolescenza e due romanzi toccanti: «L’età indecente» (2009) e «L’imperfezione delle madri» (La nave di Teseo). La sua scrittura era tumultuosa e generosa, esattamente come la sua vita. Il nostro primo incontro, davanti all’ingresso del Messaggero, in via del Tritone, avvenne nel maggio dell’86, e più che un incontro fu uno scontro: le caddero sul marciapiede dei fogli che aveva in mano, per raccoglierli si chinò senza guardare e, rialzandosi, mi venne addosso. Scoppiò in una risata. Era bella, alta e con grandissimi occhi colore del mare. Risi anch’io senza ancora capire che quell’urto mi stava donando una delle amicizie più lunghe e pure che abbia mai avuto. Erano i nostri primi giorni di lavoro in quel giornale, e furono anche l’inizio di una vita complice e divertente, per lei, purtroppo, adesso finita. Mi resta il dolore per la perdita e l’affetto che, insieme a centinaia di amici, conserveremo per sempre per suo marito, il chirurgo Carlo Vitelli, e per i sue tre meravigliosi figli, Alessandro, Andrea e Luca. Il giornalismo e la scrittura dovranno fare a meno di un talento grande; io di una sorella.
· E’ morto l’attore Basil Hoffman.
Lutto nel mondo del cinema: a 83 anni ci ha lasciato Basil Hoffman. Veronica Ortolano il 25/09/2021 su Notizie.it. Addio ad uno degli attori più creativi e dei volti più riconoscibili del cinema contemporaneo. All’età di 83 anni si è spento l’attore americano Basil Hoffman, dopo una carriera cinematografica e televisiva durata cinque decenni. A comunicare la triste notizia l’amico e agente Brad Lemack. La popolarità di Hoffman arriva con la serie tv poliziesca anni Ottanta Hill Street giorno e notte. Tuttavia, la sua è stata una lunga carriera, ricca anche di ruoli non accreditati come in Oltre il giardino o La mortadella di Mario Monicelli. Hoffman ha lavorato con i più grandi registi tra cui Peter Bogdanovich, Richard Benjamin, Carl Reiner, Peter Medak, Alan J. Pakula, Ethan e Joel Coen, Michel Hazanavicius, Steven Spielberg, Delbert Mann, Blake Edwards, Stanley Donen, Sydney Pollack, Ron Howard e Robert Redford.
Una carriera unica e invidiabile. Da The Artist e Gente comune di Robert Redford ai classici tv come Hill Street giorno e notte, Santa Barbara, Kojak, Colombo, Zero in condotta e MASH. Senza dimenticare le partecipazioni in Incontri ravvicinati del terzo tipo, Il cavaliere elettrico, L’ospite d’onore, Adorabile nemica, Ave, Cesare!. Addirittura per Paolo Sorrentino ha girato il cortometraggio La fortuna nel film collettivo su Rio de Janeiro: in esso interpretava un anziano su una sedia a rotelle con una fidanzata molto più giovane di lui e dispotica. Prossimamente sarà protagonista nel film Lucky Louie, al momento in post-produzione, come conclusione della sua filmografia che lo ha portato a lavorare con ben 14 attori vincitori del premio Oscar. Originario di Houston, si era laureato in economia alla Tulane University e poi si è trasferito a New York, con l’obiettivo di diventare un grande attore. Infatti, qui iniziò i suoi studi di recitazione, formandosi all’American Academy of Dramatic Arts. Inizialmente fu scelto solo per spot pubblicitari e piccoli ruoli Successivamente si è trasferito a Los Angeles: lì la sua carriera è definitivamente decollata. Alla carriera di attore ha alternato pure quella di scrittore: è, difatti, autore dei libri Cold Reading and how to be Good at it e Acting and How to Be Good at It. Nel 2008 fu inviato a Beirut, in Libano, dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti per insegnare recitazione e regia all’Academie Libanaise des Beaux-Arts.
· Morto il pilota Nino Vaccarella.
Morto Nino Vaccarella, il grande pilota siciliano tre volte vincitore della Targa Florio. Ilaria Minucci il 23/09/2021 su Notizie.it. Il pilota siciliano Nino Vaccarella, detto Ninni, è morto all’età di 88 anni: nel corso della sua carriera, vinse tre volte la Targa Florio. Nella giornata di giovedì 23 settembre, il pilota Nino Vaccarella, detto Ninni, si è spento all’età di 88 anni. L’uomo ha rappresentato una figura che ha scritto la storia dell’automobilismo siciliano ed è stato anche uno dei migliori piloti del suo tempo in contesto internazionale. Nino Vaccarella, nato a Palermo il 4 marzo del 1933, ha iniziato a coltivare la sua passione per l’automobilismo sin da adolescente, attraverso la visione di alcune edizioni del Giro Automobilistico di Sicilia, istituito da Raimondo Lanza di Trabia, Vincenzo Florio e Stefano La Motta. Nel 1956, l’ex pilota siciliano si laureò in Giurisprudenza e iniziò a collaborare con l’Istituto scolastico privato “Maria Montessori” e con l’Istituto Oriani, scuola gestita dalla sua famiglia. Presso l’Oriani, Nino Vaccarella svolse dapprima il ruolo di insegnante per poi diventare preside, dopo la scomparsa del padre. Per questo motivo, era noto come il “preside volante”. Per quanto riguarda la sua carriera nel settore dell’automobilismo, invece, il pilota siciliano ha vinto 3 edizioni della Targa Florio e ha preso parte a molti altri rinomati eventi automobilistici come, ad esempio, la 100 km del Nurburgring, la 1000 km di Monza, la 12 ore di Sebring o, ancora, la 24 Ore di Le Mans. La passione per la velocità di Nino Vaccarella lo spinse a cimentarsi con alcune corse locali, alle quali gareggiò con una Fiat 1100, per poi acquistare nel 1958 una Lancia Aurelia 2500. La prima gara alla quale partecipò fu la cronoscalata Passo di Rigano-Bellolampo. Nel 1959, il pilota comprò una Maserati e gareggio alla Trapani-Monte Erice: in questa circostanza, venne notato dal conte Giovanni Volpi, allora di titolare di una importante scuderia. Poco tempo dopo, Nino Vaccarella divenne pilota ufficiale della Ferrari. La morte del pilota siciliano è stata commentata dall’ex presidente della Ferrari, Luca di Montezemolo, che ha dichiarato: “Con Nino Vaccarella scompare un pilota che ha legato il suo nome a tante vittoriose imprese della Ferrari, un ambasciatore della Sicilia nel mondo e un tifoso e amico che è sempre stato vicino a me e alla Scuderia. In questo triste momento, sono accanto alla sua famiglia, alla quale esprimo il mio profondo cordoglio”.
· E’ morto l’attore Robert Fyfe.
Robert Fyfe morto a 90 anni: addio all’attore di Last of the Summer Wine. Debora Faravelli il 24/09/2021 su Notizie.it. L'attore scozzese Robert Fyfe è morto a 90 anni: tra i suoi ruoli più noti quelli nel film Il giro del mondo in 80 giorni e in Last of the Summer Wine. Lutto nel mondo del cinema per la scomparsa di Robert Fyfe, attore scozzese morto all’età di 90 anni. Il suo ruolo più celebre è stato quello di Howard nella sitcom Last of the Summer Wine, in cui ha recitato dal 1985 fino al suo episodio finale nel 2010. La lunga carriera dell’attore ha avuto inizio nel 2962 con Dr Finlay’s Casebook ed è continuata in Coronation Street, Z Cars, Angels, The Onedin Line, Survivors, The Gentle Touch e Monarch of the Glen. Fyfe è anche apparso nei film Il 51° Stato, Il giro del mondo in 80 giorni e Cloud Atlas. Il presidente degli Elstree Studios, dove sono stati girati gli episodi di Last Of The Summer Wine, Morris Bright, ha così commentato la notizia della sua scomparsa: “Triste sentire che Robert Fyfe è morto all’età di 90 anni. Era la più adorabile delle persone, abbiamo condiviso alcuni momenti molto felici sul set di Last of the Summer Wine alla fine degli anni Novanta“. Degli altri attori, Juliette Kaplan (Pearl Sibshaw nella serie) è morta nell’ottobre 2019 di cancro mentre Jean Fergusson (Marina) a novembre dello stesso anno.
· E’ morto il calciatore Romanino Fogli.
Dall’account Facebook di Roberto Beccantini il 21 settembre 2021. E così, da oggi, son tutti lassù, fra le nuvole e le stelle: Negri; Furlanis, Pavinato; Tumburus, Janich, Fogli; Perani, Bulgarelli, Nielsen, Haller, Pascutti. Con l’allenatore, Fulvio Bernardini, e il presidente, Renato Dall’Ara. Sotto gli sguardi divertiti e i taccuini curiosi di Gianfranco Civolani, detto Civ. L’ultimo a staccarsi, Romanino Fogli. Il numero sei del Bologna che il 7 giugno 1964 soffiò lo scudetto all’Inter nello spareggio di Roma. Aveva 83 anni. Un mediano stiloso, di classe, senza ciccia superflua, toscano di poca cenere, cresciuto nel Toro, poi Bologna, Milan, nella rosa del Paron che si aggiudicò Coppa dei Campioni e Intercontinentale, Catania. Da allenatore, fu vice del Trap a Firenze, ai tempi delle sparatorie di Batistuta e del carnevale di Edmundo. Fervente tifoso di Fausto Coppi, fu proprio a Castellania, nel 2019, che lo incontrai per l’ultima volta. Erano i cent’anni dalla nascita del Campionissimo. Ci scambiammo le classiche parole dei reduci. Apparteneva alla tribù breriana degli «abatini», ma con tanto sale in zucca. Copriva, impostava, un ballerino prestato al centrocampo quando ancora non era un ring. In Nazionale giocò poco, ma quel poco lo coinvolse nella fatal Corea (del Nord) di Middlesbrough. Quel Bologna lì. Così si gioca(va) solo in paradiso. Carburo Negri fra i pali, poi Furlanis a destra in marcatura e capitan Mirko (Pavinato) a sinistra. Libero, «armeri» Janich. Stopper, Tumburus: quello che in busta, per la metà, scoprì di valere 175 lire. Perani era l’aletta tornante e invitante, Fogli il laterale che cuciva, lontano dalle Penelopi delle nostre tonnare. L’onorevole Giacomino il faro a prova di megafono, Helmut il dieci di fantasia, con frau Waltraud, la moglie, sempre a uomo; dondolo Nielsen, il prence danese e cortese; Ezio, la chierica più calda del west pallonaro (anche se poi, quel pomeriggio all’Olimpico, era infortunato e al suo posto giocò un terzino di profession bel giovine, Johnny Capra). Ero là, con papà. Fogli entrò dentro l’ordalia come se ne fosse stato il regista, mica solo il protagonista. Batté la punizione che, toccata in barriera da Facchetti, beffò Sarti. Allora, i fanatici degli alluci e i maniaci delle tibie diedero autogol, oggi chi solo avesse osato parlarne sarebbe stato appeso al muro. Ma è sul secondo gol che voglio richiamare la vostra attenzione. Lo trovate in rete, facilmente. Fogli palleggia al limite dell’area, il taglio di Dondolo lo raggiunge nell’attimo che fa la differenza, Romano lo serve al bacio, ciao Guarnieri. Ecco: quel tipo di gol, e quel genere di passaggio, che a noi del Novecento parvero così brillanti, così normali, nel Duemila sarebbero diventati manifesti e simboli di calci paramoderni e pararidicoli, in cui se la propaganda è più bella della realtà, e lo è spesso, si pubblica la propaganda. Altri tempi, si dice sempre così. Ma diversi lo erano davvero. Non so se più belli, non so se più brulli. Di sicuro, più giovani, pià pensanti-ben (in attesa, di diventare ben-pensanti, che tristezza). Tempi in cui si andava agli allenamenti e, narrano gli spifferi, poteva finire così, tra un cronista alle prime armi e un Negri presissimo dal sudore e dall’umore: «Negri, mi scusi. Cosa pensa di Inter-Bologna di domenica?». «Membri miei». «La ringrazio, ma dovrei scrivere ottanta righe». «Membri suoi».
· È morto l’attore Willie Garson.
È morto Willie Garson, era Stanford Blatch, il migliore amico di Carrie in «Sex and the City». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera 22 settembre 2021. Star della serie con Sarah Jessica Parker, aveva recitato anche in «White Collar» e «Hawaii Five-O». Avrebbe dovuto essere anche nell’imminente revival «È proprio così». Era l’amico ideale, quello capace di risollevare anche le serate più tristi. È morto Willie Garson, storico interprete di Stanford Blatch, l’amico di Carrie Bradshaw in «Sex and the City». Aveva 57 anni e, al momento, non sono state rese note le cause. A dare l’annuncio della scomparsa dell’attore, il figlio Nathen, sui social. «Ti amo così tanto papà. Riposa in pace e sono così felice che tu abbia condiviso tutte le tue avventure con me e che sia stato in grado di realizzare così tanto», ha scritto. Aggiungendo poi: «Sono così orgoglioso di te. Sei sempre stato la persona più divertente e intelligente che abbia mai conosciuto». Nella serie che ha fatto sognare più di una generazione di vivere la New York delle feste e degli appuntamenti alla moda, Garson interpretava un agente di talento. Un ruolo che aveva poi rivestito anche nelle trasposizioni al cinema del titolo che lo aveva reso tanto famoso, «Sex and the City» e «Sex and the City 2», e proprio in questo periodo stava girando un revival sulla serie per HBO Max chiamato «È proprio così». Tra i tanti commenti addolorati, quello di Cynthia Nixon, Miranda Hobbes nella serie. . «Lo amavamo tutti e adoravamo lavorare con lui — ha scritto su Twitter —. Era infinitamente divertente sullo schermo e nella vita reale. Era una fonte di luce, amicizia e tradizioni dello spettacolo. Era un professionista consumato, sempre». Garson aveva iniziato a studiare recitazione a 13 anni, all’Actors Institute di New York. Oltre al popolare personaggio di «Sex and the City», ha dato vita a decine di altri volti, tra cui quello di Mozzie, il truffatore dello show televisivo «White Collar». Tra le sue tante partecipazioni televisive, ci sono poi quelle in «NYPD Blue», «Hawaii Five-0» e «Supergirl».
· E’ morto Carlo Vichi, il fondatore della Mivar.
Mivar, morto il fondatore Carlo Vichi: aveva 98 anni. La storica azienda italiana di televisori era entrata in crisi alla fine degli anni '90 con l'esplosione delle tv a schermo piatto. la Repubblica il 20 settembre 2021. È morto a 98 anni Carlo Vichi, fondatore della Mivar, storico marchio italiano di televisori. L'azienda, acronimo di Milano Vichi Apparecchi Radio, era stata fondata a Milano nel 1945 con il nome di Var, e aveva iniziato producendo piccoli apparecchi radio a valvole passando poi alla produzione dei componenti. Nel 1955 il cambio di denominazione in Mivar, seguita l'anno successivo dalla commercializzazione della prima radio con sistema di modulazione della frequenza. Quindi, negli anni '60 e '70, l'esplosione nel mercato italiano con la produzione di televisori nello stabilimento di Abbiategrasso, alle porte di Milano, con quasi 900 dipendenti. Una crescita che aveva portato l'azienda a diventare il primo produttore italiano di tv color. Poi su finale degli '90, l'inizio della crisi con la diffusione dei modelli a schermo piatto e la concorrenza sempre più agguerrita dei giganti asiatici, che nel 2014 avevano portato poi alla chiusura definitiva. Sempre nel 2014 l'imprenditore aveva lanciato a un appello, offrendo gratuitamente l'affitto dell'azienda, a patto che assumesse 1200 lavoratori italiani. Figura controversa, Vichi spesso non aveva nascosto le proprie simpatie per il ventennio fascista. All'interno dello stabilimento di Abbiatgrasso, tra le linee di produzione, erano presenti diversi manifesti che raffiguravano Benito Mussolini e in più di un’occasione l'imprenditore aveva difeso pubblicamente l'operato del duce.
Fausta Chiesa per corriere.it il 20 settembre 2021. Era il re dei televisori italiani, marca Mivar (Milano Vichi Apparecchi Radio), azienda che aveva creato nel 1955 come «prosecuzione» della Var (Vichi Apparecchi Radio), fondata nel 1945, appena finita la Seconda guerra mondiale, per costruire radio a valvole a livello artigianale. All’età di 98 anni è morto Carlo Vichi, nato a Montieri in provincia di Grosseto e cresciuto a Milano, dove si era trasferito da bambino. La sede della sua Mivar, l’ultima azienda a produrre televisori made in Italy, è ad Abbiategrasso, alle porte della città. Un’azienda che aveva percorso la parabola dell’industria italiana: dal boom degli Anni 60, quando era arrivata ad avere quasi mille dipendenti, alla crisi per la globalizzazione e la concorrenza di chi produce con costi molto più bassi.
Il primo produttore di tv in Italia. Nel periodo d’oro degli Anni 70 e 80 (fino al 1998 quando dallo stabilimento di Abbiategrasso uscirono 917 mila apparecchi a tubo catodico) Vichi era diventato il primo produttore di tv in Italia e sognava in grande. Nel 2001 era stata completata la sua «Fabbrica ideale», nuova sede della Mivar, progettata interamente da Vichi e grande 120 mila metri quadrati. Ma la produzione non va lì perché Vichi non vuole «che insieme ai lavoratori ci entrino anche i sindacati». Tra antipatia per i sindacati e simpatie per Hitler e Mussolini, non si è costruito la fama di democratico. Pensava: «In fabbrica si dice sissignore, come nell’Esercito, nessuno può venire a comandare in casa mia».
La chiusura della Mivar. Poi la concorrenza delle marche straniere e il tentativo di resistere assemblando le Smart Tv con sistema operativo Android, che però non riuscì a risollevare le sorti della Mivar, rimasta con 60 operai. Ma Carlo Vichi già lo sapeva. «Non posso più produrre televisori. Spendo 10 e posso vendere a 8». Le linee di produzione dei televisori si sono fermate nel 2013, con i dodici operai rimasti che si occupavano solo di assistenza e manutenzione. Imprenditore puro, lavoratore instancabile, quando l’azienda aveva dovuto chiudere i battenti aveva dichiarato che avrebbe smesso di lavorare solo «quando mi trasformerò in spirito».
Il matrimonio nel 1944. Carlo Vichi si era sposato giovane, a 21 anni, nel 1944 con Annamaria Fabbri, che di anni ne aveva solo 18, nella Chiesa dei Santi Nereo e Achilleo, nel quartiere periferico milanese dell’Ortica. Il gioielliere dove comprarono le fedi ci disse: «Ostrega, nanca quarant’anni in du» (Cavolo, nemmeno 40 anni in due). Un amore che durerà per sempre e che culminerà con la festa per i 75 anni di matrimonio due anni fa. Un evento festeggiato in fabbrica, con un brindisi in compagnia dei figli Luisa, Maria, Valeria e Girolamo, amici e operai.
Gli arredi razionali. Nel 2018 aveva messo a disposizione Mivar in affitto gratis alle imprese che avrebbero voluto tornare a produrre tv o altre tecnologie, ma senza successo. Ma Vichi, come aveva dichiarato al Corriere due anni fa, si sentiva ancora indomito. «Ho delle ambizioni anch’io. Sono sempre stato un designer. E poi senza lavoro c’è il nulla». Così si era inventato gli «arredi razionali»: tavoli con sedie estraibili, più alte del normale «per rimediare alla sgradevole sensazione di sottomissione che si prova stando seduti, fra persone che stanno in piedi» recita la descrizione del prodotto. L’acronimo non aveva dovuto cambiarlo: Mivar si scriveva allo stesso modo ma si leggeva «Milano Vichi Arredi Razionali».
Funerali in fabbrica. Al proprio funerale Vichi aveva dichiarato più volte di non gradire la presenza delle «autorità». Il suo desiderio era quello di avere «una bella festa all’interno della nuova Mivar».
· Morto il compositore Sylvano Bussotti.
Morto il compositore Sylvano Bussotti: il suo ultimo marameo all'amata- odiata Firenze. Gregorio Moppi su La Repubblica il 19 settembre 2021. Avrebbe compiuto 90 anni fra pochi giorni. La sua città lo celebra per una settimana. Sylvano Bussotti ha fatto di nuovo marameo alla sua amata-odiata Firenze. Mentre la città natale è pronta a inaugurare una celebrazione con i fiocchi (che nonostante tutto comincia domani, lunedì 20 settembre, e va avanti fino a sabato), lui se ne va alla chetichella, mancando per poche lunghezze il traguardo del compleanno importante. Il compositore-pianista-performer-pittore-scrittore-regista teatrale-scenografo-film maker-organizzatore musicale avrebbe spento le candeline il 1° ottobre nella Rsa milanese dove da qualche mese era ospitato, invece ieri mattina si è spento dopo una lunga malattia che l'aveva fatto sprofondare nell'oblio.
· È morto l’inventore Clive Sinclair.
DA rainews.it il 18 settembre 2021. È morto a Londra a 81 anni Sir Clive Sinclair, pioniere dell'home computing, i pc destinati ad uso casalingo. Ce grande rivale del Commodore 64, che ha aperto la strada ai pc di massa. "Era una persona straordinaria, sempre interessato a tutto", spiega al Guardian la figlia Belinda che ha dato la notizia. Sinclair, nato nel 1940, a 21 anni fonda la Sinclair Radionics e nel 1972 lancia sul mercato la prima calcolatrice compatta, la Sinclair Executive con dimensioni comparabili a quelle di un attuale smartphone. Nel 1981 lancia sul mercato lo ZX 81 (1 milione di esemplari venduti) anche se il vero successo arriva nel 1982 con lo ZX Spectrum, acerrimo rivale del Commodore 64. Rispetto a quest'ultimo aveva due vantaggi: dimensioni compatte e costo contenuto. Ebbe grandi successi in Europa e Gran Bretagna e questo gli valse il titolo di Sir (Knight Bachelor). Clive Sinclair si è cimentato anche in altri settori dell'elettronica, commercializzando a metà anni '80 un veicolo ibrido a tre ruote, il Sinclair C5, antenato delle attuali biciclette con pedalata assistita. Il prodotto non fu capito, troppo pionieristico per l'epoca, e fu un fiasco. Successivamente Sinclair vendette la sua società all'Amstrad.
Il rivale del Commodore aveva 81 anni. È morto Clive Sinclair, l’inventore del computer ZX Spectrum che democratizzò l’informatica. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Settembre 2021. Aveva ideato lo ZX Spectrum, ed è stato uno dei pionieri dell’home computing, democratizzatore dell’informatica. Sir Clive Sinclair, 81 anni, è morto a Londra. È stato un’icona della generazione 8-bit. La sua creazione fu il principale rivale del Commodore 64, che aprì la strada ai pc di massa. A dare la notizia della morte, dopo una lunga malattia, di Sinclair la figlia, Belinda. “Era una persona straordinaria, sempre interessato a tutto”, ha detto Belinda Sinclair al Guardian. E questa curiosità l’aveva espressa cimentandosi anche in altri settori dell’elettronica. A metà anni ’80, per esempio, aveva commercializzato un veicolo ibrido a tre ruote, il Sinclair C5, antenato delle attuali biciclette a pedalata assistita. Una specie di go-kart, del quale aveva previsto di vendere circa 100mila esemplari non andò oltre le 17mila. Un fiasco totale: un prodotto decisamente avanti sui tempi, a batteria, ma anche troppo basso e pericoloso oltre che esposto alle intemperie. Del 1982 invece la sua creazione passata alla storia: lo ZX Spectrum, un milione di esemplari venduti, rivale del Commodore 64. Un anno prima aveva lanciato sul mercato lo ZX 81, un milione di esemplari venduti. Il precedente ZX 80 costava poco più di 100 euro mentre i pc della Apple erano molto più costosi. Quella di Sinclair è stata la prima società a vendere oltre un milione di esemplari. Due le principali differenze tra i modelli 81 e Spectrum: lo ZX Spectrum aveva dimensioni compatte e il suo costo era contenuto. Fu un successo enorme tra Regno Unito ed Europa. E accelerò la rivoluzione dei giochi e della programmazione. Sinclair era nato nel 1940. Aveva fondato a soli 21 anni la Sinclair Radionics. La prima calcolatrice compatta venne lanciata nel 1972, la Sinclair Executive, con dimensioni comparabili a quelle di un attuale smartphone. Successivamente vendette la sua società all’Amstrad. Sinclair venne insignito del titolo di Sir, ovvero di “Knight Bachelor”. È considerato tra gli uomini che hanno democratizzato l’informatica grazie alla calcolatrice tascabile e ai pc portatili e casalinghi.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
· E’ morto l’ex presidente dell’Algeria Abdelaziz Bouteflika.
Algeria, muore l'ex presidente Bouteflika: rimase in carica per 20 anni. La Repubblica il 18 settembre 2021. Aveva 84 anni, era reduce da un grave ictus che lo aveva colpito nel 2013. Due anni fa tentò comunque di ricandidarsi per un quinto mandato, ma venne spinto alle dimissioni dall'esercito dopo sei settimane di proteste di piazza. L'ex presidente algerino Abdelaziz Bouteflika è morto a 84 anni. Lo ha fatto sapere l'ufficio della presidenza in una nota. Debilitato e stanco dopo un grave ictus subito nel 2013, Bouteflika ha rassegnato le dimissioni ad aprile 2019 a seguito delle proteste contro la sua candidatura al quinto mandato presidenziale. Veterano della guerra per l'indipendenza dell'Algeria, l'ex capo di Stato ha governato il paese nordafricano per due decenni, ma negli ultimi anni della sua vita - complici le precarie condizioni di salute - è stato visto raramente in pubblico. Bouteflika è stato presidente per 20 anni prima di essere cacciato da moti di piazza quando ha annunciato di volersi candidare per un quinto mandato. Era nato il 2 marzo 1937 a Oujda, in Marocco, in una famiglia originaria di Tlemcen, in Algeria occidentale. A 19 anni si era unito all'Esercito di liberazione nazionale (Aln), l'ala militare del Fln, che combatteva contro la presenza coloniale francese in Algeria. Nel 1962 era diventato ministro della Gioventù, dello Sport e del Turismo nel primo governo del presidente Ahmed Ben Bella. Poi è stato per 16 anni ministro degli Esteri (nei governi Ben Bella e Boumèdiène). Tra il 1981 e il 1987 venne rimosso dal potere e fini in esilio prima a Dubai e a Ginevra. Nel 1999 venne eletto presidente della Repubblica, dopo che tutti i suoi oppositori si erano ritirati, denunciando le condizioni in cui era stato organizzato il voto. Dopo pochi mesi fece approvare con un referendum l'amnistia degli islamisti dopo la guerra civile degli anni 90. Venne poi rieletto presidente nel 2004 e anche nel 2009 e nel 2014, grazie a una revisione della Costituzione che non limita più a due il numero massimo dei mandati presidenziali. Nel 2005 iniziarono i primi problemi di salute, con un'emorragia gastrica che costrinse Bouteflika a un ricoverò d'urgenza a Parigi. Otto anni più tardi venne colpito da un ictus, che gli lasciò gravi postumi. Il 2 aprile del 2019 si dimise da presidente, spinto dal capo dell'esercito, dopo sei settimane di mobilitazione massiccia degli "Hirak" contro il suo tentativo di correre per un quinto mandato. Mai un presidente algerino è stato al potere così a lungo. Bouteflika prese il timone dell'Algeria nel 1999, coronato da un'immagine di salvatore in un Paese lacerato dalla guerra civile. Vent'anni dopo fu spodestato spietatamente dall'esercito, il pilastro del regime, sotto la pressione di un movimento di protesta senza precedenti.
· È morto l’editore Tullio Pironti.
Aveva 84 anni. È morto Tullio Pironti, l’editore pugile che sfidava i grandi editori: portò in Italia DeLillo e Breat Easton Ellis. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Settembre 2021. Se ci fosse stato qualcuno come Clint Eastwood da queste parti la sua vita sarebbe diventata un film. E non è detto che questo non possa accadere in futuro. È morto a Napoli Tullio Pironti, editore tra i più coraggiosi e innovativi della sua generazione ed ex pugile. Aveva 84 anni. Una vita avventurosa, il suo negozio a Piazza Dante, nel centro storico della città, alle porte di quella via Port’Alba conosciuta come la “strada dei libri”. Libri e Cazzotti, la sua vita, come dal titolo dell’autobiografia a cura di Mimmo Carratelli, con prefazione di Fernanda Pivano. “Ci fosse un Clint Eastwood nei paraggi, ne farebbe subito un film, di quelli che piacciono a lui: con gli eroi controvoglia, con la guerra in mezzo, con la voglia di riscatto, con i perdenti che però sanno anche vincere”, scriveva a proposito Emanuela Audisio. Lo piangono in tanti in queste ore: napoletani e lettori. Era un personaggio di altri tempi, un uomo che aveva tanto e vissuto e che aveva incrociato e collaborato con grandi e notevoli personalità. Era cresciuto da pugile; aveva visto e vissuto la guerra; è salito sul ring per 50 incontri fino a essere convocato anche nella Nazionale italiana di pugilato, categoria pesi welter; ha sfidato e strappato titoli ai giganti dell’editoria. È stato stroncato da un infarto, ieri sera, dopo aver accusato un po’ di affaticamento in serata. Niente di grave secondo il medico chiamato. Era nato nel cuore di Napoli, a via Tribunali. Aveva cominciato nel 1972 la sua attività editoriale. Era figlio di una famiglia di librai che avevano cominciato la loro attività dopo la persecuzione subìta nel Regno Borbonico da Michele Pironti, magistrato, imprigionato con Luigi Settembrini, Carlo Poerio e altri patrioti. L’avo Pironti divenne così ministro della Giustizia dopo l’Unità d’Italia. Tullio continuò l’attività del padre e del nonno. Da editore ha fatto conoscere in Italia scrittori e personaggi chiave della letteratura: da Don DeLillo a Bret Easton Ellis, da Raymond Carver al Premio Nobel egiziano Nagib Mahfuz. Particolare eco riscuotono tuttora i libri-reportage di David Yallop, John Cornwell, Philipp Willan, Leopold Ledl, Richard Hammer, sulle clamorose vicende finanziarie del Vaticano e sulla morte di Papa Luciani. Da Il Camorrista, scritto da Giuseppe Marazzo, venne tratto il famoso film omonimo sul boss di Camorra, il “Professore” Raffaele Cutolo, di Giuseppe Tornatore. Un successo enorme. Pironti ha pubblicato anche Dopo Hemingway, una serie di saggi sulla letteratura nordamericana accompagnata dalla biografia della famosa scrittrice e traduttrice che come nessuno raccontò gli scrittori americani. Sempre sua una delle prime pubblicazioni sul fenomeno dei cantanti neomelodici, a cura di Federico Vacalebre e con un’introduzione di Pino Daniele. Di quest’ultimo aveva pubblicato l’unico libro. Storie e poesie di un mascalzone latino con pensieri, confessioni e testi inediti. La sua collaborazione con Francesco Durante, professore universitario e giornalista, fece la fortuna della casa editrice. Solo qualche giorno fa aveva firmato con Bompiani per la ri-pubblicazione della sua autobiografia Libri e cazzotti: aveva ceduto dopo anni di resistenze a pubblicare per una grande casa. Per i suoi 80 anni organizzò una festa in Piazza Dante, proprio presso la sua libreria, regalando libri. Centinaia i lettori e i napoletani che lo festeggiarono. Pironti voleva pubblicare un catalogo storico con tutti i titoli pubblicati, una maniera per lasciare un’ulteriore traccia della sua attività impavida: la concorrenza che la sua piccola casa editrice era riuscita a opporre a giganti dell’editoria nazionale. I funerali si terranno oggi alle 16:00 nella chiesa di Santa Maria di Caravaggio, a Piazza Dante.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport il 17 settembre 2021. Aveva così tante rughe che ogni volta mi stancavo di contarle. E allora ho cominciato a fotografarle. Lo scugnizzo mitologico, metà pugile e metà editore, aveva messo su a sua insaputa 84 anni e se ne fregava di dover morire, anche se considerava l’eventualità della sua fine qualcosa a metà tra una stranezza stupefacente e una rottura di coglioni. Negli ultimi mesi si preparava a lasciarci. S’era fatto evanescente e smemorato, i suoi bellissimi occhi perdevano colore, e i suoi zigomi, quando lo baciavi, erano freddi come il marmo. Stava già morendo, con l’eleganza che gli era congenita. Il poco fiato che gli restava era per fumare, per tossire e per imprecare contro chi lo batteva e lo sfotteva a scacchi. Non più il suo grande amico, l’avvocato Sergio, un mucchietto d’ossa geniale, la barba che pesava più delle ossa, morto un anno prima; e non ancora me, la riserva dell’avvocato, al tavolino quadrato, come un ring, pieno di cicche della sua celebre libreria a piazza Dante, dov’è transitato almeno una volta tutto il mondo. Amici, intellettuali, guappi e postulanti. Se Jean Gabin è il porto delle nebbie, Tullio Pironti è piazza Dante, partorito dalle viscere della città borbonica, i Tribunali, Forcella, Spaccanapoli. Quei vicoli. Gli stavano addosso come una seconda pelle. Era un uomo dolcissimo e gli volevo bene. Anche quando lo scugnizzo che era in lui imbrogliava le carte e le regine, più che mai gli voglio bene ora che sta dentro le sue spoglie mortali e il suo maglione dolce vita, e proprio non ce la fa ad accendersi l’ultima sigaretta. Spento per sempre. Le mani. Che uscivano dalla tasca della giacca o del cappotto col bavero alzato solo per l’essenziale, accendere una Pall Mall o mostrare come si proteggeva da pugile negli anni ’50. La destra sulla mascella destra, la sinistra sul mento e la spalla a guardia della mascella sinistra. “Come una testuggine”, mi spiegava. “La mia boxe? Una sintesi di fifa e di talento”. Scappava e colpiva. Nella vita, invece, amava l’azzardo. Quella volta a Venezia che quasi picchiò il croupier per aver anticipato il Rien ne va plus. Audace, quasi pazzo, da editore. “Un grande pugile mancato e un grande editore mancato”, si definisce lui nella sua autobiografia, Libri e cazzotti, due generi in via di estinzione. Libri tanti, cazzotti pochi. I suoi racconti. Di quando, da dilettante, insieme a Nino Benvenuti era una promessa della boxe italiana. Di quando stese Tongo Troianovic, una montagna di zingaro. Il ring a Capua nel loro campo profughi. Un inferno. “Avevo una tale paura che lo colpii con una violenza inaudita, indietreggiando. Poi lui morì in una rapina a New York”. O quando salivano volontari, lui e i suoi amici, sulle navi americane ormeggiate nel golfo di Napoli per svagare i marines su ring improvvisati. “Ci spruzzavano di ddt per disinfettarci. Ci facevamo menare ma scendevamo dalle navi con le tasche piene di whisky, sigarette e cioccolata”. E quella volta che chiuse con la boxe. “L’avevo promesso a me stesso, avrei smesso al primo kappaò serio. Si chiamava Zara, un torinese che menava come un boscaiolo. Il suo destro al mento mi fulminò”. La prima volta, quindici anni fa. Volevo conoscerlo. La scusa fu un’intervista per “La Stampa”. Finiva così: “Sì, mio padre ha vissuto 102 anni. Ma lui non beveva, non fumava e fotteva. Io sono l’opposto, bevo, fumo e non fotto”. Da allora, prendevo il treno per Napoli solo per andare a trovarlo. E incassare, come saluto, i suoi montanti destri. Amabile nella sua vanità. L’ultima volta. Antonio Franchini l’aveva reso felice. “Pubblicherà la mia biografia per la Bompiani”. Leggetela, quando sarà. Non perdete, stolti se lo fate, l’occasione di conoscere un grande uomo. Le sue storie di adolescente nei bordelli di Mezzocannone. I suoi kappaò vincenti da editore. Ha fatto conoscere in Italia Raymond Carver e Don DeLillo. Con il grande Joe Marrazzo ha pubblicato libri sulla camorra. I diritti di Bret Easton Ellis li vinse in un’asta telefonica, battendo il gigante Mondadori. “Mi spiegarono che l’unico modo per spuntarla era offrire più di 50 milioni, oltre i quali le grandi case editrici dovevano convocare il consiglio di amministrazione”. Vinse, offrendo 55 milioni che non aveva. Fernanda Pivano lo adorava. Federico Fellini voleva pubblicare con lui i suoi ritratti di donne nude. “Seppi poi che fu Giulietta Masina a mettersi di traverso. In quell’album c’erano tutte le donne che Fellini aveva desiderato e amato, tutte tranne che lei”. Avevamo deciso con Luciano Spalletti di andare a trovarlo nei prossimi giorni. La storia di Pironti lo aveva incuriosito. Sarebbe stata una grande sorpresa. Non andrò mai più a piazza Dante.
Il regista e quel progetto con l’editore napoletano. L’ultimo desiderio di Tullio Pironti, Francesco Patierno: “Quando stavamo facendo un film sulla sua vita”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Settembre 2021. Francesco Patierno sta sfogliando una certa copia di Meno di Zero: editore Tullio Pironti e traduzione di Francesco Durante, la prima in italiano di Breat Easton Ellis. Del 1986. Patierno si è avvicinato più di chiunque altro a esaudire l’ultimo desiderio dell’editore napoletano, morto lo scorso mercoledì 15 settembre a 84 anni: un film sulla sua vita. “Sì, forse era il suo ultimo desiderio. Parliamo di una decina di anni fa; c’era stato un riavvicinamento di recente, se n’era riparlato e io avevo riletto il libro e riscoperto perché quel progetto mi aveva così entusiasmato”. Almeno una manciata di cose legano Patierno a Pironti: Napoli, la passione per la letteratura, il pugilato – ma senza i 50 incontri dell’editore boxeur -, un’amicizia. Che Pironti lo desiderasse quel film lo dicono tutti, e tutti ripetono che la sua storia lo avrebbe meritato eccome. “Ci fosse un Clint Eastwood nei paraggi, ne farebbe subito un film”, aveva riassunto Emanuela Audisio quando il pugile-libraio pubblicò la sua biografia, Libri e Cazzotti, a cura del giornalista Domenico Carratelli – e che con l’interessamento del professore universitario Marco Ottaiano sarà la ri-pubblicata da Bompiani. Pironti è stato scugnizzo, figlio della guerra, venditore ambulante di castagnaccio, pugile peso welter convocato anche in Nazionale, tombeur des femmes, libraio secondo tradizione di famiglia, editore incendiario e a tratti spericolato. Ha pubblicato in Italia autori e testi ormai di culto (Don DeLillo, Raymond Carver, Ellis, Nagib Mahfuz tra gli altri, Il Camorrista di Joe Marrazzo) e sfidato i grandi editori. Il suo catalogo raccontava Napoli e aveva una spontanea vocazione internazionale. Lui era magnetico, carismatico: Paul Newman di via Tribunali, quella faccia un po’ così e la sigaretta perennemente appesa, il “Principe di Piazza Dante” nel suo ambiente, sempre in libreria. Sognava anche una montagna di libri, al centro di una piazza, dalla quale ognuno avrebbe potuto strappare via un titolo. Ieri lo hanno salutato centinaia di persone, alla sua libreria, e dentro e fuori la Chiesa di Santa Maria di Caravaggio. Quel film però non si è mai fatto. “Ho avuto i diritti per due anni – dice Patierno – avevo scritto un trattamento ma poi l’opzione è scaduta. Considero la sua storia ancora meritevole, una di quelle dove la realtà supera la fantasia. Certo che lo riprenderei in mano”. Quando Pironti ha pubblicato Il paradiso al primo piano il suo secondo libro – dove raccontava dei bordelli napoletani del dopoguerra, della sua prima volta con un’“amante-puttana” a 18 anni, del poker, di un “complotto” sul suicidio del matematico Renato Caccioppoli – il regista scrisse la prefazione. Aveva pensato a un film vero e proprio, una fiction, non un documentario come Napoli ’44 – tratto dal racconto del militare britannico Norman Lewis. “Questo film potrebbero farlo gli americani”. E perché? “Diciamo che è una storia, che va dagli anni della guerra fino agli anni ’90 almeno, che mal si adatta a questo mercato. Oggi nel cinema di soldi ne girano pochi. E dopo il covid ancora meno”. Disattenzione, superficialità? “No, non è questo, credo non sia una storia facile, considerando anche gli incassi di oggi e che non si capisce bene cosa succederà nel prossimo futuro. Blockbuster che qualche anno fa avrebbero fatto dieci milioni oggi ne fanno due. Un film su Pironti costerebbe parecchio ma comunque sarebbe una storia da raccontare”. Una serie, quella sarebbe perfetta, per Patierno. “All’epoca pensammo a Giorgio Pasotti nel ruolo del protagonista – e infatti ha pubblicato una foto tipo Le Iene con l’attore, Pironti, Ottaiano – Di certo a Napoli c’è un parco attori fenomenale, una bravura al di sopra della media”. Certe scene, nientedimeno: un incontro di boxe in un campo profughi, amori di bordello e di maitresse, Napoli sotto e dopo le bombe, Licio Gelli e Fernanda Pivano, le aggiudicazioni di certi titoli a bruciare le grandi case editrici che varrebbero da sole un romanzo. Che film.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
L'intervista al regista. “Tullio Pironti era un mito, Napoli raccolga la sua lezione”, il ricordo Giorgio Verdelli. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Settembre 2021. Quando si dice: una faccia da film, una storia da film. Tullio Pironti, sigaretta appesa alle labbra e quella faccia un po’ così, Paul Newman di via Tribunali; si poteva trovarlo lì, in mezzo alla porta della sua libreria, o a giocare a scacchi dentro oppure dietro il banco. Era il “Principe di Piazza Dante”. “Lui era il Principe, Guida era il Re. Cose da librai, degli anni ’70, alla via dei libri, Port’Alba”, ricorda il regista napoletano Giorgio Verdelli. “Era un napoletano antico. Non posso dire di essere stato un amico stretto: non lo sentivo ogni settimana ma ogni volta che tornavo a Napoli cercavo di passare, di andarlo a trovare. E lui era sempre lì: il Principe di Piazza Dante”. Pironti è morto ieri, a 84 anni. È stato scugnizzo, figlio della guerra, venditore ambulante di castagnaccio, pugile peso welter convocato anche in Nazionale, tombeur des femmes, libraio secondo tradizione di famiglia, editore competitivo e a tratti spericolato. Ha pubblicato in Italia autori ormai di culto come Don DeLillo, Raymond Carver, Bret Easton Ellis, Nagib Mahfuz. Ha surclassato Grandi Case editrici soffiando loro numerosi best-sellers. È stato stroncato ieri sera da un infarto. Era amatissimo, popolare, forse più di quanto potesse pensare visto il cordoglio espresso in queste ore da napoletani ed editori e lettori di tutta Italia. Verdelli è stato “guaglione” di Pironti, per un periodo, quando era ragazzo. Quando Napoli non doveva sforzarsi di sembrare una città europea e le veniva naturale essere una metropoli internazionale: c’era Diego Armando Maradona e il suo Napoli, il neapolitan power e Massimo Troisi, il campione del mondo e oro olimpico – a proposito di pugilato – Patrizio Oliva e la galleria di Lucio Amelio. E l’editore, in sodalizio con il professore, giornalista e traduttore Francesco Durante, pubblicava titoli sui neomelodici senza guardarsi sempre l’ombelico e traduceva i fenomeni americani senza essere esterofilo a oltranza. “Ho una malinconia oggi, ma lo ricordo con felicità. Lo ricordo sempre con questo sorriso da ragazzo”, dice Verdelli, ex “guaglione” del libraio-boxeur, fresco fresco dal Festival del Cinema di Venezia dove ha portato Le cose che restano (Sudovest Produzioni, Indigo Film con Rai Cinema, distribuzione Nexo Digital), dedicato a Ezio Bosso. Che le cose restassero era forse l’ultimo pensiero di Pironti: voleva pubblicare un catalogo storico nel quale segnalare tutti i libri di successo che era riuscito a editare. E con l’interessamento dell’amico e professore universitario Marco Ottaiano aveva firmato per la ri-pubblicazione della sua autobiografia, Libri e cazzotti (curata con Domenico Carratelli), con un grande editore, Bompiani. Il regista, a proposito di memoria, ha pubblicato uno scatto spettacolare con Pironti che brinda tra Gigi Proietti e Ben Gazzara.
Ha pubblicato una foto bellissima.
Me la diede lui. Era stata scattata a Piazza Dante, credo in un ristorante, quando uscì il film Il Camorrista ispirata al libro di Joe Marrazzo. Un successo clamoroso, internazionale: Pironti gli diede un anticipo molto corposo, lo aveva conosciuto proprio in Piazza Dante. Aveva il fiuto dei librai che leggono i libri e che stanno a contatto con il pubblico. E mi diede questa foto perché voleva che da Libri e Cazzotti venisse tratto un film.
Voleva che lei facesse quel film?
Mi diceva: “Tu ea fa o’ film mio, perché questi non capiscono niente”. E anche se io mi occupavo di altro quando mi diede una sceneggiatura provai a cercare un contatto, anche con la Rai. Avrei avuto piacere a curargli la colonna sonora. Cercai ma senza successo. Era un mito, una persona piena di positività e di una simpatia eccezionali. Mi mancherà.
Lo conosceva bene?
È stato una presenza costante per 40 anni. Lo avevo conosciuto bene perché ho fatto da lui il “guaglione”. Gli avevo chiesto di pagarmi in libri, che tra l’altro ancora ho. Libri che non erano neanche così facili da trovare. Leggevo e davo un’occhiata a titoli che non avrei mai potuto conoscere altrimenti, uno per tutti: Il popolo del blues di LeRoi Jones.
Che Napoli era quella del Pironti editore?
Quella che giustamente Paolo Sorrentino ha ricordato nel suo film È stata la mano di dio. C’erano molte iniziative, non delle istituzioni – che sono arrivate dopo a mettere il cappello – e c’era la Galleria di Lucio Amelio, la libreria di Tullio Pironti, il Teatro Nuovo, la cineteca Altro di Mario Franco, del City Hall, del Mattino che aveva una pagina culturale effervescente e di Napoli City che richiamava Interview di Andy Warhol. C’erano nuova musica, nuovo teatro, nuova editoria. Era una città con grandi iniziative, faceva tendenza e cultura. E non a caso oggi i principali registi del cinema italiano sono napoletani.
E lei esordiva nel cinema a metà anni ’80 per le colonne sonore di Mi manda Picone e Blues Metropolitano.
Tanto di quello che è stato realizzato in quegli anni è rimasto, è stato riconosciuto. Non conosco tutto ciò che esce da Napoli oggi, ma mi sembra che quando si inaugura un filone viene sfruttato fino all’estremo. Se parte il filone Gomorra – contro il quale non ho nulla in particolare – escono decine di titoli su quella falsariga.
Pironti ha pubblicato la rivista filosofica Metaphoren e libri sui neomelodici, raccolte di poesie spinte in napoletano e grandi della letteratura.
Rappresentava una specie di “terza Napoli”, oltre quella tradizione della canzone classica e il mandolino e quella dei neomelodici e dell’hip hop. Una città all’avanguardia, europea e internazionale. Capace di raccontarsi ma anche di uno sguardo più largo. Io stesso feci da tramite perché pubblicasse Storie e poesie di un mascalzone latino, l’unico libro di Pino Daniele.
E Napoli ha imparato la lezione di Pironti?
Bella domanda, spero di sì, dovremmo chiederlo a chi vive e lavora a Napoli. Credo che qualcosa sia rimasto. A me è servito molto, e a tanti altri in quegli anni. Una volta, anni fa, mi disse: “Verdè, tu devi fare le cose difficili, non devi fare le cose facili”. E questo era, e aveva ragione. Lui certo, può sembrare una frase di circostanza, meritava più quanto ha raccolto. Penso a quel film che desiderava.
Ha dei rimpianti?
L’ultima volta che l’ho visto era al bar, mi invitò a sedermi e mi disse che passavo sempre di fretta. Stupidamente, forse per pigrizia, non ho mai deciso di prendere e intervistarlo e di farmi raccontare la sua storia. Forse anche perché a me sembrava indistruttibile, con quel fisico, sempre in forma, che faceva pensare ci fosse ancora tempo. Emanuela Audisio scrisse che “ci fosse un Clint Eastwood nei paraggi, ne farebbe subito un film”. E tutti lo pensavano e lo ripetevano.
Perché non si è mai riusciti?
Perché c’è disattenzione, i copioni non vengono letti. Quello che faccio io poi me lo produco io, com’è successo anche con il mio film su Pino Daniele. Come mi ha detto una volta Billy August: “Fare un film non è difficile, il difficile è trovare i soldi”. Io mi alzai e lo applaudii.
Un’occasione mancata?
Certo. Un film su Tullio Pironti comunque lo farei anche domani, se avessi i finanziamenti.
E l’attore?
Non saprei. Per gioco potrei dire Spencer Tracy, o ancora meglio Vittorio Mezzogiorno.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Libri, cazzotti e caffè: Napoli piange l'editore Pironti e il maestro della tazzina Fummo. Simone Savoia il 16 Settembre 2021 su Il Giornale. Morti a Napoli l'editore Tullio Pironti e il decano dei baristi Giovanni Fummo. “Penso che si veda che ho fatto il pugile”: così mi disse Tullio Pironti una quindicina di anni fa, quando ebbi occasione di parlargli prima di un’intervista per TeleVomero. La faccia che sembrava una pergamena dove era scritta una vita che era di per se stessa un’opera letteraria. Una storia che la biografia “Libri e cazzotti”, curata dal giornalista Mimmo Carratelli nel 2005, restituisce nelle sue fasi: tante vite in una sola esistenza. Pironti era nel suo regno, la libreria di piazza Dante, Port'Alba, pieno centro di Napoli, inizio del “miglio d’oro” dell’editoria italiana. Tanto per capirci, la storica libreria Guida era una manciata di metri più su. Ieri Pironti se n’è andato a 84 anni, tradito da un cuore che ha pompato sempre al massimo passioni autentiche e totalizzanti: il pugilato, la letteratura e Napoli. Perché uno più napoletano del pugile-editore Pironti è difficile da trovare: venuto al mondo nel 1937 nel cuore storico dei Tribunali, cresciuto tra quei vicoli come tanti scugnizzi della sua generazione, quella che ha attraversato gli anni del secondo dopoguerra, discendente di una famiglia di librai, di artigiani dell’editoria. Tra i suoi avi il patriota irpino anti-borbonico Michele Pironti, che fu prima compagno di cella di Luigi Settembrini e Carlo Poerio e poi ministro della giustizia nel 1869 con il governo del conte Menabrea. Non sembri assolutamente una deminutio l’espressione che usò Indro Montanelli per ricordare un altro grande editore italiano, Valentino Bompiani: artigiano delle lettere sta a indicare una passione civile e l’idea che i libri potessero far progredire le comunità attraverso la curiosità e l’educazione alla lettura. Pironti puntò in epoca insospettabile su alcuni scrittori americani come Breat Easton Ellis e Raymond Carver o sull’egiziano Nagib Mahfuz, premio Nobel per la letteratura nel 1988. Tullio Pironti era diventato una promessa del ring da giovanissimo. Poi le porte scorrevoli della vita lo avevano portato a fondare nel 1972 la casa editrice con il suo nome. La Tullio Pironti Editore avrebbe spaziato dalla saggistica alla narrativa, conquistando tra i suoi aficionados anche personalità come Fernanda Pivano e lanciando giornalisti come Joe Marrazzo (il suo Camorrista del 1983 sul boss Raffaele Cutolo ha segnato un’epoca). Oggi Napoli non piange solo un suo figlio prediletto, ma un cuore pulsante della filiera della cultura di cui la capitale del Mezzogiorno è giustamente orgogliosa e gelosa: case editrici, istituti di studi (filosofia e storia), fondazioni, università (si pensi all’Orientale). Ed è questo patrimonio inestimabile che Napoli dovrà custodire e rinnovare per proiettarsi in una dimensione futura. Altro lutto in un’altra istituzione napoletana: il Gran Caffè Gambrinus di piazza Trieste e Trento, salotto antico della città. Infatti se n’è andato a 76 anni lo storico barista Giovanni Fummo. Aveva iniziato a lavorare nel tempio della tazzina nel 1952, ancora bambino. Da “battente” addetto alla pulitura delle tazzine aveva scalato la piramide gerarchica del bancone fino al ruolo di capo macchine del caffè. Quando aveva tagliato il traguardo delle 12 milioni di tazzine servite al Gambrinus, avevano organizzato una festa in suo onore. Tra i suoi clienti 4 Presidenti della Repubblica (Scalfaro, Cossiga, Ciampi e Napolitano) e il presidente USA Bill Clinton durante il G7 del 1994. Ma Fummo era lì anche a ricevere il saluto di Papa Giovanni Paolo II che sostò sulla “papamobile” per alcuni minuti proprio davanti al Gambrinus durante la visita pastorale a Napoli nel 1990. Fummo ha tramandato la sua arte di maestro della tazzina a generazioni di baristi. Oggi è un giorno di lutto. Ma se c’è una cosa che Napoli possiede geneticamente è la capacità di elaborare la sua tradizione di continuo, senza perderla di vista. E, statene certi, ci saranno altri cazzotti, altri libri, altri caffè.
Simone Savoia. Napoletano, ma anche apollosano caudino, ma anche un pochettino piemontese. Annata 1976. Quotidiani e tv locali a Napoli, poi a Milano. Dal 2008 collaboratore di Videonews Mediaset, con Mattino Cinque e Dritto&Rovescio. Uditore enologico con i degustatori dell'Associazione Italiana Sommelier, munito di videocamera e microfono per vigneti e cantine d'Italia. Tifoso del Napoli e della Polisportiva Apollosa 1981. In emotiva partecipazione anche per il Benevento Calcio. Troppo ottimista per essere pessimista. Troppo pessimista per essere ottimista
Riccardo De Palo per "il Messaggero" il 16 settembre 2021. Tullio Pironti ebbe il fiuto di lanciare per primo, in Italia, scrittori del calibro di Bret Easton Ellis, Don DeLillo, Raymond Carver, il Premio Nobel egiziano Naghib Mahfuz. L'editore, che si è spento ieri all'età di 84 anni, era uno dei simboli di piazza Dante, a Napoli, dove sorgevano la libreria e la sede della casa editrice. Come non ricordare, nel 1986, la prima edizione di Meno di zero di un ancora giovanissimo Ellis, con la stessa copertina (molto punk) dell'edizione americana di Simon & Schuster, e l'anno seguente (su consiglio di Fernanda Pivano) la pubblicazione di Rumore bianco, di DeLillo, stampato in trentamila copie, e forse più? Erano anni in cui gli autori stranieri emergenti ancora facevano sensazione, e ogni nuova tendenza finiva subito in classifica. L'intuito fu geniale.
LA NAZIONALE Pironti era stato, in gioventù, un discreto pugile, convocato anche dalla nazionale italiana: sono almeno cinquanta gli incontri da lui disputati nella sua categoria, i pesi welter. Ma l'editoria ce l'aveva nel sangue. I suoi avi, come raccontò lui stesso, iniziarono l'attività, finché suo padre, Antonio, gli lasciò la libreria. Il resto è storia. Pironti decise di lanciare una raccolta di poesie erotiche napoletane, pubblicate sotto falso nome. Il grande balzo arrivò nel 1972, con il libro-reportage La lunga notte dei Fedayn scritto dal giornalista Domenico Carratelli all'indomani della strage di atleti israeliani durante i Giochi di Monaco. Da allora, Pironti non si è più fermato. Tra gli autori italiani, pubblicò anche Il camorrista, il libro sul bandito Raffaele Cutolo, di Giuseppe Marrazzo. Nella sua autobiografia Libri e cazzotti raccontò una vita affrontata con uno stile tra il corsaro e il paladino. Gli anni da scugnizzo, la boxe, l'editoria. L'uomo che pubblicava romanzi meravigliosi era, a sua volta, un romanzo straordinario. Aveva un carattere da guascone, ma allo stesso tempo un po' timido. Pironti raccontava in quel libro i tram con gli scugnizzi, i venditori ambulanti come l'avvenente Maria a longa, che vendeva sigarette di contrabbando, sciolte. «Nella scollatura generosa - ricordava Pironti - con miracoli di equilibrio poneva e tratteneva una decina di sigarette». Le chiamavano «le sigarette cu' o sfizio».
GLI AMICI C'era, anche in quel libro, una prefazione di Fernanda Pivano, che l'amava di un amore totalmente ricambiato: «Un'amicizia più dolce e preziosa non l'ho mai avuta», confessava l'editore. Nanda fu uno dei suoi numi tutelari, uno dei suoi più preziosi consiglieri. La sua è stata una vita di successi, ma anche di cazzotti dolorosi, intesi come flop, grane giudiziarie. Pironti fu un protagonista dell'editoria meridionale, che ebbe sempre la sensazione di «avere mancato l'ultimo traguardo».
Morto Art Metrano, il tenente Mauser di Scuola di Polizia. Roberta Damiata il 14 Settembre 2021 su Il Giornale. È morto l'8 settembre, ma la notizia è stata data solo oggi, l'attore Arthur Metrano. Apparso in più di 120 programmi televisivi e film, era noto per il suo ruolo del tenente Mauser, nelle pellicole cult di Scuola di Polizia. Se n’è andato per cause naturali nella sua casa ad Aventura in Florida, l’attore 84enne Art Metrano, Indimenticabile tenente Mauser dei film cult di Scuola di Polizia. A dare la notizia al The Hollywood Report, il figlio Harry Metrano. I fan dei film piangono quindi la scomparsa di un’altra delle star delle pellicole, dopo che a gennaio scorso era morta all’età di 73 anni Marion Ramsey, l’agente Laverne Hooks. Di origini turche ma nato a NewYork, Arthur (Art per tutti) aveva iniziato la carriera cinematografica come comparsa tv. Divenne famoso nel 1970 con il The Tonight Show di Johnny Carson. Nel corso degli anni recitò anche in Starsky & Hutch, L’incredibile Hulk, nello spin-off di Happy Days, Jenny e Chachi, e nel film Non si uccidono così anche i cavalli? Fece anche un’apparizione in Avvocati a Los Angeles. Nel 1989 subì un gravissimo incidente cadendo dalle scale, che lo lasciò sulla sedia a rotelle per molto tempo. Nonostante questo e con grande forza, continuò a lavorare. Diventò un vero successo lo spettacolo cui raccontò in maniera leggera il suo terribile incidente e la sua lunga riabilitazione. Fu però il suo ruolo del tenente Mauser a regalargli la fama in Scuola di polizia 2: Prima missione e Scuola di polizia 3: Tutto da rifare, dove era il bersaglio preferito degli scherzi dell’agente di polizia Carey Mahoney (Steve Guttenberg). Nel 2001 decise di lasciare per sempre le scene, e negli ultimi anni si era ritirato in Florida insieme alla sua seconda moglie, l’ex tennista Jamie Golder, aprendo una caffetteria sulla spiaggia a Hollywood. Commovente il ricordo del figlio: “È con il cuore pesante che scrivo questa didascalia. Ho perso il mio migliore amico, il mio mentore, mio padre. Era e sarà sempre l’uomo più duro che conosca. Non ho mai incontrato qualcuno che abbia superato più avversità di lui. Ha combattuto e vinto così tanto negli anni che l’ho sempre considerato indistruttibile, ma la verità è che non viviamo per sempre sulla terra, ma lo spirito di una persona può vivere per sempre dentro di te. Papà, farai sempre parte di me e io continueremo a vivere la tua eredità”
Roberta Damiata. Sono nata a Palermo ma Roma mi ha adottato da piccola. Ho iniziato a scrivere mentre andavo ancora al liceo perché adoravo la British Invasion. Mi sono poi trasferita a Londra e da lì ho scritto di musica per vari anni. Sono tornata in Italia per dirigere un teen magazine e un paio di testate gossip. Amo la cronaca nera, il gossip, raccontare i personaggi e guardare
· È morto il terrorista Abimael Guzmán.
"Responsabile della morte di 70mila persone". È morto Abimael Guzmán, il fondatore e leader del gruppo terroristico peruviano “Sendero Luminoso”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Settembre 2021. Aveva studiato filosofia ed era diventato professore ma una serie di viaggi in Cina gli cambiarono la vita. Abimael Guzmán tornò in Perù e fondò il Partito Comunista del Perù, Sendero Luminioso, del quale divenne leader incontrastato. La Commissione per la verità e la riconciliazione peruviana lo ha considerato responsabile morale e materiale della morte di circa 70mila persone tra il 1980 e il 2000. Il “Camarada Gonzalo” è morto stamattina, a 86 anni, a 29 dalla sua cattura. “Il leader terrorista Abimael Guzman, responsabile della perdita di innumerevoli vite dei nostri compatrioti, è morto – ha scritto il Presidente del Perù Pedro Castillo su Twitter – La nostra posizione di condanna del terrorismo è ferma e incrollabile. Solo in democrazia costruiremo un Perù di giustizia e sviluppo per il nostro popolo”. Il leader della guerriglia era stato arrestato il 12 settembre 1992. Fu condannato all’ergastolo per terrorismo ed era rinchiuso nella prigione di massima sicurezza nella base navale di El Callao, alla periferia di Lima. “Il dottor Abimael Guzmán è morto, la Marina ha informato sua moglie Elena Yparragurre”, ha riferito ai media peruviani il suo avvocato Alfredo Crespo. Era stata avanzata negli ultimi anni la proposta di perdonare e liberare il “Camarada” con altri leader di Sendero Luminoso; un’idea che non aveva mai trovato credito presso l’opinione pubblica.
Guzmán era nato a Mollendo, nel dipartimento di Arequipa, il 3 dicembre 1934. Aveva studiato filosofia in gioventù fino a diventare professore. Durante alcuni viaggi in Cina l’illuminazione e la fondazione di Sendero Luminoso, il Partito Comunista del Perù, nel 1970. A ispirarlo anche le idee dei Khmer Rossi della Cambogia. Era convinto di poter portare l’ideologia maoista nel Paese sudamericano attraverso una lotta di classe violenta e sanguinaria. A partire dal 1980 il Paese cadde in un vortice di violenza: sequestri, rapimenti, uccisioni, esecuzioni, attentati esplosivi. E Guzman era diventato l’uomo più ricercato del Perù. La condanna all’ergastolo arrivò nel 2006. Non meglio specificate “complicazioni di salute” hanno messo fine alla sua vita, proprio alla vigilia del giorno in cui, 29 anni fa, fu catturato. Il leader “senderista” aveva comunque sofferto ed era stato ricoverato in ospedale e dimesso lo scorso agosto. Le sue condizioni sarebbero peggiorate negli ultimi due giorni, secondo quanto spiegato alla radio Rpp da Susana Silva, capo del sistema carcerario peruviano. Per qualche tempo il “Camarada” aveva anche rifiutato il cibo.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Dal corriere.it il 12 settembre 2021. È morto a 86 anni Abimael Guzmán, storico leader della guerriglia di ispirazione maoista Sendero Luminoso, che negli anni Settanta e Ottanta condusse una sanguinaria campagna terroristica contro il governo peruviano: arrestato nel 1992, «Camarada Gonzalo», come era noto all’epoca, fu condannato all’ergastolo per terrorismo ed è morto in carcere l’11 settembre. «Il dottor Abimael Guzmán è morto, la Marina ha informato sua moglie Elena Yparragurre», ha detto il suo avvocato Alfredo Crespo ai media peruviani. Rinchiuso nella prigione della base navale di El Callao, alla periferia di Lima, il 13 luglio era stato ricoverato in ospedale e dimesso ad agosto: le condizioni di Guzmán - che aveva anche rifiutato il cibo per un breve periodo - erano peggiorate negli ultimi due giorni, ha spiegato alla radio Rpp Susana Silva, capo del sistema carcerario peruviano, specificando che proprio sabato erano previsti nuovi trattamenti medici. Nato a Mollendo, nel dipartimento di Arequipa, il 3 dicembre 1934, Guzmán studiò in gioventù filosofia fino a diventare professore, ma nel 1970 - dopo alcuni viaggi in Cina - fondò il Partito comunista del Perù, Sendero Luminoso, di cui divenne leader incontrastato. Deciso a portare l’ideologia maoista in Perù attraverso una violenta e sanguinaria lotta di classe che lanciò nel 1980, per molti anni è stato l’uomo più ricercato del Perù: secondo la Commissione per la verità e la riconciliazione peruviana, è considerato responsabile morale e materiale della morte di circa 70 mila persone fra il 1980 e il 2000, e questo ha motivato la condanna all’ergastolo per terrorismo, dopo la cattura avvenuta il 12 settembre 1992. Il decesso, secondo un comunicato ufficiale, è avvenuto oggi alle 6,40 del mattino, alla vigilia del 29esimo anniversario del suo arresto. Di recente, in vari settori di Sendero Luminoso era stata avanzata l’idea del perdono e della liberazione di Guzmán e degli altri leader «senderisti», ma la proposta non era mai stata raccolta con entusiasmo dall’opinione pubblica o dai settori politici. Nel giorno del decesso di Guzmán, il presidente del Perù Pedro Castillo colto l’occasione per esprimere una ferma condanna del terrorismo, dopo che nelle scorse settimane l’opposizione di destra aveva ripetutamente attaccato ministri e personalità del suo partito Peru Libre insinuando passate complicità con Sendero Luminoso. «Il leader terrorista Abimael Guzmán, responsabile della perdita di innumerevoli vite dei nostri compatrioti, è morto», ha scritto su Twitter Castillo. «La nostra posizione di condanna del terrorismo è ferma e incrollabile. Solo in democrazia - ha concluso - costruiremo un Perù di giustizia e sviluppo per il nostro popolo».
· E’ morto l’attore Carlo Alighiero.
“Addio, Carlo”. Lutto nel cinema, nella tv e nel teatro: l’attore italiano si è spento dopo una breve malattia. Caffeinamagazine.it il 13/9/2021. Lutto nel mondo del cinema, della televisione e del teatro. È morto all’età di 94 anni Carlo Alighiero. L’artista si è spento l’11 settembre dopo una breve malattia, ma la notizia viene a galla soltanto adesso. Alighiero lascia sua moglie Elena Cotta dopo un amore lungo 70 anni. L’artista debuttò in teatro con lo stabile di Padova nel ’52 con un classico, “L’Agamennone” di Eschilo regia di Gianfranco De Bosio e subito dopo nell’”Amleto” di Vittorio Gassman. La tv lo strappò al teatro per un breve periodo, ma l’amore per il palcoscenico e la vocazione per la regia lo riportarono presto dietro le quinte, frequentando il corso di regia di Orazio Costa all’Accademia d’Arte Drammatica. Tra gli insegnanti, oltre a Costa, anche Sergio Tofano, Wanda Capodaglio, Vittorio Gassman e Silvio D’Amico. I compagni di accademia di Carlo Alighiero erano Monica Vitti, Luca Ronconi, Glauco Mauri, Luigi Vannucchi, Ileana Ghione, Renato Mainardi del quale Alighiero produsse e interpretò con Elena la commedia “Per una giovinetta che nessuno piange” al Teatro Eliseo di Roma, regia di Arnoldo Foà. Carlo Alighiero, però, non lasciò totalmente andare la televisione. Il debutto è subito nel 1954 per la regia di Alessandro Brissoni con Albertazzi e De Carmine. Lavora poi in “Maigret” con Gino Cervi e con Andrea Camilleri, Daniele Danza, Silverio Blasi, Morandi, Anton Giulio Majano, Giuseppe Fina. La grande popolarità di Carlo Alighiero arriva quindi negli anni ’60 quando interpreta il ruolo di Ubaldo Lay, il Tenente Sheridan di “Giallo Club”. La lunga carriera non può non toccare il cinema, soprattutto negli anni Settanta. Alighiero lavora al fianco di Dario Argento, Sergio Martino, Damiano Damiani e tanti altri. Ma come dimenticare i radiodrammi di Carlo Alighiero che fecero epoca, e nel doppiaggio, dove, per scelta stessa dell’attore, dà voce ad Antony Quinn, senza dimenticare la voce narrante di Omero dell’Odissea di Franco Rossi. I funerali si terranno martedì 14 settembre alle 11.
È morto Carlo Alighiero, protagonista sul palco, al cinema e in tv. Rodolfo di Giammarco su La Repubblica il 12 settembre 2021. Attore, doppiatore e regista, aveva 94 anni. Una carriera lunga 70 anni condivisa sul palco con sua moglie Elena Cotta. Carlo Alighiero ha concluso 94 anni di vita laboriosissima, 70 anni di splendido sodalizio amoroso e quindi professionale con Elena Cotta, 67 anni di popolare carriera (interrotta dall'arrivo del Covid) in palcoscenico, in tv e in cinema, e lascia una rispettabile testimonianza di passione e fedeltà spese per la tradizione del repertorio italiano e straniero, affermando l'iniziativa d'una duratura compagnia privata, non senza la lunga direzione artistica d'una sede di spettacoli che è stato il Teatro Manzoni di Roma. È scomparso dopo una breve malattia, questo costruttore di storie, di modelli, di culture, di stretti rapporti con un pubblico desideroso di scoprire autori moderni, nuove commedie, aggiornati meccanismi del divertimento e della riflessione sociale. Marchigiano, nato nel 1927 a Ostria, dopo aver frequentato l'Accademia di Belle Arti di Brera e l'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica a Roma (dove insegnavano Orazio Costa e Sergio Tofano), Alighiero aveva debuttato in teatro nel 1952 allo Stabile di Padova con un classico, una tragedia, Agamennone di Eschilo, sotto la guida di Giancarlo De Bosio, e fu subito dopo scritturato da Vittorio Gassman in Amleto. Poi lavorò nelle file della Compagnia dei Giovani, allo Stabile di Trieste, e con Salvo Randone allo Stabile di Bari. Negli anni Settanta mise a segno il progetto di una formazione teatrale indipendente, in binomio con Elena Cotta conosciuta già a Milano nel 1949 (il matrimonio regalerà loro due figlie, Barbara e Olivia), e la loro ditta sperimenterà drammaturgie problematiche e cordiali o riproporrà testi già affermati ma rispondenti ai costumi che vanno cambiando. La Alighiero-Cotta realizzò tra l'altro al teatro Eliseo, con la regia di Arnoldo Foà, Per una giovinetta che nessuno piange (Premio Idi 1965) di Renato Mainardi, che era stato compagno d'Accademia di Alighiero. I due attori uniti dalla scena e dalla vita, inclini a spettacoli di contenuto e di temperamento piacevole, non fecero a meno di un Edipo di Seneca e di un Amleto di Riccardo Bacchelli, dove il ruolo del protagonista toccò riuscitamente a Elena Cotta, con messinscena del marito Carlo. Entrambi dettero il meglio di loro, nel 1986, per festeggiare l'avvio delle programmazioni del Manzoni romano con Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni, un'impresa che conobbe tournée in Cina, e in Russia fino alla Siberia. Noi ricordiamo poi le molte, tante, curiose puntate della compagnia nei filoni del teatro contemporaneo nostro o estero, una dimestichezza col sorriso serio o con la drammaticità ridicola che ha alimentato il gradimento e l'affiliazione di platee borghesi o intellettuali bisognose di un relax intelligente. Poi non va dimenticato che Carlo Alighiero era dotato di mezzi attoriali di sana e paziente comunicazione, ereditata dal teatro all'antica italiana rivisitato in tempi velocemente in evoluzione. Lui entrò nel cuore e nelle orecchie di un vasto pubblico televisivo già come voce narrante di Omero nello sceneggiato Odissea di Franco Rossi, era apparso in Maigret con Gino Cervi, e aveva collezionato una serie di affacci tv con Camilleri, Blasi, Majano. Alcuni ancora lo rammentano nel ruolo di assistente di Ubaldo Lay Tenente Sheridan in Giallo Club. E poi c'è il cinema, con le sue partecipazioni in film di Dario Argento, Damiano Damiani, Sergio Martino, Lucio Fulci. E anche i suoi doppiaggi sono stati di indimenticabile voce, come quando fu scelto dallo stesso Anthony Quinn per riprodurlo in italiano. Aggiungeremmo che Carlo Alighiero era anche un uomo di grande gentilezza umana, alla luce degli incontri che si avevano con lui, per festeggiamenti di exploit teatrali, o per omaggi alla dolce, sempre associata Elena Cotta. I funerali si terranno martedì 14 alle ore 11, nella Chiesa di San Francesco a Ripa, nella sua amata Trastevere.
Marco Giusti per Dagospia il 13 settembre 2021. I fan della vecchia tv e degli sceneggiati lo ricorderanno sempre a fianco del Tenente Sheridan come il fedelissimo sergente Steve Howard nelle prime serie di gialli di successo della Rai, come “Giallo Club” e “Il ritorno del Tenente Sheridan” col mitico Ubaldo Lay. Ma Carlo Alighiero, che si è spento a Roma a 95 anni, è stato attore di teatro, di tv e di cinema, attivissimo, e grazie alla sua voce profonda e all’eleganza in scena, assolutamente inconfondibile. Assieme alla moglie, Elena Cotta, non solo ha fatto anni e anni di teatro, ma hanno anche recitato assieme in un vecchio film diretto da Tanio Boccia, “Arriva la banda”, nel 1959, quando erano già marito e moglie da qualche anno. Carlo Alighiero, nato a Ostra, nelle Marche, nel 1927, studia a Brera, alla Bocconi, deciso a fare altro, quando entra alla Scuola d’Arte Drammatica a Roma e segue le lezioni di maestri del tempo come Sergio Tofano, Wanda Capofaglio e Silvio D’Amico. Ancor giovanissimo lo troviamo attore nel film “Le signorine delle 04” di Gianni Franciolini nel 1955. Ma sembra più attratto dalla tv dei primissimi anni, “Io sono Gionata Scrivener”, “Il romanzo di un maestro” e diventa presto una presenza costante degli sceneggiati televisivi. In qualche modo il successo immediato del Tenente Sheridan e di “Giallo Club” (1959-61) lo rende popolare ma un po’ troppo noto per il cinema. Lo troviamo saltuariamente al cinema, nel già ricordato “Arriva la banda” di Tanio Boccia, che lui e Elena Cotta ricordavano con grande affetto, ma anche in “Urlatori alla sbarra”, “Chiamate 22-22 Tenente Sheridan”, “Cronache del 22”. Molto più importanti le sue apparizioni nei grandi sceneggiati della Rai, “Una tragedia americana”, “Luisa Sanfelice”, “Resurrezione” con Alberto Lupo e Valeria Moriconi, fino a “Puccini”. Per non parlare dei gialli dove regolarmente faceva il commissario, l’ispettore. Sempre perfetto per il ruolo. Tocca marginalmente lo spaghetti western con “Un esercito di cinque uomini” di Italo Zingarelli, lo troviamo nel divertente cappa e spada con Jacques Brel “Mio zio Beniamino”, ma è nel thriller all’italiano che ottiene i maggiori successi. Lo troviamo nei nostri thriller più importanti con Sergio Martino in “Lo strano vizio della Signora Wardh”, con Dario Argento in “Il gatto a nove code”, ma anche nei poliziotteschi, “Milano trema”, “La città gioca d’azzardo”, La polizia accusa: il servizio segreto uccide”, “Roma a mano armata”, film dove la sua bella presenza e la sua bellissima voce avevano il giusto risalto lontano dagli stereotipi della tv degli anni ’60. Ha lavorato tanto, negli anni, lo troviamo perfino in serie tv come “Turbo”, ma non ha mai abbandonato il teatro, che ha sempre condiviso con la sua adorata moglie, Elena Cotta.
· È morto l’attore Michael Constantine.
È morto Michael Constantine, il papà di "Il mio grosso grasso matrimonio greco". La Repubblica il 9 settembre 2021. L'attore ha anche vinto un Emmy per la sitcom degli anni Settanta "Room 222". È morto Michael Constantine, l'attore famoso soprattutto per il ruolo di Gus Portokalos, il padre della famiglia greca nel film Il mio grosso grasso matrimonio greco. Constantine Joanides, questo il vero nome dell'artista di origini greche, aveva 94 anni. La famiglia ha annunciato che, ammalato da tempo, si è spento il 31 agosto nella sua casa in Pennsylvania. Nel 1970 ha vinto un Emmy per la sitcom Room 222, nella quale interpretava Seymour Kaufman, il preside stanco della Walt Whitman High di Los Angeles. Per quel ruolo ha ricevuto una nomination anche l'anno successivo. Il primo episodio del film che ha reso Constantine celebre, uscito nel 2002 e diretto da Joel Zwick, ha incassato circa 330 milioni di euro in tutto il mondo. La sceneggiatrice Nia Vardalos ha scritto su Twitter: "Michael Constantine, il papà della nostra famiglia-cast, è stato un regalo per la parola scritta e sempre un amico. Recitare con lui è arrivato con un impeto di amore e divertimento. Farò tesoro di quest'uomo che ha dato vita a Gus. Ci ha regalato tante risate e ora si merita riposo. Ti amiamo Michael".
· Morto l’attore Nino Castelnuovo.
Da ansa.it il 7 settembre 2021. Nino Castelnuovo si è spento ieri a Roma dopo una lunga malattia. L'attore aveva 84 anni. Ne danno la notizia la moglie M. Cristina, il figlio Lorenzo e la sorella Marinella. La famiglia - informa una nota - "si chiude nel dolore per la perdita del caro Nino e richiede comprensione e riservatezza in questo momento difficile". I funerali si terranno a Roma in forma strettamente privata. Nino Castelnuovo, morto ieri a Roma, all'anagrafe Francesco Castelnuovo era originario di Lecco, dove era nato il 28 ottobre 1936. Secondogenito di quattro fratelli (due maschi, Pierantonio e Clemente, e una femmina, Marinella), incomincia a lavorare ancora bambino. Esordisce poi al cinema in Un maledetto imbroglio (1959) di Pietro Germi, e prosegue interpretando ruoli secondari da attore giovane in numerose pellicole, alcune delle quali anche di rilievo come Il gobbo (1960) di Carlo Lizzani e Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti. Diviene uno degli attori più popolari in Italia grazie al ruolo di Renzo Tramaglino nella riproduzione televisiva de I promessi sposi, andata in onda sul primo canale della Rai nel 1967, per la regia di Sandro Bolchi. Recita in uno dei più premiati film di tutti i tempi: Il paziente inglese (1996). Il pubblico lo ricorda ancora per la sua lunga carriera di atletico testimonial nella pubblicità dell'Olio Cuore, in cui veniva ripreso nell'atto di saltare una staccionata.
Morto Nino Castelnuovo, indimenticabile Renzo dei Promessi sposi tv. Silvia Fumarola su La Repubblica il 7 settembre 2021. L'attore aveva 84 anni. La popolarità con lo sceneggiato di Sandro Bolchi, i ruoli al cinema in film premiati come 'Il paziente inglese'. E quello spot dell'olio rimasto nella memoria di tutti. E' morto Nino Castelnuovo, popolare attore di cinema, teatro e tv. Aveva 84 anni. Ne dà notizia la famiglia. Dopo il debutto al cinema alla fine degli anni 50, era diventato famoso col ruolo di Renzo Tramaglino nello sceneggiato I promessi sposi di Sandro Bolchi accanto a Paola Pitagora. L'Italia che sognava con gli sceneggiati televisivi si era affezionata a quell'attore che aveva dato vita al personaggio creato da Alessandro Manzoni, ma Castelnuovo aveva interpretato tanti altri successi, come Ritratto di donna velata, il giallo in cui aveva il ruolo di un giovane pilota collaudatore che si ritrova implicato in un mistero con l’enigmatica Elisa (Daria Nicolodi). Come spesso capita nella carriera di attori popolarissimi, aveva interpretato uno spot che era rimasto nella memoria di tutti, quello dell'olio Cuore in cui saltava una staccionata. Nato a Lecco il 28 ottobre 1936, dopo aver praticato la ginnastica artistica e il ballo nel 1955 si trasferisce a Milano dove diventa allievo della scuola del Piccolo Teatro di Giorgio Strehler. Incomincia quindi a lavorare per la televisione nel 1957, ed esordisce al cinema come protagonista in Un maledetto imbroglio del 1959 per la regia di Pietro Germi. Prosegue interpretando ruoli secondari da attore giovane in film come Il gobbo (1960) di Carlo Lizzani e Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti. Ha recitato anche in uno dei film più premiati, Il paziente inglese (1996). L'occasione internazionale arriva con il musical francese Les parapluies de Cherbourg (1964) di Jacques Demy, un film interamente cantato, in cui interpreta la parte del protagonista accanto a una giovane Catherine Deneuve. Nel 2013 Castelnuovo era tornato in tv interpretando lo spregiudicato giudice Savio nella serie Le tre rose di Eva 2, ruolo che ha continuato a ricoprire anche nella terza stagione nel 2015. Nel 2018 la moglie dell'attore, Cristina Di Nicola, dai microfoni de Il sabato italiano, il programma di Rai1 condotto da Eleonora Daniele, lancia l'allarme sulla salute del marito. Spiega che è ricoverato in una clinica "perché ha da tanto tempo problemi agli occhi e ultimamente si è aggravato" e lancia un accorato appello ai politici perché "s'interessino di più ai problemi della vita vera". "Il suo desiderio - spiegava la moglie dell'attore - è sempre stato lavorare nonostante il suo problema, ma negli anni è diventata una battaglia contro i mulini a vento. Si è trovato molte porte sprangate, si è anche un po' depresso". L'attore aveva spiegato in un'intervista di soffrire di glaucoma, con conseguente gravi problemi alla vista, ma che amava ancora lavorare perché gli dava la forza di lottare. Raccontava con emozione di quando incontrò Paolo VI che lo volle conoscere dopo aver visto I promessi sposi con un augurio speciale, "di essere buono, saggio e perbene come il suo Renzo".
Marco Giusti per Dagospia l'8 settembre 2021. Non c'erano solo Renzo Tramaglino della più celebre edizione de "I promessi sposi" e il salto della staccionata, diretto però da Giuliano Montaldo, per i caroselli dell'olio Cuore, nella carriera di Nino Castelnuovo, che se ne è andato oggi a 85 anni. C'è stata la Nouvelle Vague, Jacques Demy e il suo "Les parapluies de Cherbourg" in coppia con Catherine Deneuve, c'e' stato Jean Luc Godard con il bellissimo episodio "L'amour" in "Amore e rabbia", Agnes Varda con "Les creatures" ancora con la Deneuve. Castelnuovo è stato di fatto il volto italiano della Nouvelle Vague, molto amato in Francia, cosa che la popolarità televisiva de "I promessi sposi" ha un po' oscurato. Ma per il film francese di Vittorio De Sica, "Un mondo nuovo", censuratissimo in Italia, perche' non si poteva parlare d'aborto da noi, Castelnuovo era il protagonista accanto all'inedita Christian Delaroche. Un film che davvero è diventato rarissimo. Ancora prima ci sono stati gli incontri con i più grandi registi italiani.Luchino Visconti per "Rocco e i suoi fratelli", Luigi Comencini per "Tutti a casa", Carlo Lizzanello per "Il gobbo", Alfredo Giannetti per "Giorno per giorno disperatamente". In qualche modo la popolarità televisiva chiuse la carriera cinematografica di Castelnuovo, che era lanciatissima negli anni 60. Non riuscì, come Tomas Milian o Franco Nero a imporsi nello spaghetti western, anche se fu lanciato in "Tempo di massacro" di Lucio Fulci e in "Un esercito di cinque uomini" di Italo Zingarelli. E non funzionò nemmeno nel cinema americano, come dimostrò in "The Reward" di Serge Bourguignon con Max Von Sydow e Yvette Mimieux. Fu il protagonista del primo film di Fernando Di Leo, "Rose rosse per il Fuhrer", senza avere poi altri contatti con lui. Fece molta tv, tra sceneggiati e altro, ma nel cinema venne un po' dimenticato. Troppo gentile, troppo bel ragazzo per i generi italiani così violenti. A parte le commedie sexy con la minorenne Gloria Guida dove viene riciclato assieme a belli del tipo Philippe Leroy o Maurice Ronet. O qualche film stracultissimo come "Camille 2000" di Radley Metzger, erotico letterario di un regista passato poi all'hard ma con grandi ambizioni autoriale. Ma ricordiamoci di lui, vi prego, come protagonista del musical di Jacques Demy, giovane e affascinante. Elegante e tenerissimo.
Paola Pitagora ricorda Castelnuovo: "Noi, promessi sposi in bianco e nero ma io Nino me lo ricordo a colori". Silvia Fumarola su La Repubblica il 7 settembre 2021. Il successo del celebre sceneggiato Rai del 1967 in cui recitò accanto all'attore. "Nino lo ricordo come una persona allegra, empatica, aveva sempre qualcosa da raccontare, in questo era speciale" dice Paola Pitagora. Nel 1965 interpreta I pugni in tasca, capolavoro di Marco Bellocchio, nel 1967 col ruolo di Lucia Mondella nello sceneggiato di Sandro Bolchi I promessi sposi, al fianco di Nino Castelnuovo nel ruolo di Renzo Tramaglino, forma la coppia più popolare della tv.
· Morto l’ex calciatore Jean-Pierre Adams.
Morto a 73 anni l’ex calciatore Jean-Pierre Adams, da 39 era in coma a causa di un errore medico. Asia Angaroni il 06/09/2021 su Notizie.it. Il mondo del calcio è in lutto per la morte di Jean-Pierre Adams: l'ex giocatore del PSG e della Nazionale francese era in coma da 39 anni. Talento spezzato troppo presto a causa di un destino crudele. L’errore umano lo ha allontanato per sempre dai campi di calcio. A 73 anni è morto Jean-Pierre Adams: l’ex giocatore del PSG e della Nazionale francese era in coma da 39 anni. Il calciatore di origini senegalesi, sottoposto a un intervento di routine a un ginocchio all’ospedale di Lione, non si è più risvegliato dopo un errore con l’anestesia. Era il 17 marzo 1982: dopo 39 anni Adams si è spento all’ospedale universitario di Nimes nella giornata di lunedì 6 settembre 2021. Da quasi quarant’anni era incapace di compiere quasi tutti i movimenti volontari, ma era in grado di ingerire il cibo e aprire e chiudere gli occhi, oltre a respirare da solo. La moglie di Jean-Pierre Adams, che nella Nazionale aveva giocato 22 partite, era con lui la mattina dell’operazione. A Bernadette l’ex difensore aveva detto: “Va tutto bene, sono in gran forma”. Quella mattina del 1982 Adams doveva sottoporsi a un’operazione per la rottura del tendine di un ginocchio. La moglie, in un’intervista rilasciata alla CNN nel 2016, aveva raccontato: “L’anestesista si prendeva cura di otto pazienti, uno dopo l’altro, come una catena di montaggio. Jean-Pierre era supervisionato da un tirocinante che in seguito ha ammesso in tribunale: “Non ero all’altezza del compito che mi era stato affidato”. Dato che non era un’operazione vitale e che l’ospedale era in sciopero, qualcuno avrebbe dovuto chiamarmi per dire che avrebbero ritardato l’operazione ma non è successo”. L’ex calciatore sarebbe “stato intubato male, con un tubo che gli ha bloccato il percorso verso i suoi polmoni invece di ventilarli e questo significa che era affamato di ossigeno e ha subito un arresto cardiaco”. Il mondo del calcio piange la scomparsa del giocatore francese. Il PSG, club dove Adams aveva giocato, su Twitter ha condiviso una sua foto, dedicandogli un ultimo saluto. “Il PSG ha perso, lunedì 6 settembre, uno dei suoi gloriosi anziani. Difensore dei rossoblu e della Nazionale francese, Jean-Pierre Adams ha vestito i colori parigini dal 1977 al 1979. Il Club porge le sue condoglianze alla sua famiglia e ai suoi cari”, si legge. Il Nîmes, invece, ha scritto: “Abbiamo appreso questa mattina della morte di Jean-Pierre Adams. Aveva indossato i colori del Nimes Olympique 84 volte e con Marius Trésor costituiva la “guardia nera” della squadra francese. Il Club porge le sue più sincere condoglianze ai suoi cari e alla sua famiglia”. Non è mancato neppure il ricordo da parte del Nizza. La società francese ha comunicato: “Abbiamo il cuore spezzato nell’apprendere la morte di Jean-Pierre Adams, caduto in coma il 17 marzo 1982. L’ex difensore ha vestito i nostri colori 145 volte dal 1973 al 1977. L’OGC Nice sta con il dolore dei suoi parenti che lo hanno accudito per 39 anni”.
· E’ morto l’attore Michael K. Williams.
Michael K. Williams, trovato morto l’attore di «The Wire»: aveva 54 anni. su Il Corriere della Sera il 6 settembre 2021. Trovato morto nel suo appartamento a Brooklyn. Si sospetta sia deceduto a causa di un’overdose. Michael K. Williams, attore della serie «The Wire» (nel ruolo di Omar Little) e di «Boardwalk Empire», è stato trovato morto per sospetta overdose nel suo attico di Brooklyn, a New York. La star, cinque volte candidato all’Emmy, aveva 54 anni. Secondo quanto riporta il New York Post, nell’appartamento sarebbero stati trovati oggetti che fanno pensare all’assunzione di eroina o fentanyl. Williams non aveva mai fatto mistero della sua lunga battaglia con la droga, anche durante le riprese di «The Wire», dicendo che impersonando i panni di Little, che deruba i trafficanti di stupefacenti, aveva avuto conseguenze nella sua vita reale. Tra i tanti film che lo hanno visto protagonista anche Gone Baby Gone, The Snitch, RoboCop, Ghostbusters, Assassin’s Creed, passando per 12 anni schiavo (diretto da Steve McQueen, ha vinto l’Oscar nel 2014 come miglior film) . Diversi i ruoli ricoperti anche in televisione in serie come I Soprano, Law & Order e CSI – Scena del Crimine.
Si sospetta sia deceduto per un’overdose. Morto Michael K. Williams: l’attore di "The Wire" trovato senza vita in casa. Redazione su Il Riformista il 7 Settembre 2021. L’attore statunitense Michael K. Williams, 54 anni, è stato trovato morto nella notte italiana nel suo appartamento di Brooklyn, a New York. Le circostanze del decesso non sono ancora chiare. Secondo il New York Post si sospetta un’overdose: nella casa di Williams sarebbero stati trovati oggetti che fanno pensare all’assunzione di eroina o fentanyl. L’attore, noto al grande pubblico soprattutto per il suo ruolo nella serie tv ‘The Wire’ e in ‘Boardwalk Empire’, aveva parlato apertamente della sua battaglia contro la droga. Il successo per Williams arriva nel 2002, dopo aver a lungo interpretato ruoli minori. Viene scelto infatti per interpretare il personaggio di Omar Little nella serie ‘The Wire‘, di David Simon, fino al 2008. Una serie che per giornalisti ed esperti è da considerare tra le migliori di tutti i tempi. Da lì il successo per l’attore continua : interpreta Albert “Chalky” White nella serie tv ‘Boardwalk Empire’, Jack Gee in ‘Bessie’ e fa la sua comparsa anche sul grande schermo, con ’12 anni schiavo’ di Steve McQueen che nel 2014 vinse l’Oscar come Miglior film.
Marco Giusti per Dagospia il 7 settembre 2021. Impossibile non averlo amato come Omar Little, quello che ruba ai narcotrafficanti, nelle 51 puntate di “The Wire”, una delle serie poliziesche più viste di sempre, o come Chalky White, venditore d’alcol clandestino di Atlantic City amico/nemico del Nucky Thompson di Steve Buscemi nelle 46 puntate di “Boardwalk Empire” ideate da Martin Scorsese e Terence Winter. Nero, con la sua ben riconoscibile cicatrice sulla fronte e uno sguardo impossibile da dimenticare, Michael K. Williams, morto a 54 anni per overdose, ha dominato la scena delle grandi serie tv della HBO ottenendo ben 5 nominations agli Emmy, portando dignità e grazia a tutti i personaggi che ha interpretato al cinema e in tv. Nato a Brooklyn nel 1966, scoperto da Tupac Shakur, ballerino di grande talento nei tour di Madonna e George Michael, Michael K. Williams passa al cinema una ventina d’anni fa con il bellissimo film di Martin Scorsese “Al di là della vita” , seguito da “Gone Baby Gone” di ben Affleck, L’incredibile Hull” di Luis Leterrier, “Miracolo a Sant’Anna” di Spike Lee. Col taglio sulla fronte frutto di una rissa da bar nel giorno dei suoi 25 anni, dei tipacci lo tagliarono con un rasoio, Williams non credeva di essere così appetibile per i primi piani al cinema. Era invece il suo tratto indistinguibile che ne fa qualcosa di assolutamente personale e che molti registi, come Todd Solondz in “Perdona e dimentica” hanno saputo usare con grandi risultati. In generale, la sua recitazione alle prese con personaggi violenti, sembrava calma e controllata, ma contraddetta dal suo volto segnato e dal suo sguardo. Grande attore, lo troviamo in due bellissimi film come “12 anni schiavo” di Steve McQueen e “Vizio di forma” di Paul Thomas Anderson.
Con “Bessie” di Dee Rees arriva la sua prima nomination, ma lo troviamo anche in “Anestesia” di Tim Blake Nelson e nel recente “Motherless Brooklyn”. Stava per ottenere il ruolo da protagonista in “Django Unchained” di Quentin Tarantino, ma scelse invece la serialità di “Boardwalk Empire”. E’ nella serialità che arrivano i suoi maggiori successi, da “The Wire”, dove ebbe una grossa crisi di identità che lo portò all’abuso di cocaina, al recente “Lovecraft Country”. Stava per iniziare un film sulla vita del pugile George Foreman diretto da George Tillman jr nel ruolo del manager del pugile, Doc Broadus. Lo ha scoperto il nipote, troppo tardi, nella sua casa di Brooklyn.
Usa: Michael K. Williams morto per overdose. La Repubblica il 25 settembre 2021. La morte è stata un incidente, secondo gli inquirenti. L'attore statunitense Michael K. Williams, che ha interpretato Omar Little nell'acclamata serie televisiva "The Wire", è morto per "un'overdose accidentale". Il 54enne, che ha interpretato l'iconico rapinatore di Baltimora nel rivoluzionario show, è stato trovato morto all'inizio di questo mese nel suo appartamento a New York. Il New York City Office of Chief Medical Examiner ha dichiarato che la causa della morte di Williams è stata "intossicazione acuta dagli effetti combinati di fentanyl, p-fluorofentanyl, eroina e cocaina". La morte è stata un incidente, secondo i funzionari. L'attore nominato agli Emmy era stato ampiamente acclamato per il suo ruolo in "The Wire", in cui interpretava un rapinatore armato gay specializzato nel rapinare spacciatori di droga. Ha ricevuto molteplici nomination agli Emmy per il suo lavoro in vari spettacoli e film. La serie è diventata uno degli spettacoli più popolari della televisione ed è andata avanti per cinque stagioni dal 2002 al 2008. Williams era anche noto per il ruolo di Albert “Chalky” White nella serie HBO "Boardwalk Empire", tra gli altri.
· È morto l’attore Jean-Paul Belmondo.
È morto Jean-Paul Belmondo, il brutto più affascinante del cinema francese. Il Quotidiano del Sud il 6 settembre 2021. È morto all’età di 88 anni l’attore francese Jean-Paul Belmondo. Lo si è appreso dai suoi più stretti collaboratori. Il brutto più affascinante del cinema francese, prima di essere catapultato al successo da Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle, 1960) di Godard, aveva già interpretato Charlotte et son Jules (1958), un cortometraggio sempre di Godard, e A doppia mandata (1959) di Chabrol. Per il resto, l’attore era apparso in film di scarso rilievo, tra i quali si può forse includere anche Asfalto che scotta (1960), di Claude Sautet. In Fino all’ultimo respiro nasce l’immagine divistica di Belmondo: personaggio scanzonato, malvivente dilettante, simpaticamente truffatore. Da operaio a studente, da contadino a sacerdote introverso, Belmondo si dimostrò un attore di straordinaria versatilità. In Cartouche (1962) di Phllippe de Broca interpretò una sorta di Robin Hood alla francese, e con lo stesso regista bissò, e anzi superò questo successo col magnifico film avventuroso-satirico L’uomo di Rio (1963). Pur essendo scettico nei confronti del cinema impegnato, Belmondo accettò ugualmente di lavorare con registi difficili che lo avevano visto nascere cinematograficamente: interpretò Il bandito delle 11 di Godard, Il ladro di Parigi (1967) di Malle, La mia droga si chiama Julie (1969) di Truffaut, Trappola per un lupo (1972) di Chabrol e Stavisky (1974) di Resnais. La ciociara (1960) – con Sophia Loren – La donna è donna (1961), Lo spione (1962), Caccia al maschio (1964), Borsalino (1970), Il clan dei marsigliesi (1972) e L’incorreggibile (1975) sono tutte pellicole che gli procurarono grande popolarità fra il pubblico e riconoscimenti importanti dalle autorità, come il Cèsar per Una vita non basta (1988) e la Legion d’Onore. Tra i suoi ultimi lavori Amazzonia (2000), la storia di un francese che invecchia e decide di ritirarsi dove è più fitta la foresta amazzonica.
Biografia di Jean Paul Belmondo. Da cinquantamila.it - la Storia raccontata da Giorgio Dell'Arti.
Neuilly-sur-Seine (Francia) 9 aprile 1933. Attore
«Figlio di un celebre scultore [...] era destinato a entrare alla Comédie Française [...] ”Per nove anni ho recitato in teatro [...] Godard... Ricordo che, quando recitavo Oscar, c’era sempre un tizio mal rasato, con gli occhiali scuri, che veniva a vedermi. Un giorno mi chiede: ”Vuole fare del cinema?’. Aveva uno strano accento, vagamente svizzero. ”Devo girare un cortometraggio’, dice, ”venga nella mia stanza in rue de Rennes, le do 500 franchi’. Penso che sia un pederasta e lo dico a mia moglie. Lei mi spinge: ”Vai. se ti dà fastidio, gli dai un pugno’. Vado all’appuntamento. così che interpreto Charlotte et son Jules, che è l’abbozzo di Fino all’ultimo respiro. Godard mi suggerisce tutto quello che devo dire, fai così, fai colà... Più tardi mi scrive chiedendomi se può doppiarmi con la sua voce. Gli do l’autorizzazione. Tempo dopo, Jacques Becker cerca attori per Il buco. Gli fanno vedere Charlotte et son Jules. Trova che c’è un giovane attore non male, ma non può sceglierlo per via della voce orribile e dell’accento svizzero! Poi Godard mi telefona... Per dirmi: ”Ho un’idea. Un tizio viene a Parigi da Marsiglia per vedere la fidanzata e lungo il cammino uccide un poliziotto... Dopo si vedrà". Mi fissa l’appuntamento al bar Royal Saint-Germain [...] Quando arrivo mi ordina: ”Vai a prendere una birra ed esci senza pagare’. La cinepresa riprende. Io eseguo, il cameriere urla. E Godard: ”Per oggi abbiamo finito, tutti a casa". Il produttore non ha l’aria contenta. L’indomani, Godard mi dice: ”Tu entri in quella cabina telefonica e parli, dì ciò che vuoi’. Eseguo. Poi aggiunge. ”Non ho idee’, e ci fermiamo. Torno a casa e racconto a mia moglie Elodie: ”Andiamo male. Mi ha dato 4.000 franchi, sono contento, ma temo che questo film non uscirà mai’. [...] Fino all’ultiomo respiro esce nelle sale. Pensavo a un flop. E invece... [...] Io ho fatto il Conservatorio e - adesso riderete - non mi hanno mai proposto di recitare un testo serio! Il mio professore, Pierre Dux, Dio abbia pietà della sua anima, mi diceva: ”Lei non può tenere una donna fra le braccia, non sarebbe credibile [...] All’inizio, ero come tutti gli altri, leggevo ”Cinémonde’ e sognavo Sophia loren. Improvvisamente Vittorio De Sica mi chiama per propormi di interpretare La Ciociara. Insieme a lei! Così, il primo giorno delle riprese, mi sono ritrovati fra le braccia di Sophia! A darle un lungo bacio! Un sogno!” [...]» (François Forestier, Josette Alia, ”Sette” n. 14/1998).
«Colui che anche nelle scene più pericolose non si faceva doppiare, l’attore-atleta che abbiamo visto aggrappato ad un aereo nel cielo di Rio o correre sul tetto di una metropolitana lanciata a tutta velocità, non ha mai scelto la facilità. ”Gli attori devono dare la sensazione d’essere come Zorro”, dice. ”Un giorno, su un aereo, un problema al motore creò un certo turbamento fra i passeggeri. Uno di loro si girò verso di me e mi disse: ”Ma insomma, faccia qualcosa’”. L’aneddoto lo diverte. E può ricamarci su all’infinito, mimando tutti i personaggi. Lo diverte perché gli dimostra che aveva ragione nel lasciar credere d’essere capace di tutto, di non aver mai paura di niente» (Charlotte Dufour, ”Corriere della Sera” 19/6/2002).
Nell’agosto 2003, ormai settantenne, diverrà padre per la quarta volta: «Proprio lui che nel ”98 un sondaggio aveva già decretato ”nonno ideale”. E invece Bebel, come chiamano da sempre il ragazzo di Neuilly-sur-Seine, ha voluto ricominciare daccapo. Ha avuto tre figli dal primo matrimonio con la ballerina Elodie Constant, negli anni ”60: Patricia, Florence e l’affascinante Paul, ex pilota di auto, che da un po’ gli dà una mano nell’attività artistica, specie quando papà affitta un teatro a Parigi come il centralissimo ”des Variétés”, e si prede il gusto di recitare una farsa rocambolesca, come qualche anno fa. E che dice soltanto: ” eccezionale”, alludendo al padre. E aggiunge: ”Un vero perfezionista. Sono stato io stesso testimone della sua vittoria sulla malattia, l’ictus di due anni fa: è stato grande”. […] La moglie Nathalie Tardivel, detta Natty, […] che Jean-Paul ha conosciuto nell’89 e ha sposata nel cuore del Quartiere latino, circondato da amici come Claude Lelouch e Bernard Henri-Levy, il 29 dicembre scorso 2002, dopo 13 anni di convivenza. Due matrimoni soltanto, dunque, per l’ariete Belmondo, ma tra uno e l’altro... avventure, sì, storie d’amore, anche; donne bellissime, come Laura Antonelli e Ursula Andress» (Claudia Provvedini, ”Corriere della Sera” 15/4/2003).
«’Non ci separiamo mai, condividiamo tutto, gioie e problemi”, confidava l’ex Coco Girl Natty nel 1990. All’epoca, erano in pochi a credere in quella coppia. La loro, era considerata una storia d’amore simpatica, frizzante come un bicchiere di champagne. Invece, ecco che dura ancora. Natty è la più tenera alleata di Jean-Paul. Ha cominciato col fargli ripetere il Cirano di Bergerac, quando lui osò tornare al teatro, consapevole di quanto le tirate di Rostand possano essere vere e proprie torture per un attore. Il suo trionfo fu un po’ anche quello della sua dolce suggeritrice. Natty cercava di restare nell’ombra, ma lui non poteva più fare a meno di lei. Nel 1999, quando lui è vittima di un malessere durante una rappresentazione di Frédérick ou le boulevard du crime, Natty è al suo fianco. Se ha trascurato il cinema per tornare ai primi amori, il teatro, l’ha fatto da maratoneta. Senza risparmiarsi. E Natty è sempre con lui, per godere insieme dei suoi trionfi. […] Belmondo fa parte della vita dei francesi» (Charlotte Dufour, ”Corriere della Sera” 19/6/2002).
Il "brutto più bello" del '900 che faceva teatro al cinema. Paolo Giordano il 7 Settembre 2021 su Il Giornale. È stato l'inimitabile "magnifique" e non ha eredi: poteva passare con classe dal noir al film neorealista. Ora che se ne è andato, ora che Jean-Paul Belmondo ha messo in folle la sua ultima fuoriserie e «si è spento tranquillamente», si può capire perché è stato l'inimitabile «magnifique» del cinema: non ha eredi. Ci sono tanti piccoli Belmondo in giro ma nessun nuovo Belmondo, nessuno con la stessa potenza espressiva e l'identica capacità di essere inconfondibile in un film d'essai come in un poliziesco in bianco e nero o in un capolavoro neorealista. Un naso appiattito dalle botte a scuola, un sorriso guascone, l'innato talento di recitare vivendo oppure di vivere recitando, chi lo saprà mai. Aveva 88 anni, vent'anni fa aveva avuto un'ischemia alla quale aveva reagito alla propria maniera: sposando la seconda moglie Natty Tardivel, diventando padre della quarta figlia e poi separandosi cinque anni dopo. Una forza della natura, un uomo così positivo al punto da sembrare sbruffone e poi portare il suo «personnage» al cinema fino a farsi notare da Jean-Luc Godard (che lo ha consacrato nel 1960 con Fino all'ultimo respiro) e da Vittorio De Sica, che nello stesso anno lo ha voluto nella Ciociara con Sophia Loren: «Il primo giorno di riprese, mi sono ritrovato fra le braccia di Sophia a darle un lungo bacio. Un sogno!», ha detto qualche anno fa a François Forestier e Josette Alia. D'altronde lui, sangue italiano grazie al padre scultore e spavalderia francese per la mamma pittrice, ha lastricato di baci celebri una carriera stellare quando per essere davvero stelle bisognava avere una marcia in più e non soltanto milioni di followers. Per glorificare la diarchia di sex symbol in Francia, Edith Piaf diceva «io esco con Alain Delon ma torno a casa con Belmondo» e così pensava chiunque avesse visto Borsalino del 1970 nel quale recitavano insieme (Delon nella parte di Roch Siffredi...) ed erano le due facce della stessa medaglia sexy: uno bello e dannato, l'altro brutto e spavaldo al punto da essere definito «il brutto più bello del cinema». «Sono completamente distrutto. Cerco di reggere il colpo per non morire anch'io fra cinque ore, anche se non sarebbe male se ce ne andassimo insieme» ha detto Delon ieri pomeriggio con il più bel necrologio possibile. Belmondo d'altri tempi. Aveva già recitato ovunque e con chiunque, con Bolognini e Castellani e Corbucci in Italia, con Truffaut e Malle o Clément in Francia, si era persino intrufolato nello 007 «alternativo» di John Huston del 1967 con David Niven e quindi poteva godersi ciò che alla fine un grande attore cerca sine qua non, ossia la libertà. Negli anni Settanta crescono i conflitti sociali? E lui, che aveva debuttato in un cortometraggio su Moliere, diventa un eroe del poliziesco, senza manco bisogno della controfigura perché faceva tutto da solo, anche le scene più pericolose come negli Scassinatori di Verneuil (1972), Il Clan dei marsigliesi firmato da José Giovanni nello stesso anno e Trappola per un lupo di Chabrol nello stesso anno oppure, ancora, il film che gli ha dato il soprannome definitivo, più ancora dell'amichevole Bébel, quel «Le magnifique» del non memorabile Come si distrugge la reputazione del più grande agente segreto del mondo, arrivato nei cinema nel 1973. Allora il mondo era di Belmondo. E non soltanto perché si era appena separato da Ursula Andress ed era al fianco di Laura Antonelli bellissima e maledetta. Soprattutto perché il Jean-Paul Belmondo amante delle belle macchine, cascatore indistruttibile, sempre con la sigaretta che pendeva dal labbro come fosse un eterno James Dean, era libero perché non aveva ideologie, insomma faceva quel che voleva e la «belmondologia» era lo schiaffo più teatrale sulla faccia dei luoghi comuni. I suoi film non erano più così tanto seguiti? Allora «Le magnifique» torna a teatro. In pratica torna a casa propria visto che da ragazzo, dopo essersi fatto fracassare le ossa nella palestra di boxe, aveva iniziato a rifarsele con L'avaro di Molière o il Cyrano di Rostand. Tanto Belmondo è Belmondo, basta chiamarlo con un ruolo all'altezza. Infatti vince il Premio César come miglior attore in Una vita non basta di Lelouch (1989) e poi, dopo la malattia, si prende la Palma d'Oro a Cannes e Leone d'Oro a Venezia. Premi alla carriera. Premi a un'icona. Oggi che non c'è più, si capisce perché lascia una casella vuota. Tanti sono spacconi e spregiudicati come lui. Tanti hanno il naso rotto e il sorriso provocatorio. Qualcuno riesce persino a non umiliarsi quando sale sul palcoscenico di un teatro. Ma pochi, quasi nessuno, forse nessuno, riesce ad avere tutto insieme come se fosse vero e non una posa da selfie. Fino agli ultimi tempi, fino a quando è arrivato sul set con quel sorriso che non potevi farci nulla, Jean-Paul Belmondo conservava lo sguardo scanzonato di chi aveva fatto il militare in Algeria e poi si era diplomato al Conservatorio quando il cinema era ancora in bianco e nero. Era come se dicesse: voglio solo portare un po' di colori accesi. Lo ha fatto ed erano accesissimi come i colori dei bolidi che gli piaceva guidare finché non è stato il momento di metterli in folle e farsi trasportare per sempre nella storia del cinema. Paolo Giordano
L'attore aveva 88 anni. È morto Jean Paul Belmondo, addio al “Magnifico” del cinema francese. Antonio Lamorte su Il Riformista il 6 Settembre 2021. Addio a un’icona del cinema francese, e del cinema del Novecento, Jean Paul Belmondo. Aveva 88 anni, è morto a Parigi secondo quanto riportato dall’Agence France Press. “Si è spento serenamente”, ha fatto sapere il suo avvocato. La notizia ha fatto in poco tempo il giro del mondo. Tutti i giornali francesi aprono i loro siti con la notizia della morte dell’attore. Aveva recitato anche in Italia: aveva lavorato con registi come Alberto Lattuada, Vittorio De Sica e Renato Castellani e con attrici come Gina Lollobrigida, Claudia Cardinale, Sophia Loren e Stefania Sandrelli. Dalla nuovelle vague al cinema popolare, Belmondo ha giocato in tutte le categorie del cinema. E sempre con successo, con il sorriso sempre ammiccante, quella faccia da pugile e seduttore. Era nato a Neuilly-sur-Seine il 9 aprile 1933. Era figlio di un pittore e scultore, Paul Belmondo, nato nell’Algeria francese da genitori italiani. Da piccolo Jean-Paul praticò soprattutto pugilato e calcio fino a diplomarsi al Conservatoire National Supérieur d’Art Dramatique. Molto teatro all’inizio, molti secondi ruoli sul grande schermo. A notare il suo talento è un giovane critico dei Cahiers du Cinéma, Jean-Luc Godard. E sarà proprio con uno dei capolavori di quest’ultimo, regista tra i più importanti di sempre del cinema francese, a raggiungere il successo. Fino all’ultimo respiro, del 1960. Poi arriveranno anche Asfalto che scotta con Claude Sautet e Mare Matto con Renato Castellani. Nel giro di pochi anni Belmondo diventa un divo. Con L’uomo di Rio di Philippe de Broca si inaugura una fase più commerciale della sua carriera. In Borsalino recita al fianco di Alain Delon. Non scompare però dalla sua filmografia la firma d’autore, come con Il grande truffatore di Alain Resnais. Gli anni ’70 saranno invece quelli dei polizieschi, spesso girati senza controfigura; gli ’80 quelli di tanto teatro. Belmondo nel 1989 vince il prestigioso Premio César per il migliore attore per Una vita non basta di Claude Lelouch. Nel 2001 un’ischemia cerebrale lo allontana dal grande schermo e dal teatro fino al 2008, quando recita nel remake francese di Umberto D. di Vittorio De Sica. Al Festival di Cannes del 2011 è stato insignito della Palma d’Oro alla Carriera e del Leone d’Oro alla Carriera alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia nel 2016. Belmondo aveva sposato la ballerina Elodie Constantin nel 1952, con la quale ebbe tre figli. Patricia, la prima, morta tragicamente in un incendio. Paul Alexandre, l’ultimo, proprietario di una squadra che gareggia alla 24 Ore di Le Mans. Dopo il divorzio ha avuto una relazione con Ursula Andress e con l’italiana Laura Antonelli. Le seconde nozze nel 2002 con Natty Tardivel, con la quale ebbe una figlia, Stella, e dalla quale divorzio nel 2008. Belmondo è stato un’icona, a partire dal suo stile, il suo volto da avventuriero, i suoi modi affascinanti e spericolati e scanzonati. Era anche “il brutto più affascinante del cinema francese”. L’ultimo omaggio del Festival di Cannes nel 2018, quando il poster dell’evento è stato ripreso dal bacio con Anna Karina da Pierrot Le Fou.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Barbara Visentin per corriere.it il 7 settembre 2021.
Conteso dalle donne
«Le donne sono al loro meglio passati i trent’anni, ma gli uomini che hanno passato i trent’anni sono troppo vecchi per capirlo». Questo sosteneva Jean-Paul Belmondo, detto Bebel, divo francese scomparso oggi a 88 anni, volto della Nouvelle Vague amato da registi come Truffaut e Godard. E ci sarà da credergli, visto che aveva una discreta esperienza in materia: oltre ad aver recitato con tante grandi attrici, era conteso dalle più belle donne del cinema ed è stato protagonista di tanti amori e di flirt, puntualmente finiti al centro dei rotocalchi.
La prima moglie
La prima moglie di Jean Paul Belmondo fu la ballerina Élodie Constantin, sposata il 4 dicembre 1953. I due ebbero tre figli: Patricia (1958 - 1994), morta in un incendio; Florence (nata nel 1960), Paul Alexandre (nato nel 1963), prima pilota automobilistico e poi proprietario di una squadra che gareggia nella 24 Ore di Le Mans. Nel 1966 il matrimonio finì.
Ursula Andress
Nel 1965, infatti, Belmondo aveva conosciuto Ursula Andress, indimenticabile Bond girl, sul set del film «L’uomo di Hong Kong»: i due si conobbero a Roma e la leggenda vuole che furono protagonisti di una «notte brava» nella Città Eterna, in seguito alla quale l’attore lasciò la moglie. Belmondo e Andress rimasero fidanzati fino al 1972, quando avvenne un nuovo incontro.
Laura Antonelli
Galeotto fu ancora una volta un set: nel 1972 Jean Paul Belmondo conobbe l’attrice italiana Laura Antonelli, mentre giravano «Trappola per un lupo» di Claude Chabrol. Bebel perse la testa per lei, lasciando Ursula Andress e imbarcandosi in un’amore durato fino al 1980, costantemente al centro delle cronache, fatto di passione e di litigate furiose. Dopo la sua morte, così la ricordò in un’intervista al Corriere: «Laura era un’attrice formidabile. Mi è dispiaciuto molto che sia morta nella miseria. Non stavamo più insieme da tanti anni ma questo non vuol dire niente».
Carlos Sotto Mayor e il ritorno di fiamma
Negli anni 80, fra il 1980 e il 1987, Belmondo frequentò l’attrice e cantante brasiliana Carlos Sotto Mayor. Tra i due sembra poi esserci stato un ritorno di fiamma molto recente: come testimoniano le foto postate su Instagram da lei, avevano ripreso a frequentarsi nel 2020, oltre 30 anni dopo il primo incontro.
La seconda moglie, Natty Tardivel
Dopo una convivenza che durava da oltre 13 anni, il 29 dicembre 2002 Belmondo sposò a Parigi in seconde nozze la compagna Natty Tardivel, di oltre 30 anni più giovane: l’anno successivo nacque la figlia Stella quando lui aveva 70 anni. Sei anni dopo, però, arrivò il divorzio.
Barbara Gandolfi
Dal 2008 al 2012 Belmondo fu fidanzato con la belga Barbara Gandolfi, ex modella di Playboy, 42 anni più giovane, conosciuta in un ristorante della Costa Azzurra. Tra le cause della rottura si vociferò anche di una truffa finanziaria orchestrata da lei insieme all’ex marito.
(ANSA il 6 settembre 2021) "Sono rimasta sola": fra le lacrime, Claudia Cardinale, nella sua casa di Parigi, ricorda l'amico, il collega, il complice di una vita, Jean-Paul Belmondo, scomparso oggi a 88 anni. "Sono addoloratissima - dice all'ANSA l'attrice - per me è stato e rimarrà, come per tanti altri, l'immagine della vitalità. Nel mio cuore e nella mia memoria non cesserà mai di essere in movimento. Lui era il sorriso, la gioia di vivere, l'audacia e la semplicità". "Io ringrazio la vita - conclude Claudia Cardinale - per aver unito i nostri percorsi. Il mio affetto più profondo va ai suoi familiari e in particolari ai suoi figli. Addio Jean-Paul"
Jean-Paul Belmondo, Stefania Sandrelli: "Bocca larga e gambe storte, ma era il più sexy". Arianna Finos su La Repubblica il 7 settembre 2021. Il ricordo di Stefania Sandrelli, che con l'attore francese ha girato due film negli anni Sessanta, "Lo sciacallo" e "Un avventuriero a Tahiti". Stefania Sandrelli con Belmondo lei ha girato due film. "Sì. Lo sciacallo nel 1963 e Un avventuriero a Tahiti, tre anni dopo. Lui e James Dean erano i veri miti cinematografici, quelle persone che nascono una volta e il loro posto al cinema non lo prende più nessuno. Trovavo una grande similitudine con James Dean, che era il mio grande amore, ma James Dean un po’ si metteva in moda, Jean-Paul era come era, naturale, spontaneo.
Michela Tamburrino per “La Stampa” il 7 settembre 2021. Stefania Sandrelli è molto triste per la scomparsa di Jean Paul Belmondo ma non può fare a meno di sorridere quando pensa al loro incontro sul set. «Era un mito. Di un livello talmente alto che è difficile trovarne uno uguale oggi. Forse bisogna tornare a James Dean per capire quello che significa veramente».
Eravate amici?
«Abbiamo girato due film insieme: per Un avventuriero a Tahiti partii con Gino Paoli. Ero giovanissima, il regista mi aveva voluta dopo avermi visto in Divorzio all'italiana. Con Gino e la sua fidanzata di allora, Ursula Andress, stavamo sempre insieme. Lui era sexy da morire e quando mi baciava per esigenze di copione non capivo più niente. Per questo Gino era voluto partire con me e non mi lasciava sola un attimo».
In che cosa era tanto sexy?
«Io gli dicevo: "Tu hai la bocca più grande di Francia, le gambe più storte di Francia, eppure sei bellissimo". Oltretutto era di una simpatia inarrivabile, era un saltimbanco che faceva acrobazie. Era pirotecnico, esilarante. Sembrava apparisse dal nulla per divertirti».
Gli piaceva intrattenere i colleghi sul set?
«Lui ci teneva molto a farmi ridere, un po' come Gigi Proietti che godeva quando ridevo all'impazzata su una sua battuta. Lui e il regista, Jean Becker, mi chiamavano "Gnuf gnuf", il nome in francese di uno dei tre porcellini, per dire quanto poco lui si crogiolasse nel mito, a differenza di James Dean che invece se la credeva molto».
Un uomo semplice?
«Era come lo vedevi. Io non mi aspettavo che un attore tanto famoso fosse così disponibile a stringere amicizie. Sempre considerando le grandi doti di interprete e la fisicità importante che si portava dietro».
E l'altro film?
«Era Lo sciacallo di Jean Pierre Melville, anche qui, a ogni bacio mi sdilinquivo anche se eravamo solo amici. Avevamo molto rispetto l'uno per l'altra. Una cosa rarissima nel nostro ambiente. Io ero sola sul set, volendo ci poteva provare ma sapeva benissimo che non ci sarei stata. Era anche molto sensibile e intelligente. Bisogna essere fatti così per arrivare a quei livelli».
Vi incontravate di frequente?
«A Parigi lo incontravo spesso, persino quando portava a spasso il cane e allora chiacchieravamo. Era una persona normale oltre il mito. Gli volevo davvero bene e la sua scomparsa mi addolora molto».
Da ilnapolista.it il 7 settembre 2021. Jean Paul Belmondo è morto. Aveva 88 anni. È stato un grande del cinema, non solo francese. Interpretò “A bout de souffles” (Fino all’ultimo respiro) di Godard, film considerato l’inizio della nouvelle vague che rivoluzionò il cinema. I registi francesi ne furono assoluti protagonisti. Belmondo è stato un grande appassionato di sport. Praticò la boxe (sostiene, tra il serio e il faceto, di aver disputato quindici incontri) il calcio (era portiere). L’Equipe lo ricorda con un’imperdibile intervista che lui concesse al quotidiano sportivo nel 2016. Vi consigliamo di leggerla integralmente, è spettacolare. Rivelò di essere da sempre un lettore de L’Equipe, a scuola lo leggeva all’ultimo banco. Ve ne riportiamo qualche stralcio. In questa intervista parla della passione per la boxe.
Ricorda quando Cerdan divenne campione del mondo dei pesi medi sconfiggendo il campione Tony Zale.
Era il 1948. Sì, me lo ricordo molto bene. Eravamo tutti insieme come una famiglia. All’epoca vivevamo a Denfert-Rochereau, 4 rue Victor-Recant (Parigi XIV). Eravamo davanti alla radio con mia madre, mio padre, mio fratello, e al momento della vittoria di Cerdan abbiamo sentito l’intero edificio, tutti i vicini, urlare allo stesso tempo (mima un grido di gioia mentre alza le mani), anche quelli che non conoscevano la boxe. Cerdan, era un Dio! Eh? (Ci guarda.)
L’hai visto combattere?
Ah sì, con mio padre al Palais des Sports, contro Léon Fouquet (il 2 febbraio 1947, Cerdan vinse per ko e divenne campione europeo). Durò un round… Due minuti! Abbiamo avuto a malapena il tempo di sederci mentre Fouquet era già rigido sul pavimento. (Ride.) Non ho mai dimenticato questo nome: Fouquet.
Cosa ti piaceva della boxe?
La tecnica della difesa, l’arte di schivare e il gioco di gambe. Vedere un picchiatore incapace di colpire l’avversario che padroneggia questa tecnica, è bello. Maurice Sandeyron (campione europeo dei mosca nel 1947), ad esempio, schivava meravigliosamente! Chérif Hamia anche (campione europeo dei piuma nel 1957.
Il giornalista gli ricorda che aveva una carriera da promoter.
No, non credo di essere mai stato tagliato per questo. Alain Delon aveva fatto molto bene come organizzatore dell’incontro tra Jean-Claude Bouttier e Carlos Monzon al Roland Garros (nel settembre 1973). Gli ho dato una mano ma tutto finì lì.
Sei nostalgico degli anni 1970 e 1980 che sono spesso descritti come l’età d’oro della boxe?
Ho nostalgia, sì. C’erano un sacco di pugili eccellenti. Ora ce ne sono meno. I pesi massimi più così. Abbiamo visto combattimenti che ti facevano venire voglia di fare boxe. Sugar Ray Robinson o Joe Frazier, il loro gioco di gambe era fantastico. Robinson l’ho visto a Parigi. Ho anche assistito a combattimenti di Carlos Monzon, Sugar Ray Leonard, Roberto Duran e persino cinque combattimenti di Muhammad Ali a Las Vegas. Era il più grande. L’ho visto anche una delle poche volte che ha combattuto in Europa, a Francoforte, contro Karl Mildenberger (nel settembre 1966). Ero con Louis Malle, con il quale stavo girando il Ladro di Parigi. Avevo scommesso che Mildenberger sarebbe finito al tappeto prima del 15esimo round. Nel 12esimo, il tedesco si trovò con le braccia in croce sul ring… Vinsi 1.500 franchi! (Paul ci avrebbe poi detto: “Non ha quasi mai perso una scommessa sulla boxe. Forse una o due volte, difficilmente di più”) E, naturalmente, ricordo l’incontro tra Thomas Hearns e Marvin Hagler, nell’aprile del 1985 a Las Vegas. Hagler sfiorò di finire al tappeto, ma alla fine vinse per ko in tre round. Oggi ho meno passione, questo è sicuro. Oggi ci perdiamo un po’ con tutta la roba che c’è. Ci sono molti campioni del mondo, non è più possibile. Fa male alla boxe. Ho visto Vladimir Klitschko (allora campione dei pesi massimi WBA-IBF-WBO) battere Jean-Marc Mormeck (nel marzo 2012). Klitschko fa sequenze sinistra-destra, ma…
L’Equipe ricorda che lui ebbe un ruolo chiave nella nascita del Psg nel 1973.
Ero molto amico di tutta la band, Just Fontaine, Francis Borelli, Daniel Hechter e Jacky Bloch (amico e collaboratore di Hechter). E come loro, ho davvero messo i soldi per iniziare l’avventura del Paris-Saint-Germain. Ma non sono rimasto a lungo. Non era più compatibile con le riprese, i film, la mia vita di attore. E poi non mi piacque il licenziamento di Fontaine.
Segui ancora la squadra?
Sì! Ovviamente hanno grandi giocatori. Ha totalmente superato quello che stavamo facendo in quel momento. Mi piacciono David Luiz, Angel Di Maria, Blaise Matuidi, Marco Verratti… Non capisco perché abbiamo sostituito Salvatore Sirigu. Era bravo! Vedremo in Champions League se è stata una buona idea. Lo guardero ‘ in TV.
Il tennis
Dal 1970, sì, sono venuto al Roland Garros tutti i giorni.
Una partita ti ha segnato più delle altre?
(Senza esitazione.) La finale Ivan Lendl contro John McEnroe (nel 1984), quando McEnroe perse dopo aver condotto 2 set a 0 e crollando nel terzo… Era qualcosa di improbabile. Ho amato anche i tuffi di Jimmy Connors e Adriano Panatta la bestia nera di Björn Borg. Ilie Nastase mi ha fatto ridere. Una volta Boris Becker, a un cambio campo, passò davanti alla sua postazione e gli strinse la mano.
Addio all'attore francese. Bèbel e la sua vita tutta in un soffio. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 7 Settembre 2021. Bébel, sembra una sorta di contrazione del nome intero, Jean Paul Belmondo, in realtà viene da Pepel, Gabin e i bassifondi di Renoir . Un’abbreviazione, come un segno del destino: di una vita che si annuncia breve. Intensa, avventurosa, di dilapidante energia. Tutto in un soffio, in un attimo. Una corsa all’ultimo respiro. E invece no. Lascia il mondo con una cifra rispettabile di anni, sulla soglia dei novanta. “E chi ci avrebbe scommesso?”, avrebbe detto il Noodle di Leone. Sì, uno che da giovane ha indossato la divisa francese in Algeria, e poi lasciato le insegne militari per l’accademia di recitazione, in un gioco continuo di contrasti: icona della nouvelle vague, che è appunto rapidità, carrellate di piano sequenza – il tutto e subito che il tempo fugge -. Un ossimoro col sorriso guascone, un bullo con un cuore battente bontà. Un brutto bellissimo, il più bello dei brutti. Un cattivo che non lo è, – e pure le casalinghe a tifare per il bandito -. La sua morte l’ha annunciata l’avvocato: un comunicato scarno che parla di affaticamento recente, di fine serena. Sempre quello che meno ti aspetti da uno che saliva sul ring per davvero, ma che poi ci scendeva dal quadrato del dolore, perché i pugni facevano male e si immolava al calcio, col ruolo più gentile di portiere. Muore mentre a Venezia si va sul tappeto rosso, una Venezia che con lui è stata caritatevole, nel senso del Leone alla carriera, in ritardo, molto in ritardo per uno che è diventato attore in modo rocambolesco, perché in un tempo lontanissimo, a Saint-Germain-des-Prés, un tipo strano, con in mano una telecamera, lo invitò a casa sua, proponendogli di girare un film, cinquemila franchi al giorno. Bèbel ci pensò su, l’istinto gli diceva di prenderlo a pugni. Sua moglie gli disse di provarci prima di colpirlo. Un’altra contraddizione per uno lesto di mano. Jean Paul non lo picchiò e, dopo, il tipo strano, Godard, lo fece diventare l’icona della nouvelle vague, il protagonista di A Bout De Souffle. L’inizio di una carriera all’ultimo respiro, che quando la vague passò, lo consegnò ai polizieschi, e lo mise al fianco, del suo mito, Jean Gabin, il padre del suo soprannome: la profezia di un attore con la pistola in mano, con quasi nessuno a tenergli testa, se non il bello, e dannato, per davvero, Delon. Non è morto nel modo avventuroso e tragico che la sua vita da cinema prometteva. Tutto è avvenuto secondo le regole dell’ossimoro. Una morte serena, annunciata da un avvocato, in un dispaccio che somiglia a una velina della questura.
Gioacchino Criaco. E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film.
Lutto nel mondo del cinema. Chi era Jean Paul Belmondo, l’attore francese scomparso a 88 anni. Valter Vecellio su Il Riformista il 7 Settembre 2021. Si racconta che quando lo sceneggiatore Jean-Michel Charlier e il disegnatore Jean Giraud (o Moebius, se si preferisce), abbiano deciso di creare il personaggio del tenente Mike Donovan Blueberry del 7° reggimento di cavalleria, il loro occhio si sia posato sulla copertina di un settimanale con il volto di Jean-Paul Belmondo. «È lui», hanno detto insieme; e così, eccolo come è apparso tavola dopo tavola, conquistando legioni di ragazzini: fisico atletico, grinta dura, ironica e beffarda. Leggenda? Beh, come la celebre, finale battuta de L’uomo che uccise Liberty Valance: «Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda». Basta sostituire West a cinema, avventura; che spesso si sovrappongono. “Bébel”, o “le Magnifique”, del resto, lui stesso una leggenda: aria scanzonata, da incorreggibile scavezzacollo, naso schiacciato come quello di un consumato boxeur, battuta pronta e salace, di chi ride del mondo, a partire da se stesso… Una inconfondibile eleganza francese che si è un po’ persa anche a Parigi: è questo il suo segreto? È stato sempre amato e invidiato: amava le donne e loro amavano lui. Conteso dalle più belle donne del cinema, protagonista di tanti amori e di flirt: Élodie Constantin, Ursula Andress, Laura Antonelli, Natty Tardivel, Barbara Gandolfi. Un mostro sacro, non solo del cinema francese: indimenticabile in film come Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard; e fin da subito dimostra i suoi talenti in A doppia mandata del quasi esordiente Claude Chabrol. Con Alain Delon (altro mostro sacro del cinema francese) forma una coppia che fa pensare ai “duelli” ciclistici di Fausto Coppi e Gino Bartali. Ma rispetto a Delon, che certo ha canoni fisici apparentemente superiori, “Bébel” oppone simpatia canagliesca e talento innato. Lo sanno bene Vittorio De Sica che lo sceglie per il ruolo di Michele ne“La ciociara e Mauro Bolognini, che lo vuole nei panni di Amerigo ne La viaccia. Dietro quella maschera da guascone, un grande attore: come dimostra in Asfalto che scotta di Claude Sautet, accanto a un superbo Lino Ventura: la critica lo comincia ad apprezzare, sottolinea la sua interpretazione seria e malinconica, interpretando il ruolo di Eric Stark dimostra talento e intensità drammatica. Poi vengono altri “noir”: Quello che spara per primo, di Jean Becker; Quando torna l’inverno di Henri Verneuil; Lo spione, di Jean-Pierre Melville. Ma anche ruoli brillanti, da commedia, come L’uomo di Rio di Philippe de Broca; e, naturalmente, l’indimenticabile Borsalino di Jacques Deray. Delon ha buone ragioni per dolersi, e “andare storto”: i due attori sono bravissimi, ma Belmondo eccelle di netto. Infaticabile, si dedica negli ultimi anni al teatro, e anche lì eccelle: ripassa tutti i grandi classici, veste perfino i panni del mattatore Kean e aspira a un finale di carriera da “padre nobile”, guadagnandosi intanto il Premio Cesar come miglior attore nel 1989. Apprezzato da registi del calibro di Claude Lelouch, François Truffaut, Louis Malle, José Giovanni, incarna un certo cinema francese che va da Jean Gabin a Yves Montand, fino a Serge Reggiani e Lino Ventura. Un cinema che ormai lo si può ritrovare solo in cineteca o nelle retrospettive di qualche festival. Valter Vecellio
Marco Giusti per Dagospia Il 7 settembre 2021. Non si è fatto scoppiare con la dinamite come in Pierrot le fou di Jean-Luc Godard, il film di Jean-Paul Belmondo che mi piacerebbe rivedere di più oggi, in onore della sua uscita di scena a 88 anni. Certo. Vedere "Pierrot le fou" senza rivedere il primo capolavoro suo e di Godard, "Fino all'ultimo respiro" non sarebbe giusto. Anche lì muore in un finale meraviglioso, passandosi il dito sulle labbra, tradito da Jean Seberg. Ah, le donne! Ovvio rivedrei anche "Une femme est une femme", ancora Godard. Con Anna Karina. A colori. Quasi un musical. Lì Belmondo imita il sorriso coi denti in vista bianchissimi di Burt Lancaster in "Vera Cruz" di Robert Aldrich. Come facevamo a non amarlo allora? Chi aveva la stessa leggerezza per tradurre in spettacolo l'amore per il cinema? E i suoi noir, a cominciare da "Il buco" di Jacques Becker, il suo rapporto con Jean-Pierre Melilli, col quale fa tre film, "Lo sciacallo", "Lo spione" e "Leon Marino prete", con José Giovanni,"Il clan dei marsigliesi". Favoloso. Mi piaceva meno nei suoi film italiani, anche importanti come " La ciociara" di Vittorio De Sica con Soohia Loren, "Mare matto" di Renato Castellani, il pur bellissimo "La viaccia", dove incontra Claudia Cardinake. Ma era bravissimo nel cappa e spada a colori superfrancese, "Cartouche" di Philippe De Broca e nell'avventura anni 60, "L'uomo di Rio", "L'uomo di Hong Kong". Come ti sei fatta quel taglio? Chiedo a Ursula Andress. "Me l'ha fatto Jean-Paul con un coltello" mi risponde. Il loro è stato un grande amore pieno di passione e di zuffe. Perché te l'ha fatto? Beh, io gli avevo sparato. Gelosissimo, le aveva vietato una serie di film importanti per averla solo per lui. Una volta per recuperarla si arrampico' fino al secondo piano di un albergo. Era uno scontro continuo. Lei non sopportava che lui facesse colazione a letto leggendo "L'Equipe" e sporcano con le mani nere d'inchiostro il letto.Diffidava di tutti. Ma soprattutto di Mastroianni che con Ursula aveva girato La decima vittima". Mi ha detto che Fellini le aveva proposto un film in coppia con Marcello e Belmondo si è opposto. Innamorato e geloso, ma poi, ahimè, la tradì con Laura Antonelli, mentre giravano un film insieme. Ursula se ne accorse e senza dire una parola lo lasciò senza fare le valigie. Bebel cercò di recuperarla inutilmente. Per dir la verità diventando famoso non riesce a mantenere lo stato di grazia degli inizi. Lo ricordiamo ancora fantastico ne "Il ladro di Parigi" di Louis Malle, dove fa un voleur anarchico e romantico. O in "La mia droga si chiama Julie" di Francois Truffaut con Catherine Deneuve che lo fa impazzire. Ma non è il ruolo adatto a lui. Non brilla nemmeno nel thriller politicamente scorretto "Docteur Popaul" di Claude Chabrol, dove tradisce Mia Farrow con la cugina Laura Antonelli. È allora che scoppia la passione per la nuova star italiana. Lo capiamo anche vedendo il film. Belmondo era pazzo per le donne. Il giorno che non le desiderera' più sarà morto, mi disse Ursula che lo conosceva bene e ha seguitato a vederlo negli anni. Negli anni i suoi film peggiorano, anche se lo vuole Alain Resnajs per "Stavinsky", ma tra "Borsalino" di Jacqyes Deray in coppia con Alain Delon, l'amico rivale di sempre, e una serie di poliziotteschi di grande successo diventa uno degli attori più amati di Francia. Non abbiamo idea oggi del successo dei suoi film anni 70 in Francia, pensiamo solo a quelli Georges Lautner, che divenne il suo regista di fiducia "Poliziotto o canaglia", "Il piccione di Piazza San Marco", "Joss il professionista, ma anche con Jacques Deray, Henri Verneuil. Il suo ruolo è sempre quello del simpatico spaccone, sigaro in bocca, cappelletto, dolce vita e pistola pronta a essere estratta o già in mano. Lontano dalla Nouvelle Vague ma così amato dal pubblico. Un Merli francese, ma sempre ironico e pieno di vita, a differenza di Delon, più bello ma più freddo. Bebel fu il mito del cinema di genere francese anni 70. Nel tempo non si è mai dato per vinto ne' con le donne ne' con la vita, anche quando sembrava che il meglio fosse passato.
Mauro Zanon per “Libero quotidiano” il 25 settembre 2021. «Tutta la famiglia Belmondo è scioccata dal comportamento di Madame Sotto Mayor, dalla pubblicazione di questo libro a pochi giorni dalla morte di Jean-Paul Belmondo. È indecente. Nessuna delle sue compagne di vita ha mai raccontato pubblicamente la propria intimità con lui». Sono le parole di Michel Godest, avvocato e amico del grande attore francese scomparso lo scorso 6 settembre a 88 anni. Parole di rabbia per l'uscita nelle librerie di Jean Paul. Mon homme de Rio (Flammarion), scritto dall'attrice e cantante brasiliana Carlos Sotto Mayor, con cui Bébel ebbe una storia d'amore negli anni Ottanta, dopo essersi lasciato con Laura Antonelli. Originaria di Fortaleza, Carlos Sotto Mayor conobbe Belmondo nel 1980, all'Elysée Matignon, la discoteca dove andava a ballare lo show-biz. Le Magnifique, allora quarantasettenne, non restò indifferente al corpo sinuoso di quella diciannovenne brasiliana che era apparsa all'improvviso nella notte parigina: fu un colpo di fulmine.
COLPO DI FULMINE Ma quando la ragazza di Fortaleza andò ad abitare nell'appartamento dell'attore, a rue des Saint-Pères, nel Sesto arrondissement, scoprì subito un altro Belmondo: «Ehi, Piccola (il suo soprannome, ndr), a partire da questo momento non vai più a letto con nessuno. E tutto ciò che accade qui dentro resta qui dentro», le avrebbe detto Bébel, mostrando il suo lato geloso e possessivo. Un giorno, come racconta nel libro, Carlos Sotto Mayor trovò all'interno di una valigetta in camera da letto un misterioso registratore. «Per intere settimane, mi aveva messo sotto intercettazione per sapere se lo tradivo», rivela la cantante brasiliana. La gelosia di Belmondo emerse anche in occasione di un viaggio alle Isole Baleari, nel corso del quale avevano incrociato i Bee Gees, che, secondo il punto di vista dell'attore, guardavano con troppa concupiscenza la sua compagna brasiliana. «Quel giorno, ho scoperto che il Magnifico non sopportava la presenza di persone più famose di lui. Anche se è rimasto semplice e modesto, ha sempre avuto bisogno di essere il capo del branco, il maschio alfa», racconta l'attrice, che ha condiviso lo schermo con Belmondo in tre film: Professione: poliziotto (1983), Irresistibile bugiardo (1984) e Tenero e violento (1987). Negli estratti del libro che mostrano il lato nascosto di Bébel, pubblicati in anteprima dal Journal du dimanche, Carlos Sotto Mayor parla anche della lunga depressione dell'attore, che non è stata rivelata a nessuno e che sarebbe iniziata nel 1982 con la morte del padre, lo scultore di origini italiane Paul Belmondo
TEMPISMO L'ex top-model brasiliana riporta anche un episodio alla Fashion Week con Ursula Andress, la James Bond girl con cui Belmondo ebbe una parentesi d'amore tumultuosa alla fine degli anni Sessanta. «Salutami Jean-Paul e digli di restituirmi il mio comodino Luigi XVI», avrebbe detto la Andress alla Sotto Mayor, dando del "tirchio" all'attore francese. Non è insomma un ritratto piacevole quello dipinto dalla cantante brasiliana. E non solo per i contenuti, ma anche per il tempismo scelto. L'attrice era tornata a farsi viva dopo anni di silenzio nel 2019 e nell'estate del 2020. «Si è imposta, lo ha voluto tenere tutto per sé, allontanarlo dai suoi cari, dalla sua famiglia. Gli ha fatto fare tutta una serie di foto e di video durante l'estate del 2020», denuncia il legale della famiglia Belmondo, Michel Godest, secondo cui la cantante «ha approfittato di lui per fare il suo ritorno mediatico». Carlos Sotto Mayor, al Parisien, ha definito con queste parole la sua relazione con Belmondo: «Un'amicizia molto profonda con molto amore». Affermazione a cui l'avvocato e amico di Bébel ha reagito così: «E per quale motivo, se era follemente innamorata, è scomparsa improvvisamente senza più dare notizie la scorsa primavera?».
· È morta la cantante Sarah Harding.
Aveva 39 anni. È morta Sarah Harding, la cantante ex componente delle Girls Aloud stroncata da un tumore al seno. Vito Califano su Il Riformista il 5 Settembre 2021. È morta a 39 anni Sarah Harding, cantante britannica ed ex componente delle Girls Aloud. È morta a causa di un cancro al seno, dopo una battaglia lunga poco più di un anno. La malattia le era stata diagnosticata a inizio 2020. “Molti di voi sono a conoscenza della battaglia di Sarah contro il cancro che ha combattuto duramente dalla diagnosi fino al suo ultimo giorno. Questa mattina se ne è andata pacificamente”, ha scritto sui social la madre di Sarah, Marie. La madre ha sottolineato come il supporto e l’affetto ricevuto dalla figlia in questo periodo “significava tutto per Sarah, le dava grande forza e conforto sapere di essere amata. So che non vorrà essere ricordata per la sua lotta contro questa terribile malattia: era una stella splendente e brillante e spero che sia così che potrà essere ricordata”. L’ultimo desiderio che aveva espresso dopo che il medico le aveva preannunciato ancora pochi mesi di vita era dare un’ultima festa con i suoi amici. Harding era nata il 17 novembre 1981 ad Ascot. Aveva partecipato al talent show Popstars: The Rivals nel 2002. Arrivò in finale e con le altre finaliste formò le future Girls Aloud. Il gruppo si era poi separato per tornare di nuovo insieme nel 2012. La formazione si è sciolta definitivamente nel 2013. Sarah Harding nel frattempo si era data alla televisione. Ha partecipato a diversi reality show tra cui il Grande Fratello Vip inglese, che ha vinto nel 2017. Dopo la diagnosi del tumore aveva scritto e pubblicato un’autobiografia, Here Me Out. Si è sottoposta a mastectomia e a chemio settimanali. La malattia però si era diffusa rapidamente ad altri organi. “Mentre scrivevo del mio cancro mi sono ritrovata a pensare: ‘Voglio che lo sappiano tutti?” — aveva scritto Harding nel suo libro – Poi mi sono detta che se c’era la possibilità che anche solo una persona decidesse di farsi controllare dopo aver letto la mia storia e venisse curata in tempo, allora ne era valsa la pena'”.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
· E’ morta la giornalista Anna Cataldi.
Estratto dell’articolo di Gianfranco Ferroni per “il Tempo” il 3 settembre 2021. Oggi a Dogliani, in provincia di Cuneo, nell'ambito del Festival della Tv e dei nuovi media è atteso un dialogo con Urbano Cairo. Chissà se onorerà l’appuntamento, visto che ieri però è scomparsa Anna Cataldi, giornalista di lungo corso, scrittrice, produttrice cinematografica, già sposa di Cairo. Enrico Mentana nel telegiornale di La7 delle ore 20 ha annunciato la morte della Cataldi, ma non ha detto che era stata una delle mogli dell’editore Cairo. (…)
Elisabetta Rosaspina per il “Corriere della Sera” il 3 settembre 2021. Impossibile raccontare tutte le vite condensate nei suoi 81 anni. La più coinvolgente è stata senz' altro quella che ha dedicato ai diritti umani, cui si è consacrata con ogni risorsa a sua disposizione. Fino all'ultimo, fino a ieri, quando un malore se l'è portata via. Anna Cataldi, giornalista, scrittrice, produttrice cinematografica, scelta nel 1998 dall'allora segretario generale dell'Onu, Kofi Annan, come Messaggera di pace assieme a Luciano Pavarotti (li aveva fatti incontrare proprio lei), già International media consultant dell'Unicef, Goodwill ambassador dell'Organizzazione mondiale della sanità, nel programma Stop Tbc, e del Consiglio europeo per i rifugiati e gli esiliati) non sentiva di avere già fatto abbastanza. In questi giorni il suo obiettivo era di riuscire a «esfiltrare» dall'Afghanistan la famiglia di un bambino, meglio, un ex bambino, che nel 2001 aveva portato con altri piccoli profughi da Peshawar in Italia, al concerto di Pavarotti and Friends, quell'anno dedicato al paese ancora in mano ai talebani. Non aveva dimenticato il bambino saggio che in quel mese di ristoro italiano aveva capito l'importanza di studiare e ne aveva fatto tesoro in patria. Voleva a tutti i costi offrire a lui e ai suoi figli un'altra opportunità: «Mi telefonava anche di notte» ricorda commossa Nicoletta Mantovani. E non soltanto a lei: stava smuovendo tutte le sue conoscenze - e non erano poche - in Italia, a Ginevra, alla Croce Rossa, ai vertici delle Nazioni Unite, incapace di rassegnarsi. Incapace di accettare che l'Afghanistan, il Paese che aveva percorso in lungo e in largo, in compagnia di grandi fotoreporter, come James Nachtwey e Sebastiano Salgado, fosse di nuovo ostaggio del fanatismo più truce. Incollata ai notiziari della Bbc e della Cnn, era indignata dal voltafaccia degli Stati Uniti, dalle parole del Segretario di Stato Tony Blinken, quando ha detto «la nostra missione non è mai stata quella di aiutare gli Afghani. Noi volevamo solo vendicarci per le Torri Gemelle». Una delle sue risorse era proprio «la capacità di collegare le persone», come ricorda ancora Nicoletta Mantovani, al suo fianco con la Fondazione Pavarotti. La capacità di spendersi per tutti, come aggiunge Urbano Cairo, suo marito per otto anni: «Unica, speciale, generosa - cerca per lei aggettivi adeguati l'editore -. Ha avuto un'influenza molto importante su di me. Il nostro è stato un grande legame e Anna ha continuato a far parte della mia famiglia, in tutte le occasioni, affezionatissima a mia moglie e ai miei figli». Era toccato a lui, il 2 agosto del 1993, darle la più terribile delle notizie: Giovanni, figlio del suo primo matrimonio con Giorgio Falck, era morto a 27 anni all'ospedale di Piombino dopo un'immersione all'isola d'Elba. Le restavano due figlie, Guia e Jacaranda, e la forza ostinata con la quale cercava di porre rimedio alle sofferenze dell'umanità in guerra. Aveva ricevuto il testimone dall'attrice Audrey Hepburn, amica-sorella, che visitava le zone più disastrate del pianeta come Ambasciatrice dell'Unicef. A lei, e ad altre grandi donne altruiste, Anna Cataldi ha dedicato un libro, «Con il cuore» (Cairo): «Un giorno mi disse che stava partendo per la Somalia, dove la carestia uccideva migliaia di bambini. Le chiesi di andare con lei - raccontò al Corriere della Sera -. L'Africa la conoscevo bene. Ero stata io a comprare i diritti cinematografici di "La mia Africa" dagli eredi di Karen Blixen e a convincere Hollywood a farne un film». Il successo di un'altra delle sue vite, ottenuto senza farsi scoraggiare da chi, come Roman Polanski, le consigliava di dedicarsi ad altro. Lo raccontò nel suo ultimo libro, «La coda della sirena» (Rizzoli). Raccolse invece il suggerimento di Audrey Hepburn: «Io posso spendere la notorietà che mi resta per rendere il mondo consapevole di cosa sta succedendo. Tu sai scrivere: usa la parola per fare la stessa cosa». Obbedì, cercando di sensibilizzare l'opinione pubblica attraverso i suoi reportage per Panorama, Epoca e L'Espresso dai fronti di guerra: Bosnia, Cecenia, Angola, Ruanda. A volte travalicava i compiti di giornalista: nel marzo 1992, con l'inviato del Tg4, Toni Capuozzo, portò via da Sarajevo, nascosto in un giubbotto antiproiettile, Kemal Karic, 10 mesi, orfano di madre e mutilato di una gamba dai bombardamenti, per farlo curare in Italia.
· Morto lo scrittore Daniele Del Giudice.
La malinconica allegria di Del Giudice. Alberto Asor Rosa su La Repubblica il 2 settembre 2021. L’autore de “Lo stadio di Wimbledon” e “Atlante occidentale” è morto a Venezia all’età di 72 anni. Era ammalato da tempo. Uno scrittore vicino agli “ultimi classici”: da Calvino a Pasolini. Ho conosciuto Daniele Del Giudice quando era giovane, molto giovane, quasi un ragazzo: fra gli anni '70 e gli anni '80 del secolo scorso. Collaborava a un quotidiano romano che si chiamava Paese Sera, che poi è scomparso: redigeva articoli culturali e faceva interviste. Era intelligente, curioso, acuto, spiritoso: qualche volta sardonico, anche con il suo interlocutore.
Morto Daniele Del Giudice, lo scrittore è scomparso a 72 anni: era malato da tempo. Riccardo Castrichini il 02/09/2021 su Notizie.it. Lo scrittore Daniele Del Giudice è morto all'età di 72 anni dopo una lunga e tormentata malattia. Per lui in vita riconoscimenti e libri importanti. È morto all’età di 72 anni lo scrittore Daniele Del Giudice. Da tempo il critico e giornalista di Paese Sera combatteva con una grave malattia. Una vita passata a scrivere e raccontare, attività di rifugio ideale per chi come Del Giudice non amava le apparizioni pubbliche. Un carattere schivo e riservato che però nella scrittura trovava una sua maggiore dolcezza e una libertà di movimento. Il suo primo romanzo, Lo stadio di Wimbledon, è datato 1983. Un primo assaggio del suo talento letterario che nel corso della sua vita lo ha portato a ricevere diversi riconoscimenti importanti quali il Premio Viareggio Opera Prima nel 1983, il Premio Letterario Giovanni Comisso nel 1985, il Premio Bergamo nel 1986, il Bagutta nel 1995, il Premio Feltrinelli dall’Accademia dei Lincei per l’opera narrativa nel 2002. Nella giornata di sabato 4 settembre sarebbe dovuto essere presente al Campiello – dove già era stato due volte – per ricevere un premio alla carriera. Singolare, nel corso della carriera di Del Giudice, è la questione legata al Premio Strega. All’uscita di Orizzonte mobile nel 2009 sembrava infatti che lo scrittore potesse essere tra i papabili vincitori di quell’anno, notizia che però lo stesso Del Giudice smentì in grande fretta dichiarando di non voler affatto partecipare a quel premio letterario. Tra le opere più importanti di Del Giudice ricordiamo Atlante occidentale, del 1985, che tratta del rapporto tra il fisico Pietro Brahe e lo scrittore Ira Epstein. E ancora, Nel museo di Reims, del 1988, ovvero la storia di Barnaba e del suo voler memorizzare tutte le immagini del museo prima di diventare completamente cieco. Nel 1994 particolare menzione merita Staccando l’ombra da terra, una raccolta di racconti dedicati al tema del volo, uno dei quali, Unreported inbound Palermo, ha ispirato la realizzazione dell’omonimo spettacolo teatrale di Marco Paolini. Sulla scia di questo successo nel 2001 Del Giudice ha scritto insieme allo stesso Paolini lo spettacolo I-TIGI, Canto per Ustica, un testo teatrale sulla tragedia del Dc9 Italia precipitato nel 1980.
Paolo di Stefano per corriere.it il 2 settembre 2021. Fu Daniele Del Giudice il primo a telefonare da Venezia in casa editrice Einaudi il pomeriggio in cui Calvino ebbe l’ictus: «Italo sta morendo». Lo racconta Ernesto Ferrero nel suo «album familiare» I migliori anni della nostra vita. Non è escluso che anche per Daniele i migliori anni siano stati quelli dei mercoledì in via Biancamano. Era lui, non ancora quarantenne nel 1986, il più giovane consulente. Fu una vera staffetta con Calvino, che gli aveva passato il testimone sin dal 1983 scrivendo la quarta del suo primo romanzo, Lo stadio di Wimbledon, con la triplice domanda in chiusura: «Cosa ci annuncia questo insolito libro? La ripresa del romanzo d’iniziazione d’un giovane scrittore? O un nuovo approccio alla rappresentazione, al racconto, secondo un nuovo sistema di coordinate?». Del Giudice nasce nel 1949 a Roma, da padre svizzero dei Grigioni morto quando Daniele è un bambino. Passa anni in collegio, non ha un’infanzia felice. In un’intervista del 2007 a Riccardo Giacconi ricorda che suo padre prima di morire gli regalò una macchina da scrivere, una enorme Underwood americana e una Bianchi 28, una bicicletta. Non andava a scuola, il piccolo, preferiva pedalare la mattina e battere a macchina con due dita il pomeriggio. Del Giudice non ha mai terminato gli studi universitari, forse perché ben presto ha cominciato a collaborare per i giornali, prima di spostarsi a Milano e poi definitivamente a Venezia. Ha lavorato a «Paese Sera», con l’allora amico Franco Cordelli. Nella prima intervista, del 1978, dava già del tu a Calvino. Lo stadio di Wimbledon fu una rivelazione: racconta il viaggio-inchiesta di un giovane sulle tracce della figura di Bobi Bazlen, della sua «non scrittura» e del silenzio che caratterizzò la vita dell’intellettuale triestino. Il vero fuoco è però l’interrogazione su quella «complicatezza leggera» che, secondo un ideale calviniano, è la creazione letteraria. Qualcuno vide in una certa freddezza troppo «intelligente» il limite di Del Giudice: ma in realtà la prosa piana, trasparente, i dialoghi rarefatti in un intreccio pressoché impercettibile (in cui compaiono due donne conosciute da Montale, Gerti e Liuba) intensificano la forza del mistero, dell’assenza, da cui si libera l’energia creativa del protagonista senza farlo precipitare nella stessa afasia bazleniana. Il secondo romanzo, Atlante occidentale, arriva presto, nell’85. Giulio Einaudi ricordava che il trenino scelto per la copertina fu imposto dall’autore, cosa che raramente accadeva. Mentre Lo stadio di Wimbledon è un romanzo che interroga la memoria degli amici di una persona assente, Atlante occidentale è la storia di una amicizia reale, quella nata dall’incontro, in un piccolo campo di aviazione nei dintorni di Ginevra, tra l’anziano scrittore Epstein e Brahe, un giovane fisico italiano: i due sono accomunati dalla passione del volo, la stessa del pilota dilettante Del Giudice. La scena di «Atlante occidentale» è un laboratorio ginevrino in cui si sta sperimentando un anello di accelerazione che permetterà di rendere visibili infinitesimali particelle di materia. La lettura più ovvia è il confronto tra le due culture, ma il libro è molto più ambizioso: si propone di «inseguire la metamorfosi dell’uomo europeo, la nuova percezione che egli ha di sé e del mondo che lo circonda», restituendo alla letteratura la sua «vera vocazione di scoperta». Precisione della scrittura, esattezza nel rendere i fenomeni fisici come nel restituire i sentimenti, le emozioni: sono questi i tratti che distinguono la prosa di Del Giudice anche quando affronta il motivo autobiografico del volo nei racconti di Staccando l’ombra da terra (1994), forse il suo libro migliore: qui l’esperienza aviatoria personale si estende ad altre storie, come la caduta di un aereo nuovissimo sulla Conca di Crezzo per via del gelo. Ma soprattutto la tragedia dell’Itavia a Ustica, resa attraverso i drammatici dialoghi del «voice recorder». È un libro sulla grammatica del volo e sulla grammatica della vita, sul rapporto tra allievo e maestro, sull’etica dell’aviatore e sull’etica esistenziale, sull’equilibrio delicato tra istinto e competenza. E c’è una metafora superiore, quella letteraria, se è vero che la rotta aerea va tenuta salda come la rotta dello stile per uno scrittore. I racconti di Mania (1997) sono un’altra prova dell’adozione della misura breve come abito stilistico (e filosofico) ideale di del Giudice: anche qui con testi bellissimi, giocati su un’ampia tastiera di stile e di visioni, che mostrano ormai una qualità musicale della scrittura. Nel 2000, Del Giudice scrive per e con Marco Paolini un testo teatrale su Ustica lavorando sugli atti e sui documenti. Del Giudice intanto si era offerto generosamente e con entusiasmo all’organizzazione degli eventi veneziani di «Fondamenta» e all’insegnamento allo Iuav. Orizzonte mobile è del 2009: Del Giudice narra la sua spedizione antartica, ma unisce in un unico filo narrativo anche altri viaggi lontani nel tempo, attraverso i taccuini di esploratori ottocenteschi. A Claudio Magris, che lo intervistò per il «Corriere», disse: «Nella percezione le cose non sono affiancate ma simultanee e così dovrebbe essere nella narrazione». La percezione della realtà cominciavano lentamente per lui a sfumare: lo scrittore che ha fatto del ragionamento e della lucidità calviniana l’ossessione del suo narrare e del suo leggere (Del Giudice è stato anche ottimo saggista) doveva arrendersi all’Alzheimer. A Calvino era esploso il cervello in un attimo, quello di Del Giudice è andato lentamente in macerie (lo ha narrato Michele Farina nel suo Quando andiamo a casa?). Strano destino di due scrittori che avevano fatto del pensiero esatto il loro stile creativo.
La scomparsa dello scrittore. Chi era Daniele del Giudice, l’ultimo scrittore italiano del Novecento. Eraldo Affinati su Il Riformista il 3 Settembre 2021. Scompare con Daniele Del Giudice, da tempo ricoverato in una clinica della Giudecca a Venezia, l’ultimo scrittore italiano del Novecento: non in senso anagrafico, ma spirituale. Erano molti anni che il suo cervello aveva ceduto logica e spazio al Doppelgänger, “il fratello muto che ciascuno porta nascosto dentro di sé”, come volle definire lui stesso, in una memorabile introduzione alle opere di Primo Levi (Einaudi, 1997), la dimensione interiore d’oblio permanente in cui finirono inghiottiti anche Paul Celan, Jean Améry e Bruno Bettelheim, reduci dai lager e tutti suicidi. Nel suo caso c’era stata sin dall’inizio un’inquietante fascinazione nei confronti dell’assenza, come risposta strategica alla mancanza di fiducia nella realtà, prisma cangiante e ingannevole, frantumata secondo le nostre interpretazioni e quindi non sempre affidabile. Potremmo considerare la sua infanzia difficile (nato a Roma nel 1949, padre svizzero morto giovane, prima formazione in collegio) quale nucleo originario di tale carattere espressivo. Sorta di cellula germinale di una caratteristica, singolare introversione, capace di garantire un timbro unico al dettato. Ma altri avrebbero reagito contrapponendosi allo scacco familiare. Del Giudice invece si rispecchiò nel vuoto da cui sentiva di provenire, fino al punto da assumerlo nella forma di una prospettiva ideale: sin dall’esordio, con Lo stadio di Wimbledon (1983), incensato da Italo Calvino alla maniera del maestro che sceglie il proprio pupillo, mettendo al centro della narrazione la mitica figura di Roberto Bazlen (senza mai nominarlo), letterato nascosto della cultura italiana, mostrò il suo talento di raffinato stilista. Non conta ciò che vedo o credo di vedere, bensì come riesco a rappresentarlo. Il che produce un’accelerazione vitalistica destinata alla sconfitta: è questa tuttavia la paradossale profonda ragione della letteratura. Nell’incipit del Museo di Reims (1988) lo aveva quasi proclamato: «È da quando ho saputo che sarei diventato cieco che ho cominciato ad amare la pittura» Una volta in Antartide ne ebbe piena consapevolezza: «Non so se ho molto da raccontare a proposito di questo viaggio, perché è stata soprattutto una storia di paesaggio, e di paesaggio attraversato in macchina» (Orizzonte mobile, 2009). Siamo dentro l’oscurità cui sembra costringerci la caduta di ogni certezza. Perfino la scienza, ce lo spiegano al meglio gli epistemologi, è un’arma spuntata. Ne deriva il classico stallo della cultura moderna che Del Giudice giunse addirittura ad incarnare.
Chi, come il sottoscritto, ha avuto il privilegio di conoscere questo vero, autentico scrittore, custodisce dentro di sé il ricordo incancellabile di quegli istanti preziosi. Era la fine degli anni Novanta. Ci incrociammo in un premio letterario a Firenze, a cui decidemmo entrambi di sottrarci per fare in modo che lo dessero a Lalla Romano. Solo una battuta veloce su Franz Kafka. Il discorso si spostò immediatamente sugli aeroplani di cui Daniele, novello Saint-Exupéry, era appassionato. Avevo appena letto Staccando l’ombra da terra (1994), forse il suo libro più bello, anche nel finale dedicato alla tragedia di Ustica. Una frase mi era rimasta in testa: «Volare era tutt’altro che una manovra ben fatta». La vita, ne dedussi, significa dunque riuscire a governare i nostri errori? Daniele assentì con un sorriso indimenticabile. E, in piedi fra la gente che passava, mi raccontò l’emozione di levarsi in volo all’alba, da solo, ai comandi di un biposto a elica, dalla pista del Lido, il sole pronto a trafiggere il campanile di San Marco. Vai su con lentezza, buchi le nuvole, ti stabilizzi sulla scia del vento, oltre i vapori. Mentre parlava ebbi l’impressione che il fantasma dell’adolescenza, appena rievocato, girasse intorno a noi e ci picchiettasse sulle spalle. Come a dire: io sono ancora qui! Compresi perché lo scrittore avesse intitolato Mania, una sua parola chiave, la raccolta di racconti appena pubblicata, che gli consentì di entrare in finale al Campiello del 1997: poi si ritirò anche da quello. Ora glielo concederanno alla carriera, come è giusto. L’epigrafe foscoliana del resto lo spiegava perfettamente: “Notate che la ‘mania’ deriva dal troppo sentire”. «Una particolare forma di concentrazione, una forma estrema del conoscere e del coincidere con il proprio destino» leggeremo poi molti anni dopo (In questa luce, 2013). Aderire a ciò che si è, lo sappiamo, segna la strada verso la maturità. Per chi scrive si tratta di un percorso obbligato. Gli strappai la promessa che un giorno mi avrebbe portato lassù insieme a lui. Usava farlo con gli amici più cari. Avrebbe mantenuto l’impegno se l’Alzheimer non glielo avesse impedito. Una volta alloggiai in un albergo posto accanto alla stanza della residenza in cui stava, ormai definitivamente assente. Eppure ne percepivo la presenza fantasmatica. Prima di addormentarmi, mi venne in mente ciò che aveva scritto in Atlante occidentale (1985): «Non il sogno e la sua sotterranea continuità che lega il giorno e la notte, ma il sonno era il vero mistero: abbandono, fratellanza animale, e rigenerazione». Così, a modo mio, chiudendo gli occhi, ebbi l’illusione di rivederlo. Eraldo Affinati
Aveva 72 anni. È morto Daniele Del Giudice, il nostro piccolo Principe. Fulvio Abbate su Il Riformista il 3 Settembre 2021. Di Daniele Del Giudice, scrittore tra i nostri più rari e preziosi, che ci ha lasciati ieri, a 72 anni, narratore segreto, lui che prestava attenzione all’infinitesimale straordinario celato nelle pieghe del reale con sguardo acuminato, molti pensavano, appunto, che appartenesse alla famiglia culturale, meglio, a una linea segnata dal gelo narrativo dell’oggettività. Uno scrittore con sguardo da anatomopatologo, la formaldeide delle idee e dell’osservazione. Bugie, proprio a Del Giudice, era altrettanto caro e familiare il cielo, nel senso proprio degli aviatori, dei trasvolatori, dei capitani coraggiosi nella “terra degli uomini”, come chi provi a collaudare lo sguardo dalla cima della percezione. Occorre infatti immaginarlo concretamente, in carne, ossa e bomber rivestito di alpaca, nella carlinga del suo aereo, pilota “dilettante”, nel senso che però al diletto davano gli illuministi, dove, parola di Voltaire o forse di Rousseau, “la curiosità è filosofia”, e insieme cura. Autore di pochi e soppesati romanzi, racconti, resoconti, cronache narrativi, dove la scrittura assume il tratto della necessità, Lo stadio di Wimbledon (1983), Atlante occidentale (1985), Nel museo di Reims (1988), Staccando l’ombra da terra (1994), Mania (1997), tra l’altro, testi esemplari destinati a mostrare proprio il suo acume sul regno del visibile e le sue pieghe nascoste.
Un lavoro paziente, chino sulle parole, degno di un orologiaio, non certo del cappellaio matto, che si chini a osservare la meccanica del vivente. Ma anche altrettanto autore, in questo nuovo caso “civile”, di un testo destinato alla voce in scena di Marco Paolini, I-TIGI. Canto per Ustica (2009), un oratorio, per le vittime della strage mai dimenticata. Non è un caso che la sua pagina scritta fosse apprezzata da Italo Calvino, che ne è stato il primo e principale estimatore e compagno di viaggio, così da includerlo dall’esordio nel catalogo Einaudi. Appresa la sua scomparsa, molti, ravvisando un tratto di consonanza straordinaria fra loro, hanno detto che Daniele, sebbene giovanissimo, fosse tra i pochi a dare “del tu” all’autore più euclideo delle nostre lettere, sottolineando così una linea di discendenza: Calvino “chirurgico”, Pasolini “passionale”, Moravia “borghese”. Romano, classe 1949, Daniele Del Giudice, a dispetto che di chi lo assimilava a un’indole “professorale”, nasce al mondo del lavoro militante culturale nella redazione di Paese Sera, sono i primi anni 70: “giornalista”, salvo presto staccare l’ombra dalla sua città e dai menabò per raggiungere Milano, infine Venezia, dove ha vissuto gli ultimi decenni, ed è lì, in Laguna, che si è visto divorare dal male che ne ha ucciso lo sguardo e la parola, cancellandolo dalla pupilla pubblica del mondo. Eppure, anche a dispetto della realtà di assente, la parola scritta e il ricordo della sua scia lucente non si sono mai interrotti, forse perché Daniele aveva abituato ogni lettore, cioè tutti noi, alla rarefazione espressiva, puntuale, presente solo se ritenuta necessaria, implicita risposta alla prolificità insignificante di altri colleghi narratori. Gli dobbiamo, fra molti doni, un viaggio memoriale seguendo l’ultima rotta di Antoine de Saint-Exupéry, in ricognizione tra Sardegna e Corsica, Daniele, idealmente, è decollato con lo stesso F-5 P-38 Lightning di Antoine, tra Bastia e l’abisso. E forse, come l’autore del Piccolo principe, Del Giudice svanisce ora dal nostro sguardo suscitando un senso di perdita ingiusta. Nessuno però lo immagini come un “diportista” letterario, semmai come chi dalla scala del cielo abbia continuato ad avere contezza del mondo, delle cose e della storia. Anni fa, Del Giudice, volto da ragazzo incorreggibile, profilo da cavalluccio marino, definizione questa che lo faceva sorridere, ebbe per noi un gesto di attenzione complice: a lui devo una consulenza sui caccia-bombardieri Usa della seconda guerra mondiale, a sua volta lassù a solcare la linea puntinata dell’orizzonte. Piace immaginare il suo viso, oltre le pagine antologiche della letteratura del “secolo breve”, accanto ai profili di piloti e trasvolatori, Blériot, Lindbergh, De Pinedo, lui, accanto a loro; Daniele Del Giudice, ala della nostra storia romanesca. Addio.
Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “La peste bis” (1997), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Pasolini raccontato a tutti” (2014), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "I promessi sposini" (2019). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.
Giampiero Mughini per Dagospia il 2 settembre 2021. Caro Dago, sarà stato il 1975 o il 1976 quando Daniele Del Giudice, che era mio amico e collega al quotidiano paracomunista romano “Paese Sera”, ruppe il rapporto con sua moglie, uscì di casa e per un paio di mesi rimase ospite a casa mia. Alla sera lui che cucinava benissimo si apprestava ai fornelli, io mettevo in tavola. Una volta che venne a cena un giornalista esperto di cinema, mi accorsi che guardava con sospetto alla “strana coppia” che io e Daniele costituivamo. Quello che più di tutto ci affratellava al giornale era che né io né lui facevamo parte della schiera di giornalisti comunisti o comunistizzabili che costituivano il 95 per cento del giornale. Daniele non era comunista né anticomunista né acomunista, era “altrove” con tutto sé stesso e innanzitutto con la sua maniera (già allora molto creativa) di intendere la scrittura su un giornale di carta. Quanto a me ero già notevolmente anticomunista, tanto che facevo parte di quella redazione di “Mondoperaio” (la rivista mensile del Psi ai tempi di Bettino Craxi) che stava lanciando un’offensiva culturale contro l’egemonia del Pci a sinistra. Quando alla direzione del “Paese Sera” arrivò Aniello Coppola, un giornalista intensamente comunista ma immensamente leale sul piano intellettuale, proprio noi due ebbe in simpatia. E ci affidò un lavoro che dividevano al modo di una mezzadria. Curavamo entrambi la terza pagina del giornale, nel senso che una settimana io e una settimana lui la impaginavamo, editavamo i pezzi, li titolavamo. Una settimana io e una settimana lui scrivevamo pezzi da terza pagina, pezzi ampi e dunque fra i più “liberi” del giornale. Io mettevo in pagina i suoi pezzi, lui metteva in pagina i miei. Una volta gli tagliai un capoverso di una decina di righe per impaginare meglio il tutto; Daniele se ne risentì. Non ce la facevo proprio a lavorare per un giornale così compattamente filocomunista. I dettagli non contano, a fine settembre del 1978 rassegnai le dimissioni. Non mi pare che Daniele nell’occasione mi mandasse un saluto o un augurio, probabilmente giocava negativamente tra noi due quell’avere io amputato un suo testo di una decina di righe, che lui aveva tutto il diritto di reputare sacre. Daniele rimase ancora un paio d’anni al “Paese Sera”, solo che lui era davvero “altrove”. Stava covando il mestiere che era irresistibilmente il suo - il mestiere di scrittore, che in lui era una seconda pelle o forse la prima pelle - e dov’era dieci anni avanti rispetto a tanti di noi. Lessi con ammirato sbalordimento quel suo esordio fulminante, ”Lo stadio di Wimbledon”, dove lui così magistralmente rievocava il destino del massimo non-scrittore italiano del Novecento, un Bobi Bazlen di cui io nel 1982 non sapevo quasi nulla. Eccome se c’era un mistero attorno a Bazlen. Eccome se c’era un mistero attorno a Daniele, di cui non so dire che cosa fosse divenuto negli anni Ottanta e Novanta e a parte essere il migliore scrittore italiano della sua generazione. Non l’ho mai più sentito dopo essermene andato dal “Paese Sera”. Naturalmente sapevo di lui, oltre che leggere quasi tutti i suoi libri. Seppi subito della malattia che precocissimamente lo rubò a se stesso e che adesso gli ha tolto la vita. Addio, Daniele
· Morto il musicista Theodorakis.
Morto Theodorakis, con il suo sirtaki fece ballare (e pensare) la Grecia. Antonio Lodetti il 3 Settembre 2021 su Il Giornale. Il tema della danza di Zorba nel film del 1964 lo rese celebre in tutto il mondo. Lo scorso dicembre era stato nominato, per la sua opera e il suo impegno politico, membro onorario dell'Accademia di Atene durante una cerimonia alla presenza delle più alte personalità greche. È stato l'ultimo degli innumerevoli premi e riconoscimenti che Mikis Theodorakis, morto ieri in un ospedale di Atene, ha raccolto in 96 anni. Theodorakis ha scritto una valanga di canzoni, opere, balletti, composizioni di vario genere, ma da noi è conosciuto soprattutto per il tema del film Zorba il greco (1964) con quella danza in crescendo nota come Sirtaki, ispirato dalle danze tradizionali di Creta. La musica di Zorba il greco fa parte della riscoperta della musica popolare greca, recuperata dal compositore dopo il suo periodo di studi in Francia dove, al Conservatorio di Parigi, lavorò anche accanto a Olivier Messiaen. Tornato in patria, decise di rivoluzionare il suono del suo Paese fondendo musica sinfonica ed elementi folklorici, unendo gli strumenti dell'orchestra classica a quelli tipicamente popolari, partendo dalla raccolta di canzoni Epitaphios. «Tutti i paesi civili valorizzano il loro patrimonio culturale popolare, così voglio fare io per uscire dall'isolamento della nostra musica». Colto e raffinato artista, fondò così la Piccola Orchestra di Atene e la Società Musicale del Pireo e tenne decine di concerti in Grecia e in mezzo mondo. La sua attività artistica non va distinta dal suo impegno politico. Anche se negli anni '80 militò nel centrodestra (dopo i danni provocati da Papandreou), Theodorakis fu una bandiera della sinistra illuminata greca. Rientrato in Patria da Parigi nel '60, fu attivissimo fino al 21 aprile 1967, quando il regime dei Colonnelli si impadronì del Paese, lo internò in un campo di concentramento e mise al bando la sua musica. Solo nel '70, grazie all'intervento di personaggi come Shostakovich, Bernstein e Harry Belafonte, fu inviato in esilio a Parigi (partendo da un aeroporto privato di proprietà di Onassis) con una grave forma di tubercolosi. Ristabilitosi, con i suoi concerti internazionali, divenne un simbolo della resistenza al regime e continuò a comporre e ad esibirsi in giro per il mondo. Scrisse tra l'altro le colonne sonore di Zeta e Serpico. Tornò a casa nel '74 e da allora fu eletto numerose volte nel Parlamento greco, dove combatté sempre per la giustizia, senza mai dimenticare il suo lavoro di compositore. Impossibile citare tutte le sue opere (non a caso si dice che sia uno dei più prolifici compositori di sempre) che proseguono negli anni '80 con numerose sinfonie e alcune tragedie come Medea, Elektra, Antigone e la versione teatrale di Zorba che debuttò all'Arena di Verona. Nonostante si fosse virtualmente ritirato da tempo, negli ultimi anni aveva ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali in tutto il mondo, e nel 2009 scrisse una Rapsodia per archi, mezzosoprano e baritono. In Italia ha scritto per Iva Zanicchi e Milva e la versione italiana de Il ragazzo che sorride per Al Bano. Antonio Lodetti
Totò Rizzo per leggo.it il 3 settembre 2021. «È stato il più grande autore di musica mediterranea del Novecento: dico mediterranea per intendere tutta la tradizione dei Paesi che si affacciano su quel mare, compreso il nostro. Le sue note erano e sono l’essenza di quello spirito, di quell’anima». Iva Zanicchi è stata la prima cantante italiana a interpretare nella nostra lingua i brani del compositore greco morto stamattina. Sono nove canzoni racchiuse in un album, «Caro Theodorakis», la più nota è «Fiume amaro» che, sottolinea la Zanicchi, «rimane il mio più grande successo di vendite, il singolo raggiunse un milione di copie nel 1970».
Come nacque l’idea di quel disco?
«Ero affascinata dalle sue canzoni, lui era stato in carcere per lungo tempo ad Atene, torturato, spedito in un campo di lavoro per prigionieri politici e poi in esilio durante il regime dei colonnelli di cui era un fiero oppositore. C’erano stati anche dei contatti epistolari, mai però avrei pensato di conoscerlo di persona e di fargli ascoltare in anteprima i suoi brani cantati in italiano».
Chi procurò quell’incontro?
«Fu un’idea di Gigi Vesigna, allora direttore di “Tv Sorrisi e Canzoni”. Theodorakis era appena sbarcato a Roma, in esilio, sul corpo ancora le ferite delle violenze subite, doveva essere operato d’urgenza per un appendicite. Vesigna mi disse: “Andiamo a trovarlo, facciamogli ascoltare la “lacca” (allora le registrazioni dei provini si chiamavano così, ndr.) del tuo disco che sta per uscire con le sue canzoni”. Ricordo come fosse oggi, quella stanza d’ospedale. C’erano lui e due suoi compagni dell’opposizione al governo dei colonnelli. Abbiamo messo su il disco e piano piano lui cominciò a piangere, e con lui i suoi due amici, tenendosi per mano, come in una forma di preghiera. Piansi anch’io, naturalmente».
Che le disse alla fine dell’ascolto?
«Mi abbracciò, volle un foglio su cui scrivere e me lo diede. La più bella dedica che un musicista mi abbia fatto: “Sono felice che la tua voce abbia incontrato la mia musica”. Ovviamente volli che quel biglietto diventasse la copertina di “Caro Theodorakis”».
Vi siete più incontrati?
«Il mio rimpianto più grande è quello di non aver potuto fare una tournée con lui, me lo aveva chiesto ma avevo già altri impegni. Però mi volle ad Atene, in un concerto a lui dedicato, a fine dittatura. Cantai tre suoi brani in un palasport gremito dove l’emozione per un dolore che ancora bruciava e per la libertà riconquistata era più che palpabile, fendeva l’aria, squarciava i cuori. Poi ci siamo sentiti più volte tranne che negli ultimi anni».
Al di là della fama conquistata col sirtaki di “Zorba” e con l’attività politica, chi era Mikis Theodorakis?
«Un uomo straordinario, di tenace senso della giustizia, un combattente vero. Ma soprattutto un musicista eccelso, un grande direttore d’orchestra qualità, questa, che, rispetto alla composizione, è rimasta magari in ombra. Ma basta leggere un suo spartito, ascoltare una sua esecuzione per capire quanto la sua musica fosse alta e le sue note ti sgorgassero con naturalezza dalla gola per farsi cantare».
Enrico Girardi per corriere.it il 2 settembre 2021. Con la scomparsa di Mikis Theodorakis, avvenuta all’età di 96 anni, tramonta un vessillo tra i più sbandierati della storia greca contemporanea. Attivo già da ragazzo nella lotta di resistenza contro il nazismo, il musicista non s’è mai tirato indietro, infatti, dal difendere orgogliosamente le sue ragioni politiche, culturali e musicali, in difesa della cultura nazionale e delle sue antichissime tradizioni. Il compositore e direttore d’orchestra che già a 17 anni si affermava in pubblico come erede della tradizione musicale greca, ha partecipato alla Guerra civile del 1946-49 e ha conosciuto il campo di concentramento; mutato il panorama politico, ha fatto parte del Parlamento nazionale; è stato attivo, dopo l’avvento della dittatura dei colonnelli, nel fronte patriottico, è stato fondatore del partito filocomunista dell’Eda, ha conosciuto il carcere e il confino subendo, insieme con i famigliari, vessazioni di ogni tipo e la messa all’indice della sua produzione. Ma è per quest’ultima che viene ricordato l’autore di «Zorba il greco» (la composizione della colonna sonora del film diretto da Michael Cacoyannis nel 1964, nota anche come Sirtaki prima in classifica per quattro settimane nel 1965 in Italia). Forte di un apprendistato solido – Theodorakis si era specializzato presso la formidabile bottega di Olivier Messiaen a Parigi –, il compositore ha sempre mirato al difficile connubio tra la tradizione classica centroeuropea e i bizantinismi del canto popolare locale, nella consapevolezza delle condizioni sempre più specialistiche della musica d’avanguardia. E c’è riuscito, conquistando al culto della sua musica masse impensabili, soprattutto nel genere della canzone, là dove cioè il sapere e l’invenzione si traducono nella forma più elementare e accessibile. Ne ha composte a centinaia. Di molte non sappiamo né il titolo né i contenuti, eppure basta accennarle per scoprire che le conosciamo da sempre. Ma non di sole canzoni vive il suo catalogo, che comprende opere liriche e balletti, musiche di scena e per il cinema, lavori sinfonici e cameristici: tutte pagine che documentano la facile vena melodica, la brillantezza ritmica e quei colori timbrici che derivano dalla particolare organologia greca.
Addio al musicista greco. Mikis Theodorakis, novantasei anni senza tentennare mai. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 3 Settembre 2021. Tutte le montagne del mondo hanno un posto speciale: un bosco di querce. Quando si mette in discussione l’onore di un uomo, si fa un resoconto della sua storia, i vecchi si cingono a una quercia. L’uomo, del cui onore si tratta, viene fatto sedere fra i rami dell’albero: si comincia a battere la quercia con un’ascia -al primo colpo l’albero si anima- degli strani esseri, tutti uguali fra loro, saltano fuori dal tronco e corrono in alto. Più si taglia e più gli esseri scappano dall’albero, per andarsi a rifugiare nelle querce vicine. Tentano di portarsi via l’uomo in giudizio. Quando l’albero cade al suolo si va a controllare. Se l’uomo è rimasto sull’albero, il suo onore è salvo, anche se è morto nella caduta. Se lo si vede scendere da una quercia vicina, sarà escluso dalla categoria degli uomini. Driadi si chiamano quelli che abbandonano l’albero, e Amadriadi quelli che precipitano a terra insieme alla quercia. È un accadimento magico, in un’atmosfera da ultima ora sommersa da un incrocio di musiche che si assestano fino a formare una sola composizione. Ogni uomo ha nella propria vita una colonna sonora. Gli uomini speciali sono Amadriadi e lo spartito della propria vita lo scrivono da sé: la musica. A volte, le parole le prendono dal migliore dei poeti. Mikis era il migliore dei musicisti e il poeta che scelse era Alekos Panagoulis. Theodorakis era lui stesso un albero, sopra la quercia del giudizio ci è rimasto per 96 anni, senza tentennare mai; fra i rami ha inventato le proprie note, indifferente alla violenza dei colpi di un potere arrogante che contro di lui aveva impugnato un’ascia gigantesca. Ha danzato fra foglie nascenti nelle primavere odorose di polvere da sparo, ed è stato a petto nudo, negli inverni infiniti in cui tutte le foglie erano soldati stesi a terra già dall’autunno. Ballava il Sirtaki meglio di Anthony Quinn, recitando L’Anelito: «È un fiume amaro dentro me, il sangue della mia ferita, ma ancor di più, è amaro il bacio che sulla bocca tua mi ferisce ancor». Intorno le Driadi andavano giù, era amaro il tradimento dei greci, l’abbraccio ai Colonnelli. Nikiforos Mandilaràs moriva a ogni nota per risorgere in quella successiva, risputando le pallottole dal petto, e Alekos anche da morto scriveva poesie immortali, senza tregua. Mikis musicava amarezza, tradimento, dolore. Incalzava l’orrore e alzava il pugno all’ennesima battaglia persa. L’ultimo comunista. L’ultima Amadriade che non è scesa dall’albero che si è scelto, perché nella lotta, in quella più dura, non è prevista la resa. Vive ancora, vivrà per sempre Mikis, tutte le volte che per le strade leggendarie del Peloponneso, qualcuno, dentro un negozio, alzerà il volume della radio per far sentire a tutti O Kaimos.
Gioacchino Criaco. E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film.
Il ricordo del musicista. Theodorakis, le tre vite del genio del sirtaki: una storia di contraddizioni tra lotta, musica e poesia. Susanna Schimperna su Il Riformista il 15 Settembre 2021. Mikis Theodorakis se ne è andato giovedì 2, e subito il primo ministro greco Mitsotakis ha proclamato tre giorni di lutto nazionale mentre persino le radio commerciali hanno sospeso i programmi per trasmettere ininterrottamente le sue musiche alternate alle poesie, ai discorsi, a spezzoni di interviste. Perché fino all’ultimo, novantaseienne e uno stato fisico precario, “O Psilos”, l’Alto, come veniva chiamato dagli amici, aveva continuato a comporre, a presenziare a eventi e concerti, a dire la sua soprattutto su questioni sociali e politiche, dispiacendosi delle reazioni che le sue opinioni suscitavano, sì, dispiacendosene molto perché lui non era proprio il tipo del “me ne infischio”, ma nonostante questo insistendo a vedere la realtà come i suoi occhi stanchi la vedevano, e a raccontarla con onestà. Occhi stanchissimi, quelli del grande artista e combattente. Non bastavano dolori acuti e vertigini, effetto delle tante botte prese in passato nelle varie galere e sale da tortura. E il dover usare la sedia a rotelle, con cui orgogliosamente si mostrava quando rappresentavano una sua opera o c’era da incoraggiare qualche giovane dotato. Nel 2012, a una manifestazione contro le misure d’austerità imposte alla Grecia dall’Europa, qualche strambo contestatore, chissà se perché troppo esagitato per capire chi avesse di fronte o perché lucidamente convinto di dover combattere le idee con la violenza, gli aveva schizzato negli occhi uno spray al peperoncino. A lui. A Mikis. A uno che pur di non apporre una maledetta firma su un maledetto foglio dichiarando di abiurare alle convinzioni marxiste, si era serenamente preparato a morire. Musicista, poeta, compositore, attivista politico. Theodorakis è stato tutto questo, e tutto allo stesso tempo. Un tempo lunghissimo, perché, nato il 29 luglio 1925, quando a diciassette anni dà il primo concerto con la sua opera Cassiani, già è impegnato nella Resistenza contro l’occupazione nazi-fascista. Nessuna paura fisica. Nessun ostacolo da parte dei genitori. Il padre, Giorgios, devoto al leader antimonarchico Venizelos, era fuggito con la fidanzata allo scoppio della guerra greco-turca, su una barchetta di fortuna, riparando all’isola di Chio, dove era nato Mikis, e poi spostandosi in varie città greche. Un uomo coraggiosissimo, lo ricorderà sempre il figlio, che dal suo esempio imparerà che avere paura è naturale e sano, ma non farsene condizionare vuol dire diventare umani. Il 23 marzo 1943 Mikis finisce in carcere perché ha picchiato un ufficiale italiano, e qui, lui che fino a quel momento ha professato ideali cristiani e combattuto in nome della libertà, conosce detenuti che gli parlano dei principi marxisti. Seguono altri arresti, altra prigione. È quando viene internato, durante la guerra civile, nel campo di Makronissos, insieme al poeta Yannis Ritsos, che si trova di fronte al ricatto: tortura e morte per chi non firma la rinuncia al comunismo. Non cede, e solo per una casualità che si può solo definire colpo di fortuna ha salva la vita. L’incontro con Ritsos è fondamentale. Lui è il primo dei poeti i cui versi Theodorakis metterà in musica, poeti che via via avranno i nomi di Kambanellis, Lorca, Seferis, Behan, Elytis. Perché la musica Theodorakis non l’ha mai dimenticata. Stava studiando al conservatorio di Atene, quando l’hanno imprigionato. Torna a studiare nel 1950, una volta libero, e dopo essersi diplomato e va a Parigi, dove diventa allievo di Messiaen e Bigot, e scrive musica sinfonica, colonne sonore, balletti. È bravissimo anche come direttore d’orchestra, acclamato in tutta Europa. Il suo volgersi alla musica popolare, proseguendo sulla strada intravista dando un suono ai versi di Ritsos – notevole Epitafios, Epifania – fa storcere il naso. Ma come, uno come lui formatosi da Messiaen? Mentre i critici si rammaricano della svolta (che poi svolta non è, ma arricchimento, dato che Theodorakis non smette di comporre musica “seria”), arrivano pezzi sempre più belli e che fanno impazzire il pubblico, come Romancero gitano o I ghitona ton anghelón. Parallelo all’impegno artistico, quello politico: Theodorakis è deputato dell’Eda (Unione Democratica della Sinistra), e quando c’è il colpo di stato dei colonnelli, 21 aprile 1967, dopo qualche tempo passato in clandestinità viene catturato e di nuovo incarcerato. Non smette di scrivere.
Oltre il muro azzurro
Il cielo azzurro
Una madre sta aspettando.
Sono anni ormai, da quando l’ho vista.
Perché non mi sono conformato ai regolamenti.
Il tempo arriva, il tempo passa
Cammino dietro il filo spinato.
I giorni neri passeranno
Prima di rivederti.
Perché non mi sono conformato ai regolamenti.
(1970)
Lo sdegno è grande e mondiale. Ormai è famoso in tutto il mondo, grazie alla colonna sonora di Zorba il greco, e tutto il mondo chiede il suo rilascio, che avviene però solo nel 1970, dopo essere stato internato anche nel carcere di Oropòs e ricoverato varie volte in ospedale, in fin di vita per gli scioperi della fame. Anche Ritsos è in carcere, e anche lui non smette di creare. Nel ’73 esce un disco, interpretato da Yorgos Dalaras, con 18 canzonette per la patria amara, musiche di Theodorakis e alcuni testi di Rtsos. Paradossale che una delle più note, Popolo, venga intonata molti anni dopo durante le manifestazioni contro le misure di austerità, quando Theodorakis sarà invece su posizioni critiche. Contraddizioni di un grande, ripensamenti? Il simbolo della Resistenza greca, una produzione artistica indissolubile dagli ideali marxisti (anche dopo la sua liberazione, in Grecia le sue opere restarono a lungo proibite, e i suoi concerti venivano spesso interrotti dalla polizia), una vita funestata da torture e reclusione e all’insegna degli scontri con l’autorità: difficile far convivere tutto questo con l’invito alla polizia, tra il 2008 e il 2009, a «contenere i disordini». Subito viene tirato fuori il suo “tradimento” antico, quando si era avvicinato al Centro-Destra in seguito agli scandali in cui era stato implicato il socialista premier Papandreu. E dunque? Dunque, andrebbe sempre ricordato il filo conduttore del pensiero e dell’agire di Theodorakis: pace, libertà, solidarietà, uguaglianza. Non credeva nella dittatura, nemmeno in quella del proletariato, che non pensava fosse un passaggio obbligato, anzi. Perché una volta che si è instaurata la dittatura, non te ne liberi più. Il suo sogno di un marxismo cristiano andava di pari passo con l’idea di una legge universale dell’armonia che governa il mondo, l’universo. E che non include la violenza. Una cosa va detta assolutamente, sul modo in cui è stato ricordato dopo la morte. Non c’è titolo di giornale o sito, in Italia e fino in America, che non abbia associato il nome di Theodorakis al “sirtaki”, come se quella danza fosse la sua invenzione più importante. È il ballo con cui Anthony Quinn e Alan Bates reagiscono al disastro nel film di Michael Cocoyannis Zorba il greco. Più precisamente, è il ballo che Quinn insegna a Bates, straniero. Come ha detto il musicologo Franco Fabbri, non è espressione affatto del “più vero spirito greco”, ma si tratta di un falso d’autore. Non ha niente a che fare con il popolare sirtós, diffuso in varie parti della Grecia, ma è simile piuttosto, se proprio vogliamo trovare un antecedente, all’hasapikós, la danza della corporazione dei macellai di Costantinopoli, scritta per il bouzouki: non musica popolare, quindi, ma tradizione inventata. Un falso riuscitissimo, visto che è per quello che il mondo si mobilitò per Theodorakis in prigione, ed è quello che oggi tutti ricordano. D’altra parte, il bisogno di portare a tutti la musica e la poesia era un’altra delle idee fisse di Theodorakis. Lo racconta Iva Zanicchi, che incontrò il Maestro a Roma e, nel 1970, pubblicò l’album Caro Theodorakis, da cui fu tratto il singolo Fiume amaro che superò il milione di copie di vendita. «Quando Mikis era in prigione un suo amico venne a Milano e mi portò alcune sue canzoni. Io mi entusiasmai e decisi di farne un intero disco. Una volta libero, Mikis mi telefonò: “Appena sto meglio sono curioso di sentire come hai cantato le mie canzoni. Vengo a Roma, ti vengo a trovare”. L’occasione fu la sua operazione per togliere l’appendice. Era in una stanzetta da solo e aveva vicino due signori, anche loro dissidenti usciti dal carcere. Ero andata con Gigi Vesigna e un fotografo, avevo portato il giradischi per fargli ascoltare la “lacca”, ed ero più che timorosa, addirittura angosciata. Mi sono messa su una sedia in un angolo. Loro non hanno detto una parola, si sono presi per mano e ti giuro hanno pianto tutto il tempo dell’ascolto del disco. Poi lui mi ha abbracciato e mi ha scritto una dedica in francese, che è diventata la copertina dell’album: “Grazie Iva perché la tua voce ha incontrato la mia musica”. Quello che lui trasmetteva era una serenità incredibile, e questa gioia e consapevolezza che con la sua musica lui superava, vinceva ogni bandiera. Non c’era carcere che tenesse. La sua musica era per tutti e di tutti. Tutta la nostra area mediterranea, tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo sono nella sua musica». L’obiettivo di arrivare a tutti l’aveva centrato in pieno. Una delle storie che amava di più raccontare era dell’incontro, in un villaggio sperduto di montagna, con un vecchio che procedeva lentamente sul dorso di un asino. Non riconoscendolo ma capendo che era un “signore”, uno che poteva sapere le cose, gli aveva domandato dove potesse comprare l’ultimo disco di Mikis Theodorakis, Axion Esti. Un lavoro complicato, un poema di Odysseus Elytism che Theodorakis aveva musicato. «Che un vecchio contadino greco non solo ne avesse sentito parlare, ma addirittura volesse avere quel lavoro, è stata una delle gioie più grandi della mia vita».
Ho tre vite
Una con cui soffrire, una con cui desiderare
E la terza con cui vincere
(1969)
Susanna Schimperna
Cesare Martinetti per “La Stampa” il 3 settembre 2021. Eravamo tutti greci, ascoltando la musica di Mikis Theodorakis, si ballava il sirtaki nelle sere d'estate, sapeva d'aria di mare ma più di tutto sapeva di libertà. È stata la colonna sonora di un sentimento che esorcizzava la paura di una «soluzione greca», vagheggiata dai fascisti italiani. È stato come partecipare a un'epopea resistenziale vissuta come un transfer emotivo per quel paese meraviglioso che a tutti aveva insegnato qualcosa. In Italia, nessun colonnello al potere, ma un certo fremere di sciabole, un golpe abortito e il peso opprimente della strategia della tensione rendevano l'incubo se non possibile, realistico. Gli scontri nelle piazze si susseguivano, l'uccisione a Roma dello studente Mikis Mantakas (figlio di resistenti greci ma militante dell'Msi) nel febbraio 1975, ne fu la vicenda emblematica. Al nome e all'inconfondibile musica di Mikis Theodorakis, morto ieri ad Atene a 96 anni, è rimasta perennemente associata l'ebbrezza di quegli anni, come un ultimo mito, che riscattava il resto della sua parabola esistenziale e politica costellato di un caotico e contraddittorio inseguirsi di prese di posizione che hanno avuto però un baricentro, l'unità dei greci, anzi la «grecità», come l'ha chiamata il suo biografo Guy Wagner. Era nato il 29 luglio 1925 nell'isola greca di Chio, Egeo orientale, a uno sguardo dalla Turchia. Giovanissimo militante comunista nella resistenza, prima e dopo la fine della seconda guerra mondiale, durante la guerra civile, imprigionato e torturato, nel 1950 si diploma ad Atene, va a Creta e fonda la sua prima orchestra. Ma grazie a una borsa di studio arriva a Parigi, capitale di tutti i sogni. Al conservatorio segue i corsi Eugène Bigot e Olivier Messiaen e diventa rapidamente un compositore classico apprezzato. Ma è allora che scopre la musica popolare greca e la militanza politica comunista diventa la molla per una scelta artistica che sarà la sua vita. Scrive il biografo Wagner che non voleva comporre per un pubblico borghese: «non voglio fare musica per quelli là». E s' è messo a comporre canzoni sui cicli di poemi anche classici. Negli Anni 60 arriva la notorietà, mondiale. Prima firma la musica di Fedra con Melina Mercouri. Poi, nel 1964, la colona sonora di Zorba il greco, film di Michael Cacoyannis con Anthony Quinn come protagonista nel ruolo di un operaio macedone giramondo che negli Anni 30 incontra lo scrittore Nikos Kazantzakis (autore del romanzo da cui è tratto il film) e gli insegna la vita. È una di quelle circostanze in cui musica, immagini, le storie narrate, l'interpretazione degli attori, il soffio del mare sulla costa di Creta si incrociano magicamente. Theodorakis inventa il «Sirtaki» una danza popolare che non esisteva e sarà il timbro di quegli anni, un simbolo politico contro la feroce dittatura dei colonnelli che schiaccerà la Grecia tra il '67 e il '74. La danza di Zorba viene proibita, Theodorakis arrestato e deportato, nell'isola di Makronissos gli spartiti sequestrati al compositore vengono gettati al vento dai secondini e i deportati li usano come carta da toilette. Nel 1969, con le sue musiche e tratto da romanzo di Vassili Vassilikos, il film di Costa-Gavras Zeta l'orgia del potere vince l'Oscar per il migliore film straniero e il premio della Giuria di Cannes. I greci potranno vederlo solo a dittatura deposta, scoprendo così la storia del deputato Grigori Lambrakis, assassinato dai fascisti e a cui Theodorakis aveva dedicato il suo movimento politico clandestino. Nel 1970 viene liberato grazie a una mobilitazione internazionale. Firmano per lui Dmitri Shostakovich, Leonard Bernstein, Arthur Miller, Harry Belafonte. A Parigi dà vita a un Consiglio nazionale della Resistenza per la libertà della Grecia. Incontra il poeta cileno Pablo Neruda, mette in musica il suo Canto General, un poema epico pubblicato anni prima in Messico che diventa un inno contro le dittature e che porta in una tournée mondiale. E a dittatura caduta, nel 1974, verrà replicato ad Atene come un «oratorio» democratico. Feroci polemiche hanno suscitato altri momenti della sua vita. L'appoggio ai governi conservatori di Karamanlis dopo la dittatura, e Mitsotakis negli Anni 90; alla Serbia di Milosevic; la denuncia della finanza americana ed ebraica nella crisi mondiale post 2008 nella quale è sprofondata la Grecia. Nel 2015 il suo appello contro il «tradimento» del primo ministro Alexis Tsipras per l'accordo con la troika, Fmi-Ue. Nel 2018 era ancora in piazza ad Atene, in sedia a rotelle. La sua musica e la sua presenza fisica hanno coperto un angolo di storia e la curva di un secolo. «Era l'ultimo leone greco», ha detto ieri la cantante Angelica Ionatos. Comunque la si pensi, Zorba ha danzato anche per noi.
· E' morto l’artista Paolo Ramundo.
E' morto Paolo Ramundo, dal '68 alla campagna le incredibili imprese di un sognatore. Paolo Portoghesi su La Repubblica l'1 settembre 2021. Addio al fondatore degli "Uccelli" estesero alla città lo spirito delle occupazioni universitarie e insegnarono a una generazione il senso della libertà. Con la morte di Paolo Ramundo (detto Capinera), l'ispiratore del gruppo degli "Uccelli", Roma ha perduto un interprete del lato migliore della sua identità popolare, un uomo semplice, collezionista di 30 e lode, ma tanto discreto da sembrare ignorante e con un disarmante sorriso sulla bocca, dotato di scanzonata ironia, ma anche di una incrollabile fede nel fatto che il mondo, la vita, si possono e si devono cambiare in meglio. Il terzetto dei primi uccelli di cui facevano parte Martino Branca e Gianfranco Moltedo coinvolse poi molti altri studenti tra cui Paolo Liguori ( straccio), Roberto Federici (diavolo) Giovanni Feo e molti altri. Da tempo Ramundo si era ritirato in una fattoria dove praticava l'agricoltura e viveva in comunità. Ma la sua storia è una storia europea che ha a che fare con lo spirito di rivolta dei grandi creatori dell'arte moderna. Nel 1968, quando la notizia della scalata di Sant' Ivo venne pubblicata dal "Figaro", Max Ernst, l'inventore di Dada, scrisse una cartolina a Guttuso per esprimergli il suo entusiasmo. Cosa era successo ? Tre studenti della facoltà di architettura sottraendosi alla noia dei discorsi velleitari avevano riscoperto la forza del linguaggio simbolico e avevano passato due notti nella gabbia di ferro che corona la cappella della antica università romana disegnata da Francesco Borromini. Il giorno dopo molti studenti di architettura avevano inscenato una fiaccolata di solidarietà, dimostrando di aver capito il senso del messaggio degli Uccelli che era quello di non accontentarsi di occupare delle facoltà ma di uscire all'aperto e coinvolgere la città. Li chiamavano uccelli perché diffidavano delle parole e preferivano cinguettare e, liberi così di volare, almeno metaforicamente, ne combinarono di tutti i colori. Sacrificarono un agnello nell'Ara Pacis, Andarono a Berlino per solidarizzare con le comuni e poi al Politecnico di Milano interrompendo una assemblea con il getto degli idranti. Ispirati da Carlo Levi andarono a Matera e occuparono un vicinato dei Sassi, interpretando la delusione dei contadini relegati nei villaggi dell'UNRA Casas poi, sorpresi dal fatto che alle donne non era consentito di partecipare alla vita sociale organizzarono in piazza una scandalosa festa in costume da bagno, sottoponendosi così a una specie di linciaggio al quale si sottrassero rifugiandosi in una caserma. Andarono in guardina per qualche giorno ma ne uscirono trionfanti. A Gibellina inventarono un finto sbarco dei mille arrivando a Marsala con un barcone preso in affitto e guidarono i terremotati a occupare simbolicamente gli uffici della regione arrampicandosi su esili scale e dipingendo sulla facciata con la tecnica delle sagome di ferro della futura street art. Nel 1976 Paolo Ramundo, con Carlo Zaccagnini, Lorenzo Mammì e Isabella Rossellini dipinsero le pareti del quartiere di Tor di Nona con bellissimi affreschi. Di questi è rimasto in opera soltanto " l'asino che vola" nel quale Paolo Ramundo si sarebbe orgogliosamente riconosciuto. L'asino è considerato il più ignorante degli animali. Ma quanta saggezza nella sua ostinazione e quanta affettuosa solidarietà nei suoi grandi occhi. Robert Bresson dipingendolo come un testimone delle follie umane ne ha fatto l'eroe del suo capolavoro: " Au Hasard Balthasar", uno dei più bei film della storia del cinema. Ai romani che hanno amato Paolo Ramundo consiglio di recarsi a Tor di Nona a rendere omaggio all'asino che se n'è volato, chissà dove e di guardare il bellissimo film di Silvio Montanaro e Gianni Ramacciotti a cura dell'Archivio del Movimento Operaio, dedicato alle gesta degli "Uccelli".
È morto il compagno «uccello» Paolo Ramundo. Lutto a sinistra. Paolo aveva 79 anni e lo abbiamo incontrato molte volte dal 1968 alla fine degli anni Settanta, tutte le volte che l’attività politica del manifesto si è intrecciata alla sua e poi a quella di Lotta Continua di cui era dirigente, e infine nella sua nuova invenzione, quella di una straordinaria cooperativa agricola, la Cobragor. Tommaso Di Francesco il 31.08.2021 su Il Manifesto. Ci ha lasciato a 79 anni il compagno «uccello» Paolo Ramundo dopo una malattia inesorabile. È con dolore che apprendiamo la notizia. «Noto architetto» dicono le agenzie, ma su questo lui avrebbe qualcosa da ridire con il suo sorriso sornione. Lo abbiamo incontrato molte volte dal 1968 alla fine degli anni Settanta, tutte le volte che l’attività politica del Manifesto si è intrecciata alla sua e a quella di Lotta Continia di cui era dirigente, e infine per la sua nuova invenzione, quella di una straordinaria cooperativa agricola, la Cobragor. A inizi del ’68 fu tra i protagonisti dell’atto creativo fondante – «l’immaginazione al potere – del movimento di rivolta degli studenti. Fu infatti tra i fondatori a Roma de “Gli Uccelli”, con contestazioni e denunce assolutamente originali, sempre non-violente e nelle forme più teatralizzate. Fuori dalle fumose assemblee dell’Università preferivano “praticare obiettivi”, arrampicarsi sugli alberi. Il 19 febbraio del 1968, sostenuti dal professor Portoghesi, si arrampicò insieme a Martino Branca e Gianfranco Moltedo, sul campanile di Sant’Ivo alla Sapienza e restarono lì per un giorno e mezzo. Iniziava il corso creativo del movimento. Durò poco. A marzo ci fu subito un diverso bagno di realtà, gli scontri di Valle Giulia. Poi lo abbiamo incontrato di nuovo nella rivolta di San Basilio del 1974, nel movimento di occupazioni delle case con altri compagni allora di Lotta Continua come Agostino Bevilacqua, Paolo Liguori “Straccio” e lo straordinario fotografo Tano D’Amico. Dicono che Paolo Ramundo fosse l’anima di Lotta Continua a Roma. Era di più, era la testa pensante: si chiedeva sempre quali erano gli spazi del movimento, guardava al futuro. E dalla diaspora di Lotta Continua uscì nel 1977 con un approccio anche stavolta originale – ci sembrò vicino alle Leghe dei disoccupati che costruiva il Pdup – da vero architetto del territorio:lanciò una occupazione di terre appena dietro l’ospedale San Filippo Neri a Monte Mario, a ridosso del quartiere di Monte Mario, fondando con un gruppo di disoccupati la Cooperativa Agricola Co.Br.Ag.Or. che esiste ancora dopo 44 anni; diventando anche dirigente della Federbraccianti Cgil. In quella sede ieri si è svolta la camera ardente per salutarlo. E a settembre i suoi compagni promettono ancora un nuovo «bel ricordo». Alla sua compagna Francesca, a tutti quelli che lo hanno amato l’abbraccio del collettivo de il manifesto.
Paolo Portoghesi per roma.repubblica.it l'1 settembre 2021. Con la morte di Paolo Ramundo (detto Capinera), l'ispiratore del gruppo degli "Uccelli", Roma ha perduto un interprete del lato migliore della sua identità popolare, un uomo semplice, collezionista di 30 e lode, ma tanto discreto da sembrare ignorante e con un disarmante sorriso sulla bocca, dotato di scanzonata ironia, ma anche di una incrollabile fede nel fatto che il mondo, la vita, si possono e si devono cambiare in meglio. Il terzetto dei primi uccelli di cui facevano parte Martino Branca e Gianfranco Moltedo coinvolse poi molti altri studenti tra cui Paolo Liguori (straccio), Roberto Federici (diavolo) Giovanni Feo e molti altri. Da tempo Ramundo si era ritirato in una fattoria dove praticava l'agricoltura e viveva in comunità. Ma la sua storia è una storia europea che ha a che fare con lo spirito di rivolta dei grandi creatori dell'arte moderna. Nel 1968, quando la notizia della scalata di Sant' Ivo venne pubblicata dal "Figaro", Max Ernst, l'inventore di Dada, scrisse una cartolina a Guttuso per esprimergli il suo entusiasmo. Cosa era successo ? Tre studenti della facoltà di architettura sottraendosi alla noia dei discorsi velleitari avevano riscoperto la forza del linguaggio simbolico e avevano passato due notti nella gabbia di ferro che corona la cappella della antica università romana disegnata da Francesco Borromini. Il giorno dopo molti studenti di architettura avevano inscenato una fiaccolata di solidarietà, dimostrando di aver capito il senso del messaggio degli Uccelli che era quello di non accontentarsi di occupare delle facoltà ma di uscire all'aperto e coinvolgere la città. Li chiamavano uccelli perché diffidavano delle parole e preferivano cinguettare e, liberi così di volare, almeno metaforicamente, ne combinarono di tutti i colori. Sacrificarono un agnello nell'Ara Pacis, Andarono a Berlino per solidarizzare con le comuni e poi al Politecnico di Milano interrompendo una assemblea con il getto degli idranti. Ispirati da Carlo Levi andarono a Matera e occuparono un vicinato dei Sassi, interpretando la delusione dei contadini relegati nei villaggi dell'UNRA Casas poi, sorpresi dal fatto che alle donne non era consentito di partecipare alla vita sociale organizzarono in piazza una scandalosa festa in costume da bagno, sottoponendosi così a una specie di linciaggio al quale si sottrassero rifugiandosi in una caserma. Andarono in guardina per qualche giorno ma ne uscirono trionfanti. A Gibellina inventarono un finto sbarco dei mille arrivando a Marsala con un barcone preso in affitto e guidarono i terremotati a occupare simbolicamente gli uffici della regione arrampicandosi su esili scale e dipingendo sulla facciata con la tecnica delle sagome di ferro della futura street art. Nel 1976 Paolo Ramundo, con Carlo Zaccagnini, Lorenzo Mammì e Isabella Rossellini dipinsero le pareti del quartiere di Tor di Nona con bellissimi affreschi. Di questi è rimasto in opera soltanto " l'asino che vola" nel quale Paolo Ramundo si sarebbe orgogliosamente riconosciuto. L'asino è considerato il più ignorante degli animali. Ma quanta saggezza nella sua ostinazione e quanta affettuosa solidarietà nei suoi grandi occhi. Robert Bresson dipingendolo come un testimone delle follie umane ne ha fatto l'eroe del suo capolavoro: " Au Hasard Balthasar", uno dei più bei film della storia del cinema. Ai romani che hanno amato Paolo Ramundo consiglio di recarsi a Tor di Nona a rendere omaggio all'asino che se n'è volato, chissà dove e di guardare il bellissimo film di Silvio Montanaro e Gianni Ramacciotti a cura dell'Archivio del Movimento Operaio, dedicato alle gesta degli "Uccelli".
Il ricordo di Ramundo, il più anticonformista di tutti. Chi era Paolo Ramundo, artista e rivoluzionario: Il "Capinera" che diede il via con gli Uccelli al ’68 italiano. Piero Sansonetti su Il Riformista il 31 Agosto 2021. I ragazzi che lavorano nei campi alla Cobragor raccontano che quando c’era un’operazione pesante da fare – sollevare un tronco, un tufo, una trave di ferro – loro chiamavano Paolo. I ragazzi della Cobragor son tutti tra i venti e i trenta, Paolo invece si avvicinava agli ottanta. Era del novembre del ‘42. Però ancora fino a qualche mese fa era un’iradiddio. Non solo nel cervello che non stava fermo un minuto, ma anche nel fisico. Magro, secco, muscoloso. Ancora quasi uguale al ragazzetto, coi capelli lunghi lunghi e il pizzetto di barba appuntito, che nel febbraio del ‘68 si arrampicò sul campanile di Sant’Ivo e gridò alla città: signori, il Sessantotto è iniziato. Il Sessantotto iniziò proprio in quel freddo giorno d’inverno, qui a Roma: non a Parigi, non a Berlino, non a Milano, non a Torino. Paolo accese il fiammifero. Poi magari restò un po’ fuori dalla ribalta ad osservare, criticare, apprezzare, e soprattutto “fare”. La cosa che gli piaceva di più era “fare” dopo aver detto. Questo non vuol dire che lui abbia realizzato tutto quello che aveva pensato, perché Paolo pensava, pensava, pensava, e pensava talmente tanto e tanto originalmente e tanto in fretta che non è che potevi stargli dietro, e anche lui non poteva mica realizzare tutto. Recentemente aveva progettato un tunnel che doveva passare sotto il Tevere e unire Tor di Nona a Castel sant’Angelo. Mica per gioco: lo voleva fare davvero. Paolo non aveva più i capelli lunghi che gli scendevano sulle spalle a “triangolo”, come in quella notte di Sant’Ivo. E magari era anche un pochino pochino meno sovversivo di cinquant’anni fa. Ma nelle cose essenziali era lo stesso: ardimentoso, anticonformista, indomito, imprevedibile. Io penso di poter dire – se ho capito bene le cose della vita, e anche se ho capito bene che tipo fosse – che Paolo era un rivoluzionario. In senso stretto, dico. Sto parlando dell’architetto Paolo Ramundo, detto Capinera, che è morto domenica mattina per un tumore che lo aveva annientato in pochi mesi. Personalmente lo ho conosciuto solo da lontano, proprio nel ‘68. Alle assemblee, alla facoltà di architettura dove andavamo anche noi studenti del liceo. Lui era un personaggio un po’ mitico, anche se non era proprio un leader. I leader, qui a Roma, erano Franco Russo, Oreste Scalzone, Piperno, Cecchini, Fuxas, Mordenti. Lui era un personaggio un po’ a parte. Contestava tutto, da vero sessantottino, contestava anche il Sessantotto e soprattutto il leaderismo. Non ha mai costruito una teoria politica precisa, però nei fatti questa teoria c’era e secondo me era l’idea che l’anticonformismo, il rifiuto di ogni schema, l’obbligo di inventare fosse l’unica bussola da tenere sul cruscotto. Qualche anno fa collaborò a qualcuno dei vari giornali che ho diretto dopo essere stato scacciato da Liberazione accusato di anticomunismo. Mi ricordo un suo articolo epico, corredato con le fotografie, ritoccate da lui, nel quale proponeva una piccola modifica urbanistica della città di Roma: voleva levare l’Altare della patria dal luogo speciale dove si trova, sotto al Campidoglio e alla fine di via del Corso, e portarlo all’Eur, alla fine della Colombo, dove ora c’è il palazzo dello Sport di Pier Luigi Nervi. E poi voleva portare il Palasport a piazza Venezia. L’effetto dell’immagine con via del Corso e sullo sfondo il Palazzo dello sport era fantastico. E anche l’Altare della patria, messo alla fine dell’Eur, faceva finalmente la sua figura. Stavamo dicendo di quella notte a Sant’Ivo. Era il 19 febbraio del 1968. Paolo, 25 anni , insieme a due suoi amici un po’ scapocciati come lui (credo che fossero Gianfranco Moltedo e Martino Branca e credo che fossero anche loro studenti di architettura, Branca, se la memoria non mi fa scherzi, era anche il figlio del presidente della Corte Costituzionale) convinse Paolo Portoghesi, professore e architetto celeberrimo, allora piuttosto giovane (aveva meno di quarant’anni) a fargli aprire le porte del campanile di Sant’Ivo alla Sapienza, quello di Borromini. Portoghesi accettò, ma quando, giunti alla cima, propose loro di tornare giù, si sentì rispondere: “No, noi occupiamo”. E così, con questo gesto spettacolare, gli “Uccelli” si guadagnarono l’attenzione di tutta la stampa, persino della stampa straniera. I giornali andavano un po’ all’ingrosso, qualcuno scrisse che minacciavano di buttarsi di sotto. Loro non avevano mai minacciato niente e non avevano mai neppure detto niente. Passarono lì la notte gelida. Martino Branca provò a riscaldarsi bruciando una corda di canapa. La mattina dopo scoprì di essersi bruciato le scarpe, un po’ come Pinocchio. Il giorno successivo migliaia di studenti vennero a solidarizzare, e giravano, giravano attorno alla Sapienza con le torce accese. Fu un grande spettacolo, pieno di suggestioni e di simbologie architettoniche e borrominiane. Gli Uccelli già erano nati, come gruppo, e Paolo Ramundo era il capo riconosciuto. Era anche il più vecchio. Ma furono consacrati da quel gesto. Li chiamavano Uccelli perché si arrampicavano un po’ ovunque, sugli alberi, sui campanili, sulle mure della facoltà o anche delle case. Loro però accettarono il nome e gli diedero un altro significato. Si richiamavano alla imprevedibilità degli uccelli. Non li prendevi mai dove ti aspettavi che fossero. Erano sempre altrove. Anche intellettualmente. Il pomeriggio di valle Giulia loro erano in facoltà, ma non volevano gli scontri. Uscirono uno a uno passando attraverso i cordoni di polizia con delle pecore in spalla. Sì, pecore. Le avevano portate in facoltà nei giorni precedenti, per contestare le assemblee che già consideravano burocratizzate. I poliziotti, stupiti, gli chiedevano: “E voi chi siete?”. “Pastori”, rispondevano, “pastori di questa valle”. Il gruppo era costituito da un gruppetto piccolo di ragazzi. Oltre ai tre di Sant’Ivo, c’era Paolo Liguori, che non aveva ancora vent’anni, e lo chiamavano Straccio. C’era Roberto Federici, Diavolo, c’era Annachiara Zevi, che era la figlia del grande architetto, e – credo – un’altra decina di ragazzi. Tutti sui vent’anni. Ma attorno al gruppo si era consolidata la solidarietà di alcuni tra i maggiori intellettuali romani. Portoghesi, Guttuso, Schifano, Moravia e tantissimi altri. Dopo il Sessantotto, Paolo, insieme ad alcuni altri degli Uccelli, aderì a Lotta Continua. Poi, molto presto, si mise – diciamo così – in proprio e iniziò a combattere battaglie politiche e di rivolta in vari quartieri di Roma. Soprattutto fece quelle che si chiamano “Occupazioni”, e che oggi sono un po’ lo spettro, sia per i 5 Stelle che per la destra. Fu nel corso di queste battaglie che occupò un vasto territorio agricolo vicino all’ospedale San Filippo Neri e al vecchio manicomio di Roma, Santa Maria della Pietà. Lì insediò la sua cooperativa agricola, la Cobragor, della quale scrivevamo all’inizio di questo articolo, che ancora esiste ed è florida, e nella quale ha lavorato con il cervello e il corpo fino a pochissimi mesi fa. L’uccello era diventato contadino. Ma restava quello che era: prima di tutto artista, e poi rivoluzionario. Non ha mai smesso di pensare fuori dal suo modello estetico e razionale. Dicono che fosse un dadaista. Credo che la parola non lo descriva bene. Anticonformista. Era più complicato, mi pare di capire. Aveva dentro di sé, e fuori di sé, l’anima principale del Sessantotto. La voglia – e la capacità – di rovesciare tutto, di non dare mai niente per scontato. In politica, alla fine, si era avvicinato al Pd. Credo che avesse la tessera. Perché? Perché, appunto, lui coniugava sogni e realismo, visionarismo e concretezza, arte e terra. Sì, anche Andy Warhol e Zingaretti… Voi dite che il Sessantotto è stata una iattura? No, amici, voi non avete capito niente. Se oggi siete persone così libere, e anche così ricche, e anche così in pace, lo dovete proprio al Sessantotto. Non a quello delle molotov. No. Al Sessantotto di Paolo, che ha preso tante botte ma è ancora vivo.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
· E' morto l’ex calciatore Francesco Morini.
DA gazzetta.it il 31 agosto 2021. E' morto Francesco Morini, 77 anni, ex giocatore di Samp e Juve ed ex dirigente sportivo. Soprannominato "Morgan" per la sua abilità "piratesca" di sottrarre il pallone agli avversari, giocava nel ruolo di stopper. Ha vestito la maglia della Samp fra il 1963 e il 1969, vincendo anche un campionato di serie B, prima di accasarsi alla Juventus, club per il quale ha giocato fino al 1980, vincendo 5 scudetti, 1 coppa Italia e 1 coppa Uefa, prima di chiudere la carriera in Canada, ai Toronto Blizzard. Fra il '73 e il '75 ha indossato 11 volte la maglia azzurra. Finita la carriera agonistica, rimase altri 13 anni in bianconero, in ruoli dirigenziali.
La Juventus piange Francesco Morini: addio allo storico stopper, era il "pirata Morgan" degli anni '70. Libero Quotidiano il 31 agosto 2021. Un grande della Juventus non è più in vita. Si tratta di Francesco Morini, venuto a mancare all’età di 77 anni: storico stopper degli anni Settanta, con il club bianconero aveva giocato la bellezza di 377 partite, vincendo cinque scudetti, una coppa Italia e una coppa Uefa. Era soprannominato Morgan, proprio come il pirata, perché aveva un’abilità straordinaria nel rubare il pallone agli avversari. Alcuni lo definivano una piovra che con i suoi tentacoli arrivava ovunque: a distanza di decenni questa descrizione è stata poi attribuita a un altro giocatore della Juventus, Paul Pogba, che però ha caratteristiche tecniche completamente diverse. Ma d’altronde quello di Morini era un altro tempo e soprattutto un altro calcio, in cui ancora esisteva il ruolo di stopper ed era pure molto importante. Secondo i cronisti dell’epoca, Morini si meritava il soprannome Morgan perché aveva il coraggio e l’impeto di un pirata in area di rigore. Nel corso degli anni Settanta la coppia che formava con Gaetano Scirea veniva descritta quasi come insuperabile. Uno era un difensore arcigno e spietato, l’altro aveva tempismo e capacità di far ripartire l’azione: insieme si completavano e facevano grande la Juventus. “Ho sempre saputo di avere piedi non raffinatissimi - aveva spiegato una volta Morini - quindi il mio compito era recuperare palla e poi appoggiarla al compagno più vicino”.
Morto il giornalista Gianfranco Giubilo.
Morto a 89 anni il giornalista Gianfranco Giubilo. La scomparsa nel giorno del suo compleanno, fu tra i fondatori della Hall of Fame dell’AS Roma. La Stampa il 30 agosto 2021. Il mondo del giornalismo piange Gianfranco Giubilo, scomparso oggi all'età di 89 anni nel giorno del suo compleanno. Tra i diversi ricordi, anche quello della Roma che sul suo sito esprime le condoglianze per la scomparsa della storica firma de "Il Tempo" e volto noto al Processo del lunedì di Aldo Biscardi. Giornalista gentiluomo, è stato tra i fondatori della Hall of Fame giallorossa nel corso di una lunga carriera - soprattutto a occuparsi della Roma - in cui è diventato una delle firme più autorevoli del panorama del giornalismo sportivo in Italia. «L'AS Roma - scrive il club giallorosso - piange la scomparsa del Maestro Gianfranco Giubilo. Storica firma del giornalismo italiano, è stato tra i fondatori della Hall of Fame». Gianfranco Giubilo apparteneva a una famiglia di giornalisti a cominciare dal padre Giuseppe ed era fratello di Alberto, il più noto per la lunghissima militanza nella Rai, voce storia di ippica ed equitazione, di Corrado, calciatore della Roma fra gli anni Trenta e Cinquanta, e di Sergio, ugualmente cronista sportivo alla Rai
Gianfranco Giubilo è morto, aveva 89 anni: addio al giornalista sportivo romano. Una famiglia di cronisti. Il Messaggero Lunedì 30 Agosto 2021. Gianfranco Giubilo è morto. Il giornalista sportivo se ne è andato proprio nel giorno del suo 89esimo compleanno. Una vera e propria icona del giornalismo sportivo romano, una vita trascorsa al quotidiano Il Tempo, raccontando tutto quello che accadeva intorno alla Roma.
Volto caro ai tifosi. Volto caro a molti tifosi, Gianfranco Giubilo era stato spesso protagonista di tante trasmissioni sportive negli anni scorsi, dal Processo del Lunedì, a Goal Di Notte fino alla Signora in Giallorosso, trasmissione condotta su Teleroma 56 dal suo allievo Massimo Ruggeri, anche lui scomparso nel marzo del 2020.
Una famiglia di giornalisti. Apparteneva a una famiglia di giornalisti a cominciare dal padre Giuseppe ed era fratello di Alberto, il più noto per la lunghissima militanza nella Rai, voce storia di ippica ed equitazione, di Corrado, calciatore della Roma fra gli anni Trenta e Cinquanta, e di Sergio, ugualmente cronista sportivo alla Rai.
È morto Gianfranco Giubilo: lo storico giornalista sportivo e cronista della Roma aveva 89 anni. Gianfranco Giubilo è morto oggi all’età di 89 anni. Il famoso giornalista sportivo, cronista storico della Roma e icona del giornalismo della Capitale nonché protagonista in diverse trasmissioni TV (su tutte il Processo del Lunedì con Aldo Biscardi) se ne è andato proprio nel giorno del suo ottantanovesimo compleanno. Michele Mazzeo su fanpage.it il 30 agosto 2021. Il famoso giornalista sportivo Gianfranco Giubilo è morto oggi all'età di 89 anni. Lo storico cronista della Roma per "Il Tempo", icona del giornalismo della Capitale e spesso protagonista in diverse trasmissioni TV (su tutte il Processo del Lunedì con il compianto Aldo Biscardi ma anche su numerose reti locali del Lazio) se ne è andato proprio nel giorno del suo ottantanovesimo compleanno. A comunicare la scomparsa della celebre firma del panorama calcistico italiano è stata la stessa A.S. Roma che ha annunciato la sua morte attraverso un tweet pubblicato sul proprio profilo ufficiale: "La Roma piange la scomparsa del Maestro Gianfranco Giubilo. Storica firma del giornalismo italiano, è stato tra i fondatori della Hall of Fame giallorossa". Professionista dal primo luglio 1957, Giubilo è stato una prima firma presso la redazione sportiva del quotidiano "Il Tempo". In pensione da tanti anni, è negli ultimi anni è stato un editorialista autorevole del quotidiano di Piazza Colonna nonché opinionista di punta dell'emittente radiofonica romana, Tele Radio Stereo e della trasmissione tv, "La Signora in giallorosso". Pur non nascondendo mai la sua grande simpatia per i colori giallorossi, Giubilo si è sempre distinto per la sua imparzialità che talvolta lo ha reso impopolare. Vera e propria enciclopedia vivente della A.S. Roma dotato di una enorme conoscenza della storia romanista (che risale ai tempi in cui la formazione capitolina giocava al Campo Testaccio), dal 2012 ha fatto parte della commissione dei cinque "saggi" della Hall of Fame della AS Roma di cui è stato uno dei fondatori.
· Morto il cantante Lee “Scratch” Perry.
Daniel Kreps per rollingstone.it il 30 agosto 2021. Lee “Scratch” Perry, icona del reggae, cantante e produttore che ha esplorato i confini della musica giamaicana, è morto all’età di 85 anni. Il Jamaican Observer riporta che Perry è morto domenica al Noel Holmes Hospital, nella Giamaica occidentale. La causa della morte è ancora sconosciuta. Andrew Holness, il primo ministro della Giamaica, ha twittato: «Le mie profonde condoglianze alla famiglia, agli amici e ai fan del leggendario produttore discografico e cantante, Rainford Hugh Perry OD, affettuosamente conosciuto come ‘Lee Scratch’ Perry. Ha lavorato e prodotto per vari artisti, tra cui Bob Marley and the Wailers, i Congos, Adrian Sherwood, i Beastie Boys e molti altri. Indubbiamente, Lee Scratch Perry sarà sempre ricordato per il suo contributo al mondo musicale. Che la sua anima riposi in pace». Durante la sua carriera lunga sette decenni, Perry è stato uno degli artisti più prolifici della musica; Kiss Me Neck, libro che elenca l’intera produzione discografica di Perry fino ai primi anni 2000, supera le 300 pagine. «È il Salvador Dalì della musica», disse Keith Richards a Rolling Stone nel 2010. «È un mistero. Il mondo è il suo strumento. Devi solo ascoltare. Più che un produttore, sa come ispirare l’anima dell’artista. Come Phil Spector, ha il dono non solo di sentire suoni che non vengono da nessun’altra parte, ma anche di tradurre quei suoni ai musicisti. Scratch è uno sciamano». Nato nella Giamaica rurale nel 1936, Rainford Hugh “Lee” Perry si trasferì a Kingston nei primi anni Sessanta. «Mio padre lavorava sulla strada, mia madre nei campi. Eravamo molto poveri. Sono andato a scuola… Non ho imparato assolutamente nulla. Tutto quello che ho imparato è venuto dalla natura», disse a NME nel 1984. «Quando ho lasciato la scuola non c’era nulla da fare se non il lavoro nei campi. Duro, duro lavoro. Non mi piaceva. Così ho iniziato a giocare a domino. Attraverso il domino ho esercitato la mia mente e ho imparato a leggere la mente degli altri. Questo mi è stato eternamente utile». La carriera musicale di Perry iniziò alla fine degli anni Cinquanta, quando fu assunto per vendere dischi per il Downbeat Sound System di Clement “Coxsone” Dodd; all’inizio degli anni Sessanta, Dodd aprì il suo famoso Studio One, dove Perry – soprannominato “Little” all’epoca, a causa della sua statura – fece la sua prima esperienza in studio di registrazione, producendo alcune decine di canzoni per l’etichetta. «Coxsone non ha mai voluto dare una possibilità a un ragazzo di campagna. Niente da fare. Ha preso le mie canzoni e le ha date a gente come Delroy Wilson. Non ho avuto nessun credito, certamente nessun denaro. Mi stavano fregando». Dopo aver litigato con Dodd, Perry passò all’etichetta rivale di Joe Gibbs, la Amalgamated Records, dove continuò a produrre, oltre a portare avanti la sua carriera discografica come artista principale. I disaccordi tra l’irascibile Perry e Gibbs portarono “Scratch” a formare finalmente la propria etichetta, la Upsetter Records. Grazie alla sua popolarità in Giamaica e nel Regno Unito – dove il suo singolo del 1968 People Funny Boy, un attacco a Gibbs, divenne una Top Five hit – nel 1973, Perry fu in grado di costruire il suo studio in giardino a Kingston, che chiamò Black Ark. Qui spinse la sua creatività fino a creare le sue “versioni”, remixando, sovraincidendo ritmi e riddim con ganci vocali ripetitivi presi da altre canzoni – fornendo il modello per il campionamento in altri generi. «Il basso è il cervello e la batteria è il cuore», ha detto Perry a Rolling Stone nel 2010. «Ascolto il mio corpo per trovare il ritmo. Da lì, è solo sperimentare i suoni degli animali nell’arca». Con la sua band, gli Upsetters, Perry ha dato vita a capolavori dub come Blackboard Jungle del 1973, l’LP Super Ape del 1976 degli Upsetters e lo stesso Roast Fish Collie Weed & Corn Bread di Perry. Perry e la sua band sono stati produttori di numerosi acclamati dischi reggae della metà degli anni Settanta – War Ina Babylon di Max Romeo, Party Time degli Heptones, Heart of the Congos dei Congos e Police & Thieves di Junior Murvin. Dischi che hanno aiutato rendere la musica giamaicana forma d’arte e potenza internazionale. Police & Thieves di Murvin, co-scritta da Perry, fu coverizzata dai Clash nel loro album di debutto del 1977; il gruppo reclutò anche Perry – che era a Londra per registrare Punky Reggae Party di Bob Marley, per produrre il loro singolo Complete Control. (Perry una volta scherzò sul suo passaggio punk, «Se voglio sputare qui, sputo qui. Se voglio pisciare lì, piscio lì. Io sono punk»). «Perry usava un 4 piste allo studio Black Ark, ma poteva far rimbalzare un centinaio di altre tracce dentro e fuori di lì usando pietre, acqua, utensili da cucina e qualsiasi altra cosa fosse disponibile», ha detto Romeo a Rolling Stone. Tuttavia, dopo l’uscita di Return of the Super Ape degli Upsetters nel 1978 – e dopo che artisti come Paul e Linda McCartney cercarono Perry per collaborare – l’era dell’Arca Nera iniziò la sua lenta erosione quando Perry ebbe un crollo nervoso. La proprietà cadde in rovina mentre un Perry paranoico riduceva la sua produzione musicale e scarabocchiava tutte le superfici dello studio con un pennarello; Perry, secondo la leggenda, bruciò lo studio nel 1983. «Avevo bisogno di essere perdonato del mio peccato», disse Perry a Rolling Stone. «Ho creato il mio peccato, ho bruciato il mio peccato e sono nato di nuovo». Dopo l’era della Black Ark, Perry si trasferì in Inghilterra e negli Stati Uniti prima di risiedere definitivamente in Svizzera con la sua famiglia. Sarebbe rimasto prolifico per i successivi tre decenni, pubblicando nuovi album da solo con scedenza annuale, oltre a frequenti collaborazioni con Mad Professor, the Orb e Adrian Sherwood. Nel 2019, Perry ha pubblicato i suoi LP gemelli Rainford (il suo nome di nascita) e Heavy Rain, quest’ultimo con ospiti come Brian Eno, che una volta ha salutato Perry come “uno dei geni della musica registrata”. «È l’album più intimo che Lee abbia mai fatto», disse il produttore Sherwood di Rainford, all’epoca. «Ma allo stesso tempo le idee musicali sono molto fresche. Sono estremamente orgoglioso di quello che abbiamo tirato fuori».
È morto Ed Asner: in tv fu «Lou Grant» e Papa Giovanni XXIII. Il Corriere della Sera il 29 agosto 2021. Il grande caratterista americano aveva 91 anni: era stato due. È morto Ed Asner, l’attore vincitore di diversi Golden Globes e Emmy per «Lou Grant» e «Up» (aveva doppiato il film animato). Aveva 91 anni. Asner era stato anche due volte presidente della Screen Actors Guild. Attore, doppiatore ma anche attivista politicamente schierato a sinistra, Edward Asner era un grande caratterista del cinema americano. Nel 2002 era stato protagonista della popolare miniserie italiana «Papa Giovanni», in cui aveva interpretato papa Giovanni XXIII da anziano.
Morto Ed Asner, il Lou Grant della tv. Grande caratterista e doppiatore, interpretò anche Papa Giovanni. Vincitore di 5 Golden Globes e sette Emmy Awards, aveva 91 anni. In carriera aveva pagato anche per il suo impegno politico: la Cbs aveva chiuso la sua serie malgrado il successo nell'audience. La Repubblica il 29 agosto 2021. L'attore americano Ed Asner, l'attore vincitore di Emmy per "Lou Grant" e "Up" e di numerosi Golden Globes, è morto a 91 anni. Cinque Golden Globe e sette Emmy, la gran parte dei quali per aver interpretato Lou Grant, il giornalista burbero e senza fronzoli della Cbs, prima in "The Mary Tyler Moore Show" e poi nel drammatico spin-off "Lou Grant". Era uno dei decani del cinema e della tv americana, non solo attore, ma anche doppiatore e grande caratteristica, un volto che anche gli italiani conoscono bene, oltre che per i film e le serie tv americane, per essere stato nel 2002 l'anziano Angelo Roncalli in una popolare miniserie diretta da Giorgio Capitani dedicata a Papa Giovanni. Gli spettatori di una certa età potrebbero ricordarlo anche per una miniserie che alla fine degli anni '70 davvero fece epoca: "Radici". Asner interpretava lo schiavista capitano Daviesper; era il 1977 e l'anno prima era stato il patriarca di una famiglia tedesco-americana nella miniserie "Rich Man, Poor Man". Nato a Kansas City il 15 novembre 1929, al cinema è stato anche l'agente dell'FBI Guy Banister nel film di Oliver Stone del 1991 "JFK", Babbo Natale nella commedia di Will Ferrell del 2003 "Elf" e poi nello stesso anno come doppiatore il protagonista del vincitore all'Oscar della Pixar 'Up' dando la voce all'anziano costruttore di palloncini Carl Fredricksen. Come star della tv ha anche la Walk of Fame a Los Angeles. All'inizio degli anni '80, Asner è stato presidente della Screen Actors Guild, il sindacato degli attori, grazie al suo carisma e al suo attivismo politico: guidò uno sciopero nel 1980 che riuscì a bloccare la produzione per tre mesi e a boicottare gli Emmy di quell'anno: lo scopo era ottenere stipendi più alti per gli attori in considerazione del passaggio delle serie sulle tv a pagamento (una battaglia simile a quella solitaria e apripista di Scarlett Johannson). La cosa non fu indolore: la Cbs cancellò nel 1982 la serie Lou Grant che lui interpretava nonostante fosse al top degli ascolti fino alla sua quinta e ultima stagione. E' stato attivista fino all'ultimo: ha partecipato lo scorso anno a una class action di attori per il piano sanitario del sindacato Sag durante la pandemia. Ha continuato a lavorare sempre: recentemente era nel cast di Cobra kai, lo spin off di Karate Kid, tuttora in onda. (Ansa).
· E’ morto il giornalista sportivo Mario Pennacchia.
Addio a Mario Pennacchia, firma storica del giornalismo sportivo.
Mario Pennacchia su La Repubblica il 24 agosto 2021. Aveva 93 anni. Il ricordo del presidente della Figc, Gravina: ''Un grande professionista che ha contribuito a far crescere la cultura sportiva in Italia''. Il mondo del giornalismo sportivo piange Mario Pennacchia, scrittore e penna storica morto all'età di 93 anni. Consulente dell'ex presidente federale Antonio Matarrese tra la fine degli anni 80 e l'inizio degli anni 90 nonché direttore per 18 anni della rivista "L'Arbitro", Pennacchia ha collaborato anche con alcune delle più importanti testate italiane tra cui 'Il Corriere dello Sport', “La Gazzetta dello Sport”, “Il Messaggero” e “Il Giorno”, intervenendo spesso come opinionista a trasmissioni di successo come “La Domenica Sportiva” e “Il Processo del Lunedì”. La Figc, attraverso una nota del presidente Gravina, lo ha voluto ricordare: "Il mondo del giornalismo perde una storica firma, un grande professionista che ha contribuito a far crescere la cultura sportiva in Italia e che ha saputo raccontare il calcio con passione e competenza. Lo ricordo con stima e affetto". Grande tifoso della Lazio e testimone della storia della squadra biancoceleste, è stato responsabile della comunicazione del club sotto la presidenza Cragnotti. E' stato inoltre autore di diversi libri dedicati al mondo del calcio tra i quali "Gli Agnelli e la Juventus", "Il Calcio in Italia", "Lazio Patria Nostra" e "Football Force One".
Da leggo.it il 25 agosto 2021. Nato a Itri (Lt) il 10 maggio 1028 è stato giornalista, scrittore e dirigente. Ha lavorato al Corriere dello Sport, al Giorno, al Messaggero e alla Gazzetta dello Sport dove ha ricoperto il ruolo di capo della redazione romana. Ha scritto diversi libri come "La storia della Lazio" (1969), il testo tuttora più completo ed esauriente sulle vicende della società biancoceleste, ripubblicato e aggiornato nel 1994 con il titolo di "Lazio Patria Nostra", "Gli Agnelli e la Juventus" del 1985, "Onesti, rinascita e indipendenza dello sport in Italia" del 1986, "Il calcio in Italia" del 1999, "Pioniera del terzo millennio" del 2000, "Football Force One" (2001) sulla vita di Giorgio Chinaglia, il libro a carattere personale "Anche i ragazzi hanno fatto la storia" del 2003 e il romanzo "L'amore scosso" del 2006. Nel 2014 ha pubblicato l'autobiografia "Sessant'anni fra Campioni, Miti, Intrighi e Follie". Ha vinto il premio "Bancarella Sport" e il "Seminatore d'oro" 1986, il Premio Coni 1986 e 1999, il Premio USSI 1958 e 1978, e il Premio Beppe Viola 1987. Consulente del presidente della Federcalcio dal 1988 al 1992 è stato anche responsabile della comunicazione della sua amata Lazio sotto la presidenza Cragnotti dal 1992 al 1996. Nel 2008 ha pubblicato un libro che ricostruisce la vicenda sportiva e personale del Generale Giorgio Vaccaro, che nel 1927 impedì la fusione tra la Lazio e alcune squadre minori romane.
· E’ Morto Fritz McIntyre, tastierista dei Simply Red.
Morto Fritz McIntyre, tastierista dei Simply Red. Roberta Damiata il 24 Agosto 2021 su Il Giornale. Se n'è andato all'età di 63 anni il tastierista della formazione originaria dei Simply Red. L'annuncio dato sulla pagina ufficiale della band. Ancora sconosciute le ragioni del decesso. “Siamo profondamente scioccati e rattristati nel ricevere la notizia che lo straordinario pianista e membro originale dei Simply Red Fritz McIntyre è morto. Ha lasciato questa Terra troppo presto…”. Con queste poche parole postate sulla pagina ufficiale Instagram dei Simply Red, si è venuti a conoscenza della scomparsa del 63enne tastierista di una delle band più famose al mondo. Nato a settembre del 1958 Fritz era un cantautore e musicista, diventato famoso per il suo ruolo di tastierista nella formazione originale dei Simply Red. Fu lui a scrivere molte delle canzoni della band, insieme al frontman Mick Hucknall, oltre ad aver cantato nella canzone Wonderland dell’album Stars. Era nella band già dal loro debutto nel 1985, ed era rimasto fino al 1995, lasciandola dopo l’uscita dell’album Life. Successivamente ha pubblicato il suo primo album da solista che portava il suo nome. Si era poi trasferito in Canada dove si era dedicato alla musica religiosa, incidendo un album. Dopo quell'esperienza, si era poi spostato negli Stati Uniti diventando direttore musicale di una grande chiesa cristiana in Florida. Con lui i Simply Red scalarono la vetta della classifica singoli di Billboard per ben due volte. La prima con la ballad Holding Back The Years e ancora con la loro cover di Harold Melvin & the Blue Notes, If You Don't Know Me By Now. Quasi una dozzina di canzoni scritte da McIntyre arrivarono nella Top10 britannica e cinque album al numero uno nel Regno Unito. L'album Stars, oltre ad aver raggiunto il primo posto della classifica, è stato uno dei dischi più venduti nella storia della classifica britannica e mondiale. I Simply Red hanno inoltre ricevuto due Brit Awards come miglior gruppo, sia nel 1992 che l’anno successivo nel 1993. Ignote le ragioni della scomparsa del tastierista che aveva 63 anni. Numerose le manifestazioni d'affetto da parte dei fans ma anche di molti frequentatori della chiesa, dove era molto amato.
Roberta Damiata. Sono nata a Palermo ma Roma mi ha adottato da piccola. Ho iniziato a scrivere mentre andavo ancora al liceo perché adoravo la British Invasion. Mi sono poi trasferita a Londra e da lì ho scritto di musica per vari anni. Sono tornata in Italia per dirigere un teen magazine e un paio di testate gossip.
· E’ Morto Charlie Watts, il batterista dei Rolling Stones.
Morto Charlie Watts, il batterista dei Rolling Stones. Carlo Moretti su La Repubblica il 24 agosto 2021. Il musicista inglese aveva 80 anni, era in convalescenza dopo aver subito un intervento chirurgico. Morto il batterista dei Rolling Stones, Charlie Watts. Aveva 80 anni. "Per una volta, il mio tempismo è stato leggermente sbagliato" aveva detto con una punta di ironia dopo l’intervento del quale non era stata specificata la natura. Watts aveva fatto sapere di aver bisogno di riposo e di non poter prendere parte alle prove della band che inizieranno tra un paio di settimane. Non si hanno notizie più precise sulle ragioni dell'intervento chirurgico, nel 2004 gli fu diagnosticato un cancro alla gola, che era però riuscito a sconfiggere. Grande appassionato di jazz, che continuava a suonare parallelamente alla sua attività con gli Stones, Charlie Watts era stato l'ultimo tra i componenti ad unirsi alla band. Si era fatto le ossa suonando nei locali a Londra nei primi anni Sessanta esibendosi al fianco di Alexis Korner. Fu soltanto nel gennaio del 1963 che egli si unì alla band di Mick Jagger, Keith Richards, Bill Wyman e Brian Jones, per rimanervi poi fino alla sua morte.
Le radici. Nato nel 1941, Watts era cresciuto nel quartiere di Wembley, nella parte Nord-Ovest di Londra, e si era poi trasferito nel sobborgo di Kingsbury. La sua prima passione musicale fu il jazz americano, dallo swing al bebop, che seguiva da adolescente suonando sui dischi con il primo kit di batteria che gli era stato regalato dai genitori. Dopo il diploma alla scuola d'arte aveva trovato i primi lavori da grafico e intanto si esibiva con piccole band giovanili della scena londinese. Nel 1962 si unì ai Blues Incorporated di Alexis Korner che suonava rhythm and blues, suonando tra l'altro al fianco del bassista dei Cream, Jack Bruce. Grazie a Korner incontrò Brian Jones, che sarebbe poi entrato negli Stones e che in quel momento si esibiva anche con i Blues Incorporated. Tra i loro estimatori c'erano anche Mick Jagger e Keith Richards, che talvolta si unirono a loro. Dopo qualche mese Jagger e Richards formarono i Rolling Stones, Watts si unì nel 1963. "Era solo l'ennesima band a cui mi univo, in quel momento ero in tre differenti formazioni" ha spiegato Charlie Watts. Iniziò dunque in maniera informale, "provavamo tanto, Brian e Keith non andavano mai lavorare, così suonavamo accompagnando i dischi di altri per tutto il giorno, e facevamo una vita bohemienne. Mick in quel momento frequentava l'università. MA pagava comunque l'affitto".
Lo stile. Alla batteria, gli altri batteristi facevano sfoggio di kit. Non Watts che ha sempore continuato a usare i suoi quattro tamburi canonici. Un minimalismo che lo ha sempre contraddistinto, sin dal disco di debutto degli Stones nel 1964. “Non mi sono mai piaciuti gli assoli di batteria", spiegò, “ammiro chi sa farli, ma preferisco la batteria che suona per la band. La sfida con il rock'n'roll è essere regolari, il mio obiettivo è creare un sound che balla, che salta e sobbalza”. Con il suo particolarissimo timing, il tocco swing, sempre sul tempo pur apparendo sempre fuori centro, Watts era il vero punto di incrocio tra i musicisti degli Stones, libero anche di tenere il tempo a prescindere persino dal bassista Bill Wyman. Ha sempre continuato a studiare jazz, per tutta la vita, e amava dire "Non sapevo niente di R&B, per me il blues era Charlie Parker quando suonava lentamente". Uno dei suoi modelli era il batterista e band leader americano Chico Hamilton. Andando ad abitare con Richards e Jagger nel leggendario appartamento londinese di Edith Grove, Watts verrà introdotto dagli altri Stones al blues e al rock'n'roll nascente. Keith Richards l'ha sempre stimato moltissimo, considerandolo ancora oggi "il miglior batterista con cui abbia mai suonato".
La passione per il jazz. Accanto alla sua attività negli Stones Charlie Watts, ha pubblicato alcuni album da solista proprio in ambito jazz. La sua passione per Charlie Parker in particolare lo portò nel 1964 a realizzare un album tributo a Parker intitolato High Flying Bird. Poi nel corso degli anni Settanta ha affiancato il pianista degli Stones Ian Stewart nella band Rocket 88, con altri giovani jazzisti come Evan Parker e Courtney Pine. Poi nel corso degli anni Novanta Watts ha pubblicato una serie di album con un quintetto, il Watts Quintet. Nel 2000 la collaborazione con il batterista Jim Keltner nel The Charlie Watts/Jim Keltner Project (2000), un progetto di musica tribale ed elettronica. Si segnalano anche un album live registrato nel tempio londinese del jazz, il Ronnie Scott's, con il suo Charlie Watts Tentet. Dal vivo si è esibito nel 2010 con la ABC&D of Boogie Woogie, una formazione nella quale suonavano i suoi amici Dave Green al basso, e i pianistri Axel Zwingenberger e Ben Waters.
Carlo Moretti per “la Repubblica” il 25 agosto 2021. Di ritorno da un festival rock in Germania dove si è esibito con la sua Pfm, il batterista Franz Di Cioccio ha appreso della scomparsa di uno dei suoi miti, un esempio per lui.
Cos' ha rappresentato Charlie Watts per il rock?
«Innanzitutto è stato fondamentale per il suo stile, proprio perché non ha mai esagerato in un ambiente come quello del rock, ha invece portato la sua misura di persona a modo. E poi perché è stato un batterista estremamente efficace per quello che doveva fare, nulla di più. Il miglior batterista per me è quello che fa girare bene la sua band, non esiste il miglior batterista, non è una corsa di velocità sui cento metri, non c'è un tempo da battere. Nella musica conta solo l'emozione».
Cosa le viene subito in mente se si pronuncia il suo nome?
«Il tempo di Satisfaction : ta-tta-tara-tà, lui portava questo tempo e ti faceva ballare. Oppure il tempo di The last time . Watts ha sempre suonato senza troppi fronzoli, sempre efficace nel fare quello quello che doveva fare. Come Ringo Starr che quando suonava Help usava lo stile razzle-dazzle , dando la mano a mulinello sul piatto che provocava quel suono caratteristico. Allo stesso modo Watts aveva sviluppato un suono riconoscibile grazie alla sua impostazione jazz: usava la mano sinistra di traverso, non dritta come fanno i timpanisti. Era l'unico nella scena rock che suonava così ed era molto curioso, quel colpo calava giù sul rullante in un modo unico, era lui che ti faceva ballare, ha fatto ballare tutti noi».
Da batterista e frontman quale lei è, cosa pensa di Watts al contrario quasi nascosto dietro alla batteria?
«Ma lui aveva davanti Mick Jagger, stiamo parlando di un colosso dell'entertainment. Io tutto quello che so fare lo metto a disposizione, a un certo punto c'era un vuoto interpretativo e ho preso in mano il ruolo. Non sono l'unico, l'ha fatto anche Phil Collins. Adesso suoniamo con due batterie in fila, ci divertiamo di più».
Quella di Watts al contrario essenziale, quattro tamburi.
«Ti fa capire il momento storico, nel loro rock la batteria deve tenere il tempo, è il batterista che ti fa ballare. Il progressive ha talmente tanti colori che hai bisogno di più piatti e di più tamburi, nel rock non serve a meno che tu non voglia fare scena. E non è il mio caso»
Stefano Mannucci per “il Fatto quotidiano” il 25 agosto 2021. No, non si incontreranno all 'inferno, dove Keith ha già prenotato un girone tutto per sé e Mick verrà a patti con Lucifero. Charlie è atteso in purgatorio, poi si vedrà. Però è incredibilmente lui, il meno coinvolto con i peccatacci degli amici, il secondo Stones a dover raccontare a chi governa l'Altra Parte cosa significhi stare per sessant' an ni dentro la band che ha spaccato in due la storia del rock. La dipartita di Watts è un grottesco paradosso: ma come, Charlie? L'eterno marito fedele alla sua Shirley tirato via dalla Terra prima di quella gang di puttanieri impenitenti? Charlie, il raffinato umarell che storceva il muso quando gli altri si davano alla pazza gioia? Come è possibile che i pedestri accidenti della salute si siano portati via il più saggio e posato della cricca? Il cancro alla gola diagnosticato nel 2004, lo sfibramento del cuore nelle scorse settimane, con operazione d'emergenza e l'annuncio della defezione per No Filter, il tour autunnale dove era già stato sostituito da un supplente di lusso come Steve Jordan. Troppi chilometri, evidentemente, per un motore arrivato logoro agli ottant' anni. Aveva dato per una vita intera il tempo a quegli sconsiderati con cui divideva il palco. Anzi, li aveva anticipati, proteggendoli dal rischio della catastrofe che incombeva sui Rolling Stones all'attacco di ogni canzone. Una volta Keith Richards ce lo confermò: "Tante sere sono così strafatto che non so quale accidente di pezzo stia per arrivare, anche se quella scaletta l'ho ripetuta mille volte. Se non ci fosse Charlie dietro i tamburi a dare la direzione del concerto saremmo perduti. Io seguo lui, io sono il suo chitarrista". Ecco perché Watts era il più rock della combriccola. Regale per sobrietà, essenziale nel tocco. Lavorava per sottrazione: l'amore per il jazz, combinato con quello per il blues, gli suggeriva di cercare solo i suoni che servivano, evitando l'inutile fracasso con cui tanti altri batteristi r' n'r facevano circo. Tanti critici lo sottovalutavano, in questo accostandolo a Ringo: come se i due più leggendari gruppi di ogni era fossero stati sfortunati, o miopi, a scegliersi dei tamburini poco appariscenti. Ma nessuno può immaginare un suono dei Rolling Stones senza gli spazi aperti dalla discrezione di Charlie, quel tum-tum che non copriva mai la voce di Mick o le chitarre di Keith e di Ron Wood. Sottolineava ancora Richards: "Esiste una grande differenza tra chi si allunga sulla pista di decollo e chi veramente vola. Watts è un musicista fantastico". E lui era il suo chitarrista. Perché il Capo parlava poco, ma quando voleva sapeva farsi rispettare. Eccome. Come quella notte ad Amsterdam, 1984. I saltimbanchi Stones alle prese con l'ennesima notte a base di tutto: alcol, droga, pollastrelle. Aggrovigliati alla fune della perdizione. Ne manca solo uno all'appello. Charlie dorme, a lui basta una donna sola, Shirley. Quando ormai il buio sta per cedere il passo all'alba, Jagger decide di telefonargli per convocarlo: "Hey, che fine ha fatto il mio batterista?". Watts lo invita nella propria stanza, dove si precipita pure Keith. Ma qui Watts cambia pelle: prende per il bavero quel giuggiolone di Mick e gli molla un pugno sul naso, facendolo quasi precipitare giù dalla finestra. "Non azzardarti mai più a chiamarmi 'il tuo batterista'. Semmai sei tu il mio cantante, intesi?". Intesi. Ed era uno che perdeva raramente la calma, una pazienza che neanche Giobbe. Ovvio, aveva testimoniato ogni follia, sin dall 'inizio. I concerti degli anni Sessanta, che duravano un quarto d'ora prima che le ragazzine infoiate dessero l'assalto al palco per aggrapparsi ai jeans del 'cantante', e giù il sipario. La morte di Brian Jones, entrato per primo nel club di quelli crepati a 27 anni, ma al live di tributo ad Hyde Park anche le farfalle che Jagger voleva si alzassero in volo erano già morte pure loro dentro le scatole. E l'orrore di Altamont, quando alla fine dei Sessanta mancano pochi giorni: il maxiraduno va in vacca, i criminali del servizio d'ordine, gli Hell's Angels, ammazzano uno spettatore decretando anche la fine dell'utopia di Woodstock e la proroga dell'incubo di sangue già materializzato dalla setta di Charles Manson. E la paranoia dei Settanta, vissuti pericolosamente dagli Stones in Costa Azzurra, nella villa che era il bengodi di tutti i trafficanti di droga d'Europa. E dopo, il vivacchiare sornione dei miti. E poi la fine, adesso. Perché questa è la fine dei Rolling Stones, ladies and gentlemen. L'ha certificata Charlie Watts, che in purgatorio si è portato i disegni, tracciati dalla sua mano, di tutte le camere d'albergo che ha occupato in tour. Quando aveva nostalgia di Shirley lontana e si azzuffava con Mick.
Marinella Venegoni per la stampa.it il 25 agosto 2021. Il Rolling Stone più quieto e riservato, niente sesso e droga però un sacco di rock’n’roll, non c’è più. Pochi giorni dopo aver annunciato l’impossibilità, per motivi di salute, di partecipare al tour previsto per il prossimo settembre della band nella quale militava da 58 anni, Charlie Watts è morto ieri in ospedale a Londra, in seguito a un intervento d’emergenza al cuore. Aveva 80 anni compiuti in giugno, nel 2004 era stato operato per un cancro alla gola, ma si era ripreso bene ed era tornato a calcare le scene del mondo accanto ai suoi compagni, con quell’espressione sempre curiosamente impassibile che dava spazio a molte battute, vista l’intemperanza che governava invece gli altri tre. Figura singolare nel mondo glamour di questi vecchietti che continuano a tenere duro a dispetto del tempo, Charlie Watts è stato l’antitesi delle grandi figure tonitruanti e spettacolari di storici batteristi del rock, da John Bonham dei Led Zeppelin a Keith Moon degli Who; in compenso, fu molte volte segnalato dalle riviste di moda come il rocker più elegante in assoluto. Nello stile musicale, invece era tutt’altro che appariscente. Domava il suo strumento con movimenti quasi pacati, aveva una tecnica semplice di sapore jazz, che era del resto il suo mondo originario di appartenenza. Modificava le componenti della batteria a suo gusto e piacimento, non voleva appesantire il suono, per ottenere quell’effetto non prevalente nella dinamica dei Rolling Stones, dove a farla da padroni assoluti dovevano essere Keith Richards e Mick Jagger, con il contributo non secondario di Ronnie Wood. Quel suo stile piacque subito alle due primedonne, quando nel ‘62 decisero di sostituire Mick Avory, che passò poi ai Kinks. Tra l’altro, l’atteggiamento pacato del batterista costituì il vero collante della band, nelle liti perpetue fra Jagger e Richards era sempre lui a mettere pace, smussando gli angoli ed evitando un divorzio che per qualche anno sembrò dietro l’angolo. Charlie Watts è l’unico della formazione ad aver preso parte alle registrazioni di tutti i dischi degli Stones. Ed è ora il primo di loro ad andarsene, in una sorta di beffa del destino visto che la band è sempre stata nota non solo per il rock vigoroso ma pure (a volte soprattutto) per lo stile di vita sempre sopra le righe, fra droga e vite private spesso funamboliche. Profilo basso, niente stravizi, una vita familiare specchiata, Charlie era sposato dal 1964 con Shirley Ann Shepherd dalla quale ha avuto una figlia. L’aveva conosciuta prima del successo e vivevano insieme felicemente, malgrado la donna avesse preteso fin dall’inizio che in casa non entrasse mai una batteria, trattandosi di strumento poco vellutato. La storia era tornata a galla di recente, quando gli Stones avevano partecipato insieme, ma ognuno dalla propria casa, durante il lockdown nell’aprile 2020, all’evento benefico Together at Home organizzato da Lady Gaga. Nell’occasione, fu impossibile non notare che il batterista, avvolto in un bellissimo maglioncino marrone, suonava con le sue bacchette il bracciolo di una sedia e una custodia per strumenti. Sembrava un’azione dadaista, questo ait drumming, ma Charlie era a casa dove la batteria non c’era, e si arrangiava. Raccontò apertamente in una intervista del 1989: «Non posso suonare a casa perché mia moglie dice che la batteria fa troppo rumore e dunque lo strumento non c’è. Dunque per suonare debbo andare in tour, ma per andare in tour debbo andarmene di casa e lasciare mia moglie e mia figlia. E’ un giro vizioso nel quale sono intrappolato da tutta la vita». Con la scomparsa di Charlie Watts, seguita dal cordoglio di tutti gli ultimi grandi del rock classico sopravvissuto (primo fra tutti, accoratissimo, il batterista dei Beatles Ringo Starr), potrebbe pure mettersi in forse la partenza del tour dei Rolling Stones, prevista negli Stati Uniti il 22 settembre, con già in calendario la sostituzione di Charlie (allora ammalato e rinunciatario) con lo storico collaboratore di Keith Richards, il sessantaquattrenne Steve Jordan. Non è escluso che la band decida di rinviare di qualche tempo il debutto, in segno di lutto.
Lutto nella musica: morto Charlie Watts, batterista dei Rolling Stones. Il Quotidiano del Sud il 24 agosto 2021. Charlie Watts, batterista dei Rolling Stones, si è spento all’età di 80 anni. Ad annunciarlo è stato il suo ufficio stampa con una nota dove si chiede che venga rispettata “la privacy della sua famiglia, dei membri della band e degli amici intimi in questo momento difficile”. Il suo cuore non ha retto a un’operazione di emergenza, rigurgito di quel problema che non gli aveva permesso di partecipare al tour di 13 date della band. “Per una volta sono andato fuori tempo” aveva commentato, ma il sospetto è che i Rolling Stones oggi perdano davvero un pezzo fondamentale del loro organico. L’ultimo ad entrare in effetti, nel 1963, circa un anno dopo l’esordio ufficiale di Mick Jagger e compagni. E a quel tempo Watts, del genere che intendevano proporre e cioè quella sorta di incontenibile incrocio tra blues ritmato e rock puro, non ne aveva la minima idea. Già, perché Charlie Watts veniva dal jazz: “per me – diceva – il blues era Charlie Parker quando suonava lentamente” e probabilmente, fu questa la fortuna della band tant’è che se da fuori Watts era considerato il meno Stones degli Stones, per gli Stones, come più volte affermato anche da Keith Richards, si trattava invece di un collante di inestimabile valore. Intanto umano, l’unico a quanto pare capace di mediare tra due primissime donne come Jagger e Richards. E poi musicale: i Rolling Stones sarebbero stati diversi senza quel tocco, quel ritmo, quel battito di cuore, che Charlie Watts riusciva a infondere alle capriole rock degli altri membri.
Addio a Charlie Watts, il batterista dei Rolling Stones aveva 80 anni. Novella Toloni il 24 Agosto 2021 su Il Giornale. Il batterista e cofondatore della band britannica si è spento all'età di 80 anni. Il musicista aveva rinunciato al tour dei Rolling Stones proprio per problemi di salute. Lutto nel mondo della musica internazionale per la morte di Charlie Watts, uno dei fondatori della band inglese dei Rolling Stones. Il batterista si è spento a 80 anni in un ospedale di Londra in seguito al peggioramento delle sue condizioni di salute già precarie da alcune settimane. L'annuncio del decesso è arrivato con un comunicato ufficiale diramato dalla Bbc. "È con immensa tristezza che annunciamo la morte del nostro amato Charlie Watts - si legge nel comunicato del suo ufficio stampa - Charlie era un marito, un padre e un nonno amato nonché, in quanto membro dei Rolling Stones, uno dei più grandi batteristi della sua generazione. È morto serenamente in un ospedale di Londra, circondato dalla sua famiglia. Chiediamo gentilmente che la privacy della sua famiglia, dei membri della band e degli amici intimi sia rispettata in questo momento difficile". Come riporta l'Ansa, a inizio agosto Charlie Watts aveva annunciato il suo ritiro, costretto a dare forfait al tour dei Rolling Stones negli Stati Uniti. Tredici date in giro per l'America alle quali era stato costretto a rinunciare per colpa di un intervento cardiaco. I medici gli avevano consigliato assoluto riposo e il musicista aveva dichiarato: "Sto lavorando duramente per tornare completamente in forma, ma oggi su consiglio degli esperti ho accettato il fatto che questo richiederà un po' di tempo". Le sue condizioni sarebbero però peggiorate negli ultimi giorni, tanto che si parla di un nuovo intervento chirurgico al cuore che Charlie Watts non avrebbe però superato. Watts era già stato curato per un cancro alla gola nel 2004. Oggi a piangere la scomparsa del celebre batterista inglese sono in molti e sui social network si susseguono da ore messaggi di cordoglio. È grazie a lui a Mick Jagger, Keith Richards e Ronnie Wood se la musica internazionale ha potuto godere dei successi dei Rolling Stones. La band britannica sin dagli anni '60 ha saputo imporsi sulla scena musicale mondiale con il suo sound rock originale. Amato e rispettato per il suo stile nel suonare, Charlie Watts ha contribuito a portare la band ai massimi livelli. Nato come batterista jazz, Watts non ha mai perso la sua affinità con le sonorità blues che tanto amava e agli esordi suonò in diverse band londinesi. Nel 1963 si unì ai Rolling Stones per rimanervi per oltre mezzo secolo. Le sue doti artistiche e il suo particolarissimo groove hanno contribuito a rendere uniche le musiche del gruppo inglese. La velocità e la potenza di Watts rimarranno impresse nella memoria di tutti in brani cult come "Brown Sugar" e "Start Me Up".
Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perché non c’è niente di più bello delle cose frivole e leggere che distolgono l’attenzione dai problemi
Rolling Stones, addio a 80 anni allo storico batterista Charlie Watts: fatale un'operazione al cuore. Il cordoglio della band. Libero Quotidiano il 24 agosto 2021. E' morto a 80 anni Charlie Watts, leggendario batterista e cofondatore dei Rolling Stones. Watts aveva dovuto annunciare la rinuncia all'ultimo tour degli Stones nei giorni scorsi a causa di un peggioramento delle sue condizioni di salute. Il decesso è avvenuto dopo un'operazione al cuore di emergenza. Proprio ai primi di agosto il leggendario “drummer” aveva dovuto rinunciare alle 13 date del tour negli Stati Uniti per problemi di salute ed era stato sostituito da a Steve Jordan, da anni stretto collaboratore di Keith Richards. "Per una volta sono andato fuori tempo", aveva spiegato lui dopo aver annunciato il ritiro consigliato dai medici che gli avevano imposto assoluto riposo dopo un intervento cardiaco. E aveva aggiunto: "Sto lavorando duramente per tornare completamente in forma, ma su consiglio degli esperti ho accettato il fatto che questo richiederà un po' di tempo". Il suo addetto stampa Bernard Doherty ha detto che Watts "è morto pacificamente in un ospedale di Londra, circondato dalla sua famiglia. Charlie era un caro marito, padre e nonno e anche come membro dei Rolling Stones uno dei più grandi batteristi della sua generazione", ha detto Doherty." Riluttante e imperturbabile, se paragonato alle personalità focose di Mick Jagger o di Keith Richards, suoi compagni di una vita nelle file dell'unica band britannica in grado di contendere ai Beatles il ruolo di simbolo della storia del rock mondiale, Immediato. Immediato l'omaggio dagli altri Stones sul loro profilo Instagram.
DAGONEWS il 24 agosto 2021. Il batterista dei Rolling Stones Charlie Watts è morto all'età di 80 anni. Il musicista, che a giugno ha compiuto 80 anni, era membro del gruppo rock dal 1963. Bernard Doherty, addetto stampa londinese, ha dichiarato: «E’ con immensa tristezza che annunciamo la morte del nostro amato Charlie Watts. È morto pacificamente in un ospedale di Londra oggi, circondato dall’affetto della sua famiglia. Charlie era un caro marito, padre e nonno e anche, come membro dei Rolling Stones, uno dei più grandi batteristi della sua generazione. Chiediamo gentilmente che la privacy della sua famiglia, dei membri della band e degli amici intimi sia rispettata in questo momento difficile». All'inizio di questo mese era stato annunciato che Watts avrebbe saltato il prossimo tour americano della band. Un suo portavoce ha detto che era "improbabile che fosse disponibile per la ripresa del Rolling Stones USA No Filter Tour di questo autunno" dopo che si era dovuto sottoporre a un intervento chirurgico di cui non sono stati rivelati i dettagli. Dopo l’annuncio dello stop, Watts aveva scherzato: «Per una volta il mio tempismo è stato un po' sbagliato. Sto lavorando duramente per essere completamente in forma, ma oggi ho accettato, su consiglio degli esperti, che ci vorrà un po' di tempo. Dopo la sofferenza provata dai fan a causa da Covid, non voglio che chi possiede un biglietto per un concerto dei Rolling Stones venga di nuovo deluso a causa di un altro rinvio o di una cancellazione. Ho perciò chiesto al mio grande amico Steve Jordan di sostituirmi». Dopo l’intervento un portavoce aveva assicurato che l’operazione era "completamente riuscita", ma Watts aveva bisogno di tempo per riprendersi. Nel 2004, Watts è stato curato per un cancro alla gola al Royal Marsden Hospital di Londra: è stato dimesso dopo quattro mesi e sei settimane di radioterapia. Il musicista aveva scoperto del cancro dopo la comparsa di un nodulo sul lato sinistro del collo: la biopsia ha confermato che si tratta di un tumore maligno e a giugno è arrivata la diagnosi di cancro alla gola. Watts, che ha smesso di fumare negli anni '80, ha detto durante un'intervista con la rivista “Rolling Stone” che si sentiva "molto fortunato" che i medici avessero preso il cancro in tempo. Dopo la sua guarigione, la band ha iniziato a lavorare al 22° album in studio, “A Bigger Bang”.
Aveva 80 anni. E’ morto Charlie Watts, addio allo storico batterista dei Rolling Stones. Redazione su Il Riformista il 24 Agosto 2021. Charlie Watts è morto all’età di 80 anni in un ospedale di Londra dove era ricoverato da diversi giorni. Lo storico batterista e cofondatore dei Rolling Stones aveva rinunciato a inizio agosto all’ultimo tour della band negli Stati Uniti, in programma dal 23 settembre (ben 13 date), a causa di un peggioramento delle sue condizioni di salute ed era stato sostituito da a Steve Jordan, da anni stretto collaboratore di Keith Richards. Ad annunciare la morte di Watts la Bbc che ha citato l’agente britannico del musicista. Secondo quanto riferisce l’Ansa, il decesso di Watts è avvenuto dopo un’operazione al cuore. “È con immensa tristezza che annunciamo la morte del nostro amato Charlie Watts – si legge in un comunicato del suo ufficio stampa ripreso dal network britannico – È morto serenamente in un ospedale di Londra, circondato dalla sua famiglia”. Era “un caro marito, padre e nonno” e “uno dei più grandi batteristi della sua generazione”. “Chiediamo gentilmente che la privacy della sua famiglia, dei membri della band e degli amici intimi sia rispettata in questo momento difficile”, conclude la nota. Dal 2004 Watts era in cura per un cancro alla gola. Con lui se ne va un pezzo di storia della musica. Quella fatta in “60 anni di band”. Educato, solitario ed elegante, Watts era con Keith Moon, Ginger Baker e una manciata di altri, un batterista rock di primo piano. Amato e rispettato a livello internazionale per il suo stile nel suonare, ha contribuito a portare la band dagli inizi avventurosi al livello di superstar internazionali. Nato nel 1941 all’University College Hospital di Londra e cresciuto a Kingsbury, Watts era un “working class musician”. La sua prima passione è stata per il jazz, per John Coltrane e Miles Davis che ascoltava fin da ragazzino. All’età di 13 anni i suoi genitori gli regalarono la prima batteria. E il resto è storia. Watts si è unito agli Stones all’inizio del 1963 ed è rimasto con la band per i successivi 60 anni. Insieme a Mick Jagger e Keith Richards era il componente più longevo ed essenziale del gruppo. Gli Stones hanno iniziato “come tipi bianchi inglesi che suonavano musica nera americana”, amava raccontare Watts, e anche grazie a lui hanno sviluppato rapidamente il loro sound distintivo. In concerto, due capolavori degli Stones come ‘Brown Sugar’ e ‘Start Me Up’ spesso iniziavano con un riff di chitarra di Richards, con Watts che lo seguiva e Wyman, come amava dire il bassista, che contribuiva a “irrobustire il suono”. La velocità, la potenza e la capacità di tenere il tempo di Watts non sono mai raccontati meglio che nel documentario del concerto “Shine a Light”: il regista Martin Scorsese ha filmato la canzone ‘Jumpin’ Jack Flash’ e Watts batteva il tempo già dietro le quinte.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 25 agosto 2021. Il batterista dei Rolling Stones Charlie Watts è morto ieri all'età di 80 anni. Il suo addetto stampa Bernard Doherty ha detto che l'"amato" musicista «è morto pacificamente in un ospedale di Londra circondato dalla sua famiglia». Watts, che nel 2004 è stato curato con successo per un cancro alla gola, aveva annunciato che avrebbe perso il tour negli Stati Uniti degli Stones per riprendersi da una procedura medica non specificata: «Per una volta, il mio tempismo è sbagliato» aveva detto. Ieri sera sono arrivati i tributi dal mondo della musica e non solo. Questa è l'immagine eterna dei Rolling Stones: Keith Richards macina i riff di chitarra sporchi, Mick Jagger che si impenna mentre deride la folla dello stadio: «So che è solo rock'n'roll ma mi piace, sì, mi piace». Solo che Charlie Watts non l'ha fatto. La spina dorsale della band, l'uomo il cui ritmo guida era l'instancabile battito del cuore del più grande gruppo rock'n'roll del mondo, non ha mai avuto molto affetto per la musica che ha suonato per 60 anni. Il suo cinguettio schivo e il suo geniale rifiuto di tutto ciò che ha ottenuto hanno tentato alcuni osservatori a prenderlo in parola. Si stima che Charlie Watts valga 190 milioni di euro, nonostante non abbia scritto nessuno dei successi degli Stones. Si è descritto come «solo molto fortunato». Ma il resto della band lo sapeva meglio. Era la chiglia che impediva loro di capovolgersi, l'energia creativa che impediva loro di diventare stantii e il talento che faceva crescere la loro musica. Adorava suonare la batteria. Ha vissuto per quello. Ma non era il tipo di musica che aspirava a fare, né che ascoltava, avendo una scelta. La ragione migliore per registrare nuovi album, negli ultimi 30 anni circa, è stata che «ci dà qualcosa di diverso da suonare sul palco», ha detto. «Non è più zucchero di canna». Quando gli hanno chiesto di valutare i migliori anni della carriera della band in sei decenni, ha detto - senza esitazione - che è stato il breve periodo dal 1969 al 1974 con Mick Taylor come chitarrista solista, dopo la morte di Brian Jones. Furono gli anni che li videro registrare Let It Bleed, Sticky Fingers ed Exile On Main Street. Ma alla richiesta di scegliere alcuni brani preferiti, Charlie si limitava a scuotere la testa. «Non ascolto molto quegli LP», diceva sempre. Il suo disprezzo per le tradizioni del rock includeva un odio per le folle dei festival e gli stadi. «Non voglio farlo», ha alzato le spalle, mentre la band si preparava per un'apparizione da protagonista a Glastonbury nel 2015. «Non mi piace suonare all'aperto e di certo non mi piacciono i festival. Glastonbury, è davvero vecchio. Non è quello che mi piacerebbe fare per un fine settimana, te lo posso assicurare». Quello che voleva fare era suonare jazz. «Nel jazz sei più vicino. In uno stadio di calcio, non si può dire di essere molto uniti. È difficile sapere cosa sta combinando Mick quando non puoi nemmeno vederlo. È a mezzo miglio di distanza». Si lamentava altrettanto di andare in tour. «Suono la batteria», diceva stancamente. «L'unico modo per suonare la batteria è stare lontano da casa. È la rovina della mia vita». «Quando ricevo una chiamata da Mick o Keith, è una chiamata alle armi: cinque mesi in viaggio». Anche lui odiava i riflettori, concedendo raramente interviste o frequentando celebrità. «L'unico momento in cui amo l'attenzione è quando salgo sul palco», ha detto. «Quando me ne vado, non ne voglio più». Quel disprezzo per le ricompense superficiali del rock si estendeva alla sua vita amorosa. Mentre il resto della band godeva di affari noti e molto pubblici con top model e attrici, Charlie sposò sua moglie Shirley nel 1964 e le fu incrollabilmente fedele. Il bassista Bill Wyman ha ricordato nelle sue memorie un incontro di una band nel 1965 quando tutti gli Stones, allora alla loro prima ondata di fama, confrontarono con quante groupie erano andati a letto negli ultimi due anni: «Avevo 278 ragazze, Brian [Jones] 130, Mick circa 30, Keith 6 e Charlie nessuna». La vita rock lo annoiava. Lui e Shirley hanno evitato le luci brillanti di Londra e New York, optando invece per la vita a Halsdon Manor, vicino a Dolton, un villaggio rurale nel nord del Devon, dove possedevano un allevamento di cavalli arabi. Alla fine degli anni Ottanta, Watts ha riassunto la sua carriera così: «cinque anni a suonare, 20 anni a bighellonare». Nel Duemila aveva un altro modo per descriverlo: «Quattro decenni passati a vedere il sedere di Mick che mi correva davanti». E poi c'era il modo in cui appariva e si vestiva. Anche quando il resto della band indossava tie-dye e caftani, Charlie indossava giacca e cravatta. Tutto sommato, era il rocker più improbabile nella storia della musica. Eppure era anche il pilastro, l'uomo che teneva insieme il gruppo, sia dentro che fuori dal palco. Alla domanda su come ha impedito a Jagger e Richards di strangolarsi a vicenda, ha alzato le spalle e ha risposto: «Oh, quello. Fratelli, no. Commilitoni. Ho solo lasciato che facesse il suo corso, davvero». Nato il 2 giugno 1941, Watts è cresciuto in una casa prefabbricata a Kingsbury, a nord-ovest di Londra, dopo che il quartiere della sua famiglia era stato raso al suolo durante il Blitz. Da ragazzo era un artista di talento e si è guadagnato un posto alla Harrow Art School prima di lavorare come grafico. Quella passione per il disegno non lo ha mai abbandonato e Watts ha prodotto cartoni animati e strisce a fumetti per alcune delle copertine degli album della band, oltre a fare uno schizzo, ha affermato, praticamente di ogni camera d'albergo in cui sia mai stato. Ma nonostante il suo talento artistico, era il jazz che lo ossessionava. Ha ascoltato incessantemente il pianista ragtime di New Orleans Jelly Roll Morton e il leader della big band Duke Ellington, prima di scoprire il jazz moderno attraverso lo stilista del bebop Charlie Parker. Suo padre, un camionista, gli comprò la sua prima batteria e Charlie iniziò a suonare nei bar e nei club locali con gruppi come i Jo Jones All Stars (che, nonostante il nome, erano tutti sconosciuti). La sua rottura è arrivata quando l'emittente Alexis Korner gli ha chiesto di suonare con la sua band, Blues Incorporated. Watts ha affermato di non aver mai sentito parlare di "rhythm and blues" e ha pensato che significasse slow jazz. Invece, si ritrovò nella prima band di blues elettrico della Gran Bretagna, suonando all'Ealing Club di fronte a un pubblico estatico che includeva un adolescente Rod Stewart, Jimmy Page e Paul Jones. Durante quei concerti, Charlie ha iniziato a suonare per ridere con un gruppo di giovani appassionati di blues, tra cui un liceale di nome Mick e i suoi compagni Keith e Brian, così come il pianista Ian Stewart. Raggiunti un anno dopo da Wyman al basso, fecero il loro primo concerto al Marquee Club nel luglio 1962. Aveva già incontrato sua moglie, che veniva alle prove della Blues Inc. Shirley condivideva la vena indomita di Charlie. Quando Jagger ha deciso di bandire le amiche dalle sessioni di registrazione degli Stones, Shirley lo ha semplicemente ignorato. Lei e Chrissie Shrimpton, che era la fidanzata di Mick a metà degli anni Sessanta, si presentarono allo studio e si rifiutarono di andarsene. «Ci siamo sedute lì», ricorda Chrissie, «con Mick che ci faceva le smorfie attraverso il vetro della sala di controllo». È stato l'atteggiamento senza fronzoli di sua moglie che ha dato a Charlie la sua fiducia di fronte agli eccessi da prima donna degli altri compagni di band. «È una donna incredibile», ha detto. «L'unico rimpianto che ho di questa vita è di non essere mai stato abbastanza a casa. Ma lei dice sempre quando esco dal tour che sono un incubo e mi dice di tornare indietro». Furono Shirley e la loro figlia Seraphina a salvargli la vita, quando sembrava in pericolo di soccombere agli eccessi che erano aspetti ordinari della vita per altri rocker. Per tutti gli anni Settanta, quando Richards e Mick Taylor erano immersi nella dipendenza dall'eroina, Charlie non si preoccupava nemmeno della dissolutezza. «Bill e io abbiamo deciso di farci crescere la barba», ha detto. «Lo sforzo ci ha lasciati esausti». Ma all'inizio degli anni Ottanta, «divenni totalmente un'altra persona. Alla fine dei due anni di speed ed eroina, stavo molto male. Mia figlia mi diceva che somigliavo a Dracula. Ho quasi perso mia moglie e tutto per il mio comportamento. Sono diventato matto, davvero. Mi sono quasi ucciso». Anche Keith era preoccupato. Dopo che Charlie è svenuto in studio, il chitarrista lo ha portato qui e lo ha avvertito che stava esagerando. Peggio ancora, era poco professionale. Questo lo scosse. «Questo è Keith, che ho visto in tutti i tipi di stati fare ogni genere di cose». Ma la decisione di tornare sobrio è arrivata quando si è rotto la caviglia mentre suonava la batteria al jazz nightclub di Ronnie Scott. «Ho dovuto tirare dritto. Così mi sono fermato a freddo – per me e mia moglie». Con Charlie in cattive condizioni, gli Stones erano più vicini alla disintegrazione di quanto non fossero mai stati. Jagger stava forgiando una carriera da solista, e il batterista lo vide come un guadagno per la reputazione della band. Ha accettato di suonare nel primo album di Mick, così come Keith, ma non si è presentato alla sessione di registrazione iniziale. Jagger era furioso e, bevendo nel suo hotel intorno alle 5 del mattino, telefonò alla stanza di Charlie. «Dov'è il mio batterista?» chiese. Charlie mise giù il telefono. Mezz'ora dopo, bussò alla porta di Mick. Gli aprì Keith: «Mi è passato davanti. Abito Savile Row, perfettamente vestito. Rasato. Potevo sentire l'odore della colonia. Ha raggiunto Mick e ha detto: “Non chiamarmi mai più il tuo batterista. Sei il mio cantante”. Poi gli ha dato un gancio destro». Nonostante tutte le voci, non ha mai perso il rispetto per i suoi compagni di band. Gli Stones erano migliori di tutti i loro rivali, credeva, perché «abbiamo sempre cercato di giocare correttamente». Il resto della band sapeva che doveva tutto a lui. Quando l'ultima nota si spegnerà, dice Keith, «voglio essere sepolto accanto a Charlie Watts».
Dagotraduzione dal Daily Mail il 25 agosto 2021. Celebrità tra cui Mick Jagger, Elton John, Paul McCartney e Ringo Starr hanno reso omaggio al batterista dei Rolling Stones Charlie Watts dopo la sua morte all'età di 80 anni. La morte del batterista londinese è stata annunciata martedì, con una dichiarazione che diceva che era «morto pacificamente in ospedale circondato dalla sua famiglia».
Il frontman dei Rolling Stones Mick, 78 anni, ha condiviso una foto commovente di un Charlie sorridente su Twitter e Instagram, senza didascalia, con il compagno di band Keith Richards che ha postato su Twitter una foto della batteria dei Rolling Stones con un cartello "chiuso" appeso.
Elton, 74 anni, è andato su Instagram per scrivere un messaggio sincero a Charlie, accompagnato da uno scatto di ritorno al passato della coppia negli anni '70, etichettandolo come «l'ultimo batterista». Ha scritto: «Un giorno molto triste. Charlie Watts era il batterista per eccellenza. Il più elegante degli uomini e una compagnia così brillante. Le mie più sentite condoglianze a Shirley, Seraphina e Charlotte. E, naturalmente, ai Rolling Stones».
Anche il batterista dei Beatles Ringo, 81 anni, ha pubblicato uno scatto toccante della coppia che confronta le bacchette e ha scritto: «Dio benedica Charlie Watts, ci mancherai uomo, pace e amore per la famiglia, Ringo».
Anche Keith Richards ha reso omaggio martedì sera, condividendo una commovente foto su Twitter della batteria dei Rolling Stones con un cartello "chiuso" appeso.
Paul McCartney ha condiviso un video su Twitter dopo la notizia della morte di Watts, dicendo ai suoi follower: «Sono così triste di sentire di Charlie Watts. Era un ragazzo adorabile e sapevo che era malato, ma non sapevo che fosse così malato». La star dei Beatles ha continuato: «Così tanto amore alla sua famiglia e condoglianze agli Stones. Sarà un duro colpo per loro perché Charlie era una roccia e un batterista fantastico». Ha concluso: «Ti amo Charlie. Io ti amerò sempre. Bell'uomo. Grandi condoglianze».
Anche l'attore Ben Stiller ha condiviso le sue condoglianze sui social media, così come Nile Rodgers, che ha scritto: «Sei un fratello tranquillo. Grazie per tutta l'ottima musica».
Il musicista canadese Bryan Adams ha scritto: «RIP Charlie Watts, uno dei più grandi batteristi rock di sempre e un vero gentiluomo. Condoglianze alla sua famiglia e alla band».
La cantante Joan Armatrading ha aggiunto: «Perché piango? Perché Charlie Watts è morto. Chi immaginava che qualcuno dei musicisti dei Rolling Stones avrebbe mai lasciato questa terra», mentre Curtis Stigers ha aggiunto: «Mia madre ha sempre affermato che sono stato concepito durante il coro di Satisfaction dei Rolling Stones. Grazie, Charlie Watt. Ti devo la vita. Riposa in pace».
Joan Jett ha twittato: «Charlie Watts era il batterista più elegante e dignitoso del rock and roll. Ha suonato esattamente ciò che era necessario - né più né meno. È unico nel suo genere». Lenny Kravitz ha aggiunto: «Il ritmo degli Stones. Non ci sono parole, ogni groove ha parlato da solo».
Brian Wilson dei Beach Boys si è rivolto ai social media per dire: «Sono scioccato nel sentire parlare di Charlie Watts. Non so cosa dire, mi sento malissimo per la famiglia di Charlie. Charlie era un grande batterista e adoravo la musica degli Stones, hanno fatto grandi dischi. Amore & Misericordia».
I Duran Duran hanno scritto: «Così rattristato dalla notizia della scomparsa di Charlie Watts. Un'ispirazione assoluta per una legione di batteristi dagli anni '60. Un uomo di grazia, stile, dignità e compostezza».
In omaggio, gli Who hanno semplicemente condiviso una foto di Charlie su Twitter, mentre John Fogerty ha dichiarato: «Ho visto i @RollingStones per la prima volta nel 1966 nella Bay Area e da allora sono un fan. Charlie Watts è stato uno dei grandi batteristi e ci mancherà. Stai tranquillo, Charlie».
Dave Davies dei Kinks ha scritto: «In totale shock, Charlie Watts era un ragazzo adorabile. Ci mancherà molto. La più profonda solidarietà a sua moglie, alla band e a tutta la sua famiglia e i suoi amici».
Pubblicando una foto di Charlie su Instagram, Patti Smith ha sottotitolato il suo post: «Questo è Charlie Watts. Pianto e amato da tutti». Flea dei Red Hot Chili Peppers ha aggiunto sulla piattaforma: «Il più sottile, il calore e la sensazione di qualsiasi batterista rock nella storia. Riposa meravigliosamente Charlie, facciamo tesoro dei tuoi doni».
Liam Gallagher ha semplicemente scritto: «RIP Charlie Watts» su Twitter.
Tom Morello ha twittato: «Il rock n roll non sarebbe rock n roll senza il ritmo, lo stile, l'atmosfera di questo incredibile musicista. Riposa in pace #CharlieWatts, uno dei più grandi e importanti artefici della musica che amiamo».
La rock band Garbage ha aggiunto: «Ecco un eroe. Caro Charlie Watt. Che leggenda. Mi dispiace vederlo andar via».
Anche Group Dinosaur Jr ha condiviso la sua tristezza, dicendo: «Mi manchi Charlie, sei il migliore».
Irvine Welsh ha scritto: «RIP Charlie Watts. Si è sempre presentato con fermezza come un onesto mediatore senza fronzoli in una situazione in cui l'acclamazione, la ricchezza, la pomposità e l'egoismo potrebbero corrompere le anime più dolci».
Un lungo tributo è arrivato da Brian May dei Queen su Instagram.
Ha scritto: «Triste notizie per la scomparsa di Charlie Watts. Oh Signore. Le più sentite condoglianze alla sua famiglia – e a Keith, Mick e Ronnie per i quali era sicuramente una famiglia amata.
La prima foto è come me lo ricordo, sorridente e calmo, dalla pagina Facebook dei Rolling Stones. La seconda immagine qui è da una sessione che ho fatto con Charlie alcuni anni fa - la canzone era "Reaching Out" - con Paul Rodgers alla voce, Andy Fairweather-Lowe alla chitarra ritmica e io alla chitarra elettrica. È stato un bel momento. Per alcune persone questo potrebbe essere un cliché, ma nel caso di Charlie è la verità assoluta: era il gentiluomo più simpatico che potessi mai incontrare. E un tale pilastro di forza per i Rolling Stones, ai quali ha portato un tocco di Jazz e una montagna di pura Classe. Ti benedica Charlie. Riposa in pace e vai avanti».
Dagospia.Da "rockol.it" il 24 agosto 2021. Ma che ore sono? Le cinque del mattino? Ma chi cazzo è che telefona a quest’ora della notte?” Ottobre del 1984, siamo ad Amsterdam. Charlie Watts, il batterista dei Rolling Stones è nella sua stanza d’albergo quando riceve una telefonata. Accende la luce, guarda l’ora e si stupisce. Lui non è come gli altri Stones. Sempre fedele alla moglie Shirley, è l’unico a rifiutare le groupies, anche se Mick Jagger e Keith Richards continuano a ripetergli che è pazzo, che la vita è una sola e quella degli Stones è la migliore delle vite possibili. Persino quando sono stati invitati nella villa di Hugh Hefner, il boss di Playboy, durante il tour americano del 1972, Watts è stato l’unico a trascorrere tutto il tempo nella sala giochi invece che con le conigliette. Insomma, non è normale che qualcuno lo chiami alle cinque del mattino, a meno che sia successo qualcosa di grave. Così va a rispondere. È Mick Jagger. Lui e Keith Richards, ma questo Charlie Watts lo saprà soltanto in seguito, sono appena tornati da una notte di alcol ed eccessi vari ed eventuali. “Perché non chiamiamo Charlie?”, dice a Keith. “Beh, lo conosci. A quest’ora dorme”. “Chiamiamolo lo stesso”, dice Mick. Jagger fa il numero della stanza di Watts. “Ehi, dov’è il mio batterista?”, chiede. “Perché non trascini il tuo culo fino a qui?” Charlie Watts non dice una parola, appende la cornetta, va in bagno, si fa la barba, si mette lo smoking, lucida le scarpe, le indossa. Esce dalla stanza, raggiunge Jagger nella camera di Keith, si avvicina e gli sferra un sensazionale pugno in faccia. Jagger finisce sopra un piatto di salmone affumicato, Keith Richards lo afferra per una gamba impedendogli così di precipitare dalla finestra aperta al ventesimo piano. Jagger non accenna a rialzarsi, guarda Charlie Watts con aria interrogativa. E Charlie Watts gli dice: “Non mi chiamare mai più il mio batterista. Sei tu il mio fottuto cantante del cazzo!”. Questo aneddoto è tratto da “Rock Bazar”, un libro di Massimo Cotto edito da Vololibero Edizioni e Virgin Radio, che raccoglie 575 racconti tratti dall’omonima trasmissione radiofonica che narra storie vere e leggende, eccessi e follie delle rockstar.
Dagospia. Da virginradio.it il 24 agosto 2021. Lo scorso giugno Charlie Watts, batterista dei Rolling Stones, ha compiuto 80 anni. La sua incredibile carriera con la più grande rock band del mondo è iniziata nel gennaio 1963, quando si è unito a Mick Jagger, Keith Richards, Brian Jones e Ian “Stu” Stewart (amico e fondatore degli Stones che è stato allontanato dal manager Andrew Loog Oldham nel maggio 1963 perché non aveva il look adatto) dopo aver suonato per due anni con i Blues Incorporated di Alexis Korner e lavorato come grafico per alcune importanti agenzie pubblicitarie di Londra. Poco prima di incontrare gli Stones, Charlie Watts trascorre un anno in Danimarca in uno studio di grafica, poi entra nella band e non ne esce più, diventando l’unico membro insieme a Jagger e Richards ad aver suonato in tutti i dischi della band. Nel 2021 Charlie Watts è ancora lì, fondamentale nel costruire il groove della band che non ha mai smesso di rappresentare il rock’n’roll. Keith Richards una volta ha detto di lui: «Voglio essere seppellito accanto a Charlie Watts. Penso che sia fantastico. Il lavoro più difficile all'interno di una band è quello del batterista. Penso di essere migliorato come musicista solo per poter suonare con lui, che è un uomo fantastico. Il mio obiettivo è quello di diventare cool tanto quanto lui". Per le prossime date del No Filter Tour americano, che dopo lo stop causato dalla pandemia riprenderà il 26 settembre a St.Louis, Charlie Watts ha annunciato che non ci sarà perché deve recuperare da un intervento chirurgico dopo un check up di routine: «Per una volta sono andato fuori tempo» ha dichiarato il batterista, «Sto lavorando duramente per tornare completamente in forma, ma oggi su consiglio dei medici ho accettato il fatto che questo richiederà un po’ di riposo». Al suo posto ci sarà Steve Jordan, 64 anni, batterista delle band di show televisivi famosi come saturday Night Live e Late Night With David Letterman e membroi degli X-pensive Winos, la band solista creata da Keith Richards negli anni ’90. Steve Jordan è un amico degli Stones e ha detto: «Nessuno sarà più felice di me di lasciare la batteria appena Charlie mi dirà che va tutto bene". Charlie Watts non vuole perdersi i festeggiamenti per i 60 anni dei Rolling Stones che arriveranno nel 2022, e intanto ha voluto lanciare un messaggio ai fan che lo adorano da sempre: «Dopo tutto quello che hanno sofferto a causa del COVID non voglio che chi ha tenuto il biglietto per questo Tour rimanga deluso da un altro rinvio o una cancellazione». La sua ultima esibizione con i Rolling Stones resta quindi quella fatta durante il lockdown nell’aprile 2020 per l’evento benefico Together at Home organizzato da Lady Gaga, in cui Mick Jagger, Keith Richards, Ron Wood e Charlie Watts hanno suonato ognuno da casa propria una versione di You Can’t Always Get What You Want che è diventata uno dei video più belli e più visti dell’anno. La cosa più incredibile, è che nel video (in cui Mick Jagger canta in un modo irreale come e fosse davanti ad uno stadio pieno), un Charlie Watts molto elegante nel suo maglioncino marrone e molto sorridente, seduto davanti ad una libreria piena della sua collezione di vinili jazz, fa finta di suonare la batteria usando il bracciolo di una sedia e una custodia per strumenti. I fan sono impazziti, definendo la scena una delle più belle nella storia del rock. «Charlie che fa air drumming è esattamente quello di cui avevamo bisogno in questo momento» ha scritto uno su Twitter. «La cosa più bella è che Charlie ha passato la vita a fare il batterista dei Rolling Stones e a quanto pare non ha una batteria a casa». Charlie Watts ha spiegato il motivo già nel 1989 in un’intervista: sua moglie Shirley con cui è sposato dal 1964 non vuole che suoni a casa perché fa troppo rumore. «Non posso suonare a casa quindi per suonare la batteria devo andare in tour, ma per andare in tour devo andarmene di casa e lasciare mia moglie e mia figlia. È un circolo vizioso in cui sono intrappolato da tutta la vita. Ogni volta vado in tour con gli Stones pensando che sia l’ultimo e quando è finito lascio la band».
Dagospia. Da rockol.it il 24 agosto 2021. Ma che ore sono? Le cinque del mattino? Ma chi cazzo è che telefona a quest’ora della notte?” Ottobre del 1984, siamo ad Amsterdam. Charlie Watts, il batterista dei Rolling Stones è nella sua stanza d’albergo quando riceve una telefonata. Accende la luce, guarda l’ora e si stupisce. Lui non è come gli altri Stones. Sempre fedele alla moglie Shirley, è l’unico a rifiutare le groupies, anche se Mick Jagger e Keith Richards continuano a ripetergli che è pazzo, che la vita è una sola e quella degli Stones è la migliore delle vite possibili. Persino quando sono stati invitati nella villa di Hugh Hefner, il boss di Playboy, durante il tour americano del 1972, Watts è stato l’unico a trascorrere tutto il tempo nella sala giochi invece che con le conigliette. Insomma, non è normale che qualcuno lo chiami alle cinque del mattino, a meno che sia successo qualcosa di grave. Così va a rispondere. È Mick Jagger. Lui e Keith Richards, ma questo Charlie Watts lo saprà soltanto in seguito, sono appena tornati da una notte di alcol ed eccessi vari ed eventuali. “Perché non chiamiamo Charlie?”, dice a Keith. “Beh, lo conosci. A quest’ora dorme”. “Chiamiamolo lo stesso”, dice Mick. Jagger fa il numero della stanza di Watts. “Ehi, dov’è il mio batterista?”, chiede. “Perché non trascini il tuo culo fino a qui?” Charlie Watts non dice una parola, appende la cornetta, va in bagno, si fa la barba, si mette lo smoking, lucida le scarpe, le indossa. Esce dalla stanza, raggiunge Jagger nella camera di Keith, si avvicina e gli sferra un sensazionale pugno in faccia. Jagger finisce sopra un piatto di salmone affumicato, Keith Richards lo afferra per una gamba impedendogli così di precipitare dalla finestra aperta al ventesimo piano. Jagger non accenna a rialzarsi, guarda Charlie Watts con aria interrogativa. E Charlie Watts gli dice: “Non mi chiamare mai più il mio batterista. Sei tu il mio fottuto cantante del cazzo!”. Questo aneddoto è tratto da “Rock Bazar”, un libro di Massimo Cotto edito da Vololibero Edizioni e Virgin Radio, che raccoglie 575 racconti tratti dall’omonima trasmissione radiofonica che narra storie vere e leggende, eccessi e follie delle rockstar.
· E' morto il poeta rivoluzionario Jack Hirschman.
E' morto Jack Hirschman, il poeta rivoluzionario della controcultura americana. La Repubblica il 23 agosto 2021. Rinunciò a una carriera di professore universitario per condurre una "vita da proletario" dopo aver abbracciato l'idea di giustizia sociale di Karl Marx. Fu un rivoluzionario della poesia. Un accademico destinato a raggiungere l'apice delle università americane che decise di abbandonare tutto e condurre una vita da proletario nel nome dell'ideale di giustizia sociale di Karl Marx. Jack Hirschman, studioso e traduttore in nove lingue, è morto a 87 anni nella sua casa di Union Street a San Francisco. Fu uno dei più singolari protagonisti della controcultura americana. L'annuncio della scomparsa lo ha dato la seconda moglie, la poetessa e pittrice anglosvedese Agneta Falk, sposata nel 1999. Hirschman ha avuto una carriera editoriale che è durata più di 50 anni, con l'attivo più di 100 volumi, di cui la metà erano traduzioni; si era fatto conoscere anche come attivista politico a favore dei poveri e degli emarginati. "La cosa più importante come poeta è che ho lavorato per il movimento comunista per 45 anni e la nuova classe di poveri e senzatetto", disse in un'intervista del 2018. Nato a New York, nel quartiere del Bronx, il 13 dicembre 1933, iniziò la carriera nel 1961 come professore di letteratura inglese all'Università della California a Los Angeles, avendo fra i suoi studenti Gary Gach, Steven Kesslerm, Max Schwartz e Jim Morrison. Nel 1966 fu licenziato perché promotore di una serie di proteste e manifestazioni contro la guerra in Vietnam, attività definite "contro lo Stato": una di queste fu l'attribuire la "A", ossia il massimo dei voti, a tutti gli studenti per evitare l'arruolamento. Abbracciata l'ideologia marxista, nel 1980 si unisce al Communist Labor Party e lavora come attivista culturale con un gruppo di poeti fra cui Luis Rodriguez, Michael Warr, Kimiko Hahn, Sarah Menefee, Bruno Gullì, fino al volontario scioglimento del gruppo nel 1992, Nel 1994 diventa membro della League of Revolutionaries for a New America e contribuisce al suo giornale "Peoplès Tribune". Durante gli anni Ottanta ha diretto "Compages", una rivista internazionale di traduzione di poesia rivoluzionaria. E' stato fondatore del World Poetry Movement e della Revolutionary Poets Brigade. Nel 1972 Hirschman comincia a scrivere i poemi lunghi che chiama Arcanes, descritti come la trasformazione dialettica materialistica di ciò che è spesso alchemico o mistico. Gli Arcanes, anche quando toccano temi personali (come nell'Arcano per suo figlio David, morto a 25 anni per un linfoma nel 1982), hanno sempre relazioni con le trasformazioni politiche e sociali. In Italia ha pubblicato con la Multimedia Edizioni le raccolte di poesia "Soglia Infinita" (1993), "Arcani" (2000), "Volevo che voi lo sapeste" (2004), "12 Arcani" (2004), "The Arcanes" (2006), un imponente volume che raccoglie in lingua inglese tutti gli Arcani scritti dal 1972 al 2006, "28 Arcani" (2014), "L'Arcano del Vietnam" (2017). Jack Hirschman è stato in contatto fin dalla metà degli anni Cinquanta con i poeti della Beat Generation (alla quale è stato a volte associato) dai quali però si differenzia subito proprio per le sue posizioni politiche. Pur amico di Allen Ginsberg, Gregory Corso, Bob Kaufman e di tutti gli altri poeti Beat, dissentiva da quella che riteneva una rivoluzione "borghese", fatta di droghe e misticismo orientale, mentre si sentiva più vicino politicamente e culturalmente ai movimenti radicali afroamericani (Black Panther Party e tra i poeti Amiri Baraka). Nella sua intensa opera di traduttore ha lavorato su autori come Mayakovsky, Roque Dalton, Pier Paolo Pasolini, Rocco Scotellaro, Paul Laraque, Paul Celan, Martin Heidegger, Pablo Neruda, René Char, Stéphane Mallarmé, Alexei Kruchenykh, Ismaël Aït Djafer, Alberto Masala, Ferruccio Brugnaro. È stato anche curatore e traduttore nel 1965 della prima importante antologia di Antonin Artaud pubblicata negli Stati Uniti da City Lights Books. Nel 1992 Jack Hirschman cominciò un tour in Italia, dando origine ad un sodalizio con la Multimedia Edizioni e la Casa della Poesia di Salerno, con il libro "Soglia Infinita", tradotto ancora da Bruno Gullì. Hirschman è stato tra i primi poeti di livello internazionale ad aderire al progetto di Casa della poesia, di cui è uno dei più assidui collaboratori e frequentatori, partecipando agli Incontri internazionali di poesia che si sono svolti a Salerno, Napoli, Baronissi, Amalfi, Pistoia, Trieste, Reggio Calabria, Sarajevo.
· Morto Luca Silvestrin, storico pivot della Reyer Venezia.
Morto a 60 anni Luca Silvestrin, storico pivot della Reyer Venezia. Jacopo Bongini il 22/08/2021 su Notizie.it. L'ex giocatore di pallacanestro Luca Silvestrin è morto a 60 anni per un tumore. Negli anni '80 e '90 era stato uno dei trascinatori della Reyer Venezia. Lutto nel mondo del basket italiano: è morto all’età di 60 anni l’ex giocatore Luca Silvestrin, stroncato da un tumore che da poco tempo lo aveva colpito. Celebre pivot degli anni ’80 e ’90, Silvestrin è stato per anni uno dei trascinatori della Reyer Venezia, nella quale ha esordito nel lontano 1977 quando ancora si chiamava Canon Venezia. Nato a Venezia nel 1961, Luca Silvestrin esordisce in serie A a soli sedici anni proprio nella sua città natale, sotto la guida di Tonino Zorzi. Qui resta fino al 1983 quando passa alla Scavolini Pesaro, dove gioca con atleti del calibro di Mike Sylvester e Walter Magnifico. Negli anni successivi milita nella Libertas Forlì, nella Grifoni Perugia, nella Pallacanestro Udinese, nella Pallacanestro Livorno, nell’Olimpia Pistoia e nell’Auxilium Torino, per poi tornare alla Reyer Venezia nel 1992. Qui, dopo una breve parentesi con la Basket Oderzo, terminerà la propria carriera nel 2000 all’età di 39 anni, dopo aver partecipato a 18 campionati in serie A collezionando 578 presenze. Non è ovviamente tardato ad arrivare il commosso ricordo della Reyer Venezia, che sul proprio profilo Facebook ha pubblicato un post in memoria di Silvestrin: “L’Umana Reyer è sentitamente addolorata per la notizia della prematura ed improvvisa scomparsa di Luca Silvestrin, Capitano orogranata. La società tutta si stringe attorno a familiari ed amici e partecipa al dolore. Che la terra ti sia lieve Luca”.
· È morta Nicoletta Orsomando, storica signorina buonasera.
Da leggo.it il 21 agosto 2021. È morta a 92 anni Nicoletta Orsomando, la storica annunciatrice Rai conosciuta dal grande pubblico come la "signorina buonasera". Si è spenta in ospedale a Roma dopo una breve malattia. Lo rende noto la famiglia. La televisione nelle case degli italiani era ancora cosa rara tanto che i genitori per poter vedere il suo primo annuncio andarono in un negozio di elettrodomestici. Era l'ottobre 1953 e la televisione cominciava le sue trasmissioni con lei. Nicoletta Orsomando era la più famosa delle 'signorine buonasera'. Nata a Casapulla (Caserta) l'11 gennaio del 1929, per 40 anni è entrata ogni giorno nelle nostre case con quel garbo e quella gentilezza che l'hanno caratterizzata e che facevano parte di una tv che non c'è più.
La prima volta davanti le telecamere. «Signore e signori buonasera» disse la sua prima volta davanti alle telecamere, annunciando un documentario del National Geographic, e quella frase è diventata un marchio di fabbrica. Viveva nella sua bella casa a Trastevere. Nelle interviste che ha concesso negli ultimi anni ha raccontato di una televisione cresciuta con lei, molto diversa da quella attuale, di cui rimpiangeva la trasmissione dei concerti, delle opere liriche e soprattutto delle commedie teatrali.
È morta Nicoletta Orsomando, storica signorina buonasera della tv italiana. Francesca Galici il 21 Agosto 2021 -su Il Giornale. Con la sua presenza accogliente e discreta ha accompagnato gli italiani per oltre 40 anni: si è spenta a Roma Nicoletta Orsomando. A 92 anni, dopo una breve malattia, si è spenta Nicoletta Orsomando, la prima signorina buonasera della televisione italiana. La storica annunciatrice Rai era ricoverata in un ospedale di Roma da qualche giorno. A rendere nota la sua dipartita è stata la famiglia. I funerali si terranno lunedì prossimo alle 10:15 nella basilica di Santa Maria in Trastevere a Roma. Nata Nicolina, in un piccolo centro della provincia di Caserta l'11 gennaio 1929, la Orsomando ha debuttato in tv il 22 ottobre del 1953. Non è sbagliato considerarla una pioniera della trasmissione televisiva nel nostro Paese, anzi. Ha fatto il suo debutto quando ancora in Italia la tv era in via sperimentale ed erano poche le famiglie ad avere a disposizione un televisore. La maggior parte degli apparecchi, in quegli anni, si trovavano nei bar e nei punti di ritrovo, utilizzati come strumento di aggregazione collettiva e lei, con cordialità e con eleganza, annunciava la programmazione della serata. Il suo primo annuncio fu un documentario sull'Enciclopedia Britannica. Tuttavia sussiste una diatriba sul primo annuncio dell'inizio regolare delle trasmissioni Rai nel 1954, dopo l'installazione dei ripetitori di Torino e Roma e l'inaugurazione degli studi di Milano. Ufficialmente, infatti, l'annuncio della partenza della programmazione televisiva Rai a regime viene attribuita a Fulvia Colombo ma nel libro di Michele Vanossi, Le signorine buonasera, Nicoletta Orsomando ne rivendica la maternità. Con la sua dizione perfetta, Nicoletta Orsomando ha segnato un'epoca televisiva indimenticabile. Ha lavorato in Rai per oltre 40 anni, effettuando il suo ultimo annuncio il 28 dicembre 1993. "Ero in servizio nel giorno dell'attentato di Giovanni Falcone e quello è un annuncio che non avrei voluto mai fare... Poi ce ne sono stati anche altri che hanno sconvolto il mondo, dall'uccisione di Kennedy a tante altre cose. Mi toccò moltissimo la morte di Anna Magnani, io la sera ero in servizio e facemmo un film in televisione, un film che la Magnani avrebbe dovuto vedere nella tv a colori e che, invece, non potè", ha dichiarato Nicoletta Orsomando al Tg1 nel suo ultimo giorno di lavoro come annunciatrice. Ha attraversato la storia con la sua presenza, accompagnandovi con gentilezza tutti gli italiani. Tuttavia, il suo ruolo nella tv di Stato, mai tradita nel corso della carriera, avendo partecipato in qualità di conduttrice e di ospite a numerose altre trasmissioni Rai fino all'ultima, nel 2016, quando prese parte insieme con la collega Rosanna Vaudetti al varietà di Rai1 Dieci cose. "Lei è stata la prima annunciatrice, era una donna molto dolce, molto semplice, una vera amica dello schermo. Le annunciatrici erano delle dive domestiche, avevano una camera fissa sui loro primi piani, senza cameraman. Loro arrivavano, si truccavano da sole e facevano gli annunci. Erano delle vere e proprie vestali del teleschermo", ha commentato Pippo Baudo, uno dei decani della tv italiana, all'Adnkronos.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Aveva 92 anni. Morta Nicoletta Orsomando, storica "signorina buonasera" e annunciatrice Rai per 40 anni. Fabio Calcagni su Il Riformista il 21 Agosto 2021. È morta all’età 92 anni dopo una breve malattia Nicoletta Orsomando, storica annunciatrice della Rai. Orsomando si trovava in ospedale a Roma, come reso noto dalla sua famiglia. Nata a Casapulla, alle porte di Caserta, l’11 gennaio 1929, Orsomando il 22 ottobre 1953 fece la sua prima comparsa in tv, quando gli apparecchi in Italia erano ancora pochi e le trasmissioni sperimentali. In quell’occasione presentò infatti una trasmissione per ragazzi: un documentario sull’Enciclopedia Britannica, divenendo così la prima signorina buonasera attiva dagli studi Rai di Roma. Considerata come l’annunciatrice Rai per antonomasia, Nicoletta Orsomado è stata la "signorina buonasera" per quarant’anni, ritirandosi il 28 dicembre del 1993. Un "titolo" conquistato grazie all’espressione sempre sorridente, la perfetta dizione e i modi gentili, tanto da farla diventare l’annunciatrice più amata di tutte e quella rimasta in carica per il periodo di tempo più lungo. Nei panni di se stessa ha anche partecipato ad alcuni film come ‘Piccola posta’ con Alberto Sordi e Franca Valeri per la regia di Steno e ‘Parenti serpenti’ di Mario Monicelli. Orsomando era anche apparsa anche nel film ‘Totò lascia o raddoppia?’ di Camillo Mastrocinque (1956), in una brevissima sequenza in cui aggiorna gli spettatori sulla sparizione del personaggio interpretato da Totò. Anche dopo l’addio alla Rai, sulla tv pubblica è tornata più volte. Nel 1999 partecipò su Rai 1 al programma “Su e giù” condotto da Gaia De Laurentiis, mentre il 21 gennaio 2008 è comparsa su Rai 1 per presentare lo show “Viva Radio2 Minuti” condotto da Fiorello, che nei promo della trasmissione l’aveva scherzosamente imitata. In due occasioni ha collaborato con Antonella Clerici: il 23 settembre 2008 ha partecipato a “Tutti pazzi per la tele” per un ‘confronto generazionale’ con Arianna Marchetti, annunciatrice di Rai 2 dal 2003 al 2009; nella stagione 2011-2012 invece partecipò come giurata, assieme alle due ex annunciatrici Rai Mariolina Cannuli e Rosanna Vaudetti, all’edizione di “La prova del cuoco”. I funerali si terranno lunedì prossimo alle 10.15 nella Chiesa di Santa Maria in Trastevere, a Roma.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
La storica annunciatrice è morta oggi a 92 anni. Chi era Nicoletta Orsomando, regina delle "signorine buonasera" e volto della Rai per 40 anni. Roberta Davi su Il Riformista il 21 Agosto 2021. Era il 1953 e la televisione, cosa ancora molto rara nelle case degli italiani, iniziava le trasmissioni proprio con lei. Nicoletta Orsomando, storica annunciatrice tv nonché la più celebre tra le ‘signorine buonasera’, si è spenta oggi 21 agosto all’età di 92 anni in un ospedale di Roma, dopo una breve malattia. I funerali si terranno lunedì 23 agosto alle ore 10:15 nella chiesa di Santa Maria in Trastevere, nel quartiere dove viveva circondata dall’amore della figlia Federica e dei suoi tre nipoti.
Volto molto amato della tv. Nata a Casapulla, in provincia di Caserta, l’11 gennaio del 1929, per ben 40 anni è entrata nelle case degli italiani. Era il 22 ottobre del 1953 quando esordì con “Signore e signori buonasera”, la sua prima frase di fronte alle telecamere di una nascente televisione di Stato, annunciando una trasmissione per ragazzi: un documentario sull’Enciclopedia Britannica. Un’espressione che sarebbe diventata il suo ‘marchio di fabbrica’. Nicoletta Orsomando si è sempre contraddistinta per la sua gentilezza e la dizione perfetta. Il suo look, familiare e affabile, il suo volto sempre sorridente e i suoi modi educati l’hanno fatta amare da tutti.
Nelle interviste rilasciate negli ultimi anni ha spesso parlato di una televisione che ha visto crescere insieme a lei, molto diversa da quella odierna, rimpiangendo i periodi in cui venivano trasmessi concerti, opere liriche e soprattutto le commedie teatrali. Ed è stato proprio dopo alcune esperienze in teatro, suo grande amore, a decidere di valorizzare la sua voce: decisione che l’avrebbe portata poi a superare un provino in Rai e diventare annunciatrice. A sostenerla affinché entrasse nel mondo dello spettacolo fu il padre Giovanni Orsomando, clarinetto solista nella banda di fanteria, diplomato in composizione e strumentazione per banda presso il Conservatorio San Pietro a Majella a Napoli. Nel 1957 il suo matrimonio con il giornalista Roberto Rollino. Dopo sei anni i due decisero di separarsi, per poi divorziare negli anni Settanta.
La carriera. Ma la carriera di Nicoletta Orsomando non si è fermata agli annunci: è stata presentatrice della trasmissione ‘L’amico degli animali’ con Angelo Lombardi e, nel 1957, persino del Festival di Sanremo insieme a Nunzio Filogamo. Di questa esperienza la Orsomando una volta ha raccontato: “Avevano chiamato a presentare il festival due giovani attrici ma si accorsero che fare cinema non era sufficiente per quel ruolo e dunque chiesero me che avevo già avuto esperienze di manifestazioni canore”. Nel 1966 ecco ‘Un disco per l’estate’, mentre nel 1965 inaugurò insieme a Jader Jacobelli ‘La giornata parlamentare’ (poi divenuta ‘Oggi al parlamento’). Nel 1976 le venne affidata una rubrica nella trasmissione ‘Cani, gatti & C. e Piante, fiori’.
Nei panni di se stessa ha anche partecipato a vari film come, ad esempio, ‘Piccola posta’ accanto ad Alberto Sordi e Franca Valeri per la regia di Steno e ‘Parenti serpenti’ di Mario Monicelli. In pensione dal 1993, in realtà non ha mai abbandonato del tutto il piccolo schermo. Ospite di "Domenica in" e del programma di Mario Calabresi ‘Hotel Patria’, nella stagione 2011-2012 è intervenuta come giurata a ‘La prova del cuoco’, condotto da Antonella Clerici, affiancata nello stesso ruolo da altre due storiche ex annunciatrici Rai: Mariolina Cannuli e Rosanna Vaudetti. Roberta Davi
E' morta Nicoletta Orsomando, la più amata delle "signorine buonasera". Redazione Tgcom24 il 21 agosto 2021. E' morta a 92 anni la storica annunciatrice Rai Nicoletta Orsomando. Si è spenta in ospedale a Roma dopo una breve malattia. Era la più amata tra le signorine buonasera. In occasione del suo 92esimo compleanno, nel gennaio scorso, è stata visitata dalle ex colleghe Gabriella Farinon, Paola Perissi, Rosanna Vaudetti, Maria Giovanna Elmi, Aba Cercato che l'hanno festeggiata con una torta. I funerali si terranno nella chiesa di Santa Maria in Trastevere lunedì 23 agosto alle 10.15. La televisione nelle case degli italiani era ancora cosa rara tanto che i genitori per poter vedere il suo primo annuncio andarono in un negozio di elettrodomestici. Era l'ottobre 1953 e la televisione cominciava le sue trasmissioni con lei. "Signore e signori buonasera" disse la sua prima volta davanti alle telecamere, annunciando un documentario del National Geographic, e quella frase è diventata un marchio di fabbrica. L'espressione sorridente, la dizione perfetta, i modi gentili ed educati e il suo look familiare e rassicurante l'hanno fatta amare su tutte, tanto da farla diventare la 'signorina buonasera' rimasta in carica più di ogni altra. Originaria di Casapulla (Caserta), Nicoletta Orsomando si trasferì da piccola a Mazzarino poi a Lavello, città della quale il padre Giovanni, noto compositore, diresse la banda sinfonica; successivamente la famiglia si trasferì a Littoria (l'attuale Latina) e infine, nel 1937, a Roma. Proprio nella capitale il padre ha la possibilità di lavorare come direttore della banda della milizia, chiamato direttamente da Mussolini. Non mancheranno però le difficoltà, sorte nel momento in cui l`uomo decise di non aderire alla Repubblica di Salò, dando le dimissioni. La sua passione per il mondo dello spettacolo la porta infatti a prendere parte a diversi provini. La svolta arriva nel 1953 quando debutta sul piccolo schermo: viene scelta per presentare, il 22 ottobre di quell'anno, un documentario sull`Enciclopedia Britannica della National Geographic. Grazie a quel primo annuncio Nicoletta Orsomando diventa la prima "Signorina Buonasera" (così venivano definite le annunciatrici Rai) negli Studi Rai di Roma. La sua popolarità le ha permesso anche di prendere parte al Festival di Sanremo nel 1955. Non è mancata anche qualche apparizione al cinema, dove ha avuto modo di interpretare se stessa, in pellicole quali "Piccola posta" di Steno (1955) e "Parenti serpenti" (1992), diretto da Mario Monicelli. Apparve inoltre nel film Toto' lascia o raddoppia? di Camillo Mastrocinque (1956), in una brevissima sequenza in cui aggiorna gli spettatori sulla sparizione del personaggio interpretato da Totò. Sposata nel 1955 con il giornalista Roberto Rollino, da cui ha avuto la sua unica figlia, Federica, si è separata dopo sei anni. L'ultimo annuncio il 28 dicembre 1993, in cui ha voluto salutare i telespettatori con tono commosso.
Addio a Nicoletta Orsomando, la più famosa delle "signorine buonasera". La storica annunciatrice Rai si è spenta oggi a 92 anni. Il Quotidiano del Sud il 21 agosto 2021. La televisione nelle case degli italiani era ancora cosa rara tanto che i genitori per poter vedere il suo primo annuncio andarono in un negozio di elettrodomestici. Era l’ottobre 1953 e la televisione cominciava le sue trasmissioni con lei. Nicoletta Orsomando, la più famosa delle “signorine buonasera”, si è spenta oggi a 92 anni, in ospedale a Roma dopo una breve malattia. I funerali si terranno lunedì prossimo alle 10.15 nella Chiesa di Santa Maria in Trastevere. Era nata a Casapulla (Caserta) l’11 gennaio del 1929. Per 40 anni è entrata ogni giorno nelle case degli italiani con quel garbo e quella gentilezza che l’hanno caratterizzata e che facevano parte di una tv che non c’è più. «Signore e signori buonasera» disse la sua prima volta davanti alle telecamere, annunciando un documentario del National Geographic, e quella frase è diventata un marchio di fabbrica. L’espressione sorridente, la dizione perfetta, i modi gentili ed educati e il suo look familiare e rassicurante l’hanno fatta amare su tutte, tanto da farla diventare la “signorina buonasera” rimasta in carica più di ogni altra. Viveva nella sua bella casa a Trastevere attorniata dalla figlia e da tre nipoti. Nelle interviste che ha concesso negli ultimi anni ha raccontato di una televisione cresciuta con lei, molto diversa da quella attuale, di cui rimpiange la trasmissione dei concerti, delle opere liriche e soprattutto delle commedie teatrali. Il teatro è stato infatti il suo primo grande amore, ma dopo alcune brevi esperienze decide di valorizzare la sua bella voce e grazie ad un corso di dizione supera un provino in Rai e diventa annunciatrice. A spingerla e sostenerla perché entrasse nel mondo dello spettacolo fu il padre Giovanni Orsomando, clarinetto solista nella banda di fanteria. Nel 1922 Giovanni si diploma in composizione e strumentazione per banda presso il Conservatorio San Pietro a Majella a Napoli, e compone il suo primo brano, una marcia sinfonica “Annina”, dedicata alla moglie, che è rimasta come molte altre scritte da lui nel repertorio di importanti bande italiane. Con un artista in famiglia la carriera di Nicoletta non poteva restare solo annunci ed ecco arrivare per lei “la tv dei ragazzi”, l’indimenticata trasmissione de “l’amico degli animali” con Angelo Lombardi e persino un festival di Sanremo con Nunzio Filogamo nel 1957. Di questa esperienza la Orsomando ha raccontato: «Avevano chiamato a presentare il festival due giovani attrici ma si accorsero che fare cinema non era sufficiente per quel ruolo e dunque chiesero me che avevo già avuto esperienze di manifestazioni canore». Poi nel 1966 conduce “Un disco per l’estate”, mentre nel 1965 inaugura insieme a Jader Jacobelli “La giornata parlamentare” (poi divenuta “Oggi al parlamento”). Nel 1976 le viene affidata una rubrica nella trasmissione “Cani, gatti & C. e Piante, fiori”. Nei panni di se stessa ha anche partecipato a vari film come “Piccola posta” con Alberto Sordi e Franca Valeri per la regia di Steno e “Parenti serpenti” di Mario Monicelli. È stata poi ospite di “Domenica in” e nella stagione 2011-2012 ha partecipato come giurata a La prova del cuoco condotto da Antonella Clerici, affiancata nello stesso ruolo da altre due storiche ex annunciatrici Rai: Mariolina Cannuli e Rosanna Vaudetti.
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 22 Agosto 2021. Si è spenta nella notte fra venerdì e sabato a Roma, all'età di 92 anni, Nicoletta Orsomando, ex annunciatrice televisiva e volto popolare della Rai. I funerali si svolgeranno domani alle 10.15 nella Chiesa di Santa Maria in Trastevere a Roma. Ad annunciare la notizia è stato il nipote di Nicoletta Orsomando, Giacomo Olivi Nicoletta Orsomando è apparsa nelle case dei pochi italiani privilegiati che possedevano un televisore il 22 ottobre 1953 per presentare, in via sperimentale, un documentario dell'Enciclopedia Britannica. In seguito ha condotto «Cineselezione», alcune puntate di «L'amico degli animali» e per un certo periodo «Sette giorni al parlamento». È stata l'annunciatrice della RAI per antonomasia, la personificazione della «signorina buonasera». Il volto sereno, il sorriso imperturbabile, la dizione perfetta, l'eleganza discreta hanno conquistato la platea dei telespettatori. Nel corso degli anni, ha condotto anche qualche rubrica di intrattenimento e ha partecipato come ospite a numerosi programmi. Per 40 anni (è andata in pensione il 20 novembre 1993) è rimasta fedele al suo ruolo; per scelta e soprattutto per costrizione. Si racconta che il direttore Willy De Luca non l'abbia promossa di grado e ad altri incarichi perché «priva di santi in paradiso». Ma Achille Campanile di lei ha scritto l'epigrafe perfetta: «A dir le sue virtù, basta un sorriso... Quello della Orsomando appartiene al genere arguto e birichino». Era nata a Casapulla, comune della provincia di Caserta, si era trasferita da piccola a Mazzarino poi a Lavello, città della quale il padre Giovanni, noto compositore, diresse la banda sinfonica; successivamente la famiglia si trasferì a Littoria (l'attuale Latina) e infine, nel 1937, a Roma. All'inizio del nuovo secolo, la Rai ha mandato in pensione le «signorine buonasera». A parte il periodo d'oro delle origini (quando molti spettatori erano convinti che l'annunciatrice si rivolgesse a loro e solo a loro, suscitando pulsioni e infinite proposte di matrimonio), a parte la notorietà, non dev' essere stato un lavoro di grande soddisfazione. Il lamento delle annunciatrici è stata una mesta ricorrenza di vecchia data, fin dai tempi di Fulvia Colombo che aveva sempre l'aria di annunciare una disgrazia. La Orsomando no, in pubblico non si è mai lamentata. Il grande Achille Campanile le aveva circonfuse di incantevole humour: annunciatrici, «ragazze che hanno l'abilità di farsi la fama di serie, col sorridere a tutti». Facili prede della papera e della satira, le «signorine buonasera» hanno svolto un compito importante: erano l'incarnazione dell'azienda, un volto amico e rasserenante, un ospite fisso della famiglia. Quando annunciavano una diretta avevano la premura di farci intendere, ontologicamente, che la diretta apparteneva solo alla tv e non alla vita, come succede oggi. Di loro, aveva capito tutto Angelo Guglielmi che, per Rai3, nel 1979 decise di usarle in bianco e nero e tra virgolette. Come si fa con le citazioni. La Orsomando ha partecipato, nel ruolo di sé stessa, anche ad alcuni film: Piccola posta , per la regia di Steno, che vedeva come protagonisti Alberto Sordi e Franca Valeri, Totò lascia o raddoppia? di Camillo Mastrocinque, Parenti serpenti di Mario Monicelli, mentre era intenta ad annunciare «Fantastico». Nella prima puntata di «Onda libera» di Roberto Benigni (1976) la Orsomando venne interrotta da un'irriverente pernacchia e all'immagine sconcertata della «signorina buonasera» si sovrappone quella di Cioni che, accompagnandosi con la chitarra, canta la «Marcia degli incazzati». Nel 2008 ha presentato lo show «Viva Radio2 Minuti», condotto da Fiorello, che nei promo della trasmissione l'aveva scherzosamente imitata e che ne farà fare la parodia anche da altri famosi personaggi nelle intro delle successive puntate (tra gli altri Jovanotti, Christian De Sica, Laura Pausini, Simona Ventura, Biagio Antonacci). Più che annunci, quelli di Nicoletta Orsomando erano una liturgia, una promessa di felicità, come i titoli di testa di un buon film.
Maurizio Costanzo per “la Stampa” il 22 agosto 2021. Ieri, per l'ultima volta, Nicoletta Orsomando, come ha fatto per quarant' anni, ci ha dato la buonanotte. Aveva 92 anni e la malattia che l'ha portata via è stata molto breve. Ho detto ci ha detto buonanotte per l'ultima volta in quanto per anni Nicoletta, storica annunciatrice dalla televisione, ci ha dato la buona notte, il buon proseguimento di serata, il buon divertimento, il buongiorno. Nicoletta era veramente una parente mediatica. Quando compì 90 anni le sue colleghe di sempre da Maria Giovanna Elmi a Mariolina Cannuli a Rosanna Vaudetti, le fecero una gran festa con brindisi e champagne. Io ebbi il piacere di festeggiare più sobriamente davanti alle telecamere questo anniversario e provai a fare a Nicoletta qualche domanda sulla sua carriera. Mi resi conto però che era sciocco chiederle cosa ricordava chi aveva fatto l'annunciatrice Rai per quarant' anni. Ricordava tutto, dalle cose allegre a quelle tristi ma quel che mi colpì è che, malgrado avesse lasciato, per limiti di età, l'impegno Rai era pronta, truccata, elegante come se fosse rimasta per sempre davanti a una telecamera. L'occasione della morte di Nicoletta Orsomando, nel ricordare la funzione e "l'amicizia" che queste ragazze hanno stabilito con milioni di telespettatori, mi ha fatto dire ancora una volta: perché la Rai, ad un certo momento, ha deciso di cancellare le "Signorine buonasera"?. Lo stesso è accaduto anche a Canale 5. Una brava annunciatrice, discreta e gentile, vale una parte di canone, è un filo che lega il telespettatore all'emittente. Fu Fulvia Colombo la prima ad aprire la programmazione Rai ed è giustamente rimasta sempre il volto Rai. Ma c'è di più: Annamaria Gambineri, Maria Giovanna Elmi, Gabriella Farinon e tutte le altre, senza saperlo sono state le fidanzate di milioni di italiani. Era facile, col vantaggio della luce bassa, dell'intimità del proprio appartamento, di immaginare che Nicoletta Orsomando, fatto l'annuncio, ti sorridesse con un ammiccamento. Ricordo che, anni fa, un importante settimanale dedicato alle donne "Grazia" pubblicò un'intervista a Mariolina Cannuli, il cui titolo era: "Quando dice buona notte, guardate vostro marito". Certamente, chi legge fra i più giovani non ricorderà Nicoletta Orsomando ma altri lettori e lettrici sorrideranno al pensiero di quel sorriso sobrio e intenso che illuminava il viso di Nicoletta. Quel sorriso, cara Nicoletta ovunque tu sia, ci terrà compagnia per sempre. Di una cosa sono comunque certo: già adesso Nicoletta Orsomando è stata scritturata come annunciatrice della Televisione Altrove che noi non possiamo vedere ma lei e molti altri sì.
Nicoletta Orsomando, quando l’ex annunciatrice riunì le Signorine Buonasera per i suoi 90 anni. Valentina Mericio il 22/08/2021 su Notizie.it. "Era una vestale del teleschermo", così Pippo Baudo ha ricordato Nicoletta Orsomando. La foto della reunion con le Signorine Buonasera è ormai Storia. “Era una vestale del teleschermo”, così il noto conduttore Pippo Baudo ha definito Nicoletta Orsomando, storica Signorina Buonasera che, per oltre 40 anni è entrata con garbo nelle case di milioni di italiani. La figura di Nicoletta Orsomando è stata soprattutto sinonimo di famiglia, di una televisione rassicurante che oggi non esiste più. La sua è stata una figura iconica tanto che nel 2019, in occasione dei suoi 90 anni ha voluto ancora una volta rievocare questa gloriosa era riunendo alcune delle storiche Signorine Buonasera. Una foto che è ormai diventata un pezzo di Storia, il simbolo di un periodo al quale gli italiani guardano con nostalgia. Paola Perissi, Gabriella Farinon, Rosanna Vaudetti, Aba Cercato, Maria Giovanna Elmi (ricordata con affetto come la fatina della televisione italiana) e naturalmente al centro spiccava lei, Nicoletta Orsomando sorridente in occasione del raggiungimento dei 90 anni. Anche in un periodo storico come questo dove tutto corre veloce, la foto della ex annunciatrice con le storiche Signorine Buonasera, è riuscita a superare la prova del tempo, riportando immediatamente milioni di italiani a quel periodo dove a fare da intrattenimento non era lo schermo dello smartphone, bensì l’aspetto forse più rassicurante del televisore di casa, che nei primi anni ’50 era addirittura considerato un lusso. In una vecchia intervista rilasciata ad ANSA nel 2011, Nicoletta Orsomando raccontò come a spingerla a fare il provino fu il padre: ”Era presente alla visita che mi fece una collega di un corso per annunciatori radio e mi disse ‘Scusa, che cosa ti costa, vai a vedere, per curiosità. E così ho partecipato a questo primo provino, poi ne sono scaturiti altri”. L’ex annunciatrice ricordò come a quel tempo gli apparecchi erano ancora molto pochi e come le evoluzioni portate dalla televisione avvennero per gradi. A spendere parole significative e piene di affetto su Nicoletta Orsomando il noto conduttore Pippo Baudo che ha dichiarato: “Lei mi disse che lo zio, un musicista dell’Accademia di Santa Cecilia, andava in pensione e voleva vendere la casa che non gli serviva più. Io la vidi, mi piacque e la comprai, e adesso ci abito ancora”. Sulle Signorine Buonasera ha dichiarato: “Le annunciatrici erano delle dive domestiche, avevano una camera fissa sui loro primi piani, senza cameraman. Loro arrivavano, si truccavano da sole e facevano gli annunci. Erano delle vere e proprie vestali del teleschermo”.
Rosanna Vaudetti ricorda Nicoletta Orsomando: "Quanta gentilezza in lei". Carlo Moretti su La Repubblica il 21 agosto 2021. Rosanna Vaudetti, 83 anni, è stata una delle grandi amiche di Nicoletta Orsomando. L'altra signorina buonasera, seconda solo alla Orsomando quanto ad anni di servizio di fronte alle telecamere, al telefono ha la voce rotta dall'emozione. "Siamo state noi che abbiamo dato la notizia, purtroppo tutto è avvenuto all'improvviso questa mattina".
Com'è accaduto?
"Nicoletta era stata ricoverata qualche giorno fa perché, come succede alle persone anziane, con il caldo aveva avuto dei problemi. I medici però ci avevano tranquillizzate, dicevano che andava bene, poi all'improvviso questa mattina...".
Fu la sua guida professionale all'arrivo in Rai?
"È stata la prima persona che ho conosciuto, me la presentò Maria Luisa Boncompagni. Tra di noi ci fu un'amicizia a prima vista, se così si può dire, fu gentilissima, mi incoraggiò".
Un volto noto per tutti gli italiani.
"Voglio ricordare quello che le disse per telefono il presidente Mattarella per i suoi 90 anni. Eravamo a casa di Nicoletta per festeggiarla con Maria Giovanna Elmi e Gabriella Farinon, avevamo portato la torta, i fiori e un grosso orso di peluche per farla sorridere. Il presidente le disse che era un punto di riferimento per gli italiani, una presenza gentile e professionale per tanti anni. L'ha ringraziata a nome di tutti gli italiani".
Partecipaste a un programma insieme.
"Sì, era Su e giù, carinissimo, Gregorio Paolini, l'autore, ci aveva messo in cielo, in paradiso, come due dee. E all'inferno c'erano Er patata e Giampiero Galeazzi, surreale. Ci siamo molto divertite".
Eravate molto amiche.
"Lo siamo diventate soprattutto da pensionate, con gli stessi interessi, la musica, l'arte, i viaggi, le vacanze. Mi mancherà".
Maria Giovanna Elmi ricorda Nicoletta Orsomando: "Lei era la televisione". Carlo Moretti su La Repubblica il 21 agosto 2021. La collega e amica era entrata in Rai negli anni Settanta: "La tv l’ha praticamente aperta lei, per me era un mito. Poi ho scoperto che quella solarità, quel modo carino e garbato che aveva in tv, l’aveva anche nella vita". Maria Giovanna Elmi, 80 anni, ha condiviso per quasi 20 anni il percorso da “signorina buonasera” con Nicoletta Orsomando. Ma anche nel suo caso il rapporto professionale si è trasformato in una solida amicizia.
Quando vi siete conosciute?
"Sono arrivata in Rai nel ’70. Nicoletta nell’azienda c’era dalla sua fondazione, la tv l’ha praticamente aperta lei, per me era un mito, le davo sempre del lei perché ero sempre troppo emozionata.
· È morto l'attore Nino D'Agata.
Morto l'attore Nino D'Agata, era il generale Tosi di 'R.I.S.' e voce dei Simpson. La Repubblica il 20 agosto 2021. Aveva 65 anni. Ha lavorato, tra gli altri, con Sorrentino e Muccino. È stato anche doppiatore. È morto Nino D'Agata, attore e doppiatore noto al grande pubblico soprattutto per aver interpretato il generale Tosi nella serie televisiva R.I.S. - Delitti imperfetti e per aver prestato la propria voce ai personaggi di Timothy Lovejoy e Lou nel cartoon I Simpson. Nato a Catania l'8 Ottobre 1955, D'Agata ha esordito sul grande schermo nel 1993, incarnando Totuccio Contorno in Giovanni Falcone di Giuseppe Ferrara. Nel corso della sua lunga carriera cinematografica e televisiva ha partecipato anche a Don Matteo, Distretto di polizia e Il giovane Montalbano, è stato diretto, tra gli altri, da Paolo Sorrentino in Le conseguenze dell'amore, da Gabriele Muccino in L'ultimo bacio, da Emanuele Crialese in Nuovomondo e da Michele Soavi nelle fiction Ultima pallottola, Francesco e Il testimone. Tra le sue performance maggiormente ricordate, rientra sicuramente quella di Agostino Catalano nel tv movie Paolo Borsellino, diretto nel 2004 da Gianluca Maria Tavarelli. La sua inconfondibile voce, invece, possiamo riconoscerla, tra l'altro, nelle versioni italiane di Alec Baldwin in Notting Hill, Paul Bettany in Iron man e nelle successive avventure degli Avengers Marvel, nelle serie tv I Soprano e Santa Barbara e nei film d'animazione Up e Giuseppe il re dei sogni.
È morto l'attore Nino D'Agata. Francesca Galici il 20 Agosto 2021 su Il Giornale. Si è spento improvvisamente Nino D'Agata, noto attore e doppiatore; ha prestato il volto al generale Tosi in Ris - Delitti imperfetti. A 66 anni è morto Nino D'Agata, doppiatore e attore molto noto al grande pubblico. Ancora non sono state rese note le cause della sua scomparsa, una morte improvvisa che ha sorpreso sia gli addetti ai lavori che la famiglia. Ha ottenuto un grande successo con la serie tv Ris - Delitti imperfetti, nella quale ha interpretato il generale Tosi ma nella sua lunga carriera sono numerose le parti che gli hanno conferito il favore dei cinefili e dei telespettatori. Ha prestato la sua voce a numerosi personaggi, tra i quali anche il Reverendo Timothy Lovejoy e Lou nel cartoon I Simpson. Nino D'Agata è nato Catania nel 1955 e ha esordito come attore in età già adulta, nel 1993. Il suo primo lavoro è stato l'interpretazione di Totuccio Contorno in Giovanni Falcone, film di Giuseppe Ferrara. Da quel momento è stato notato per la sua grande espressività e ha recitato in numerose pellicole, molte delle quali di grande successo, come L'ultimo bacio di Gabriele Muccino oppure Le conseguenze dell'amore di Paolo Sorrentino. È stato diretto da Michele Soavi in Il sangue dei vinti, film tratto dall'omonimo libro di Giampaolo Pansa. L'ultimo film per il cinema di Nino D'agata risale al 2016, quando l'attore ha recitato in Il ministro per la regia di Giorgio Amato. Numerosi anche i suoi lavori televisivi. Sempre con Michele Soavi ha lavorato in Il testimone, in Francesco e in L'ultima pallottola. Ha preso parte a serie televisive entrate nel cuore del grande pubblico come Distretto di polizia, Don Matteo, Ris, Squadra antimafia e ne Il giovane Montalbano. La sua voce, profonda e avvolgente, è stata spesso prestata al doppiaggio. Oltre ai due personaggi già citati del cartoon de I Simpson, infatti, Nino D'Agata ha doppiato Alec Baldwin in Notting Hill, e poi ancora John David Cameron in Aliens of the Deep, John Nielsen in Transformers - La vendetta del caduto e Giancarlo Esposito in Derailed - Attrazione letale. Sono decine i personaggi che Nino D'Agata ha doppiato nelle versioni italiane.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Nino D'Agata, lutto a Mediaset: morto a 65 anni l'indimenticabile voce dei Simpson. Libero Quotidiano il 20 agosto 2021. È morto a 65 anni Nino D'Agata. L'attore e doppiatore era noto per aver interpretato il generale Tosi nella serie televisiva di Canale 5 R.I.S. - Delitti imperfetti e per aver prestato la propria voce ai personaggi di Timothy Lovejoy e Lou nel cartoon I Simpson. Tra i ruoli interpretati, oltre a quello del generale Tosi, c'è anche quello dell'agente Agostino Catalano nel tv movie Paolo Borsellino. Tra i personaggi cui ha prestato la voce. invece, c'è anche Paul Bettany di Iron man. Il mondo della tv adesso piange la sua prematura scomparsa. Nato a Catania l'8 ottobre 1955, ha fatto il suo esordio sul grande schermo nel 1993, quando ha vestito i panni di Totuccio Contorno in Giovanni Falcone di Giuseppe Ferrara. Nel corso della sua lunga carriera cinematografica e televisiva ha partecipato anche a moltissime serie tv tra cui Don Matteo, Distretto di polizia e Il giovane Montalbano. L'attore - come ricorda Leggo - è stato diretto, tra gli altri, da Paolo Sorrentino ne Le conseguenze dell'amore, da Gabriele Muccino ne L'ultimo bacio, da Emanuele Crialese in Nuovomondo e da Michele Soavi nelle fiction Ultima pallottola, Francesco e Il testimone. Tra le sue performance più ricordate c'è sicuramente quella dell'agente Catalano nel tv movie Paolo Borsellino, diretto nel 2004 da Gianluca Maria Tavarelli. Mentre con la sua voce inconfondibile ha doppiato personaggi come Alec Baldwin di Notting Hill, Paul Bettany di Iron man e delle successive avventure degli Avengers Marvel.
Morto Nino D’Agata, voce dei Simpson e del generale Tosi dei R.I.S. Alice Coppa il 20/08/2021 su Notizie.it. L'attore e doppiatore Nino D'Agata si è spento improvvisamente a 65 anni. Lutto nel mondo del cinema e della tv. L’attore e doppiatore Nino D’Agata si è spento improvvisamente a 65 anni. Aveva prestato la voce a Timothy Lovejoy e Lou dei Simpson.
Nino D’Agata è morto. Il mondo della tv e dello spettacolo italiano piangono Nino D’Agata, attore e doppiatore classe 1955 scomparso improvvisamente e per cause ancora ignote. Nel corso della sua carriera aveva collaborato con innumerevoli produzioni italiane e aveva prestato la sua voce al generale Tosi di R.I.S. – Delitti imperfetti e ai personaggi di Timothy Lovejoy e Lou nella serie animata I Simpson.
Nato a Catania l’8 ottobre 1955, D’Agata aveva debuttato al cinema nel 1993, quando aveva vestito i panni di Totuccio Contorno nel film Giovanni Falcone (diretto da Giuseppe Ferrara). Aveva partecipato inoltre a numerose fiction italiane, tra cui le più famose sono senza dubbio Don Matteo, il Giovane Montalbano e Distretto Di Polizia. Sotto la regia di Sorrentino aveva recitato nel film Le conseguenze dell’Amore, mentre per Gabriele Muccino aveva recitato nel famoso film L’Ultimo Baci. Uno dei suoi ruoli maggiormente ricordati è quello dell’agente Catalano nel film per il piccolo schermo Paolo Borsellino (diretto da 2004 da Gianluca Maria Tavarelli). Tra i personaggi a cui aveva prestato la sua voce rientrato anche Alec Baldwin di Notting Hill e Paul Bettany di Iron man. Al momento non sono chiare le cause della scomparsa di Nino D’Agata, che è morto a soli 65 anni. Sui social in tanti tra fan, amici e colleghi si stanno riversando sulle pagine del doppiatore e attore dedicandogli messaggi d’affetto e di cordoglio. Nino D’Agata era estremamente riservato per quanto riguarda la sua vita privata. Di lui si sa solo che avesse avuto un figlio, Lorenzo, insieme alla compagna Paola Valenti (anche lei attrice e doppiatrice). Come i suoi genitori anche Lorenzo D’Agata ha intrapreso la carriera cinematografica, divenendo attore e doppiatore proprio come il padre. Sui social moltissime pagine dedicate al mondo del cinema e del doppiaggio stanno dedicando i loro messaggi d’addio a Nino D’Agata, scomparso improvvisamente il 20 agosto 2021. La famiglia dell’attore non ha rotto il silenzio sulle cause che avrebbero portato alla sua improvvisa e prematura scomparsa, ma in tanti sui social gli hanno dedicato i loro messaggi d’addio.
· È morto l’atleta Albert Rienzo.
Atletica, si è spento Albert Rienzo: aveva solo 16 anni. Valentina Mericio il 18/08/2021 su Notizie.it. Lutto nel mondo dell'Atletica leggera. Si è spento a soli 16 anni l'atleta Albert Rienzo. Ancora da chiarire le cause del decesso. È ancora lutto nel mondo dell’atletica leggera che ha perso nel giro di poco tempo due giovanissime promesse entrambe tesserate nell’Atletica Riccardi. Dopo la morte della 19enne Francesca Mirarchi scomparsa tragicamente nell’Alta Val Brembana, è venuto a mancare anche il giovane Albert Rienzo. Classe 2005, la morte del giovane atleta non ha sconvolto soltanto amici e familiari, ma anche il mondo dell’atletica che conta senza dimenticare le società nelle quali è stato tesserato – vale a dire l’Atletica Meda e l’Atletica Riccardi che gli hanno voluto dedicargli un ultimo saluto. “Ciao Albert cuore verde”, ha scritto l’Atletica Riccardi su Facebook.
Morto Albert Rienzo, ancora non note le cause del decesso. Non sarebbero state rese note nel frattempo le cause che avrebbero portato alla morte della giovanissima promessa dell’atletica leggera. Originario della Nigeria, Albert che ha vissuto per un periodo anche in Togo, è arrivato in Italia, precisamente in Brianza dov’è stato adottato. Da lì in poi è cresciuta la passione per l’Atletica leggera che lo ha portato a gareggiare a certi livelli prima nell’Atletica Meda e poi nell’Atletica Riccardi 1946 con cui aveva debuttato solo qualche settimana solo qualche settimana fa, dopo un periodo dal quale è stato reduce di un infortunio.
Morto Albert Rienzo, il cordoglio dell’Atletica Riccardi 1946. Particolarmente sentito è stato il messaggio di cordoglio dell’Atletica Riccardi 1946 che su Facebook ha scritto un post pieno di affetto, ringraziandolo al contempo per il contributo dato: “Ciao Albert, cuore verde. Un’altra notizia che ci lascia sgomenti: a soli 16 anni se n’è andato Albert Rienzo, velocista innamorato dell’atletica che quest’anno era approdato in Riccardi Milano. Fermato da un infortunio a inizio stagione, aveva fatto l’esordio tanto atteso e sognato in maglia verde a Pont Donnas (Aosta) lo scorso 3 luglio correndo subito i 100m in 11″84 (per lui era solo il secondo anno di pratica atletica). Il presidente Sergio Tammaro e tutta l’Atletica Riccardi (compresi i ragazzi e le ragazze della squadra Allievi che con Albert hanno condiviso questa purtroppo breve stagione) abbracciano con grande affetto la famiglia Rienzo in questo momento di grande dolore”.
Morto Albert Rienzo, la Federazione italiana per l’Atletica Leggera: “Ci uniamo al cordoglio”. Non è mancato l‘ultimo messaggio di saluto della Federazione Italiana per l’Atletica Leggera che ha scritto: “Ci uniamo al cordoglio per l’improvvisa scomparsa del 16enne Albert Rienzo. Il giovane velocista di Cesano Maderno aveva cominciato con l’attività agonistica all’inizio del 2020, tesserato per l’Atletica Meda 2014, piazzandosi al terzo posto nei campionati regionali cadetti sugli 80 metri”.
· È morto l’atleta Giovanni Di Lauro.
Grottolella (Avellino), lutto nel mondo dello sport: addio all’atleta Giovanni Di Lauro. Valentina Mericio il 20/08/2021 su Notizie.it. L'atletica è in lutto. Si è spento a seguito di una lunga malattia il giovane atleta Giovanni Di Lauro. La comunità di Grottolella (Avellino) e il mondo dell’atletica sono in lutto. Nella giornata di domenica 15 agosto si è spento a seguito di una lunga malattia il giovanissimo atleta Giovanni Di Lauro. A darne notizia AvellinoToday che ha pubblicato il lungo messaggio dei familiari che hanno voluto dedicargli ultimo pensiero. “Giovanni ha lottato, non si è dato mai per vinto, ha affrontato ogni giorno della malattia con coraggio e determinazione” La famiglia descrive il giovane come una persona allegra che aveva un sorriso tutti. “Grazie nostrio infinito campione”, sono le frasi piene di orgoglio. Particolarmente significative le parole spese dai familiari verso il giovane che hanno dedicato l’ultimo saluto: “Per Giovanni. Non si è mai pronti per il dolore. Non si è mai pronti per la mancanza. Speri sempre che tutto possa andare nel verso giusto, che si possa continuare a costruire la propria vita giorno per giorno. E si lotta per tutto questo! Giovanni ha lottato, non si è dato mai per vinto, ha affrontato ogni giorno della malattia con coraggio e determinazione. Il nostro amatissimo Gio’ è e sarà sempre il pezzo pulsante dei nostri cuori. I familiari hanno quindi proseguito con delle parole che suonano come una preghiera: “Per ora non ci incontreremo, Giovanni caro, ma viaggeremo insieme, sempre vicini, su percorsi paralleli, ma dove si intrecceranno ricordi, emozioni, amore. Tu sempre accanto a noi a proteggerci, ora che gli angeli del cielo sono diventati tuoi amici, ai quali stai insegnando a giocare a basket, a tennis, a ping pong, a calcio e a nuotare”.
Morto Giovanni Di Lauro, era conosciuto e benvoluto da tutti. Il giovane atleta era conosciuto e benvoluto da tutti e la sua morte ha scioccato un’intera comunità: “Gio’, con la sua semplicità, perché Gio’ possedeva questo meraviglioso e rarissimo pregio, ha illuminato le nostre esistenze: di chi lo ama come figlio, come fratello, come nipote, come fidanzato, come amico, ma anche di chi ha avuto la fortuna di conoscerlo, frequentarlo, ammirarlo. […] Grazie Gio’, grazie nostro infinito “Campione” per ciò che ci hai donato, per ciò che ci hai insegnato. E ti diremo “grazie” ogni giorno, fino ad abbracciarci quando ci incontreremo di nuovo”.
· È morto il senatore Paolo Saviane.
Lega, morto il senatore Paolo Saviane. Il cordoglio di Zaia: “Era una persona per bene”. Valentina Mericio il 20/08/2021 su Notizie.it. Lutto nel mondo della politica. Si è spento prematuramente all'età di 59 anni il senatore della Lega Paolo Saviane. Zaia: "Era una persona per bene". Il mondo della politica è in lutto. Si è spento all’età di 59 anni, il senatore della Lega Paolo Saviane. Originario della provincia di Belluno, la sua morte ha sconvolto diverse personalità del partito. Da Massimiliano Romeo, passando per il Governatore della Regione Veneto Luca Zaia a Simone Pillon, al leader del Carroccio Matteo Salvini. Una morte triste, quanto inaspettata. Quella di Paolo Saviane ha toccato il cuore di quanti hanno avuto con lui la possibilità di militare nella Lega, partito nel quale apparteneva e con il quale era stato eletto nel ruolo di senatore. Le condizioni di salute dell’uomo erano seguite con particolare apprensione – come dichiara tra le altre cose il Presidente della Regione Veneto Luca Zaia: “Eravamo preoccupati per il suo stato di salute ma oggi è arrivata una di quelle notizie che non vorresti mai ricevere. Se n’è andata una persona per bene, che aveva fatto della buona educazione e del rispetto per gli altri una costante di vita”. Tra le persone a dedicare un pensiero per la morte del senatore della Lega troviamo il capogruppo al senato Massimiliano Romeo che ha dichiarato: “Siamo attoniti. È mancato Paolo Saviane, senatore bellunese della Lega. Perdiamo un amico prezioso e un leghista di grande valore. Ci uniamo nel dolore alla sua famiglia, a tutti i suoi cari e alla comunità della Lega bellunese che ha rappresentato al Senato con onore”. Ad inviare un ultimo saluto anche il senatore Simone Pillon che su Facebook ha scritto: “Paolo era, anzi è, una persona splendida. Attento, preparato, semplice e gentile. Fiero sostenitore delle radici valoriali del nostro Paese, difendeva le sue, le nostre battaglie, con la forza delle idee ma sempre col massimo rispetto delle persone. È stato per me un onore e un insegnamento poterti conoscere. So che mi mancheranno le nostre confidenze”. Tra i messaggi di cordoglio non è mancato quello del leader della Lega Matteo Salvini che sui social ha scritto: “Ma perché?!?!? Buon viaggio caro Paolo, bellunese concreto e combattente, uomo sincero e onesto, sempre disponibile con tutti e mai cattivo con nessuno, neanche con gli avversari. Che il Signore ti accolga in Cielo”.
· E’ morta la giornalista e scrittrice Gaia Servadio.
Gaia Servadio, morta a 83 anni la giornalista e scrittrice: sua figlia la prima moglie di Boris Johnson. Da "blitzquotidiano.it" il 20 agosto 2021. E’ morta a 83 anni la scrittrice e giornalista Gaia Servadio che da più di mezzo secolo viveva a Londra: sua figlia è stata la prima moglie del premier Boris Johnson. Era autrice di una quarantina di libri di narrativa e saggistica, l’ultimo romanzo è stato Giudei, in parte ispirato da vicende familiari. Ha scritto per La Stampa, il Corriere della Sera, il Times e l’Observer, oltre ad aver girato documentari per la Rai e per la Bbc.
La vita di Gaia Servadio. Gaia Servadio era nata a Padova nel 1938. Oltre a scrivere aveva anche studiato pittura. E aveva anche tenuto alcune mostre personali. Dal 1956 viveva a Londra, e da allora si divideva tra Inghilterra e Italia. E proprio in Inghilterra aveva conosciuto l’uomo che poi avrebbe sposato. Si era sposata la prima volta nel 1961. Suo marito era lo storico britannico (e noto critico d’arte) William Mostyn-Owen. Dal matrimonio sono nati i suoi tre figli: Owen Mostyn-Owen, Allegra Mostyn-Owen (è stata la prima moglie del premier britannico Boris Johnson) e Orlando Mostyn-Owen. Successivamente la Servadio aveva anche un secondo marito, Hugh Myddelton Biddulph.
Gaia Servadio libri: romanzi e saggi
Questi sono i romanzi pubblicati da Gaia Servadio:
Tanto gentile e tanto onesta (1967)
Don Giovanni e L’azione consiste, (1968)
Il Metodo (1970)
Un’infanzia diversa (1988)
Il lamento di Arianna (1988)
La storia di R. (1990)
Abramo (1990)
E i morti non sanno (2005)
Raccogliamo le vele (2014)
Didone Regina (2017).
Questi invece i saggi di Gaia Servadio:
Luchino Visconti (1980)
La Donna del Rinascimento (1986)
Incontri. Forster, Sraffa, Lowell, Matta, McCarthy (1993)
Traviata. Vita di Giuseppina Strepponi (1994)
GAIA SERVADIO - GIUDEI
Mozia. Alla scoperta di una civiltà scomparsa (2003)
Rossini. Una vita (2004)
Il Rinascimento allo specchio (2007)
Incoronata pazza. Il mistero di Giovanna, figlia di re, madre di re, regina sacrificata (2010)
C’è del marcio in Inghilterra (2011)
I viaggi di Dio (2016)
L’italiano più famoso del mondo: vita e avventure di Giovanni Belzoni (2018).
Gaia Servadio Lamia vita da film, dai nazisti al flirt con Gianni Agnelli
Fiamma Tinelli per “Oggi” - 11 febbraio 2021. Ogni sabato mattina, Gaia Servadio va al mercato vicino a casa, nell’aristocratico quartiere di Bel gravi a, a Londra. «Oddio, mercato, vedesse quanto costa una pera... Però è tutto bio, le duchesse del quartiere ne vanno pazze». Oggi, ha fatto un’eccezione. Scrittrice e giornalista, italiana a Londra da una vita, moglie di due aristocratici, iscritta per anni al l Pci, amica di Gian Carlo Pajetta e Phi- lip Roth, ex suocera di Boris Johnson n e amante di Gianni Agnelli, ebrea che più laica non si può («il prosciutto lo o mangio e son contenta»), questa bella a signora italiana di 82 anni ha rimandato la ricerca degli spinaci novelli i per parlare del suo romanzo, Giudei i (Bompiani). Una telefonata fiume, in cui racconterà anche molto altro.
Nel suo libro si mescolano fiction e ricordi. Quando si legge che fu un amico carabiniere a salvare la sua famiglia dalle retate della Gestapo, è vero?
«Verissimo. Arrivò in piena notte nella nostra casa di Padova, in borghese, rischiando la pelle. “Andatevene subito”, ci disse, “siete stati schedati”. Era il 1943, io avevo cinque anni, mia sorella otto, ma ricordo tutto. I miei fecero qualche valigia in fretta, prendemmo il primo treno verso sud. “Dimenticate il vostro cognome, d’ora in poi ci chiamiamo Prinzi”, ci disse mia madre. La parola “ebrei” non si poteva neanche sussurrare».
A nascondervi fu una nobildonna marchigiana, antifascista.
«Mio padre, che era un chimico, amico e collega di Primo Levi, si finse il suo portinaio, vivevamo in quattro in una stanzetta. Un giorno, i tedeschi occuparono il piano nobile del palazzo e gli chiesero se poteva servire in tavola alle loro cene. Pur di proteggerci, papà s’infilò i guanti bianchi e andò a versare il Merlot agli hauptsturmführer, non so con che forza. A noi andò bene, mia nonna Gemma perse la vita ad Auschwitz».
Persino finita la guerra, sua madre le proibiva di dire che era ebrea. Perché?
«Perché c’era vergogna. Nessuno di noi voleva ricordare di essere stato vittima di una cosa così orribile».
Emanuele Filiberto ha scritto una lettera ai “fratelli ebrei” per scusarsi delle leggi razziali.
«E allora? Al mondo nessuno sa chi sia Emanuele Filiberto, non conta niente, è solo uno in cerca di pubblicità. I Savoia si sono comportati da idioti, nessun ebreo ha preso sul serio le scuse di un discendente da reality».
Partita per Londra per studiare grafica, a vent’anni sposò il nobile inglese William Mostyn-Owen. Come l’aveva incontrato?
«Appena arrivata presi in affitto una stanza con altre ragazze. Una di loro era un’ex concorrente di Miss Mondo che mi trascinava a tutte le feste a cui era invitata. Io d’inglese non capivo una parola, ma buttavo giù due Campari e mi lanciavo.
C’erano editori di giornali, intellettuali, politici... Un giorno passò da casa nostra questo ragazzo, neanche sapevo fosse nobile, menchemeno che avesse un castello in Scozia, e mi trovò a dipingere ascoltando Mozart. Italiana, bionda, innamorata della bella musica, di sinistra, devo essergli sembrata esotica. E io avevo voglia di famiglia».
Ecco, di sinistra. In occasione di un viaggio di lavoro in Italia si era avvicinata al Pci. Ho letto che casa vostra, a Londra, era diventata una mezza succursale del partito.
«La mia aristocraticissima vicina, a Belgravia, era sconvolta perché si ritrovava l’ingresso di casa invaso dalle copie dell’Unità. Ero amica di Gian Carlo Pajetta, di Miriam Mafai, ospitavo Giorgio Napolitano, Emanuele Macaluso... Discutevamo per ore, organizzavo cene, contatti. E nel partito avevo anche un certo ruolo: una volta feci togliere la tessera a un iscritto perché si drogava».
Mi perdoni, ma come si sposa il fare la castellana in Scozia con la lotta per il proletariato?
«Non ho mai creduto che dirsi comunisti significasse essere San Francesco. Noi credevamo in un ideale, un’utopia. Un’idea di governo che non ha funzionato, ma anche di economia, che invece potrebbe essere quella del futuro».
Del suo primo marito ha detto: «Finimmo nell’ infedeltà reciproca, nel disprezzo reciproco, nella noia reciproca». E in effetti, di amanti ne ha avuti tanti. Quanti?
«E chi se lo ricorda! Gli uomini capitano, vedi una scintilla, la segui... Dal di fuori la mia vita era molto vivace, ma dentro c’erano buchi neri, infelicità. Farsi corteggiare era gratificante».
Il suo flirt più celebre è quello con Gianni Agnelli.
«Mi mandava a prendere col suo jet privato: “Non hai il passaporto? Vabbè, in aeroporto passa dalla rete sul retro”. Mi portava nella sua villa a Montecarlo, in montagna, a Torino. A casa sua però era più complicato: quando suonava un campanello significava che stava arrivando la moglie Marella. E io sparivo».
Com’era l’Avvocato, nell’intimità?
«Intelligente, galante, pieno di sorprese. Ma anche dispettoso, uno che ti metteva sempre alla prova. Passavamo ore a discutere di marxismo. Lo divertivo».
Sua figlia Allegra invece s’innamorò di Boris Johnson e lo sposò. Per lei fu uno choc?
«Uno di estrema destra, un giornalista senza etica, si può immaginare. Per farglielo mollare elaborai perfino un piano con Philip Roth, un caro amico, ma non riuscì. Allegra capì l’errore a spese sue. Johnson è un uomo inaffidabile e bugiardo, anche oggi che è premier».
Della famiglia reale inglese, invece, cosa pensa?
«Che posso dire... parlare di Elisabetta qui è come tirar fuori la Madonna. Per fortuna ora ha smesso di dare titoli e premi al suo Andrea, che ne ha fatte di tutti i colori. Carlo è un’ottima persona, saggio, sarà un buon re. Kate e William sono concreti, responsabili, ubbidienti. Harry? Non capisce nulla, non ha testa per pensare, esce da un mondo in cui contano solo i soldi e crede di poter continuare a vivere di rendita sbeffeggiando l’istituzione che lo ha reso quello che è. La vera vincitrice in quella famiglia è Camilla: sobria, seria, ha fatto dimenticare tutto».
Quella di Carlo e Camilla è una grande storia d’amore. Lei una volta ha detto: «Innamorarsi è una seccatura». Perché?
«Bah, perché è una gran perdita di tempo, sei sempre lì a pensare a cosa fare, a cosa dire per far felice l’altro. Ma di Agnelli mica ero innamorata, eh? Il mio grande amore fu un altro, un inglese, lui sì avrei dovuto sposarlo. O forse no, che è morto presto».
Da 25 anni è sposata con Hugh Myddelton Biddulph, lontano cugino del suo primo marito. Di lui, è ancora innamorata?
«Hugh è un uomo buono, gentile. Uno di quelli che ancora mi tiene aperta la porta quando passo. Ogni matrimonio è faticoso, alla fine il peso di far funzionare tutto, di farli divertire, ricade sempre su noi donne. Ma quando è fuori Londra Hugh mi chiama tre volte al giorno. È affettuoso, stiamo bene insieme. Alla fine credo di aver capito che l’amore è questo, nulla di più».
Tiziana Prezzo per tg24.sky.it il 28 gennaio 2021. Gaia Servadio è tante cose, ma è soprattutto un vulcano di idee e di energia. A dispetto dell’età e di un anno pesantissimo, segnato dalla pandemia che nel Regno Unito, diventato ormai tantissimi anni fa il suo Paese di adozione, ha già causato la morte di oltre 100mila persone. E’ scrittrice, giornalista, saggista e pittrice, insignita del titolo di Cavaliere Ufficiale della Repubblica dal presidente Sandro Pertini e dal 2013 Commendatore al merito della Repubblica Italiana. Una vita intensissima, la sua, fatta di incontri e amicizie con scrittori, artisti, intellettuali di fama mondiale. E con un ex genero che è ora primo ministro del Regno Unito: Boris Johnson.
Le umiliazioni delle leggi razziali. Il Giorno della memoria coincide per lei con l’uscita del suo ultimo romanzo, “Giudei”, edito da Bompiani. Quanto c’è di autobiografico per lei, ebrea, nata in Italia nell’anno delle leggi razziali?
Molto. Io sono in quell’ormai piccolo gruppo di persone ancora vive che ha vissuto sulla propria pelle le storie che racconta…. Ho vissuto quella caccia all’uomo - anche se con la capacità di comprensione di una bambina - e soprattutto l’umiliazione, che si traduceva in tante forme di discriminazione, che faceva sì che mi intimassero di dire che avevo un altro cognome…. E mi sono sentita a lungo diversa, anche dopo la guerra, perché la propaganda è sopravvissuta al regime. Crescendo ho capito che era importante dire certe cose.. cose che in realtà non vorremmo dire neanche a noi stessi. Non è stato facile. La verità è sempre molto sgradita.
Che cosa rappresenta per lei il giorno della memoria?
Una consolazione: è importante che le persone capiscano la contemporaneità. Ma mi spaventa anche che il mondo non riesca a imparare dai propri errori… Noi siamo tutti dei cretini, sa? Guardi cosa facciamo, ad esempio, all’ambiente. E poi mi spaventa e mi fa arrabbiare un certo buonismo di facciata che si manifesta soprattutto in giorni come appunto quello della memoria.
Le complicità della famiglia reale inglese. Lei ha dichiarato “aver avuto i Savoia è stato una disgrazia”. Anche la famiglia reale inglese ha in qualche misura legato se stessa alla Germania nazista…
Moltissimo!!! Diciamolo pure che la reputazione della famiglia reale è stata salvata da Winston Churchill. Il re (Edorardo VIII, ndr) era nazista e omosessuale, e la sua amante, Wallis Simpson, una spia nazista. Per non parlare di altri imbarazzanti componenti della famiglia, come lord Mountbatten… Diciamo che le cose sono migliorate dal principe Carlo in avanti.
Quanto è forte l’antisemitismo nel Regno Unito? Ritiene giuste le accuse che sono state mosse all’ex leader del partito laburista Jeremy Corbyn?
Non credo che questo sia un Paese antisemita, sa? Il Regno Unito non è la Francia, ad esempio. E’ vero però che esiste una sorta di “invidia economica” e soprattutto è vero che c’è un gruppo significativo di antisemiti nel partito laburista e nell’estrema sinistra. Corbyn è un “antisemita passivo”: non avrebbe mandato le persone a morire, ma avrebbe guardato dall’altra parte.
Il mio amico Roth e il suo disprezzo per Johnson. E’ vero che il suo caro amico Philip Roth, il celebre scrittore americano, riteneva il suo ex genero, Boris Johnson, antisemita, e avrebbe cercato con lei di “boicottare” le nozze di sua figlia Allegra?
No, un antisemita no, ma ridicolo sì. Un buffone. Philip era un uomo magnifico con i piedi ben piantati a terra, Boris è l’esatto opposto. Non è cattivo, ma inaffidabile. Roth riteneva soprattutto uno spreco che mia figlia sposasse uno così: bella… studentessa di Oxford. E lì che lei incontrò Boris. Perfino il rettore dell’università mi disse: “Guarda che Johnson vale pochissimo!”. E io: “Lo so benissimo!” Philip le aveva trovato un lavoro per un deputato democratico, ma lei rifiutò e poco dopo sposò l’uomo di cui era innamorata. Non la trattò mai male, ma per me mio genero è sempre stato l’esatto opposto di quello che una madre può desiderare per la propria figlia.
A proposito del premier. Questo Paese ha superato i 100 mila morti per Covid. Come giudica la gestione della pandemia da parte di Johnson?
Mah… sa. Cominciamo col dire che il sistema sanitario così come è ora è una “bella” eredità che ha lasciato il premier Tony Blair. L’Nhs è caotico, sprecone. Non le dico le mail che ricevo per sondare il mio grado di soddisfazione per il servizio ricevuto! Io manco rispondo… Johnson è un degno rappresentante di un mondo a pezzi.
Un premier a fine corsa. Ciononostante i sondaggi dicono che il partito laburista non è riuscito a indebolire i conservatori. Cosa fa stare questo Paese ancora con Johnson?
Innanzitutto la debolezza del partito laburista, che è spaccato al suo interno. Keir Starmer è una brava persona, perbene, e per questo non infierisce come potrebbe. Ma io comunque non credo ai sondaggi. Anche il partito conservatore è molto diviso. Per me Johnson è arrivato a fine corsa. Si andasse a votare ora secondo me non verrebbe eletto. E il suo governo è fatto da incompetenti, che sono lì perché “brexisti”.
Il neoeletto presidente americano Joe Biden aveva definito l’anno scorso il suo ex genero un “clone fisico e psicologico di Trump”. Condivide la definizione?
Boris si è sempre sentito molto americano. E’ pure nato in America. Ricordiamoci per favore che Donald Trump, Nigel Farage (il promotore del referendum sulla Brexit) e Johnson sono sempre andati a braccetto. La vera differenza tra Trump e Johnson è che il primo è pazzo è molto più pericoloso del secondo. Di Johnson ci libereremo presto, di Trump non sono così convinta.
Un bugiardo incallito. Lei mi ha detto che “la verità è rara e preziosa” e che per quanto scomoda viene sempre a galla”. Johnson ai britannici dice la verità?
No! Ma quando mai! Non sa neanche dove stia di casa la verità!
So che si sta riprendendo dal Covid-19. Lei ha detto: “Finire qui in ospedale è come andare all’obitorio”. Perché?
A parte quello che le ho già detto prima… io il Covid l’ho preso in ospedale, mentre mi trovavo ricoverata per altra ragione… Quello della sanità inglese è un mondo fatto di omertà. Diversi medici me lo hanno detto.
Da "corriere.it" il 28 gennaio 2021. «Boris non mi è mai piaciuto. Con Allegra si erano conosciuti a Oxford. Quando hanno deciso di sposarsi ho fatto di tutto per dissuadere mia figlia. Non mi piaceva che fosse di destra, ma soprattutto non mi piaceva il carattere. Per lui la verità non esiste. Per fortuna lui e Allegra non hanno avuto figli. Poi lei si è resa conto di quanto si fosse sbagliata». Gaia Servadio viene intervistata sul numero di F in edicola per parlare, alla vigilia del Giorno della Memoria, del suo nuovo romanzo «Giudei», dove si intrecciano le vicende di due famiglie ebree devastate dalle leggi razziali, e che è ispirato alla sua stessa storia, tra l’infanzia in fuga dalla persecuzione antisemita e una nonna morta a Auschwitz. Ma l’82enne scrittrice, giornalista e pittrice finisce per raccontare anche la seconda straordinaria parte della sua vita quando, giovanissima giornalista iscritta al partito comunista, incontrò William Mostyn-Owen, storico dell’arte amante dell’Italia, ricco possidente, proprietario di due castelli. «L’ho sposato - dice a F - e sono entrata, senza saperlo, in un altro mondo. Il castello, la cuoca, il maggiordomo… Avevo poco più di 20 anni. Non ero consapevole. Non immaginavo». Da quel matrimonio sono nati due maschi e una femmina, Allegra appunto, che dal 1987 al 1993 è stata sposata a Boris Johnson. A causa del legame con il Pci, racconta ancora Servadio, la sua casa londinese fu un punto di riferimento per i leader di partito: «Per loro organizzavo incontri con la stampa, con i politici. Ero la loro “entratura” nel mondo della sinistra inglese. Sono passati tutti da casa mia, anche Enrico Berlinguer. Con Giorgio Napolitano è nata una bella amicizia».
Antonio Gnoli per Robinson – la Repubblica il 12 settembre 2019. Davanti a un'insalata di riso, nella penombra di una allegra cucina in una casa della campagna umbra, Gaia Servadio sembra improvvisamente spogliarsi dei suoi ricordi, che sono ricchi di persone talentose e di esperienze talvolta uniche. Dopo un paio d' ore di conversazione, in cui il tintinnio delle parole risuonava armonioso, eccola alle prese con una terra arsa dal sole, l'acqua che scarseggia, e la solitudine che accarezza il vasto paesaggio e lascia lievemente attoniti. Londra è ormai diventata la sua patria e l'Italia una gradevole dependance dove alleggerire i pesi che l'inverno inglese, fatalmente, carica sulle spalle. Gaia ha tre figli, un secondo matrimonio con un uomo deliziosamente discreto e un congruo numero di libri alle spalle. Il primo, il romanzo “Tanto gentile e tanto onesta pare”, decretò quasi per caso il successo letterario. L' ultimo è la storia di Giovanni Battista Belzoni: egittologo, avventuriero, esploratore e uomo di invidiabili risorse mentali e fisiche. Diventò famoso in Inghilterra anche grazie alle ammirate descrizioni di Charles Dickens e Walter Scott. Mi chiedo se nel ripercorrerne la vita Gaia non abbia trovato in lui argomenti e gesti consimili al suo carattere. A leggere ciò che scrive, dà la sensazione di trovarsi a suo agio solo con gli argomenti nei quali rivede una parte della sua vita. «Mi piace pensare che la scrittura catturi qualcosa del mondo che amo e nel quale mi riconosco. Ho scritto di Rossini perché mi identificavo nella sua musica, nel suo inimitabile umorismo; ho scritto di Visconti perché è stato l'italiano più sui generis che abbia conosciuto; ho scritto di Belzoni perché fu incapace di adattarsi alle convenzioni. In ognuna di queste storie, come in altre, c' è una parte di me».
Lei giunse in Inghilterra negli anni Cinquanta.
«Arrivai in un paese che faceva fatica a riprendersi. Londra era una città cupa e povera. Dai vestiti al mangiare, non si trovava nulla. Ricordo che mia sorella mi spedì una cassetta di arance. Fu un evento che scalfì la durezza del momento che attraversavo. Venivo da Parma, una città a misura della gente. Frequentavo, malgrado la giovane età, Attilio Bertolucci, Enrico Medioli, Luigi Magnani. Una provincia colta ma asfittica. E a volte maldicente. Londra era l'esatto opposto e all' inizio ne ebbi paura».
Cosa faceva a Londra?
«A 18 anni studiavo arte figurativa alla St Martin' s School of Art, nel cuore di Charing Cross. Mi piacevano la grafica e il giornalismo. Cominciai con delle piccole corrispondenze per la Gazzetta di Parma e poi ebbi l'occasione di scrivere per il Mondo di Pannunzio».
Lo ha conosciuto?
«Nel timore di dire le cose sbagliate restai intimidita l'unica volta che lo vidi. Mio padre conosceva Ernesto Rossi, il suo più stretto collaboratore. Per me era solo un nome».
Suo padre di cosa si occupava?
«Era un chimico. Ma si era laureato in fisica. Veniva dal gruppo di Enrico Fermi. Ma poi scelse di specializzarsi in chimica. Divenne amico di Primo Levi, anche lui chimico, oltre che scrittore. La nostra famiglia, di origine ebraica, durante la guerra fu perseguitata. Dal campo di concentramento ci salvò un carabiniere, fidanzato di una nostra tata. Riuscimmo a scappare in tempo prima che i tedeschi ci arrestassero. Dopo la guerra si parlò pochissimo di quello che era accaduto agli ebrei. Per lungo tempo ci fu una specie di rimosso».
Perché?
«Quelli che si erano salvati volevano dimenticare. E poi chi li avrebbe creduti? Per anni non riuscii a pronunciare il mio nome. Ne avevo vergogna. Come quando a scuola durante l'appello scandivano "Servadio" e io mi nascondevo, convinta che quel nome fosse infamante. Quando finalmente riuscii a scrivere della nostra vicenda familiare incontrai l'ostilità di mia madre e di mia sorella. Solo mio padre, ormai moribondo, mi disse che era giusto che raccontassi quella storia. Ora sto lavorando a un nuovo romanzo sulla storia di tre generazioni di ebrei».
Come ha imparato a raccontare storie?
«Per me è stato un misto di ambizione, di volontà e di occasioni che hanno favorito questa piccola vocazione. Il primo incontro significativo che feci a Londra fu con un editore importante, George Weidenfeld. Fu lui a introdurmi negli ambienti letterari. Una svolta in tal senso fu conoscere il direttore letterario dell'Observer, Terry Kilmartin. E poi Alberto Arbasino che fu per me il grande e involontario educatore. La prima immagine che ho di lui sono gli occhi un po' mongoli, le mani piccolissime e le sgargianti camicie attillate che indossava. Mi colpiva l'assoluta disinvoltura con cui si era calato nel mondo che avevo cominciato a frequentare».
Gli stava a pennello.
«Alberto era uno dei pochi italiani che poteva vantare un'autentica mise internazionale. Una volta ero a Nizza e lui arrivò al volante di una fiammeggiante MG decappottabile. Ero con Mary McCarthy, ci fece segno di salire. Andammo in direzione di Saint- Tropez, scappavamo felici da un noiosissimo convegno di editori».
Come aveva conosciuto la McCarthy?
«Fu il mio primo marito, Willy Mostyn-Owen, a presentarmela. Sospetto fosse stata la sua amante.
Willy parlava un buonissimo italiano, era stato assistente di Bernard Berenson e conosceva bene Mary che adorava il mondo dell'arte. Con Willy ci sposammo dopo un breve corteggiamento. Era un vero aristocratico, afflitto però da un senso di frustrazione dovuto a un padre che lo considerava una mezza calza. In comune avemmo la passione per i viaggi e per la musica. Non molto altro».
Certamente anche i figli e una serie di conoscenze.
«I figli sì, le conoscenze col tempo divennero mondi separati. Finimmo nell' infedeltà reciproca, nel disprezzo reciproco, nella noia reciproca. L' unica soluzione fu il divorzio. Fece bene a entrambi.
Sicuramente a me, che consolidai alcune amicizie interessanti».
Una di queste fu con Philip Roth.
«Conobbi Roth a un pranzo a Chester Square. L' invito era arrivato da una dama americana. C' erano anche Martin Amis e Mick Jagger. A un certo punto la conversazione si indirizzò su Woody Allen e Philip, che era seduto accanto a me, mi chiese che cosa ne pensavo. Risposi che non mi veniva in mente niente e che forse l'argomento non era poi così interessante.
La mia risposta innescò la sua curiosità».
Gli piacevano le belle donne.
«Non ne ha mai fatto mistero, ma aveva sposato Claire Bloom».
Com' era Roth in privato?
«Affettuoso e premuroso. Ma ricordo anche l'irritazione per Londra, che lo aveva stregato e col tempo deluso. Credo detestasse quel fair play sotto il quale si nasconde la peggiore spazzatura. Ricordo anche il disappunto con cui accolse la notizia che mia figlia Allegra avrebbe sposato Boris Johnson».
L' attuale premier inglese?
«Proprio lui. Philip detestava Boris, lo definiva "un ridicolo insettone albino" per giunta antisemita».
Condivideva quel giudizio?
«Boris, fin dagli anni di Oxford, dove aveva conosciuto mia figlia, sviluppò un atteggiamento di plateale arroganza. Verso tutti e tutto».
Un esibizionista?
«Ma capace di prendersi la scena. Philip voleva spezzare quel legame tra Boris e Allegra. E mi disse che, se glielo permettevo, avrebbe parlato con un suo amico, un senatore democratico che cercava un assistente per l'imminente campagna elettorale. Fui d' accordo. E quando tutto sembrava fatto, mia figlia mi chiamò e mi disse: sai mamma, ho deciso di rifiutare l'offerta americana. Perché? le chiesi. Dovrei stare troppo tempo lontano da Boris e questo significherebbe la fine del nostro rapporto. Una settimana dopo mi annunciò che si sarebbero sposati!».
Lo sono ancora?
«No, hanno divorziato».
Prima accennava all' amicizia con Mary McCarthy.
«Adoravo il fatto che fosse una donna severissima e insieme una grande cuoca. Come le due cose potessero andare assieme è un mistero. Aveva avuto un'infanzia difficile: orfana e accolta da odiosi parenti, crebbe con la determinazione che solo la letteratura avrebbe cancellato l'angoscia delle sue origini. E ce la fece. Siamo state molto amiche. Mi dispiacque che alla fine della sua vita si lasciasse coinvolgere in un litigio feroce con Lillian Hellman».
Provocato da cosa?
«Durante un programma televisivo, Mary disse che non le era piaciuto l'ultimo romanzo della Hellman, che si era inventata tutto. Le diede della bugiarda. La vicenda finì in tribunale e perse la causa. Oltretutto, Mary era anche malata di cancro e credo che la vicenda giudiziaria abbia influito sul suo stato di salute. Mi parlava spesso della sua grande amica Hannah Arendt che io vidi una sola volta».
So che lei ha frequentato Isaiah Berlin e Piero Sraffa.
«Due personalità molto diverse. Con Berlin condividevo la passione per la musica. Eravamo entrambi amici di Claudio Abbado. Isaiah desiderava che Claudio diventasse il direttore artistico del Covent Garden. Aveva una parlata velocissima e capivo metà delle cose che diceva. Più rapido di lui era solo Brodskij. Berlin mi portò a una sua conferenza e non compresi quasi nulla.
Non era simpatico Brodskij. Non amava l'Inghilterra. Per lui c'era l'Italia, soprattutto Venezia, le donne e la poesia».
E Sraffa?
«Fu Nicholas Kaldor a presentarci. Confesso che non sapevo minimamente chi fosse Sraffa, né dei suoi rapporti con Wittgenstein e del credito di cui godeva tra tutti i grandi economisti di Cambridge. Quando entrammo in confidenza provai a leggere il libro per cui era diventato famoso».
Ossia "Produzione di merci a mezzo di merci"?
«Proprio quello. Non ci capii nulla e glielo dissi. "Non si preoccupi, Gaia, non c' è niente da capire", mi rispose serafico. Ogni tanto andavo a trovarlo nella sua stanza all' università di Cambridge dove viveva. Qualche volta veniva a Londra da me. Incredibile le persone che aveva conosciuto: da Turati e Gramsci a Togliatti. Mi disse che a Cambridge era arrivato grazie all' aiuto di Keynes. Alla fine degli anni Settanta si ammalò di Alzheimer. Le mie visite si diradarono. Il college dove viveva gli aveva creato intorno una discreta protezione. Quando morì, nel 1983, la cerimonia funebre fu tenuta alla periferia di Cambridge».
Lei ci andò?
«Mi pareva il minimo che potessi fare. Fu cremato in un posto squallido e anonimo, senza musica e alla presenza di pochissimi amici. Avrebbe meritato di meglio».
Pensa mai alla morte?
«Cerco di non farlo. Ma poi mi tornano sotto gli occhi la fine di mio padre e quella di mia sorella, atroce, perché imprigionata nel proprio corpo. Non è bello immaginare come diventeremo. E poi gli esami di coscienza, i bilanci... uffa».
Non ne fa?
«Servono? Boh. So di essere stata molto antipatica e penso che oggi non sono la stessa persona di trenta o quarant' anni fa. Forse sono stata molto intollerante, esprimevo giudizi senza pensarci troppo. Libri, persone, eventi non risparmiavo nulla. Oggi sono più cauta, come se il tempo avesse smussato certi aspetti del carattere. A volte mi dico: Gaia, parli come una vecchia. E l'altra parte di me risponde: sei vecchia. Ecco, oscillo tra queste due sensazioni. La tecnologia ci sta rendendo presuntuosamente ubiqui. Pensiamo di essere ovunque, in realtà siamo soltanto soli, confitti in un punto trascurabile dell'universo».
Tornerebbe a vivere in Italia?
«No, anche se l'Inghilterra mi pare abbia preso una china imprevedibile e pericolosa. Sull' Italia potrei dire le solite banalità: la bellezza, il sole, una certa originalità. Ma la verità è che a causa del suo cattolicesimo non ha mai pagato per i suoi peccati. E questo la rende decisamente diversa dal resto dell'Europa».
Dagospia il 14 febbraio 2014. IL LIBRO DELLA SERVA(DIO) – TOH, LUCHINO VISCONTI SAREBBE IL FRUTTO DEL PECCATO DELLA MADRE CARLA ERBA CON IL MARITO DI WALLY TOSCANINI, IL CONTE EMANUELE CASTELBARCO…
Dal libro “Raccogliamo le vele” di Gaia Servadio, sbuca una golosa pagina che svela uno dei tanti intrighi sessuali della Milano che più aristo-snob non si può: chi è il vero padre del mitico Luchino Visconti….Estratto dal libro "Raccogliamo le vele" di Gaia Servadio (Feltrinelli) La biografia di Visconti mi era stata proposta da George Weidenfeld. L'idea mi era piaciuta subito, sarebbe stata la mia prima biografia, anche se decisi che l'avrei scritta come un romanzo, e cioè per prima cosa cercando di capire il tempo che Luchino Visconti aveva vissuto. L'Italia del 1900 e la Milano di quegli anni. La Scala di Toscanini, l'emergere di una nuova borghesia industriale - la famiglia Visconti doveva la sua ricchezza alla madre, Carla Erba, perché la nuova industria farmaceutica era in grandissima ascesa. Mi aveva aiutato Wally Toscanini, che ricordo in una nuvola di profumo e di racconti, un modo di parlare di persone e situazioni, come bere champagne, il suo divertimento passava nella voce. Era una donna splendida. Mi invitava alle sue serate a Milano nell'appartamento che era stato del padre; in anticamera c'era un grande busto di Toscanini e un tavolo di legno scuro con sopra lettere e programmi musicali, Dio solo sa chi non incontrai in quelle serate, ma ero troppo ignorante e timida per chiedere, inoltre Wally era quel tipo che ti accoglieva, ti abbracciava, e poi eri allo sbaraglio Giusto, così si fa, uno se la deve cavare. Certo, incontravo Ghiringhelli, allora sovrintendente della Scala e amico di Wally, per amico intendo l'amico, difatti mi dava il suo palco (così arrivai a Wagner), dove spesso ero completamente sola. Be', che lusso, mi dicevo, essere nel palco del sovrintendente alla Scala e da sola...Tra Wally e Carla Visconti c'era stata la guerra fredda e quella guerra si chiamava Castelbarco, che secondo Wally era il vero padre di Luchino - oltre a essere marito di Wally e suo ex cognato. Difatti il regista la chiamava zia. Wally aveva sposato Castelbarco, e molte cose che Wally mi raccontava spiegavano l'ossessione di Visconti per l'incesto e la famiglia. Tenni per me molto di quanto Wally mi aveva raccontato, ciononostante le Vestali di Visconti si trasformarono in Menadi e riuscirono a distruggere il libro.
Il 6 febbraio 1981 Federico Zeri, caro amico, mi scriveva: Carissima Gaia, sento che il libro su Visconti sta provocando conseguenze tra le più spiacevoli. Me lo aspettavo: in Italia non si può scrivere la verità, anche quella che è da tutti ammessa e di cui tutti parlano. E poi la figura del Luchino è investita dall'aura sacrale che qui spetta a talune personalità considerate "a sé". Vorrei tuttavia sapere: ma chi si sta muovendo contro il libro? I parenti? Certi amici? Oppure è un'azione degli ammiratori? Da parte mia ho sempre considerato Luchino Visconti un grande regista, ma sino a un certo momento. Negli ultimi anni faceva dei bidoni, vedi Morte a Venezia che ho trovato brutto sino al kitsch pseudo-intellettuale. Mi auguro che, tornando a Londra, io possa rivedere la Gaia abituale, scintillante, intelligente e senza requie. Per carità, prego fuggire nei Mari del Sud se ci fosse qualche pericolo di venire aggredita da qualche folle Viscontilatra. Saluti, e a presto.
Dagospia il 31 gennaio 2014. LA VITA È UNA GAIA SCOPATA INFINITA - LA SERVADIO SI METTE A NUDO IN UN'AUTOBIOGRAFIA AD ALTO TASSO EROTICO, DALLA TRESCA CON AGNELLI ALLO SFERZANTE PHILIP ROTH. In "Raccogliamo le vele" la vita piena di eccessi e avventure della pittrice e giornalista: dagli incontri fugaci con Gianni Agnelli in barca (all’arrivo di sua moglie «suonavano tante campanelle e io sparivo») ai flirt con tantissimi personaggi dello star system mondiale...
Leonetta Bentivoglio per "La Repubblica" il 31 gennaio 2014. Qualche anno fa, all'aeroporto di Londra, l'autrice di quest'articolo stava per volare verso Paul McCartney, ancora belloccio prima dell'attuale mummificazione. L'obiettivo era un'intervista al baronetto concessa ai due massimi giornali italiani. All'imbarco per Liverpool si delineò una figura straordinaria, che spiccava fra i passeggeri come un violento mix di pennellate di colore. Portava un cappello impavido e folle, ornato da ghirlande floreali penzolanti a pioggia. L'abbigliamento, inclusivo di drappeggi violacei, la rendeva una bandiera di se stessa. Patina liberty e accessori vintage conditi da ironia preraffaellita. Stravaganza inglese spinta all'estremo. Invece quella signora era italiana, ed era l'"altra" giornalista, anche lei destinata (per conto del Corriere della Sera) a un incontro con McCartney, il quale a Liverpool sarebbe stato tartassato dalle sue sarcastiche domande rivolte con perfetto accento british e una frenesia quasi persecutoria. Si chiamava (si chiama) Gaia Servadio, e il suo nome è familiare agli esponenti dei media (ha lavorato per varie testate) e a chiunque si sia occupato d'Inghilterra contemporanea (su cui ha scritto molto). Inoltre è nota nell'ambito della musica classica, avendo collaborato con teatri importanti ed essendo stata amica di musicisti quali Claudio Abbado e Hans Werner Henze. L'immagine troneggiante nell'area partenze di Heathrow come un vessillo di eccentricità torna alla mente durante la lettura di Raccogliamo le vele, la corposa autobiografia della Servadio ora in uscita per Feltrinelli. Questo libro egocentrico, spregiudicato, beffardo, impetuoso, hippy, pettegolo, esilarante, snob, vitalissimo, compiaciuto e colto riflette bene l'autrice, nel senso che gli attributi qui elencati calzano alla sua persona. Attraversarlo è una navigazione con rischio del mal di mare per la vertigine oscillatoria dell'eccesso. Non c'è sobrietà in Raccogliamo le vele (verso ritagliato dall'Eneide di Virgilio). Si viaggia avanti e indietro a zig zag nell'arco di un'avventura prorompente, esibita, gioiosamente burrascosa e avida di mondo. E percorsa da una miriade di apparizioni "forti": da uno sferzante Philip Roth, con barba nera da assiro, a un tetro Francis Bacon; da una Mary McCarthy, sessualmente combattiva, a Wally Toscanini, una nuvola di aneddoti e profumo; da uno Stravinskij, con faccia triste e lunga, a un infido Marco Ferreri, che negli anni '50, a Parma, fugge con la cassa del film di cui è il produttore; da una Callas d'aspetto predatorio («un uccello dal becco di platino, pronto a papparsi il polmone d'oro») alla poderosa Vita Sackville-West, già amante di Virginia Woolf. Poi ci sono le coppie: Giangiacomo e Inge Feltrinelli, Claire People e Bernardo Bertolucci, Moravia e la Morante, fluttuanti nella Roma della "Dolce vita"...Sembra che Gaia abbia conosciuto tutti, nelle sue avide scorribande culturali. Sia come pittrice sia entrando nel milieu del giornalismo inglese e italiano ad alti livelli. In più scrivendo libri che la introducono in cerchie inaspettate: una banda di mafiosi per un'indagine sulle radici della piovra, gli adepti della Scientologia per un volume sulla setta, la più aristocratica sinistra intellettuale per una biografia di Visconti... Gaia non si scompone. È un'esploratrice che si nutre d'interessi sconfinati. All'umanità in cui s'imbatte fa da sfondo una mappa di luoghi tra cui primeggia l'amata-odiata Gran Bretagna, per lei fonte di delusioni politiche e sociali (non mancano attacchi agli anni del "berlusconista" Blair, considerato un traditore), ma pure affrescata con emozione nei paesaggi che accolgono la sua curiosità insaziabile. Una Londra nebbiosa, anticonformista, artisticamente stimolante. Una musicalissima e raffinata Glyndebourne. Una Cambridge superba nella magnificenza degli antichi edifici. Una Scozia dove Gaia, in una delle sue tante personificazioni, fa la castellana col primo marito, lo storico dell'arte Willy Mostyn-Owen, proprietario di un fiabesco maniero. L'avvio del racconto è la parola "Stalingrado", connessa al ricordo della resa nazista che diede una svolta all'orrenda guerra da cui era stata ferita la sua infanzia perseguitata dalle leggi razziali. A Padova, dove nacque nel '38 e dove abitava con la famiglia che comprendeva, oltre alla mamma Bianca e alla sorella Pucci, il padre Luxardo, di professione chimico, etichettato da una gazzetta locale come "il giudeo Servadio" - la piccola Gaia sentì da Radio Londra la notizia del liberatorio tracollo. Memoria che riemerge davanti al misero spettacolo di Stalingrado-Volgogrado dove l'adulta Servadio, divenuta scrittrice, fa tappa raccogliendo materiali per un libro sulla Siberia, e tra una cosa e l'altra le capita d'infatuarsi «di un Raskol'nikov dagli occhi gialli, alcolizzato, anoressico e disperato». Ogni volta prende l'amore con humour e libera dalle maschere, confessando che l'innamoramento è per lei sempre «una seccatura». Prima del passaggio al secondo marito Hugh, la separazione da Willy è punteggiata da dichiarate infedeltà. Gianni Agnelli è ritratto come un gelido seduttore che la ingoia per giornate intere sulla propria fastosissima barca, e all'arrivo di sua moglie «suonavano tante campanelle e io sparivo». Girando a spirale tra un flashback e l'altro, si salta a ritroso nell'ultima coda della guerra. Qui la bimba è a Osimo, dove il papà ebreo si nasconde travestito da portiere di un palazzo nobiliare. In seguito Gaia passa a Parma, dove da ragazza tenterà d'essere attrice. Londra le si rivela quando è una fatata giovinetta dai capelli d'oro, studentessa di pittura alla Chelsea School of Art, per poi sbarcare a Roma nella grande bellezza anni '60. Torna a dipingere in Inghilterra frequentando la londinese St Martin's School of Art. E a Londra finirà per stabilirsi, tra una trasferta e l'altra. Ma sarà la scrittura, non la pittura, la sua febbre decisiva, in grado di coinvolgerla in durissime ed entusiasmanti escursioni come quella nei rigori dell'Unione Sovietica, o quella a Damasco tra le spie siriane, o quella del '67 in Medio Oriente, quando si reca a Gerusalemme nel momento in cui si profila una guerra dei paesi arabi contro Israele. Ineffabile Gaia, coi suoi copricapi da sovrana d'Inghilterra. Ascoltando «la divorante tenerezza della musica», questa lottatrice cede alla commozione.
Livia Manera per il “Corriere della Sera” il 21 agosto 2021. Detestava il perbenismo, la psicanalisi, la political correctness, il cibo biologico, Woody Allen, la supponenza, la «cafonaggine» del Ring di Vienna e l'ipocrisia degli inglesi. Amava la lingua dei francesi, l'eleganza dei siciliani, la mondanità, la sapienza, l'autoironia e tutto ciò che è Medio Oriente. Gaia Servadio, che si è spenta ieri in una clinica romana, è stata una delle più vulcaniche e affascinanti scrittrici e giornaliste italiane. E non solo perché nei suoi ottantatré anni ha pubblicato più di trenta libri tra romanzi, saggi e biografie, e una quantità di articoli e reportage in italiano e in inglese, per il Corriere della Sera , Il Mondo di Pannunzio, il Times o l'Observer . Ma perché la sua curiosità era un treno lanciato a tutta velocità verso i traguardi dell'avventura e della conoscenza. «Purtroppo a volte faccio delle sciocchezze per la fretta. Ma almeno le cose faccio», diceva. Stare al passo con la sua produzione non era impresa per i deboli di cuore. Solo negli ultimi sette anni ha pubblicato cinque libri: dall'autobiografia Raccogliamo le vele (Feltrinelli 2014), alla saga Giudei (Bompiani 2021), ispirata alla propria famiglia. «Sono figlia della guerra», diceva. Quando parlava dell'infanzia, ricordava «la povertà indecente» degli anni passati a nascondersi, i cappottini fatti per lei e la sorella Pucci con le fodere delle poltrone, gli amici di Padova che si vergognavano della loro ebraicità, la morte e le macerie di fronte alle quali sua madre ripeteva «bambine, non guardate», e la nonna e la bisnonna uccise ad Auschwitz. A 15 anni era andata a studiare arte a Londra e non aveva perso tempo. Con la sua vivacità, la sua bellezza e certi spaghetti con le zucchine, si fece amici che le aprirono molte porte. Eppure, ammetteva, «dopo la prima cotta per l'Inghilterra, dietro la vernice del fair-play scoprivi l'ipocrisia, muffe di corruzione, bitumate di silenzio». E tuttavia da quel Paese si sentiva «tutelata». Anche se per la Brexit aveva solo indignazione. Nel 1967 pubblicò con Feltrinelli un romanzo osé - Tanto gentile e tanto onesta - che diventò un bestseller internazionale. Prese la tessera del Pci. Seguì sul campo la guerra dei Sei Giorni in Israele; intervistò i più temibili mafiosi per la stampa inglese; studiò il russo e andò a Stalingrado a rendere omaggio al sacrificio dell'Armata Rossa. Si sposò due volte: la prima con l'elegante, colto e ricchissimo storico dell'arte Willy Mostyn-Owen, il cui padre si era raccomandato che «poteva sposare chi voleva, purché non fosse straniera, comunista o ebrea»; la seconda con un cugino del primo marito, il più amabile dei gentiluomini gallesi, Hugh Myddelton Biddulph. I due figli maschi, Owen e Orlando, le hanno dato cinque nipoti che adorava. La figlia Allegra, erede della sua bellezza, è stata la prima moglie di Boris Johnson. Come Gaia Servadio riuscisse a scrivere tanto, e nel frattempo a imbandire la tavola della sua casa di Belgravia per «il meglio di Londra», era un mistero. Forse, di nuovo, la chiave era la fretta e uno spavaldo disinteresse per il perfezionismo; una cucina-sala da pranzo assai caotica; una conversazione brillante; molto vino e molta allegria. Da quel salotto sono passati Bernardo Bertolucci e Claudio Abbado, Eric Hobsbawm e Al Alvarez, Denis Mack Smith e Antonia Fraser, Isaiah Berlin e Vittorio e Camilla Adami, Inge Feltrinelli e John Pope-Hennessy. «Lo strano mestiere che mi ero scelta mi aveva portato a infilarmi in situazioni che a volte mi trasformavano la vita». In quelle «terre incognite» nacque l'amicizia con Mary McCarthy, Claire Bloom e Philip Roth, Francis Bacon e Jonathan Kent. Gli amori furono molti. Poi, come mi confessò in un'intervista «questa cosa degli innamoramenti se dio vuole si è spenta. Che seccatura. Perché essere innamorati rende insicuri, vorresti essere più bella, più giovane, una fatica». E diceva: «Bisogna sfidare a duello il mondo politically correct, la burocrazia puritana: è piccola borghesia che finge di essere illuminata». Poi se la prendeva con un'altra delle sue bestie nere, e chiamava la psicanalisi la penitenza della borghesia. E così facendo tradiva il segreto di quella sua forza straordinaria: guardare sempre avanti e non fermare mai il treno.
· E’ morto l’avvocato Luca Petrucci.
«Avvocato onesto, uomo di valore»: Luca Petrucci ricordato da colleghi e amici. Il cordoglio peri un penalista che nel corso della sua carriera ha partecipato a tanti processi che hanno fatto la storia giudiziaria italiana. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 18 agosto 2021. Un avvocato come ce ne son pochi. È questo il concetto più ripetuto da chi, in queste ore, sta ricordando Luca Petrucci, morto ieri a 62 anni a Roma dopo una lunga malattia. Stimato e conosciuto nella Capitale e non solo, è stato l’avvocato dei grandi processi, da quando difese Aureliana Iacoboni, madre di Marta Russo, e Olga, vedova di Massimo D’Antona, fino a quando prese le difese dell’ex governatore del Lazio, Piero Marrazzo, nella vicenda del tentato ricatto, e di Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita. Petrucci, la cui onesta e affabilità erano riconosciute da tutti tra i corridoi di piazzale Clodio, è stato presidente dell’Ater, carica che ha ricoperto tra il 2005 e il 2010, dopo essere stato consigliere di amministrazione della Società Risorse per Roma dal 1995 al 2003. Infine, la cattedra di diritto penale presso la Accademia della Pubblica Amministrazione, ruolo che ricopriva dal 2018. Consulente giuridico dell’Ufficio affari generali e legali presso la Camera dei deputati fu consulente per numerosi uffici ministeriali, regionali e comunali in diverse Commissioni. Subito si sono moltiplicati i messaggi di cordoglio, sia nel mondo dell’Avvocatura che in quello politico. «Apprendo con sgomento della scomparsa di Luca Petrucci, avvocato prestigioso, appassionato protagonista della vita politica e pubblica del Paese, amico sincero e gentile – commenta Stefano Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali Italiane – I penalisti italiani rendono omaggio ad un collega che ha onorato la toga, e si stringono con affetto e commozione alla sua famiglia». Commosso il ricordo di Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio. «La notizia della morte di Luca Petrucci mi colpisce profondamente: oggi per me è un giorno di grande dolore perché con Luca ero legato da un rapporto di amicizia e profonda stima – ha detto l’ex segretario del Pd – Lo avevo incontrato all’inizio dell’estate nella sede della Regione e sempre con grande voglia di fare mi aveva parlato di progetti e attività da portare avanti. Di lui ricorderemo sempre proprio questo, la grande passione civile unita a correttezza e alla professionalità con la quale svolgeva ogni giorno il suo lavoro. Ai suoi familiari vanno le mie sincere condoglianze e un grandissimo abbraccio». E proprio dal Pd arriva il saluto affettuoso di Bruno Astorre, senatore e segretario regionale dem, e di Walter Verini, deputato, tesoriere del partito e membro della commissione Giustizia della Camera. «Sono addolorato e senza parole per la scomparsa di Luca Petrucci, un amico fraterno – scrive Astorre in un comunicato – Una di quelle notizie che non vorresti mai ricevere. Con Luca abbiamo condiviso molte cose, era una persona eccezionale. Voglio fare le mie condoglianze e mandare un forte abbraccio alla moglie, Maria Teresa, e ai figli. Ciao Luca, ci mancherai moltissimo». Personale e professionale il ricordo di Verini. «La sua scomparsa, che lascia un vuoto vero nella Giustizia italiana, che ha servito per tanto tempo con grandi capacità, tensione morale e passione civile, e nella città di Roma, dove il suo impegno civile e politico, il suo senso delle istituzioni hanno lasciato un segno – spiega il deputato dem – Possiamo testimoniare, negli anni passati al Comune di Roma con il Sindaco Veltroni, il suo quotidiano contributo, in tanti modi, per rendere la città più bella, civile, solidale, all’altezza del suo ruolo di Capitale».
· E’ morto l’attore Sonny Chiba.
Marco Giusti per Dagospia il 19 agosto 2021. Ecco. Perdiamo anche Sonny Chiba, 83 anni, colpito dal Covid 19, l'indimenticabile Hattori Hanzo di "Kill Bill", quello che costruisce la spada speciale per la Sposa di Uma Thurman, nonché grandissima action star giapponese negli anni 60 e 70, attivo in più di 200 film. Rispetto a Bruce Lee, Sonny Chiba, soprattutto con i film della saga "The Street Fighter", iniziata nel 1974, è stato un antieroe violento e cinico che non rispettava nulla e si muoveva non per l'onore, ma solo per soldi. Cintura nera per sei volte, nato nel 1939 a Fukuoka col nome di Sadao Maeda, figlio di un pilota d'aereoplani specializzato nei test, deve rinunciare a un sicuro futuro olimpionico quando si fa male in un incidente. La Torino, alla ricerca di nuovi talenti, lo lancia nei primi anni 60 col nome di Shinichi Chiba, che poi si trasformerà in Sonny. Gira di tutto, horror, polizieschi, ma arriverà al successo internazionale solo col personaggio di Takoma Tsuruki nella saga di "The Street Fighter", cinque film che faranno il giro del mondo. Molto popolare anche il personaggio del suo samurai con un occhio solo Yagyu Jubei, che diventerà anche fumetto. Tra gli altri suoi film ricordiamo "Message frammenti Space", "Golgoi 13", "Tokyo Drift", "Shoguns Samurai".Padre di tre figli, tutti attori, Manase Juri, Arata Mackenyu,Maeda Gordon.
· E’ morto il youtuber Omar Palermo.
Omar Palermo, scomparso a 42 anni il noto youtuber italiano: mangiava enormi di quantità di cibo, una morte terribile. Libero Quotidiano il 19 agosto 2021. E' morta una stella di Youtube: si chiamava Omar Palermo ed era conosciuto da gran parte del web con il nome di "Youtubo anche io". Negli anni i suoi video sulla piattaforma hanno raggiunto una enorme fetta di utenti, accumulando milioni di visualizzazioni. Del decesso, che risalirebbe al 18 agosto, si era sparsa qualche voce già ieri. Voci che però non avevano trovato conferma. Adesso c'è l'ufficialità. A confermare la morte di Omar Palermo, infatti, è stato un suo collega, un altro youtuber, Giorgio Sciacca. Quest'ultimo da tempo cercava informazioni su "Youtubo anche io" dopo aver notato una sua misteriosa sparizione dalla piattaforma, dove di solito invece era molto attivo. Di lui, insomma, non si avevano più novità. Pare, tra l'altro, che Omar si fosse preso una pausa perché stanco dei continui attacchi da parte di alcuni haters. Nel frattempo, però, i suoi video continuavano a fare migliaia di visualizzazioni. La causa del decesso sembra sia riconducibile a un infarto e sarebbe avvenuto a Belvedere Marittimo in provincia di Cosenza. Il noto youtuber aveva 42 anni ed era diventato famoso grazie ai suoi video girati a tavola mentre mangiava quantità enormi di cibo, dalla pasta fino ai dolci. I suoi cavalli di battaglia, come ricorda TgCom24, sono filmati come "40 kinder fetta al latte e un pollo rafforzante" o "1 kg tiramisù + mezzo pollo".
Chi era “YouTubo anche io”, vita e opere di una star della rete. La morte di Omar Palermo da Rossano, re di mangiate e narrazioni in video. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 20 agosto 2021. Chi frequenta i social, in queste ore, avrà potuto notare che sono di tendenza, ovvero tutti ne parlano e ne leggono, ma soprattutto guardano, i video di “Youtubo anche io”, al secolo Omar Palermo, 42 anni, di Rossano Calabro, venuto a mancare ieri in una clinica di Belvedere Marittimo. Chi era Omar Palermo? Uno youtuber, ovvero quei personaggi che attraverso un telefonino o un computer attraggono un pubblico di dimensioni variegate, conquistando la loro notorietà. Di norma sono dei ragazzini. Nel nostro caso era un uomo più grande della media solita, che aveva trovato un incredibile successo. Aveva iniziato in sordina, parlando della sua vita quotidiana, mostrando un buon eloquio ma la Rete si è letteralmente infiammata per le sue performance quando Omar Palermo ha iniziato ad esibirsi in delle mangiate inverosimili da grande abbuffata che hanno iniziato a far decollare il suo canale, cinquecentomila iscritti e puntate da quattro milioni di visualizzazioni. Ci aveva ragionato come conquistare i suoi follower Omar, ed era riuscito a costruire un’empatia che ne aveva fatto un personaggio di culto. Ma c’era anche altro nella comunicazione diretta di “Youtubo anche io”. Sapeva essere anche un divulgatore, aspetto trascurato da chi conosce solo le avventure del palato che lo portavano ad andare oltre il possibile mangiando 40 “kinder fette a latte” insieme ad un pollo “rinforzante”. A questo aspetto da tv trash univa le sue dissertazioni sui persiani antichi o sul Rinascimento, aiutandosi con qualche pubblicazione. In molti hanno iniziato a chiamarlo “Maestro”, come spesso capita ai guru della Rete. Schivo e riservato, di carattere mansueto nella corpulenta stazza su cui spesso chiosava facendola diventare elemento di narrazione. Era cresciuto nel centro storico di Rossano al quartiere Traforo. Nel centro bizantino aveva frequentato le scuole dell’obbligo per poi diplomarsi al locale liceo Scientifico. Quindi la decisione di trasferirsi ad Arcavacata per studiare Lettere classiche. Appassionato di sport, tra le migliaia di ricordi in Rete in sua memoria si vede anche una sua foto in tenuta da calciatore, era anche un tifoso del basket americano, ed era assiduo in edicola a comprare riviste specializzate. Era molto legato al nonno ultracentenario, Ferdinando. Tenerissimo un video molto visto e apprezzato, in cui “Youtubo anche io” mette in mostra e al centro della scena nonno Ferdinando, che con naturalezza sta al gioco del nipote, canta canzoni degli alpini, e i seguaci inteneriti lasciano commenti da libro Cuore sul valore che si dovrebbe dare ai nonni. Un fenomeno di comunicazione Omar Palermo. Aveva compreso il canone, che non incantava solo giovani digitali, ma anche persone adulte e molto istruite. Se la massa restava impressionata da queste mangiate ipercaloriche che temiamo abbiano potuto avere anche conseguenze drammatiche sulla sua salute, c’era chi veniva anche catturato da questo parlare lento, con pause lunghe da politico consumato che creavano una sorta di ipnosi e incollavano al video per oltre un’ora qualunque fosse la dissertazione proposta e chiunque fosse l’interlocutore. Aveva anche tenuto una sorta di orazione in favore della sua vecchia automobile prima di cambiarla, mostrandone ogni aspetto e rivelando che amava andare in giro in lungo e largo mostrando sul contagiri gli oltre cinquecentomila chilometri effettuati con l’automezzo avuto in regalo dalla mamma. Un compagno di università lo ricorda anche in sella ad una moto, un giornalista specializzato riferisce che amava la compagnia di bengalini moscati che sono degli uccellini, Jessica Pignatari dal suo sito sostiene che avesse vissuto a Bolzano. Tranci di vita, ignoti ai più a Rossano, di una persona riservata che esplodeva di vitalità mettendosi in gioco davanti al display del telefonino. Con il successo erano arrivati, inevitabilmente, gli odiatori. Lo insultavano per le sue imprese e, ovviamente, per essere in sovrappeso. Dalla sua modesta casa rispondeva con il suo dire pacato ma fermo, ricevendo il sostegno dei suoi estimatori. Era stato un grande successo quello di “Youtubo anche io”. Conosciuto da quelli che vivono nella Rete e ignorato da chi al massimo pubblica gli auguri di compleanno. Aveva iniziato anche a sponsorizzare qualche prodotto e le royalties su Youtube avranno portato probabilmente qualche buon guadagno. All’improvviso aveva deciso di scomparire dai social. La Rete dei sostenitori sussulta. Entrano in scena complottisti e sospetti. Omar osserva a distanza e sul susseguirsi di bufale e fake news rompe il silenzio e sulla sua pagina social scrive: “Buongiorno, cari amici followers, come già fatto, sono qui per ribadirvi che ho deciso di non pubblicare più nuovi video. Scelta spontanea, e senza nessun tipo di problema che riguardi la mia persona. Vi chiederei gentilmente di ricordare quando dicevo che avrei potuto smettere da un momento all’altro e che non sarei mica stato sul Tubo per sempre. Quindi – rassicurandovi – vi invito a non continuare più a scrivere falsità sul mio conto e – soprattutto – a stare sereni. Grazie. YouTubo Anche Io”. Ma la Rete non si placa. Si inneggia al Maestro, il suo canale con i vecchi video continua ad essere molto seguito. Mesi di interrogativi, fin quando la scorsa settimana un suo collega siciliano, Giorgio Sciacca, come ha raccontato il nostro sito, si mette in automobile e va a Rossano per capire cosa è accaduto. Recupera un indirizzo, si apposta, chiede, e trova il papà di Omar, il signor Antonio. È lui a raccontare che lo youtuber ritirato, per ricevere un pacco, è caduto e si è rotto una gamba. “Youtubo anche io” sarebbe ricoverato a Cosenza in ospedale. Ma anche qui un’incursione di Sciacca ha esito negativo. Dal ritorno a Rossano spunta che il ricovero sarebbe avvenuto a Laurignano in un centro di riabilitazione, ma il riscontro registra solo un duro alterco con il portiere della struttura. I fans si quietano, ma seguono gli aggiornamenti in Rete. Ieri l’annuncio della triste notizia. Omar in arte “Youtubo anche io” è morto alla clinica Tricarico di Belvedere. I manifesti affissi sui muri di Rossano confermano il ferale annuncio. La Rete apprende con dolore la scomparsa del Maestro. Secondo i riti moderni ognuno lascia un ricordo, un pensiero, una citazione. Le grandi mangiate, le imprese da video, le allocuzioni ai followers sono ricordate con affetto malinconico. La notizia rimbalza nei siti dei media ufficiali che la propongono nei loro notiziari. Omar ha conquistato da morto quello che non aveva mai ottenuto in vita. La notorietà ufficiale del suo comunicare con un seguito innumerevole di seguaci ha avuto bisogno della morte per poter essere conosciuta anche da chi non ha mai visto un video su Youtube. Oggi a Rossano, in quella chiesa di San Bartolomeo che lo aveva visto crescere da ragazzino, inseguendo le storie degli Assiri da rivelare al mondo e mangiando merendine in gran quantità, si terranno le esequie, dove potranno partecipare a causa del Covid solo 45 persone dotate di mascherina. Al funerale in Rete invece stanno partecipando migliaia di persone. Alcune curiose di scoprire un fenomeno a loro sconosciuto. I followers invece tributano il loro omaggio al Maestro. Un omone che accoglieva con affetto i ragazzini alla ricerca di un selfie e felice di far diventare protagonista il nonno centenario davanti ad un mondo virtuale che solo la morte sa riportare al valore dell’umano reale.
Da tgcom24.mediaset.it il 19 agosto 2021. Era diventato famoso con una pratica poco edificante, quella del mangiare enormi quantità di cibo. Ma aveva dato una sua firma personale, raccontava tutto con un italiano forbito e aggiungendo anche episodi di vita vera. Questo era "Youtubo anche io", all'anagrafe Omar Palermo, che si è spento a soli 42 anni per un infarto. Contattati telefonicamente gli addetti dell'impresa funebre hanno confermato la notizia. Lui era sparito dalle scene web da diversi mesi perché stanco dei continui attacchi da parte di alcuni haters. Ma questo lo ha reso ancora più misterioso e trasformato in una sorta di mito del web. Il suo canale ad oggi ha oltre 500mila iscritti e i suoi video contano oltre 66 milioni di visualizzazioni. Filmati come "40 kinder fetta al latte e un pollo rafforzante" o "1 kg tiramisù + mezzo pollo" sono i suoi cavalli di battaglia. "Youtubo anche io" si metteva a tavola e cominciava il suo lento ma inesorabile pasto. Antecedeva sempre i video con l'avviso a non imitarlo anche se in molti lo chiamavano ormai "maestro". Sapeva bene di avere un problema di peso. Forse il canale youtube era un modo per uscire dalla solitudine. Di Omar Palermo si hanno però poche notizie personali. Si sapeva che era calabrese, di Rossano, tant'è vero che la notizia della morte è stata proprio ufficializzata dai giornali locali. Amante della Nba in paese lo ricordano come un grandissimo lettore di risviste sportive. Un uomo affabile, con una parlata lenta e tranquilla. Qualche tempo fa era stato ricoverato in una clinica di Laurignano per una caduta che gli aveva causato problemi a un ginocchio. Spesso negli ultimi anni, come sempre accade per i personaggi famosi che si ritirano a vita privata, sono circolate voci sulla sua morte. Ma stavolta è confermato: "Riceviamo migliaia di chiamate, non riusciamo più a lavorare, per favore scrivete che la notizia è vera", ha detto il titolare della Castiglione Principalli, l'impresa funebre di Rossano che si occupa delle esequie di Omar Palermo, contattato telefonicamente da Tgcom24.
Davide Turrini per ilfattoquotidiano.it il 23 novembre 2018. “Ricordatevi che è intrattenimento, d’accordo?”. È la frase che YouTubo Anche io, un utente probabilmente originario di Cosenza, usa all’inizio di ogni suo video durante i quali ingurgita una quantità di cibo fuori dal normale. Gli ultimi recenti filmati che lo vedono alle prese con pasti esagerati sono diventati virali e hanno portato addirittura ad appelli di utenti e testate giornalistiche per provare a fermare le sue gesta alimentari. Recentemente YouTubo Anche io ha postato un video in cui mangia un chilo di Tiramisù e mezzo pollo arrosto per un totale di 3600 calorie. Sempre in quel video il ragazzone che non peserà meno di 150 chili spiega che cosa sta facendo (e non il perché) mostrando che prima di iniziare a mangiare manda giù degli integratori in pillole e un bel po’ d’acqua. Ad un certo punto il protagonista del video chiede scusa: “Non mi vergogno, non ce la faccio più, ho bisogno di salato”. Così si ferma ad un chilo di dolce (ne aveva preparati due) e inizia con il pollo. “Followers nel bene come nel male non so se le mangio tutte, ma proviamo senza morire”, spiega YouTubo Anche Io nel video. “Sono video di intrattenimento almeno per me, quindi non ripetetelo. Prendiamo intanto integratori per proteggerci. Grazie dottore”. Insomma una qualche forma di consapevolezza nel soggetto diventato virale sembra esserci, anche perché sembra che questa deriva l’abbia colto solo negli ultimi tempi. Infatti, basta scorrere indietro di qualche settimana e si può vedere come YouTubo Anche Io sia un normalissimo youtuber che si riprende mentre prova dei vestiti che gli sono arrivati per posta, mentre dà l’addio alla sua vecchia auto, mentre mostra i comfort di una stanza d’albergo di lusso, addirittura mentre tesse le lodi di un bell’autogrill. Poi, ovviamente, ogni tanto ecco sbucare un pranzetto con robuste dosi di pasta o frittura, ma niente di quantitativamente anormale rispetto a un qualsiasi generoso ristorante o tanto quanto le gare di tiramisù e di dolci. Che qualcuno lo fermi o meno, YouTubo Anche Io è chiaramente inserito nel grande mondo del “food challenge”, ovvero quel filone di video caricati online in cui le persone sfidano le proprie capacità di mangiare cibo in un tempo limitato e senza scoppiare. Sul sito foodchallenges.com c’è un vero e proprio vademecum su come si organizzano e su come ci si “prepara” a gare di questo genere. Un po’ come Bud Spencer e Terence Hill in Altrimenti ci arrabbiamo che si giocano la Dune Buggy a birre e salsicce, le sfide possono essere in coppia, ma anche singole semplicemente contro il tempo. Uno dei re di questa disciplina è Randy Santel che in uno dei tanti video caricati sul suo canale Youtube prova a mangiare un calzone di quasi due chili e mezzo sulle note de L’Italiano di Toto Cutugno. Santel a differenza di Youtubo Anche Io è un ragazzo che ha messo su massa muscolare e due spalle da nuotatore. Altro sfidante che però raccoglie 18milioni di visualizzazioni (al posto delle sole 600mila di Santel e delle 350mila di YouTubo Anche Io) è Matt Stonie, un ragazzetto magrolino che tra le sue prove ingurgita 10mila calorie con un piatto da prima colazione contenente uova, salsicce e bacon in nemmeno 27 minuti. Il food challenge è anche roba per signorine. Basta guardare la magrissima biondina inglese Kate Ovens che mastica in 9 minuti e 20 secondi una porzione da 28 once (quasi un chilo) di hamburger e patatine(https://www.youtube.com/ watch?v=qePpmu_bF7Q) . Insomma YouTubo Anche Io sembra essere solo l’ultimo sfidante in ordine di tempo di una pratica dannosissima per la salute di chi la compie.
Da rollingstone.it l'8 marzo 2018. C’era il signor Creosote che ne Il senso della vita dei Monty Python ingurgita cibo fino a scoppiare (letteralmente) come una bomba dopo una mentina. C’erano i quattro amici interpretati da Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni, Philippe Noiret e Michelle Piccoli che, nel geniale e grottesco La grande abbuffata di Marco Ferreri, decidono di suicidarsi, chiudendosi in una casa e mangiando fino alla morte. Satira, provocazione dell’arte. Oggi su YouTube c’è un canale, YouTubo Anche Io, dove da qualche tempo una persona con evidenti problemi di obesità posta video in cui manda giù grosse quantità di cibo spesso ipercalorico. Qui però non c’è proprio niente di divertente o interessante. Il food challenge, e cioè la sfida a mangiare ingenti moli di alimenti per intrattenimento, in America è molto popolare, anche fra gli youtuber che, nell’ambito di un’alimentazione sana e di un regime di attività fisica, decidono di sgarrare e di mettersi alla prova così. Ma quello che vediamo in queste immagini è tutto tranne che un food challenge. Sorvolando sulla perversione di divertirsi a guardare persone che si abbuffano (che meriterebbe un discorso a parte), qui la questione è un’altra. Perché l’intrattenimento si esaurisce nel momento in cui c’è un rischio per la salute. Questa persona ha un problema e va aiutata. Nel frattempo le visualizzazioni aumentano: il video che ha come menù 1kg di tiramisù e mezzo pollo arrosto ha quasi 270 mila visualizzazioni, altri viaggiano sulle 100 mila. E il protagonista in molti dei video ha disattivato i commenti, probabilmente per gli insulti (che ormai sulla rete sono all’ordine del giorno nei confronti di chiunque) ma anche perché c’era chi lo metteva in guardia dai pericoli della cosa. Possiamo impedire a un uomo di mangiare fino a farsi male? Se anziché strafogarsi invitasse all’anoressia e fosse magrissimo, scoppierebbe il caos. Basti pensare a quello che è successo un paio di mesi fa su Instagram, dove, di fronte alle foto che ritraevano l’ex tronista Valentina Dallari scheletrica, i fan hanno incominciato a chiederle di farsi aiutare (e gli haters a insultarla per la decisione di postare le immagini). Da un po’ di tempo su YouTube sono nate discussioni per la pubblicazione di video al limite, dove si mostrano eventi tragici a volte anche in divenire. Un paio di mesi fa un vlogger dell’Ohio ha postato un video dove con gli amici entrava nella foresta giapponese di Aokigahara, ai piedi del monte Fuji, tristemente celebre come la “foresta dei suicidi” e si imbatteva in un cadavere. Lui ha dichiarato che pubblicando il filmato pensava di accrescere la consapevolezza della necessità di prevenire i suicidi, ma ovviamente ha scatenato uno tsunami di indignazione sul web. Persino Aaron Paul, la star di Breaking Bad, ha commentato: «Mi fai schifo» e l’attrice di Game of Thrones Sophie Turner: «Sei un idiota». «YouTube vieta i contenuti violenti o sanguinosi pubblicati in modo scioccante, sensazionalistico o irrispettoso» ha detto un portavoce della piattaforma, confermando che il video ha violato la regolamentazione. Il canale del ragazzo è stato sanzionato temporaneamente e alcune funzioni sono state disabilitate. Possibile che nel caso di YouTubo non sia ancora stato fatto nulla? Grigliatone, pizze ingurgitate alla velocità della luce, biscotti, roba da 3600 calorie buttate giù in pochi minuti, tutto davanti alla telecamera del telefonino. Ma mangiando in quel modo una persona obesa che cosa rischia e in che tempi? «Ovviamente è impossibile fare una diagnosi basandosi soltanto su un video, bisognerebbe sapere quali sono le condizioni di base del signore, può essere cha abbia valori metabolici normali, non mi sembrerebbe ma si dovrebbero vedere i suoi esami» spiega Gianleone Di Sacco, medico endocrinologo presso l’Ospedale Sant’Anna di Como, Unità di Endocrinologia e Diabetologia, che è anche centro di riferimento per l’obesità. «Anche immaginare il peso è difficile perché servirebbe l’altezza, ma per fare una stima direi sopra sopra i 170 chili. Sicuramente da un punto di vista respiratorio è messo male ed è molto probabile che sia lo stesso anche dal punto di vista cardiovascolare. Una persona di questa taglia avrà anche delle apnee notturne, e probabilmente non solo: vuol dire che viaggia con dei livelli di anidride carbonica superiori, questo intossica l’organismo e aumenta i rischi di tipo cardiovascolare e anche di morte improvvisa. Su questo i dati sono incredibili: una donna in età normale in eccesso di peso mediamente ha circa il 600% di probabilità di morte improvvisa rispetto ad una donna della stessa età normopeso. Per gli uomini i numeri sono un po’ inferiori statisticamente ma sempre molto elevati. E sto parlando solo di morte improvvisa, poi c’è tutto il resto, tipo il diabete, che guardando il signore è una possibilità non certo remota». Naturalmente ci auguriamo che il protagonista dei video stia bene e che il caso virale del giorno possa aprire una discussione su un tema enormemente complesso come quello dei disturbi del peso. Ma anche su quello che la rete può e deve fare rispetto a questioni etiche di questo tipo. Perché qualcosa va fatto.
· E’ morto il calciatore Gerd Muller.
(ANSA il 15 agosto 2021) - E' morto questa mattina, all'età di 75 anni, Gerd Muller, attaccante e simbolo del Bayern Monaco, che ne dà l'annuncio con un comunicato. Soprannominato “der bomber” per la sua familiarità con la vita della rete, Muller aveva segnato 68 gol in 62 partite con la nazionale tedesca, con cui aveva vinto gli Europei nel 1972 e i Mondiali nel 1974, segnando in entrambe le finali. Con il Bayern aveva realizzato 566 reti in 607 partite ufficiali.
È morto Gerd Müller, leggenda del Bayern e della nazionale tedesca. La Repubblica il 15 agosto 2021. "Der Bomber der Nation" aveva 75 anni, da sei era affetto da Alzheimer. Vanta ancora oggi il record di gol nel campionato tedesco (365), con la maglia della Mannschaft segnò nella finale contro l'Olanda a Monaco 74, e quattro anni prima nella semifinale di Messico 70 con l'Italia. È morto questa mattina, all'età di 75 anni, Gerd Müller, attaccante e simbolo del Bayern Monaco, che ne dà l'annuncio con un comunicato. Soprannominato 'der Bomber der Nation' (il capocannoniere della Nazione) per la sua familiarità con la rete, Müller aveva segnato 68 gol in 62 partite con la nazionale tedesca, con cui aveva vinto gli Europei nel 1972 e i Mondiali nel 1974, segnando in entrambe le finali. Segnò anche nella semifinale contro l'Italia a Messico 70. Con il Bayern aveva realizzato 566 reti in 607 partite ufficiali. Da circa sei anni era affetto da Alzheimer. Un minuto di silenzio è stato osservato a Magonza e Colonia prima dell'inizio dei due posticipi di Bundesliga, accompagnati da applausi scroscianti dalle tribune.
Morte Müeller, il Bayern: "Il più grande attaccante di sempre". "Oggi è un giorno triste e buio per il Bayern e tutti i suoi tifosi - ha dichiarato il presidente dei bavaresi Herbert Hainer - È stato il più grande attaccante ci sia mai stato, una bella persona e un personaggio nel mondo del calcio. Siamo uniti nel cordoglio della famiglia e della moglie Uschi. Il Bayern non sarebbe il club che tutti noi amiamo oggi senza Gerd Müller. Il suo nome e il suo ricordo vivranno per sempre". "La notizia della morte di Gerd Müller ci rattrista profondamente - ha spiegato il Ceo del Bayern Oliver Kahn - È una delle più grandi leggende della storia del Bayern, i suoi successi non hanno eguali fino ad oggi, sarà per sempre parte della storia del Bayern e della Germania. Sarà per sempre nei nostri cuori".
Più gol di tutti in Bundesliga. Müller, che detiene tuttora il record del maggior numero di gol segnati nella Bundesliga, con 365, chiuse la carriera di calciatore nella Nasl nordamericana, nei Fort Lauderdale Strikers, e in passato, dopo la fine dell'attività agonistica, aveva sofferto di problemi di alcolismo e depressione. 'Der bomber' in carriera ha segnato 566 reti in 607 presenze con la maglia del Bayern e detiene ancora oggi il maggior numero di gol realizzati in Bundesliga (365), oltre a esser stato per sette volte capocannoniere. Con la maglia della nazionale, con cui ha vinto l'Europeo del 1972 e il Mondiale del 1974, può vantare 68 gol in 62 presenze, compreso quello della finale mondiale contro l'Olanda. Con il Bayern, dove era arrivato nel 1964, ha vinto una Coppa delle Coppe, tre Coppe dei Campioni e una Coppa Intercontinentale. Dopo il ritiro ha allenato nelle giovanili del club.
Gerd in gol anche in Italia-Germania 4-3. Müeller è stato uno dei grandi protagonisti della "partita del secolo", Italia-Germania 4-3, ai Mondiali del 1970. Allo Stadio Azteca di Città del Messico il 17 giugno di 51 anni fa, Müeller segnò prima il 2 a 1 ai supplementari, poi firmò il pareggio del 3 a 3, un minuto prima dello storico 4 a 3 di Gianni Rivera. Nell'altra sfida di Müeller contro l'Italia, quella a Roma il 26 febbraio 1974, tra azzurri e tedeschi finì 0 a 0.
Quella rete decisiva che piegò l'Olanda nel '74. Di Müeller resteranno indimenticabili i gol decisivi nelle finali sia dell'Europeo del 1972 che e del Mondiale del 1974. Il 18 giugno del '72, allo stadio Heysel di Bruxelles, Müeller realizzò la rete del 2 a 1 contro l'Unione Sovietica mentre il 7 luglio di due anni dopo, nel suo stadio, l'Olympiastadion di Monaco, Gerd segnò il 2 a 1 contro l'Olanda. Gli olandesi erano passati in vantaggio dopo due minuti con Neeskens. Al pareggio su rigore di Breitner, a due minuti dal termine del primo tempo Müeller realizzò la rete del trionfo. Cresciuto nella squadra della natia Noerdlingen, nell'estate del 1964, Müeller approdò al Bayern, prima nella formazione che militava nel campionato bavarese e successivamente nella prima squadra. Nella stagione 1971/1972, Gerd segnò 40 reti nella Bundesliga, record battuto di un solo gol nella stagione scorsa da Robert Lewandowski. Ovviamente con il Bayern.
Addio a Gerd Müller, leggenda del Bayern Monaco e del calcio tedesco. Antonio Prisco il 15 Agosto 2021 su Il Giornale. Dopo una lunga malattia si è spento il leggendario centravanti tedesco, il bomber con la più alta media realizzativa di sempre. Lutto nel calcio mondiale, è morto all'età di 75 anni Gerd Müller, storico attaccante del Bayern Monaco e della Nazionale tedesca. Da sempre uno dei simboli del calcio tedesco, il centravanti di Nördlingen è sempre stato considerato tra gli attaccanti i più forti di tutti i tempi e i numeri sono tutti dalla sua parte. Centravanti d'area di rigore dalla statura minuta e dal fiuto del gol straordinario, Gerhard detto Gerd segnò 730 reti in 788 incontri, con la più alta media realizzativa di sempre (0,93 reti a partita). Venne ribattezzato prima "Bomber der Nation" ("Il cannoniere nazionale") e poi "Kleines dickes Müller" ("Il piccolo grasso Müller").
La carriera. Il Bayern lo aveva scovato nel nord della Baviera: da Nördlingen arriva nel capoluogo la voce di un ragazzino spietato sotto porta. Quando lo presentano all’allenatore Tschik Cajkovski, questi risponde:"Cosa me ne faccio di un tipo così sgraziato?". Lo lascia fuori per 11 partite, ma le sue caterve di gol nella squadra riserve e la pressione di molti dirigenti del club lo convincono a dargli una chance in prima squadra. Non ne uscirà più e nel giro di poche stagioni il Bayern Monaco diventerà la squadra più forte di Germania. La sua consacrazione con la Germania Ovest arriva nel Mondiale del 1970. Le 10 reti nel torneo, in cui spicca la doppietta nella leggendaria semifinale persa contro l'Italia, gli varranno il titolo di capocannoniere e a fine stagione il prestigioso Pallone d'Oro. Da questo momento in avanti Gerd Muller diventerà l’imprescindibile terminale offensivo sulla quale Germania Ovest e Bayern Monaco costruiranno i loro successi. In Nazionale conquista gli Europei '72 e Mondiali '74. La finale mondiale con l’Olanda, decisa da un suo gol, sarà la sua ultima partita. Dissidi con la Federazione lo convinceranno a rinunciare per sempre alla maglia bianca della Germania Ovest, a neppure 29 anni. Con il Bayern Monaco, insieme a Beckenbauer, Maier e Hoeness arrivano tre Coppe dei Campioni. Fu decisivo con la sua doppietta all'Atletico Madrid nella finale del '74 poi con il gol che stese gli inglesi del Leeds United nella finale di Parigi nel 1975. Alcuni dissapori con la dirigenza lo convincono ad accettare la proposta del Fort Lauderdale Strikers, squadra della nascente Lega Americana. In tre stagioni segna 40 gol, riuscendo anche a raggiungere la finale nel 1980, venendo però sconfitto dai Cosmos del suo ex compagno di squadra Beckenbauer. Nel 1982 si ritira dal calcio giocato.
Le frasi celebri. "Il gol è tutto. Il gol è ossessione prima ed è liberazione dopo. E poi ci sono quei 5 secondi dopo che la palla ha superato quella maledetta linea bianca. In quei 5 secondi non sai chi sei, dove sei o cosa stai realmente facendo. Quei 5 secondi sono stati la mia droga per più di 20 anni". Sono le parole con cui Gerd Müller descriveva la sua ossessione per il gol. Il compagno di squadra Franz Beckenbauer assicura:"Era brutto da vedere, con quelle gambe corte e tozze e le spalle spioventi. Ma era veloce come un fulmine e saltava come un’anguilla. Con lui non potevi distrarti un solo secondo". Sempre Kaiser Franz racconta di un curioso scambio di battute tra i due durante una partita in cui il Bayern stava soffrendo gli attacchi avversari."Ehi Gerd, non sarebbe male se rientrassi un pochino a darci una mano in difesa" gli gridò. "Certo quando tu verrai qua in attacco ad aiutarmi a fare qualche gol io verrò in difesa a darti una mano" fu la lapidaria risposta dell'attaccante. Sono però le parole di Paul Breitner quelle che suggellano più di altre l’importanza e il valore di questo bomber leggendario:"Senza di lui non avremmo vinto nulla di quello che abbiamo vinto, al Bayern e in Nazionale. E per nulla intendo proprio nulla". Poi aggiunge: "Dove c’è la palla c’è anche Gerd Müller". Ecco forse era proprio questo il suo segreto.
La depressione e gli ultimi anni. È l'estate del 1992. Gerd Muller, il più grande centravanti della storia del calcio tedesco, è ormai da anni un alcolizzato. La depressione che lo ha colpito appena finita la carriera lo ha portato a cercare nell’alcol l'antidolorifico in grado lenire il dolore di una vita senza più il gol. Un giorno Beckenbauer, Maier e Rummenigge sono all’aeroporto di Monaco di Baviera, al ritorno da una trasferta con la squadra. Passano davanti al bar con le loro valigie e vedono un uomo, con la barba lunga, trasandato e in evidente stato confusionale. Sembra molto più vecchio della sua età ma lo riconoscono, è proprio il loro vecchio amico Gerd. Da quel momento saranno loro ad occuparsi del compagno di tante battaglie, pagandogli il soggiorno in una clinica dove disintossicarsi dall’alcol e una volta uscito inserirlo nello staff del settore giovanile del Bayern. Qui lavorerà per oltre 20 anni, prima sul campo mettendo a disposizione la sua enorme esperienza per i ragazzi delle giovanili e in seguito come dirigente. Pochi anni fa, nel 2015, è il Bayern stesso ad annunciare che Der Bomber è affetto dal morbo di Alzheimer. Gli ultimi anni li ha trascorsi in una clinica, faticava a riconoscere i vecchi compagni e ricordava molto poco del suo grande passato. In un'intervista di qualche mese fa la moglie aveva rivelato: "Non mangia più. Dorme in attesa della fine". Ma i suoi gol leggendari resteranno per sempre nella storia del calcio.
Antonio Prisco. Appassionato di sport da sempre, tennista top ten e calciatore di alto livello soltanto nei sogni. Ho cominciato a cimentarmi con la scrittura sin dai tempi del liceo, dopo gli studi in Giurisprudenza ho ripreso a scrivere di sport a tempo pieno. Nostalgico della Brit Pop, adoro l'Inghilterra e il calcio inglese. Amo i film di Lars von Trier e i libri di Stephen King. Sogno nel cassetto girare il mondo per seguire eventi sportivi. Collaboro con ilGiornale.it dal maggio 2018.
Elisabetta Esposito per gazzetta.it il 15 agosto 2021. "Ho sentito poco fa la notizia della scomparsa di Gerd Müller. Mi dispiace davvero". Ricky Albertosi, il portierone di Italia-Germania 4-3 nella semifinale del Mondiale messicano del '70, ricorda con affetto l'attaccante tedesco che quella notte tanto lo ha fatto penare. "Eh, ci ha punito... Con quei due gol ci ha mandato davvero in crisi. Avevamo condotto tutta la gara, poi Schnellinger ci ha portato ai supplementari e Müller con la doppietta ci ha fatto temere il peggio. Per fortuna siamo stati capaci di reagire in modo incredibile e con Rivera alla fine li abbiamo battuti".
Che attaccante era?
"Una belva. In area non perdonava, non si poteva commettere neanche il minimo errore. Lui era sempre lì, pronto a metterla dentro. Non era tanto alto ed era piuttosto tozzo come attaccante, ma in area era imbattibile. Mi ricordava un po' Hamrin della Fiorentina, che però giocava più largo. Ma avevano la stessa concretezza davanti alla porta e per me erano guai...".
Lo aveva studiato prima di affrontarlo in quella semifinale?
"No, nessuno studio. I difensori magari possono cercare di capire i movimenti degli attaccanti, noi dobbiamo fare solo una cosa: parare. Lui quella sera mi ha messo davvero in difficoltà, per fortuna abbiamo vinto lo stesso. Non ricordo di averlo visto a fine partita, noi eravamo in preda all'euforia, lui sarà stato mogio come tutti i tedeschi...".
Siete stati entrambi protagonisti della Partita del Secolo.
"Ed è un pensiero che mi riempie sempre di orgoglio. Senza dimenticare che quel successo ci ha portato alla finale di un Mondiale, che non è cosa da poco. Una cosa è certa, senza Gerd Müller quella partita non sarebbe stata così bella".
Alvaro Moretti per ilmessaggero.it il 15 agosto 2021. (…) Il pallone d’oro lo prese proprio nel 1970 in cui sfuggì il Mondiale. La vita dopo il calcio è stata un processo di sparizioni: alcol e depressione, perché quel suo talento di essere l’uomo giusto al posto giusto non riusciva a trasmetterlo. Non era tecnica, ma puro istinto, forse inconsapevolezza di sé così utile in campo e complicata da gestire fuori dall’OlympiaStadion. Scomparve, una volta la notte del 17 luglio 2011: era a Trento e nessuno sapeva che fine avesse fatto. Il percorso di riabilitazione favorito dai suoi ex compagni di squadra dirigenti del grande Bayern che ora apprezziamo (Beckenbauer, prima di tutti) era stato un successo e Gerd ha lavorato per un bel po’ con i giovani della super squadra bavarese. Lo ritrovarono dopo 15 ore in via Alcide De Gasperi in stato confusionale. Dal 2015 il Bayern annunciò un’altra battaglia per Gerd: l’alzheimer. Stavolta è costretto a sparire: viveva in un centro specializzato. Ci piace pensarlo alle prese, ora, con quei satanassi di difensori marcatori che cercavano di intuirne le mosse, di prevedere quale leva geniale avrebbe usato per una girata nell’area piccola, sotto quale ciuffo d’erba si sarebbe nascosto “il piccolo grasso Müller”. Gerd era il numero 1 nella storia dell’area piccola del calcio: la vendetta sugli olandesi era anticipata, in un certo senso. Il gioco a zona di lì a poco avrebbe eliminato la fissità dogmatica della sfida personale con difensori come Burgnich e persino il “suo” collega Berti Vogts colonna dei rivalissimi del Borussia Monchegladbach. E accorciato il campo con la tattica del fuorigioco, gli specialisti d’area (nell’Italia di quei tempi viene in mente Boninsegna) avrebbero dovuto subire una trasformazione anche fisica: l’attaccante deve sfuggire la trappola tattica, non disseminarne nel proprio territorio di caccia. Müller è stato meno personaggio, meno filmico di tanti da lui umiliati in campo in quegli anni Settanta di basettoni e capelli lunghi. Eppure “der bomber” è per numeri e talento mimetico un calciatore davvero ECCEZIONALE.
· Morto il comico Gianfranco D'Angelo.
Morto Gianfranco D'Angelo, star della comicità anni 80. La Repubblica il 15 agosto 2021. L'esordio nei cabaret, la lunga serie delle commedie sexy alla fine degli anni 70, poi l'approdo in tv e il grande successo con "Drive In". E' morto a Roma l'attore Gianfranco D'Angelo. Attore, comico, doppiatore, cabarettista, avrebbe compiuto 85 anni il 19 agosto. Era ricoverato al Policlinico Gemelli. Cabarettista, doppiatore, comico, aveva iniziato in teatro - dal Puff di Roma, con Lando Fiorini, al Sistina con Garinei e Giovannini, al Derby di Milano - per approdare poi in tv e diventare uno dei volti più noti e amati degli anni 80 e 90. D'Angelo sbarca in tv all'inizio degli anni 70 con il programma Rai Sottovoce ma non troppo, seguono il programma Foto di gruppo con Raffaele Pisu, il film tv La bambola, la serie La porta sul buio prodotta da Dario Argento, le partecipazioni a show Rai come Milleluci (1974), Dove sta Zazà (1973), Mazzabubù (1975).
Morto Gianfranco D'Angelo, star della comicità anni 80. D'Angelo con il cast dello spettacolo "Situation Comedy". La Repubblica il 15 agosto 2021. L'esordio nei cabaret, la lunga serie delle commedie sexy alla fine degli anni 70, poi l'approdo in tv e il grande successo con 'Drive In'. Il ministro Franceschini: "Perso un grande talento". E' morto a Roma l'attore Gianfranco D'Angelo. Attore, comico, doppiatore, cabarettista, avrebbe compiuto 85 anni il 19 agosto. Era ricoverato al Policlinico Gemelli, è scomparso dopo una breve malattia. Romano, D'Angelo aveva iniziato in teatro - dal Puff di Roma, con Lando Fiorini, al Sistina con Garinei e Giovannini, al Derby di Milano - per approdare poi in tv e diventare uno dei volti più noti e amati degli anni '80 e '90 in trasmissioni come Drive In.
I successi in tv da Drive in a Striscia la Notizia. Il comico eveva raccontato di provenire "da una famiglia poverissima, ho perso i genitori a tre anni e sono cresciuto con gli zii. Ho fatto tanti mestieri, ma ho amato il teatro fin da bambino. Ho anche lavorato dietro le quinte: macchinista, attrezzista". E' stato anche impiegato alla Sip, la compagnia telefonica, "alla sera recitavo in cabaret con i testi che mi ero fatto scrivere da Maurizio Costanzo, che all'epoca era un semplice giornalista". D'Angelo sbarca in tv all'inizio degli anni 70 con il programma Rai Sottovoce ma non troppo, seguono il programma Foto di gruppo con Raffaele Pisu, il film tv La bambola, la serie La porta sul buio prodotta da Dario Argento, le partecipazioni a show Rai come Milleluci (1974), Dove sta Zazà (1973), Mazzabubù (1975). Ma il boom di popolarità arriva con Drive in (1983-1988): il comico interpreta Armando, un domatore di insuccesso che cerca ogni volta di far compiere a un cocker, assolutamente indifferente, degli esercizi circensi improbabili al grido "Has Fidanken". Nel 1988 conduce su Italia 1 assieme a Ezio Greggio la prima stagione del programma Striscia la notizia. Nel 1992 è il protagonista della sitcom Casa dolce casa, assieme a Alida Chelli e Enzo Garinei; nella serie compare anche sua figlia, Daniela D'Angelo, che interpreta il ruolo della figlia come nella vita. Dopo aver vinto quattro Telegatti, nel 2001 vince il Delfino d'oro alla carriera.
La carriera a teatro. Come detto, D'Angelo comincia a farsi conoscere debuttando nel teatro nel 1963 e poi lavorando al Puff chiamato da Lando Fiorini tra il 1968 e il 1970. Successivamente viene scelto da Garinei e Giovannini per il ruolo dell'Arcivescovo tedesco in Alleluja brava gente con Renato Rascel e Gigi Proietti. In seguito lavora in vari cabaret d'Italia e si farà apprezzare al teatro romano "Il Bagaglino", dove troverà Gabriella Ferri, Oreste Lionello, Enrico Montesano e Pippo Franco. Nella seconda metà degli anni 90 fa ritorno in Rai, dove prende parte ad alcune edizioni di Carramba che sorpresa, Fantastico e Domenica In. Gli ultimi anni della sua carriera si sono svolti sopratutto a teatro, con commedie brillanti di buon successo. Nel 2019 era apparso nel film W gli sposi diretto da Valerio Zanoli. D'Angelo lascia due figlie, Daniela e Simona, entrambe attrici.
Il messaggio di Franceschini. "Con Gianfranco D'Angelo il mondo dello spettacolo perde un grande talento, un comico che ha fatto della semplicità e dell'immediatezza il suo tratto distintivo. Mi stringo alla famiglia in questa triste giornata". Così il Ministro della Cultura, Dario Franceschini.
Il ricordo di Ezio Greggio. "Addio Gianfranco piango. Se ne va non solo una persona a me particolarmente cara ma che è stata importante nella mia vita. Sei stato grande al cinema, in tv e in teatro regalando sempre risate ed allegria. Ti voglio bene Frankie collega, amico e fratello. Has has fidanken". Così l'amico e collega Ezio greggio, protagonista con lui della prima stagione di Strisca la notizia, ha ricordato l'attore scomparso.
A 85 anni è morto Gianfranco D'Angelo. Francesca Galici il 15 Agosto 2021 su Il Giornale. L'indimenticabile attore comico si è spento al policlinico Gemelli di Roma dopo una breve malattia. Gianfranco D'Angelo si è spento al policlinico Gemelli dopo una breve malattia. L'attore è stato uno dei simboli della televisione e del cinema negli anni Ottanta e Novanta. Avrebbe compiuto 85 anni il prossimo 19 agosto. Ha debuttato in tv in Rai negli anni Settanta ma dopo pochi anni è entrato a far parte della squadra del Bagaglino insieme a Pippo Franco ed è con Drive-In, fortunato programma Mediaset, che Gianfranco D'Angelo si fa amare dal grande pubblico. Sotto la guida di Antonio Ricci è diventato l'idolo dei giovani negli anni Ottanta con la sua comicità semplice e naturale, che ha caratterizzato un'intera generazione di italiani. Le sue imitazioni sono scolpite della memoria collettiva, così come i suoi personaggi fortemente caratterizzati. Per chi ha vissuto gli anni d'oro del Bagaglino e di Drive-In è impossibile dimenticare signor Armando e il cane Has Fidanken, così come le sue straordinarie imitazioni di Giovanni Spadolini, ma anche Pippo Baudo e Katia Ricciarelli. E poi ancora Sandra Milo e Raffaella Carrà. Ha iniziato la sua carriera proprio in teatro all'inizio degli Sessanta, non prima di aver fatto anche altri lavori come l'impiegato della Sip a Roma, sua città natale. Durante l'esperienza al teatro Cordino di Trastevere ha lavorato, tra gli altri, anche con Maurizio Costanzo, autore dei testi delle commedie della sua compagnia. La satira è sempre stato il suo cavallo di battaglia per via di quell'ironia pungente e mai banale, con la quale riusciva a delineare i tratti più vividi dei personaggi interpretati. Nel suo curriculum ci sono tantissime collaborazioni di gran prestigio, come quella con Lando Fiorini e quella con Pietro Garinei e Sandro Giovannini, grazie ai quali ha recitato al fianco di Renato Rascel e Gigi Proietti in Alleluja, brava gente. Sono state tantissime le esperienze teatrali di Gianfranco D'Angelo ma la svolta alla sua carriera è arrivata quando Antonio Ricci l'ha scelto nel cast di Drive-In e, successivamente, come primo conduttore insieme a Ezio Gregio della prima edizione di Striscia la notizia. Ha lavorato per un'intera stagione al fianco di Raffaella Carrà a Fantastico e poi ancora a Domenica In. Dalla metà degli anni Novanta la sua carriera ha avuto un rallentamento ma Gianfranco D'Angelo non ha mai davvero smesso di lavorare, tanto che anche negli ultimi mesi è stato impegnato in un lavoro teatrale. In serata un messaggio di cordoglio è arrivato da Silvio Berlusconi: "Gianfranco D'Angelo è stato un professionista serio e generoso: ha regalato ore di allegria e spensieratezza a generazioni di donne e di uomini. È stato un grande pioniere e innovatore, ha condotto trasmissioni che fanno parte della storia della televisione italiana e per me anche un caro amico. Ci mancherà molto. Un abbraccio ai suoi famigliari".
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Luca Beatrice per “Libero Quotidiano” il 17 agosto 2021. Memorabili davvero quei cinque anni, dal 1983 al 1988, quando la domenica andò in onda su Italia 1 in prima serata la più strampalata, assurda e innovativa trasmissione di varietà. Insieme ai programmi di Renzo Arbore, il Drive In di Antonio Ricci segnò il cambiamento del linguaggio televisivo: ritmo acceleratissimo, battute a raffica, risate registrate, pubblicità mimetizzata nello show o viceversa. Ebbe anche il merito di inserire termini, intercalari, espressioni nell'incedere quotidiano dell'italiano medio, che si trovò così a usare le stesse frasi di Vito Catozzo, del Criticatrutto, di Beruscao. Di quella meravigliosa pattuglia Gianfranco D'Angelo è stato il più geniale attore di un vero e proprio meta/spettacolo, fermamente convinto fosse la stessa televisione, insieme all'attualità e alla politica, il miglior serbatoio di idee e di spunti. Non un imitatore classico alla Noschese, il cui stile trasformistico del "diventare altro" arriva fino a Maurizio Crozza e Virginia Raffaele, ma un inventore di personaggi strampalati e parodistici resi con uno stile eccessivo fondato sulla ripetizione di pochi elementi, sempre gli stessi. Usava il travestimento non mimetico ma parodistico, lavorando sul tic come tormentone. E noi li imparammo a memoria, usandoli per anni nel nostro frasario. A fronte di una carriera cinematografica di ruoli secondari da caratterista in non memorabili filmetti erotici degli anni '70, con Ricci e Drive In D'Angelo letteralmente "spaccò". Chi ha più di cinquant'anni ricorderà il Tenerone, ovvero l'animale più buono del mondo, un pupazzo rosa figlio dell'arboriano-boncompagnano Scarpantibus, che sapeva dire solo "emozione". La gag più attesa, guai se saltava una domenica, era quella del signor Armando, che voleva convincere il pubblico della bravura del suo cane, un cocker immobile e indifferente. La parola magica "has fidanken" venne usata dalla nostra generazione come un mantra. E poi le imitazioni. Indimenticabile la contessa Marina Dante delle Povere, ampio palmares di conquiste, che diceva della sua ultima conquista: «Un omaccione, con due baffetti da sparviero». Faceva talmente ridere da contagiare nelle sghignazzate anche se stesso. Continuando con il duetto Pippo e Katia, all'epoca al centro dei gossip, protagonisti involontari della telenovela brasiliana "Anche i Baudi piangono". E ancora Sandra Milo, Raffaella Carrà, Piero Angela. Di ciascuno prendeva un gesto-tirare i capelli indietro, accavallare le gambe lo estremizzava e lo ripeteva all'esasperazione. Né avrebbe potuto risparmiare i politici, i migliori, quelli della Prima Repubblica capaci di fornire spunti esilaranti: la pronuncia avellinese di De Mita, Goria come Sandokan, De Michelis e la sua mania di fare festa. D'Angelo ha sfruttato la coda lunga dei fasti del Drive In senza riuscire a ripetere lo straordinario successo di quel lustro. Poi, come spesso accade, la sua carriera successiva è vissuta di altre trasmissioni, comparse, ospitate ma senza l'incisiva scrittura di Ricci anche il suo talento ne ha sofferto. Insieme a Giorgio Faletti, Ezio Greggio, Enrico Beruschi, Zuzzurro & Gaspare, Francesco Salvi, accanto a donnine poco vestite e molto procaci come Lori Del Santo, Tinì Cansino, Carmen Russo, D'Angelo ha contribuito a rendere la televisione un media contemporaneo. Ciascuno ha gli eroi e i giganti buoni che vuole, e nel salutare questo incredibile funambolo non trovo citazione migliore di quella di Francesco Specchia, così come la scrisse su queste colonne dieci anni fa: «Tutti allora, a sinistra con analisi molto colte, accostarono Ricci a Gramsci, ai situazionisti di Debord. Nessuno dichiarò guerra agli eccessi di pelle esposta e alla carnalità straripante dei push-up. Si pensava a Drive In come al sogno felliniano che avrebbe narcotizzato Berlusconi. Che poi sia avvenuto il contrario...».
Gianfranco D'Angelo, prima della morte la denuncia: "Ho lavorato in Rai, ma non prendo una buona pensione". Libero Quotidiano il 15 agosto 2021. Gianfranco D'Angelo è scomparso. L'attore e comico di Striscia la Notizia e il Drive In è morto dopo una breve malattia. D'Angelo negli ultimi tempi era stato ospite di Barbara d'Urso a Domenica Live. L'attore era tra i cosiddetti "vip caduti in disgrazia”. Qui, all'età di 82 anni, il comico aveva confessato di non riuscire a vivere con la pensione ottenuta dopo tanti anni nel mondo dello spettacolo. "Ho lavorato per la Rai e per Mediaset - spiegava affranto -, ho fatto 51 film e convention in tutto il mondo. Eppure, pur avendo versato regolarmente tutti i contributi, non prendo una buona pensione e non so spiegarmi il perché. Mi piacerebbe essere un po’ più tranquillo a livello economico, senza pensieri per la testa, ma fa parte della vita, e poi sono scelte. Se uno stesse a casa tutto il giorno con le pantofole potrebbe pure accontentarsi della pensione". All'epoca dei fatti in studio si era scatenata una vera e propria lite con l'opinionista Karina Cascella su tutte le furie. Per lei la cifra dell'attore era alquanto dignitosa. Del tutto contrariato invece Lorenzo Crespi, che aveva preso le difese di D’Angelo, affermando. “Capisco Gianfranco, chi lavora nel mondo dello spettacolo sa che si pagano tante tasse. Le tasse sono più alte e quei duemila euro sono decisamente pochi rispetto a quanto versato in tanti anni di carriera”.
Ezio Greggio devastato dal pesante lutto: "Ha lottato fino all'ultimo, aveva la forza di un leone". Libero Quotidiano il 15 agosto 2021. Ferragosto triste per Ezio Greggio che deva fare i conti con la notizia della scomparsa di Gianfranco D’Angelo. L'attore è deceduto nella notte fra il 14 e il 15 agosto al Policlinico Gemelli di Roma. A stroncarlo, ha reso noto il suo ufficio stampa, una breve malattia. I due erano una coppia affiatatissima sia a Striscia la Notizia che a Drive In: “Il segreto era un affiatamento dovuto a una grande ironia che avevamo entrambi. Quando ci divertivamo noi si divertiva il pubblico”, ricorda Ezio Greggio raggiunto direttamente da Fanpage. E ancora: “Ci lascia un esempio di grande professionalità e la forza da leone con la quale affrontava la vita. Ha lottato fino all'ultimo. Di solito io ero in onda con Striscia e lui veniva a Milano con la sua commedia. Andavo sempre a vederlo e lui dal palco alla fine mi salutava”. I due si erano sentiti in una telefonata privata, di cui il volto di Canale 5 preferisce non raccontare il contenuto per poi concludere: "Basta che si vedano una puntata qualsiasi di Drive In e capiranno quant’era bravo il mio Frankie”. Il riferimento è ai giovani, a cui basterebbe vederlo in tv per capire com'era davvero Gianfranco D'Angelo.
Ezio Greggio al funerale di Gianfranco D'Angelo, il crollo emotivo: "Ho perso un pezzo di me". Libero Quotidiano il 17 agosto 2021. "Ho un nodo in gola che mi fa parlare poco": è troppo grande il dolore di Ezio Greggio per la perdita del collega e amico Gianfranco D’Angelo, venuto a mancare lo scorso 15 agosto. I due si erano conosciuti grazie a una battuta ben 43 anni fa durante la trasmissione La Sberla. "Ho perso un pezzo di me. Ora restano i ricordi. Continuano a riaffiorare, anche quelli che credevo di aver rimosso”, ha raccontato il conduttore di Striscia la Notizia in un'intervista al Corriere della Sera. Parlando della sua amicizia con D'Angelo, poi, ha continuato: "Era sempre pronto alla battuta ed io uno stimolatore per lui. Ogni volta che ci vedevamo succedeva qualcosa. La malinconia non ci apparteneva”. Dopo aver lavorato a lungo insieme, c’è stato un momento in cui le strade di Greggio e D’Angelo si sono divise. Il primo è rimasto a lavorare al tg satirico di Canale 5, mentre il secondo aveva ricevuto un incarico in Rai. Ogni volta che si rivedevano, però, era come se il tempo non fosse mai passato. A tal proposito Ezio Greggio ha ammesso: "Accade poche volte nella vita. Ci sono caratteri che creano rapporti quasi soprannaturali. Persone con cui non ti devi dire nulla e ti capisci”. Il conduttore di Striscia, inoltre, ha voluto raccontare un aneddoto speciale che lo lega a Gianfranco in un post su Instagram. Una gag che i due misero in piedi dal nulla in un piccolo hotel in Liguria. Dopo essere stati ripresi dal portiere perché parlavano a voce alta nella hall dell'albergo alle 4 del mattino, i due fecero finta a turno di stare male, tossendo forte. "I clienti si affacciarono dalle camere e cominciarono a ridere e applaudire. Come a teatro prendemmo in mezzo il portiere e mano nella mano ci inchinammo a salutare il pubblico. Ciao Frankie mi mancherai", ha scritto infine Greggio.
Gianfranco D'Angelo, Barbara D'Urso straziata dal lutto: "Anche nei momenti più difficili lui...". Libero Quotidiano il 15 agosto 2021. Barbara d'Urso è affranta per la morte di Gianfranco D’Angelo che "riusciva sempre a trovare il modo di strappare una risata al suo pubblico", scrive la conduttrice Mediaset in un post pubblicato sul suo profilo Twitter, "anche nei momenti più difficili. È stato, e sarà, sempre uno dei più grandi. #hasfidanken #gliartistinonmuoionomai". L'attore e comico è morto nella notte fra il 14 e il 15 agosto al Policlinico Gemelli di Roma dopo una breve malattia. A renderlo noto è stato il suo ufficio stampa. D'Angelo avrebbe compiuto 85 anni il 19 agosto. Attore, comico, cabarettista, doppiatore, imitatore e cantante, D'Angelo era nato a Roma nel 1936. L'artista era conosciuto per aver recitato in tantissimi film, ma anche per le sue apparizioni in teatro e in televisione in programmi come Drive in, Odiens e la primissima edizione di Striscia la notizia. Gianfranco aveva denunciato nel 2018 il sistema pensionistico italiano, entrando così a far parte di un filone, quello dei "vip caduti in disgrazia": "Ho lavorato per la Rai e per Mediaset, ho fatto 51 film e convention in tutto il mondo. Eppure, pur avendo versato regolarmente tutti i contributi, non prendo una buona pensione e non so spiegarmi il perché".
Il comico e cabarettista aveva 84 anni. È morto Gianfranco D’Angelo, addio al volto del “Bagaglino” e del “Drive In”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Agosto 2021. Gianfranco D’Angelo avrebbe compiuto 85 anni il prossimo 19 agosto. È morto, a Roma, al Policlinico Gemelli, dopo una breve malattia. È stato uno dei volti più noti del Bagaglino con Pippo Franco e del Drive In con Antonio Ricci. Era attore, comico, cabarettista, doppiatore; uno dei volti più noti della televisione italiana degli Anni ’80. Ha vinto quattro Telegatti e un Delfino d’Oro alla carriera. Lascia le figlie Daniela e Simona, entrambe attrici. D’Angelo era nato a Roma nel 1936. I primi passi nel mondo del teatro del 1963. Dal 1968 al 1970 aveva lavorato al Puff di Lando Fiorini. Venne scelto da Garinei e Giovannini per il ruolo dell’Arcivescovo tedesco in Alleluja brava gente con Renato Rascel e Gigi Proietti. Lavorò quindi in vari cabaret d’Italia, fra cui il Derby di Milano, e si fece apprezzare al teatro romano Il Bagaglino, dove trovò Gabriella Ferri, Oreste Lionello, Enrico Montesano e Pippo Franco. Dopo alcune partecipazioni in programmi Rai, come Milleluci (nel 1974 con Raffaella Carrà), Dove sta Zazà (del 1973) e Mazzabubù (1975), D’Angelo nel 1979 fu il protagonista de La sberla seguito da diciannove milioni di telespettatori. Raggiunse la popolarità più ampia con Drive In nel quale interpretava Armando, un domatore di insuccesso che cercava ogni volta di far compiere a un cocker, assolutamente indifferente, degli esercizi circensi improbabili al grido: “Has-Has-Has… Fidan-ken!”. D’Angelo è stato anche, insieme con Ezio Greggio, il primo volto del telegiornale satirico Striscia la Notizia nel 1988. E quindi fu protagonista della sitcom Casa dolce casa, assieme ad Alida Chelli e Enzo Garinei. Proprio in questa appariva Daniela D’Angelo, figlia dell’attore, nel ruolo della figlia del protagonista. L’ultima volta sul grande schermo era stata per W gli sposi, film diretto da Valerio Zanoli nel 2019.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Marco Giusti per Dagospia il 15 agosto 2021. “Silvio, le testate fanno male!!!” diceva il suo Giuliano Ferrara con barbone rosso in “Drive In” dando grandi capocciate alla telecamera e riferendosi alla concentrazione di testate di Berlusconi che lo stava inguaiando. Ricordo che nel primo anno di Blob era diventato il mio tormentone preferito e riprendevo la battuta ogni giorno con un video sempre più sbiadito. Ma Gianfranco D’Angelo, che si è spento nella notte tra il 14 e il 15 agosto a 83 anni, maestro della commedia sexy dei tempi di Edwige Fenech, star del Bagaglino e del Derby, attore al Sistina, ci faceva ridere e parecchio ai tempi del “Drive In” di Antonio Ricci al termine dei meravigliosi anni ’80 anche con Pippo e Katia, che avevano una collezione di parrucchini vivi, con Gervaso, Sandra Milo, Raffaella Carrà. Erano imitazione assurde, con trucchi pacchiani, la voce in falsetto, le pance finte, non tanto somiglianti agli originali, ma ci facevano ridere proprio perché sguaiate, fuori regola, urlate, eccessive, degne di un comico venuto fuori più per la sua fisicità che non dalla pratica teatrale degli stabili, come Montagnani. Ricci aveva recuperato D’Angelo dalle tavole di legno dei palcoscenici dei gloriosi cabaret romani e milanesi, il Puf di Lando Fiorini fu il primo, ma si esibì anche nei teatrini e nei programmi radio ideati e diretti da Maurizio Costanzo, ovviamente il Bagaglino della prima ora, con Bombolo e Oreste Lionello e, ovviamente dai set incredibili della grande stagione della commedia sexy. Una stagione che iniziò con “L’insegnante” di Nando Cicero con Edwige e proseguì con una serie interminabile di piccoli e più piccoli capolavori o, se volete, orrori, ma di grande e grandissimo successo, dove D’Angelo faceva buffi ruoli di professore nazista, eccessivo, grosso e con i capelli ritti in testa, fidanzato cornuto di Edwige o spasimante poco gradito. «In quel film, L’insegnante, avevo il ruolo di un professore di ginnastica, un po’ folle ma tutto sommato positivo», ha dichiarato a Amarcord, «Un cornuto contento, visto che in quel film la mia fidanzata era proprio la Fenech. [...] un personaggio veramente nuovo e moderno per il panorama cinematografico italiano. E infatti ebbe un grosso successo, colpendo l’opinione pubblica». Ancor prima dell’arrivo di Renzo Montagnani e di Lino Banfi, che ne furono delle varianti comiche più precie e funzionali alle storie, mentre Alvaro, già presente ne “L’insegnante”, portava il peso del suo buffo fisico da clown triste e la firma felliniana già sperimentata nelle scene scolastiche di “Amarcord”. Cicero fu il primo, assieme al Marino Girolami di “Grazie nonna” con Edwige, subito dopo le apparizioni da giovane comico romane in qualche film di Bruno Corbucci, “Zum Zum Zum”, “Nel giorno del signore”, dove incontra Lino Banfi, a capirne la forza comica e a imporlo con questo eccesso di carica comica. Dopo, spostandosi anche nelle commedie sexy di Mariano Laurenti, Michele Massimo Tarantini, se la vedrà con rivali del calibro di Renzo Montagnani, che aveva incontrato ai tempi della radio di Costanzo, e Lino Banfi, che aveva conosciuto nei cabaret romani. Ma se la sessualità del suo amico-rivale Renzo Montagnani era tutta esibita in scena in una serie di ohi-ohi-ohi, di vera sofferenza da erezioni continue nelle mutande alla vista di Edwige&Co, quella di D’Angelo era unicamente comica, da cabaret, più concentrata sulla sua figura di comico grottesco che di vero maschio arrapato. D’Angelo fa ridere non perché si sente represso e voglioso, ma perché si ritiene sicuro della sua carica sessuale nei confronti delle bellissime che lo cornificano. Fa ridere per la sua carica grottesca da vantone pomposo. Ha anche nomi assurdi. E’il professore Ilario Cacioppo, il professor Puntiglio. Nato a Roma nel 1936, impiegato della Sip, come altri comici del tempo, alterna la carriera di comico da cabaret, con i teleselettivi al Teatro delle Arti, al lavoro. Sarà Maurizio Costanzo a lanciarlo a teatro e nel programmo radiofonico “Federico eccetera, eccetera” con Renzo Montagnani negli anni ’60. Si nuove molto, fra teatro e cinema. Il Puf di Lando Fiorini, come abbiamo detto, il Sistina di Garinei e Giovannini, che lo vogliono a fianco di Gigi Proietti in “Alleluja, brava gente”, poi il Derby a Milano come comico solista, come fece Gianfranco Funari. E il Bagaglino, che lo forgiò assieme alla prima grande ondata di comici, da Bombolo a Montesano a Pippo Franco a Oreste Lionello. Lo troviamo nei film di Bruno Corbucci nei primi anni ’70, ma intanto esplode in tv con programmi di grande successo come “La sberla”, vera fucina di comici da Giancarlo Nicotra, “Milleluci”, “Dove sta Zazà”, “Mazzabubù”, a fianco di Gabriella Ferri e Pippo Franco diretto da Pierfrancesco Pingitore. A metà degli anni ’70 arriva anche la commedia sexy a completare un quadro comico di grande popolarità ottenuta tra cinema e tv. Oltre a “L’insegnante” e “Grazie nonna” di Marino Girolami con Edwige e Giusva Fioravanti, poco prima della latitanza, arrivano “La liceale” di Tarantini con Gloria Guida, “Ecco lingua d’argento” di Mauro Ivaldi con Carmen Villani, “La poliziotta fa carriera” di Tarantini con Edwige, i fondamentali “Remo e Romolo” e “Nerone” di Pingitore con Pippo Franco e Montesano. La sua carriera cinematografica procede spedita fino ai primi anni’80 per passare poi alla tv e venire accolto da Antonio Ricci a “Drive In” assieme a Ezio Greggio. Al cinema non farà molto altro. Troppo esposto alla comicità del cinema scorreggione, come Alvaro, poco rivendibile come attore serio o quasi serio, come Montagnani, meglio fare la tv, soprattutto quella berlusconiana, dove brillò di luce comica assoluta. Lo ritrovammo, sperduto, insieme a tanti altri comici degli anni’70, nell’assurdo e tardissimo “Se lo fai sono guai” diretto nel 2001 da Michele Massimo Tarantini in un quel di Ischia. Un film che non vide nessuno.
Da oggi.it il 25 agosto 2021. In un’intervista a OGGI, in edicola da domani, Alvaro Vitali ricorda l’amico e collega Gianfranco D’Angelo, recentemente scomparso, gli scherzi che D’Angelo gli faceva subire, il suo segreto per avere battute sempre pronte. E si toglie qualche sassolino dalla scarpa: «Dal 1975 al 1978 io e Gianfranco abbiamo girato 15 film: una catena di montaggio… Tra gli attori, sicuramente il più determinato a sgomitare ed emergere a tutti i costi era Lino Banfi. Tant’è che D’Angelo fu fatto fuori ed entrò Lino al suo posto accanto a me. Prima eravamo io e Gianfranco il tandem. Se ci rimase male? Molto, lasciò il cinema dicendo: “Non mi merita” per dedicarsi al teatro».
· E’ morto il giornalista Ranieri Polese.
Marco Giusti per Dagospia il 14 agosto 2021. Colto, snob, sempre un po’ sottotono, Ranieri Polese, sofisticato giornalista delle pagine culturali de “Il Corriere della Sera”, ma anche de “L’Europeo”, de “La Nazione”, che se ne è andato a 75 anni dopo una guerra di 5 anni con un tumore, era capace, come il suo amico di vecchia data Claudio Carabba, di passare da letture altissime alle recensioni di film di Alvaro&Co. come vice di Sergio Frosali sulle pagine de “La Nazione”. E’ lì che lo scoprii la prima volta, per poi ritrovarlo come caporeservizio a Milano, a “L’Europeo”, insieme a Claudio Carabba, che se lo era portato da Firenze. Nato a Pisa nel 1946, da un padre avvocato, con un fratello, Luigi, orientalista a Tokyo, Ranieri aveva studiato filosofia a Firenze con Cesare Luporini e era presto entrato nel mondo del giornalismo fiorentino seguendo appunto Sergio Frosali e Claudio Carabba. A “L’Europeo”, con la direzione di Lanfranco Vaccari, aveva costruito delle pagine culturali formidabili. Pagine che con l’arrivo di Vittorio Feltri a direttore, verranno cancellate, come lo stesso giornale, ahimé. Ma in quel periodo, Ranieri Polese mi sembrò non solo un giornalista serio e sensibile, ma soprattutto qualcuno con cui si poteva portare avanti un discorso innovativo rispetto al tipo di giornalismo che si faceva allora in Italia. Ricordo che è lì che provai a costruire delle pagine blob, prima della nascita del programma, con tante frasi riprese dalla tv. Dopo la chiusura de “L’Europeo”, Polese passò nelle pagine culturali del “Corriere”, proseguendo in parte in lavoro iniziato al settimanale. Scrisse anche libri, “Il film della mia vita”, Rizzoli, “Tu chiamale se vuoi…” e “Per un bacio d’amor”, Archinto, dove lavorava sulle canzonette. Collaborò alla prima Mostra del Cinema di Venezia della direzione Marco Muller come selezionatore, tirando fuori il vecchio critico che era in lui. Difficile non volergli bene e non stimarlo. L’ho sentito l’ultima volta per parlare della scomparsa di Claudio Carabba, suo fratello maggiore e maestro, e ho capito che, malati tutti e due, avevano con la morte un rapporto quasi scherzoso. Con loro abbiamo perso un tipo di giornalismo di grande cultura e di gran classe che non sempre i giornali di oggi sanno riconoscere e apprezzare.
· E’ morta l’attrice Piera Degli Esposti.
Addio a Piera Degli Esposti, la regina scalza. Giorgio Gosetti per l’ANSA il 14 agosto 2021. Se ne va poco dopo aver festeggiato i suoi magnifici 83 anni Piera Degli Esposti, anima bolognese e talento universale, regina scalza della scena italiana tra teatro, cinema, televisione e letteratura: scalza perché aveva il dono di sembrare sempre a suo agio nei panni più diversi, ma amava la vita come sinonimo di libertà. Nata a Bologna il 12 marzo del 1938, Piera viene dal teatro d'avanguardia degli anni '60 e sono maestri come Antonio Calenda, Aldo Trionfo, Giancarlo Cobelli, a consegnarle le chiavi del teatro classico e moderno, tra Shakespeare e Giraudoux, Gombrowicz e D'Annunzio tra lo stabile dell'Aquila e il Teatro dei 101 dove incrocia giovani colleghi come Nando Gazzolo e Gigi Proietti. Quasi in contemporanea il suo vulcanico talento sbarca anche in televisione con l'originale televisivo "Il conte di Montecristo" diretto del 1966 da Edmo Fenoglio con Andrea Giordana che diventa il beniamino del pubblico della Rai. Un anno dopo è Gianfranco Mingozzi a farla debuttare al cinema con "Trio", mentre nel '68 compone insieme a Tino Buazzelli, Wanda Osiris, Fraco Parenti, Mario Pisu, il colorito cast del "Circolo Pickwick che Ugo Gregoretti dirige in sei puntate televisive. Da allora la carriera di Piera non conoscerà soste, sempre equamente divisa tra la scena e il set, con una sete inesauribile per sfide ogni volta più complesse. La sua preparazione tecnica è fuori discussione, ma è il calore, il piacere dell'improvvisazione, la sensibilità nell'usare la voce con cadenze diverse, compresa la parlata nativa, a fare la differenza. Apparirà in una cinquantina di film, una ventina di sceneggiati, sarà protagonista a teatro per 50 anni buoni e ovunque porterà una freschezza, un sorriso, una professionalità assolutamente unici. La amano i fratelli Taviani ("Sotto il segno dello scorpione") e Pier Paolo Pasolini ("Medea"), Gianfranco Mingozzi e Lina Wertmuller (tra i suoi più grandi amici e complici), Giuseppe Tornatore ("La sconosciuta") e Marco Bellocchio ("L'ora di religione" che le valse il primo di tre David di Donatello), fino a Nanni Moretti "Sogni d'oro") e Paolo Sorrentino ("Il divo") in cui impersona la mitica e impassibile segretaria di Giulio Andreotti in una delle sue caratterizzazioni più celebri. In tv come non ricordarla nei panni della badessa dei "Promessi sposi" di Salvatore Nocita o in quelli di Clelia in "Tutti pazzi per amore" di Ivan Cotroneo. Anche a teatro amava l'impossibile che fosse lo "Stabat mater" del 2002 o "Gli asparagi e l'immortalità dell'anima" (dagli aforismi di Achille Campanile) del 2005. Nel 1997 comincia il suo sodalizio artistico con Dacia Maraini, l'amica di sempre, che la convince a scrivere a quattro mani "Storia di Piera". L'incontro delle due donne, l'una meticolosa analista dell'anima e l'altra narratrice naturale che attinge al vissuto per trasformarlo in creazione letteraria, produce un autentico evento editoriale. Vi Si racconta anche di un rapporto inusuale fra una madre e una figlia, rapporto carico di sensualità e di complicità, che si evolve e dura negli anni. Si racconta di un'infanzia sonnolenta: una bambina che ha covato i suoi sogni dentro una sartoria, gli abusi degli amici del babbo, e infine la scoperta del teatro come la "casa dei desideri". Si racconta la storia di una vita. Da libro-scandalo "Storia di Piera" diventa anche soggetto e sceneggiatura, con la complicità di Marco Ferreri che ne fa nel 1983 uno dei suoi film più personali e intensi, ma in cui la mano di Piera Degli Esposti guida e indirizza ogni gesto delle protagoniste Hanna Schygulla e Isabelle Huppert. La vicenda letteraria avrà due seguiti: "Piera e gli assassini" sempre con Dacia Maraini nel 2003 e "L'estate di Piera" (con Giampaolo Simi) appena un anno fa. Invece la sua voce pastosa e calda, immediatamente riconoscibile accompagnerà "La lunga vita di Marianna Ucria" (il romanzo più famoso di Maraini) nella bella lettura del 2011. Negli ultimi anni è stata anche apprezzata regista d'opera fin dalla "Lodoletta" di Piero Mascagni e una memorabile "La voce umana" di Francis Poulenc. Piera degli Esposti amava i giovani e per loro si è spesa fino all'ultimo istante. Fosse Riccardo Milani che ha "scoperto" tra "Una grande famiglia" e "Benvenuto Presidente" o Alessandro Aronadio ("Orecchie") o Sebastiano Mauri e Filippo Timi che accompagnava nel 2017 al successo di "Favola", nessun progetto fuori dalle righe la spaventava, anzi la stimolava a dare una diversa immagine di sé. Ma il fondo della sua vena artistica rimaneva sempre collegato a quel teatro che l'aveva formata: nel contatto diretto con il pubblico, nell'emozione della recita a soggetto, nella creazione rigorosa che sfocia nell'improvvisazione ritrovava ogni volta un gusto quasi infantile della messa in scena della vita come gran teatro dei giochi. Le piaceva ridere, stare in compagnia, difendere con forza le sue idee ed era sempre curiosa delle idee altrui. Ha molto amato, Piera, spesso uomini più giovani di cui la incantava la sete di vita, e mai si è sposata. Di sé diceva: "Più che un'attrice sono una grande costruttrice di immagini: potrei mitizzare anche il primo gelataio che incontro per strada". Adesso ci manca la sua risata argentina, la sua passione per la politica e l'arte, la sua voglia di conoscere e di raccontarsi senza pudore. Ci manca la "regina scalza".
Biografia di Piera Degli Esposti. Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti.
Piera Degli Esposti (Piergianna D.E.), nata a Bologna il 12 marzo 1938 (81 anni). Attrice. Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti: tre premi Ubu come miglior attrice, per Molly cara (1978/1979), Rosmersholm (1979/1980) e Madre Coraggio e i suoi figli (1991/1992); due David di Donatello come miglior attrice non protagonista, per L’ora di religione (2003) e Il divo (2009); due Nastri d’argento speciali, uno come «non protagonista dell’anno per le numerose interpretazioni» in Il divo, L’uomo che ama, Giulia non esce la sera (2009), l’altro come «miglior attrice protagonista nel documentario» per Tutte le storie di Piera (2014). «L’attore ha un compito nella vita, arduo ma splendido: quello di consolare, dei lutti, degli abbandoni, delle malattie. Calarsi nel buio profondo, per risalire poi portandosi alla luce»
Giovinezza complessa. «Papà era sindacalista col Pci, mamma era meravigliosa, ma maniaco-compulsiva, più volte sottoposta a elettroshock. D’estate, usciva in bici di notte e raggiungeva i suoi amanti, mentre io la rincorrevo a piedi. D’inverno, cadeva in letargo. Papà fu mandato dal partito in Veneto, per limitare lo scandalo. Il partito avrebbe potuto considerare che, trasferendo papà, lasciava sola non una moglie, ma anche due bambini: io e mio fratello Franco, mentre mia sorella Carla studiava a Mosca, nella scuola del Pci. Però, il contatto coi filarini della mamma era anche lusingante. Ho avuto un’infanzia liquorosa. Credevo ai contadini che, per consolarmi, sospiravano: “Tua madre non fa niente di male, dà via del suo”» (a Candida Morvillo).
«Avrebbe voluto sposarlo, quel padre: “Lo dissi pure in classe, alle elementari: ‘Peccato, non sono il suo tipo’. Figuriamoci la maestra: ‘Che c’entra il tipo?’, mi domandò stravolta. A casa mia davo il tormento a tutti con la storia di Limone, un paese del Garda. Avevo letto che lì si erano sposati tra congiunti. Perché non farlo anche noi? ‘Ma basta con questo Limone del Garda!’, protestava papà”» (Leonetta Bentivoglio).
«Era il solo che mi togliesse la paura. […] Eravamo una famiglia chiacchierata: tutti sapevano che mio padre era stato spedito in Veneto per la cattiva condotta della moglie. Ma camminare al suo fianco mi faceva sentire sicura, come vicino a un re» (a Simonetta Fiori).
«Mia madre […] era una donna erotica molto complicata. Io ero una ragazzina di 14 anni. È vero che io vivevo con lei e che mia madre stava con i suoi uomini che poi diventavano i miei, ma è altrettanto vero che io poi ho cercato di allontanarmi. […] Se non l’avessi fatto, non sarei qui. Proprio con il teatro e con il cinema, ho fatto in modo di diventare altro da me: altra signorina, altra donna, altra voce, altra storia» (Katia Ippaso).
Abbandonata precocemente la scuola per seguire la madre, dopo un periodo trascorso a fare la sarta a Bologna si trasferì a Roma, con l’obiettivo di dedicarsi alla recitazione. «Volevo fare teatro perché pensavo di potermi nascondere dietro ai personaggi. Avevo paura di essere come mia madre. I dottori dicevano che si trattava di una malattia ereditaria: “Diventerai come lei”. Ne erano convinti» (a Enrica Brocardo).
«All´inizio, da ragazza, non l´ammisero all´Accademia d´arte drammatica, “forse a causa del mio modo aeroplanistico di muovere il corpo e le braccia, come per prolungare la parola”. Eppure nessuno riuscì mai a farla dubitare del suo talento» (Bentivoglio).
«Com’è iniziato tutto? “Con un sacco di rifiuti. Dall’Accademia d’arte drammatica ai teatri stabili, dai provini televisivi a quelli radiofonici. Mi restava l’avanguardia. Approdai insieme a Proietti al Teatro dei 101 di Roma, una specie di garage. Ci davamo da fare per pubblicizzare gli spettacoli: io portavo le locandine ai giornali, Gigi suonava la chitarra nelle osterie”. Fu lì che ricevette i complimenti di Giorgio de Chirico. “Ero in scena con A dieci minuti da Buffalo di Günter Grass. Pur di lavorare avevo accettato la parte di un marinaio, e per sembrare un uomo mi ero raccolta i capelli dentro il berretto. Al termine dello spettacolo, lui si presentò dietro il sipario. ‘Molto bravo’, mi disse. Io non riuscivo a parlare per l’emozione. Gli risposi solo: ‘Ma io sono una femmina’. E lui, senza scomporsi: ‘Bravo lo stesso’”» (Fabrizio Accatino).
«Lavora a Roma, al Teatro dei 101 di Calenda, con Gigi Proietti, poi a L´Aquila con Aldo Trionfo e allo Stabile di Firenze con Tino Schirinzi. Diventa Madre Coraggio e la Madonna della Passione per Calenda, La Folle de Chaillot e Cleopatra per Cobelli. Affronta Medea e La figlia di Jorio. È una Madonna dei bassifondi per Chérif. Molly nello scabroso monologo dall´Ulisse di Joyce, Molly cara, con la regia di Ida Bassignano, che la rivela al grande pubblico. Quando Eduardo la vede, bofonchia: “Sei ’o verbo nuovo”. Quel ruolo, spiega, “segnò la possibilità di essere me stessa in scena. Da allora non sono stata più un´attrice che lasciava la sua vita in camerino. La mia diversità coincide con l´impudicizia nel mostrare il mio indagarmi”. Il suo asimmetrico e fantasioso talento significa anche ripercorrere le proprie strade: “L´ho scritto spesso sui copioni, di lato. Accanto a Cleopatra mettevo: voce di mamma. Sotto Medea appuntavo: signora Elide, il nome di un´amica dei miei genitori. Sentivo suoni nei personaggi e ci andavo dentro”» (Bentivoglio). Nella seconda metà degli anni Sessanta iniziò a lavorare anche per la televisione, in sceneggiati come Il conte di Montecristo di Edmo Fenoglio e Il Circolo Pickwick di Ugo Gregoretti, e per il cinema, diretta da registi come Paolo e Vittorio Taviani (Sotto il segno dello scorpione), Pier Paolo Pasolini (Medea), Luigi Zampa (Bisturi – La mafia bianca), Nanni Moretti (Sogni d’oro) e Lina Wertmüller (Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada, Il decimo clandestino, Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica). «Pasolini […] di lei disse: “Mi piace la tua faccia perché non è da attrice”. “Mi disperai, invece era un complimento”. E pensare che Piera il cinema non l’amava. “Ero disinteressata: mi piaceva muovere il corpo, e il cinema non mi permetteva di farlo. In realtà ho sempre continuato a fare teatro, cinema e televisione, anzi, proprio quando, a 64 anni, ho deciso che non volevo più fare teatro, il cinema mi ha cercata e non mi sono più fermata. Ho fatto lavorare la mia faccia proprio quando, a quell’età, in generale, la faccia uno la difende”» (Francesca De Sanctis).
Nel 2002, infatti, recitò ne L’ora di religione di Marco Bellocchio: «Interpretavo il personaggio di zia Maria, fascista, terribile. Una donna così lontana da me che ho dovuto studiare a fondo per allontanarmi mentalmente e caratterialmente da me stessa». «Di L’ora di religione non potrò mai scordare il lungo applauso del pubblico di Cannes per la mia scena con Castellitto. I francesi che applaudono un’attrice straniera: un evento raro». «A Marco devo molto: con L’ora di religione ha rilanciato la mia carriera cinematografica, per cui ho vinto il mio primo David di Donatello. Senza di lui non credo mi avrebbero chiamata Sorrentino per Il divo o Tornatore per La sconosciuta» (Emanuela Giampaoli).
Poco dopo si riconciliò anche con la televisione, diventando «il volto noto di fiction di successo con al centro la famiglia: Tutti pazzi per amore, in cui è la nonna Clelia, suocera di Emilio Solfrizzi, e Una grande famiglia, in cui è Serafina, l’enigmatica segretaria degli industriali Rengoni, interpretati da Gianni Cavina e dal “figlio” Alessandro Gassmann» (Albarosa Camaldo).
«Quando m’è piombata addosso la possibilità di fare fiction, tante persone a me care me lo sconsigliavano, e invece sento di aver fatto bene a misurarmi con questa nuova sfida. Penso a cose come Tutti pazzi per amore, o Una grande famiglia: credo di esser stata capace di “rimpicciolire” (mi si passi il termine: lo dico in senso buono) la mia recitazione abituata a spazi larghi (il grande schermo o il palcoscenico) ad una dimensione che calza molto bene la tv» (Cristiano Governa).
Tuttora attiva soprattutto in teatro, da ultimo con Wikipiera, sorta di intervista-spettacolo incentrato sulla sua vita personale e professionale, che la vede affiancata sul palcoscenico da Pino Strabioli. «Con Pino Strabioli sto bene, a mio agio, e questo per me è fondamentale. Lui […] è bravissimo a raccontare aneddoti, a stimolare le risposte: ne viene fuori uno spettacolo divertente, pieno di ironia. Io per parte mia recito alcuni brani che mi hanno reso famosa, dal monologo di Molly Bloom al Dondolo di Beckett» (Alessandra Vindrola) • Insieme a Dacia Maraini, sua grande amica, ha scritto due libri autobiografici, Storia di Piera (Bompiani, 1980) e Piera e gli assassini (Rizzoli, 2003). Dal primo, incentrato sugli anni della sua giovinezza, e in particolare sul suo rapporto con i genitori, Marco Ferreri ha tratto nel 1983 l’omonimo film, in cui a interpretare la madre e il padre della Degli Esposti sono rispettivamente Hanna Schygulla e Marcello Mastroianni. «Vi raccontava di quando la madre la coinvolgeva nelle proprie scorribande erotiche, per poi andare in ospedale, con la figlia per mano, a scontare i suoi peccati con gli elettroshock: “Lei mi diceva: ‘Sono state le immagini a portarmi qui dentro’. Quando uscì il film, era ricoverata. Le infermiere le chiedevano: davvero da giovane eri tanto birichina? Volle vederlo anche lei, quel film, e il suo unico commento fu che Hanna Schygulla, che la interpretava sullo schermo, sapeva andare bene in bicicletta”» (Bentivoglio).
Nel 2013 la Degli Esposti è stata inoltre la protagonista del documentario Tutte le storie di Piera di Peter Marcias
«Di rifiuti, ne ha serviti anche lei, alcuni memorabili come a Carmelo Bene e Giorgio Strehler. “Quello di Bene fu un lungo corteggiamento. Mi voleva per l’Adelchi. Insistette molto, mi invitò nella sua casa di Forte dei Marmi. Accettai, ma poco dopo mi resi conto che era un personaggio infrequentabile, di una crudeltà senza pari. Me la diedi a gambe. A Strehler invece dissi di no subito. Non era mancanza di stima, ovviamente, ma il timore di non riuscire a preservare il mio metodo di recitazione. La prese molto male. Per lui divenni “la stronza”, e nelle manifestazioni pubbliche dava istruzioni che io non finissi seduta accanto a lui”» (Accatino)
Nubile, senza figli (vari aborti volontari alle spalle). Numerose relazioni sentimentali all’attivo, tra cui quella col regista Marco Ferreri. «Io amavo i suoi film già prima di conoscerlo, e mi attraeva come uomo. […] La prima volta che abbiamo iniziato a darci le carezze mi ha detto “Lo sapevo, che c’avevi la canottiera”, perché io l’ho sempre portata. Gli uomini stanno tutti lì ad andare in palestra per avere un corpo appetibile, ma non è da là che per le donne viene l’abbandono: viene dalla testa, dagli occhi, dall’ironia». «"Non sono mai stata senza un fidanzato, ma un marito non l’ho mai voluto". Perché? "Non è gentile dirlo, ma tendo a stancarmi. Forse perché per me è più importante l’immaginazione dell’amore, che però non regge alla prova della quotidianità. La dimensione affettiva spegne il mistero dell’amore. E io al mistero sono legata. […] Per un lungo tratto ho cercato fidanzati più grandi di me, ma accade a un certo punto che i padri non ti vogliano più. Quando diventi grande, ti vogliono solo i figli. E allora forse inconsciamente ho cominciato a giocare con il figlio che non avevo e non ho mai voluto". Perché non ha voluto figli? "Perché avevo già partorito una bambina, che sono io. E lei da sola costituiva un problema". Prima Massimo, 18 anni di meno. Poi Alberto, più giovane di 29 anni. "Questi miei amori piccoli mi hanno dato una grande allegria. Non c’era la competizione che può nascere con gli amori grandi. Mi volevano un grande bene. E, siccome io mi voglio bene, con loro è stata una cosa bella"» (Fiori).
«Alberto», il regista teatrale Alberto Casari, col quale ebbe la relazione più lunga della sua vita (tredici anni), morì a causa di un incidente stradale nel 2001, a soli 34 anni. «Certo la morte di Alberto in macchina […] è stato uno choc, benché annunciato, perché lui andava fortissimo. Però onestamente non lo volevo più: avevo bisogno di qualcuno più quieto». «L’erotismo che continuo a sentire ha a che fare con il mistero degli amori che non si svelano mai completamente. La passione per il gioco amoroso non mi abbandona. Mi piace prendere delle cotte. Mi piacerà fino all’ultimo. Quello che provo oggi è molto vicino a quello che provavo prima della morte di Alberto»
«Follie per amore? A me è capitato: con Robert Mitchum. Me ne innamorai a 14 anni, vedendolo in un film, e per anni ho coltivato questa passione. L’ho immaginato, l’ho inseguito, gli ho persino scritto una lettera d’amore. E alla fine l’ho incontrato, a Roma, nel 1996, a casa di Lina Wertmüller. Appena lo vidi, non capii più nulla: era splendido, nonostante fosse prossimo agli ottant’anni e fosse già stato colpito dalla malattia che lo avrebbe portato via l’anno seguente. Passammo una serata meravigliosa. Io ero seduta accanto a lui e, alla fine della cena, gli lessi la lettera. Mi abbracciò, mi fece sedere in braccio a lui. Io sentii il mio corpo fremere. Alla fine, ci baciammo. Sulla bocca. E non era certo un bacio da ragazzini. Mi disse di andarlo a trovare a Santa Barbara, dove viveva. E, prima di andarmene, mi chiese se volevo andare da lui, in albergo. Non lo feci, ma non per moralismo. Se lo avessi visto nudo, spogliato, se avessimo fatto l’amore, forse l’avrei visto come un uomo fra tanti. Avrebbe perso quella dimensione magica, da mito. Invece, con quell’incontro, e quell’unico, irripetibile bacio, Mitchum sarebbe rimasto per sempre l’amore dei miei 14 anni. Il “mio” Robert» (a Monica Mainardi)
«Nelle relazioni, sono sempre stata portata a conquistare, stancandomi presto. Mia mamma del bisogno faceva il suo padrone, mentre io lo temo» (Brocardo).
«Lei ha amato anche ragazze? “È successo: un buon rapporto che – all’ombra del proibito – all’inizio mi pareva gran cosa, poi è ancora finito nella stanchezza. […] Io comunque mi incanto di chi si incanta di me: se quello insiste, ci casco un po’ dentro”» (Marina Cappa). • Amica fraterna di Lucio Dalla (1943-2012), sin dall’infanzia. «Quanto bene gli volevo! Ci chiamavamo i “marzolini”, perché entrambi nati in marzo. Era stato il compagno di banco di mio fratello, compagno anche mio. Dopo la scuola, andavamo alle feste dell’Unità, dove lui già cantava e io vendevo agli stand. Andavamo insieme in Lambretta, gli dicevo: tu hai una sola cosa bella, i fianchi alla Robert Mitchum. Siamo sempre rimasti in contatto».
«Per tantissimi anni, ho seguito un percorso psicoanalitico. […] Quando […] ho incontrato il buddismo di Nichiren Daishonin, ho capito che stavo andando via dalla psicoanalisi. Non so ben spiegare quale forza morbida e potente fosse quella che mi stava portando via. Mi sono legata a Nichiren Daishonin (il monaco giapponese del 1200 che ha trasmesso la legge mistica del Sutra del Loto) come se fosse l’uomo di casa. Pregare mi fa diventare una persona più attenta e più saggia. È una preghiera che spinge all’azione. Non faccio in tempo a pensare che dovrei fare una certa cosa, e mi ritrovo ad averla già fatta senza sapere come» (Ippaso)
«“Io mi alzo ogni giorno con una canzone in testa. E non solo perché ai miei tempi si ascoltava la musica in macchina, dove magari si faceva anche l’amore, e ci si baciava a tempo di canzonette. Mi ricordo che, le due volte che ho vinto una fascia da Miss sull’Adriatico, in sottofondo, cantavano. E poi, per passare le ore in sartoria, cantavo dentro di me. Ho continuato a farlo anche quando stavo in sanatorio. Certo, in me c’è anche un essere impressionabile, una donna paurosa”. Le paure di oggi sono le stesse di un tempo? “C’è la malattia, perché ho avuto tanti problemi ai polmoni e nel ’77 mi hanno tolto le pleure: per un’attrice recitare senza pleure è come per un corridore avere problemi alle gambe”» (Cappa)
Terrorizzata dall’idea (infondata) di essere uccisa, nel suo stabile si è fatta costruire un ascensore di vetro, trasparente: «Se c´è un assassino che mi aspetta sulla porta, lo vedo subito» • «Il 9 maggio 1978, dopo un anno da tregenda per la malattia ai polmoni, […] mi ritrovai all’alba in via Caetani, a Roma, davanti alla sede dell’Istituto di Dramma Antico dove avrei dovuto incontrare un funzionario che conservava per me due biglietti di treno per Siracusa. Tornavo a recitare al Teatro Greco dopo un anno di sosta forzata, ma per diktat medico, dovuto al rischio di una crisi polmonare, non potevo prendere l’aereo. Lo aspettai appoggiandomi a una R4 rossa e poi, dopo quasi un’ora e mezza, visto che non arrivava nessuno, mi spostai per prendere un caffè. Sapere più tardi che in quell’auto c’era stato Moro mi impressionò molto. Mi consolai pensando di avergli fatto compagnia».
«Ci sono attori che vogliono essere redarguiti, altri che hanno bisogno del successo o che per i soldi farebbero tutto. Io ho bisogno dell’affetto. Mi basta che mi si voglia bene. […] Io sono molto sicura del mio talento, ma ho bisogno di sentirmelo confermare. Non prendo alla leggera niente, sono pesante di mia struttura». «La verità è che io ho creduto al mio talento. Visto che nessuno ci puntava una lira, se non l’avessi fatto nemmeno io non sarei andata avanti di un solo passo». «“Il mio metodo, un metodo che all’inizio ho faticato a far accettare, l’ho creato io. E l’ho inventato in casa”. In cosa consisteva? “Nella scoperta di sé stessi, dei limiti, dei confini. Spingevo i cassetti della madia con il ventre in maniera selvaggia, sperimentavo il tono della voce, parlavo da sola affacciata su un giardino disabitato. I vicini andavano da mia madre: ‘Abbiamo visto Piera alla finestra: con chi parla?’”. È stato difficile far accettare il suo metodo? “Non piaceva a nessuno. I premi che ho avuto in seguito pareggiano a stento i rifiuti che ho avuto. Far accettare agli uomini l’idea che fossi una duellante è stata una piccola rivoluzione. Pretendevano di essere gli unici a duellare, i maschi”» (Malcom Pagani).
«Mi sento un’artigiana. Studio tante ore, mi preparo con metodo, sono meticolosa. E, dopo tanto studio, ecco che spunta una vocina dentro di me che ha del miracoloso. La vocina si adagia sullo studio compiuto e riporta a galla la mia parte bambina» • ««Si sente tragica, “perché mi piace il mito: grazie al teatro ho scoperto che nella mia famiglia era di casa. Mi piace la passione, la gente che ne è preda, che compie imprese e porta a termine vendette. Sono felice di avere avuto un´infanzia teatralizzata”. Però è anche comica, conosce il gusto del paradosso, la trasgressione surreale, le sfumature dell´ironia. Lo dimostra in Un´indimenticabile serata – Gli asparagi e l´immortalità dell´anima. […] “Sono sempre stata in contropiede. Quando mi si voleva vedere bloccata nei ruoli drammatici, ecco arrivare Campanile. La sua comicità mi piace e mi assomiglia. Trovo anche politicamente importante che si rida in modo intelligente, fuori dalla volgarità di bassa lega”» (Bentivoglio)
«Quando ho fatto Bisturi – La mafia bianca, il regista, Luigi Zampa, mi diceva che ero una ragazza con la faccia da cinema. Secondo Pasolini somigliavo ad Alberto Sordi e, quando ridevo, sembrava che piangessi». «Attrice creativa nel suo antinaturalismo, icona pluriennale delle avanguardie, musa di cineasti e scrittori» (Bentivoglio). «Appartiene a quella categoria di attori superiori, che ti portano dove vogliono. Piera Degli Esposti appartiene alla categoria degli inarrivabili» (Paolo Sorrentino). «Forse è l’attrice più umile che abbiamo mai incontrato. È una grande, e ha coscienza di esserlo, ma non ha bisogno di dimostrare niente: lei è» (Paolo e Vittorio Taviani)
«In una società che si è votata al lifting e alla metamorfosi delle facce e dei corpi, ho conservato il mio volto senza deturparmi. Si rimane giovani o ci si illude di farlo soltanto con la testa, non con le plastiche». «La mia è sempre stata una faccia di sentieri e segni non finti, come quella di Lee Marvin o Charles Bronson». «Il discorso dell’età non mi sfiora perché io non mi vedo anagraficamente. È vero, non vivo in un Paese in cui esistono le Judi Dench e le Maggie Smith. In Italia le domande sono “ma come si fa ad andare a letto con una donna di 80 anni?” e “che fa, lavora ancora?”. Rispondo che io mi sento di poter fare ancora grandi personaggi. In tv vorrei recitare il ruolo di un commissario donna. Perché le commissarie dovrebbero essere ragazze? Io sono convinta che ci vogliano attrici con l’esperienza nel volto» • «A me la vita piace molto, anche se è spesso attraversata da giorni di pioggia. Ci abituiamo alle stagioni e ci abituiamo agli imprevisti. Consapevoli. Dritti contro il vento. Senza disamore alcuno». «Temendo io la morte, che già prende tanto spazio nei miei pensieri, vorrei sentirmi un po´ immortale. […] Questa è la cosa patetica su cui a volte mi piace fantasticare. D´altra parte, lascio alla fantasia il suo diritto di vivere anche sopra la vita» (ad Antonio Gnoli). «La psicoanalisi […] mi permise di camminare. Ma l´analista non mi ha guarita dall´onnipotenza. Chiaro che so che si muore, però mica tanto. Non sono del tutto certa di morire, il che mi rende contenta».
Giancarlo Dotto per “Gioia” (2011). “E chi sei, Rambo?”. Piera Degli Esposti non trattiene l’ammirazione e anche un po’ lo spavento. Mi ha appena visto entrare nel suo attico, strisciando carponi, dopo essermi infilato stile parà nell’unico varco possibile tra lo sbarramento dei nastri, quelli che usano di solito per recintare la scena del crimine. Ero arrivato lassù strisciando lungo quattro piani di scale tra l’intonaco fresco delle pareti e pestando il cellophane che protegge i pavimenti, seguendo il richiamo della voce di Bono che arrivava dalla casa di Piera. Stanno ristrutturando il palazzo. Prendere l’ascensore sarebbe stato troppo banale. Piera ha due possibilità, chiamare i carabinieri o accettare l’idea e accogliere lo svitato con un po’ di acqua e limone. Donna di mondo, sceglie la seconda. Mentre faccio Rambo, ho tutto il tempo di riflettere sulla storia di Piera, volume secondo ancora tutto da scrivere della celebre biografia diventata poi film nei primi anni ’80. Storia di una donna alchemica che converte il dolore in gaiezza, i calci nel sedere in partenze e volate da centometrista e che diventa oggi popolare perché ma soprattutto per come si traveste da Barbie e fa il verso a Beyoncè in televisione. Sto parlando, mi dico mentre faccio lo slalom tra i tubi innocenti, di una delle ultime attrici di quell’aristocrazia in via di estinzione che è il teatro, di una signora che per tutta la vita ha grandiosamente recitato Sofocle, Joyce, Shakespeare e Brecht. Piera va avanti e indietro. Sembra un nastro di Beckett. Associa liberamente. Dice e disdice. Esita e si lancia. Butta là frammenti che magari sembrano a caso e magari non lo sono. Sbuffa e ansima.
“Sai, mi hanno tolto la pleure, i miei polmoni non sono più un granché… Stavo pensando di fare una festa per ventisei persone, un bel tavolo qui sotto con il mio amatissimo caviale rosso e uno in terrazzo”.
Piera vive sola, da trent’anni, in questo attico al centro storico di Roma. Mi chiedo perché ventisei persone. Non lo sapremo mai.
“Chissà se farò mai questa festa, ho una forma di timidezza verso l’esterno. Ce l’ho sempre avuta… Più che altro vado a cena nelle terrazze degli altri. Mi piace curiosare. Sono un po’ ficcanasa. Anche Moravia aveva una bella casa, ma andava sempre alle feste degli altri. Si può avere una bella casa e tenerla tutta per sé…”.
Buttiamo giù insieme la lista dei ventisei.
“Le persone con cui sono più intima. Dacia Maraini. Tutti gli anni vado in vacanza nella sua casa di montagna a Pescasseroli. Da lei mi sento accudita, protetta. Se fosse a Roma, inviterei Lucio Dalla, mio compagno di scuola a Bologna. E poi Lina Wermuller, Chiara Valentini, i giovani registi con cui lavoro di questi tempi, Davide Minnella, Pippo Mezzapesa, Giorgio Arcelli. Superato il blocco, farò una festa dopo l’altra”.
Di questi tempi, Piera esce tutte le sere. Non la tieni a casa nemmeno con la camicia di forza.
“Il mio problema quando non lavoro è sistemare la sera. Resto a casa solo quando lavoro e devo alzarmi alle cinque. Allora faccio la suora. Ma non amo la mondanità, detesto la disinvoltura, non vado alle prime. E’ che, se vado nelle case altrui, dormo meglio, forse perché non ho mai voluto famiglia”.
La signorina Degli Esposti risulta nubile all’anagrafe.
“Non mi mai sono sposata. Ho avuto parecchi compagni, gli ultimi due più piccoli di me, uno di diciotto, l’ultimo quasi trenta, morto in un incidente di macchina. Ma non c’entra la carnalità. Quella ginnastica non m’interessa. Mi ritengo donna più mentale che fisica. Non nego il piacere di un leggero profumo di scandalo, che peraltro poi va via e diventa prima affetto e poi noia. Difficile mantenere l’inquietudine in un rapporto a due”.
L’ultima volta l’avevo incontrata alla Casa del Cinema a Roma che leggeva pagine scabrose dal libro di Diego Mondella su Todd Solondz, il molto inquietante regista di “Happiness” e di “Perdona e dimentica”.
“Un ebreo coraggioso che va a indagare nei nostri intestini, al contrario di Woody Allen che parla solo di appartamenti, di cose frivole. Oggi è più utile Solondz che Allen. C’è un’opacità generale nel mondo. Ieri sera ho incontrato un ragazzo a una cena che diceva di leggere non meno di otto ore al giorno. Ero così ammirata… Un segno che arriva dalle giovani generazioni. Sono convinta, non può durare questo stato di ottundimento, il mitra o il coltello che sostituiscono il dialogo dentro le pareti. E’ la passività che uccide. La bassa marea è sempre in agguato anche in persone vitali come me, figuriamoci in quelli che perdono l’identità passando ore davanti a uno schermo”.
Mi dichiaro ammirato. Leggo che sta facendo un mucchio di cose questa ragazza iperattiva, nonostante la pleure e i sette decenni sul groppone.
“Sono disoccupata” (fa lei con il piacere monellesco di azzerare il concetto). “Ho detto di no a un paio di proposte. Questo è pericoloso in un paese giovinologo come il nostro. E’ già una fortuna che autori come Tornatore (“Mi ha trattato come una regina. “Tu mi emozioni”, mi diceva. Uno che ha diretto Polanski e Noiret, capisci?”), Sorrentino (“Un grandissimo talento”), Bellocchio, Veronesi, Milani, abbiano scelto una signorina matura come me per ruoli seri ma anche di commedia”.
La sera prima mi ero piegato in due, vedendola nella sequenza di “Tutti pazzi per amore”, che fa il verso a Beyoncè ma anche a se stessa, cantando e danzando “Single ladies” con la pettinatura a banana e il braccio robotico. Divertimento puro.
“A una certa età, sono l’unica faccia rimasta nel mondo senza neanche una punturina. Ho deciso di mostrarla questa faccia da vicino. Ha funzionato. Poi ho giocato, diventando Beyoncè da nonna Clelia. Ecco la popolarità improvvisa. Mi fermano per strada i bambini. Incredibile. Anche il mio analista s’interroga. Non ho internet, sono ferma alla diligenza, però mi dicono che il mio video impazza su…Come si dice, dimmi un nome…Sì, Youtube. Ragazzini che vanno a vedere chi sono, da dove vengo e magari scoprono che recito Palazzeschi. L’Orietta Berti che è sempre stata in me, gode. E ora capisco perché. La popolarità è affettuosa. Ti coccola”.
È di nuovo lì che fruga come un’ossessa nei cassetti. A cercare cose che non trova. Il video in cui fa il verso a Beyoncè.
“Un ‘impresa. Ho dovuto battere tre demoni, il respiro, l’età e i movimenti. Ho dovuto ripetere all’infinito gesti lontani da me come la luna. Qui da sola, in casa, come una pazza. Io e Beyoncè. La magnifica. Che avevo finito per odiare. Non sapendo l’inglese, mi sono costruita i miei riferimenti. “I Got”, pensavo al gatto, “need” pensavo ai nidi degli uccelli. Quando sono tornata a Cinecittà, dopo che ce l’avevo fatta, l’ho adorata, Beyoncè. Le ho gridato: “Ce l’abbiamo fatta ragazza!”. Più spiritosa lei di Liza Minnelli, che si esibisce nella stessa imitazione in “Sex and the city”. “Alla fine ero contenta come se avessi fatto un figlio… Sono grata a Riccardo Milani che mi ha convinto anche a travestirmi da Barbie”.
È già, mentre lo dice, a rovistare nei cassetti a cercare le sue foto da Barbie e questa volta le trova. Uno schianto. Lei dentro un vestito rosa di tulle, la coroncina in testa, i guanti lunghi, le spalle nude. Chissà perché penso al barman quando dice a Jack Lemmon in “Irma la dolce”: “La vita è una guerra totale, nessuno ha il diritto di fare l’obiettore di coscienza”. È lei a spiegarmi perché. La guerra di Piera. Guerra permanente.
“Da qualche tempo mi sento come un guerriero che prende il sole. Sono sempre stata copertissima. A furia di darci sotto, mi sono detta “scopriamoci”. Mi hanno convinta Marta Marzotto e Lina Wertmuller: “Fai vedere le spalle che sono belle”. E così, oggi, alla mia giurassica età, comincio a tirare fuori le spallette, fare meno il frate”.
Capisco perché invitano Piera in tutte le terrazze di Roma. Piera è preziosa. Come quelle fatine mutanti e un po’ dislessiche che piombano dal loro mondo e ti raccontano che la bambina e la vecchia sono la stessa cosa, che il tempo non esiste, che non è poi così drammatico. Un’esorcista dal sorriso largo e folle, che ti aiuta a campare meglio.
“Non ho mai perso del tutto il controllo mia vita. Spesso, ho avuto il bisogno assillante di conferma. Di conquistare. Sono stata dongiovannesca, anche questo è un mio tratto maschile. Non che la cosa duri, ma che io abbia fatto presa. L’aver dato spazio all’amore mi ha un po’ distolto dal lavoro. Sono stata inquieta anche nel voler esser a tutti i costi, negli anni del teatro, atletica nelle cantine, fuori dai velluti. Strehler mi aveva scelto per il ruolo di protagonista ne “Il temporale di Strindberg”. Gli dissi di no e lui da allora mi chiamava la “stronza”. Oggi ho come amante il lavoro”.
Se la ricordano tutti, trasfigurata, nella parte di Enea, la devotissima segretaria di un fantasma collettivo, il “Divo” di Sorrentino.
“Sono figlia di un sindacalista e Andreotti era visto in famiglia come il male. “Lei è troppo sofisticata per fare Enea…”, mi disse la figlia maggiore di Andreotti. “Ora le spiego io chi è Enea….”. Il padre non prese bene il film, ma voleva conoscermi. “Lei piace al senatore”, mi fecero sapere. Mi fissarono un appuntamento con lui. Farfugliai che non ero libera, chissà, attratta e impaurita allo stesso tempo. Mi richiamarono. “Abbiamo spostato l’appuntamento nel pomeriggio, al senato”. Risposi che dovevo prendere un treno per Bologna. Mi ero negata due volte ad Andreotti. Richiamai io, pentita, alcuni giorni dopo. Mi fecero capire che non era più il caso. Avevo perso il treno…Resta questa attrazione. A volte, vado sotto le finestre di casa sua e resto lì a fantasticare…Anche se Andreotti non è certo Robert Mitchum”.
Nessuno al mondo aveva mai accostato Andreotti a Mitchum. Ci voleva Piera. Quando parla di Mitchum è ustione di primo grado.
“A Robert sono stata fedele tutta la vita. Bisogna esser fedeli al proprio sogno. Lo amo da quando avevo 14 anni. Quando lui venne a girare “La battaglia di Anzio” andai a propormi nella parte dell’infermiera. Non mi presero per la mia faccia troppo poco italiana. Meglio così, sarei morta ad accudirlo nella sua roulotte…Lo incontrai grazie alla Wertmuller. Trovai un messaggio in camerino: “Lunedì cenerai con Mitchum”. Pensavo a uno scherzo. Poi la voce di Lina: “Cocca, è tutto vero”. Quella sera mi feci tutta carina. Pensavo a Marilyn, ad Ava Gardner, che lo voleva sposare. La cosa più difficile era mantenere la calma…Entra lui, con quella sua camminata in dentro, un marcantonio più alto di te…Io mi ero portata la lettera che gli avevo scritto”.
La sa a memoria. Come la canzone di Beyoncè.
“Caro Robert, sono un’attrice italiana… so che ho poche speranze, eppure lo meriterei d’incontrarti…Costringevo fidanzati e parenti a camminare in dentro come te. Nessuno ci riesce, neanche tuo figlio…Ho odiato tutte le tue partner che ti preferivano Gregory Peck…l’America puritana non amava questo tuo ventre dilatato che avanzava accarezzando mobili e persone. Tutto in te è osceno e speranzoso, amo tutto di te perché tutto in te è un inno all’abbandono, io che non mi abbandono mai…”. Lui ascoltava divertitissimo…”.
La bambina giurassica ha un lampo. Sa come stupire il prossimo.
“Ho le foto….”. E’ già lì che fruga nei cassetti. “Morì due anni dopo, ho fatto appena in tempo a vederlo…Non ho voluto andare più in là quella sera…Lui avrebbe voluto, eccome”.
Mitica Piera, la donna che può dire di essersi negata a Strehler, Andreotti e a Mitchum. Apre il cassetto delle foto. Esce di tutto. Hanna Schygulla, Bellocchio, il fratello di Piera, Dacia Maraini, la mamma della Maraini, Irene Papas, i fidanzati di Piera, quelli di Dacia, Marco Ferreri, Pasolini. Recitava da ancella in “Medea”, testimone sul set della passione tra la Callas e Pasolini.
“Una passione reciproca. Ho letto le lettere che si scambiavano. Lei pazza di lui. “Non mi tiro indietro”, scriveva Pierpaolo. Li ho visti baciarsi”.
Pasolini e la Callas che si baciano. Non faccio in tempo a fantasticarci sopra.
“Le ho trovate!…”.
Lui non è al meglio nelle foto. L’occhialone alla Renato Zero, lievemente imbolsito e anche un po’ travolto dalla furia della giovane Piera che gli sta addosso come una polipa. “Guardalo…Guarda che torace. Lui mi guardava sempre le gambe. Era fatto così…Ora ti mostro la foto in cui ci baciamo con la lingua”.
Non la trova. Si dispera. Forse finge, ma nel suo caso è irrilevante.
“Ora sembra che io m’invento le cose…Nessuno ci crederà mai a questa storia del bacio”.
Mancano le prove.
“Non è mica un uomo da copione, Robert. Gli chiesi: cosa fai la sera a casa e lui: “Spengo tutte le luci e piango…”. Stavamo nel divano, mano nella mano. “Adesso è ora di andare a letto”, sospirai. “Questa è la proposta che volevo farti”, mi disse lui”.
Sbuffa. La foto con il bacio proprio non esce fuori dal mucchio.
“Ho i testimoni, ce lo siamo dato in bocca davanti a tutti. Gli sono piaciuta molto, anche di carattere…Abbiamo fatto un gran caos e non ho detto nulla di “Tutti pazzi per amore”, di nonna Clelia. Non ho detto che sto per fare la terza serie. Ma forse non si deve dire…Ormai l’ho detto…Ora cerco la foto e te la mando”.
Dacia Maraini per “La Stampa” il 15 agosto 2021. Se n'è andata una grande attrice e una grande amica. Da molti, troppi giorni stava chiusa in un letto di ospedale, con la speranza di uscire dalla maledizione di una tisi presa da ragazza che da ultimo era degenerata. Eppure quando saliva sul palcoscenico nessuno si accorgeva delle difficoltà di respiro di Piera, nessuno avvertiva la sua sofferenza. Il suo corpo si animava, la sua voce si faceva potente e seduceva chi la ascoltava. L'ho conosciuta in teatro e il nostro rapporto si è sviluppato fra teatro e letteratura. Con lei ho scritto due libri, Storia di Piera e Piera e gli assassini. Due viaggi nella sua vita di ragazza e nei suoi sogni dolorosi ma anche esplosivamente allegri, a volte libertini, a volte francamente comici, come quando interpretava i brevi testi surreali di Achille Campanile. Piera è stata una bambina docile in un mondo indocile, presa fra i deliri di una madre che andava in letargo di inverno e si svegliava con l'eros acceso d'estate, e un dolcissimo e coraggioso padre sindacalista. Aveva imparato presto a portare sulle spalle una croce, come ripeteva spesso. Ma aveva anche appreso che con la croce in spalla si può perfino non salire sul Golgota, ma scappare correndo per strade piene di spine e di sorprendenti sorprese amorose. Era sempre innamorata di un uomo che scappava. La sua gioia stava nel rincorrere e cercare di afferrare per la giacca chi l'amava ma stranamente le fuggiva. Innamorata dell'amore? Forse. Dove c'era da inventare e giocare, dove c'era da donare generosamente e pericolosamente, lei non si risparmiava. Più diventava popolare, più entrava nel mondo magico del cinema e della televisione, più si innamorava di uomini impossibili da raggiungere. Ma come le piaceva raccontare delle sue corse e dei suoi piccoli meravigliosi momenti di felicità! Ricordo un teatro in delirio, in una lontana città dell'Argentina. E come riusciva a superare la barriera della lingua straniera per farsi ascoltare e apprezzare nelle sue acrobazie verbali. Era un drago sul palcoscenico e un uccelletto sperduto nella vita. Infelice in amore ma felicissima nelle amicizie che erano numerose e fedelissime. Sono in tanti a volerle bene e a piangere oggi per la perdita di una amica ricca di grazia e di ironia, una amica che rimarrà con noi anche se si è messa in cammino per terre misteriose coi piedi gonfi e senza voce.
Morta Piera Degli Esposti, leggenda del cinema e del teatro. Rodolfo di Giammarco su La Repubblica il 14 agosto 2021. L'attrice scomparsa a Roma a 83 anni per complicazioni cardiache e problemi polmonari. Aveva lavorato con Pasolini, Bellocchio e Sorrentino. È calato il sipario sullo spettacolo radioso, geniale, conquistante, picassiano, drammatico e caustico di Piera Degli Esposti, sui magnifici 83 anni dell'attrice italiana che ha (ri)scolpito con le parole, col viso, e con la propria immagine spregiudicata e paradossale, una galleria senza fine di autori, di scuole registiche, di sperimentazioni moderne e di ripensamenti classici, rendendo stoica la comicità, e schizoide il repertorio serio. È morta, a Roma, all'ospedale Santo Spirito, per complicazioni cardiache e problemi polmonari, quest'artista nata a Bologna nel 1938, partecipe d'ogni genere di pionierismo teatrale e cinematografico che dagli anni Sessanta in poi segnò nella Capitale e in Italia l'avvento di culture, tendenze, filoni, flussi e nuovi linguaggi, giungendo in poco più di un decennio alla soglia popolare e intellettuale di portavoce imparagonabile di un Novecento sempre demistificato con gioia, reso meccanico contro ogni retorica, amato da tutti nella sua versione cantilenante. Ci ha privati del suo contagioso sorriso una creatura fuori del normale che lasciato tracce anomale personalissime, col suo marchio, col suo nome: pensate al romanzo autobiografico Storia di Piera scritto da lei assieme a Dacia Maraini nel 1980, a quell'enciclopedico e bel coffe table book intitolato nel 2014 Bravo lo stesso! - Il teatro di Piera Degli Esposti che le plasmò addosso Manuel Giliberti, o a quel romanzo (pieno di riflessi della sua vita, del suo quartiere al centro storico di Roma, del suo teatro, del suo gusto per l'intreccio) che nel 2020 s'è chiamato L'estate di Piera, scritto a quattro mani con Giampaolo Simi. Ma Piera è una leggenda per le avventure coraggiose, superbe e scervellate che lei, passo passo, ha inciso sui palcoscenici italiani, e anche sui set di film d'autore. Dei circa sessanta spettacoli cui questa ridondante e stoica ribelle ha preso parte, andrà ristudiato e valorizzato il gran lavoro cantieristico cui partecipò dal 1965 in poi al Teatro 101 di Roma diretto da Antonio Calenda, alle prese con testi di Boris Vian, Gunther Grass, Genet e Toller, insieme a Virginio Gazzolo e anche a 'Luigi' Proietti, finché Calenda la scritturò allo Stabile dell'Aquila per Operetta di Gombrowitz (dove lei parve una sagoma di Chagall) o per l'Orestea. A dirigerla, ancora lì, ne La figlia di Iorio di D'Annunzio, in Goldoni o in Shakespeare ci penserà poi un regista smagato come Giancarlo Cobelli. Ma è nelle mani di una ricercatrice come Ida Bassignano che Degli Esposti, nel frattempo in sodalizio artistico e privato con Tino Schirinzi, s'addentrerà nel 1978 nel terreno dissonante e frammentario a lei congeniale di James Joyce, per la pietra miliare del suo Molly cara dall'Ulisse. L'attende un destino fuori-dal-coro sempre più segnato, con quel lavoro che godrà di tantissime repliche e clamori. Attrice speciale ispiratrice di caparbie regie, progetti e alterità, Piera verrà ricordata a lungo (anche da chi scrive) per la sintesi fenomenale che il regista Massimo Castri conia nel 1980 riducendo Rosmersholm di Ibsen a un dialogo per una coppia, con Schirinzi, attraverso una parete. Lei ha comunque tante anime: entra col piede giusto ne La lunga notte di Medea di Corrado Alvaro, diretta da Werner Schroeter, porta al Beaubourg di Parigi la propria voce, duella memorabilmente con Luca Ronconi a Rimini nel 1984 in una prova aperta a due de I giganti della montagna, affronta Antigone con Tino Carraro (regia di Massimo Liguori Scaglione), si fa guidare da Furio Bordon in Zoo di vetro di Williams. E quando torna a una messinscena sodale di Calenda è per Madre coraggio, altrimenti per Sandro Sequi si misura con Berenice di Racine o, al Teatro Greco di Siracusa, con Alcesti di Euripide. È digressiva, flessuosa e mutante anche nell'esistenza quotidiana, questa campionessa teatrale del parlottio a sbalzi, delle sillabe sgranate, degli accenti antilirici. Dal 1993 ricorrono, per lei, alcune regie di Alberto Casari, più giovane di quasi tre decenni, con volto alla Gérard Philipe, compagno per 14 anni: firma il suo D.U.S.E., Le grandi tragiche, una Medea da Pasolini-Callas ideata da Bruno Tosi, un esplicito Omaggio alla Duse. Dopo, ancora una volta Degli Esposti accetta di affidarsi al suo mentore, Calenda, che la introduce a Raffaele Viviani, a La musica dei ciechi: le scansioni, i rallentamenti di pronuncia dell'attrice suggeriscono la scompostezza giusta. In fondo Eduardo l'aveva elogiata come "'o verbo nuovo". E con Calenda, accanto a Roberto Herlitzka e Gabriele Ferzetti, lei è in Prometeo di Eschilo, facendosi condurre con Herlitzka anche in Edipo a Colono di Cappuccio. Poi nel 1997 Calenda la trascina vistosamente (e con intuito) nella cultura della risata intelligente, con Un'indimenticabile serata da Achille Campanile. Altro notevole mutamento di pelle per Piera. Ora cattura tutti i pubblici. Ma un altro autore le riserverà un ennesimo cambio di marcia drammatico, da via crucis laica. L'anno dopo sarà la strabiliante protagonista di un a solo da incubo sociale di Antonio Tarantino, Stabat mater, che la regia di Cherif asseconderà con un tormentone rap. Le corde stralunate, acidule, arrochite, sghembe e stridule di Piera elaborano ormai vari lutti: Rappresentazione della Passione, gli Eschilo di Agamennone, Coefore, Persiani, Eumenidi. Ogni tema della tensione umana l'aspetta ne La lunga notte dei miti o in Regine d'Oriente, a cura di Manuel Giliberti. Noi la ricordiamo nel 2014 in panni di immortale Atena, ancora in Eumenidi, a Siracusa, diretta da Daniele Salvo. Nel mondo dell'opera lirica Piera ha diretto Lodoletta di Mascagni, La notte di un nevrastenico di Nino Rota, La voce umana di Poulenc. In oltre una quarantina di film, lei poteva vantare rapporti importanti con i fratelli Taviani (Sotto il segno dello scorpione), con Pasolini (Medea), con Nanni Moretti (Sogni d'oro), con Marco Ferreri (Il futuro è donna), con Lina Wertmüller (tre titoli), con Marco Bellocchio (L'ora di religione), con Giuseppe Tornatore (La sconosciuta), con Paolo Sorrentino (Il divo: fa la segretaria di Andreotti), con Giuseppe Piccioni, Giovanni Veronesi, Roberta Torre, Laura Morante. Tra gli ultimi suoi impegni in tv si contano lavori diretti da Riccardo Milani, tra cui la serie Una grande famiglia. Scandalosa, eccessiva, impudente, ricordava d'essersi poggiata un giorno a mangiare dolcetti in via Caetani, a Roma, appoggiata a una macchina rossa, senza sapere che quella era la Renault 4 rossa, usata dalle Brigate Rosse per trasportare, e far ritrovare, il corpo di Aldo Moro. Aveva memorie sempre scomode. Era fatta così. Ci mancherà a tutti. Molto.
Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 15 agosto 2021. La voce «attore» del dizionario Zanichelli è scritta da Piera Degli Esposti. Dice: «Io penso che l'attore abbia un compito nella vita, arduo ma splendido: quello di consolare. Consolarci dei nostri lutti, degli abbandoni, delle malattie, della vecchiaia e della morte. Per essere attori, quindi, non mi sembra sufficiente la bella dizione, la bella voce, la disinvoltura, l'elegante quanto narcisistico porgere, ma bisogna calarsi nel proprio buio profondo, per risalire poi portandosi alla luce». Sentite come Piera raccontava una delle giornate più drammatiche della storia repubblicana. «Dovevo andare a Siracusa, per recitare al teatro greco, nel ruolo di Elettra. Non stavo molto bene, i medici mi avevano consigliato di evitare l'aereo, di muovermi piuttosto in treno o in nave. Dunque chiesi all'amministratore dell'Istituto Nazionale del Dramma Antico di farmi avere i biglietti in via Caetani, nel centro di Roma, dove c'era la Fondazione del Teatro Greco. La mattina che arrivai per prendere questi biglietti, naturalmente ero da sola: tutti gli altri attori andavano in aereo. A via Caetani il portone era chiuso e sulla via c'erano solo due macchine. Una era una Cinquecento lontana e una era una Renault rossa, davanti agli scalini. Aspettando l'amministratore, che si chiamava Aristide Brusa, ero indecisa se sedermi sugli scalini o poggiarmi alla Renault che era lì. Decisi per la Renault. Passata un'ora e più, mi sono allontanata per andare al bar a prendere certe pastarelle e un caffè e poi tornare lì. Speravo sempre, verso mezzogiorno, di vedere apparire questo Aristide Brusa. Sono rimasta appoggiata alla Renault un'altra ora e più. Credendo che ormai Aristide Brusa non sarebbe più arrivato, visto che era l'ora di pranzo, vado a cercare il numero dell'Istituto del Dramma Antico su un elenco telefonico al bar Bernasconi, per dire che non avevo ricevuto i biglietti perché il portone era chiuso. Mentre sono lì a comporre il numero, sento tanta gente che urla "C'è Cossiga! C'è Cossiga!": il ministro dell'Interno stava arrivando a via Caetani. Si sentono tante sirene. Poi al bar accendono il televisore e vedo comparire la macchina su cui ero stata appoggiata tutta la mattina. La aprono e c'era dentro questo fagotto, che poi era Moro. Mi sento mancare. Mi viene a prendere la mia amica e collega Ida Bassignano, mi porta a casa sua e telefona a mio fratello Franco, che allora faceva il politico a Bologna: "Sono Ida Bassignano, le passo sua sorella". E lui furibondo: "Ma cosa vuole mia sorella, non è il momento, è successa una cosa terribile". "Ma è proprio di questo che sua sorella le deve parlare". Non mi credeva nessuno. Mi hanno convocato pure i magistrati del caso Moro, molto insospettiti: "Ma perché lei si è appoggiata proprio a quella Renault rossa?"».
La regina scalza del teatro fu sempre all'avanguardia. Stefania Vitulli il 15 Agosto 2021 su Il Giornale. Mai convenzionale, recitò in spettacoli passati alla storia. Fu anche popolare volto di tv e cinema. Non convenzionale nemmeno nelle autobiografie, Piera Degli Esposti, scomparsa ieri a Roma a 83 anni dopo una malattia per la quale era ricoverata già dal 1º giugno al Santo Spirito. Lei, pilastro del teatro, ma anche di cinema e tv, aveva lo scorso anno deciso di raccontarsi con un personaggio di commedia nera: in L'estate di Piera, uscito per Rizzoli nel 2020 e cofirmato con Giampaolo Simi, la sua omonima vuol mettere in scena Riccardo III al femminile (fu davvero un suo desiderio, per molto tempo). Una sfida in anticipo sui tempi, come molte altre così sue: ribaltare le regole del teatro, del bel vivere sereno e borghese, dello «spettatore addormentato». A rileggere quell'esercizio di autofiction, ultima di tante sue gioiose messe a nudo - inclusa quella dei suoi piedi, nudi e spensierati, per cui era diventata «la regina scalza» - si ritrovano le verità sentimentali che divennero talenti da ribalta: immaginazione galoppante, smodato coraggio, testardaggine acuta, ironia inarrestabile, figlia cara all'intelligenza. Per la leggendaria Piera, bolognese, classe 1938, queste verità sono state il tesoro più grande, il regalo che ha fatto ad Antonio Calenda forse prima che agli altri registi innumerevoli con i quali ha lavorato. Dal 1965, già matta e disperatissima per il palcoscenico, affrontò con lui, Nando Gazzolo e Gigi Proietti al Teatro 101 di Roma i testi di Boris Vian, Günter Grass, Jean Genet, Ernst Toller, dimostrandosi da subito una ribelle sì, ma di eccezionale cultura. Una cultura intrisa di complessità e soltanto ben mascherata dai gesti eccentrici e provocatori che l'hanno resa cara anche al grande pubblico. Perché seppe da subito rendersi riconoscibilissima, Piera, dando una chance anche alla malattia che l'ha seguita come un'ombra, fin da bambina, quando ebbe il primo pneumotorace: «Quando per la prima volta ho sentito quel dolore ai polmoni così lancinante, ho avuto paura. Ero spaventata, credevo di morire». I polmoni sono sempre stati un suo lato debole, potevano diventare invalidanti e invece proprio quella voce già sottile che avrebbe potuto perdere è diventata uno dei tanti fattori che l'hanno resa unica. Calenda alla fine la scritturò allo Stabile dell'Aquila, in cui rimase fino alla metà degli anni Settanta, e a quel punto fu lanciata: dopo di lui la diresse Giancarlo Cobelli in D'Annunzio, Goldoni e Shakespeare, poi la trovò e la formò Ida Bassignano e poi arrivò Tino Schirinzi. Era per un'opera di Alfred De Musset, Con l'amore non si scherza, che si incontrarono e il loro legame sentimentale e professionale durò dieci anni. Tutto, tentarono, per il teatro, compresa un'avventura di produzione, dalla quale nacquero Molly cara, Majakovskij, Trappole. Il progetto fallì, perché per andare in scena come si vuole i soldi non c'erano, allora come oggi. E però a Piera toccò l'incontro con Joyce e l'Ulisse e lei nel 1978 si incarnò magicamente in quella Molly Bloom che forse dentro di sé non lasciò mai più. Seguirono gli anni dell'avanguardia con Carmelo Bene con il quale coltivò una rarissima «sorellanza», come scrisse la critica, e approdò anche al cinema, con Pier Paolo Pasolini, Lina Wertmüller, Giuseppe Tornatore, i fratelli Taviani, Nanni Moretti, Marco Bellocchio, Paolo Sorrentino. Sul piccolo schermo aveva esordito nel 1966 con Il conte di Montecristo di Edmo Fenoglio e tra i nomi che la diressero ci sono Ugo Gregoretti con Il circolo Pickwick, Salvatore Nocita per I promessi sposi, Riccardo Milani per Le sorelle Fontana, Giacomo Campiotti per Ognuno è perfetto. Fu anche regista di opere liriche, mettendo in scena Lodoletta di Mascagni, La voce umana di Poulenc, Notte di un nevrastenico di Rota e una incestuosa e originale Mirra di Alaleona nel 2002 a Jesi. Non aveva bisogno di abbattere la quarta parete, non è mai esistita, per Piera Degli Esposti: la commedia era sul palco come nella vita quell'abbraccio di verità e leggerezza intelligente che dicevamo. Tanto che Eduardo De Filippo coniò per lei l'espressione «'o verbo nuovo». Tanto che quando dovette scegliere i testi per esibirsi al Teatro Valle occupato recuperò il suo repertorio di Achille Campanile, mica qualche noioso autore di protesta ombelicale. Tanto che la firma del film sulla sua vita - Storia di Piera, tratto dalla biografia-intervista con Dacia Maraini - toccò, nel 1983, all'intoccabile indipendenza di Marco Ferreri (per il quale Maraini e Degli Esposti scrissero poi la sceneggiatura di Il futuro è donna): Piera è Isabelle Huppert, sua madre Hanna Schygulla, suo padre Marcello Mastroianni. Ma la vera protagonista è la follia profonda di genitori ingenuamente instabili e la vera famiglia è l'arte, che l'aiutò a trovare un possibile equilibrio e la trasformò in indimenticabile «Drago», il cognome scelto per la Piera immaginaria descritta nel noir inventato con Simi. Stefania Vitulli
Lutto nel mondo dell’arte, morta Piera Degli Esposti. La grande attrice aveva 83 anni. Era ricoverata dal primo giugno per complicazioni polmonari. Il Dubbio il 14 agosto 2021. L’attrice Piera Degli Esposti, dotata di forte personalità e di una sensibilità esasperata, all’origine di uno stile interpretativo viscerale, è morta oggi all’età di 83 anni, all’ospedale Santo Spirito di Roma, dove era ricoverata dal primo giugno per complicazioni polmonari. La notizia della scomparsa è stata data all’Adnkronos dalla famiglia. Definita da Eduardo De Filippo «’o verbo nuovo», con la sua voce e il suo corpo, la sua vena anticonformista e spregiudicata, Piera Degli Esposti ha scritto un capitolo importante della storia del teatro e del cinema del nostro Paese, formandosi «con le donne», come amava ripetere, e mai con le accademie. Nata a Bologna il 12 marzo 1938, ha lavorato con Antonio Calenda, Giancarlo Cobelli e Ida Bassignano nel teatro; ha scardinato le convenzioni del teatro e attraversato l’avanguardia con Carmelo Bene; è stata diretta dai fratelli Taviani, Pier Paolo Pasolini, Lina Wertmüller e Giuseppe Tornatore nel cinema, Riccardo Milani e Giacomo Campiotti in tv. Ha vinto il David di Donatello per «L’ora di religione» (2002) di Marco Bellocchio e «Il divo» (2009) di Paolo Sorrentino. Nel 1980 ha collaborato con la scrittrice Dacia Maraini al libro «Storia di Piera», ispirato ai fatti della sua infanzia, da cui nel 1983 è stato tratto il film omonimo diretto da Marco Ferreri, con cui ha stretto un lungo sodalizio. Dopo essere stata respinta dall’Accademia di arte e drammatica, Piera Degli Esposti si butta anima e corpo nella recitazione, esordendo con Antonio Calenda, Gigi Proietti e Nando Gazzolo al Teatro dei 101, dove interpreta un ruolo maschile in «Dieci minuti a Buffalo» (1968). Si affermò come prima attrice al Teatro Stabile dell’Aquila, interpretando «La figlia di Iorio» (1971), «Antonio e Cleopatra» (1974) e «Molly cara» (1978, Premio Ubu come miglior attrice). Nel frattempo aveva ottenuto una piccola parte nello sceneggiato televisivo di Edmo Fenoglio «Il Conte di Montecristo» (1966). Piera Degli Esposti esordì cinematograficamente nel film di Gianfranco Mingozzi «Trio» (1967), poi lavora in «Questi fantasmi» (1967) di Renato Castellani e alterna ancora una volta la tivù alla settima arte, partecipando allo sceneggiato «Il Circolo Pickwick» (1968), di Ugo Gregoretti. Particolarmente amata da Pier Paolo Pasolini, recita per lui una piccola parte in «Medea» (1969), così come similmente farà per i fratelli Taviani, che la vogliono nel cast di «Sotto il segno dello scorpione» (1969). Non disdegna neanche i b-movie italiani dei primi anni Settanta, come ad esempio «Bisturi – La mafia bianca» (1973) di Luigi Zampa. Contemporaneamente, a teatro, continua a mietere grandi successi in «Elettra» e «Rosmersholm» (Premio Ubu come miglior attrice), entrambi del 1980. Nello stesso anno Dacia Maraini, sua grande amica, racconta la sua infanzia anticonformista e tragica nel romanzo «Storia di Piera» (prima edizione da Bompiani, poi ristampato da Bur Rizzoli). In seguito, lavora in «Assolo», «La più forte» e «Adelchi» con la collaborazione di Carmelo Bene. Diretta da Nanni Moretti in «Sogni d’oro» (1981), è protagonista del film di Cinzia Th. Torrini «Giocare d’azzardo» (1982). Poi avviene il fatidico incontro con Marco Ferreri che, innamoratosi totalmente di questa grande artista, la impiega non tanto come attrice, ma come sceneggiatrice per due dei suoi migliori film: la trasposizione cinematografica di «Storia di Piera» (1983) e «Il futuro è donna» (1984). nello stesso periodo si lega artisticamente a un altro grande nome del cinema, la regista Lina Wertmüller, che la dirigerà in «Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante di strada» (1983), con Ugo Tognazzi, «Il decimo clandestino» (1989) e «Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e di politica» (1996). Dopo essere stata Perpetua nello sceneggiato tv «I promessi sposi» (1989), duettando con Alberto Sordi nel ruolo di Don Abbondio, lavora sul palcoscenico del Living Theatre, poi porta nei teatri italiani «Lo zoo di vetro», «Madre Coraggio», «La musica dei ciechi», «Prometeo» e «Stabat Mater», dove interpreta una Madonna dei bassifondi. Nel 1996 è la travolgente protagonista in teatro di «Una indimenticabile serata» di Achille Campanile dove, diretta da Antonio Calenda, rivela la sua vis comica e irreale. Torna anche al cinema con «Nerolio» (1996) di Aurelio Grimaldi, ma è con «L’ora di religione – Il sorriso di mia madre» (2002) di Marco Bellocchio, nel ruolo della vivace e carismatica zia Maria di Sergio Castellitto, che vince il David di Donatello come miglior attrice non protagonista. Una vera riscoperta di questa attrice che diventa un volto molto riconosciuto anche per le nuove generazioni che la apprezzano nel film tv «L’inganno» (2003) di Rossella Izzo o la fiction a puntate «Diritto di difesa» (2004). Ex suora, ora proprietaria di un cinema porno, per Marcello Garofalo in «Tre donne morali» (2006), è di nuovo protagonista nella pellicola del grande Giuseppe Tornatore «La sconosciuta» (2006). Oltre al successo televisivo della serie musicale «Tutti pazzi per amore», dove recita accanto ad Emilio Solfrizzi, il 2011 è un altro anno di cinema per l’attrice: è nelle sale con «I bambini della sua vita» di Peter Marcias e «I baci mai dati» di Roberta Torre. Negli ultimi anni partecipa a diversi film, tra i quali «Cloro» (2015) di Lamberto Sanfelice, «Assolo» (2016) di Laura Morante, «Orecchie» (2016) di Alessandro Aronadio, «I santi giorni» (2017) di Rafael Farina Issas, «My Italy» (2017) di Bruno Colella e «Favola» (2017) di Sebastiano Mauri. Nel 2019 ha ricevuto il Premio Flaiano di teatro per la carriera.
Ha vinto il David di Donatello per "L'ora di religione" di Bellocchio e "Il divo" di Sorrentino. È morta Piera Degli Esposti, aveva 83 anni: ha fatto la storia del cinema e del teatro italiani. Elena Del Mastro su Il Riformista il 14 Agosto 2021. Era ricoverata all’ospedale Santo Spirito di Roma dal primo giugno per complicazioni polmonari. Non ce l’ha fatta Piera Degli Esposti, attrice, che si è spenta all’età di 83 anni. A darne notizia sono stati i familiari. Ha scritto un capitolo importante della storia del teatro e del cinema italiano. Eduardo De Filippo l’aveva definita “o verbo nuovo”, per la sua vena artistica anticonformista, il suo corpo e la sua voce. Si era formata “con le donne”, come amava ripetere, e mai con le accademie. Nata a Bologna il 12 marzo 1938, ha lavorato con Antonio Calenda, Giancarlo Cobelli e Ida Bassignano nel teatro; ha fatto la storia dell’avanguardia sul palcoscenico con Carmelo Bene; è stata diretta dai fratelli Taviani, Pier Paolo Pasolini, Lina Wertmüller e Giuseppe Tornatore nel cinema, Riccardo Milani e Giacomo Campiotti in tv. Ha vinto il David di Donatello per “L’ora di religione” (2002) di Marco Bellocchio e “Il divo” (2009) di Paolo Sorrentino. Nel 1980 ha collaborato con la scrittrice Dacia Maraini al libro “Storia di Piera”, ispirato ai fatti della sua infanzia, da cui nel 1983 è stato tratto il film omonimo diretto da Marco Ferreri. Esordisce nei panni di un uomo. È il 1965 e Antonio Calenda la sceglie per entrare nel “Teatro dei 101”, fucina dell’avanguardia teatrale romana, insieme a Gigi Proietti e Virginio Gazzolo. Da essere il marinaio in “Dieci minuti a Buffalo” di Gunter Grass, Piera Degli Esposti non si è più fermata. Sempre a suo agio nei ruoli più diversi, sbarca anche in televisione con l’originale televisivo “Il conte di Montecristo” diretto del 1966 da Edmo Fenoglio con Andrea Giordana che diventa il beniamino del pubblico della Rai. Un anno dopo è Gianfranco Mingozzi a farla debuttare al cinema con “Trio”, mentre nel ’68 compone insieme a Tino Buazzelli, Wanda Osiris, Fraco Parenti, Mario Pisu, il colorito cast del Circolo Pickwick che Ugo Gregoretti dirige in sei puntate televisive. Da allora è comparsa in una cinquantina di film, una ventina di sceneggiati, e protagonista a teatro per 50 anni. La amano i fratelli Taviani (Sotto il segno dello scorpione) e Pier Paolo Pasolini (Medea), Gianfranco Mingozzi e Lina Wertmuller (tra i suoi più grandi amici e complici), Giuseppe Tornatore (La sconosciuta) e Marco Bellocchio (L’ora di religione che le valse il primo di tre David di Donatello), fino a Nanni Moretti (Sogni d’oro) e Paolo Sorrentino (Il divo) in cui impersona la mitica e impassibile segretaria di Giulio Andreotti in una delle sue caratterizzazioni più celebri. In tv come non ricordarla nei panni della badessa dei Promessi sposi di Salvatore Nocita o in quelli di Clelia in Tutti pazzi per amore di Ivan Cotroneo. Piera ha amato molto ma non si è mai sposata. Di sé diceva: “Più che un’attrice sono una grande costruttrice di immagini: potrei mitizzare anche il primo gelataio che incontro per strada”. Mancherà il suo modo inimitabile di essere mille volti.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Piera Degli Esposti rip. Marco Giusti per Dagospia il 14 agosto 2021. Mi piacerebbe rivedere stasera “Storia di Piera”, il film che le dedicò Marco Ferreri, tratto dalla sua autobiografia cofirmata da Dacia Mariani, con Isabelle Huppert come Piera e Hanna Schygulla come sua madre. E mi piacerebbe rivedere “Il futuro è donna”, il film gemello, diretto un anno dopo da Marco Ferreri e ideato e scritto da Piera Degli Esposti assieme a Dacia Maraini. Film che allora ci apparvero strani, quando anticipavano solo i tempi. Ferreri vide in Piera Degli Esposti, scomparsa oggi a Roma a 83 anni, qualcosa che gli altri registi, soprattutto di cinema non vedevano. Bolognese, nata nel 1938, come Gigi Proietti, si forma al Teatro Stabile dell’Aquila. La troviamo nelle grandi regie di Antonio Calenda, “Operetta” di Witold Gombrowicz con Proietti dalla fine degli anni’60, ma anche nell’”Arden di Fabershan” con la regia di Aldo Trionfo nel 1971, ne “La pazza di Chaillot” di Girardoux diretta da Giancarlo Cobelli, ne “La figlia di Iorio”, “Antonio e Cleopatra”. Domina gli anni ’70 come protagonista del teatro più sperimentale, e vince nel 1978 il Premio Ubu, ideato da Franco Quadri, per “Molly Cara”. Mentre Proietti prende una strada di cinema, teatro e tv più popolare, Piera Degli Esposti, che aveva iniziato con la tv e il cinema dalla metà degli anni ’60, alternando “Il conte di Montecristo” di Edmo Fenoglio al censurato “Trio” di Gianfranco Mingozzi, una rilettura di “Questi fantasmi” di Renato Castellani al favoloso e innovativo “Il circolo di Pickwick” di Ugo Gregoretti, “Medea” di Pier Paolo Pasolini, “Bisturi, la mafia bianca” di Luigi Zampa a “Sogni d’oro” di Nanni Moretti, esplode però con i due film di Ferreri come paladina di un femminismo che il cinema italiano non aveva ancora trattato così in profondità. E’ una piccola rivoluzione che la riposizione tra le attrici italiane più interessanti del momento, anche se non troverà poi i progetti adatti per portare davvero avanti un discorso così forte sul ruolo della donna. La vogliono Cinzia Th Torrini per il ruolo da protagonista di “Giocare d’azzardo” e Lina Wertmuller per “Scherzo del destino…”, la vuole di nuovo Mingozzi per “Appassionata”, un film costruito su di lei, ma il cinema la recupererà solo negli anni ’90 in ruoli di signora anziana, un po’ da caratterista, anche se con “L’ora di religione” di Marco Bellocchio e “Il divo” di Paolo Sorrentino vincerà due David. Curiosamente, il cinema non solo la riscopre, un elenco che va da “Nerolio” di Aurelio Grimaldi a “La sconosciuta” di Giuseppe Tornatore, dove è bravissima, “L’uomo che ama” di Maria Sole Tognazzi, da “Genitori&Figli” di Giovanni Veronesi allo stracultistico “Il compleanno” di Marco Filiberti, ma la rende unica e indispensabile nel suo ruolo. Al punto che negli ultimi vent’anni ha un’attività cinematografica che non aveva mai avuto prima. Diventa una star in tv con “Tutti pazzi per amore”, la troviamo in opere prime come “Cloro” di Lamberto Sanfelice, nel divertente e folle “Favola” di Sebastiano Mauri, nello stracultissimo “Tre donne morali” di Marcello Garofalo, dove è una delle tre protagoniste, in “Assolo” di Laura Morante. Peter Marcias le dedica un documentario, “Tutte le storie di Piera” nel 2013. Un successo tardivo, ma importante, che la rende popolare e molto amata dal pubblico. In qualche modo la sua è una carriera esemplare, che l’ha vista toccare davvero tutto, nel teatro, nel cinema e nela televisione. Ma vorrei rivedere i film di Ferreri.
· E’ morto Enzo Facciolo, il disegnatore di Diabolik.
Morto il disegnatore di Diabolik. Francesca Galici il 13 Agosto 2021 su Il Giornale. Dalla sua penna nel 1963 è nata l'immagine attuale di Diabolik, Ginko ed Eva Kant: a quasi 90 anni si è spento Enzo Facciolo. A 89 anni si è spento Enzo Facciolo, lo storico disegnatore degli albi a fumetti di Diabolik fin dal 1963. Ricevette l'incarico dalle sorelle Giussani, le menti dietro l'origine del personaggio di fantasia al quale lui diede il volto tutt'ora noto. A ottobre avrebbe compiuto 90 anni. Ad annunciarne la scomparsa è stata la casa editrice Astorina con una nota stampa: "È una giornata di grave lutto per noi: il Maestro Enzo Facciolo ci ha lasciato. È stato figura fondamentale per la storia di Diabolik, ma oggi vogliamo ricordarlo soprattutto per la sua gentilezza e disponibilità. Chiunque l'abbia conosciuto sa che era uno degli ultimi gentiluomini. Lascia un grande vuoto in tutti noi dell'Astorina. Siamo vicini al dolore della moglie, dei figli e di tutta la famiglia. Addio Enzo". Enzo Facciolo è nato a Milano nel 1931. Qui ha frequentato la scuola d'arte del castello sforzesco e, una volta ottenuto il diploma, ha avviato un proprio studio di animazione. È sempre stato all'avanguardia e la sua attività sperimentale l'ha fatto notare dai grandi fratelli Pagot nel 1954. Ma è solo 5 anni dopo, nel 1959, che Enzo Facciolo ha disegnato il suo primo fumetto per le Edizioni Domai. Si intitolava Clint due colpi ed era una breve serie che, però, gli ha aperto le porte per quello che sarebbe poi stato il suo maggiore successo. Nel 1963 viene chiamato dalla casa Editrice Astorina e firma l'episodio numero 10, 'L'impiccato', di Diabolik. Il personaggio già esisteva ma le sorelle Giussani affidarono a Enzo Facciolo il difficile compito di uniformare l'immagine di tutti i protagonisti del fumetto, quindi è grazie a lui se oggi Diabolik, Eva Kant e Ginko hanno queste sembianze che, a distanza di 60 anni, non sono mai cambiate. Per Diabolik si ispirò ai tratti somatici di Robert Taylor, attore in voga tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ma è dalla sua fantasia che nacque l'iconico cappuccio aderente che caratterizza il personaggio, che inizialmente indossava un semplice passamontagna. Per Eva Kant, invece, la sua musa ispiratrice fu l'iconica Grace Kelly. "Mi sembra inaccettabile che Enzo Facciolo non sia più qui, pronto a parlare di qualsiasi argomento (preferibilmente non di fumetti) come facevamo da più di cinquant'anni. Con il Maestro se ne va una parte della mia vita", ha dichiarato Mario Gomboli, direttore di Astorina.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
· E’ morto Gino Strada.
Da corriere.it il 13 agosto 2021. Gino Strada è morto oggi, venerdì 13 agosto. Il fondatore di Emergency aveva 73 anni e soffriva di problemi di cuore.
Morto Gino Strada, una vita al fronte con Emergency: la Ong, Teresa e 11 milioni di pazienti. Mario Porqueddu su Il Corriere della Sera il 13 agosto 2021. Aveva 73 anni, nel ’94 con la moglie fondò Emergency. L’ultimo scritto sull’Afghanistan e l’avanzata dei talebani. Gino Strada, fondatore di Emergency, è morto a 73 anni. A volte ricordava di quando molti anni fa lo convocarono a Palazzo Chigi per discutere del dossier Afghanistan. «Tirarono fuori una cartellina con dentro quattro fogli e un reportage di Panorama — rideva —. Non avevano idea». E allora Gino Strada spiegò sul tavolo la mappa del Paese che usavano le truppe americane e iniziò a indicare le province e i nomi dei capi militari che le governavano. Amava l’Afghanistan, lo conosceva, ci aveva vissuto per 7 anni e proprio ieri la Stampa aveva pubblicato un suo articolo: «Dicevamo 20 anni fa che questa guerra sarebbe stato un disastro. Oggi l’esito di quell’aggressione è sotto gli occhi di tutti: un fallimento». Se n’è andato mentre i talebani si avvicinano a Kabul.
Un bravissimo chirurgo. Gino Strada è stato molte cose, attivista del movimento studentesco, personaggio pubblico, scrittore, anima di una Ong che è intervenuta dal 1994 in 18 Paesi del mondo, per alcuni un eroe (vinse il Premio Right Livelihood, il Nobel alternativo), per altri un grillo parlante... così tante cose che il rischio è scordarsi quella principale: era un bravissimo chirurgo. La vita l’ha passata provando a salvare quelle degli altri. Nato a Sesto San Giovanni, liceo classico al Carducci di Milano, dopo la laurea in medicina nel ’78 alla Statale si era specializzato in chirurgia d’urgenza: primo impiego all’ospedale di Rho, cardiochirurgia, poi chirurgia traumatologica. Pratica negli Stati Uniti, Stanford e Pittsburgh e ancora in Inghilterra e Sudafrica. Tra la fine degli anni Ottanta e il ’94 lavora con il Comitato internazionale della Croce Rossa, vola in Pakistan ed Etiopia, in Somalia e Bosnia. Durante una trasferta, diretto verso chissà quale scenario di crisi, è costretto a restare fermo a Gibuti in attesa di un visto. Sono in corso i campionati nazionali di bridge, trova un compagno, si iscrive e li vince. Poi riprende in mano il bisturi.
«È impossibile essere neutrali». Se osservi la vita da un lettino operatorio sul quale passano le vittime delle bombe a grappolo le tue prospettive cambiano. «Non si può essere neutrali», diceva. E si è schierato. Nel maggio del ’94, con la moglie Teresa Sarti e un gruppo di amici, ci sono Carlo Garbagnati e Giulio Cristoffanini, fonda Emergency, associazione umanitaria che vuole garantire cure mediche e chirurgiche gratuite e di qualità alle vittime della guerra, delle mine antiuomo e della povertà. Prima riunione per finanziarsi al ristorante «Tempio d’Oro» di Milano. A ogni anniversario di Emergency diceva di sognare il giorno in cui non ci sarebbe più stato bisogno di loro. Poi apriva un altro ospedale, questa volta in Africa. A fine anni ’90 scrive per Feltrinelli il libro-denuncia «Pappagalli verdi». Emergency cresce, grazie alla solidarietà di tantissimi donatori e grazie a Teresa che fa da presidente e media dove Gino romperebbe, cuce, tiene insieme.
Testimonial e sostenitori. Strada e i suoi chirurghi operano milioni di persone. E ne ispirano molte altre. Jovanotti, Ligabue e Piero Pelù destinano alla sua Ong i proventi del loro singolo contro la guerra. Gino Paoli gli fa da testimonial e al concerto lo vuole sul palco: «Io ti aiuto ma tu canti». Il chirurgo di guerra campione di bridge del Gibuti esegue, piuttosto bene, «Il cielo in una stanza». La borghesia milanese lo sostiene. A casa sua si incontrano fieri afghani e intellettuali occidentali, imprenditori e artisti. Diventa un riferimento per chi nel febbraio 2003 protesta per la guerra in Iraq. Cofferati porta a Roma oltre 3 milioni di persone e lo chiama a parlare alla piazza: «Quella volta — ammetteva — la voce mi tremò». Un giorno a Bagdad, in attesa dei bombardamenti, spiegava le sue strane e semplici regole: «Quando iniziano le esplosioni, nastro adesivo alle finestre e musica dei Pink Floyd». In una cucina del Kurdistan, a Erbil, mentre trattava per liberare gli italiani Agliana, Stefio e Cupertino ostaggi in Iraq, era capace di tirare fuori il Campari per farsi uno spruzzato all’aperitivo. Era un cittadino molto milanese del mondo. E se con i tre contractor la sua mediazione non andò a buon fine, ha riportato a casa Gabriele Torsello e il giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, finiti nelle mani dei talebani.
Emergency e le 11 milioni di persone curate. In tanti constatavano che aveva un brutto carattere, come capita alle persone di carattere. Resta il fatto che la sua Ong ha curato 11 milioni di persone. E lui ricordava sempre che oltre il 90% dei feriti nei conflitti sparsi per il mondo sono civili, spesso bambini. «È questo il nemico?» domandava. Sosteneva, semiserio, che non si può vivere lontani da un negozio di fiori. Gli piacevano. Chissà quanti ne ha portati a Teresa, prima che se ne andasse nel 2009. Era malato di cuore e il cuore lo ha tradito ieri in Normandia a 73 anni. Ora che anche lui non c’è più finisce la loro grande storia d’amore. «A giugno si era risposato con la dolce Simonetta» ha ricordato il sindaco di Milano Beppe Sala. Cecilia, la figlia, ha saputo della sua morte mentre prestava soccorso nel Mediterraneo: «Non posso rispondere ai tanti messaggi — ha scritto — perché sono qui, dove abbiamo appena salvato vite. È quello che mi hanno insegnato lui e la mia mamma».
Gino Strada, il ricordo della moglie: «Non gli piaceva la parola impossibile. Ci ha insegnato che la guerra non è mai la soluzione, ma sempre il problema». L’incontro con i feriti civili che segnò l’inizio della sua vita di chirurgo di guerra. L’avventura di Emergency per portare un ospedale in ogni parte del fronte e curare tutti. Il ricordo di chi gli è stato accanto. Simonetta Gola Strada su La Repubblica il 20 agosto 2021. Con chiunque parlasse per un po’ di tempo, prima o poi tirava fuori l’Afghanistan. L’argomento poteva essere la cardiochirurgia o i progetti contro il Covid-19: non importa, a un certo punto l’Afghanistan entrava nel discorso con naturalezza. Anche in casa, le fotografie della Kabul degli anni ’70, qualche monile dei Kuci, i tappeti mantenevano vivo il legame indissolubile con un luogo del cuore. Ci aveva vissuto 7 anni in tutto, ma non era una questione di biografia: quel Paese e la sua gente gli avevano lasciato un segno profondo. Forse perché erano stati l’inizio di tutto. La prima volta che Gino ha avuto a che fare con l’Afghanistan è stato nel 1989. Aveva deciso di provare a fare il suo lavoro di chirurgo in un Paese a basse risorse. Presentò il curriculum alla cooperazione italiana e ricevette la chiamata dopo pochi giorni. Doveva esserci stata una rinuncia improvvisa, ed era il suo il curriculum in cima alla pila. Venne mandato a Quetta, in Pakistan, dove arrivavano i profughi e i feriti afgani ai tempi dei combattimenti tra le forze ufficiali filosovietiche e i mujaheddin. L’impatto con quell’ospedale della Croce rossa internazionale fu spiazzante. Per un chirurgo eccellente, specializzato alla Scuola di chirurgia di urgenza del professor Vittorio Staudacher, con diversi anni di lavoro nelle Università di Stanford e Pittsburgh nei trapianti cuore-polmone, lavorare in un ospedale per feriti di guerra era un cambiamento radicale. Raccontava sempre che all’inizio non aveva il tempo di pensare. I feriti erano tantissimi, passava ore in sala operatoria, a volte giorni: tagliava, cuciva, tagliava, cuciva. Serviva quello. Affrontava l’emergenza e intanto aveva un grandissimo interesse per il suo lavoro, gli piaceva imparare e lì vedeva ferite che non aveva mai curato prima. Enormi, sconvolgenti. Scoprì lì, a Quetta, gli effetti delle mine antiuomo, vedendo un bambino con le mani bruciate dall’esplosione: «Erano diventate dei piccoli cavolfiori». A distanza di anni e di altre migliaia di feriti, quell’immagine lo turbava ancora. Dopo il primo periodo a testa bassa sul tavolo operatorio, iniziò a leggere i registri e vide che le vittime erano contadini feriti mentre badavano ai campi, commercianti dilaniati al bazar, donne e bambini colpiti mentre tornavano a casa. In 9 casi su 10, erano civili. Che cosa c’entravano i civili con la guerra? Gino non ha mai smesso di chiederselo per tutta la vita, neanche quando si dedicò anima e corpo ad altri progetti. L’incontro con quei feriti segnò l’inizio della sua vita di chirurgo di guerra: Pakistan, Etiopia, Tailandia, Perù, Gibuti, Somalia, Bosnia. Poi nel 1994 fondò Emergency e fu il tempo del Ruanda, dell’Iraq, della Cambogia. Nel 1999, durante la guerra civile tra talebani e Alleanza del Nord, Gino tornò in Afghanistan, nella valle del Panshir. Aveva una forte sintonia con il comandante Massoud, che guidava i mujaheddin dell’Alleanza. Uno stratega militare, ma anche un idealista, uomo colto e pragmatico. Durante una delle loro partite a scacchi, Massoud gli disse: «Se vuoi aiutare le donne afgane, non mi parlare di burqa, ma porta istruzione e lavoro. Il resto verrà da sè». E così è stato. I risultati straordinari del Centro di maternità in Panshir in termini di donne curate e che ci lavorano danno ragione a quella scommessa, che all’inizio era sembrata una follia, «la solita follia di Gino». Per Gino quei dati erano la conferma che la democrazia non si porta con gli F16, ma riconoscendo diritti e dando una possibilità di scelta alle persone. «Dai alla gente “qualcosa da perdere” e vedrai quanti metteranno da parte il kalashnikov». Massoud mise a disposizione una vecchia caserma e lì sorse il primo ospedale di Emergency in Afghanistan. Gino teneva profondamente a quell’ospedale e a quelle montagne – ai piedi dell’Hindukush – e costruì intorno all’ospedale una rete di Posti di primo soccorso per dare le prime cure a chi abitava troppo lontano. Cambiò la vita della gente della valle: l’ospedale offriva cure gratuite dove non c’era niente, e lavoro, e formazione; i Posti di primo soccorso aiutavano persone che altrimenti sarebbero state abbandonate a se stesse. Ho capito quanto era profondo l’amore di Gino per l’Afghanistan - e il Panshir in particolare – ancora prima di metterci piede. Bastava guardare la mappa dei Posti di primo soccorso: Shutul, Oraty, Anjuman... Villaggi sconosciuti sulle montagne più isolate, abituati a fare la conta dei morti alla fine dell’inverno, e che invece con Emergency sapevano dove chiedere un antibiotico o ricevere una medicazione. Non erano luoghi da telecamere o crocevia di organizzazioni internazionali: solo una persona innamorata di quella gente straordinaria e di quel Paese poteva averli scovati. Nella primavera del 2001, è stata la volta di aprire un secondo ospedale a Kabul e nel 2004 un terzo a Lashkar-gah, nel profondo sud. Un ospedale in ogni parte del fronte: era la sua filosofia, già da prima in Iraq, perché le cure fossero accessibili a tutti i feriti. Emergency non doveva – non poteva - essere accusata di privilegiare la popolazione di una parte sola. Questo è il principio che ha finora salvaguardato Emergency: curare bene tutti, senza distinzioni, nell’assoluta imparzialità. Dopo gli attentati dell’11 settembre, con Emergency e tanti altri, ci demmo da fare in ogni modo per evitare l’entrata in guerra dell’Italia, ma intanto Gino aveva deciso di partire alla volta dell’Afghanistan. Tutti i voli per Kabul erano stati cancellati per motivi di sicurezza, e allora intraprese un viaggio rocambolesco: Milano – Zurigo – Dubai – Karachi - Islamabad via aereo e poi da Chitral a dorso di cavallo per attraversare i passi montani più impervi, a 4.000 metri. Per uno che aveva già avuto un infarto qualche anno prima, in Iraq, l’altitudine e lo sforzo avrebbero potuto essere proibitivi, ma non aveva, Gino, nessuna simpatia per la parola «impossibile». Bisognava arrivare a Kabul e ci arrivò, ed Emergency fu l’unica ong occidentale a testimoniare la presa di Kabul. L’ultima volta che Gino è stato in Afghanistan era il 2018. Ci eravamo tornati insieme. Aveva ritrovato tanti vecchi amici e collaboratori, ma un Paese profondamente cambiato: nuove costruzioni in tutta Kabul e anche nella valle del Panshir le case di fango avevano lasciato spazio a ville con i vetri a specchio. Erano i soldi dell’oppio e della corruzione. Erano cambiate tante altre cose, ad esempio gli imponenti T-wall a separare la città degli internazionali da tutto il resto, gli attentati quasi quotidiani, che non aveva mai visto prima. Solo una cosa era rimasta la stessa: erano le vittime, i feriti, gente che con la guerra non c’entrava niente. Qualche mese prima dell’annuncio del ritiro delle truppe, Gino aveva previsto quello che poi è successo. Si continuava a stupire di quanto poco strateghi e militari internazionali conoscessero la storia del Paese: già nel 1996, i talebani avevano preso la capitale in un lampo. Gino aveva previsto tutto questo – la fuga delle truppe internazionali, il ritorno dei talebani più forti di prima, in casa e a livello internazionale, - ma non aveva nessuna soddisfazione a ricordarlo. Il suo pensiero costante erano le vittime – anche indirette - di questa guerra lunga 20 anni: chi non aveva da mangiare, chi non aveva la possibilità di farsi curare, i profughi. Oggi sono 5 milioni tra sfollati interni e richiedenti asilo e, a guardare i disperati tentativi di fuga da Kabul degli ultimi giorni, ce ne saranno presto altre decine di migliaia. Il bilancio di questa guerra è ormai definitivo e sotto gli occhi di tutti, eppure Gino non aveva fiducia che l’Occidente avesse imparato la lezione. «Dalle loro basi militari, non hanno mai visto la realtà della gente e non conoscono la storia, la cultura di questo Paese che è stato sempre il cimitero degli imperi», diceva. Sicuramente, dalle loro basi militari, hanno sempre ignorato la sofferenza di un corpo straziato dalle bombe e di chi lo deve operare. Gino era un chirurgo, di professione e per attitudine verso la vita. E da chirurgo, vedeva le cose in modo molto lineare. C’erano gli oleodotti, la geopolitica, le alleanze internazionali, certo, ma poi la guerra era una cosa molto più semplice: la differenza tra un corpo integro e uno ferito, tra la dignità dell’uguaglianza e la sopraffazione. E per questo, per Gino, la guerra non era mai la soluzione, ma era sempre – sempre - il problema. C’è ancora tanto da fare, Gino, e andremo avanti come tu ci hai insegnato. Continueremo a essere estremamente realisti e, allo stesso tempo, a coltivare l’utopia: continueremo a curare le vittime e a darci da fare per abolire la guerra.
Gino Strada, la rivelazione di Luigi Bisignani: "Miracolato da Berlusconi. La verità dietro Emergency". Libero Quotidiano il 20 agosto 2021. Gino Strada "deve la sua iniziale fortuna a Silvio Berlusconi". Parola di Luigi Bisignani, che in una lettera pubblicata sul sito di Nicola Porro scrive: "Abbiamo tutti appreso dal processo di beatificazione trasmesso in diretta a reti unificate, che Emergency è potuta nascere grazie ad un passaggio in tv da Maurizio Costanzo. La raccolta fondi fatta da Gino Strada nel suo giro di amici simil pensanti era stata sempre misera, ma il passaggio in tv, ovviamente autorizzato da Mediaset, fece il miracolo". Quindi, si chiede Bisignani, "chi oggi esalta Gino Strada ha l’onestà intellettuale di ringraziare Berlusconi e la tv commerciale per la possibilità che gli diede di realizzare i suoi sogni?". Di certo il medico "merita di essere ricordato come uomo per quello che ha fatto e non per quello che ha detto (o, peggio ancora, per quello che non ha mai voluto dire o fare). Ma torniamo ad Emergency. La sua ong nasce in contrapposizione alla Croce Rossa Internazionale, dove Strada si fece le ossa, che aveva già come suo obiettivo di curare le vittime delle guerre in uno spirito umanitario di assoluta neutralità. Questo a Strada non bastava più perché la Croce Rossa comunque riconosce i Governi nazionali e per i suoi critici non sarebbe quindi veramente neutrale, soprattutto in caso di guerra civile". Un'accusa che, ricorda Bisignani, è "alla base della nascita di Medici Senza Frontiere, vent’anni prima di Emergency". Le due ong sono "nate entrambe guardando all’Africa nera, non a caso, sono oggi entrambe impegnate davanti alla Libia per il recupero dei migranti in mare". Ma "senza Costanzo e Berlusconi, Gino Strada avrebbe potuto perseguire i suoi obiettivi lavorando per Msf. Grazie a loro ha avuto invece la sua visibilità personale, passaggio indispensabile per far decollare la sua ong ed avviare il percorso di beatificazione. MSF ha poi avuto il Nobel per la Pace, ma Gino Strada è diventato Santo subito".
Cecilia Strada: «Mio padre è morto mentre ero in mare a salvare vite». Benedetta Moro su Il Corriere della Sera il 13 agosto 2021. La 42enne si trova con la ResQ - People saving people in Libia, dov’è in corso un’operazione di salvataggio di 85 persone. «È quello che mi aveva insegnato». Su Facebook il messaggio agli amici che le scrivono per le condoglianze. Non era con lui, ma si trovava in Libia, in mare, a salvare vite con la ResQ – People saving people . Ottantacinque vite per l’esattezza, come le avevano insegnato il padre e la madre, Teresa Sarti. Cecilia Strada, 42 anni, la figlia di Gino Strada, medico e fondatore di Emergency, scomparso oggi a 73 anni in Normandia, non è riuscita a dare l’ultimo saluto al papà. A comunicarlo è stata lei dal suo profilo Facebook, dove ha risposto con unico messaggio alle tante persone che le hanno scritto per dimostrarle la propria vicinanza. «Amici, come avrete visto il mio papà non c’è più – scrive Cecilia sui social network -. Non posso rispondere ai vostri tanti messaggi che vedo arrivare, perché sono in mezzo al mare e abbiamo appena fatto un salvataggio. Non ero con lui, ma di tutti i posti dove avrei potuto essere...beh, ero qui con la ResQ - People saving people a salvare vite. È quello che mi hanno insegnato mio padre e mia madre. Vi abbraccio tutti, forte, vi sono vicina, e ci sentiamo quando possiamo».
L’impegno nella ong. Cecilia è stata presidente di Emergency fino al 2017 ed è stata impegnata a livello internazionale e ha seguito nel tempo le attività dei vari ospedali dell’organizzazione e ne ha curato i rapporti a livello locale, oltre a testimoniare come giornalista e sui media la sua esperienza. Nel 2018 ha ricevuto il Premio Nazionale Cultura della Pace.
L’operazione in Libia. L’operazione in cui è impegnata al momento avviene in una zona Ricerca e Soccorso (Sar) della Libia, dove l’equipaggio della ResQ Peolpe è al lavoro per assistere i naufraghi che si trovavano a bordo di una piccola barca di legno. L’equipaggio della ong prevede un team di professionisti e volontari che prestano soccorso con una nave di circa 40 metri e due gommoni: viaggiano 10 persone e nove tra medici e infermieri, soccorritori, mediatori, giornalisti e fotografi.
Marta Serafini per il “Corriere della Sera” il 15 agosto 2021. «Aspetta un secondo. Forse abbiamo avvistato un barcone». Cecilia Strada è in mare, in mezzo al Mediterraneo a bordo di ResQ, la nave della Ong fondata tra gli altri dall'ex pm del pool di Mani Pulite Gherardo Colombo. La comunicazione va e viene, di sottofondo la radio gracchia. L'altro ieri il team di ricerca e soccorso di ResQ ha salvato 84 vite umane durante la sua prima missione, proprio mentre a bordo arrivava la notizia più triste per Cecilia. «Siamo in osservazione, stiamo ancora in Sar Zone (la zona di ricerca e soccorso davanti alla Libia, ndr ), se non dovessimo effettuare altri salvataggi richiederemo porto sicuro e rientreremo». Suo padre se n'è andato da poche ore, migliaia di messaggi sono arrivati da ogni parte del mondo. «Credo di non potergli rendere omaggio in un modo migliore che salvando altre vite», è stato il suo primo commento a caldo. Per tutti era il dottor Gino. Per lei, ancora di più. «Il primo ricordo che ho di lui è di questo viaggio pazzesco coast to coast nei parchi del Nordamerica, lo avevamo raggiunto con mia madre mentre lavorava all'Università di Pittsburgh facevamo sempre un gioco, quello della famiglia degli orsi».
Che gioco era?
«Lo aveva inventato lui. Eravamo una famiglia di orsi che raccoglieva salmoni in un torrente immaginario. Per me - avrò avuto 4 anni o giù di lì - era divertentissimo. Giravamo in tenda. Mi vengono in mente risate, scherzi, era un papà felice».
La foto più cara insieme?
«Ah, difficilissimo dirlo. Lui era proprio appassionato di fotografia. Viaggiava sempre con due Nikon al collo e avevamo centinaia di foto tutti insieme. A un certo punto però ha avuto la grande idea di portare tutto in cantina, la cantina si è allagata e voilà . Ma restano i ricordi».
Poi suo padre ha iniziato a stare sempre più lontano, è arrivata Emergency...
«Ci sono stati periodi in cui lo vedevo tre volte all'anno. Chiamava, scriveva, certo. Addirittura c'era il box post office a Quetta, in Pakistan, al quale gli mandavo le lettere. Ogni volta che partiva avevamo questo rito: gli mettevo bigliettini ovunque nascosti nei bagagli così li avrebbe poi trovati man mano».
E quando tornava?
«Era una festa incredibile. Le sue valigie erano una festa, saltava fuori di tutto, anche paccottiglia presa nei mercatini. Mi ero andata a fare i buchi alle orecchie perché continuava a portare a casa orecchini di ogni tipo. Il regalo più caro è un pesciolino costruito con le cannule di una flebo che gli aveva dato il padre di un paziente bambino. Ma c'era anche la sua inquietudine continua. Ci scherzavamo sempre anche con la mamma: mentre era via non facevamo altro che chiedergli "quando torni". E poi quando tornava, "quando riparti?". Era il nostro gioco».
È mai stata gelosa del fatto che suo padre fosse altrove a curare altre persone?
«No, in realtà ne ero fiera. Con la mamma chiamavamo Emergency "il mio fratello più piccolo". Avevo 15 anni all'epoca e certo non è facile vedere qualcos' altro che si porta via tutta l'attenzione. Ma sono stata parte di quel momento. La prima centralinista di Emergency ero io che rispondevo al telefono di casa. Certo, poi c'erano i periodi in cui mi arrabbiavo e dicevo "perché nessuno qui mi si fila?". Ci ha tolto tempo e quotidianità ma ci ha dato anche tantissimo».
Suo padre era molto amato ma anche osteggiato, considerato burbero e troppo diretto, a volte. Che cosa ha ereditato del suo carattere?
«In positivo sicuramente la tenacia e l'ostinazione. In negativo, la tendenza a mettere in secondo piano gli affetti rispetto ai miei obiettivi e capisco quanto questo possa essere difficile per le persone che mi stanno intorno».
Dopo la morte di sua madre Teresa nel 2009, è diventata presidente di Emergency. Poi nel 2017 ha lasciato. All'epoca si parlò di dissidi con suo padre sulla gestione. Avete ricucito?
«È stato evidentemente un momento molto duro. L'impegno era diventato totalizzante e dunque anche il nostro rapporto passava attraverso quello, all'epoca. Poi uno prende fiato e capisce la differenza tra la missione e gli affetti. Al di là delle divergenze e delle diverse prospettive, l'amore non mi è mai mancato. Così l'ho chiamato e gli ho detto "ti va se ci vediamo senza parlare di Emergency?" e così è stato da quel momento».
Lei ha un figlio, cosa vorrebbe che gli rimanesse del nonno?
«Più che l'eredità spirituale mi piacerebbe che a Leone restassero i ricordi. Mio padre si è perso un bel pezzo della sua infanzia perché era spesso via in missione, così come è stato durante la mia adolescenza. Ma adesso vorrei che Leone conservasse questo, l'amore, l'affetto di suo nonno. E non soltanto l'idea del sacrificio che mio padre ha fatto per gli altri».
Estratto dell’articolo di Francesco Battistini per il “Corriere della Sera” - 26 gennaio 2019
Come fu la prima riunione, nel 1994?
«A casa mia a Milano, fino a ore tarde. Carlo Garbagnati, una ventina d’amici, non tanti medici (erano scettici). E la mia adorata Teresa, che sarebbe diventata insostituibile. Ci fu una cena al Tempio d’Oro, in viale Monza. Raccogliemmo 12 milioni di lire, ma volevamo cominciare dal genocidio in Ruanda e non bastavano. Ne servivano 250. Io dissi: beh, ragazzi, firmiamo 10 milioni di cambiali a testa... Per fortuna venni invitato da Costanzo e, puf, la tv è questa cosa qui: in un paio di mesi, arrivarono 850 milioni. Gente che mi suonava al campanello di casa, ricordo una busta con dentro duemila lire spillate». (…)
Paesi nel cuore?
«L’Afghanistan. E il Sudan: non ci credeva nessuno che si potesse fare cardiochirurgia in uno Stato canaglia. C’era una rivista di sinistra, Aprile, con un solone della Cooperazione che mi spiegava di che cosa c’era davvero bisogno in Sudan... Perché? Gli africani non hanno bisogno d’essere operati al cuore? La salute non è solo un diritto degli europei. Qui hai la tac e la risonanza magnetica, lì due aspirine e vai? L’eguaglianza dev’essere nei contenuti, non solo nelle idee».
Gino Strada, la figlia Cecilia lancia una frecciata a Salvini: "Difficile che possa dire quanto era str***o". Libero Quotidiano il 15 agosto 2021. Tante personalità che lo avevano criticato, compreso Matteo Salvini, hanno però voluto rendere omaggio al loro "avversario" Gino Strada. In segno di profondo rispetto e stima. Ma la figlia del fondatore di Emergency Cecilia non la vede così: "Sono in mezzo al mare, ho ricevuto mille messaggi di affetto ma non ho avuto modo d'intercettare quelli di chi amico non era e non mai perso l'occasione di criticarlo in vita", dice in una intervista a La Stampa. "Immagino ci sia un tema di marketing, difficile che chi lo osteggiava possa dire 'quanto era str***o'. È chiaro che per alcuni Gino sia più gradevole da morto: non dava mai fastidio quando rattoppava la gente in sala operatoria, ma ne dava parecchio quando denunciava le ragioni per cui doveva farlo". Del resto Gino Strada è stato molto amato e anche odiato. "Come molti uomini non era tipo da esprimere le sue emozioni, magari ti accorgevi che era nero ma raramente diceva di sentirsi ferito. Sofferente l'ho visto nel 2010 in Afghanistan, i giorni dell'incidente sulla sicurezza, quando le forze Nato arrestarono i nostri colleghi. Era offeso, furioso, veniva toccata con accuse infamanti l'operatività degli ospedali, la cosa per lui più importante. Era successo anche nel 2007, dopo il sequestro di Daniele Mastrogiacomo: ricordo che al telefono con i rappresentanti del governo italiano urlava come un matto contro la chiusura del suo ospedale a Kabul, pensavo gli scoppiasse il cuore, scrissi a Roma dicendo che li avrei ritenuti responsabili se gli fosse venuto un infarto". Era stato anche accusato di fiancheggiare i terroristi. "Se parliamo dei difetti di Gino beh, li conoscevo meglio di tutti. Ma mettere in discussione l'integrità del lavoro di Emergency quello no, una vergogna vera. Sempre le stesse calunnie, lo accusavano come accusano oggi me che soccorro i migranti in mare. Cosa nascondete? Chi c'è dietro? Chi vi paga? E Soros? Magari Soros ci aiutasse per davvero".
BIOGRAFIA DI GINO STRADA. Da cinquantamila.it - La storia raccontata da Giorgio Dell’Arti.
(Luigi) Sesto San Giovanni (Milano) 21 aprile 1948. Chirurgo. Fondatore di Emergency. «Ormai solo in una sala operatoria riesco a essere felice».
«Dal 15 maggio 1994 ha curato – gratis e con altissimi standard medici – 6 milioni di persone, una ogni due minuti. In 16 Paesi del mondo, quasi sempre teatri di guerra, dal Ruanda all’Afghanistan, ma anche in Italia. Come e perché inizia la storia di Emergency? “Eravamo una dozzina di amici, tutti già esperti di teatri bellici. Venivo dalla Croce Rossa internazionale, che aveva deciso da poco di tagliare gli investimenti in chirurgia di guerra: troppo pericolosa, troppo costosa. Volevamo fare qualcosa perché il bisogno di aiuto era enorme. Soprattutto, c’era il genocidio in Ruanda in quel momento”» (Matteo Gamba) [Vty 7/5/2014].
«È un comunista dalla cervice all’alluce. Nato nella rossa Sesto San Giovanni, è l’unigenito di Mario, operaio alla Breda, e di Pina, operaia della Osva. Iscritto alla facoltà di Medicina della Statale di Milano, entrò nel Movimento studentesco, attratto dalla sua ala più brutale, quella dei “katanghesi”.
Un mezzo migliaio di ceffi che si dichiaravano marxisti-leninisti o, in base ai gusti, stalinian-maoisti. Il capo politico della genia era Mario Capanna. Quello militare, Luca Cafiero. Gino era il vice di Cafiero e guidava i mazzieri del gruppo Lenin, quello di Medicina. Si distinse per zelo militante (…) L’idolo di Gino è stato Norma Bethune, un canadese degli anni ’30 del Novecento, che lasciò il comodo ospedale di Montréal per partecipare alla lotta civile spagnola come chirurgo delle Brigate comuniste. Poi, per il resto della vita, fu medico nei teatri di guerra del vasto mondo. Seguendo il modello, Strada si specializzò in medicina d’urgenza. stato in Sud Africa con Barnard, il decano dei trapiantologi, e negli States per perfezionarsi. Perse di vista il primo e rinnegò i secondi. Assunto dal nosocomio di Rho, si sentì un pesce fuor d’acqua. Le malattie borghesi non gli bastavano più. Voleva alleviare le grandi sofferenze. Nel ’93, nacque Emergency e il duplice Strada che conosciamo: medico generoso e ideologo ributtante» (Giancarlo Perna).
In Afghanistan dal 1999, dunque prima che le stragi dell’11 settembre 2001 lo mettessero al centro dell’attenzione mondiale, nel 2007 ebbe un ruolo determinante nella liberazione di Daniele Mastrogiacomo, giornalista di Repubblica finito nelle mani dei Talebani. Poiché un suo collaboratore impegnato nella trattativa finì arrestato con l’accusa di essere complice dei sequestratori, ebbe un duro scontro col governo Prodi e il ministro degli Esteri Massimo D’Alema. Carlo Garbagnati, vicepresidente di Emergency: «Ci ha messo più di un’ora per convincere il nostro Ramatullah Hanefi ad andare a trattare per la liberazione di Mastrogiacomo. Lui non voleva, si era già esposto per Torsello, diceva che era rischioso. Ma poi Gino l’aveva convinto...». Giovanni Cerruti: «Emergency e Gino Strada, in tutti questi anni, si sono sempre occupati di malati e basta, “mai chiesto a nessuno chi fosse, se guerrigliero o no”. Così negli ospedali afghani come in quello di Sulaimanya, dove venivano ricoverati i “peshmerga” delle fazioni del clan Barzani o dell’Unione Patriottica del Kurdistan di Jalal Talabani, che si combattevano sulle colline. Curavano loro e curavano i bambini, che saltavano per aria sulle mine di fabbricazione italiana mentre giocavano per strada». Il suo stesso ruolo nella mediazione che portò al rilascio di Mastrogiacomo (in cambio della liberazione di cinque talebani, e con un interprete e un autista del reporter italiano uccisi nella fase finale del sequestro) fu oggetto di forti polemiche: Arturo Parisi, allora ministro della Difesa, parlò di «grave errore» e di «sfregio all’immagine dello Stato» (Strada aveva chiesto l’allontanamento degli uomini dei servizi segreti), Pier Ferdinando Casini di «gestione del sequestro privatizzata a beneficio del protagonismo di Gino Strada e di Emergency». La sua risposta: «Sono loro del governo che m’hanno chiamato... Tutti scandalizzati, adesso. Perché non hanno avuto i c... di dirlo dieci giorni fa, che non bisogna trattare coi talebani, quando a Daniele stavano tagliando la gola?».
Nel maggio 2007 il governo di Kabul ha di fatto espropriato gli ospedali fondati in Afghanistan da Emergency, riaprendo poi in giugno quello di Kabul dopo il proscioglimento di Ramatullah Hanefi.
Nel 2010 ebbe una dura polemica con i governi italiano e afghano per l’arresto di tre volontari di Emergency (poi rilasciati) nel Paese asiatico: «Un tentativo di screditarci».
Schierato col presidente del Sudan Omar al Bashir, ricercato dal tribunale penale internazionale, poi contro l’intervento internazionale in Libia nel 2011.
«Non distingue tra chi provoca l’attentato dell’11 settembre e chi reagisce all’aggressione con la guerra afghana. Perciò: “È un dovere morale essere contro gli Usa, l’Occidente, la coalizione di cui l’Italia fa parte”. Poi, si meraviglia se Karzai gli dà del talebano. Altre perle: “Gli Usa hanno praticato sistematicamente il terrorismo di Stato provocando centinaia di migliaia di vittime in tutti i continenti”; “Affermare che l’America è una democrazia è un insulto: basta chiederlo alle migliaia di desaparecidos arrestati dopo l’11 settembre e ai prigionieri di Guantanamo”. Con questo armamentario ideologico, Gino è diventato il cocco dei pacifisti nostrani. Non a caso nella elezione 2006 per il capo dello Stato, alcuni parlamentari di quella parrocchia hanno scritto il suo nome sulla scheda. Il dottore ha dei fan anche tra i cattolici. Per i Gesuiti è un santo laico. Una loro rivista, Popoli, si sdilinquisce: “In valigia gli attrezzi chirurgici e la solita immensa solidarietà”» (Giancarlo Perna) [Grn 13/4/2010].
«Come si fa a non rispettare uno come Gino Strada, che dall’87 ha operato decine di migliaia di persone dal corpo devastato sui fronti di guerra dell’Iraq, dell’Afghanistan, della Cambogia o della Sierra Leone con quel coraggio dei visionari che spinse lo stesso Clemente Mimun, allora direttore del Tg2, mille miglia da lui lontano politicamente, a definirlo “un eroe italiano”? Come si fa a non essere orgogliosi di essere cittadini di un Paese che, oltre ai medici che si facevano coprire di regali e tangenti dai fabbricanti di valvole cardiache brasiliane o portare nei week end in Costa Azzurra e in Corsica dall’aereo personale di Giuseppe Poggi Longostrevi, verso i cui laboratori dirottavano i pazienti, ha prodotto un chirurgo vero e perbene come lui, che pur essendo uno dei migliori allievi del professor Vittorio Staudacher e pur potendo diventare miliardario e avere barche e piscina, si vanta di non “aver mai fatto in tutta la vita una sola visita a pagamento”? Come si fa a non inchinarsi davanti a un uomo che, certo, è finito anche al Costanzo Show e nella classifica dei best-sellers e magari va pure a presentare qualche libro con Cochi (ex Cochi&Renato), ma ha passato e passa gran parte del suo tempo lontano dai riflettori, assediato dal fango o dalla siccità, dal gelo o dal caldo infernale, in ospedali fuori dal mondo dove è chiamato ogni giorno, per la povertà dei mezzi e la penuria del sangue per le trasfusioni, a scegliere “in pochi istanti chi operare e chi no” reggendo al trauma del “ferito che ti guarda negli occhi e tu devi dirgli: ‘No, opero prima l’altro’ accumulando un rimorso che non puoi lavar via”?» (Gian Antonio Stella).
«Il suo pacifismo è una grande operazione di marketing e perciò tutt’altro che velleitario. È una macchina per produrre consenso e sostegno, nazionale e internazionale, anche finanziario, alla propria opera di “chirurgo di guerra”, ovunque ci sia una guerra, indipendentemente da chi la combatta e perché. Egli è animato dalla stessa, grande ambizione personale di tutti i predicatori e i facitori del bene di tutti i tempi. Una sorta di madre Teresa di Calcutta, un po’ più chiacchierona. In versione laica, egli assomiglia a quei capitalisti-filantropi, meno chiacchieroni, che in passato hanno finanziato e fatto finanziare dai loro amici la costruzione di ospedali, case di riposo e quant’altro. Lui i soldi, di suo, non li ha. Per indurre gli altri a impegnarsi, ci mette la sua opera di chirurgo e la sua predicazione pacifista. Conosco gente che, pur non condividendo una sua sola parola, lo ha finanziato e continua a finanziarlo» (Piero Ostellino).
Nel settembre 2007 altra polemica perché Emergency rifiutò l’incasso di una manifestazione erotica offerto in forma di donazione da Corrado Fumagalli, presentatore della trasmissione tv Sexy Bar. «Il binomio sarebbe stato imbarazzante (...) Accettando la sua offerta rischiavamo di scontentare molti altri nostri sostenitori».
Al corteo per la libertà di scelta sulla sorte di Eluana Englaro nel 2009, al fianco delle proteste dei metalmeccanici (fece anche visita ai tre dipendenti di Wagon Lits su una torre della Centrale di Milano); e ancora: schierato con Umberto Veronesi per il disarmo mondiale e contro il finanziamento riconosciuto dal Comune di Bologna alla scuola d’infanzia paritaria a gestione privata.
«Ho votato una volta sola negli ultimi decenni, per il sindaco di Venezia nel 2010». «Esteticamente incompatibile» fu il suo giudizio su Renato Brunetta, candidato del centrodestra.
Secondo classificato nelle quirinarie lanciate da Beppe Grillo per individuare il candidato del M5s per il Colle nel 2013. Come Milena Gabanelli, arrivata prima, rinunciò alla designazione: «Sono più utile al Paese continuando a lavorare per Emercency».
Il suo nome circolò anche nella formazione del governo Renzi: «avrebbe rifiutato la Salute offertagli dal premier in pectore» (Monica Guerzoni) [Cds 23/2/2014].
Visto alla cerimonia degli Oscar 2013, per divulgare la causa di Emergency.
Propose le sedi in Sudan o Afghanistan di Emergency come luogo dove Silvio Berlusconi scontasse l’affidamento ai servizi sociali.
Vedovo di Teresa Sarti, che è stata presidente fino alla morte (1 settembre 2009). «Ci eravamo sposati nel 1971 dopo un fidanzamento di qualche anno. Sa, avevamo cominciato da ragazzini molto precoci…». Una figlia, Cecilia, e un nipote, Leone.
Interista.
Marta Serafini per il “Corriere della Sera” il 14 agosto 2021. «Io non credo nel destino ma non posso non notare la coincidenza. Mi hanno detto che mio padre non c'era più proprio mentre stavamo salvando 85 vite umane». Cecilia Strada, 42 anni, figlia del fondatore di Emergency Gino Strada, si trova in queste ore nel Mediterraneo centrale a bordo di ResQ, nave della Ong fondata nel 2019, tra gli altri, dall'ex pm del pool di Mani Pulite Gherardo Colombo e partita il 7 agosto per la sua prima missione di ricerca e soccorso di migranti.
Per suo padre sono arrivati migliaia di messaggi, compreso quello del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Qual è quello che l'ha colpita di più?
«Non sono ancora riuscita a leggere tutto perché sono al lavoro in mare e siamo ancora in Sar Zone (la zona di ricerca e soccorso di fronte alla Libia, ndr ) ma è chiaro che l'affetto sentito in queste ore non può che fare piacere. Questo ovviamente non allevia il dolore che provo, lo stesso che ho sentito quando morì mia madre (Teresa Sarti Strada è mancata nel 2009 dopo una lunga malattia, ndr ). È come se ti amputassero un arto. Non ricresce ma poi, piano piano, ricominci a camminare e poi magari anche a correre. Sarà così anche questa volta, ne sono sicura».
Che eredità le ha lasciato suo padre?
«Mi ha insegnato, lui insieme a mia madre, che bisogna fare tutto quello che si può per aiutare chi è in difficoltà, senza eroismi e senza protagonismi. E mi ha insegnato che questo dovere è in primis verso noi stessi perché solo così possiamo dire di aver dato un senso alla nostra esistenza. Ed è per questo che oggi sono qui in mare. Ed è lo stesso motivo per cui oggi sento il suo abbraccio più forte che mai».
Quali sono le sue parole che le sono rimaste più impresse?
«Una volta eravamo in un centro di cardiochirurgia e parlavamo di come ci si sente quando muore un paziente. Lui mi disse "ricordati che prima o poi vince la morte". Però la morte può vincere una volta sola, la vita ogni giorno. Per mio padre oggi ha vinto la morte, però oggi in tanti altri posti ha vinto la vita».
Suo padre viene a mancare proprio mentre infuria l'avanzata dei talebani su Kabul e sull'Afghanistan, un Paese al quale lui era particolarmente legato e per il quale si è speso...
«Già, anche questo mi sta dando da pensare. Proprio in queste ore riceviamo messaggi disperati dagli amici afghani che ci hanno aiutato a salvare vite umane a Kabul e Laskhar Gah o in Panshir, dove si trovano gli ospedali di Emergency. Scrivono: oggi siamo ancora vivi, lasciando intendere che forse domani non sarà più così. Ed è terribile, fa rabbia e lascia sgomenti».
Che cosa vi siete detti con il dottor Gino l'ultima volta che vi siete sentiti?
«Dovevo chiamarlo prima di imbarcarmi poi non ci siamo parlati. Ma le ultime frasi che ci siamo scambiati quando ci siamo visti erano belle, felici, tranquille. Avrei voluto chiamarlo stasera per dirgli di questo salvataggio che lo avrebbe sicuramente reso felice. Ma non c'è più».
Gino Strada. Aveva denunciato i guasti dell’intervento armato, lo avevano bollato come “anima bella”. L’epilogo di un disastro annunciato è la conferma della bontà delle sue ragioni. Il ricordo del direttore de L’Espresso: «Era un leader naturale, un obiettore totale. Rifiutava l’idea di arruolarsi sotto qualunque bandiera». Marco Damilano su L'Espresso il 13 agosto 2021. Se n'è andato mentre l'Afghanistan torna al punto di partenza, come lui ha denunciato per venti anni, l'ultima volta questa mattina, sulla Stampa. «Questa situazione non sorprende nessuno che abbia una conoscenza dell'Afghanistan o almeno buona memoria. Mi sembra che siano sempre mancate», ha scritto Gino Strada nel suo ultimo articolo. Lui conosceva bene e ricordava. Ricordava che chi si era opposto venti anni fa all'intervento americano e atlantico era stato accusato di essere «un traditore dell'Occidente, un amico dei terroristi, un'anima bella». Lo avevano chiamato tante volte così, le sentinelle dell'esportazione del sistema occidentale in armi, i cupi guardiani della realpolitik che tradivano, loro sì, i valori della democrazia e le ragioni dell'umanità, per ritrovarsi oggi con questo pugno di macerie in mano, il disastro annunciato costato, cito i dati riportati da Gino, 2mila miliardi di dollari, 8,5 miliardi di euro per l'Italia, 241mila vittime, 5 milioni di sfollati. Quando faremo la storia di questi venti anni dovremo chiederci chi sia stato più utile al terrorismo internazionale e chi no, e chi siano state le vere anime belle. Io preferisco, in questo momento di dolore, ritornare a una mattina a Firenze, al social forum di Firenze, novembre 2002. Quel giorno eravamo in tanti, tantissimi ad ascoltare il dottor Gino Strada, c'era una folla immensa all'incontro che anticipava la manifestazione finale del sabato pomeriggio. Aveva lavorato per anni con la Croce rossa in paesi in conflitto, in Pakistan, Etiopia, Perù, Somalia, Bosnia e naturalmente in Afghanistan, prima di fondare Emergency. In quel momento il dottor Strada era ancora giovane, aveva 54 anni, sul palco sembrava occupare con la sua presenza ogni spazio, aveva il carisma immenso di chi è rimasto al suo posto. Aveva le mani grandi con le dita sottili usava per operare, risanare, ricucire. Le mani parlavano, denunciavano, gridavano. Sembrava uscito da una pagina di Hemingway. Qui si parlava di bombardamenti chirurgici, disinfettati e puliti, lui vedeva arti lacerati, volti sfigurati, la mostruosità, l'orrore. Era un leader naturale per quel popolo che rifiutava la normalità della guerra all'alba del nuovo millennio, l'unico possibile. Ma lui rifiutò sempre ogni incarico e qualsiasi candidatura. Non avrebbe mai accettato di indossare una divisa o di finire sotto un simbolo. Non si è mai arruolato sotto nessuna bandiera, di nessuno Stato, di nessuno schieramento politico, di nessun partito, fosse stato anche il suo. Non poteva essere strumentalizzato da nessuno, anche se in tanti hanno cercato di farlo. Non si poteva usare con lui, oggi meno che mai, una di quelle metafore belliche che lui respingeva, come quelle sparse a piene mani nei primi mesi del Covid-19, a proposito di guerra da vincere, in prima linea, caduti sul fronte, trincee in corsia e così via. E per questo mi ha colpito che proprio questa mattina avesse scritto che solo chi soffriva tra la popolazione afghana e chi lavora ad esempio negli ospedali e tra lo staff di Emergency potessero essere definiti «veri “eroi di guerra”». Era una rivendicazione: ecco da che parte sono, ecco da che parte sono sempre stato. Gino non è mai stato neutrale. È stato un uomo straordinariamente di parte in un'epoca di mezze stagioni. E dunque divisivo, discusso, attaccato dai cultori dello stato di guerra che non è una questione da militari ma la sintesi di tutti i mali: l'intolleranza, la chiusura verso il diverso, la concezione della politica come ricerca di nemici da eliminare. «Non sono pacifista, sono contro la guerra», non ha mai smesso di ripetere. Un obiettore totale. E insieme un combattente, tenace, fiero, indomabile. Era da una parte sola: le persone in carne, ossa, sangue. Ferite da asciugare, piaghe da ripulire. I corpi da salvare. E lo strazio dell'anima che non sarà sanato mai. Gli inermi, gli innocenti, le vittime civili e indifese dei bombardamenti chirurgici, dei cinismi di Stato, delle opinioni pubbliche da manipolare. Essere da quella parte non significava fare l'anima bella o la pura testimonianza, ma fare politica, nella forma più radicale. Battersi contro le spese militari, contro i governi che ingannano i loro popoli, contro la privatizzazione della sanità, che è come privatizzare la vita, la più grave e iniqua forma di disuguaglianza. La sua ultima battaglia è stata l'accesso al vaccino universale per tutti. «Anche quando questa pandemia sarà finita dovremo continuare a lottare perché la salute rimanga un diritto umano. Essere curati è un diritto universale e un bene comune, una responsabilità pubblica». Ho visto Gino Strada l'ultima volta quasi un anno fa, a fine settembre, in un luogo simbolico, nell'archivio dell'ospedale Policlinico di Milano, Ca' Granda, dove furono accorpati i centri di cura dal primo aprile 1456, l'embrione della sanità pubblica. Eravamo circondati da faldoni, con tutta la lunga storia della medicina lombarda. E in uno dei fascicoli c'era anche lui, c'era la scheda del dottor Gino Strada, che aveva cominciato da lì come giovanissimo medico chirurgo, la prima sede in Europa di specializzazione in chirurgia d'urgenza. Eravamo lì per registrare il primo momento del festival di Emergency organizzato in collaborazione con l'Espresso. Le mani erano diventate ossute, la voce più flebile, gli occhi incavati ancora più acuti e ancora più buoni. Sembrava fragile, era inflessibile. Alla fine della nostra conversazione mi venne in mente di chiedergli di spedire un messaggio al dottor Gino Strada giovane che da lì era partito. Mi rispose: «Ho fatto il mio lavoro di chirurgo tutta la vita, ma sono sempre riuscito a stare fuori dalla logica del profitto. La grande, impareggiabile soddisfazione di aver dato una mano a qualcuno, questa gioia è il prezzo per il medico». Con Emergency ha dato una mano a decine di milioni di pazienti curati dal 1994 in poi in 17 paesi in guerra, attorno a Emergency ha costruito un movimento di attivisti che da oggi ha una responsabilità in più. Io ricordo la paziente autoironia con cui portava addosso l'ammirazione di tutti quelli che lo consideravano un profeta, l'unico profeta laico che abbiamo conosciuto. La gentilezza, la disponibilità con cui ha sempre risposto a ogni richiesta, senza risparmiarsi, perché la vita si getta nel mondo, si spende, si consuma. Anche questa una lezione che oggi ci affida Gino Strada, medico, fratello nostro, partigiano dell'umanità.
Gino Strada, è morto il fondatore di Emergency: aveva 73 anni. Asia Angaroni il 13/08/2021 su Notizie.it. Gino Strada, fondatore di Emergency, è morto a 73 anni. Soffriva di problemi di cuore. Con la sua Ong ha costruito ospedali e posti di primo soccorso. Gino Strada è morto a 73 anni. Il famoso fondatore di Emergency soffriva di problemi al cuore. Una vita spesa per i diritti umani al fianco delle vittime delle guerre. Cercava soprattutto i civili indifesi, offrendo rifugio alle tante persone in difficoltà. Non faceva distinzioni tra amici e nemici, ma nelle guerre stava sempre dalla parte degli sconfitti. È stato colpito dalla morte come fosse un agguato.
Gino Strada, morto il fondatore di Emergency. È morto in Normandia, dove si trovava da tempo. Se n’è andato a 73 anni il padre della famosa Ong che in 25 anni ha costruito ospedali e posti di primo soccorso in 18 Paesi. Due anni fa, intervenuto sulle pagine del Corriere della Sera, il chirurgo aveva detto: “Non chiamatemi pacifista, nel mondo umanitario c’è molto dilettantismo”. Venticinque anni fa il medico, attivista e filantropo e la moglie Teresa Sarti fondarono la Ong italiana Emergency. A dare la notizia della sua scomparsa è stata la famiglia di Gino Strada. Il padre di Emergency aveva problemi di cuore. Proprio venerdì 13 agosto, quando è stata diffusa la notizia della sua scomparsa, ha firmato sul quotidiano La Stampa un commento sulla situazione in Afghanistan intitolato “Così ho visto morire Kabul”. Descrivendo la situazione in Afghanistan, scriveva: “Non mi sorprende. La guerra all’Afghanistan è stata – né più né meno – una guerra di aggressione iniziata all’indomani dell’attacco dell’11 settembre, dagli Stati Uniti a cui si sono accodati tutti i Paesi occidentali”.
Gino Strada morto a 73 anni, la sua carriera. Nato a Sesto San Giovanni il 21 aprile 1948, all’anagrafe Luigi, Strada si era laureato in Medicina e Chirurgia all’Università degli Studi di Milano nel 1978, per poi specializzarsi in Chirurgia d’Urgenza. Ha ottenuto una specializzazione in chirurgia cardiopolmonare negli Stati Uniti durante gli anni Ottanta, per poi indirizzarsi verso la chirurgia traumatologica e la cura delle vittime di guerra. Negli Usa ha lavorato alle università di Stanford e Pittsburgh, nel Regno Unito all’Harefield Hospital, fino al Groote Schuur Hospital di Città del Capo (Sudafrica), l’ospedale del primo trapianto di cuore di Christiaan Barnard. Gino Strada ha lavorato al fianco del Comitato internazionale della Croce Rossa. Tra il 1989 e il 1994 è stato impegnato in varie zone di conflitto: Pakistan, Etiopia, Perù, Afghanistan, Somalia e Bosnia ed Erzegovina. È così che nasce Emergency, fondata da Gino Strada, la moglie teresa e un gruppo di colleghi. L’associazione umanitaria internazionale è da sempre impegnata nella riabilitazione delle vittime della guerra e delle mine antiuomo. La Ong è sempre stata fondamentale per garantire assistenza gratuita a milioni di pazienti.
Gino Strada è morto per problemi di cuore: i messaggi di cordoglio. Tra i molti messaggi di cordoglio, c’è quello del ministro della Salute, Roberto Speranza. “Difendere l’uomo e la sua dignità sempre e dovunque. Questa la lezione più bella di Gino Strada che non dobbiamo dimenticare mai. La mia vicinanza ai suoi cari e a tutta Emergency”, ha scritto sui suoi social.
La grandezza di Gino Strada: essere molto più piccolo di quello che ha creato. Giampiero Casoni il 13/08/2021 su Notizie.it. La grandezza di Gino Strada: essere molto più piccolo di quello che ha creato. Gino Strada: nell’andarcene a cercare le ragioni della sua grandezza dobbiamo guardare ad Emergency ed ai volumi galattici di dolore che ha curato. La vera grandezza è quando riesci a stare sempre un passo indietro a quello che hai creato, senza usarlo come sedia per guardare la forfora degli altri. E Gino Strada questo era: uno che sapeva benissimo che Emergency è grande e che lui è piccolo, il che fa di lui un grandissimo. Ma non diteglielo, il tipo è capace di incazzarsi anche dal posto dove se ne è andato e le incazzature di Gino Strada facevano media statistica negli studi sulla tettonica a zolle, giova ricordarlo. E dobbiamo tener fede a questo grimaldello, nel ricordare Gino, perciò nell’andarcene mesti a cercare le ragioni della sua grandezza dobbiamo guardare ad Emergency ed ai volumi galattici di dolore che ha alleviato in questo cantuccio di galassia. La regola era ed è: si cura tutti e il primo che mette steccati fra guerre giuste e guerre sbagliate, fra sofferenze “meritate” e sofferenze ingiuste è meglio che vada a selfarsi con un bimbo biafrano in braccio, così quando torna al Circolo Canottieri gli fanno l’applauso e gli dicono che cià un cuore grande come quello del nonno Cavaliere del Lavoro che toccava il culo alle cameriere. Perché Emergency questo fa: schifa tutte le guerre e tutto quello che tutte le guerre fanno a tutti quelli che nelle guerre ci capitano: per destino, per scelta, per sfiga o per congiunzione astrale poco cale, li si cura tutti. E succede che quando ti dai una mission così banale e così immensa poi la tua creatura tiene sempre ferma la barra sulla cura dei corpi ma inizia a diventare anche un totem per le anime. Ecco, ad Emergency è accaduto questo, dal 1994 ad oggi: è diventata paradigma etico. Perché da rappezzare le pance maciullate dalle mine a dire che le mine assieme alle pance degli uomini maciullano la pancia dell’umanità il passo è breve, quando ci metti la tigna che Gino Strada e i suoi ci mettevano. Ma Emergency e il dottor Strada nel trappolone della mistica pacifista un tanto al chilo non ci sono mai caduti: andava combattuta la guerra e alla guerra solo la guerra puoi fare. Come? Stroncando per quanto possibile le sue mire sozze, ridando un sorriso in Angola, attaccando una gamba nei Balcani, sistemando una mascella in poltiglia in Libia, tampinando la puttana con la falce e sua sorella con il cannone in ogni angolo del mondo, togliendole il respiro, ammazzando la morte ogni volta che una vita spuntava dalle marmaglie di sangue che la pazzia dell’uomo sperde per il pianeta. Gino Strada ha fatto migliaia di figli, uno per ogni pinza da tenere, tampone da premere, arteria da suturare, baracca da pittare e sudore da spremere bestemmiando nelle polveri e nelle giungle di questo strano posto dove cerchiamo il progresso e ci dimentichiamo della civiltà, dove ogni cristo deve essere per forza arruolato dalle fazioni che pescano nel paiolo delle sue lotte. Sono i volontari di Emergency che non riporteranno in vita Gino ma terranno in vita quel che Gino Strada ha fatto. E quando quel che fai ti sopravvive vuol dire che non sei morto, ma che sei solo andato un attimo a prendere nuove garze. Le garze che Gino Strada e i suoi hanno messo sull’anima ferita del mondo.
Gino Strada, la storia d’amore con Teresa Sarti e il secondo matrimonio. Gino Strada è stato sposato due volte. La prima volta con Teresa Sarti con cui ebbe la figlia Cecilia, e una seconda volta lo scorso giugno. Notizie.it il 13 agosto 2021. Dietro un uomo c’è sempre una grande donna dice un famoso detto. Non tutti sanno che dietro la figura del fondatore di Emergency, per lungo tempo c’è stata Teresa Sarti con cui nacque una storia d’amore lunga oltre 30 anni e dalla quale è nata la prima e unica figlia Cecilia. Il loro non è stato un semplice matrimonio, ma il frutto dellla loro missione votata al volontariato che porterà nel 1994 alla nascita di Emergency. Il loro sarà un amore solido come pochi che conoscerà una fine solo con la sopraggiunta morte di lei nel 2009 a seguito di un tumore al pancreas. “Ti prego Terry apri gli occhi ancora una secondo” disse, il giorno il giorno della commemorazione.
Gino Strada moglie, la nascita dell’amore per Teresa Sarti. Correva l’anno 1971 quando Gino Strada allora giovane studente di medicina, s’innamorò di Teresa Sarti un’insegnante della scuola media del quartiere Bicocca. Dopo qualche tempo il loro amore divenne qualcosa di più e presto si sposarono. Dal loro matrimonio nascerà di lì a otto anni la figlia Cecilia. La loro vita verrà scandita tra un mondo, quello del volontariato e le piccole grandi difficoltà di tutti i giorni. Il 1994 sarà l’anno di svolta: nascerà Emergency, da sempre in prima linea per la cura e la riabilitazione delle vittime di guerra. La vita di Gino Strada, allora Chirurgo affermato e della moglie non sarà più la stessa.
Gino Strada moglie, il successo di Emergency. “È stata un’esperienza che mi ha molto cambiata. In meglio, naturalmente. L’unico legame tra la Teresa di una volta, studiosa, timidissima, dotata di pochissima fantasia e la Teresa di oggi è stato l’impegno nel volontariato cattolico” così le parole di Teresa Sarti in una delle rare interviste lasciate. Ma Emergency in effetti sarà molto di più. In oltre 25 anni di attività sono milioni le persone soccorse nei paesi più colpiti da guerra e povertà. Teresa Sarti morirà però prematuramente nel 2009 all’età di 63 anni a causa di tumore al Pancreas.
Gino Strada moglie, la commemorazione della moglie e il successivo matrimonio. La commemorazione pubblica di Teresa Sarti fu sentita come poche, così come lo furono le parole pronunciate da Gino Strada: “Me l’avevi detto che saresti partita ma ho sempre sperato che tu cambiassi idea, che avresti cancellato questo viaggio, invece te ne sei andata, sorridendo. Io sono arrabbiato perché questa volta mi hai fregato davvero: mi hai fregato perché l’unico modo che mi resta per continuare a restituirti amore è di lavorare di più e meglio. Ti prego Terry, apri gli occhi ancora un secondo, guarda quanto amore ti sta intorno”. Da lì la vita sentimentale del fondatore di Emergency è stata riservata. Secondo quanto rivela il Corriere della Sera, solo lo scorso giugno si era unito in secondo matrimonio con Simonetta Gola. A fare da testimone è stato Massimo Moratti, mentre a officiare è stato il sindaco Giuseppe Sala.
Soffriva da tempo di problemi di cuore. È morto Gino Strada, scompare a 73 anni il fondatore di Emergency. Antonio Lamorte su Il Riformista il 13 Agosto 2021. È morto Gino Strada. Il fondatore di Emergency aveva 73 anni e soffriva da tempo di problemi di cuore. A dare la notizia Il Corriere della Sera. Il medico chirurgo sarebbe morto mentre era in vacanza in Normandia, in Franci, con lui seconda moglie Simonetta che aveva sposato lo scorso giugno. Proprio oggi era stato pubblicato dal quotidiano La Stampa un suo editoriale, Così ho visto morire Kabul, sull’avanzata dei talebani in Afghanistan che sta mettendo in crisi il Paese e un popolo intero, con migliaia di sfollati, e sotto assedio la capitale. Le strutture e lo staff di Emergency sono attive in questi giorni e in queste ore per far fronte alla crisi umanitaria che si sta aggravando velocemente. “Ho vissuto in Afghanistan complessivamente 7 anni – aveva scritto Strada – ho visto aumentare il numero dei feriti e la violenza, mentre il Paese veniva progressivamente divorato dall’insicurezza e dalla corruzione. Dicevamo 20 anni fa che questa guerra sarebbe stata un disastro per tutti. Oggi l’esito di quell’aggressione è sotto i nostri occhi: un fallimento da ogni punto di vista. Oltre alle 241 mila vittime e ai 5 milioni di sfollati, tra interni e richiedenti asilo, l’Afghanistan oggi è un Paese che sta per precipitare di nuovo in una guerra civile, i talebani sono più forti di prima, le truppe internazionali sono state sconfitte e la loro presenza e autorevolezza nell’area è ancora più debole che nel 2001. E soprattutto è un Paese distrutto, da cui chi può cerca di scappare anche se sa che dovrà patire l’inferno per arrivare in Europa. E proprio in questi giorni alcuni Paesi europei contestano la decisione della Commissione europea di mettere uno stop ai rimpatri dei profughi afgani in un Paese in fiamme”. Strada era nato a Sesto San Giovanni, comune operaio in provincia di Milano. Era cresciuto in un ambiente cattolico e aveva aderito alla corrente comunista universitaria. Aveva studiato al Liceo Classico Carducci e si era laureato in Medicina e Chirurgia all’Università Statale di Milano. E’ stato anche attivista del Movimento Studentesco negli anni della contestazione. Cominciò all’ospedale di Rho e fece pratica nel campo del trapianto fino al 1988. Si specializzò nella cura delle vittime di guerra e in particolare nella chirurgia cardiopolmonare negli Stati Uniti. Dal 1989 al 1994 ha lavorato con il Comitato Internazionale della Croce Rossa tra Pakistan, Etiopia, Perù, Afghanistan, Somalia e Bosnia ed Erzegovina. L’esperienza sul campo lo motivò a fondare l’ong Emergency con alcuni colleghi, associazione umanitaria internazionale per la riabilitazione delle vittime della guerra e delle mine antiuomo. Dalla fondazione nel 1994 fino al 2013 l’associazione ha fornito assistenza gratuita a oltre sei milioni di pazienti in 16 Paesi in tutto il mondo. L’attuale Presidente dell’Organizzazione Rossella Miccio ha espresso in poche parole il suo cordoglio per la scomparsa del chirurgo: “Nessuno se l’aspettava, siam frastornati e addolorati. Una perdita enorme, ci mancherà tantissimo. Ha fatto di tutto per rendere il mondo migliore”. Il messaggio di cordoglio condiviso poco dopo sui social network dall’organizzazione: “Il nostro amato Gino è morto questa mattina. È stato fondatore, chirurgo, direttore esecutivo, l’anima di EMERGENCY. ‘I pazienti vengono sempre prima di tutto’, il senso di giustizia, la lucidità, il rigore, la capacità di visione: erano queste le cose che si notavano subito in Gino. E a conoscerlo meglio si vedeva che sapeva sognare, divertirsi, inventare mille cose. Non riusciamo a pensare di stare senza di lui, la sua sola presenza bastava a farci sentire tutti più forti e meno soli, anche se era lontano. Tra i suoi ultimi pensieri, c’è stato l’Afghanistan, ieri. È morto felice. Ti vogliamo bene Gino”. Strada lascia la figlia, Cecilia, avuta con la moglie Teresa Sarti, filantropa e insegnante, cofondatrice di Emergency nonché prima Presidente dell’Ong, e un nipote. Sarti è scomparsa a Milano nel settembre 2009 a causa di un tumore. Cecilia Strada, nata nel 1979, è stata anche lei Presidente di Emergency. È saggista e filantropa, laureata in Sociologia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Gino Strada era anche nonno, padre del figlio avuto da Cecilia Strada con il marito, il giornalista Maso Notarianni. Si era risposato lo scorso giugno. Cecilia Strada non era con il padre Gino, morto oggi all’improvviso ma era comunque, in qualche modo, nel posto giusto: ad aiutare gli ultimi. Proprio come il padre le aveva insegnato. “Amici, come avrete visto il mio papà non c’è più. Non posso rispondere ai vostri tanti messaggi che vedo arrivare, perché sono in mezzo al mare e abbiamo appena fatto un salvataggio – ha scritto sui social – Non ero con lui, ma di tutti i posti dove avrei potuto essere…beh, ero qui con la ResQ – People saving people a salvare vite. È quello che mi hanno insegnato mio padre e mia madre. Vi abbraccio tutti, forte, vi sono vicina, e ci sentiamo quando possiamo”.
Gino Strada sui vaccini e l’emergenza Coronavirus. “Sospendendo i brevetti molte aziende in possesso del know-how e delle tecnologie potrebbero invece produrre i vaccini aumentando rapidamente la disponibilità delle i dosi”. Si era espresso in questi termini Gino Strada a proposito dei vaccini, l’emergenza coronavirus, la corsa all’immunizzazione. Per Strada “le case farmaceutiche proprietarie dei brevetti oggi non sono in grado di produrre vaccini per tutti. L’unica soluzione è aprire alla possibilità che altri possano produrli, ma questo significa di fatto rinunciare ai brevetti”. A Il Fatto Quotidiano aveva portato l’esempio dell’Hiv, ricordando come prima della liberalizzazione dei brevetti si producessero pochi farmaci retrovirali e a prezzi altissimi. Un’emergenza che, osserva il medico, “ha provocato una quantità di morti impressionante. Solo con la liberalizzazione dei farmaci i prezzi si sono abbassati e si è riusciti a controllare l’infezione. Lo stesso vale per il covid. Se i vaccini non verranno liberalizzati temo che ci saranno ancora tantissimi morti”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
È morto Gino Strada, scompare a 73 anni il fondatore di Emergency. Una vita per aiutare gli altri. Chi era Gino Strada, il medico che odiava la guerra: “I pazienti vengono sempre prima di tutto”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 13 Agosto 2021. Pochi come lui hanno fatto davvero la storia del ‘900. Gino Strada lascia una traccia indelebile nel cuore di tutti per il suo impegno costante nell’aiutare gli altri. E nel divulgare sempre un messaggio contro ogni guerra. “Io non sono pacifista, sono contro la guerra”. La sua intera vita è stata una missione per aiutare gli altri. È morto a Milano il 13 agosto 2021 a 73 anni. Soffriva di cuore e se ne è andato all’improvviso. “Il nostro amato Gino è morto questa mattina – scrivono sulla sua pagina Facebook – È stato fondatore, chirurgo, direttore esecutivo, l’anima di EMERGENCY. “I pazienti vengono sempre prima di tutto”, il senso di giustizia, la lucidità, il rigore, la capacità di visione: erano queste le cose che si notavano subito in Gino. E a conoscerlo meglio si vedeva che sapeva sognare, divertirsi, inventare mille cose. Non riusciamo a pensare di stare senza di lui, la sua sola presenza bastava a farci sentire tutti più forti e meno soli, anche se era lontano. Tra i suoi ultimi pensieri, c’è stato l’Afghanistan, ieri. È morto felice. Ti vogliamo bene Gino. Lo staff di EMERGENCY”. Gino strada è stato un medico e filantropo. Nel 1994 insieme a sua moglie Teresa Sarti fondò Emergency, una ong operativa in 18 paesi del mondo, laddove c’è maggior bisogno di aiuto. Con la sua ong ha assicurato cure mediche e chirurgiche gratuite alle vittime delle guerre e della povertà. Nei mesi scorsi era stato fatto il suo nome come commissario alla Sanità in Calabria. Strada nacque il 21 aprile 1948 a Sesto San Giovanni, si è laureato alla Statale di Milano in Medicina e poi specializzato nella Chirurgia d’urgenza. Già da ragazzo è stato un attivista del movimento studentesco. Ed è qui che incontra e si innamora di sua moglie Teresa Sarti con cui condivide tutte le sue battaglie per i diritti di tutti. Nel 1988 decide di applicare la sua esperienza in chirurgia di urgenza all’assistenza dei feriti di guerra. Negli anni successivi, fino al 1994, lavora con la Croce Rossa Internazionale di Ginevra in Pakistan, Etiopia, Tailandia, Afghanistan, Perù, Gibuti, Somalia, Bosnia. Nel 1994, l’esperienza accumulata negli anni con la Croce Rossa spinge Gino Strada, insieme alla moglie Teresa Sarti e alcuni colleghi e amici, a fondare Emergency, Associazione indipendente e neutrale nata per portare cure medico-chirurgiche di elevata qualità e gratuite alle vittime delle guerre, delle mine antiuomo e della povertà. Il primo progetto di Emergency che vede Gino Strada in prima linea, è in Ruanda durante il genocidio. Poi la Cambogia, Paese in cui resta per alcuni anni. Nel 1998 parte per l’Afghanistan: raggiunge via terra il nord del Paese dove, l’anno dopo, Emergency apre il primo progetto nel Paese, un Centro chirurgico per vittime di guerra ad Anabah, nella Valle del Panshir. Gino Strada rimane in Afghanistan per circa 7 anni, operando migliaia di vittime di guerra e di mine antiuomo e contribuendo all’apertura di altri progetti nel Paese. Dal 2005 inizia a lavorare per l’apertura del Centro Salam di cardiochirurgia, in Sudan, il primo Centro di cardiochirurgia totalmente gratuito in Africa. Nel 2014 si reca in Sierra Leone, dove Emergency è presente dal 2001, per l’emergenza Ebola. Emergency ha curato oltre 11 milioni di persone, secondo il bilancio pubblicato sul suo sito. Ha sempre criticato apertamente e con toni durissimi i governi italiani, la corruzione nella sanità, la gestione dell’immigrazione, l’attività dell’Unione Europea, il commercio delle armi e gli interessi economici dietro le guerre. Nel 1999 pubblicò il libro Pappagalli verdi (il nome di mine antiuomo di produzione sovietica, ndr): cronache di un chirurgo di guerra, una raccolta di memorie relative ai teatri di guerra dove Strada era stato impegnato con i colleghi di Emergency, sono raccontate drammatiche storie – in particolare di bimbi e adulti mutilati – avvenute in Iraq, Pakistan, Ruanda, Afghanistan, Perù, Kurdistan, Etiopia, Angola, Cambogia, ex-Jugoslavia e Gibuti. La sua idea era quella di creare dei centri chirurgici per le vittime di guerra all’avanguardia che poi potessero essere lasciati alla popolazione locale e ai medici. Odiava la guerra, odiava l’intervento Nato in Afghanistan che definiva un’invasione, un abuso e un sopruso. Quando i talebani prendono Kabul nel 2001 per un certo periodo è costretto a sospendere le attività. Poi ritorna con un viaggio rocambolesco. Sempre dalla parte dei civili andando oltre gli schieramenti politici. Ma non c’era solo l’Afghanistan nel suo cuore. Anche l’Iraq, dove nel Kurdistan iracheno ha fondato una clinica di riabilitazione per le vittime di mine a Sulaymaniyya intitolata alla prima moglie Teresa morta nel 2009 dopo una lunga malattia. Un’altra eccellenza dove sono stata salvate migliaia di vite che ha reso Emergency nota a livello internazionale. La sua ragion di vita era quella di curare i deboli e stare accanto a chi ne aveva bisogno. Scriveva in Pappagalli Verdi: “Tutte le guerre sono un orrore. E che non ci si può voltare dall’altra parte, per non vedere le facce di quanti soffrono in silenzio”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
L'addio al fondatore di Emergency. Chi era Gino Strada, un burbero buono che ci ha insegnato che l’umanità va salvata. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 14 Agosto 2021. Era un burbero buono. Salvava vite umane ma anche coscienze. Era un partigiano, nel senso più alto e nobile del termine: parteggiava per i più indifesi tra gli indifesi. Era contro la guerra, senza se e senza ma. Perché lui i disastri delle guerre li ha toccati con mano. Perché non ha mai considerato le centinaia di migliaia di esseri umani che con gli “angeli della solidarietà” di Emergency ha curato in ogni angolo del pianeta, degli “effetti collaterali” di quelle sporche guerre combattute per difendere privilegi e potere. Mi accorgo solo ora, ad articolo iniziato, di aver infranto la grammatica giornalistica. Ma per chi gli ha voluto bene, anche per i suoi difetti, è difficile scrivere che Gino Strada è morto. Difficile perché la memoria torna indietro nel tempo, alle telefonate interrotte dal fragore di una bomba esplosa vicino a uno dei tanti ospedali che Emergency ha impiantato nel mondo. Gino è una delle persone, non molte, che ha saputo coniugare in tutta la sua lunga e avventurosa esistenza, idealità e concretezza. È stato un idealista, mai ideologo, Gino, e il suo ideale più grande è stato l’amore per l’umanità. Per la vita. Al tempo stesso, è sempre stata una persona concreta, che ha sempre schivato i salotti mediatici dove si spargono lacrime di coccodrillo quando muore sotto le bombe un bambino o un corpicino senza vita viene trovato e fotografato su una spiaggia del Mediterraneo. Lui quei bambini li ha curati, salvati, protetti. E dire che vivrà nei loro cuori non è fare facile retorica. Gino non le mandava a dire. Se c’era qualcosa che detestava – odiava no, perché era un sentimento che non gli è appartenuto – era il politically correct. Semplicemente, non gli apparteneva. A chi era saltato su una mina antiuomo o colpito in un bombardamento o in un conflitto a fuoco, non ha mai chiesto con chi stava. L’umanità non ha una tessera di partito o una divisa. Ma Gino, da partigiano quale era, sapeva distinguere il carnefice dalla vittima, il torto dalla ragione. Era buono, certo, ma mai buonista. Era per la pace, certo, ma per lui pace senza giustizia era una parola subdola, priva di valore. Era una voce libera. Di più. Era una voce scomoda. Perché le sue denunce erano chirurgiche, come il bisturi che ha avuto tra le mani per una vita. Nato a Sesto San Giovanni – la “Stalingrado rossa” nel 1948, chirurgo di guerra per il Comitato internazionale della Croce Rossa in scenari come l’Afghanistan e la Somalia, ha fondato Emergency nel 1994 con la moglie Teresa Sarti. Laureato in Medicina e Chirurgia presso l’Università Statale di Milano nel 1978, all’età di trent’anni, si è poi specializzato in Chirurgia d’Urgenza. Viene assunto dall’ospedale di Rho facendo poi pratica nel campo del trapianto di cuore fino al 1988, quando si indirizza verso la chirurgia traumatologica e la cura delle vittime di guerra. Nel periodo 1989-1994 lavora con il Comitato internazionale della Croce Rossa in varie zone di conflitto: Pakistan, Etiopia, Perù, Afghanistan, Somalia e Bosnia ed Erzegovina. Nel 1994 fonda Emergency, un’associazione umanitaria internazionale per la riabilitazione delle vittime della guerra e delle mine antiuomo che, dalla sua fondazione nel 1994 alla fine del 2013, ha fornito assistenza gratuita a oltre 6 milioni di pazienti in 16 paesi nel mondo. Lo so, Gino, tu sei stato molto di più e la ricostruzione di ciò che hai fatto ti sarebbe apparsa fredda, e anche un po’ pomposa. In tante e tanti gli devono la vita, ma guai a definirlo un filantropo, avrebbe sbraitato. L’Afghanistan gli è rimasto nel cuore. E il destino, o per chi crede, altro, ha voluto che la sua morte sia coincisa con l’uscita, ieri, su La Stampa di un suo articolo sulla tragedia che quel martoriato Paese sta vivendo in questi giorni, in queste ore: “Così ho visto morire Kabul”. «Ho vissuto in Afghanistan complessivamente 7 anni: ho visto aumentare il numero dei feriti e la violenza, mentre il Paese veniva progressivamente divorato dall’insicurezza e dalla corruzione. Dicevamo 20 anni fa che questa guerra sarebbe stata un disastro per tutti. Oggi l’esito di quell’aggressione è sotto i nostri occhi: un fallimento da ogni punto di vista», ha scritto sul quotidiano torinese. Misurava le parole, Gino. Ne coglieva il peso e il valore. E quando si riferisce alla guerra scatenata dall’Occidente vent’anni fa, usa il termine “aggressione”, che certo non si ritrova nella stampa mainstream. Ho perso il conto delle interviste che abbiamo fatto. Una, però, mi sembra che dia il senso di chi sia stato Gino. Era dicembre 2015. «Essere definito un ‘utopista’ per me è una benemerenza, non certo un’accusa. Ma in questo caso penso di essere un ‘realista’. Perché non c’è niente di più ‘realista’ che battersi per abolire la guerra. E trovo davvero incredibile che l’assemblea generale delle Nazioni Unite in tutta la sua storia non abbia mai posto questo tema all’ordine del giorno». In quell’occasione, lo avevo intervistato per Left. Aveva da poco ricevuto dal Parlamento svedese il “Right Livelihood Award” (Premio al corretto sostentamento), il Premio Nobel alternativo. Parlando davanti ai parlamentari svedesi in occasione della consegna del premio, aveva detto: «Io sono un chirurgo. Ho visto i feriti (e i morti) di vari conflitti in Asia, Africa, Medio Oriente, America Latina e Europa. Ho operato migliaia di persone, ferite da proiettili, frammenti di bombe o missili. Alcuni anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle cliniche di circa 1.200 pazienti per scoprire che meno del 10 per cento erano presumibilmente militari. Il 90 per cento delle vittime erano civili, un terzo dei quali bambini. È quindi questo il “nemico”?». «Chi paga il prezzo della guerra?». Quanto ai buoni propositi professati dai sostenitori delle guerre “giuste”, “necessarie”, “umanitarie”, Gino dette questa risposta. Chirurgica. «Le guerre, quelle degli Stati, come dei gruppi terroristi, si combattono con le armi, tra cui le mine anti uomo, prodotte anche da imprese italiane. L’80-90 per cento delle armi in circolazione sono prodotte e vendute dai cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, gli stessi (Usa, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna) che dovrebbero vigilare sulla pace e la sicurezza del mondo. Gli armaioli sono i pacificatori! Ciò spiega molto dei buoni propositi e del perché l’abolizione della guerra non ha trovato mai spazio di discussione all’Onu. Ma questo non deve far venir meno l’impegno di quanti, e siamo in tanti, credono che la guerra sia peggiore di tutti i mali che pretende di risolvere. L’alternativa è la rassegnazione, la resa, la complicità persino». E lui complice, rassegnato, inerme, non lo è stato mai. Nel suo vocabolario non esisteva la parola “delega”. Tanto meno se riguardava i Grandi della Terra. «Non possiamo pensare che a risolvere i problemi siano le stesse persone, i governi, i leader, che le guerre l’hanno volute – mi disse allora -. La prima cosa è capire, studiare, dibattere, creare movimento, su come espellere la violenza dalla storia dell’umanità. È una cosa difficile? Non lo so. Molte volte abbiamo sbagliato le previsioni, e quello che sembrava impossibile si è invece realizzato e viceversa. Certamente, se non si pone il problema non se ne uscirà mai. La guerra non significa altro che l’uccisione di civili, morte e distruzione. La tragedia delle vittime è la sola verità della guerra. Esserne consapevoli ci dà la spinta, l’energia, le motivazioni, gli argomenti per provare a realizzare questa “utopia”. Perché la guerra non si può ‘umanizzare’, si può solo abolire. Dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolirla è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Se saremo in tanti a pensarlo questa ‘utopia’ può essere realizzata». Sì, Gino era un utopista. Un utopista-realista. Non ha mai creduto che la guerra fosse una condanna senza appello insita nel destino dell’uomo. No, Gino era l’esatto opposto di un fatalista. «In un mondo come quello di oggi, dove i conflitti si moltiplicano in continuazione e si espandono, dove le armi disponibili potrebbero distruggere il pianeta, è ragionevole o no porsi il problema di come se ne esce? Io credo che sia la cosa più ragionevole. Abolire la guerra è una prospettiva molto più ragionevole che continuare a far finta di niente e continuare con questa pratica devastante. Il fatto che bombe e armi abbiano segnato, marchiato a sangue, il nostro passato, non vuol dire che debbano essere parte obbligata del nostro futuro. La guerra non è iscritta nel destino dell’umanità!». Se n’è andato a 73 anni. Era malato di cuore. Cecilia, sua figlia, ha scritto su Facebook: «Amici, come avrete visto il mio papà non c’è più. Non posso rispondere ai vostri tanti messaggi che vedo arrivare, perché sono in mezzo al mare e abbiamo appena fatto un salvataggio. Non ero con lui, ma di tutti i posti dove avrei potuto essere – continua – beh, ero qui con la ResQ – People saving people a salvare vite. È quello che mi hanno insegnato mio padre e mia madre. Vi abbraccio tutti, forte, vi sono vicina, e ci sentiamo quando possiamo». Ciao Gino, partigiano della vita. Che la terra ti sia lieve.
Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.
Il ricordo del fondatore di Emergency. Vita e storia di Gino Strada, in giro per il mondo per abolire la guerra. Eraldo Affinati su Il Riformista il 14 Agosto 2021. Credo di aver intercettato lo sguardo arcigno e severo di Gino Strada, scomparso ieri a 73 anni, negli occhi dei miei primi studenti afghani, quando insegnavo alla Città dei Ragazzi di Roma. Ciò che mi raccontavano Noruz, Mohamed e Hafiz, sedicenni di etnia hazara sulla tormentata contrada da cui erano fuggiti, chi nascosto nei camion della frutta, chi intruppato in mezzo ad altri profughi, chi direttamente a piedi, pronti a rifare il viaggio di Marco Polo, sebbene all’incontrario, corrispondeva in pieno a quanto da tempo andava dicendo in tutti i modi, con la foga e l’energia polemica che lo contraddistingueva, il fondatore di Emergency. Era come se quegli adolescenti dagli occhi a mandorla, la tensione febbrile a stento trattenuta, il corpo attraversato da un fascio di nervi, capaci di valicare i confini pakistani, iraniani e turchi, schivando gli spari delle guardie doganali, pronti a nascondersi sotto le sospensioni di un Tir in partenza dal porto di Patrasso, distesi su una trave di compensato, per poi, sbarcati in Italia, sganciarsi al semaforo rosso, a Treviso, “all’altezza della Conad”, così mi confidò uno di loro, incarnassero l’indignazione che una volta portò Gino Strada a spiegarci che non dovremmo mai arrenderci, noi esseri umani, all’evidenza innegabile della crudeltà: «Dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Questo concetto deve penetrare in profondità nelle nostre coscienze, fino a che l’idea della guerra divenga un tabù e sia eliminata dalla storia dell’umanità». A ben pensarci, aggiungeva convinto, il genere a cui apparteniamo, non è forse riuscito ad abolire, nella maggioranza della Terra, la schiavitù?. A molti potevano sembrare parole enfatiche, utopiche. Fossero uscite dalla bocca di un semplice portavoce, uno di quei funzionari dello spirito o divulgatori politici che giornalmente ci fanno la morale restando seduti sui loro scranni ben retribuiti, magari sarebbe stato difficile non definirle retoriche. Ma dette da lui, che aveva estratto migliaia di proiettili dalla carne dilaniata delle persone, pronto a curare le ustioni sui corpi dei bambini innocenti, ad aprire ospedali e centri sanitari nei tuguri del mondo, in Ruanda, Cambogia, Iraq, Afghanistan, Sierra Leone, scoprendo con raccapriccio le atrocità di cui, in ogni conflitto bellico, risulta sempre vittima la popolazione civile, assumevano una forza innegabile, soprattutto agli occhi dei più giovani che, nel momento in cui lo conoscevano, non potevano non sentirsi attratti verso quest’uomo senza peli sulla lingua, dal proverbiale caratteraccio. Che prendeva posizione. Rischiava. Si esponeva. Non si tirava mai indietro. Perfino se non eri d’accordo con lui, avresti dovuto rispettarlo. Un’intransigenza etica rara pulsava nelle sue vene sotto sforzo: di quella saremo in molti a sentire la mancanza nel panorama di tristi figurini che abbiamo di fronte, anche perché, così facendo, riusciva a coinvolgere persone diverse l’una dall’altra. Quando ad esempio egli affermava, e gli capitava spesso, determinato e caparbio quanto bastava per accrescere la schiera di chi lo riteneva un montato, che le solenni e pompose dichiarazioni dell’Onu sulla salvaguardia dei diritti umani sono oggi di fatto cartastraccia in molte parti del pianeta, poteva dirlo a ragion veduta, non si trattava di una bella frase ad effetto; al contrario, quel pronunciamento appassionato, scaturito dall’esperienza diretta delle cose, era la pura realtà. Quale giustizia può esserci in un mondo costruito come il nostro? Alzi lo steccato e pensi di stare a posto. Ciò che conta nella vita, questo rappresenta a mio avviso l’insegnamento più prezioso di Gino Strada, non è la bandiera sotto cui ti schieri, né l’idea che propugni, nemmeno il modo in cui lo fai, bensì l’azione concreta che puoi portare per legittimare quanto dichiari. Se poi esci dalla posizione di sicurezza in cui ti trovi, mettendo in conto la possibilità di farti male e quando sbagli paghi di tasca tua, allora sì, diventi credibile. Eraldo Affinati
L'accusa del fondatore di Emergency. Coronavirus, Gino Strada contro la Lombardia: “Peggio della Camorra, sanità devastata e lottizzata”. Redazione su Il Riformista l'11 Aprile 2020. “Gente che ha devastato la sanità italiana e la sanità pubblica, altro che modello Lombardia. Pazienti lasciati morire nelle case di riposo senza nessuna umanità o pietà. Tutto questo penso sia moralmente, prima ancora che giuridicamente, un crimine”. Gino Strada interviene alla trasmissione Propaganda Live su La7. E usa toni forti, poco diplomatici, per descrivere le problematiche emerse nel sistema sanitario italiano durante l’emergenza coronavirus. In particolare il medico e fondatore di Emergency ha criticato il modello della Lombardia. “Non ci si può esimere dal fare una riflessione su chi ha gestito la sanità in Lombardia negli ultimi 20 anni, perché gli stessi che l’hanno gestita oggi cercano di apparire come i salvatori, come gente che ha la situazione in mano”, ha detto Strada ricordando come nella Regione si siano verificati quasi la metà delle morti italiane (10.238 secondo la Regione, 18.849 in tutto il Paese, quindi sarebbero più della metà, ndr) e che i morti italiani sono circa un quarto dei morti registrati su scala mondiale. “La Lombardia – ha continuato Strada – vede i suoi ospedali lottizzati che perfino la camorra sarebbe stata in difficoltà a farlo così, in modo esteso e puntuale. Spero che da questa cosa se ne esca con i cittadini che aprano gli occhi sulla realtà, al di là di tutta la propaganda politica che in questo momento trovo nauseante”. Analizzando la risposta alla pandemia il medico ha riconosciuto che sarebbe stato “obiettivamente” inaspettata un’evoluzione simile del virus, ma il problema è stato quindi non essere riusciti a proteggere gli ospedali. “Se un ospedale si infetta non è più in grado di curare non solo i pazienti da Coronavirus ma anche i cardiopatici, i diabetici e chi ha bisogno“, ha detto Strada che commentando la gestione, da parte di Emergency, di una terapia intensiva di nuova costruzione a Bergamo ha fatto un’osservazione sulle difficoltà burocratiche e politiche: “Una cosa che ho capito in questa emergenza è che è più facile aprire una cardiochirurgia in Sudan che un posto letto in Italia“.
Cecilia Strada la figlia di Gino: “Sono a salvare vite come mi ha insegnato mio padre”. Rossella Grasso su Il Riformista il 13 Agosto 2021. “Amici, come avrete visto il mio papà non c’è più. Non posso rispondere ai vostri tanti messaggi che vedo arrivare, perché sono in mezzo al mare e abbiamo appena fatto un salvataggio”. Scrive così Cecilia Strada su Facebook poco dopo che è stata diramata la notizia della morte del suo papà, Gino strada. Gino Strada aveva 73 anni, la notizia della sua morte è arrivata come un fulmine a ciel sereno. Nato a Sesto San Giovanni nel 1948, chirurgo di guerra per il Comitato internazionale della Croce Rossa in scenari come l’Afghanistan e la Somalia, ha fondato Emergency nel 1994 con la moglie Teresa Sarti. L’ong ha operato il 18 paesi del mondo assicurando cure mediche e chirurgiche gratuite alle vittime delle guerre e della povertà. E anche la figlia Cecilia, 42 anni, ha deciso di seguire le orme del padre con il suo impegno nel mondo per aiutare gli ultimi. Anche in questo momento drammatico per la sua famiglia Cecilia si trova lontano a dare supporto a chi ne ha bisogno. “Non ero con lui, ma di tutti i posti dove avrei potuto essere…beh, ero qui con la ResQ – People saving people a salvare vite. È quello che mi hanno insegnato mio padre e mia madre”, scrive su Facebook postando la foto del mare. “Vi abbraccio tutti, forte, vi sono vicina, e ci sentiamo quando possiamo”.
Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.
Chi è la moglie di Gino Strada, Simonetta Gola: il matrimonio segreto a giugno dopo quello con Teresa Sarti. Elena Del Mastro su Il Riformista il 13 Agosto 2021. Gino Strada aveva avuto una lunga storia d’amore con Teresa Sarti che un brutto tumore al pancreas si era portata via nel 2009. A giugno 2021 era convolato a nuove nozze con Simonetta Gola, come riporta il Corriere della Sera. Lo ha rivelato il sindaco di Milano Giuseppe Sala nel dare l’ultimo saluto all’amico morto il 13 agosto 2021 all’età di 37 anni. “Se ne è andato un caro amico, Gino Strada. Gli volevo bene e lui ne voleva a me. In giugno avevo celebrato il suo matrimonio con la dolce Simonetta, una cerimonia riservata come loro desideravano”, ha scritto su Facebook. Il matrimonio con Simonetta Gola, responsabile della comunicazione di Emergency si sarebbe dunque tenuto a giugno. Secondo quanto riportato dal Corriere si sarebbe trattato di una cerimonia tra pochi intimi, non più di 10 persone, con Massimo Moratti a fare da testimone. Secondo alcune indiscrezioni raccolte da LaPresse, Strada era in vacanza in Normandia, in Francia, quando è venuto a mancare: con lui la nuova moglie Simonetta.
Chi è Simonetta Gola. Simonetta Gola, è laureata in Scienze politiche a indirizzo sociologico, giornalista pubblicista, attualmente responsabile della Comunicazione e delle Campagne di raccolta fondi nazionali dell’Organizzazione non governativa Emergency. A fare il suo ritratto è il Premio Ischia di Giornalismo internazionale che ha deciso di attribuirle il riconoscimento. Ha iniziato a interessarsi di comunicazione nel 1994, con progetti contro l’esclusione sociale presso l’Università degli studi di Milano, sperimentando l’interazione tra Internet e le carceri. Nel 2000 e nel 2001 ha lavorato per l’Ufficio Rappresentanza istituzionale della Presidenza della Regione Lombardia, occupandosi principalmente di speech writing. Dal 2001 lavora nell’Organizzazione non governativa Emergency, prima nell’ambito delle Attività didattiche, poi nell’Ufficio stampa e dal 2012 come responsabile della Comunicazione e delle Campagne di raccolta fondi nazionali. Dal 2009 è membro del Comitato direttivo e del Comitato esecutivo di Emergency, ed è facile capire come i due si siano conosciuti.
La storia d’amore con Teresa Sarti. Gino Strada e Teresa Sarti si erano conosciuti nel 1971 quando entrambi erano studenti a Milano: lei laureanda in lettere moderne, lui in medicina. Insieme militavano nel movimento studentesco. Fu subito chiaro che i due condividevano non solo l’amore ma anche gli ideali. Si sposarono nel 1979. Dalla loro unione è nata Cecilia che porta avanti il lavoro umanitario avviato dai genitori con la stessa passione. Nel 1994 Gino e Teresa fondano Emergency che presto diventerà una delle associazioni umanitarie più importanti del mondo. Teresa è stata la prima presidente dell’associazione e ha contribuito a diffondere l’idea della pace con le campagne Uno straccio di Pace (2001) e Fuori l’Italia dalla guerra (2002) diventando un simbolo del ‘900. La vita, però, la mette di fronte anche ad una battaglia difficilissima, quella contro il tumore. Si ammala, infatti, di tumore contro cui perde la battaglia. Nel 2009 muore proprio a causa di un tumore al pancreas. Gino Strada è rimasto vedovo per molti anni. Alla moglie ha dedicato un ospedale in Iraq e diverse iniziative sono state fatte in sua memoria.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
La saggista e filantropa. Chi è Cecilia Strada, la figlia del fondatore di Emergency Gino Strada. Vito Califano su Il Riformista il 13 Agosto 2021. Cecilia Strada non era con il padre Gino, morto oggi, a 73 anni, all’improvviso. Era comunque, in qualche modo, nel posto giusto: ad aiutare gli ultimi. Proprio come il padre, medico chirurgo e fondatore dell’ong Emergency le aveva insegnato. “Amici, come avrete visto il mio papà non c’è più. Non posso rispondere ai vostri tanti messaggi che vedo arrivare, perché sono in mezzo al mare e abbiamo appena fatto un salvataggio – ha scritto sui social – Non ero con lui, ma di tutti i posti dove avrei potuto essere…beh, ero qui con la ResQ – People saving people a salvare vite. È quello che mi hanno insegnato mio padre e mia madre. Vi abbraccio tutti, forte, vi sono vicina, e ci sentiamo quando possiamo”. Cecilia Strada è nata nel 1979 dall’unione tra Gino Strada e Teresa Sarti. La coppia si era conosciuta in gruppi di volontariato cattolico nel 1971, nel milanese, e lo stesso anno sarebbe convolata a nozze. Sarti sarebbe stata cofondatrice e prima presidente di Emergency. La madre era filantropa e insegnante. È scomparsa nel 2009 a causa di un tumore. Anche Cecilia è stata Presidente dell’Ong. Laureata in Sociologia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, ha ricoperto la carica fino al luglio del 2017. Oltre a lavorare per l’organizzazione ha collaborato con giornali e media per riportare testimonianze e la sua esperienza. Ha ricevuto nel 2018 il Premio Nazionale Cultura della Pace “per le molteplici attività svolte, per la sua opera sociale all’interno di un’associazione, così come per il lavoro di informazione, controinformazione e testimonianza riguardo ai teatri di guerra e alle possibili soluzioni da adottare. Tutto ciò ha permesso e permette a molti di conoscere realtà complesse, di aprire orizzonti diversi e di creare spazi di impegno decisivi per il progresso della società”. Strada è stata anche autrice di diverse pubblicazioni. Dall’unione con il giornalista Maso Notarianni, che ha sposato, ha avuto un figlio. Lo scorso giugno in un’intervista ha detto di essere bisessuale. Gino Strada è morto stamane. Soffriva da tempo di problemi cardiaci. Sarebbe morto mentre era in vacanza in Normandia, in Francia: con lui la nuova moglie Simonetta con cui si era sposato a giugno. Gli ultimi suoi pensieri dedicati all’Afghanistan, dove i talebani avanzano inarrestabili in questi giorni, pubblicato in un editoriale stamane dal quotidiano La Stampa. Cordoglio per la scomparsa del noto medico chirurgo espresso anche dal Presidente del Consiglio Mario Draghi in una nota diffusa da Palazzo Chigi: “Ha trascorso la sua vita sempre dalla parte degli ultimi, operando con professionalità, coraggio e umanità nelle zone più difficili del mondo. L’associazione Emergency, fondata insieme alla moglie Teresa, rappresenta il suo lascito morale e professionale. Alla figlia Cecilia, a tutti i suoi cari e ai colleghi di Emergency, le più sentite condoglianze del Governo”. Il messaggio di cordoglio condiviso sui social network da Emergency: “Il nostro amato Gino è morto questa mattina. È stato fondatore, chirurgo, direttore esecutivo, l’anima di EMERGENCY. ‘I pazienti vengono sempre prima di tutto’, il senso di giustizia, la lucidità, il rigore, la capacità di visione: erano queste le cose che si notavano subito in Gino. E a conoscerlo meglio si vedeva che sapeva sognare, divertirsi, inventare mille cose. Non riusciamo a pensare di stare senza di lui, la sua sola presenza bastava a farci sentire tutti più forti e meno soli, anche se era lontano. Tra i suoi ultimi pensieri, c’è stato l’Afghanistan, ieri. È morto felice. Ti vogliamo bene Gino”.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
GINO STRADA. “E ora distinguiamo il bene che ha fatto dalle sue idee politiche”. Mauro Leonardi il 14.08.2021 su ilsussidiario.net. Ieri è morto Gino Strada, fondatore di Emergency. Il suo parlare immediato, che mette nella realtà senza fronzoli, è la lezione che dobbiamo imparare tutti. È morto Gino Strada. Il fondatore della Ong Emergency si trovava in Francia, aveva 73 anni e soffriva di problemi di cuore. Gino Strada aveva fondato Emergency insieme alla moglie Teresa e a un gruppo di colleghi, come a dire che la vocazione alla cura non è solo un’impresa individuale ma anche un modo di cementare il matrimonio e la famiglia: al punto di essere seguito in quella missione umanitaria anche dalla figlia Cecilia. Dalla sua fondazione nel 1994 Emergency ha operato in 18 nazioni e ha assistito gratuitamente milioni di pazienti, contribuendo all’edificazione di ospedali e posti di primo soccorso in Paesi dove sono un lusso le cure di base, figuriamoci la chirurgia d’urgenza. A chi lo criticava perché nei suoi ospedali c’erano particolari non strettamente necessari alla sopravvivenza dei pazienti come le pareti affrescate nelle corsie pediatriche, la cura maniacale della pulizia, dei pavimenti lucidi, dei servizi igienici in cui si sente l’odore dei detersivi e che tutto ciò segnava in maniera esagerata la differenza con le devastazioni della guerra, rispondeva “ma perché? Costa poco di più mettere nel giardino bouganville, gerani e rose. E altalene. Costa poco e aiuta a guarire meglio. Sono sicuro che i nostri sostenitori, quelli che sottraggono cinquanta euro alla pensione, o che consegnano agli amici, come lista di nozze, il nostro numero di conto corrente postale, sono d’accordo con questa scelta”. Quando si parla di una persona appena morta è molto facile correre il rischio di cadere nel panegirico mieloso, nella beatificazione a tutti i costi. Sono certo che la rudezza sincera di Gino Strada non avrebbe tollerato questo atteggiamento. È giusto pertanto raccontare che Strada ha conosciuto anche delle critiche. La storia giudicherà e non sarò certo io a rubarle quel ruolo. Però un cristiano deve saper distinguere il bene che ha fatto dalle sue idee politiche, dalle dichiarazioni di “ateismo” o dall’aver partecipato nel 2009 al corteo per la libertà di scelta di Eluana Englaro. Qualsiasi tifoso di Maradona sa apprezzare i suoi gesti da campione nonostante fosse un cocainomane, non saremo in grado di battere le mani al moltissimo bene oggettivo fatto da una persona che tutto il mondo ci invidia? Chi afferma che Strada fosse “troppo politico” – e politico di una certa parte – dovrebbe riflettere che, in ogni caso, progetti di quel livello non possono essere portati a termine senza schierarsi. Rimane il fatto che non tutti siamo chiamati ad andare in zona di guerra. Ma tutti dobbiamo lottare per combattere l’indifferenza, ricordando che ciò che da noi è garantito in molte zone del mondo è un lusso e che una sanità seria per tutti non può più essere messa in discussione. Si è più convincenti con la vita che con le parole, questo in ultima analisi è il suo messaggio più forte. Si può essere d’accordo o no con le idee di Gino Strada ma non si può certo dire che non sia stato coerente con i suoi principi e che quindi, in quanto tale, non sia stato convincente. “Io non sono pacifista. Io sono contro la guerra”, ha detto in una trasmissione televisiva. È un’affermazione diretta, vera, immediata. Così come quando ha dichiarato: “Basta prendere la foto di un bimbo sul barcone, incollarci sopra la fotografia di vostro figlio, e dopo sarà facile capire”. Questo parlare immediato, che mette nella realtà senza fronzoli, è la lezione di Gino Strada che dobbiamo imparare tutti.
È MORTO GINO STRADA, MEDICO E FONDATORE DI EMERGENCY. Il Corriere del Giorno il 13 Agosto 2021. La presidente di Emergency, Rossella Miccio: “Ha fatto di tutto per rendere il mondo migliore”. È morto oggi Gino Strada fondatore di Emergency . Aveva 73 anni. Al momento del decesso si trovava in Normandia. Soffriva di problemi di cuore. La notizia del decesso è stata confermata da Emergency e dalla figlia, Cecilia con un messaggio postato su Facebook “Amici, come avrete visto il mio papà non c’è più. Non posso rispondere ai vostri tanti messaggi che vedo arrivare, perché sono in mezzo al mare e abbiamo appena fatto un salvataggio. Non ero con lui, ma di tutti i posti dove avrei potuto essere…beh, ero qui con la ResQ – People saving people a salvare vite. È quello che mi hanno insegnato mio padre e mia madre” e conclude: “Vi abbraccio tutti, forte, vi sono vicina, e ci sentiamo quando possiamo”.
La storia di Emergency. Garantire cure mediche e chirurgiche gratuite e di alta qualità alle vittime della guerra, delle mine antiuomo e della povertà. È l’idea base intorno a cui il 15 maggio 1994 nasce Emergency, l’associazione umanitaria fondata da Gino Strada e dalla moglie Teresa Sarti con Carlo Garbagnati e Giulio Cristoffanini, un gruppo di amici cementato da un periodo di volontariato svolto con la Croce Rossa. Quattro anni dopo sarebbe arrivato il riconoscimento di onlus, l’anno dopo ancora quello di Ong. In tutto questo lungo periodo segnato anche da una intensa attività di promozione dei valori di pace, solidarietà e rispetto dei diritti umani – Emergency ha lavorato in 18 Paesi curando 11 milioni di persone in Iraq, Afghanistan, Cambogia, Serbia, Eritrea, Sierra Leone, Sudan, Algeria, Angola, Palestina, Nicaragua, Sri Lanka: secondo i dati della stessa organizzazione, oltre il 90% dei feriti nei vari conflitti sparsi per il mondo è un civile. Attualmente è presente in Afghanistan, Iraq, Italia, Uganda, Sudan, Eritrea, Sierra Leone offrendo cure gratuite nelle strutture allestite come ospedali, posti di primo soccorso, centri sanitari, centri pediatrici, centri per la riabilitazione, centri di maternità, centri di eccellenza e ambulatori mobili. In Afghanistan, in particolare, Emergency è presente sin dal 1999 ed ha curato più di 7 milioni di persone: anche nei giorni della drammatica controffensiva talebana, con le città che cadono una dopo l’altra, scriveva Strada proprio sulla ‘Stampa’ di oggi, “gli ospedali e lo staff di Emergency – pieni di feriti – continuano a lavorare in mezzo ai combattimenti, correndo anche dei rischi per la propria incolumità”. In Iraq l’Ong ha curato oltre un milione di persone sin dal 1995. L’intervento si è concentrato soprattutto nel nord del Paese, una zona piena di mine anti-uomo al confine con l’Iran e la Turchia. Emergency si è anche impegnata nella creazione e sviluppo di una rete sanitaria di eccellenza in Africa. A questo scopo è stata creata nel 2009 l’ African Network of Medical Excellence, con il fine di offrire gratuitamente prestazioni sanitarie di qualità nei Paesi più poveri. Con l’emergenza Covid-19 Emergency ha messo a disposizione delle autorità sanitarie le competenze maturate nel corso dell’epidemia di Ebola che ha colpito la Sierra Leone nel 2014 e 2015. L’attuale presidente è Rossella Miccio, chiamata a ricoprire la carica nel luglio del 2017.
Le prime reazioni. “Gino Strada ha recato le ragioni della vita dove la guerra voleva imporre violenza e morte”, ha scritto in una nota il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. “Ha invocato le ragioni dell’umanità dove lo scontro cancellava ogni rispetto per le persone. La sua testimonianza, resa sino alla fine della sua vita, ha contribuito ad arricchire il patrimonio comune di valori quali la solidarietà e l’altruismo, espressi, in maniera talvolta ruvida ma sempre generosa, nel servizio alla salvaguardia delle persone più deboli esposte alle conseguenze dei conflitti che insanguinano il mondo”. Il presidente del Consiglio Mario Draghi, si legge in una nota di Palazzo Chigi, ha appreso con tristezza della morte di Gino Strada: “Ha trascorso la sua vita sempre dalla parte degli ultimi, operando con professionalità, coraggio e umanità nelle zone più difficili del mondo. Emergency, fondata insieme alla moglie Teresa, rappresenta il suo lascito morale e professionale. Alla figlia Cecilia, a tutti i suoi cari e ai colleghi di Emergency, le più sentite condoglianze del governo”. “Difendere l’uomo e la sua dignità sempre e dovunque. Questa la lezione più bella di Gino Strada che non dobbiamo dimenticare mai. La mia vicinanza ai suoi cari e a tutta Emergency”. Così il ministro della Salute, Roberto Speranza. “Gino Strada, una vita esemplare. Di amore e di lotta. Una grande eredità” il ricordo del commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni. “Mentre i talebani avanzano in Afghanistan arriva la triste notizia della morte di Gino Strada. Ha fondato Emergency per curare le ferite e le vittime di tutte le guerre, ha tenuto alto il nome dell’Italia nel mondo e non si è mai tirato indietro di fronte alle difficoltà nel nostro Paese e all’estero. Un abbraccio affettuoso e commosso a Cecilia e a tutti coloro che lavorano o fanno volontariato per Emergency” le parole sui social del senatore di Leu Pietro Grasso. “Un grande medico per i diritti umani e per la pace. La sua morte, per un’assurda coincidenza, arriva mentre tutto ciò che con #Emergency ha fatto in Afghanistan rischia di andare nuovamente distrutto”. Lo dichiara il portavoce di Amnesty Italia, Riccardo Noury. “Se ne è andato un caro amico, Gino Strada. Gli volevo bene e lui ne voleva a me. In giugno avevo celebrato il suo matrimonio con la dolce Simonetta, una cerimonia riservata come loro desideravano. Di Gino si può pensare quello che si vuole, ma una cosa è certa: ha sempre pensato prima agli altri che non a se stesso. Mi e ci mancherai”. È il messaggio postato sui social dal sindaco di Milano, Beppe Sala per la morte del fondatore di Emergency. Nessuna foto, solo la scritta "Ciao Gino". “Avevamo idee politiche diverse, ma Gino Strada è stato davvero un grande. Indimenticabile il mio ricordo di Emergency in Afghanistan. Buon viaggio e grazie”. Così su Twitter il giornalista Bruno Vespa. Alessandro Gassmann ricorda come “perdiamo un grande uomo, coraggioso, generoso, un grandissimo esempio per tutti, che rimarrà, come tutti coloro che salvano e salveranno vite con Emergency”.
"DICEVAMO 20 ANNI FA CHE LA GUERRA IN AFGHANISTAN SAREBBE STATA UN DISASTRO PER TUTTI" - L’ULTIMO ARTICOLO DI GINO STRADA PUBBLICATO SU "LA STAMPA": "NON MI SORPRENDE LA SITUAZIONE CHE C'È IN QUEL PAESE, DOVE HO VISSUTO IN TUTTO 7 ANNI. LA GUERRA È STATA - NÉ PIÙ NÉ MENO - UNA GUERRA DI AGGRESSIONE INIZIATA ALL’INDOMANI DELL’ATTACCO DELL’11 SETTEMBRE, DAGLI STATI UNITI A CUI SI SONO ACCODATI TUTTI I PAESI OCCIDENTALI..."
Gino Strada per "La Stampa" Il 13 agosto 2021. Si parla molto di Afghanistan in questi giorni, dopo anni di coprifuoco mediatico. È difficile ignorare la notizia diffusa ieri: i talebani hanno conquistato anche Lashkar Gah e avanzano molto velocemente, le ambasciate evacuano il loro personale, si teme per l’aeroporto. Non mi sorprende questa situazione, come non dovrebbe sorprendere nessuno che abbia una discreta conoscenza dell’Afghanistan o almeno buona memoria. Mi sembra che manchino - meglio: che siano sempre mancate - entrambe. La guerra all’Afghanistan è stata - né più né meno - una guerra di aggressione iniziata all’indomani dell’attacco dell’11 settembre, dagli Stati Uniti a cui si sono accodati tutti i Paesi occidentali. Il Consiglio di Sicurezza - unico organismo internazionale che ha il diritto di ricorrere all’uso della forza - era intervenuto il giorno dopo l’attentato con la risoluzione numero 1368, ma venne ignorato: gli Usa procedettero con una iniziativa militare autonoma (e quindi nella totale illegalità internazionale) perché la decisione di attaccare militarmente e di occupare l’Afghanistan era stata presa nell’autunno del 2000 già dall’Amministrazione Clinton, come si leggeva all’epoca sui giornali pakistani e come suggerisce la tempistica dell’intervento. Il 7 ottobre 2001 l’aviazione Usa diede il via ai bombardamenti aerei. Ufficialmente l’Afghanistan veniva attaccato perché forniva ospitalità e supporto alla “guerra santa” anti-Usa di Osama bin Laden. Così la “guerra al terrorismo” diventò di fatto la guerra per l’eliminazione del regime talebano al potere dal settembre 1996, dopo che per almeno due anni gli Stati Uniti avevano “trattato” per trovare un accordo con i talebani stessi: il riconoscimento formale e il sostegno economico al regime di Kabul in cambio del controllo delle multinazionali Usa del petrolio sui futuri oleodotti e gasdotti dall’Asia centrale fino al mare, cioè al Pakistan. Ed era innanzitutto il Pakistan (insieme a molti Paesi del Golfo) che aveva dato vita, equipaggiato e finanziato i talebani a partire dal 1994. Il 7 novembre 2001, il 92 per cento circa dei parlamentari italiani approvò una risoluzione a favore della guerra. Chi allora si opponeva alla partecipazione dell’Italia alla missione militare, contraria alla Costituzione oltre che a qualunque logica, veniva accusato pubblicamente di essere un traditore dell’Occidente, un amico dei terroristi, un’anima bella nel migliore dei casi. Invito qualche volonteroso a fare questa ricerca sui giornali di allora perché sarebbe educativo per tutti. L’intervento della coalizione internazionale si tradusse, nei primi tre mesi del 2001, solo a Kabul e dintorni, in un numero vittime civili superiore agli attentati di New York. Nei mesi e negli anni successivi le informazioni sulle vittime sono diventate più incerte: secondo Costs of War della Brown University, circa 241 mila persone sono state vittime dirette della guerra e altre centinaia di migliaia sono morte a causa della fame, delle malattie e della mancanza di servizi essenziali. Solo nell’ultimo decennio, la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) ha registrato almeno 28.866 bambini morti o feriti. E sono numeri certamente sottostimati. Ho vissuto in Afghanistan complessivamente 7 anni: ho visto aumentare il numero dei feriti e la violenza, mentre il Paese veniva progressivamente divorato dall’insicurezza e dalla corruzione. Dicevamo 20 anni fa che questa guerra sarebbe stata un disastro per tutti. Oggi l’esito di quell’aggressione è sotto i nostri occhi: un fallimento da ogni punto di vista. Oltre alle 241 mila vittime e ai 5 milioni di sfollati, tra interni e richiedenti asilo, l’Afghanistan oggi è un Paese che sta per precipitare di nuovo in una guerra civile, i talebani sono più forti di prima, le truppe internazionali sono state sconfitte e la loro presenza e autorevolezza nell’area è ancora più debole che nel 2001. E soprattutto è un Paese distrutto, da cui chi può cerca di scappare anche se sa che dovrà patire l’inferno per arrivare in Europa. E proprio in questi giorni alcuni Paesi europei contestano la decisione della Commissione europea di mettere uno stop ai rimpatri dei profughi afgani in un Paese in fiamme. Per finanziare tutto questo, gli Stati Uniti hanno speso complessivamente oltre 2 mila miliardi di dollari, l’Italia 8,5 miliardi di Euro. Le grandi industrie di armi ringraziano: alla fine sono solo loro a trarre un bilancio positivo da questa guerra. Se quel fiume di denaro fosse andato all’Afghanistan, adesso il Paese sarebbe una grande Svizzera. E peraltro, alla fine, forse gli occidentali sarebbero riusciti ad averne così un qualche controllo, mentre ora sono costretti a fuggire con la coda fra le gambe. Ci sono delle persone che in quel Paese distrutto cercano ancora di tutelare i diritti essenziali. Ad esempio, gli ospedali e lo staff di Emergency - pieni di feriti - continuano a lavorare in mezzo ai combattimenti, correndo anche dei rischi per la propria incolumità: non posso scrivere di Afghanistan senza pensare prima di tutto a loro e agli afghani che stanno soffrendo in questo momento, veri “eroi di guerra”.
Vauro per "il Fatto quotidiano" il 14 agosto 2021. Risparmiateci condoglianze e coccodrilli. Gino Strada era un buonista del cazzo per tutti quelli, a destra e sinistra, per i quali esistono guerre giuste, specialmente quando hanno cariche di governo o autorità politica. Oggi è morto un utopista convinto che la pace sia un'utopia realizzabile con la volontà e con la passione. Oggi è morto un sognatore che tentava di praticare i sogni. Oggi è morto un realista certo che la pace non si costruisce con le armi. Oggi è morto un cretino come me e come qualche altro. Spero solo che il cretinismo buonista sia contagioso più del Covid. La speranza è l'ultima a morire, dicono: ma con Gino io ho imparato che l'ultima a morire è la disperazione.
Gino Strada, pacifista polemico icona della sinistra virtuosa ma spocchiosa. Angelo Allegri il 14 Agosto 2021 su Il Giornale. Fondatore di Emergency, ha salvato migliaia di vite. Ma non ha mai amato la moderazione. Tra le cose di cui Gino Strada andava fiero c'era quella di non aver mai fatto pagare una visita. In compenso ha curato e fatto curare centinaia di migliaia, forse milioni, poveri della terra. Bambini donne e uomini che avevano la colpa di vivere dove la miseria uccide e dove le armi, le mine, le bombe fanno saltare braccia e gambe o aprono ferite sanguinose. I suoi ospedali (tre) resistono nell'Afghanistan ripiombato nella morsa della barbarie talebana, insieme ai molti centri di pronto soccorso sparsi per il Paese e ai centri assistenziali creati in mezzo mondo. Ma oltre al chirurgo, al fondatore di Emergency, all'organizzatore capace di mobilitare uomini e mezzi per buone cause, c'era anche il polemista, il politico, il tribuno dai giudizi netti e senza distinzioni. E il rumore delle sue battaglie verbali ha spesso finito per avvolgere in una nebbia di polemiche e rancori la sua attività di ogni giorno. Luigi Ambrogio Strada, per tutti Gino, si era formato in un periodo in cui le sfumature non andavano di moda e gli scontri erano frontali. Classe 1948, nato a Sesto San Giovanni in una famiglia operaia, sceglie di studiare Medicina alla Statale. Il suo è un libretto da primo del corso, ma ad attirarlo è altro. In Facoltà diventa capo del Movimento studentesco, con annesso servizio d'ordine, i famigerati katanga, e infine direttore del settimanale Fronte popolare. Con lui nel Movimento e solo di pochi anni più giovane, c'è un altro medico oggi diventato noto al grande pubblico, il virologo Massimo Galli. Per molti studenti di allora la laurea non è che un orpello borghese da rifiutare. Strada non fa eccezione: come altri, decide di smettere di studiare per dedicarsi a tempo pieno alla politica, salvo ripensarci dopo un paio d'anni. È per questo che il titolo di dottore, conquistato a pieni voti, arriva solo alla soglia della trentina. Una volta laureato parte per una serie di esperienze all'estero in ospedali di alto livello: Usa, Inghilterra, Sud Africa. La sua prima specializzazione è la cardio-chirurgia, ma subito inizia a interessarsi di chirurgia d'urgenza e di guerra. Nel 1994, la svolta: con la moglie Teresa Sarti, morta nel 2009, decide di creare un'associazione in grado di prestare assistenza medica in situazioni di emergenza. Gli inizi li racconta lui stesso in alcune interviste. Per raccogliere soldi, insieme a una ventina di amici, organizza una serata in un locale di Viale Monza, a Milano. Gli servono 250 milioni di lire, ne mette insieme 12. Propone che ognuno dei medici coinvolti firmi 10 milioni di cambiali, ma in suo soccorso arriva il Maurizio Costanzo Show. Sulla ribalta televisiva è a suo agio, è come ai tempi delle assemblee universitarie: la parlata efficace e convincente, i giudizi taglienti e d'impatto. I soldi arrivano subito: in poche settimane ha 850 milioni a disposizione. Il primo intervento è nel Ruanda del genocidio, poi la Cambogia, e infine l'Afghanistan dove rimarrà per sette anni. Ai tempi del rapimento del giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo è Emergency a fare da tramite per la liberazione. Tutto finisce con accuse sanguinose contro il governo di Romano Prodi, allora in carica, a cui viene addebitato il fatto di aver abbandonato al proprio destino l'interprete di Mastrogiacomo. Ma Strada ne ha per tutti e non fa particolari distinzioni: da Massimo D'Alema a Silvio Berlusconi, da Matteo Renzi a Paolo Gentiloni non risparmia le polemiche contro chi si oppone al suo pacifismo assoluto (anche se in un'occasione di sé dice: «non sono pacifista, sono contro tutte le guerre»). La moderazione dei toni non è nelle sue corde. Bush è il nuovo Hitler, Matteo Salvini e Giorgia Meloni si comportano «da gerarchi nazisti» e così via. In una circostanza definisce «sbirro», l'allora ministro dell'interno Marco Minniti del Pd. In quell'occasione anche la sinistra si interroga sui rapporti tra estremismo dei principi e realismo degli obiettivi. Michele Serra lo eleva a rappresentante della sinistra «virtuosa ma spocchiosa», contrapposta a quella «realista ma compromessa». Il cordoglio di ieri, da Mattarella in giù, non ha avuto eccezioni. Perfino Salvini, una specie di arci-nemico, gli ha reso l'onore delle armi. «L'Italia perde un uomo di valore. La diversità delle idee politiche lascia spazio al cordoglio e alla preghiera». La figlia Cecilia ha saputo della morte del padre mentre era sulla nave di una Ong, impegnata nel salvataggio di 85 persone al largo della costa libica: «Una volta con mio padre parlavamo di come ci si sente quando muore un paziente». ha detto collegata con Rainews24. «Lui mi disse ricordati che prima o poi vince la morte. Però la morte può vincere una volta sola, la vita ogni giorno. Per mio padre oggi ha vinto la morte, in tanti altri posti ha vinto la vita». Angelo Allegri
Morto Gino Strada, il fondatore di Emergency aveva 73 anni: "Soffriva di problemi di cuore". Libero Quotidiano il 13 agosto 2021. E' morto Gino Strada, il fondatore di Emergency. Aveva 73 anni. Secondo quanto riporta il Corriere della Sera il medico e filantropo, fondatore della ong nel 1994 insieme alla moglie Teresa Sarti, si è spento nella giornata di oggi venerdì 13 agosto. Il Corsera aggiunge che "soffriva di problemi di cuore". "Nessuno se l'aspettava. Siamo frastornati e addolorati", ha detto commossa la presidente di Emergency Rossella Miccio. "E' una perdita enorme per il mondo intero. Ha fatto di tutto per rendere migliore il mondo. Ci mancherà tantissimo".
Proprio oggi su La Stampa, è stato pubblicato un articolo scritto da Gino Strada sulla situazione in Afghanistan, realtà che il fondatore di Emergency ha conosciuto bene. "Ho vissuto in Afghanistan complessivamente 7 anni: ho visto aumentare il numero dei feriti e la violenza, mentre il Paese veniva progressivamente divorato dall'insicurezza e dalla corruzione. Dicevamo 20 anni fa che questa guerra sarebbe stata un disastro per tutti. Oggi l'esito di quell'aggressione è sotto i nostri occhi: un fallimento da ogni punto di vista", scrive il medico da sempre contrario alla guerra che ha realizzato ospedali e punti di primo soccorso in 18 Paesi. "Oltre alle 241 mila vittime e ai 5 milioni di sfollati, tra interni e richiedenti asilo, l'Afghanistan oggi è un Paese che sta per precipitare di nuovo in una guerra civile, i talebani sono più forti di prima, le truppe internazionali sono state sconfitte e la loro presenza e autorevolezza nell'area è ancora più debole che nel 2001. E soprattutto è un Paese distrutto, da cui chi può cerca di scappare anche se sa che dovrà patire l'inferno per arrivare in Europa". E ancora, attacca Strada: "Per finanziare tutto questo, gli Stati Uniti hanno speso complessivamente oltre 2 mila miliardi di dollari, l'Italia 8,5 miliardi di Euro. Le grandi industrie di armi ringraziano: alla fine sono solo loro a trarre un bilancio positivo da questa guerra. Se quel fiume di denaro fosse andato all'Afghanistan, adesso il Paese sarebbe una grande Svizzera. E peraltro, alla fine, forse gli occidentali sarebbero riusciti ad averne così un qualche controllo, mentre ora sono costretti a fuggire con la coda fra le gambe. Ci sono delle persone che in quel Paese distrutto cercano ancora di tutelare i diritti essenziali. Ad esempio, gli ospedali e lo staff di Emergency - pieni di feriti - continuano a lavorare in mezzo ai combattimenti, correndo anche dei rischi per la propria incolumità: non posso scrivere di Afghanistan senza pensare prima di tutto a loro e agli afghani che stanno soffrendo in questo momento, veri eroi di guerra".
Morte Gino Strada, la figlia Cecilia: "Il mio papà non c'è più. Ecco perché non ero con lui". Libero Quotidiano il 13 agosto 2021. È morto improvvisamente all'età di 73 anni Gino Strada. Il fondatore di Emergency, stando a quanto scritto dal Corriere della Sera, "soffriva di problemi di cuore". Nessuno però si aspettava la sua scomparsa, neppure la presidente dell'associazione umanitaria Rossella Miccio che assieme alla figlia di Strada ha dato il triste annuncio. Proprio Cecilia Strada ha voluto condividere un messaggio su Facebook spiegando l'accaduto: "Amici, come avrete visto il mio papà non c'è più - è l'inizio del post con a corredo una foto del mare -. Non posso rispondere ai vostri tanti messaggi che vedo arrivare, perché sono in mezzo al mare e abbiamo appena fatto un salvataggio". Per questo Cecilia dice che "non ero con lui, ma di tutti i posti dove avrei potuto essere...beh, ero qui con la ResQ - People saving people a salvare vite. È quello che mi hanno insegnato mio padre e mia madre. Vi abbraccio tutti, forte, vi sono vicina, e ci sentiamo quando possiamo". Tantissimi i messaggi arrivati. Da quello di Bruno Vespa: "Avevamo idee politiche diverse, ma Gino Strada è stato davvero un grande. Indimenticabile il mio ricordo di Emergency in Afghanistan. Buon viaggio e grazie". A quello di Laura Boldrini: "Per le vite che hai curato e salvato. Per essere stato testimone della ferocia della guerra e perciò grande sostenitore della pace, sempre. Per l’idea che hai fatto vivere di cura e medicina per tutte e tutti. Per ciò che sei stato e hai fatto, grazie. Addio Gino Strada". Tutti ricordano con grande affetto il medico lombardo che con la sua associazione umanitaria nata 25 anni fa fondò ospedali e punti di primo soccorso in 18 Paesi.
Il ricordo del fondatore di Emergency. L’eredità di Gino Strada, l’ateo buono che lascia a tutti il vangelo del fare. Giuseppe Melzi su Il Riformista il 25 Agosto 2021. Ha scritto Moni Ovadia: «Da oggi siamo più soli, più smarriti, più fragili è stato il mio primo pensiero alla notizia improvvisa della morte di Gino Strada, un uomo giusto. E mi chiedo, chi siamo? Tutti noi che crediamo nel valore integro, sociale della vita umana, tutti noi che ripudiamo radicalmente la guerra e i suoi osceni travestimenti, tutti noi che crediamo con la forza di una fede nella dignità di ogni essere umano, nei suoi inviolabili diritti civili e sociali, che sosteniamo il bene comune come priorità assoluta e riteniamo, pertanto, che il finanziamento pubblico debba essere destinato ad esso, a partire dalla sanità pubblica. La sua voce, quando parlava di questi temi, era unica per autorevolezza, per verità». Gino Strada e la moglie, Teresa Sarti, assieme, hanno testimoniato il senso sacro della vita; hanno avuto il culto di quella degli altri, prima della propria. Tanto da rendere possibile l’impossibile: salvare milioni di innocenti, soprattutto bambini, devastati da criminali strumenti di guerra (denunciati da Gino nell’angosciante libro I pappagalli verdi). Nelle frontiere più pericolose, a rischio della propria vita, senza protezioni e salvacondotti, con la determinazione (apparentemente paradossale) di prestare le cure a vittime e carnefici. Un’utopia? Una realtà per Gino e Tere e per i tanti volontari di Emergency! «Non sento il bisogno di Dio», ha risposto Gino a una frettolosa intervista: una affermazione (ugualmente paradossale) che deve essere interpretata, meglio verificata nella realtà vissuta, nei fatti concreti. Gino e Tere, di formazione cattolica, si sono spesi, da laici, senza troppe parole, con la religione del fare, nella immanenza delle relazioni umane; una operatività professionale di assoluta eccellenza, in sé trascendente l’abisso delle brutalità quotidiane delle guerre e delle ingiustizie sociali. La passione incondizionata di Gino e Tere non chiedeva passaporti, o conversioni: rincorrevano la vita dove era maggiormente in pericolo. Difendevano la pace, nella quale ora riposano entrambi. “Gino Strada aveva una formazione cattolica, poi era diventato ateo, comunista e aveva messo la sua vita totalmente al servizio degli altri. Secondo lei, dove si trova adesso?”. A questa domanda, l’amico, architetto Renzo Piano, ha risposto: “È una domanda difficile, ma di sicuro ha lasciato una traccia… Un esercito di persone si erano riconosciute nella sua visione del mondo: non lo so dove sia Gino ora. Ma certamente una parte di lui è dentro di me». È il miglior traguardo dell’uomo; per i credenti, la missione che Dio ha dato all’uomo, che si realizza solo attraverso le opere. Gino e Tere, hanno ritrovato e testimoniato Dio ogni giorno negli ultimi bisognosi del mondo, lasciando tracce di vita in ciascuno di noi, credenti e non credenti. La figlia Cecilia ha ricordato: «Una volta eravamo in un centro di cardiochirurgia e parlavamo di come ci si sente quando muore un paziente. Lui mi disse: “Ricordati che prima o poi vince la morte”. Però la morte può vincere una volta sola, la vita ogni giorno. Per mio padre oggi ha vinto la morte, però oggi in tanti altri posti ha vinto la vita». Dobbiamo continuare a far vincere la vita con Cecilia e con i volontari di Emergency, per poter far nostre le ultime parole di Gino: «Ricordatevelo, me ne vado felice». Giuseppe Melzi
Da liberoquotidiano.it il 14 agosto 2021. Non riesce a trattenere l'emozione Massimo Moratti, che nella giornata del 13 agosto ha perso un amico: Gino Strada. Una scomparsa inaspettata quella del fondatore di Emergency, che ha scosso l'ex presidente dell'Inter: "Stiamo cercando di aiutare col rimpatrio, dare una mano per quanto e come possibile. Avevo sentito Gino due giorni fa. Aveva progetti, come sempre, ma questa volta doveva preoccuparsi della propria salute. C'erano problemi, lo sapeva, ma nessuno pensava che, così velocemente... Oh, il mio amico Gino. Ha in mente l'amico perfetto?", si sfoga in una lunga intervista al Corriere della Sera. Con Strada Moratti ha condiviso tantissimi momenti, perché - come lui stesso ammette - "con l'amico perfetto ti lasci andare e dialoghi sulla vita, la meraviglia della vita svelata da un incontro, un gesto, un viaggio, una scoperta, un incrocio di sentimenti. Il pensiero che andava alle nostre mamme e ai nostri papà, e ai compagni dell'esistenza; il pensiero di noi due da bimbi; il pensiero ai figli, le parole che magari non abbiamo detto loro oppure che loro ci hanno detto e che, senza darlo a vedere per pudore, per riservatezza, ci hanno invece scosso l'anima; il pensiero a malattie, a morti, a piccoli innocenti che non si era riusciti a salvare; il pensiero all'eroica dignità di certe sofferenze". Un'amicizia la loro che risale agli inizi degli anni Novanta, complice il legame tra le loro mogli. Da lì i due sono stati inseparabili, nonostante le numerosissime missioni umanitarie di Strada. "Mi invitava in ogni angolo possibile del pianeta - prosegue -. Ma c'era un luogo, un ospedale in Uganda, una delle mille sue enormi imprese, che gli provocava una trepidazione particolare, dolcissima. Ora, non voglio fare una difesa che potrebbe apparire di parte. Lo stesso Gino non ne ha bisogno. Ma la sua immagine pubblica, o quantomeno l'immagine che molti hanno, forse non era, diciamo, del tutto conforme". Per l'amico Moratti infatti Gino è e rimane per sempre un coraggioso.
Gino Strada, la giravolta politica: "Avrà sorriso sotto i baffi, incredulo per certi commenti dopo la sua morte". Libero Quotidiano il 14 agosto 2021. Gino Strada è venuto a mancare improvvisamente all’età di 73 anni mentre era in vacanza in Normandia. Il fondatore di Emergency aveva problemi di salute, ma nessuno si aspettava che potesse andarsene così presto: chi lo conosce assicura che aveva ancora qualcosa da dare. Per la sua morte sono arrivati tanti messaggi, alcuni tardivi o singolari dal mondo della politica in particolare, che avrebbero stupito Gino Strada. “Se lo conosco bene - ha dichiarato Rossella Miccio, presidente della ong con sede a Milano - avrà fatto una faccia un po’ stupita, sgranato gli occhi e fatto un sorriso sotto i baffi di incredulità. Si meravigliava sempre quando succedevano cose inaspettate, ma non si arrabbiava per queste cose. Si arrabbiava per cose più serie: perché il mondo non rinuncia ancora alla guerra, perché c’è sempre maggior divario tra ricchi e poveri e le ingiustizie continuano ad aumentare; si arrabbiava per quello non perché qualcuno si metteva una spilletta con il logo di Emergency”. Per quanto riguarda i funerali di Gino Strada, non sono ancora stati fissati: “Ci vorrà qualche giorno - ha spiegato Rossella Miccio - perché c’è tutta una serie di pratiche burocratiche da sbrigare e ancora non abbiamo tempi certi purtroppo, non si sa ancora nulla. Pensiamo che sarà ricordato a Milano perché era casa sua e casa di Emergency”.
Gino Strada, Velardi e Crosetto: "Fondamentalismo arrogante, ma quel fuoco negli occhi". I messaggi di cordoglio. Libero Quotidiano il 13 agosto 2021. La morte di Gino Strada ha colto alla sprovvista tutti quelli che lo conoscevano e non solo. Dopo la notizia della sua scomparsa sono stati tanti i messaggi di cordoglio e ricordo. Il conduttore di Che tempo che fa, Fabio Fazio, che aveva avuto occasione di intervistarlo nel suo programma su Rai 3, ha scritto: "Nel suo cuore c’era tutto il bene del mondo. Tutto il bene del mondo…". Un tweet sui generis, invece, quello che ha deciso di scrivere Gad Lerner per ricordare il fondatore di Emergency: "E' la Milano migliore, il Sessantotto migliore, la dimostrazione che l’utopia non è ingenuità ma fede creatrice". Non tutti, però, si sono spesi in parole di totale ammirazione per Strada. Qualcuno ha preferito scrivere il proprio pensiero sincero e onesto sulla sua persona. Tra questi il saggista Claudio Velardi: "Non mi piaceva, di Gino Strada, un certo fondamentalismo arrogante, e mi infastidisce la lagna degli adulatori ex-post che si sta già scatenando. Però lui aveva il fuoco negli occhi, una ruvida concretezza e comportamenti conseguenti, tipici di una persona vera". D'accordo con lui Guido Crosetto, che ha commentato: "Esattamente il mio pensiero: rispetto per lo spirito che lo animava". Solo parole di dolore e di stima, invece, da parte del conduttore di La7 Corrado Formigli: "Ci hai mostrato col tuo esempio che il dolore è universale come la pietà. Hai avuto un coraggio immenso, sempre in prima linea. Con le idee chiare e radicali di chi ha visto, fatto, sofferto, vissuto. Il bene che hai fatto resta". Non sono mancati, poi, i messaggi un po' più istituzionali. "Una vita dedicata agli altri, e soprattutto ai più fragili e vulnerabili. Un esempio costante, concreto di autentica solidarietà e rara umanità. Una perdita inestimabile", ha scritto Giuseppe Conte. Mentre sull'account ufficiale di Palazzo Chigi si legge: "Il Presidente Draghi ha appreso con tristezza della morte di Gino Strada. Ha trascorso la sua vita sempre dalla parte degli ultimi, operando con professionalità, coraggio e umanità nelle zone più difficili del mondo".
Strada, le lodi sperticate degli ipocriti. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud il 16 agosto 2021. Le lodi sperticate (ma meritate) per Gino Strada sono, come dice il suo caro amico Moni Ovadia, l’ennesima dimostrazione di un Paese ipocrita. Gino Strada in vita è stato molto criticato, anche ferocemente, da quelle stesse persone che adesso sui giornali si sprecano nel ritratto dell’”italiano buono” che salvava la gente dalla morte. Certo Strada era soprattutto questo, un buono, un uomo impegnato nell’umanitario, ma dire buono non vuol dire fesso. Strada era un critico puntuale e spietato della società contemporanea, un osservatore attento della politica internazionale, del comportamento nostro e delle grandi potenze, assai responsabili dei disastri che vediamo davanti ai nostri occhi, dall’Afghanistan, al Medio Oriente, all’Africa.
Molti di quelli che oggi lo santificano sui giornali e chiedono per lui il Nobel, sono gli stessi giornalisti e opinionisti che per 20 anni hanno appoggiato le guerre americane, dall’Afghanistan all’Iraq. Alcuni di loro tra l’altro _ aggravante massima _ non hanno mai messo piede in questi luoghi o lo hanno fatto per prendersi soltanto una veloce abbronzatura esotica. Sono gli stessi sprovveduti che hanno avallato le bugie di Bush junior e di Blair sulle armi distruzione di massa di Saddam Hussein. Sono coloro che non si sono mai accorti che in Afghanistan le cose andavano male da anni. Che non sanno niente di come vive questa gente, di che cosa ha bisogno e soprattutto che cosa pensa di noi occidentali. Gino Strada era contro queste guerre che i politici italiani, i giornali italiani, hanno sostenuto con ogni argomento e contro ogni logica. Vedeva la gente morire, le ferite sanguinare e ascoltava con i suoi medici e collaboratori quel che pensava la gente del posto, senza la mediazione della retorica. Perché qui da noi non siamo soltanto davanti a degli ipocriti ma anche a gente decisamente ignorante o in mala fede che teme ogni volta di esporsi con un’idea o un’opinione controcorrente perché teme di mettere a rischio la sua miserevole carriera. Prendete il nostro ministro degli Esteri attuale fa parte di un movimento che in molti casi si è espresso, in passato e anche oggi, come Gino Strada contro le guerre e contro la presenza delle nostre truppe in Afghanistan o in Iraq. Adesso loda a ogni piè sospinto gli Usa e la Nato, senza se e senza ma. Salvo poi accorgersi, con impercettibile ritardo, che dopo avere ammainato la bandiera a Herat bisogna fare subito i bagagli anche da Kabul. Vedete in che mani siamo? Gino Strada, come tanti altri in questo Paese che dedicano la vita agli altri, serviva e serve a questa Italia di ipocriti per lavarsi le coscienze. Alcune volte non ero d’accordo con le cose che diceva o con l’analisi di certe situazioni. Ma non era importante che lo fossi o meno. L’importante era che ci fosse una voce alternativa, un punto di vista diverso di cui tener conto. E lui era una di queste voci. Parlava anche per quelli che non contano o che restavano in silenzio. Questo era il valore morale di Strada, il suo peso anche “politico” in senso lato. Parlava anche per quei politici che non hanno il coraggio di farlo, e da noi sono la maggior parte: quante volte mi danno ragione in privato sul Medio Oriente, la Libia o l’Afghanistan e poi si allineano con la versione americana e atlantista? Gino Strada veniva convocato dai politici quando serviva e si era al limite della disperazione. Come nel caso del rapimento in Afghanistan nel 2007 del giornalista Daniele Mastrogiacomo. In quel periodo Strada riceveva quasi ogni giorno a Kabul i giornalisti italiani, è stato il momento in cui l’ho conosciuto meglio anche se gli ospedali di Emergency costituivano da sempre un punto di riferimento per gli inviati. Il suo mediatore Hanefi fu decisivo per liberare Mastrogiacomo ma venne tenuto in carcere per tre mesi come complice dei talebani. Questa vicenda in queste ore è passata magari sotto traccia ma è indicativa delle difficoltà a vivere come ha fatto Gino Strada, con generosità. La verità è che è sempre stato scomodo: il mondo migliore in cui sperava da giovane, diceva, non si era mai realizzato. Non per questo si è mai arreso. Perché era un combattente, della pace, ma un combattente. La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio.
Migliaia in coda per salutare Gino Strada. Sala: "Spero che assenza dei politici sia dovuta soltanto alle vacanze". Zita Dazzi su La Repubblica il 22 agosto 2021. Secondo giorno di apertura della camera ardente per salutare il medico morto improvvisamente il 13 agosto. Volontari e sostenitori da tutta Italia. Fabio Fazio: "Con Emergency curava tutti, la sua morte lascia un grande vuoto". Alle 9 del mattino c'è già gente in coda a Milano, fuori dalla sede di Emergency, dove ha riaperto alle 10 la camera ardente con l'urna delle ceneri di Gino Strada. Il colpo d'occhio è impressionante perché c'è ancora più folla di ieri, primo giorno dei tre durante i quali si può dare l'ultimo saluto al fondatore dell'Ong che ha curato 11,5 milioni di persone nel mondo dal 1994. Il popolo di Emergency è rimasto in fila sotto al sole in via Santa Croce e la coda si allungava dentro al parco delle Basiliche, lo attraversava tutto fino all'altro ingresso, sulla Cerchia dei Navigli. In tutta la giornata oltre 4mila persone hanno portato il proprio tributo, che si sommano alle 4mila di ieri. L'ultimo saluto a Gino Strada: da Massimo Moratti a don Ciotti, gli amici di una vita sfilano nella sede di Emergency. Amici di una vita, compagni di strada, sostenitori, volontari: da sabato pomeriggio Milano si ritrova nella sede di Emergency di via Santa Croce per l'ultimo saluto a Gino Strada. Massimo e Milly Moratti, don Luigi Ciotti, Maurizio Landini, Nico Colonna, il sindaco Beppe Sala, Frankie hi-nrg tra i primi volti noti a salutare le sue ceneri, nella mattinata di oggi sono già arrivati Fabio Fazio e don Antonio Mazzi, mentre è atteso anche Renzo Piano. Il sindaco Beppe Sala è tornato accompagnando Renzo Piano. All'uscita ha detto che l'assenza della visita di esponenti politici di caratura nazionale nei primi due giorni di apertura della camera ardente in memoria di Gino Strada "mi auguro sia solo dovuto al momento di vacanza. Sarebbe stato certamente importante anche che tanti (politici, ndr) fossero venuti in questi giorni, ma speriamo che si possa lavorare nella sua memoria - ha aggiunto il primo cittadino milanese -. Però bisogna andare avanti, quindi spero che questo insegnamento che lui ha lasciato guidi le azioni della politica. C'è questo valore della gente che lascia e quindi continuare a lavorare assieme è obbligatorio". Oggi ci sono molte persone con i fazzoletti dell'Anpi al collo, oltre ai molti volontari e sostenitori che indossano la maglietta rossa di Emergency. C'è chi è venuto da fuori Milano facendo ore di pullman, come Caterina Cardiani, 65 anni, arrivata da Roma: "Non lo conoscevo ma da sempre verso quello che posso all'associazione che cura i malati e i feriti di guerra senza chiedere i documenti, vedendo solo l'uomo che ha bisogno, l'essere umano. Gino era un santo, come lui non ce ne sono più". Fra i primi ad entrare alla camera ardente c'è il conduttore televisivo Fabio Fazio, grande amico di Gino Strada da molti anni. Si ferma a lungo a parlare con Simonetta Gola, la seconda moglie del chirurgo sposata a giugno, che era con lui in Normandia, dove il medico è morto il 13 agosto scorso, improvvisamente mentre era in vacanza. "Ho avuto il privilegio di conoscerlo ed essere suo amico - dice Fabio Fazio, uscendo con gli occhi umidi di pianto - Era una di quelle persone capaci di dire parole esperienziali, parlava di cose concrete, curava le vite di tutti, senza fare distinzioni. Lascia un grande vuoto, ma questo è il momento di stare vicini ad Emergency, alla figlia Cecilia Strada, alla moglie Simonetta. Io lo farò con gratitudine per tutto quello che mi ha insegnato". Entra anche don Antonio Mazzi, fondatore della comunità Exodus: "Questa morte ha un valore profetico e ci dice che dobbiamo essere uniti noi che facciamo parte del terzo settore, andare oltre alle parrocchiette e lottare per i diritti delle persone, di tutti gli uomini senza distinzioni". Intanto il muro dei biglietti di ricordi e di ringraziamenti ormai è una specie di memoriale pieno di fiori, di foto e di pensieri scritti a mano. Gino Strada, la frase nella camera ardente: "I diritti degli uomini devono essere di tutti sennò chiamateli privilegi".
La sinistra in vacanza dimentica il suo eroe scomodo Gino Strada. Luigi Mascheroni il 24 Agosto 2021 su Il Giornale. Sala e Majorino (Pd) delusi: le assenze parlano da sole. Negli ultimi due giorni dalla camera ardente di Gino Strada allestita all'interno di «Casa Emergency» a Milano sono passate più di diecimila persone. Fiori, biglietti e striscioni per dire grazie. C'erano compagni di strada, compagni e basta, sostenitori e volontari di Emergency, medici, amici, conoscenti e sconosciuti. Da tutt'Italia. Tanta, tantissima gente. Ma pochi, pochissimi politici. Avevano già fatto tutti il loro bel commiato su Twitter. Cosa vuoi ancora? Del resto il medico di Sesto San Giovanni, pragmatismo lombardo e operaismo sessantottino, non aveva rapporti particolarmente felici coi politici, sia di destra sia di sinistra. Ai primi rinfacciava di essere disumani, almeno a parole; ai secondi ipocriti, spesso nei fatti. E pensava a tutti, indistintamente, quando diceva che in molti fra quelli che stanno in Parlamento e blaterano di guerra neppure sanno bene dove sia l'Afghanistan su una cartina geografica. Certo. Gino Strada era troppo al di sopra delle beghe politiche, aveva una immensa forza interiore e si curava troppo poco di certe cose del mondo per preoccuparsi dei nomi scritti sul registro delle visite in una camera mortuaria. Anzi, forse si divertirebbe anche, se potesse passare di qui a curiosare... Resta il fatto che mentre migliaia di cittadini comuni in questi giorni hanno fatto la coda per offrirgli l'ultimo saluto, i nostri politici sono rimasti al mare. Si faranno vedere almeno ai funerali? La destra come spesso accade, è assente. Ma la sinistra è imbarazzante. Al netto di qualche vip e sparuti intellettuali, fra ieri e l'altro ieri dalla camera ardente sono passati un pugno di assessori milanesi, il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, il fondatore dell'Associazione «Libera» don Luigi Ciotti, e - ci mancherebbe - il sindaco di Milano, Beppe Sala. Il quale, guardandosi attorno, ha dovuto ammettere: «Spero che l'assenza dei politici sia dovuta soltanto alle vacanze». E nel caso avesse ragione, sarebbe anche peggio. L'europarlamentare del Partito democratico Pierfrancesco Majorino è andato persino oltre: «Le assenze dei politici in questi casi non sono da commentare, ma parlano da sole». Il popolo di Emergency ieri e domenica è rimasto in fila sotto al sole in via Santa Croce, dal parco delle Basiliche fino all'ingresso dall'altra parte, sulla Cerchia dei Navigli. Ma i rappresentanti del popolo italiano al massimo hanno fatto un post, dalla spiaggia #GrazieGino #Noncedichè. Poi ci sono gli omaggi per interposta persona. Emanuele Fiano uscendo dalla camera ardente ha detto che era lì in rappresentanza di tutto il Partito democratico. Anche il lutto, ormai, è a distanza. Gino Strada, per il quale La Banda degli Ottoni a Scoppio, domenica, dentro «Casa Emergency», davanti all'urna con le sue ceneri, ha suonato l'Internazionale - bandiera rosa e pugni chiusi - per la Sinistra era un eroe, un uomo di pace, un esempio. Da seguire. Ma non esageriamo: senza andare troppo lontano. L'ultima settimana di agosto, poi.
Luigi Mascheroni. Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010); "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, 2021).
Gino Strada, parla la moglie Simonetta Gola: «Gli ultimi giorni con lui, tra la Normandia e i libri». Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 16 novembre 2021. Simonetta Gola dopo la scomparsa del fondatore di Emergency: abbiamo perso lui, non il suo pensiero. Stasera a Milano lo spettacolo per ricordarlo. «Credo di essere fortunata rispetto ad altri. Ho perso la persona che amavo ma ne posso continuare a parlare, anzi devo continuare a farlo perché il suo pensiero non vada perduto». Simonetta Gola, 50 anni, si è sposata con Gino Strada nel giugno del 2021, una manciata di settimane prima della sua morte. Ma da molti anni gli era vicina, prima come responsabile della comunicazione di Emergency e poi anche come sua compagna e sostegno fidato. Oggi, a distanza di tre mesi dalla sua scomparsa, arrivata come un macigno a poche ore dall’ingresso dei talebani in quella Kabul che lui così bene conosceva e amava, il ricordo del fondatore di Emergency si mescola con quello privato.
Abbiamo ancora tutti negli occhi le immagini della camera ardente, dove 11 mila persone sono venute a rendergli omaggio. Cosa significa, vivere senza lui a fianco?
«Gino ha lasciato un vuoto enorme nel privato e nel lavoro. Ma ci ha lasciato anche un grande pieno, fatto di tanti progetti. E responsabilità gigantesche per portare avanti il lavoro di Emergency».
Gino Strada aveva un enorme carisma personale. Il suo pensiero per un’intera generazione ha rappresentato un punto di riferimento, una precisa posizione politica. Come si gestisce questa eredità?
«Siamo stati abituati per anni alle sue prese di posizione, alle sue invettive. Ai suoi discorsi appassionati. E ora che non c’è dobbiamo far sì che il suo pensiero non vada perso. Con questo spirito abbiamo organizzato lo spettacolo al Teatro Dal Verme di questa sera, partendo proprio dalle sue parole e dal suo pensiero».
Il lavoro di Emergency come procede?
«Chiaramente la sua perdita è stata un colpo duro per tutti. Ma siamo andati avanti. Abbiamo finito di costruire un ospedale in Yemen. E stiamo rafforzando la presenza in Italia, perché — come Gino amava ripetere — i diritti devono essere di tutti, altrimenti sono privilegi. Sulla salute, in primis. E questo non solo in Afghanistan o nei Paesi più fragili. Ma anche qui a casa nostra».
Gino Strada è venuto a mancare in uno dei momenti più tragici per il popolo afghano cui era così vicino. L’ospedale di Emergency a Kabul anche oggi in mezzo alla tempesta resta un punto di riferimento fondamentale per i civili…
«La seconda volta che ha visitato il Paese era il 1998, lo prendevano per pazzo quando diceva che voleva aprire un ospedale lì per curare la gente. È finita che ne ha costruiti quattro. L’ultima è stato vent’anni esatti dopo. Era rimasto molto impressionato da come fosse cambiato il Paese. Di come i civili fossero ancora così esposti ad attacchi e attentati. E di come il conflitto in Afghanistan fosse a tutti gli effetti una guerra di aggressione. Per questo non gli piaceva l’espressione “siamo in Afghanistan”, riferita alla presenza militare degli italiani. Lo aveva fatto riflettere sul tema della scelta, sulla possibilità che la politica ha di cambiare il mondo, di fermare i massacri, di spezzare la catena d’odio che alimenta il fondamentalismo. Un’opportunità che molto spesso non viene colta per ragioni di mera convenienza economica».
A cosa stava lavorando prima di morire?
«Nel febbraio 2020, a inizio pandemia siamo andati a Hiroshima per raccogliere materiali per un centro culturale contro la guerra che stiamo creando a Venezia. Abbiamo incontrato il sindaco della città, che ci ha accolto con particolare gentilezza. Durante la visita nel parco, un posto meraviglioso e pieno di pace, arrivati davanti alla cupola ci siamo fermati, colpiti. E lì mi parlava di Einstein, che se l’uomo è in stato in grado di creare un’arma per distruggere il pianeta allora come è possibile che non sia in grado di fermare la guerra. È stato l’ultimo viaggio di lavoro».
Alla fine vi siete andati a rifugiare in Normandia, un luogo che amava molto. Di cosa parlava più volentieri negli ultimi mesi?
«Aveva sempre tanta voglia di fare, di vedere gli amici, dopo la chiusura dei mesi precedenti a causa della pandemia. Era una persona divertente, ironica, tagliente che amava la vita. La sera mi leggeva la storia del Terzo Reich di Shirer, perché non si capacitava non l’avessi letto. Due tomoni. Io mi addormentavo. Ma lui non si rassegnava e andava avanti. Era così Gino. Andava sempre avanti. Anche per me, per noi».
· E’ morta Patricia Alma Hitchcock, figlia di Alfred.
Marco Giusti per Dagospia l'11 agosto 2021. Non deve essere stato facile essere l’unica figlia di Alfred Hitchcock, soprattutto facendo l’attrice. Se ne va a 93 anni Patricia Alma Hitchcock, detta Pat, figlia di Sir Alfred e di Alma Reville, nata a South Kensington nel 1928 e morta a Thousand Acres in California. Anche se seguì i genitori quando si spostarono a Hollywood, proprio assecondando i suoi desideri, il padre e la madre, attrice, decisero di farla studiare in Inghilterra per farne una buona attrice di teatro, prima che di cinema a Hollywood, dove, diceva cinicamente Sir Alfred, "they needed a maid with an English accent", “Hanno bisogno di una cameriera con accento inglese”. Fece così il suo debutto sui palcoscenici londinesi e solo successivamente il padre la chiamò per piccole, ma curiose parti nei suoi film. La vediamo così, buffa, un o’ tonda, con gli occhiali, simpatica, in “Paura sul palcoscenico”, “L’altro uomo”, “Psycho”, che alternò a partecipazioni a tv movie e serie televisive negli anni ’50, cominciando col primissimo “The Case of Thomas Pyke” nel 1949, proseguendo con “Suspence”, “My Little Margie”, “Playhouse 90”. La troviamo anche in altri film dei primi anni ’50, “Un monello alla corte d’Inghilterra”, “I dieci comandamenti”. Caruccia, ma certo non una bellezza da star del cinema, brava, ma come tante altre, pensando che non avrebbe certo fatto una vera carriera a Hollywood e le uniche parti le avrebbe avute nei film del padre, dopo aver incontrato in un viaggio in Italia il suo futuro marito, Joseph Edward O’Connell, decise, d’accordo coi genitori, di dedicarsi interamente alla famiglia. Così lasciò il cinema. Dopo però aver girato una decina di telefilm della serie “Alfred Hitchcock Presents” e “Psycho”, dove interpreta Caroline, e scomparve di scena. Ebbe tre figlie femmine, Mary Stone, Tere Carrubba e Katie Fiala e visse una vita felice insieme al marito, scomparso una ventina d’anni fa. A metà degli anni ’70 riapparve però al cinema in tre film, due tvmovie “Ladies of the Corridors” e “Six Characters in Search of Author”, e il film “Skateboard”. Nel 2003 scrisse un fondamentale libro “Alma Hitchcock: The Woman Behind The Man”, dove spiegò il ruolo della madre a fianco del marito per la costruzione artistica di quello che era il loro cinema.
· E’ morto il doppiatore Giorgio Lopez.
Andrea Parrella per "fanpage.it" il 10 agosto 2021. Il mondo del cinema piange la scomparsa di Giorgio Lopez, noto doppiatore che nel corso della sua carriera ha prestato la voce ad alcuni degli attori più celebri di sempre, da Danny De Vito a Dustin Hoffman, Pat Morita e Christopher Lee. Fratello maggiore dell'attore comico e doppiatore Massimo Lopez, Giorgio Lopez è morto a Roma il 10 agosto 2021, per cause al momento non ancora specificate. A riportare la notizia della sua morte è il sito antoniogenna.net, riferimento assoluto in Italia per quel che riguarda il mondo del doppiaggio. La voce di Giorgio Lopez era inconfondibile e chiunque, pur non associandola al suo nome, l'avrà certamente ascoltata in qualche film. Tra i più celebri certamente quelli più altisonanti della carriera di Danny De Vito, da "I soldi degli altri" a "I gemelli", passando per "L.A. Confidential" e "Austin Powers in Goldmember". Il timbro di Lopez è accostabile anche alla seconda parte di carriera di Dustin Hoffman, attore che ha doppiato dopo la scomparsa di Ferruccio Amendola, che per anni ha prestato la voce all'attore hollywoodiano. Ma quella di Lopez è una voce memorabile anche per frasi celebri, una in particolare, il "togli la cera metti la cera" del maestro Miyagi in Karate Kid. Centinaia i film ai quali ha lavorato, compresi molti titoli di animazione, da "Chi ha incastrato Roger Rabbit" a "Shrek 2". Giorgio Lopez aveva iniziato con studi classici, laureandosi in Lettere presso L'università "La Sapienza" di Roma nel 1974 in Storia del Teatro con il Prof. Ferruccio Marotti. Poi si è è diplomato all'Accademia d'Arte Drammatica "Silvio D'Amico" di Roma nel 1969, iniziando il suo percorso nel mondo dell'arte. È quindi diventato insegnante di tecniche del doppiaggio e recitazione presso la scuola che lui stesso aveva fondato.
Il dolore di Massimo Lopez: "Ti immagino così". Novella Toloni il 19 Agosto 2021 su Il Giornale. Dopo il lutto subito, l'attore ha affidato ai social network un tenero messaggio rivolto al fratello, Giorgio, morto pochi giorni fa a 74 anni. Il 10 agosto è venuto a mancare Giorgio Lopez, celebre doppiatore di cinema e televisione, deceduto all'età di 74 anni. Il breve tempo trascorso non è riuscito ancora a lenire il dolore e la sofferenza di chi, come il fratello minore Massimo Lopez, si è trovato all'improvviso senza l'affetto dell'artista, amato e apprezzato fuori e dentro l'ambiente dello spettacolo. Sui social network Massimo Lopez continua a pubblicare post dedicati al fratello Giorgio per mantenerne vivo il ricordo. Un rituale straziante e carico di dolore per la scomparsa del familiare. Nelle scorse ore l'attore, 69 anni, ha condiviso sulla sua pagina Instagram un ultimo scatto insieme al fratello Giorgio. Un'immagine nella quale i due appaiono felici e sorridenti lontani dai giorni drammatici che la famiglia sta vivendo in questo momento. "Caro fratello mio, ti immagino così, baciato dal sole", ha scritto Massimo Lopez sulla sua pagina personale. Un post per ricordare con positività e affetto il fratello maggiore, uomo carismatico e grande professionista. Giorgio Lopez è morto il 10 agosto a 74 anni, ma le cause del decesso non sono state rese note. Accanto a lui si sono stretti i familiari, la compagna e i figli Gabriele e Andrea, anch'essi doppiatori. L'attore, regista e doppiatore - celebre per aver dato la voce ad attori come Dustin Hoffman e Danny De Vito - aveva alcune patologie pregresse di cui non aveva fatto mistero. Lo scorso 27 luglio, attraverso la sua pagina Facebook, Giorgio Lopez aveva informato i suoi fan di non avere ancora ricevuto la prima dose del vaccino nonostante le patologie pregresse che lo affliggevano da tempo. La notizia della sua scomparsa è stata data, pochi giorni dopo, dal fratello Massimo Lopez, che su Instagram ha pubblicato un doloroso video. "Ciao Giorgio mio, ti voglio bene. È andato via un grande artista, ma il suo spirito rimane", aveva detto nel breve filmato social l'attore, che non ha nascosto il volto provato dalla sofferenza. Nei giorni successivi Massimo Lopez è tornato a parlare del fratello sul web con il viso coperto dagli occhiali scuri e la voce rotta dall'emozione. Difficile supera il lutto per l'artista originario di Ascoli Piceno, che sui social network continua a condividere immagini di momenti felici vissuti insieme al fratello maggiore Giorgio.
Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perché non c’è niente
· È morto Nadir Tedeschi, ex esponente delle DC.
È morto Nadir Tedeschi, ex esponente delle DC: aveva 91 anni. Riccardo Castrichini il 09/08/2021 su Notizie.it. È morto Nadir Tedeschi, ex esponente della Democrazia Cristiana, aveva 91 anni. Nel 1980 era stata gambizzato dalle BR. È morto Nadir Tedeschi, ex esponente della Democrazia Cristiana per la quale dal 1976 era stata deputata della Repubblica italiana. Nato a Badia Polesine, in provincia di Rovigo in Veneto, Tedeschi si è spento a Trezzano sul Naviglio a pochi giorni da quello che sarebbe stato il suo 91esimo compleanno, il prossimo 11 agosto. Nel corso della sua vita una fitta attività politica e una gambizzazione a sue spese messa in atto dalle Brigate Rosse. Nel corso della sua carriera politica nella DC Nadir Tedeschi è stato relatore delle leggi di formazione professionale oltre che di quella riguardante il part-time e la riforma sanitaria. Negli anni da servitore dello Stato è stato inoltre vittima anche di un attentato terroristico messo in atto dalle Brigate Rosse.
Nello specifico, il 1º aprile 1980 era stato gambizzato dalle BR della Colonna Walter Alasia che avevano effettuato un’incursione nella sede della Democrazia Cristiana di Milano, in via Via Mottarone 5. Oltre a Tedeschi in quell’attentato vennero ferite altre tre persone.
Morto Nadir Tedeschi, ex onorevole della DC. Erano gli anni del terrorismo in Italia, una croce per fortuna estirpata nei tempi più moderni, che è però importante ricordare attraverso le testimonianze di chi c’era. Nadir Tedeschi lo ha fatto in un libro intitolato Dialogo sull’Italia degli anni di piombo. Intervista sul terrorismo, grazie al quale nel 2010 ha ricevuto la Medaglia d’oro come vittima del terrorismo. Oltre a questo libro, citato tra l’altro dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel discorso recitato nel corso giornata della memoria del 9 maggio 2011, Tedeschi ha pubblicato una decina di libri che riguardavano le storie della sua terra d’origine. Aveva tre figli, Francesca, Stefano e Alessandra, e tre nipoti, Alessandro, Lapo e Rachele. I funerali si svolgeranno mercoledì 11 agosto alle ore 11 presso la Parrocchia di San Lorenzo a Trezzano sul Naviglio. Dopo la cerimonia funebre l’ex esponente della DC verrà tumulato nella cappella di famiglia nel cimitero di Badia Polesine, la stessa all’interno della quale riposa già la moglie Elda Tardivello.
· È morto il musicista Dennis "Dee Tee" Thomas, il leader di Kool & The Gang.
Il sassofonista della celebre band funk aveva 70 anni: si è spento nel sonno. La Repubblica l'8 agosto 2021. Ha fondato Kool & the Gang, uno dei gruppi dell'R&B e del funk divenuti cult nell'era della disco music. Dennis "Dee Tee" Thomas è morto all'età di 70 anni nella sua abitazione in New Jersey. Lo si apprende dal profilo Facebook della band ancora oggi in attività. Thomas, si fa sapere, è morto nel sonno. Era uno dei sassofonisti del gruppo ed ha contribuito alla nascita e al successo di brani indimenticabili come Get Down On It e Celebration, che tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80 hanno fatto ballare un'intera generazione. Nel 2020 se n'era andato un altro dei cofondatori della band, Ronald "Khalis" Bell, anch'egli sassofonista. Conosciuto per il suo look, immancabile il cappello, era anche lo stilista della band. I Kool & the Gang si formarono nel 1964 a Jersey City e la loro esplosione commerciale avvenne nel 1974, quando uscì l'album Wild and Peaceful, emblema della disco music. I membri principali del gruppo sono stati i fratelli Robert Bell (conosciuto come 'Kool') al basso (nato l'8 ottobre 1950 a Youngstown, in Ohio) e Ronald Bell al sassofono tenore (nato il primo novembre 1951 sempre a Youngston); George Brown alla batteria; Robert Mickens alla tromba e alle percussioni; Dennis Thomas al sassofono alto (1951-2021); Claydes Charles Smith alla chitarra (1948-2006); Clifford Adams alla tromba (1952-2015) e Rick Westfield alla tastiera. Il padre dei fratelli Bell era uno dei manager di Thelonious Monk e i fratelli erano amici di Leon Thomas. Nel 1964 Robert formò una banda strumentale chiamata The Jazziacs con il fratello Ronald e cinque amici del liceo. In seguito cambiarono il loro nome in Kool & the Gang e segnarono le pop-charts mondiali con l'uscita del loro debutto musicale, Kool & the Gang (1970). Seguirono diversi album dal vivo e in studio: Wild & Peaceful (1973) ottenne grande successo grazie a singoli come Jungle Boogie (che in futuro verrà utilizzata in Pulp Fiction di Quentin Tarantino) e Hollywood Swinging (utilizzata nel videogioco Grand Theft Auto: San Andreas). Dopo l'altro album di grande successo, The Spirit of the Boogie (1975), la band abbandonò la musica funk e abbracciò la disco music. Nel 1980 il disco Celebrate!, che contiene le canzoni Fresh e Celebration, scalò la classifica e replicarono di nuovo il successo con il lavoro successivo, del 1984, intitolato Emergency. La band ha vinto due Grammy, sette American Music Awards, 25 Top Ten R & B hit, nove Top Ten Pop e 31 album d'oro e platino. Nell'ottobre 2015 sono entrati nella Walk of Fame. Il 24 marzo 2021, l'intramontabile hit di Kool & the Gang Celebration è stata inserita nella Biblioteca del Congresso National Recording Registry.
Mattia Marzi per "il Messaggero" il 9 agosto 2021. Hanno animato le piste da ballo al di là e al di qua dell'Atlantico negli anni d'oro del funk e dell'r&b, tra la fine dei 70 e l'inizio degli 80, rivaleggiando nelle classifiche con altre superstar del genere come i Bee Gees (dei tre fratelli Gibb è rimasto in vita solamente Barry), gli Earth, Wind & Fire, Stevie Wonder, Donna Summer. Ora i Kool & the Gang si stanno pian piano sgretolando. Dopo la scomparsa nel 2020 del sassofonista Ronald Khalis Bell, un altro lutto ha colpito la grande famiglia della band di Celebration e Get Down on It: è morto all'età di 70 anni Dennis Dee Tee Thomas, l'altra colonna portante del sound fiatistico e corposo del gruppo, vincitore - tra le altre cose - anche di due Grammy Awards e di sette American Music Awards.
IL SAX Il musicista, che nei Kool & the Gang suonava il sax contralto, il flauto e le percussioni, si è spento sabato notte nella sua abitazione in New Jersey spirando «pacificamente nel sonno», come hanno scritto in un post condiviso sui canali social ufficiali dei Kool & the Gang gli altri componenti della formazione, ancora oggi in attività. Se ne va così un altro membro fondatore del gruppo considerato un nome di culto della scena funk e r&b americana, una discografia fatta di oltre 20 album e 70 singoli, tanti quanti i milioni di dischi venduti a livello mondiale. Della formazione originale che cominciò a farsi conoscere nel 1964 restano solamente due musicisti: il bassista Robert Kool Bell (70 anni compiuti lo scorso ottobre) e il percussionista George Brown (che di candeline sulla torta, invece, a gennaio ne ha spente 72). Il tastierista Ricky West morì nel 1985 (ma già nel 76 aveva lasciato i Kool & the Gang per mettersi in proprio), il chitarrista Claydes Charles Smith scomparve nel 2006, il trombettista Robert Spike Mickens si spense nel 2010 (il gruppo, lui, lo lasciò nell''86). James J.T. Taylor, il cantante che incise le hit Celebration e Get Down on It, è ancora vivo e oggi ha 67 anni. Uscì dai Kool & the Gang nell''88, salvo poi rientrare nel 95 per altri quattro anni: la carriera solista del musicista non è mai decollata.
IL LOOK Il futuro del gruppo è già nelle mani dei musicisti entrati a far parte dei Kool & the Gang negli ultimi anni per dare manforte ai fondatori: a prendere il posto di Dennis Dee Tee Thomas sarà Shelley Paul. Con loro il sassofonista si era esibito meno di un mese fa, lo scorso 4 luglio, all'Hollywood Bowl di Los Angeles. Oggi ne ricordano il look, tra abiti eleganti e cappelli che non passavano inosservati, e la «grandissima personalità».
· E’ morta l’editrice Laura Lepetit.
Francesco Musolino per “Il Messaggero” il 7 agosto 2021. Era l'editrice delle donne, si chiamava Laura Lepetit e con lei se ne va un altro grande pezzo dell'editoria italiana di taglio internazionale. La creatrice della casa editrice La tartaruga è scomparsa ieri, ad 89 anni, nella sua casa di Poggio Murella, in Maremma e la notizia è stata annunciata dall'amica di famiglia, Annarosa Buttarelli, compagna di molte imprese editoriali, tra cui la cura della collana Pensiero e pratiche di trasformazione di Moretti & Vitali.
LA NOTA E inoltre, recentemente ha scritto una nota per un libretto, Cavoli a merenda (che uscirà postumo in autunno, pubblicato dall'editore Tre Lune di Luciano Parenti) in cui Laura Lepetit, con la sua consueta ironia, commenta le ricette di cucina scritte da altri. «Laura era una gran signora milanese che un bel giorno voltò le spalle alla grande società e ai salotti altolocati per votarsi all'editoria, creando una casa editrice che pubblicava solo le donne, le voci più brillanti del panorama internazionale, destinate a far sognare tutti i lettori», afferma la scrittrice siciliana Silvana La Spina (1945) che venne scoperta proprio dalla Lepetit, pubblicando nell''86 Morte a Palermo, il romanzo che si aggiudicò il Premio Mondello l'anno seguente. Nata il 3 agosto 1932 a Roma, Laura Maltini in Lepetit si trasferisce nel 1944 a Milano dove si laurea in Lettere moderne all'Università Cattolica del Sacro Cuore. A ventiquattro anni si sposa con l'industriale Guido Lepetit con cui ha due figli. Dopo aver fatto qualche supplenza come insegnante, decise di rilevare con Anna Maria Gandini nel pieno degli Anni Sessanta, la gestione della celebre libreria Milano Libri e successivamente, nel 1975, diede vita alla casa editrice La Tartaruga che ha diretto fino al 1997, per poi cederla alla Baldini&Castoldi.
IL GENIO La scintilla di tutto, come dichiarò alla stampa, fu un vero colpo di genio: «Avevo appena letto Le tre ghinee di Virginia Woolf e con stupore, mi sono resa conto che nessuno lo aveva ancora tradotto. Lo faccio io, decisi. La Tartaruga è nata così». E anno dopo anno, la sua casa editrice ha pubblicato il gotha dell'editoria mondiale femminile, autrici di fama mondiale e premi Nobel come Margaret Atwood, Ivy Compton-Burnett, Nadine Gordimer, Barbara Pym, Virginia Woolf, Gertrude Stein, Grace Paley, Doris Lessing, Alice Munro, con il merito di aver ristampato anche autrici italiane dimenticate, fra cui Anna Banti, Paola Masino e Gianna Manzini, scoprendo anche esordienti come Francesca Duranti, Silvana Grasso e appunto, Silvana La Spina. «Laura era molto snob ma dotata di un fiuto editoriale e di una intelligenza lucidissima, senza pari, così come fu Elvira Sellerio, un'altra grande donna dell'editoria. Con Laura prosegue Silvana La Spina - fummo amiche nel corso degli anni, ne ricordo la grande coerenza».
IL TITOLO Insignita nel 1987 del titolo di cavaliere del lavoro «per meriti morali e professionali», senza mai perdere candore e umanità, ha narrato la sua storia in Autobiografia di una femminista distratta, edito da Nottetempo nel 2016. «È brutto che a poca distanza se ne siano andati due editori Roberto Calasso e Laura Lepetit due capisaldi della scena editoriale che pur se con caratura diversa, si sono sempre distinti per intelligenza ed eccentricità nella ricerca delle opere. È molto triste conclude l'autrice siciliana perché oggi siamo tutti più poveri senza di loro».
· È morta «Mamma Ebe» Gigliola Giorgini.
Silvia Maria Dubois per "corriere.it" il 7 agosto 2021. È morta «Mamma Ebe», uno dei personaggi più discussi della cronaca degli anni Ottanta e Novanta: arresti, accuse, decine di articoli e servizi tv, perfino un film e diversi “speciali” furono dedicati alla «Santona di Carpineta». Gigliola Giorgini, questo il suo vero nome, è morta ieri all’età di 88 anni all’ospedale Infermi di Rimini. Malata da tempo, dopo il rito funebre, il feretro sarà trasferito per la tumulazione al cimitero monumentale di piazzale Umberto Bartolani.
I guai giudiziari. «Mamma Ebe», persona super carismatica, fondò una presunta congregazione religiosa dal nome «Pia Unione di Gesù Misericordioso». Fu condannata a sette anni di reclusione, con sentenza del 2008, dal Tribunale di Forlì, per truffa ed esercizio abusivo della professione medica. Non solo: l’11 giugno 2010 alla sua porta bussano di nuovo le forze dell’ordine, viene di nuovo arrestata insieme al marito e a un collaboratore con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata all’esercizio abusivo della professione medica e alla truffa aggravata. Nella sua «biografia» giudiziaria si notificano anche altri 14 provvedimenti cautelari a carico di adepti e collaboratori della donna. Infine, il 16 marzo 2016, la Corte di Cassazione conferma la sentenza definitiva alla pena di 6 anni di reclusione.
La diffida della Chiesa. Le contestazioni e le suggestioni attorno al personaggio nascono, però, soprattutto dal suo «gruppo religioso». La Pia Unione di Gesù Misericordioso, fondata proprio da Mamma Ebe, operò nella zona di San Baronto, poi Borgo d’Ale in provincia di Vercelli e quindi Roma e Carpineta benché non fosse mai stata approvata o in altro modo riconosciuta dalle autorità della Chiesa cattolica, anzi il vescovo di Pistoia Simone Scatizzi, il 29 settembre 1982 dichiarava il «carattere non ecclesiale della Pia unione di Gesù misericordioso» e il 24 maggio 1985 pronunciava l’interdizione canonica, diffidando i credenti a prendere parte alle attività della «Pia unione» . Non solo: fu proibito ai sacerdoti di frequentare la Giorgini e di dare i sacramenti a lei e ai suoi adepti. Fra questi, tantissime donne che arrivavano, in alcuni momenti, a prenderla come unico esempio di vita, staccandosi da tutto il resto. A tutti Ebe prometteva una guarigione. Fra le “vittime” anche anziani, soprattutto malati.
Il film. Mamma Ebe fu fonte d’ispirazione per speciali, lunghe cronache giornalistiche e anche di cinema. La sua biografia, in particolare, ispirò, al regista Carlo Lizzani, il film omonimo, che venne presentato anche alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1985. Nel film di Lizzani, la Ebe è interpretata dall’attrice Berta D. Domínguez.
Le sette vite di Mamma Ebe tra sesso, esorcismi e truffe. Massimo M. Veronese l'8 Agosto 2021 su Il Giornale. Si spacciava per guaritrice, costruì un impero, incantò molti uomini. Ma Gigliola Giorgini "fece solo del male". Aveva 88 anni ed è morta all'ospedale Infermi di Rimini «per gli effetti inestinguibili di una neoplasia», lontana dalla villa-santuario-ambulatorio di Carpineta sulle colline cesenati dove aveva costruito il suo infernale paradiso. Mamma Ebe, al secolo Giliola Ebe Giorgini, se ne è andata nel silenzio, senza essere mai stata innocente, simbolo inquietante di un'Italia nascosta e psicolabile, signora dei trucchi e degli inganni, raccontata persino da un film di Carlo Lizzani con Stefania Sandrelli. Quando l'arrestano per la prima volta, a metà degli anni Ottanta, saranno 28 gli ordini di custodia che collezionerà, l'ultimo quattro anni fa, è una bella cinquantenne che dimostra almeno dieci anni di meno, occhi scuri e penetranti, i capelli nerissimi sciolti sulle spalle. Se la cava con la libertà su cauzione, ma dalla cronaca non esce più. L'arrestano di nuovo, sempre di notte, nell'ottantotto, in una delle sue tre ville di Morlupo, paese sulla via Flaminia a 30 chilometri da Roma, le altre due sono a Cesena e Pistoia, sempre in bilico tra demonio e santità. Tra esorcismi, guarigioni «miracolose» e pomate per curare ogni male si scoprono casse di champagne, costose lingerie in pizzo e un fidanzato più giovane di ventidue anni, Gabriele Casotto, il discepolo preferito, che sposerà quando, insieme, saranno reclusi a Rebibbia. É sempre una bella donna che risponde alle accuse sgranando gli occhi e sorridendo innocente dichiarandosi vittima di congiure da inquisizione della Chiesa «perché le sue stigmatizzate mani erano baciate dal Signore», stigmate che, si scoprì, se le faceva con la lametta. La Pia Unione di Gesù Misericordioso con il suo contorno di sedicenti seminaristi e di suore nominate da lei stessa è un'impero finanziario con patrimonio immobiliare che gli investigatori definiscono «rilevante» e conti correnti, anche segreti, dove imboscare gli introiti per decine di miliardi. Per questo non smettono di starle addosso.
Nel '90 si dichiara «una donna stanca, più volte operata di tumore, con frequenti crisi di cuore che dice addio alla missione di guarire i sofferenti». Ma Pia o no, la setta continua invece a produrre utili, perchè alla sua porta continuano a bussare centinaia di persone, di tutte le età, anche genitori che fanno benedire per telefono i figli piccoli solo per farli smettere di piangere. Lo scopre il pm di Forlì, Filippo Santangelo, dopo un esposto anonimo su un adolescente curato prima dagli esorcismi e poi con psicofarmaci a pioggia. Mesi di pedinamenti, intercettazioni, perquisizioni la riportano in galera insieme al medico di base Mauro Martelli, accusato di procurare alla santona ricettari firmati in bianco. L'organizzazione viene demolita da accuse come associazione per delinquere, esercizio abusivo di professione medica, falso ideologico, truffa aggravata, sequestro di persona, persino maltrattamenti di bambini. Le cure sono psicofarmaci in dosi esagerate ma benedetti dalle mani della Santona di Carpineta con sovrapprezzo obbligatorio, esorcismi assortiti, superstizione, misticismo e falsa medicina. Con consulti a 600mila lire a botta, gradito devolvere al Pio ordine il proprio patrimonio, in parte o intero. Plagi che non diventano virali attraverso spot tv urlanti alla Wanna Marchi ma sul discreto passaparola, tanto che le inchieste vanno a sbattere spesso contro il muro di omertà delle vittime stesse. Solo ora che è morta scrivono: «È una persona che ha fatto del male». E così sia.
Massimo M. Veronese. Pioniere della radio privata in Italia ha lavorato per Gente, Retequattro e Raitre prima di essere assunto al Giornale da Indro Montanelli. Ha scritto libri per Mondadori, Feltrinelli e Mursia. Solo negli ultimi anni ha curato gli inserti sui 40 anni e sui 45 anni del Giornale, sul Muro di Berlino e sullo Sbarco sulla Luna, la collana Firme Fuori dal coro, da Gianni Brera a Jorge Luis Borges, e l’antologia «Te lo do io il ’68 ». Ha contribuito alla realizzazione del film «Indro, l’uomo che scriveva sull’acqua», il suo ultimo libro «Senti chi parla» (Anniversary book) è stato presentato al Festival del cinema di Venezia e all’IIC di Los Angeles.
· È morto lo scrittore Antonio Pennacchi.
(ANSA il 3 agosto 2021) E' morto questa sera nella sua casa di Latina, all'età di 71 anni, lo scrittore Antonio Pennacchi, vincitore del premio Strega 2010 con Canale Mussolini. Lo conferma la casa editrice Mondadori. (ANSA).
Lite Salvini-Pennacchi a Ballarò: "Io fesso? Lei un fesso e mezzo". su La Repubblica il 03 agosto 2021. Nervi a fior di pelle in diretta a "Ballarò". Ospiti della trasmissione di Massimo Giannini il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, e lo scrittore Antonio Pennacchi, invitati in studio a discutere di razzismo. "Dire che gli italiani sono razzisti è una fesseria" esordisce Salvini rispondendo a Pennacchi. Ma il premio Strega 2010 non ci sta e contrattacca: "Ne dice tante lei... Io fesso? Lei un fesso e mezzo".
Addio Pennacchi l'unico vero fasciocomunista. Vittorio Macioce il 4 Agosto 2021 su Il Giornale. Se ne è andato di botto, quasi fosse un dispetto, senza neppure dire arrivederci, con quel cuore da bastian contrario, che non smetteva mai di dare calci al mondo. Se ne è andato di botto, quasi fosse un dispetto, senza neppure dire arrivederci, con quel cuore da bastian contrario, che non smetteva mai di dare calci al mondo, un posto dove non puoi stare tranquillo se sei nato con l'animaccia da galantuomo. Antonio Pennacchi ha preso l'ultima scorciatoia mentre stava parlando al telefono con la persona che amava e stimava di più, sua moglie. È la donna con cui ha passato la vita perché come lui sapeva di vero e qualche volta brontolando diceva che era anche l'unica in grado di sopportarlo. La realtà è che ne conosceva la dolcezza. I Pennacchi sono ruvidi e imprevedibili. Ti spiazzano, ma sanno essere generosi. Danno tutto, se ne vale la pena. Era così anche suo fratello Gianni, un maestro di giornalismo. È quello con cui Antonio passava il tempo a litigare e a riabbracciarsi, e lo ha fregato perché si è messo in viaggio prima di lui senza aspettare le feste di Natale. È il fratello che gli fa da controcanto nel Fasciocomunista. È la vita scriteriata di Accio Benassi, incazzato, ribelle, attaccabrighe, goffo, innamorato, illuso, ingenuo, arrogante, disubbidiente, sentimentale. È quello stare fuori dal pentagramma della musica di moda, svirgolando tra seminario, sezione del Msi e gruppettari maoisti, senza tradire nessuno, senza davvero riconoscersi in una bandiera. Ci ricava pure un film con Riccardo Scamarcio e Elio Germano. La regia è di Daniele Lucchetti. Il titolo è preso in prestito da una canzone di Rino Gaetano: Mio fratello è figlio unico. Benassi come Benassa, il protagonista del suo primo romanzo. Quello scritto mentre lavorava in fabbrica, alla Fulgorcavi di Latina. Ci è rimasto trent'anni. Mammut è il manoscritto che gli editori rispedivano al mittente, probabilmente senza neppure leggerlo. Ha collezionato 55 rifiuti e dopo il successo si divertiva a ricordarlo. Ecco, non era mica scontato quello che è successo con Canale Mussolini. Le saghe familiari non erano ancora tornate così di moda, con quella scrittura che parla direttamente al lettore, con lo stile di chi ti sta semplicemente raccontando una storia, ma lo fa con la ricchezza di chi ha letto milioni di libri e un po' si diverte a farti credere che è capitato lì per caso, come se in una notte troppo lunga gli fosse venuto il vezzo di narrarti le vicende di una famiglia dell'agro pontino. È gente venuta da su, dal Veneto, contromano, con la speranza di trovare la terra promessa dove un tempo c'erano le paludi, bonificate dal Duce per dare la terra ai braccianti e l'idea un po' megalomane di forgiare un nuovo popolo. Pennacchi, libertario nel midollo e probabile predestinato al confino, non è che stravedeva per il «capoccione», ma quel pezzo di ventennio lo ha raccontato senza imbarazzo, sfidando pure i nipoti di quelli che con il fascismo sono stati classe dirigente o nel gregge delle camice nere. Si divertiva a irridere i recensori. «Angelo Guglielmi ha scritto: troppe citazioni: come se l'autore volesse far vedere che ha studiato. E non ha capito che le citazioni erano false. Era un gioco. Gli ho mandato una lettera: guardi che le citazioni me le sono inventate». È finita che con Canale Mussolini si è preso il lusso di scalare le classifiche di vendita e di vincere perfino lo Strega. Anche i Benassa, o i Peruzzi, qualche volta vanno in paradiso, poi però si affrettano a scendere, non per ingratitudine o blasfemia, ma perché proprio non ce la fanno a sopportare la compagnia. Certo, un po' ci ha giocato con il successo. Si è lasciato tentare da un'avventura politica: Pennacchi per Latina. Sottotitolo: Futuro e libertà. È la sua stagione finiana. La saga dei Peruzzi continua con un Canale Mussolini. Parte seconda. È un seguito meno spontaneo. Troppo ragionato. Quel pezzo d'Italia creato a tavolino torna con il delitto di Cori, i due fidanzati ammazzati con 170 coltellate. È il mistero di Nuvola rossa, dove spiega l'inquietudine della sua gente. L'Agro Pontino è un pezzo di Valpadana; dove sembra che parliamo il romanesco, ma a pensare e a sognare si continua in veneto. Noi non ci siamo mai sentiti del Lazio. Il Lazio è Sud. Ci è completamente estraneo. Alieno. Dopo ancora 70 anni». È qui che c'è il senso della filosofia umana di Pennacchi. È lo straniamento. È quel ritrovarsi costantemente al confine di qualcosa, senza sapere bene perché. Il dover lottare per trovare un posto, con la sensazione di non raggiungerlo mai, come se un destino pesasse su quelli come te, estranei per qualche strana faccenda a quello che ti circonda. I Pennacchi, i Benassa, i Peruzzi sono fatti per resistere al flusso della storia e si dannano per cercare un motivo del perché si sono acquartierati da qualche parte in questo mondo. Pensano, fuggono, maledicono, si perdono e si divertono a fare i conti con la propria inquietudine. Si portano sulle spalle la maledizione di Giobbe senza neppure averne la fede. Quello che li spinge ad andare avanti è la certezza che da qualche parte esiste una terra dove gli sfiniti trovano pace. Vittorio Macioce
Antonio Pennacchi, morte improvvisa a 71 anni: le ultime toccanti parole dello scrittore fasciocomunista. Libero Quotidiano il 03 agosto 2021. Antonio Pennacchi si è spento a 71 anni nella sua casa a Latina. Non si conoscono ancora le cause della morte, ma intanto anche la casa editrice Mondadori ha confermato la notizia. Vincitore del premio Strega 2010 con Canale Mussolini, era conosciuto come lo scrittore “fasciocomunista” per il romanzo autobiografico scritto nel 2003 e intitolato appunto “Il fasciocomunista: vita scriteriata di Accio Benassi”, da cui nel 2007 è stato tratto il film “Mio fratello è figlio unico”. Nato a Latina nel 1950, Pennacchi era stato operaio all’Alcatel Cavi. Prima della carriera letteraria, si era dedicato parecchio alla politica: inizialmente nelle file del Msi, successivamente in quelle del partito marxista-leninista italiano. Tra gli anni settanta e ottanta aveva aderito al Psi e ai sindacati: prima la Cgil e poi la Uil. Negli anni novanta ha iniziato la sua carriera nel mondo della scrittura, dopo essersi laureato in lettere e filosofia approfittando del tempo sospeso della cassa integrazione. "Io non scrivo per la voglia di scrivere che anzi non ne ho per niente, ma perché devo raccontare delle storie", diceva poche settimane fa a una giornalista de La Stampa che lo doveva intervistare. “Apprendo con grande tristezza dell’improvvisa scomparsa dello scrittore Antonio Pennacchi - ha dichiarato il sindaco di Latina, Damiano Coletta - una enorme perdita non solo per la città di Latina ma per tutto il Paese. I suoi racconti hanno reso il nostro territorio un luogo letterario, dalla Fondazione ai giorni nostri. È una vera e propria icona di Latina”.
L'autore di "Canale Mussolini" e del "Fasciocomunista". È morto Antonio Pennacchi, lo scrittore Premio Strega: stroncato da malore a telefono con la moglie. Antonio Lamorte su Il Riformista il 3 Agosto 2021. È morto Antonio Pennacchi. Lo scrittore, 71 anni, aveva vinto il Premio Strega nel 2010 con Canale Mussolini. Secondo quanto scrive l’AdnKronos sarebbe stato colto da un malore mentre era a telefono con la moglie. Si trovava nella sua casa di Latina. “Quello che è stato è stato, e non c’è niente da fare. L’unica – per un uomo – è andare avanti. Tenersi il dolore nelle viscere e continuare a fare quel che s’ha da fare: fino all’ultimo istante di nostra vita. Ciao Antonio”, il saluto sui social network della casa editrice Mondadori. Era nato a Latina nel 1950. Era stato operai dell’Alcatel Cavi e si era dedicato alla politica prima nelle file dell’Msi e poi in quelle del partito marxista-leninista italiano. Aveva aderito tra gli anni ’70 e ’80 a PSI e ai sindacati della CGIL e della UIL. Si laureò in Lettere e filosofia durante un periodo di cassa integrazione. L’esordio nella letteratura nel 1995 con Mammut. Ha pubblicato nel 2003 Il fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi, romanzo autobiografico da cui nel 2007 è stato tratto il film Mio fratello è figlio unico, diretto da Daniele Luchetti, con Riccardo Scamarcio ed Elio Germano. Canale Mussolini, del 2010, è stato finalista al Premio Campiello e vincitore dello Strega. L’ultimo suo romanzo è stato Le strade del mare, edito da Mondadori. In un’intervista recente a Rolling Stone rifletteva così sulla sua morte, su come l’avrebbe voluta: “A volte penso nel sonno. E soprattutto senza lasciare conti in sospeso. Andarmene sereno. Possibilmente senza soffrire troppo. Non mi mette paura la morte. Parte del mio dovere l’ho fatta. Mi considero nella fase finale della mia vita e se la parte migliore di me se ne è andata, anche la peggiore è alle spalle. Perché non sono sempre stato una persona perbene, da ragazzo non ero un bravo ragazzo, non sono stato un bravo figlio e neanche un bravo padre. Ora sono un bravo nonno. E ho reso testimonianza e onore ai miei morti, così mi sono riconciliato con mio padre e mia madre”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Operaio, attivista, ribelle. Chi era Antonio Pennacchi, lo scrittore Premio Strega con “Canale Mussolini” morto a 71 anni. Antonio Lamorte su Il Riformista il 3 Agosto 2021. Secondo le prime informazioni, i primi pettegolezzi battuti delle agenzie, sarebbe stato colto da un malore mentre era a telefono con la moglie. Antonio Pennacchi, 71 anni, scrittore irregolare e imprendibile è morto a casa sua, a Latina, dov’era nato, oggi. Cordoglio unanime, della cultura e della letteratura, del mondo anche della politica, per l’autore di Canale Mussolini e de Il fasciocomunista. Operaio e attivista e politicante e dissidente. In un’intervista recente a Rolling Stone rifletteva così sulla sua morte, su come l’avrebbe voluta: “A volte penso nel sonno. E soprattutto senza lasciare conti in sospeso. Andarmene sereno. Possibilmente senza soffrire troppo. Non mi mette paura la morte. Parte del mio dovere l’ho fatta. Mi considero nella fase finale della mia vita e se la parte migliore di me se ne è andata, anche la peggiore è alle spalle. Perché non sono sempre stato una persona perbene, da ragazzo non ero un bravo ragazzo, non sono stato un bravo figlio e neanche un bravo padre. Ora sono un bravo nonno. E ho reso testimonianza e onore ai miei morti, così mi sono riconciliato con mio padre e mia madre”. Pennacchi era nato a Latina il 26 gennaio del 1950. Era figlio di coloni dell’agro pontino: padre umbro e madre veneta. Si era iscritto al Movimento Sociale Italiano da giovane, venne espulso per una manifestazione anti-americana contro la guerra in Vietnam. Aderì allora ai marxisti-leninisti di Servire il Popolo e quindi al Psi, nella Cgil, nella Uil, nel Pci e nella Cgil ancora. È stato operaio per quasi 30 anni alla Fulgorcavi di Latina. Fu espulso da Sergio Cofferati dalla Cgil nel 1983. Durante un periodo di cassaintegrazione, nel 1994, a 44 anni, si iscrisse e si laureò in Lettere con una tesi su Benedetto Croce. E pubblicò il suo esordio, Mammut, rifiutato in otto anni da 33 editori diversi per 55 volte. Da allora avrebbe pubblicato decine di titoli. Canale Mussolini, per Mondadori, si aggiudicò nel 2010 il Premio Strega e arrivò finalista al Premio Campiello. Nel 2011, in occasione delle elezioni comunali di Latina tornò alla politica attiva sostenendo Futuro e Libertà e ottenendo l’1,05% delle preferenze. Pennacchi ha pubblicato per diverse riviste, come Limes, Micromega, Nuovi Argomenti, La Nouvelle Revue Française tra gli altri. L’ultima uscita, sempre per Mondadori, nel 2020 con La strada di casa. È diventato uno degli scrittori più letti e apprezzati degli ultimi decenni in Italia, eppure non ha mai smesso di pensare e di sognare anche la fabbrica. “La vita di ognuno di noi è costellata più dai dolori che dalle gioie – disse sempre a Rolling Stone – Per cui, l’unica cosa che può salvarci è il senso del dovere. Non abbandonarci al dolore ma lottando per cercare di uscirne, io per esempio sublimandolo nella letteratura. Per fare questo provo a giocare anche con l’ironia, senza prendermi troppo sul serio e soprattutto considerando che il destino tragico dell’esistenza non riguarda solo noi stessi, ma è destino comune dell’essere umano. Quindi l’unica cosa che possiamo fare è riconoscerci completamente negli altri. Non c’è scampo fuori dall’empatia”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
È morto Antonio Pennacchi: l’autore di “Canale Mussolini” stroncato da un malore a 71 anni. Redazione martedì 3 Agosto 2021 su Il Secolo d'Italia. Antonio Pennacchi è morto improvvisamente oggi pomeriggio nella sua casa di Latina. Lo scrittore, vincitore del Premio Strega con Canale Mussolini, aveva 71 anni. Secondo le prime ricostruzioni, Antonio Pennacchi è morto mentre stava parlando al telefono con la moglie. Nato a Latina, Pennacchi si dedica alla politica sin da giovanissimo, ma, a differenza dei fratelli, che aderiscono tutti alle organizzazioni di sinistra, si iscrive al MSI. Ben presto entra in contrasto con i vertici del partito e viene espulso. Dopo una lunga riflessione si avvicina al marxismo, aderisce ai maoisti dell’Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti) e partecipa alla contestazione del Sessantotto. Nel frattempo inizia a lavorare come operaio all’Alcatel Cavi di Latina (all’epoca chiamata “Fulgorcavi”), dove rimarrà per oltre trent’anni. Alla fine degli anni Settanta entra nel PSI, quindi nella CGIL, dalla quale viene espulso. Entra allora nella UIL, passa al Partito Comunista Italiano e di nuovo alla CGIL, da cui è espulso nuovamente nel 1983. Lascia quindi la politica e si laurea in lettere all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” sfruttando un periodo di cassa integrazione. Inizia così l’attività di scrittore. Il suo romanzo di esordio è Mammut. Nel 1995 arriva Palude, vincitore del Premio Nazionale Letterario Pisa, dedicato alla sua città, e Una nuvola rossa (1998), in cui narra una vicenda ispirata al delitto dei fidanzatini di Cori, avvenuto l’anno prima nell’omonima cittadina laziale e che aveva avuto grande risalto sulla cronaca nazionale. Nel 2001 lascia l’editore Donzelli e passa alla Mondadori. Nel 2003 esce l’autobiografico Il fasciocomunista, vincitore del Premio Napoli. Dal romanzo è stato poi tratto il film Mio fratello è figlio unico, per la regia di Daniele Luchetti, con Riccardo Scamarcio ed Elio Germano. Dello stesso anno è la raccolta di saggi Viaggio per le città del Duce (Asefi). Del 2005, invece, i saggi de L’autobus di Stalin (Vallecchi). Nel giugno del 2006 esce la raccolta di racconti Shaw 150. Storie di fabbrica e dintorni. Pennacchi collabora alla rivista Limes. Suoi scritti sono apparsi anche su Nuovi Argomenti, MicroMega e Nouvelle Revue Française; frequenta inoltre l’Anonima Scrittori. A partire dal 2007, l’autore è impegnato in un progetto, insieme all’Anonima Scrittori, che prevede la scrittura del romanzo Cronache da un pianeta abbandonato, attraverso la partecipazione e la collaborazione di autori sconosciuti. Sempre nel 2007 si iscrive al Partito Democratico. Nel 2008 è uscito il saggio Fascio e Martello, in cui descrive le città di fondazione del fascismo in tutta l’Italia. Il 2 marzo 2010 esce Canale Mussolini, romanzo sulla bonifica dell’Agro Pontino. Il libro, definito dall’autore come “l’opera per la quale sono venuto al mondo”, vince il 2 luglio la 64^ edizione del Premio Strega, il Premio Acqui Storia come “romanzo storico dell’anno”, il Premio “Libro dell’Anno” del TG1 ed è finalista al Premio Campiello. Il romanzo conquista gran parte della critica e sale in testa alle classifiche di vendita. Nel 2012 si lancia in un nuovo progetto: Pianura Blu per il recupero dei canali di bonifica dell’Agro pontino e per la creazione di una rete ciclonavigabile, con il sostegno della Sapienza Università di Roma e di diverse amministrazioni locali. Sempre nel 2012, partecipa attivamente alla tournée in Germania, per promuovere l’edizione tedesca di Canale Mussolini. Il 20 novembre esce il suo primo romanzo di ambientazione fantastica, Storia di Karel, storia di fantascienza edita da Bompiani. In questo romanzo Pennacchi abbandona la sua Latina e l’Agro pontino per stabilire il suo racconto in una lontana galassia dell’universo dove i coloni, centro dell’opera, spinti da audaci personaggi si ribellano al loro misero destino. Nel 2015 esce Canale Mussolini, parte seconda, pubblicato sempre da Mondadori. Nel 2018 pubblica, con la stessa casa editrice, il libro Il delitto di Agora – una nuvola rossa, in cui modifica e corregge alcune parti del suo romanzo del 1998 Una nuvola rossa, sempre ispirato al delitto di Cori.
Antonio Pennacchi, le parole drammatiche nell'ultima intervista: "Per 15 euro pensano ai funerali. Dopo due infarti..."Libero Quotidiano il 04 agosto 2021. Fa un certo effetto rileggere oggi l'ultima intervista concessa da Antonio Pennacchi al Corriere della Sera. Lo scrittore, Premio Strega nel 2010 con Canale Mussolini, è infatti scomparso ieri, martedì 3 agosto, a 71 anni. A portarlo via, pare, un infarto. Un lutto per la cultura italiana, che saluta un personaggio vulcanico e fuori dagli schemi. Nella lunga intervista che potete leggere integralmente cliccando qui, il Corsera chiedeva: "Sua madre chiamava lei, Pennacchi, catabrighe, che in veneto vuol dire uno che le liti se le va a cercare. Lei si picchiava pure con suo fratello e poi di questi scontri ha fatto un libro, Il Fasciocomunista". E lui: "Ma adesso sono vecchio, ho settantuno anni, mi sono iscritto ad un’associazione che, se versi un tot all’anno, mi pare quindici euro, poi penserà ai tuoi funerali. Mi tranquillizza", rimarcava. Dunque, gli si faceva notare: "Ma come, uno come lei che ha fatto tante battaglie operaie, pensa alla morte?". E Pennacchi rivelò: "Sono stato missino prima e comunista dopo, nessuno potrà mai dire che non ho seguito la coscienza. Oggi, dopo diversi libri, un paio di infarti e tre bypass, posso riposarmi e pensare un poco alle mie nipoti?", concluse. Quindi raccontava delle sue strane abitudini: "Vado a letto alle sette del mattino, dormo fino al pomeriggio e scrivo di notte". Quando gli chiedevano se con le nipoti, Asia e Lucrezia, parlava mai di politica, rispose: "No, perché do per scontato che voteranno a sinistra. Il problema è un altro". Qual è? "Non so se io voterò a sinistra la prossima volta", concluse Antonio Pennacchi
Antonio Pennacchi, lo scrittore operaio delle saghe familiari. Si è spento ieri uno dei maggiori autori italiani che si è imposto con il suo stile vivo, una lingua che rinviava alla parlata, una narrazione che rifletteva anche nella forma l'ironia, la rabbia, le emozioni. Paolo Delgado su Il Dubbio il 4 agosto 2021. Quando nel 1994 uscì Mammut, il primo romanzo di Antonio Pennacchi, scomparso ieri a 71 anni, se ne accorsero in pochi e ancora oggi quel romanzo d’esordio, scritto 7 anni prima approfittando della cassa integrazione, è tra i meno considerati e i meno ricordati nella sua produzione. Del resto prima che Donzelli si decidesse a pubblicarlo aveva collezionato un record di rifiuti rivangato anni fa in un’intervista da quello che nel frattempo era diventato uno dei principali autori italiani: «È andata avanti così per otto anni. Non naturalmente che io per otto anni – vuoi da solo o vuoi con tutta la famiglia – abbia continuato a presentarmi di persona a suonare ai campanelli delle case editrici. “Ma chi è, ancora quello?”, pare facessero tutti quanti. No, oramai m’ero fatto furbo e glielo spedivo per posta. E ogni volta che tornava indietro, glielo rimandavo. Certo gli cambiavo il titolo, mica ero stupido. Ma tu immagina quelli, quando rileggevano le prime pagine: “Ancora questo?”. Per otto anni. Loro a rispedirmelo e io a rimandarglielo. 55 rifiuti alla fine, da 33 editori diversi. Tutti gli editori italiani dai più grossi ai più piccoli. Nessuno escluso». Invece in quel libro c’era già tutto Pennacchi. Uno dei pochi veri romanzi operai italiani, ambientato nella stessa fabbrica dove l’autore lavorava, la Supercavi di Latina-Borgo Piave, lottava, s’incazzava, vedeva e registrava nel suo bellissimo romanzo il declino di quella che un tempo era stata “la centralità operaia” sostituita dalla marginalità operaia, dall’obsolescenza di un’intera classe sociale. Pennacchi parlava del suo mondo, come poi ha sempre continuato a fare, ma con la capacità di individuare al suo interno le tracce di un’esperienza generale, collettiva, storica e dunque epica. Era il suo stile: popolaresco ed epico. Non era solo questione di temi e narrazioni. Pennacchi ha lavorato sul linguaggio come pochi altri scrittori, tanto più in un panorama in cui il conformismo nello stile è d’obbligo come la cravatta nei palazzi della Istituzioni, e non meno desolante, dove tutti, anche i più ribelli in superfice, scrivono guardando sempre, magari con la coda dell’occhio all’accademia. L’ex operaio della Supercavi voleva uno stile vivo e vitale, una lingua che rinviasse a quella parlata, una narrazione che riflettesse anche nella forma l’ironia, la rabbia, le emozioni.
Per questo il suo Il fasciocomunista, libro che nel 2003 ne decretò la definitiva affermazione è probabilmente il migliore scritto su quegli anni a cavallo tra la fine dei 60 e l’inizio dei 70 che hanno segnato per intero e per sempre la generazione che ne è stata protagonista. In quella storia autobiografica e famigliare, un fratello star di estrema sinistra, una sorella brillante altrettanto impegnata e il narratore, più piccolo, che quasi per reazione si schiera invece con l’estrema destra e poi si sposta ma senza mai degenerare nell’antifascismo etnico, da catechismo, ci sono più che in quasi tutti gli altri libri su quell’epoca la sua verità, le sue passioni, il suo intreccio inestricabile di pubblico e privato. E c’è anche il peso che ebbe su quella generazione l’eredità condizionante di un passato ancora vicino, quello che alla fine Pennacchi avrebbe ripreso nel capolavoro Canale Mussolini, di nuovo una storia vera e finta insieme, una saga famigliare che sta alle origini del Fasciocomunista. Si finisce sempre, parlando di Antonio, per citare “i Pennacchi”: lo scrittore, ma anche il fratello Gianni, il Manrico del romanzo, scanzonato e brillante, uno dei giornalisti politici più conosciuti e amati, scomparso tragicamente, la sorella Laura, economista e dirigente dei Ds. Ma anche il Lazio della palude Pontina bonificata dagli immigrati arrivati o fatti arrivare soprattutto dal Veneto, tra cui la stessa famiglia veneto-umbra dello scrittore, quello di Latina e Sabaudia, dell’architettura dell’urbanistica fascista. Quella famiglia e quel mondo Antonio Pennacchi li ha raccontati nel particolare per renderli universali e ha raggiunto l’obiettivo. Basta e avanza per farne uno dei pochi grandi scrittori dell’Italia contemporanea.
Mirella Serri per "la Stampa" il 4 agosto 2021. Aveva 71 anni lo scrittore-operaio Antonio Pennacchi che si è spento ieri a Latina, la sua città natale. Poco tempo fa aveva dichiarato: «A settant' anni ho perduto l'innocenza ma anche gli entusiasmi e le speranze. Il miglior tempo mio se n'è andato, mi restano gli anni della discesa e della riflessione». Il vincitore del Premio Strega 2010, con Canale Mussolini, è deceduto per un improvviso malore. Apparteneva a una numerosa famiglia. Erano sette figli, tra cui il giornalista Gianni e l'economista Laura; i genitori, provenienti dal Veneto, si erano trasferiti durante il fascismo nell'agro pontino in corso di bonifica. Per molti anni Antonio aveva lavorato all'Alcatel Cavi, aveva partecipato alle lotte sindacali e aveva una grande passione sia per la politica che per la letteratura. Quelli che l'hanno conosciuto lo ricordano quando interveniva veemente nelle assemblee, con la sigaretta sempre in mano, prendendo di petto i dirigenti politici e sindacali con un linguaggio colorito e dal forte accento laziale, bacchettando le strategie di lotta. Dapprima Pennacchi aveva militato nel Movimento sociale italiano. Successivamente fece un gran salto nella sinistra, a partire dalle fila dell'estremismo marxista-maoista per poi approdare alla sinistra più moderata. Nei primi anni Ottanta, approfittando della cassa integrazione, Pennacchi si iscrive a Lettere e si laurea. Comincia a dedicarsi alla narrativa. La sua prima opera, Mammut, viene pubblicata nel 1994 dopo essere stata proposta e respinta 55 volte da 33 editori diversi, una vera via crucis, come racconterà lui stesso. Un anno più tardi appare Palude, dedicato alla sua città, Latina. Dopo qualche anno e altri libri, lascia l'editore Donzelli e si trasferisce alla Mondadori. Nel 2003 pubblica uno dei suoi libri di maggior successo, Il fasciocomunista, lavoro sostanzialmente autobiografico riscritto più volte nel corso di una decina di anni. Accio Benassi, il protagonista, fa parte dapprima dei Volontari del Msi di Arturo Michelini per poi passare a condividere le idee rivoluzionarie del comunismo. All'indomani della bomba di Piazza Fontana, Accio rinnega il suo estremismo e il fratello Manrico, ucciso durante uno scontro a fuoco. Da questo romanzo sarà tratto il film Mio fratello è figlio unico diretto da Daniele Lucchetti, con Elio Germano e Riccardo Scamarcio. La pellicola non piacque molto a Pennacchi, uomo fortemente polemico, perché riteneva che il film non rispettasse la sua storia. Canale Mussolini (a cui seguirà un secondo volume) gli porta un'ulteriore grande affermazione: non solo con l'alloro dello Strega ma anche con l'ingresso nella cinquina del Campiello. Il libro, saga della famiglia Peruzzi, si snoda dagli anni Dieci del Novecento fino alla seconda guerra mondiale: qualcuno ha sottolineato che Pennacchi è stato il primo a narrare un'Italia dimenticata. I Peruzzi sono mezzadri poveri, provenienti dalla bassa pianura padana, tra Rovigo e Ferrara. Diventano assegnatari di un podere dell'Opera Nazionale Combattenti che si trova vicino a Borgo Podgora e al Canale Mussolini, una delle principali opere della bonifica pontina. Nel 2011 Pennacchi, in occasione delle elezioni comunali a Latina, si schiera con una lista locale di destra che avrebbe dovuto sostenere un candidato di sinistra: il progetto, che in parte rifletteva l'utopia che da sempre lo accompagnava, però fallì anche se aveva ottenuto grande attenzione da parte dei mezzi di comunicazione. Soprattutto negli ultimi anni, lo scrittore abbandonò il realismo delle opere precedenti. In Camerata Neanderthal, dedicato alle ricerche di protostoria dell'agro pontino, ricompaiono come fantasmi personaggi già presenti in altri suoi libri. Per converso, in Storia di Karel, Pennacchi approda alla fantascienza e racconta le vicende di Colonia, un lembo di terra ai confini della galassia dove gli abitanti sono sottoposti a un potere invisibile e oppressivo. Anche in questo caso lo scrittore conferma l'aspirazione antiautoritaria di tutta la sua opera.
Pietrangelo Buttafuoco per il "Corriere della Sera" il 4 agosto 2021. Antonio Pennacchi che Latina la chiama Littoria perché la storia così vuole - come così volle Benito Mussolini piegando la palude pontina - è l'unico ad aver saputo fare epica senza far ridere. È l'artista che ha saputo fare quello che solo Riccardo Bacchelli, col Mulino del Po , seppe consegnare alla viva magia dell'immedesimazione tra scrittore e popolo. Artista puro, sfiancato dalla fatica della scrittura, Pennacchi che sa distinguere tra l'acciaio e il ferro s' è fatto carico della memoria delle donne e degli uomini di vanga e zappa per farne canto. Forte di sé stesso - alla testa della sua gente, nel nome dei suoi morti Pennacchi è parola e voce di una saga che mai se ne scivola indietro nel calendario della retorica. Seduto sul sellino della Moto Guzzi, Pennacchi ripercorre la via che da Roma porta al mare, verso la Pontina. Lui sta dietro, guida Benito Mussolini. Sempre così s' immaginava la scena. In incognito per controllare i lavori della Pontina, la consolare del popolo d'Italia. Pennacchi che dice Littoria e non Latina per rigore filologico disinnesca ogni nostalgia prossima al ridicolo. La sua opera - ben oltre i titoli che ne decretano il successo - è il monumento al sudore immacolato delle fabbriche. Se c'è un volto da indovinare nel Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, ecco: quella faccia è la sua. Lo squadrista sul camion dipinto nelle tele di Ottone Rosai è lui. E lui è il nostro Novecento, l'Italia proletaria fascio-comunista che s' erge nella conquista delle stelle: la modernità innanzitutto, la coscienza della tecnica, l'urgenza della scienza, la Civiltà delle Macchine e - nella dolcezza della sconfitta - il lutto di tutte le illusioni.
Dagospia il 4 agosto 2021. Giancarlo Dotto per “Gioia” (2012). Scosta la tenda e si affaccia come un Papa dalla finestra della sua camera da letto, in canotta di lana e probabili mutande, ma la sua non è una benedizione e nemmeno un benvenuto: “Peggio di quelli che arrivano in ritardo, ci sono solo quelli che arrivano in anticipo”. Sarà la prima e ultima volta che lo vedo senza il berretto d’ordinanza. Sulla scia del padrone, ci abbaia contro anche il cane, Lupetto, che di vezzoso ha solo il nome. Il primo istinto è di darsela a gambe per l’agro pontino, io e il fotografo. Ci soccorre Ivana, la moglie, donna cristiana che, dopo aver placato uomini e cani, ci ospita in casa: “Il 2010 ci ha portato il premio Strega e Asia”, fa lei orgogliosa. Asia è la nipotina, il premio Strega è lui, Antonio Pennacchi in persona, 61 anni, ex operaio incazzoso alla Fulgorcavi, oggi scrittore di successo, non per questo meno incazzoso. Siamo dentro la sua tana, una villetta alle porte di Latina, Borgo Podgora, terra di coloni veneti e di paludi bonificate. Qui scorre, si fa per dire, Canale Mussolini, il Gange del luogo e titolo del romanzo che ha spinto qualcuno a mettere Pennacchi nella stessa teca del Manzoni. Si è nel frattempo vestito, Pennacchi. Coppola blu, sciarpa rossa, jeans, camicia celeste, giacca e cravatta. Il bastone di legno gli scivola in continuazione di mano. Ogni volta è un “vaffanculo” che parte. Sono le due del pomeriggio. “Una levataccia per colpa vostra...”. Pennacchi è un uccello notturno. Vive, scrive, chissà cos’altro, nelle ore dei vampiri. “Da quando lavoravo in fabbrica e facevo i turni di notte... Sai una cosa, questa casa che vedi l’abbiamo costruita Ivana ed io con le nostre mani. Lei da sotto legava il mattone alla fune, io sopra tiravo la fune e gettavo il cemento”. Quando declama, parla un italiano scolpito, vagamente littorio, altrimenti è vernacolo puro, travolgente. L’avermi decifrato come tifoso della Roma e amico di Falcao ci fa intimi. Lui ti dà del “tu” per insultarti meglio, che è il suo modo di volerti bene. “Andiamo a farci due fettuccine...Ecco, ficcate qua dentro. Una volta questi locali si chiamavano dispense, perché dispensavano il chinino al tempo della malaria....Vediamo se ce danno a quest’ora un piatto de pasta”.
Ma come, sei un premio Strega, l’orgoglio locale, vuoi che non ti diano un piatto di pasta?
Stai scherzando...Questa è gente de palude. Qui non si chiama l’invidia, si chiama la ‘nvidia.
Ti ho visto dalla Bignardi qualche sera fa. Faceva fatica a capire.
Non è che faceva fatica a capire, è che non gliene fregava un cazzo di quello che dicevo.
(accende una Ms).
I medici non ti hanno proibito di fumare?
Ho fatto due infarti. Devo smettere... Allora, per me fettuccine al ragù, mezza fettina di manzo con i broccoletti e un bicchiere di rosso buono. Devo restare nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, che stasera ho una presentazione al Palazzo della Cultura con Lucio Caracciolo.
Parliamo del fasciocomunismo a Latina, un’invenzione poetica che è diventata progetto politico.
Ma no, parliamo invece di Paolo Roberto Falcao.
Hai dedicato “Mammut”, il tuo primo romanzo ripubblicato in questi giorni da Mondadori, a Falcao e a Pruzzo.
Pruzzo era basso ma saltava de testa come un ascensore, restava in aria...Non guardo più una partita da anni. Non me lo posso permettere, per via dell’infarto. È una disgrazia essere romanisti. Non hai idea di quello che soffre mio figlio Gianni.
Adesso parliamo di “Mammut”, quando tu facevi ancora l’operaio e il sindacato era unito contro il padrone.
Tutti voi a scrivere che Falcao è stato una carogna a non tirare quel calcio di rigore. Non è così.
Se mi presento al giornale con un’intervista a Pennacchi su Falcao, me la tirano dietro.
Ma che ve dice il cervello? Stiamo parlando di uno dei più grandi geni mai passati negli ultimi cinquant’anni in Italia.
E comunque lui si è pentito. Tornasse indietro, lo tirerebbe quel rigore.
Perché gli avete fatto due coglioni così. Non è giusto dare la croce a nessuno per quella finale persa, era destino.
Da queste parti si sprecano le belle donne.
Merito degli incroci. Se parli con un agronomo, ti spiega che la caratteristica fondamentale degli incroci è il lussureggiamento dei caratteri.
Il lussureggiamento dei caratteri?
È genetica. In potenza ci sono tutti i caratteri, poi, mano a mano se ne eliminano alcuni, e con l’ibrido tu hai appunto il lussureggiamento di tutti i caratteri, viene valorizzato il patrimonio genetico dell’uno e dell’altro.
La bellezza del meticciato.
Una delle bellezze più folgoranti che si vedeva in televisione era Kay Rush, madre giapponese e padre svizzero-tedesco-statunitense, anche se la mia preferita resta Ursula Andress. Noi a Latina abbiamo tutte le razze.
Donne famose di Latina. Manuela Arcuri.
Era l’amica di mia figlia. Forse non è una grande attrice drammatica, però è bella. Manuela è Manuelona, tanta roba, grossa e simpatica, non se la tira. Sai chi è invece una stronza? Francesca Dellera. Si vergognava di dire che era di Latina, diceva che era di Roma. Vaffanculo, va! Scancellata. (brindiamo a Falcao e a Ursula Andress)
Anche a Ursula Andress piaceva Falcao.
La conferma che è una gran donna.
Sei un passatista. Ti piace Ursula Andress e celebri Falcao invece che Totti.
Mi è simpatico Totti, però le gerarchie so’ gerarchie.
Torniamo a Pennacchi. Sei stato qualunque cosa, delfino di Almirante, estremista di sinistra, poi militante pidiessino. Quella volta che, giovane fasciocomunista, sei finito dentro per vilipendio di capo di Stato.
Avevamo esposto con un amico lo striscione “Johnson = Hitler”. L’allora mio cognato Rocco Brienza, avvocato e filosofo, disse al commissario: “Ma quale dei due è il capo di Stato offeso, Lyndon o Adolf?”. Un altro po’, mettevano dentro pure lui. Ero matto da giovane, ma pure lui non scherzava.
Aggiornami sulla vicenda politica locale.
Ma no, stavamo tanto bene a parlare di Falcao.
Che pastiglie prendi?
Questa è per il colesterolo e la pressione... Ti presento mio cugino, maresciallo dell’aeronautica in pensione, mai lavorato in vita sua. L’unico maresciallo dell’aeronautica comunista. Veneto pure lui.
Sono tanti i veneti da queste parti.
Io mi sento più veneto che umbro. Il figlio da noi è proprietà della madre, anche se poi nel corso degli anni quello che mi manca di più è mio padre, me lo sogno in continuazione.
Sono cambiati i veneti, dal dopoguerra a oggi. Erano i moldavi e i romeni di oggi. Sono sempre massa ignorante.
Adesso, con i soldi, più ignoranti ancora.
Pure Tiziano Ferro è di Latina. Lui ha fatto coming out.
Ma sì, vaffanculo! Ha fatto bene per sé e per gli altri. L’omosessualità è ancora una dimensione del dolore. In qualunque asilo o scuola elementare i ragazzini dicono ancora: “a frocio, recchione!”. Pensa lui, come deve aver sofferto quando era ragazzo in giro per Latina. Aveva successo e c’era chi diceva: sì è bravo, ma è frocio. Invece tu lo rivendichi e vaffanculo, va! Diventa una liberazione. So’ così, ve piace? No? Arrangiateve. Senti a me, i pregiudizi non muoiono mai, hai sentito Berlusconi?
Che c’entra Berlusconi?
I giudici lo perseguitano sulla Mondadori e lui dice: “Ma io l’ho levata a De Benedetti”. Lo dice come fosse un grande merito e sai perché? Perché De Benedetti è ebreo. Devi ragionare sul subliminale. In lui che parla e soprattutto nel popolo che ascolta scatta a livello subliminale la stessa associazione. De Benedetti comunista ed ebreo, dunque diverso. La stessa cosa vale per il frocio e lo zingaro.
Scrivi i tuoi libri con il computer?
Ora sì, ma il primo, Mammut, venticinque anni fa, l’ho scritto con la penna stilografica comprata alla Standa. Con il computer è tutta un’altra scrittura, altissima produttività però cambia tutto. I versi continuo a scriverli a mano...’Mazza che belli sti broccoletti.
Del Pennacchi poeta si sa meno.
Come fai? Dopo che leggi Caproni, dici ma dove cazzo vado girando io? E pensare che lui non si percepiva come un grande, si credeva che Luzi era meglio e invece non c’è proprio paragone.
Chi ti atterrisce per la sua bravura?
M’atterrisce tanto l’Inferno di Dante, forse Machiavelli, non certo Petrarca. Mi piacciono Beppe Fenoglio, Piero Chiara, i russi, ma non Dostoevskij. Due coglioni così. L’unico suo capolavoro è Il giocatore. A Delitto e castigo je poi leva’ tranquillamente duecento pagine. Tornando alla scrittura. Con il computer il passaggio dal pensiero alla parola scritta è più rapido, non perdi niente, ma la scrittura è meno sorvegliata.
Quando la scrittura ti viene più fluida?
Tra le quattro e le cinque del mattino.
L’Odissea per vendere Mammut. Letteratura o tutto vero?
Chiedi a mia moglie. Partivamo con la nostra 127 gialla, da Latina a Milano, a prendere calci sui denti da tutti gli editori. 55 rifiuti da 33 editori diversi.
Quante copie ha venduto Canale Mussolini?
Ci ho fatto parecchi soldini. Stiamo comprando un appartamento a Latina. Per la prima volta in vita mia non ho più paura del mese prossimo. Io poi avrei diritto a 1500 euro al mese di pensione, dopo vent’anni di esposizione all’amianto, ma me ne danno solo 600 perché, scrivendo, c’è il cumulo. A noi ci ha ammazzato la riforma monetaria. Me sento male quando dicono “richiamiamo Prodi”. Manco alli cani.
Se la storia dell’euro fosse successa negli anni caldi...
E chi li reggeva? Non sarebbe stato possibile. Gli avrebbero sparato prima.
Marchionne sarebbe stato possibile?
Scherziamo? Marchionne è il demonio, ha spaccato gli operai.
A giorni si vota qui a Latina, il Paese vi guarda. C’è la tua lista fasciocomunista, una provocazione o il laboratorio dell’Italia che verrà?
E’ la lista “Pennacchi per Latina” insieme a “Futuro e libertà”. Dentro ce stanno un po’ de fasci, un po’ de comunisti, qualcuno iscritto a Rifondazione comunista.
La politica nazionale fa fatica a capire.
No, è diverso, fanno finta de non capi’ perché je rompi er giocarello. Fascisti e comunisti non possono stare insieme, sono nemici, se devono mena’ per forza. Questo serve a Berlusconi, ma serve anche alla sinistra. I voti dei fasci li vogliono, ma sottobanco.
Se passa la tua lista, diventa un precedente.
E’ finita l’epoca dei tatticismi. Il nostro Paese è finito. L’unico modo che hai per resuscitarlo è azzerare tutto, fare un nuovo patto costituzionale. Dicono tutti che il Novecento è finito e allora se è così perché dobbiamo stare nei vecchi recinti? Costruiamo un nuovo pensiero forte collettivo. Una nuova etica.
Non ho ancora capito se sei pre-moderno o post-moderno. Forse le due cose insieme.
Sono morte le ideologie totalitarie, ma non è morta l’ingiustizia. Questo che c’è adesso non lo devi caccia’ perché va a mignotte ma perché, dopo vent’anni ha impoverito il paese. Ha tolto ai poveri per dare ai ricchi. Io continuo a credere nel valore dell’eguaglianza. Il figlio dell’operaio deve avere le stesse condizioni di partenza del figlio del dirigente.
A parte te, un altro fasciocomunista?
Italo Bocchino è il capo dei fasciocomunisti. E pensare che quando l’ho conosciuto, più di 15 anni fa, mi sembrava un po’ coglione, uno contento di fare il numero due a vita. Anche Fabio Granata e Livia Perina hanno capito.
Fini ha capito?
Con Fini ci parlo e lui mi ascolta.
Un’altra pastiglia?
Questa è la mezza aspirina. Me serve pe’ scioglie er sangue. Ma tu ce l’hai già avuto l’infarto?
No. Ho la faccia da infartuato?
Io c’ho tre bypass, per via dei due infarti, tutti e due silenti. I peggiori, vaffanculo. L’ultimo nel 2002.
Avercela fatta come scrittore ti dà pace?
Mi dà pace avere scritto Canale Mussolini. Era la mia mission, come si dice adesso. Fatto questo, posso morire pure adesso.
Ti sei scoperto un po’ di umana vanità?
Quella c’è, però non più di tanto, essendo arrivata in tarda età quando ormai non ci contavo più. Mi fosse arrivata quando avevo trentacinque, quarant’anni, chi cazzo me teneva... Parcheggia qua e metti il soldo del parchimetro.
Ma come, sto con il premio Strega e mi multano?
Mamma mia, allora non capisci, de più...C’è il mare qua vicino, senti l’aria? Una volta negli anni Sessanta passavano di qua i romani per andare a Sabaudia. Pasolini e Moravia si fermavano sempre al bar Poeta per un caffè. Pasolini era stronzetto, cercava la lite, una volta a Latina l’hanno corcato de botte. Lui provocava, era uno violento. Alternava momenti di grandissima dolcezza con altri di grande aggressività.
Se la lista vince?
Continuo a fare lo scrittore. Se faccio politica, me moro dopo un giorno. Non sopporto più d’essere contrariato, m’incazzo subito. Questa volta mi sono speso perché se nel 2011 poni ancora la questione fascismo o comunismo i casi sono due: o sei un coglione o sei un figlio di mignotta che pensa al suo orticello. Se non la facevo io, con la mia storia, chi cazzo altro la poteva fare la lista fasciocomunista?
Quando la scrivi la tua biografia?
I romanzi sono la mia biografia. Ci sono rabbie, dolori antichi che tu hai tenuto lì e non li hai potuti guardare, per superarli devo cercare di trasformarli in poesia. A sessantuno anni ho vinto lo Strega e per molti, comprese le mie sorelle, sono ancora Antoniaccio. Ma vaffanculo! A me la sinistra per quarant’anni m’ha sempre trattato con sufficienza: “Il popolo sì, ma non entra’ troppo dentro che ce sporchi il salotto”, e questo perché so’ stato fascio. Dico la sinistra fighetta di Bianca Berlinguer, Serena Dandini. La Dandini non m’ha mai chiamato, Fabio Fazio nemmeno. Ma vaffanculo la Dandini, vaffanculo Fazio, va!
Gianmarco Aimi per rollingstone.it il 3 agosto 2021. “Ex praecordiis ecfero versum” lo traduce in “dalle budella tiro fuori i versi”. Parafrasando il poeta Lucilio, anche Antonio Pennacchi più che la ragione o il cuore – che comunque non mancano – nei suoi libri riversa soprattutto quella condanna che sente di dover scontare nel raccontare. Non si diverte, anzi, ne soffre. Più soffre e più ne scrive. È una fortuna per noi, che abbiamo il privilegio di leggerlo. E anche di incontrarlo, visto che nonostante sia uscito con un nuovo e bellissimo romanzo, La strada del mare (Mondadori), ha scelto di non esporsi. Non certo in tv, perché «mi rifiuto di andare in quei teatrini, mi hanno rotto i coglioni» e quindi è sempre più appartato nella sua Latina, città di cui è il cantore attraverso le gesta dei Terruzzi, che in larga parte è la storia della sua famiglia, che l’hanno fondata strappandola alla palude malarica dopo l’emigrazione degli anni ‘30. Per questo ci confida, a margine dell’intervista, «in fin dei conti sono il più grande scrittore veneto vivente. Invece al Campiello se ne scordano sempre». Pennacchi, 71 anni, già vincitore del Premio Strega nel 2010 con Canale Mussolini, a pochi giorni dall’annuncio della cinquina del prestigioso premio letterario confessa: «Io ci sarei andato, ma non mi ci hanno voluto» e così il suo voto andrà a Donatella Di Pietrantonio. Ma con lo scrittore è stata anche l’occasione per ripercorrere tutta la sua vita. Partendo dall’ultima fatica letteraria «che è un romanzo storico, più che di formazione» alla perdita del senso del dovere «illudendoci, sbagliando, di perdere anche il dolore», ma è certo che da questa crisi ne usciremo come sempre: «Già Cicerone ad Attico scriveva che “non sono più i tempi di una volta”». Dopo 35 anni di fabbrica ancora sogna che lo richiamino a lavorare: «Ci avrà fatto pure ammalare, però ci ha dato da campare a noi e alle nostre famiglie» e rivede in parte la classe operaia nei rider e nei facchini della logistica: «Ma devono unirsi, perché ci sarebbe da incazzarsi sul serio». Passata la pandemia vuole re-iscriversi alla quarta ginnasio «per studiare il greco e la storia dell’arte», intanto combatte con l’ennesimo acciacco dopo la pubblicazione di un libro: «Appena consegnato ho cominciato ad avere cali di pressione, vertigini e poi mi è esplosa una ragade anale che mi fa patire le pene dell’inferno». D’altronde, la sua scrittura viene dalle budella, quindi «non esce dalla bocca, ma da sotto…». Nonostante tutto, politicamente continua a considerare la sua casa il PD: «Ah regà, io sono classe operaia! Ma che, scherzi davvero?», ma il vero problema, semmai, per lui parte dalla base, cioè dalla Costituzione: «Sarà la più bella del mondo, ma è datata, ha ormai fatto il suo tempo». E se musicalmente è fermo al ’79 («sono ancora in lutto per lo scioglimento dell’Equipe84») e continua a sperare nel Nobel («candidatemi voi di Rolling Stone») su una cosa non intende arretrare di un millimetro, e cioè smettere di fumare: «Pure quello devo fà? Abbiate pazienza, andatevene un po’ affanculo!».
Pennacchi, innanzitutto com’è il suo umore?
Non me lo chiedere, guarda, già quando sono nato ero di “umore rovescio”. Immagina se posso mai essere di buonumore adesso. Anche perché sono dolorante.
Sugli acciacchi che le vengono dopo ogni sua pubblicazione ci torneremo. Intanto le lancio una provocazione: come va il “romanzo di formazione” La strada del mare?
Chi lo dice che è un romanzo di formazione?
I critici.
Io sono uno dei pochi marxisti ancora in circolazione, per cui sull’estetica sono crociano. Quindi contrario alla critica dei generi. Non esistono i generi letterari, esistono i libri belli o i libri brutti.
E quindi come dobbiamo considerare il suo nuovo romanzo?
Se proprio lo vogliamo inserire per “utilità pratica” in una classificazione mi sembra riduttivo definirlo “romanzo di formazione”. Fa parte del ciclo dei Teruzzi, per cui è un romanzo storico. Contiene diversi temi. Una componente del romanzo di formazione, visto che parla di ragazzi che nascono e crescono, ma soprattutto di formazione di una città, di una comunità che trae le sue origini nel 1904 a Copparo, in Emilia, raccontate in Canale Mussolini, poi l’esodo nell’Agro Pontino e la trasformazione di un territorio da parte di un crogiolo di razze che prima non esisteva.
È l’origine della sua famiglia?
La storia dei Teruzzi è la storia di Latina e dell’Agro Pontino, che fino al 1930 era un deserto paludoso malarico con continui flussi migratori, prima dei veneti, dei ferraresi e dei friulani e poi di tutti gli altri, che si mischiano e diventano un popolo che costruisce la città e poi si lancia nella crescita verso l’espansione del boom economico.
Cosa ha rappresentato quel periodo?
La ricostruzione dopo la guerra e l’esplosione del miracolo economico ha significato un passaggio di civiltà in fatto di condizioni di vita materiali, sociali e culturali. Prima eravamo poveri, ma poveri poveri… Si stava attenti a quello che si mangiava. Poi siamo diventati ricchi. Tutto questo nasce in quegli anni e io lo racconto. Poi scusa, se vogliamo giocare con i generi si può spaziare.
In che modo?
Allora si può ritrovare pure un romanzo di avventura, con echi dickensiani e i rimandi ai bambini poveri e alle loro sofferenze, ma per me rimane sostanzialmente un romanzo storico. Poi fate come vi pare, l’importante è che vi piaccia.
È anche una storia di grande dedizione per il lavoro, in particolare nella narrazione della costruzione della strada che finalmente unirà la città al mare.
Era la dedizione di tutto il popolo italiano per uscire dalla guerra, dai suoi disastri e dalla povertà e arrivare al benessere. Mio fratello Otello a Latina partecipò alla costruzione della strada del mare, ma parallelamente mio zio Torello in Belgio lavorava nelle miniere e gli altri parenti nelle fabbriche di Torino della Fiat. È tutto legato.
Senza dimenticare i dolori familiari, che lei descrive però in secondo piano rispetto al senso del dovere.
Ecco, c’è anche il romanzo familiare. Le grandi famiglie di una volta che ti davano sicurezze e protezioni in certi casi, ma in altri ti opprimevano pure. C’è sia il dramma di crescere che la gioia dell’esistenza.
Si è perso oggi quel senso del dovere?
Ipse dixisti… lo hai detto tu. Sì, forse quello si è perso illudendosi che insieme a quello si può perdere il senso del dolore. Invece no, non è che non si soffre più. Non è che l’infanzia di oggi sia più felice, perché i bambini soffrono sempre. La crescita è sofferenza, perché legata all’esistenza stessa. Siamo gettati in un mondo di dolore, fin da quando usciamo dal ventre materno. La vita è dolore, per tutti.
Non le sembra una visione troppo pessimistica?
No, perché la vita di ognuno di noi è costellata più dai dolori che dalle gioie. Per cui, l’unica cosa che può salvarci è il senso del dovere. Non abbandonarci al dolore ma lottando per cercare di uscirne, io per esempio sublimandolo nella letteratura. Per fare questo provo a giocare anche con l’ironia, senza prendermi troppo sul serio e soprattutto considerando che il destino tragico dell’esistenza non riguarda solo noi stessi, ma è destino comune dell’essere umano. Quindi l’unica cosa che possiamo fare è riconoscerci completamente negli altri. Non c’è scampo fuori dall’empatia.
C’è chi oggi prospetta dopo la pandemia una grande crisi, mentre altri si aspettano un nuovo boom economico. Lei che futuro vede davanti a noi?
L’uomo è sempre lo stesso, siamo sempre gli stessi. Passiamo queste fasi cicliche, dove a un certo punto ci sembra di essere preda della crisi. Ma lo dice la parola stessa in greco, nella crisi sono insiti anche gli elementi per uscirne. Se va a leggere le lettere le epistole che Cicerone inviò ad Attico, già allora si lamentavano “che non sono più i tempi di una volta”, “che le rape non hanno più lo stesso sapore” e che “non ci sono più le stesse stagioni”.
E quindi su cosa dovremmo concentrare i nostri sforzi?
Dopo la Seconda guerra mondiale e i totalitarismi, abbiamo sviluppato l’individuo e i suoi diritti mettendoli al primo posto, ma ci siamo dimenticati i diritti delle collettività, delle masse, dei popoli. E non ci sono solo i diritti degli individui, ma anche i doveri di riconoscersi negli altri, di lavorare insieme, di darsi fiducia e darsi da fare. Usciremo anche da questa crisi, come ne siamo usciti dalle altre. Però con tutto il dramma che ha portato il coronavirus, sia per le condizioni materiali che culturali e sociali, non possiamo dire di essere nelle stesse condizioni di 40-50 anni fa. Non c’è paragone.
Qui la trovo più ottimista.
Poi bisogna capire che il dover morire fa parte della vita. Oggi forse si è persa questa consapevolezza. Se uno muore a 90 anni i parenti fanno causa alla sanità perché è colpa loro. Ma prima o poi devi morì, c’è poco da fare, inutile che fai tante storie…
Ha sempre detto che lei non scrive per piacere, ma è una condanna. Quando finirà?
Finirà quando me ne andrò. O quando con la testa e non sarò più in grado di lavorare. Anche se mi sono stufato, avrei tanta voglia di smettere… Non è un piacere scrivere, ma dolore. Il piacere viene dopo aver assolto il mio dovere. Anzi, a metà, perché come diceva mia madre quando facevo le cose fatte per bene: «Bravo, ma hai fatto metà del tuo dovere».
E quindi dopo ogni romanzo un acciacco. Questa volta cosa le è successo?
Non me ne parlare! Ho finito il libro consegnando le ultime bozze e il giorno dopo ho cominciato a sentirmi male. Cali di pressione, vertigini e soprattutto l’insorgere di una ragade anale che poi è esplosa e ora sono mesi che sto patendo le pene dell’inferno. Non sono a rischio di vita, certo, però finora non mi sono potuto operare a causa del Covid. Io cito sempre Lucilio: «Dalle viscere tiro fuori i miei versi». Dalle budella, quindi non escono dalla bocca, ma escono da sotto…
Sogna ancora che la chiamino a lavorare in fabbrica?
Oh mamma mia! Non hai idea… In continuazione … sogno mio padre e i miei compagni di fabbrica. Anche perché io non sono quello che si può definire un intellò, cioè uno di quegli intellettuali che stanno nei giri romani. Io sono fuori da tutto, sono a Latina. Sono un narratore, ma prima di tutto un operaio che si è fatto scrittore. La mia pensione di 1500 euro l’ho maturata con 35 anni di contributi in fabbrica, compresi 20 anni di esposizione all’amianto. Io resto quello.
Eppure, da dieci anni è uno degli scrittori più famosi e venduti in Italia.
Eh però io rimpiango la fabbrica, ne ho nostalgia. Sogno i miei compagni, soprattutto quelli che non ci sono più. Mi ricordo Palude, al quale avevo dedicato un libro omonimo. La sera prima di andarsene, perché era malato, a un certo punto mi disse: «La fabbrica ci avrà fatto pure ammalare, però ci ha dato da campare a noi e alle nostre famiglie».
Quando si trovò in cassa integrazione si iscrisse all’università. Quanti crede che oggi farebbero una scelta simile?
Dovrebbero farla tutti! Anzi, appena passa questa emergenza ho l’intenzione di andare dalla preside del liceo classico di Latina a chiederle di istituire dei corsi serali perché vorrei re-iscrivermi alla quarta Ginnasio. Io frequentai l’istituto per geometri, ho studiato il latino però mi mancano il greco e la storia dell’arte. Vorrei tornare a studiare. Ahò, c’ho 71 anni, però anche Beniamino Placido in pensione si mise a imparare l’aramaico.
Per caso rivede la sua classe operaia di allora nei rider che portano nelle case il cibo e nei facchini della logistica di oggi?
Il lavoro in fabbrica era diverso. Questi, poverini, lavorano ognuno per conto proprio. Per noi invece il lavoro era strettamente legato dall’uno all’altro. Però sì, qualche elemento comune lo vedo, così come in chi ha quei contratti interinali. Ci trovo un arretramento della classe operaia e del movimento dei lavoratori in generale. Prima o poi sarà necessario che loro si organizzino e che il sindacato riscopra le sue vere funzioni. Ma negli impianti fissi il lavoro resterò fondamentale.
A cosa si riferisce?
Quelli sono servizi non produzione di ricchezza, che si fa trasformando la materia. L’industria manifatturiera deve restare e resterà fondamentale nel nostro Paese. Le fabbriche sembrano più pulite, ma manca la consapevolezza che tu sei solo un pezzo di tutto il sistema e che il tuo lavoro deve essere collegato a quello che viene prima e che viene dopo. Si è persa questa socialità. Poi, porca puttana quando li vedo girare con quelle biciclette… ci sarebbe da incazzarsi sul serio!
In questa sua forza di indignarsi nonostante tutto e di rimanere fuori dai “salotti buoni” mi ricorda uno scrittore come Giovannino Guareschi. Si ritrova nel papà di Peppone e don Camillo?
Ho una grande stima di Guareschi come costruttore di storie. Ma è nel cinema che mi sembra abbia dato il meglio di sé. Alle sceneggiature partecipava anche lui. Nei libri invece è più frammentario, non ci trovo un’opera corale. Mentre nelle pellicole che vuoi dire, a distanza di 60 anni ancora lo danno in tv e fa sempre il pieno. Il motivo è che sono di valore. Le nostre storie individuali sono diverse, perché lui era un intellettuale, non aveva fatto l’operaio ed era sostanzialmente un uomo della destra liberale. Però, effettivamente, trovo simile a me quell’ansia di unità popolare, di empatia, la facilità di mettersi nei panni degli altri, anche quelli di che consideri diverso da te, dei tuoi “nemici”. Come me metteva al primo posto quello che unisce rispetto a quello che divide. E poi abbiamo in comune la capacità di perdonare.
Visto che ha la capacità di perdonare, ha perdonato chi non l’ha chiamata al Premio Strega quest’anno?
Se fosse per me ci sarei andato, ma non mi ci hanno voluto.
Non mi dirà anche lei che il Premio Strega è combinato?
Lei chiede a uno che ha vinto lo Strega di parlare male dello Strega. Non sarebbe delicato. Tenga presente che la mia vittoria nel 2010 con Canale Mussolini dovrebbe smentire quelle accuse. Quando partecipai la Mondadori mi avvisò: «Non lo vinciamo perché l’abbiamo già vinto da tre anni consecutivi» e invece ho sovvertito il pronostico. E c’erano libri di valore, di Matteo Nucci, di Alessandro Pavolini, di Silvia Avallone.
“La strada del mare” non meritava di essere almeno fra i 12 candidati?
I premi sono così… La storia della letteratura e la costruzione del canone non possono fare a meno dei premi letterari. Era già così nell’antica Grecia. Scrivevano, poi andavano a teatro e c’era la competizione con il pubblico che applaudiva e se non lo faceva erano fuori. Ma già allora c’era qualcuno che si organizzava le claque. C’è l’opera letteraria e poi c’è l’industria culturale che ci gira intorno. Pensi che quando Benvenuto Cellini scrisse “Vita” lo sottopose a quelli che allora erano gli intellettuali del tempo e gli dissero: «Lascia perdere che è una schifezza». Solo duecento anni dopo è stato riscoperto da Giuseppe Baretti. Quel libro è un grande capolavoro, ma nell’industria culturale a volte funziona così.
Dei candidati 2021 chi apprezza?
Trovo bellissimi i libri di Donatella Di Pietrantonio, compreso quello candidato Borgo sud che avrà il mio voto. Non la conosco di persona, ma è bravissima. E ho molta stima di Emanuele Trevi.
Politicamente vota ancora a sinistra?
Oddio, gli ultimi anni sono stati tosti nel PD. Voterò a sinistra, certo. Vedremo quale sarà l’offerta.
La sua casa è ancora nel PD?
Ah regà, io sono classe operaia! Ma che, scherzi davvero? Certo che quella è la mia casa, sarebbe bene se lo ricordassero pure loro. L’ultima volta ho votato Liberi e Uguali, ma insomma la casa è quella. Vengo dal movimento dei lavoratori, non me lo posso scordare.
Tanti della classe operaia oggi votano Lega o Fratelli d’Italia.
Questo è un problema che si dovrebbe porre il PD. Perché non si sentono più rappresentati? Non è sufficiente dare la colpa alla gente e dire che non capisce un cazzo. Forse sono loro che si sono staccati dal popolo, anche con il tradimento degli intellettuali e dei ceti dirigenti.
Lei ha mai avuto la tentazione di votare Lega o Fratelli d’Italia?
No, no, no, questa tentazione non c’è. Resto amico di tante persone che conosco e a cui ho voluto bene, ho stima personale di alcuni e anche di Giorgia Meloni ma io voto “classe operaia”. Il massimo che posso fare a Latina, se alle prossime amministrative mi candidano qualcuno che non mi piace, è non andare a votare. Mai voterò per quegli altri. Ma vuoi sapere la verità?
Mi dica.
Il problema vero è che la crisi dopo questa pandemia si è innestata su una crisi che già c’era del sistema politico e rappresentativo in Italia. L’ha esasperata. È il modo di stare insieme in questa democrazia che andrebbe riformato. La Costituzione che abbiamo sarà la più bella del mondo ma è datata, ha ormai fatto il suo tempo. Finché ha retto la Guerra fredda e c’erano i grandi partiti di massa aveva un senso, poi non ha retto più. Non è vero che siamo nella terza Repubblica, siamo ancora nella prima.
Cosa l’ha più indignata durante questa pandemia?
Quello che mi fa incazzare sono tutti quei talk show in tv, con i virologi e i politici che fanno un gran chiacchiericcio, chi racconta una cosa e chi un’altra. Non li sopporto più. Infatti, sono più di due anni che mi rifiuto di andare in quei teatrini. Mi hanno rotto i coglioni! E poi sul fumo…
Sul proibizionismo delle sigarette? Effettivamente, da quando abbiamo iniziato l’intervista ne ha fumata una dopo l’altra.
Questa cosa mi fa incazzare come una bestia, come a Milano che proibiscono di fumare anche per strada. Quando è intervenuto il mio amico Antonio Scurati volevo farlo anch’io, poi mi sono trattenuto. A morì bisogna morì prima o poi o no? Non è che chi non fuma non muore, sbaglio? Quindi non state a rompe li coglioni! Quando moriranno quelli che non fumano, vorrei essere lì a dirgli: hai visto? Che cazzo hai campato a fare? Manco hai fumato! Però non mi ha chiesto una cosa che mi aspettavo…
Cosa?
Che io sono ancora in lutto per lo scioglimento dell’Equipe84.
Dal 1979 non se ne è ancora fatto una ragione?
No, era la mia band preferita. Resto legato a quella musica lì degli anni ’60 e mi arrabbio quando cambiano gli arrangiamenti. Non solo, devo ancora riprendermi dal dolore per la separazione tra Gianni Morandi e Laura Efrikian. Sono un nostalgico, come nel calcio. Un romanista che più di Totti porta nel cuore Falcão.
Al Nobel ci pensa ancora?
Sì, ma non mi vogliono più allo Strega figuriamoci al Nobel. Candidatemi voi di Rolling Stone!
L’ho trovata particolarmente moderato in questa chiacchierata.
È che ho 71 anni, le energie vengono a mancare. Fino a dieci anni fa mettevo le sedie in piazza a fare i miei comizi volanti con il megafono, a chiedere questo o quello, però non mi ascolta nessuno manco a Latina. Alla fine, uno si stufa. E allora sai cosa vi dico? Fate un po’ come ve pare… io scrivo i libri. Ma le cose che mi fanno incazzare sono tantissime, non ne ha un’idea.
Come le piacerebbe morire?
A volte penso nel sonno. E soprattutto senza lasciare conti in sospeso. Andarmene sereno. Possibilmente senza soffrire troppo. Non mi mette paura la morte. Parte del mio dovere l’ho fatta. Mi considero nella fase finale della mia vita e se la parte migliore di me se ne è andata, anche la peggiore è alle spalle. Perché non sono sempre stato una persona perbene, da ragazzo non ero un bravo ragazzo, non sono stato un bravo figlio e neanche un bravo padre. Ora sono un bravo nonno. E ho reso testimonianza e onore ai miei morti, così mi sono riconciliato con mio padre e mia madre.
E si accende un’altra sigaretta. A smettere di fumare non ci pensa?
Eh vabbè, pure quello devo fà? Abbiate pazienza, andatevene un po’ affanculo!
Maria Berlinguer per “La Stampa” il 3 agosto 2021. A che ora la posso chiamare per l'intervista? «Meglio mai. Ma se proprio non ne può fare a meno dopo le 16». Antonio Pennacchi, il fascio-comunista, non smentisce la sua fama. E come uno dei Peruzzi, la sua famiglia, partita dal poverissimo Veneto per approdare alle paludi pontine e ai fasti di Littoria, è uno che non le manda a dire, fiero della sua ascendenza contadina, operaia (trent' anni) e della sua terra, l'agro Pontino.
«Io non scrivo per la voglia di scrivere che anzi non ce ne ho per niente, ma perché devo raccontare delle storie. Non mi piace fare interviste se vuole parliamo del mio libro "La strada del mare" o della Roma, io sto con Dzeko non con Fonseca». Invece, alla fine, parla di politica.
Ha scritto una lettera a Giorgia Meloni perché accetti un governo con tutti dentro. Per lei è un ritorno alle origini?
«Non diciamo cazzate. Cominciamo male. La situazione è tragica, ci sono morti, c'è una pandemia sociale ed economica. Il dramma vero è che tutto questo si innesca su una crisi del sistema democratico e di rappresentanza che già c'era. Il blocco dell'economia e degli ascensori sociali c'erano prima del Covid. Tutto è cominciato col crollo del muro di Berlino, il sistema è andato in crisi. Voi giornalisti vi ostinate a scrivere cazzate sulla seconda e la terza Repubblica che non ci sono mai state. Noi stiamo vivendo l'agonia della prima: la fase terminale».
E quindi?
«La prima Repubblica è stata costruita su un patto tra le forze cattoliche, comuniste socialiste. Mica erano d'accordo su tutto no? Anzi. Non si potevano vedere. Però sono riusciti a collaborare e ricostruire il Paese. Quando si dice la fine delle ideologie ci si riferisce solo al comunismo e al fascismo. E invece no, è entrata in crisi anche la democrazia liberale. La rappresentanza. La sola ideologia che è accettata è quella dei diritti umani».
Che sono fondamentali...
«Certo che lo sono ma qui si parla solo dei diritti del singolo individuo. Poi ci sono i diritti dei popoli e delle masse. Mazzini parla dei diritti e dei doveri. Perché i diritti sociali non sono altrettanto importanti? Ci si riempie la bocca di sovranismo. Che vuol dire? Si rompono le scatole alla Cina e a Putin, giusto. E i paesi Arabi, rispettano i diritti umani? Ma l'America continua a vendergli le armi mentre noi non possiamo dialogare con cinesi e russi. È cambiato tutto e noi dobbiamo costruire una nuova Italia, non solo uscire dal Covid. Anche io non posso più definirmi comunista. Certo, noi in Italia siamo stati comunisti del bene... Però ti devi assumere anche la responsabilità di quello che succedeva in Unione sovietica».
Da qui Meloni il salto è lungo. Quindi un nuovo governo con la stessa maggioranza del Conte bis non le piace?
«Non si esce da questa crisi a colpi di maggioranza risicate. Ma qualcuno ci pensa al futuro? Vogliamo almeno provare a immaginare di non lasciare alle nuove generazioni solo i buffi? Non si può decidere il futuro a colpi di Dpcm, non può essere solo uno a decidere come spendere questi soldi. I debiti che ti assumi per il popolo italiano li devi discutere con tutti. Se spendiamo male questa montagna di quattrini il Paese scuffia. Meloni, Salvini, tutti devono mettere da parte giochini e interessi di parte e sedersi a un tavolo per riscrivere le regole. Vale anche gli altri. Non possiamo continuare a lavorare su una storia chiusa 76 anni fa».
Vede questa possibilità con la nostra classe dirigente.
«Uno dei più grandi filosofi contemporanei, Vujadin Boskov (ex allenatore della Roma, ndr) diceva "questi sono giocatori che io ho". Lavorando in buona fede si può fare. Quelli fecero la Costituzione mettendosi tutti a tavolo. Certo eravamo usciti dalla guerra ma gli effetti della crisi possono essere peggiori per il Paese. Dopo la guerra un minimo di solidarietà l'avevamo trovata. E comunque l'intervista me l'ha estorta».
Antonello Piroso per La Verità – 31 ottobre 2017. Quel rissoso, irascibile, carissimo Antonio Pennacchi. Scrittore vincitore del premio Strega con Canale Mussolini, 67 anni, ironico e autoironico, di professione è un ex: ex operaio ed ex studente (in quest' ordine, visto che si è laureato a 44 anni mentre a Latina, sua città natale, lavorava davanti a una macchina che sfornava cavi elettrici all' Alcatel Cavi), ex fascista, ex marxista-leninista («ma forse lo sono ancora», e ride), ex sindacalista, ex pugile («volevo diventare campione mondiale dei pesi massimi, ma non c' avevo il fisico») «ed ex rugbista».
Questa mi mancava...
«Eh sì: quando fui espulso dal Msi, mi buttarono fuori anche dalla squadra della Fiamma».
Perché fu accompagnato alla porta?
«Avevo manifestato davanti all' ambasciata americana contro la guerra in Vietnam».
Ma gli Usa in Estremo Oriente combattevano il comunismo.
«Non ho mai sopportato l'acquiescenza nei confronti dello strapotere yankee».
Da camerata a compagno: il romanzo che le ha regalato notorietà è Il fasciocomunista, da cui nel 2007 è stato ricavato anche un film, Mio fratello è figlio unico, regia di Daniele Luchetti, da cui lei si è dissociato.
«Io nel libro (di cui ho appena curato una nuova edizione per Mondadori) presentavo i fascisti anche come persone, non solo come agitatori politici. Cosa che ai realizzatori del film non interessava. Hanno preferito gli stereotipi, e del resto concentrare la trama di un libro in meno di due ore è complicato. Comunque è stata la Mondadori a vendere i diritti, e regista e sceneggiatori non mi hanno fatto neanche una telefonata».
Già: la Mondadori, casa editrice dell'inviso Silvio Berlusconi, grazie alla quale nel 2010 ha vinto lo Strega. Sul Corriere della Sera il critico Franco Cordelli scrisse che se lei non avesse avuto alle spalle la Mondadori con la sua potenza di fuoco, lo Strega l'avrebbe visto con il binocolo...
«Com' è che si chiama il capo indiano che citavi in quella trasmissione che facevi con Adriano Panatta e Fulvio Abbate su La 7, dove sono stato ospite?»
Estiqaatsi, ma l'hanno inventato Lillo e Greg.
«Vabbè, chi è stato è stato. 'Sto Cordelli si preoccupasse dei libri, dei lettori e dei premi suoi».
Ma com' è che lei non ha pubblicato, che so, con Feltrinelli, editore dal lignaggio di sinistra a 24 carati?
«Senti, io ho mandato il mio primo romanzo, Mammut, a 33 editori, ricevendo 55 rifiuti...».
Scusi, i conti non tornano.
«Ad alcuni l'ho spedito più di una volta cambiando il titolo o il mio nome come autore.
Poi fu pubblicato nel 1994 da Donzelli. La Feltrinelli mi ha sempre rimbalzato, non mi ha mai risposto, neanche al telefono. Quel mondo lì non mi si è inc... di pezza, come si dice a Roma. Né loro, né quelli della sinistra fighetta di Rai 3, Serena Dandini, Fabio Fazio, Corrado Augias. Non m' hanno mai inc...».
Le assicuro che il messaggio è arrivato, Pennacchi.
«E quindi io che avrei dovuto fare: pubblicare i miei libri con il ciclostile e venderli con il porta a porta?».
Quali sono stati i libri della sua formazione?
«Quelli che costavano meno sulle bancarelle dell'usato, che si trovavano tra la stazione Termini e piazza Esedra. I classici: Omero, Virgilio, Dante, Ugo Foscolo, Alessandro Manzoni. Gli americani: John Steinbeck di Furore, Hermann Melville (ma non Moby Dick: Benito Cereno, che si occupa della tratta degli schiavi). I russi: Una giornata di Ivan Denisovi di Aleksandr Solzenicyn, Le anime morte di Nikolaj Gogol. E poi Beppe Fenoglio, forse il più grande del Novecento, Il generale Della Rovere di Indro Montanelli, Tempo di uccidere di Ennio Flaiano. Ai giorni nostri, Silvia Avallone (più che per Acciaio, per Marina Bellezza e Da dove la vita è perfetta), Paolo Nori, Antonio Pascale e Fabio Genovesi. Scrittori non rassicuranti, non fanno sconti: se ti sta bene, le cose sono così, sennò vattene a fanc...».
Nel 2013 c' è stata una sua incursione nella fantascienza con Storia di Karel.
«Quando scrivo, il mio universo di riferimento è sempre Latina. Diciamo che era una vicenda con la mia città trapiantata nello spazio. Solo che i lettori del Canale si sono detti: che c' entra Pennacchi con la fantascienza? La stessa domanda che, sul versante opposto, si sono posti i cultori di Ray Bradbury (autore di Cronache marziane e di Fahrenheit 451, nda): che c' entra Pennacchi con la fantascienza? Per questo mi sono dato ai gatti...».
Non mi sarà diventato un fanatico animalista, magari vegano, pure lei...
«Primo: io non sono nemmeno vegetariano. Il mio piatto preferito sono le salsicce con i fagioli in umido, e ho detto tutto. Poi ti dico però che, se c' è una scintilla divina in me e pure in te, perché non dovrebbe esserci anche nei nostri fratelli e sorelle animali? Parlo da possessore di cani e di gatti, li ho avuti entrambi e, credimi, l'ho percepito. Ma io mi riferivo a una favola nera danese».
Prego?
«Brutto gatto maledetto! è una fiaba di cui ho scritto un adattamento, e che narra la storia di un nonno che in una notte buia e tempestosa, adotta un povero felino allo sbando. La dolce creaturina si rivela un vandalo ingrato, di cui allora il nonnino si mette in testa di liberarsi, dimenticando che i gatti hanno sette vite...».
Una metafora di qualche carriera politica?
«Piroso, ma lo sai che hai una mente contorta? Macché. Un regalo per le mie nipotine: Lucrezia, 14 anni, e Asia, di 7, figlie di mia figlia Marta».
Scusi la domanda diretta, Pennacchi: è in crisi creativa?
«No, è da due anni che sto facendo un lavoro di ricerca e mi sto arrovellando su un progetto, ma è come se risentissi di una forma di sospensione».
Indotta o provocata da cosa?
«Dalla privazione del senso? Dal fatto che si è placata la rabbia? Che sono appagato?
Non lo so: forse un combinato disposto di questi elementi, o forse altro ancora. Cui si aggiunge anche il distacco da questa politica ripiegata su sé stessa, incapace di risvegliare una vera tensione ideale».
Che fa, mi rimpiange le chiese ideologiche del Novecento?
«No. Ma non sarà un caso che al crollo delle ideologie abbia corrisposto un crollo dell'etica, con un colossale harakiri della sinistra, che da un lato si è impiccata all' ipocrisia del politicamente corretto, dall' altro si è ritrovata a inseguire la destra sul suo terreno. Si finirà come a Capalbio».
A Capalbio? E che c' entra la piccola Atene del Tirreno, secondo la definizione del professore palindromo Alberto Asor Rosa?
«Certa cosiddetta intellighenzia prima predica l'integrazione, poi quando tocca a lei farsi carico degli extracomunitari, ti dice: eh, ma mica intendevo a casa mia. Guarda l'indecoroso balletto cui hanno dato vita sullo ius soli».
Lei è favorevole o contrario?
«Favorevole. La mia famiglia, mia madre veneta, mio padre umbro, è venuta a bonificare l'Agro Pontino. Una terra di immigrati. Abbiamo imparato sulla nostra pelle cos' è la migrazione, sia pure interna, senza dimenticare la diaspora che costrinse i veneti a sciamare nel mondo. Per questo non tollero chi, per calcoli di bottega politica, fa leva sugli istinti più bassi, instillando nelle persone la paura aprioristica del diverso, caricandosi di un'enorme responsabilità morale».
Ho come l'impressione che lei abbia in mente un identikit specifico, a proposito di questi «speculatori».
«Ma non lo vedi Matteo Salvini? Fisicamente sembra un giostraio sinti. Ma poi in Italia chi può rivendicare il sangue puro, con tutte le invasioni e gli incroci che storicamente ci sono stati? Se ti fai un giro in provincia, e vai a Cisterna, incontri ragazzi nati qui, figli di congolesi e ghanesi integrati, che sono più italiani di me e di te».
Va ancora in analisi?
«Sì, da 21 anni. Non ti guarisce, ma ti insegna ad accettarti. Ho cominciato dopo il mio primo infarto».
Arrivato se non ricordo male dopo Palude, il suo libro del 1995. Somatizza lo stress dopo ogni lavoro importante.
«Dopo Mammut ho fatto due ernie del disco. A ruota della prima stesura di Il fasciocomunista giunse il secondo infarto e mi misero tre by pass. Poi, rottura di una vertebra. Quindi sedia a rotelle dopo una nuova operazione alla schiena, sei bulloni di titanio».
Pensa mai al momento del trapasso?
«Senza paura. Temo di più il dolore e la solitudine. Siamo particelle scagliate nel cosmo.
Quando sono giù, per fortuna c' è mia moglie Ivana che mi prende per mano, di notte nel letto. Senza di lei non sarei riuscito a concludere nulla».
Nessun Dio ci salverà?
«La salvezza come fatto individuale legata al Cristo è nella visione dei cattolici, come il mio amico Franco Cardini. Io penso che se ci salveremo, lo faremo su questa terra come genere umano. Quanto a Dio, se c' è è malato e soffre. E siamo noi povere creature mortali che possiamo lenire il suo dolore».
· Morto il batterista Charles Connor.
Morto Charles Connor, batterista storico di Little Richard e James Brown. Ilaria Minucci il 02/08/2021 su Notizie.it. Il batterista Charles Connor è morto all’età di 86 anni nella sua casa in California: il musicista aveva collaborato con Little Richard e James Brown. Il batterista americano Charles Connor è deceduto all’età di 86 anni nella sua abitazione di Glendale, in California. La notizia è stata diffusa dalla figlia Queenie Connor Sonnefeld. Il batterista Charles Connor è morto a 86 anni: l’uomo è stato uno dei collaboratori favoriti di Little Richard e dell’icona del rock ‘n’ roll James Brown. La notizia relativa all’improvvisa scomparsa del batterista è stata diramata dalla figlia, Queenie Connor Sonnefeld. La donna ha spiegato che il padre si è spento “serenamente nel sonno domenica scorsa, 1 agosto, nella sua casa di Glendale, in California, all’età di 86 anni”. Sulla base delle informazioni sinora comunicate, pare che Charles Connor sia deceduto a causa del progressivo aggravarsi di un disturbo neurologico. Nel ricordare il padre, la figlia del batterista Charles Connor ha dichiarato: “Era uno di quei batteristi che hanno posto le basi per la creazione del genere rock and roll – e ha aggiunto –. Ha suonato con tanti musicisti leggendari negli anni ’50. Era un nonno amorevole, era molto orgoglioso della sua famiglia e molto orgoglioso anche del suo contributo al rock ‘n’ roll”. Charles Connor è nato il 14 gennaio 1935 a New Orleans, nello Stato della Louisiana, negli Stati Uniti d’America. L’uomo è stato un batterista noto come uno dei principali membri della band di Little Richiard. A questo proposito, pare che il grido di Little Richard “a-wop bop-a loo-mop, a-lop bam-boom” urlato all’inizio del brano “Tutti Frutti” rappresenti un riferimento al ritmo suonato da Connor con la sua batteria. Con Little Richard, inoltre, Charles Connor ha avuto l’opportunità di suonare nei locali più importanti disseminati negli Stati Uniti d’America. Successivamente, poi, il batterista ha avuto l’opportunità di accompagnare sul palco altre icone del rock come, ad esempio, James Brown, Jackie Wilson o, ancora, Sam Cooke.
Nel 2008, è stato pubblicato un suo libro di memorie intitolato “Don’t Give Up Your Dreams: You Can Be a Winner Too!”. Prima che sopraggiungesse la morte, invece, il batterista stava lavorando assiduamente alla realizzazione di un biopic.
· È morta l’atleta cubana Alegna Osorio.
Alegna Osorio colpita in testa da un martello, morta l’atleta cubana. Giampiero Casoni il 30/07/2021 su Notizie.it. Alegna Osorio colpita in testa da un martello, morta l’atleta che ad aprile era stata centrata alla testa dal lancio di un "collega" non autorizzato. È morta Alegna Osorio, l’atleta cubana originaria di Camagüey colpita in testa da un martello durante un allenamento dello scorso aprile: purtroppo dopo mesi di agonia le sue condizioni sono precipitate e la 19enne promessa della specialità olimpica è deceduta in queste ore.
La morte di Alegna Osorio Mayarì è stata annunciata ufficialmente da un apposito e mesto comunicato dell’Istituto sportivo nazionale di Cuba. Ecco il testo che ha lasciato il mondo dello sport senza parole, affidato al presidente Osvaldo Vento: “Condividiamo questo dolore insopportabile con la sua famiglia”. Alegna Osorio morta per il lancio fortuito di un martello “illegale”. Alegna aveva solo 19 anni ma era già considerata una fra le giovani promesse della sua specialità a cui pareva riservato un futuro di gloria certa. Purtroppo il destino e, parrebbe, una situazione di irregolarità formale nella seduta di allentamento che le ha tolto la vita, le hanno giocato un orribile scherzo. Ad aprile Alegna era in allenamento ed era stata colpita al capo dal martello di un atleta che sembra non appartenesse alla nazionale di Cuba. Che significa? Che l’uomo dalle cui braccia era partito il martello che fortuitamente aveva centrato il cranio di Alegna non era abilitato all’accesso ed all’utilizzo del centro di allenamento in cui si era consumato il dramma.
Lancio del martello, morta dopo tre mesi di coma Alegna Osorio. Le condizioni di Alegna erano state definite subito critiche, la 19enne era entrata in coma e da quel coma non si era purtroppo più risvegliata. La notizia del decesso della giovane atleta caraibica si è subito diffusa sui social, scatenando il cordoglio generale. E quella stessa notizia sulla morte della giovane martellista è arrivata a gettare un’ombra di tristezza nel bel mezzo delle Olimpiadi di Tokyo, dell’evento cioè che per quelle come Alegna rappresentava la “summa” di ogni sogno, risultato ed obiettivo.
Il tweet di Berry, star del martello, per ricordare Alegna Osorio, morta dopo esordi da campionessa. E la collega statunitense Gwen Berry ha voluto ricordare la giovane atleta cubana, perciò su Twitter ha scritto: “Un pensiero d’amore alla sua famiglia in questo momento difficile. È tutto così triste”. I risultati a livello giovanile della Osorio già facevano presagire che avrebbe potuto aspirare a diventare una stella di prima grandezza della sua specialità: nel 2018 era arrivata quarta alle Olimpiadi giovanili di Buenos Aires, poi aveva conquistato il bronzo ai Giochi Panamericani Under 20.
· E’ morto Roberto Calasso, scrittore ed editore di Adelphi.
Da huffingtonpost.it il 29 luglio 2021. Dopo una lunga malattia è morto Roberto Calasso, scrittore ed editore di Adelphi. E proprio oggi escono in libreria i suoi ultimi titoli, Bobi e Memé Scianca. Lui che ai libri ha dedicato tutta la sua vita. Nato a Firenze il 30 maggio 1941, Calasso frequenta il liceo classico Tasso di Roma per poi laurearsi in letteratura inglese con Mario Praz presentando una tesi sulla teoria ermetica del geroglifico in Sir Thomas Browne, erudito e occultista secentesco. Fondamentale per Calasso è l’incontro con Bobi Bazlen, lettore onnivoro e fondatore dell’Adelphi, che gli dischiude le porte della cultura mitteleuropea che avrebbe segnato il suo destino di editore eclettico e esoterico “estraneo sia al bigottismo della sinistra sia al buzzurrismo della destra”. Nel 1971 diventa direttore editoriale di Adelphi, nel 1990 consigliere delegato e dal 1999 anche presidente. Maestro delle quarte di copertina, Calasso le raccoglie nel 2003 in un volume dal titolo Cento lettere a uno sconosciuto pubblicato dalla stessa Adelphi come tutte le altre sue opere. Della sua passione per i libri diceva: “Sono nato in mezzo ai libri. Mio padre (il giurista Roberto Calasso ndr), che era storico del diritto, lavorava per lo più su testi stampati fra l’inizio del Cinquecento e la metà del Settecento. Molti erano i volumi in-folio. Impossibile non vederli. Anche mio nonno Ernesto Codignola, che insegnava Filosofia all’Università di Firenze e fondò la casa editrice La Nuova Italia, aveva una biblioteca notevole, soprattutto di storia e filosofia, oggi incorporata nella biblioteca della Scuola Normale di Pisa”. Negli anni Cinquanta fa parte della redazione della rivista d’arte e letteratura Paragone, diretta dalla scrittrice Anna Banti. Insieme a lui ci sono anche Alberto Arbasino, Elémire Zolla e Umberto Eco. Mentre il suo primo libro “L’impuro folle” è del 1974. Calasso raccontava così, in un’intervista al “Corriere della sera”, l’inizio della sua avventura nell’editoria italiana in cui lascia un segno indelebile: “Luciano Foà aveva lasciato l’Einaudi (di cui era stato segretario generale) e insieme a Roberto Olivetti il 20 giugno 1962 aveva fondato questa nuova casa editrice il cui programma era in gran parte nella mente di Roberto Bazlen. Foà era amico di Bazlen, e voleva fare con lui certi libri che altrimenti non si riuscivano a fare. Quanto a me, venni coinvolto nel 1962, quando il nome Adelphi non era ancora stato trovato”.
Da cinquantamila.it - La storia raccontata da Giorgio Dell’Arti
Firenze 30 maggio 1941. Scrittore. Saggista. Editore. Presidente e amministratore delegato dell’Adelphi. «La casa editrice come forma è una somma di oggetti cartacei che messi insieme possono anche essere considerati come un unico libro».
Vita «Raffinato editore e mediocre scrittore, dopo aver frequentato il liceo classico T. Tasso di Roma si è laureato in letteratura inglese con Mario Praz presentando una tesi sulla teoria ermetica del geroglifico in Sir Thomas Browne, erudito e occultista secentesco. Infatuatosi poi del filosofo Theodor W. Adorno, che ne apprezzò la solerzia bibliografica (“Ha letto tutti i miei libri e anche quelli che non ho avuto ancora il tempo di scrivere” disse di quel ventenne incontrato nel salotto di Elena Croce), si riprese dalla sbandata francofortese grazie a Bobi Bazlen, lettore onnivoro e fondatore dell’Adelphi, che gli spiegò come “l’io illuministico non andava salvato ma condotto a naufragio definitivo” e gli dischiuse le porte della cultura mitteleuropea che avrebbe segnato il suo destino di editore eclettico e esoterico “estraneo sia al bigottismo della sinistra sia al buzzurrismo della destra”. Tocca la perfezione nelle quarte di copertina» (Pietrangelo Buttafuoco).
Ha poi raccolto in volume e pubblicato nel 2003 queste quarte di copertina con il titolo Cento lettere a uno sconosciuto: tutti i suoi scritti sono editi dalla stessa Adelphi, fatto che ha suscitato qualche critica in passato.
«Sono nato in mezzo ai libri. Mio padre [il giurista Roberto Calasso], che era storico del diritto, lavorava per lo più su testi stampati fra l’inizio del Cinquecento e la metà del Settecento. Molti erano i volumi in-folio. Impossibile non vederli. Anche mio nonno Ernesto Codignola, che insegnava Filosofia all’Università di Firenze e fondò la casa editrice La Nuova Italia, aveva una biblioteca notevole, soprattutto di storia e filosofia, oggi incorporata nella biblioteca della Scuola Normale di Pisa».
Negli anni Cinquanta ha fatto parte della redazione della rivista d’arte e letteratura Paragone, diretta dalla scrittrice Anna Banti. Insieme a lui c’erano anche Alberto Arbasino, Elémire Zolla e Umberto Eco (Sandra Petrignani) [Fog 02/11/2013]. «Per vari anni ho preferito il leggere allo scrivere. Il primo testo che ho pubblicato era un saggio su Adorno, il surrealismo e il mana. Apparve su Paragone nel 1961. Avevo vent’anni».
Suo primo libro, L’impuro folle, del 1974: «Venne fuori di sorpresa, lo scrissi in due mesi con una sorta di febbre, mentre stavo lavorando a una introduzione alle Memorie di un malato di nervi di Schreber. Successe che Schreber improvvisamente diventò personaggio di romanzo. Come se le sue allucinazioni proseguissero in altra forma».
Sul lavoro di editore: «Luciano Foà aveva lasciato l’Einaudi [di cui era stato segretario generale] e insieme a Roberto Olivetti il 20 giugno 1962 aveva fondato questa nuova casa editrice il cui programma era in gran parte nella mente di Roberto Bazlen. Foà era amico di Bazlen, e voleva fare con lui certi libri che altrimenti non si riuscivano a fare. Quanto a me, venni coinvolto nel 1962, quando il nome Adelphi non era ancora stato trovato». Calasso aveva conosciuto Bazlen con Elémire Zolla e Cristina Campo nel suo appartamento romano di via Margutta 7 (Paolo Di Stefano) [Cds 3/5/2010]. Nel 1967 salì a Milano (Ranieri Polese) [Cds 26/01/2005], dove frequentò Franco Battiato e Giorgio Gaber: «Ero un ragazzo alle prime armi. Ci siamo divertiti da pazzi nelle balere dell’hinterland milanese. Giocavamo a poker io, [Gaber], Ombretta Colli, Roberto Calasso e Fleur Jaggy. Ci giocavamo i libri dell’Adelphi» (Franco Battiato) (Giancarlo Dotto) [Sta 29/4/2009].
«Negli anni Cinquanta in Italia, paese di civiltà editoriale ottima ma gracile, per via del periodo fascista e della precedente pochezza intellettuale, vi erano tre aggregazioni: quella marxista, quella laico-liberale e quella cattolica. I marxisti, se erano intelligenti, leggevano i libri Einaudi, o comunque Il contemporaneo. I laici-liberali leggevano Il Mondo e i cattolici, tendenzialmente, leggevano assai poco. I democristiani erano appagati dalla pura gestione del potere e avevano capito che la cosa più accorta era quella di lasciare la cultura alla sinistra. In questo quadro Adelphi si affacciò come un corpo estraneo. Allora però i libri che a noi sembravano più importanti per tre quarti mancavano. Per quel che riguarda la letteratura, il vuoto era enorme. Si era in un’epoca in cui perfino la categoria del fantastico suonava sospetta, non so se mi spiego. Per questo facemmo subito L’altra partedi Kubin e il Manoscritto trovato a Saragozza di Potocki. C’era solo l’imbarazzo della scelta».
«Ricordo che quando pubblicammo Karl Kraus, nel 1972, Erich Linder – uno dei pochi che lo conoscevano – mi disse con il suo tono di sicurezza assoluta: “Ne venderete venti copie”. Non fu così, ma ci volle un po’ di tempo. Ricordo le 3000 copie con cui partimmo per la Cripta dei Cappuccini, di Joseph Roth. Era allora un ignoto, poi diventò la passione dei giovani dell’ultrasinistra. Già nel 1978, la prima tiratura del Profeta muto di Roth fu di 30 mila copie. Quanto a Siddharta, dilagò dopo l’edizione nella Piccola Biblioteca, che è del 1975».
Battuto per un voto al premio Strega da Giuseppe Pontiggia nel 1989. Da allora l’Adelphi non vi ha più partecipato (Francesco Erbani) [Rep 09/05/2006].
Il volumetto einaudiano curato da Luciano Zagari fu al centro di un rovente e insieme elegante confronto critico tra Roberto Calasso e Cesare Cases (Marino Freschi) [Mes 25/06/2008].
«Il marketing, una disciplina che non abbiamo mai praticato. Ogni tanto ne incontro un rappresentante e mi dice che ci considerano un esempio da imitare. Ma non so bene a che cosa si riferisca...».
«Salvo nei primissimi mesi - non abbiamo mai avuto un grafico. Vizi e virtù son tutti nostri. E, se mai, di Aubrey Beardsley: l’impianto della Biblioteca riprende una gabbia ideata da lui. È vero comunque che, sin dall’inizio, Foà e io concordavamo nel dare molta importanza sia alla qualità delle traduzioni, sia all’aspetto fisico, tattile del libro».
«Dietro l’Adelphi c’è il progetto di una casa editrice come forma. È un punto che stabilisce una divisione netta nell’editoria. Kurt Wolff, la Insel, Gallimard, Einaudi, Suhrkamp sono applicazioni ogni volta diverse di quell’idea...».
Tra le sue opere: La rovina di Kasch (1983); Le nozze di Cadmo e Armonia, la più importante, del 1988, a lungo in testa nella classifica dei libri più venduti; Ka (1996); K (2002); Il rosa Tiepolo (2006).
Tra i maggiori successi Adelphi che si devono a Calasso: L’insostenibile leggerezza dell’essere e le altre opere di Kundera (Alain Elkann) [Sta 28/06/2009], La versione di Barney, Zia Mame, le opere di Gadda. «Da trent’anni abbiamo testimoniato la nostra passione per Gadda» (Calasso) (Paolo Di Stefano [Cds 10/02/2011]. «Con Simenon non ci si annoia mai (Manuela Grassi) [Pan 26/06/2003].
Potente articolo demolitorio, sul Corriere della Sera del 7 aprile 2007, contro il pregiudizio che considera realmente esistenti la «cultura di destra» e la «cultura di sinistra» («destra e sinistra sono categorie storiche agonizzanti e categorie del pensiero inutilizzabili») o il «fronte progressista» («progressista è una parola che è ormai difficile pronunciare senza arrossire»).
Il 12 marzo 2008 ha ricevuto a Parigi la Legion d’onore. Nel 2010 ha vinto il premio Cesare Angelini per l’opera L’ardore (Adelphi), il Premio Gogol 2011, il 26° Prix Chateaubriand (2012) per La folie Baudelaire (Gallimard): è la prima volta che il premio viene assegnato a uno scrittore non di lingua francese [CdS 04/11/2013].
I libri di Calasso sono stati tradotti in ventisei lingue e ventotto Paesi. Il suo agente all’estero è Andrew Wylie, considerato il più potente e pericoloso degli States (Alessandra Farkas) [CdS 31/10/2008]
«La Central di Barcellona è la libreria più bella del mondo» [S24 15/07/2012].
«Gli occhi troppo neri di Roberto Calasso» (Massimiliano Parente) [Lib 07/10/2008].
«Scrive a mano» (Donata Righetti) [CdS 03/12/2000].
«Sono stato per anni malato di cinema. Ora, con rammarico, devo dire che lo sono un po’ meno».
Appassionato di fotografia (ha pubblicato un saggio su Chatwin fotografo)
Sposato con la scrittrice svizzera Fleur Jaeggy (niente figli).
Juventino.
DAGOREPORT il 2 agosto 2021. Nessuno racconta che Bobi Bazlen, fondatore di Adelphi insieme a Luciano Foa, ha dato a Calasso uno straordinario catalogo di libri da pubblicare su cui lui è campato per quasi trent’anni. Bazlen, che amava restare nell’ombra, non l’aveva scelto intuendo in lui una grandezza allora ancora (e tuttora) tutta da dimostrare, ma una personalità abile e ambiziosa. Nessuno ricorda come l’autore di polpettoni sopravvalutati da una critica compiacente e speranzosa di farsi pubblicare da Adelphi sia stato salvato almeno due volte dal fallimento da Marella Agnelli - ricompensata con la pubblicazione di due libri editi da Adelphi (“La signora Gocà” e “Ho coltivato il mio giardino”) - e poi dalla Rizzoli. Nessuno si chiede dove Roberto Calasso abbia trovato i soldi per comprarsi il 70% dell’Adelphi (i soci di minoranza sono Francesco Pellizzi e Elisabetta Zevi), forse dai successi dei suoi libri tradotti in 29 paesi come riportato da tutte le testate? Nessuno ricorda la sua fama di indefesso seduttore. Nell’attesa di qualche memoriale hot, negli annunci funebri del Corriere della Sera la vedova, che troneggia in prima posizione, si è firmata Fleur Calasso Jaeggy (chissà se lei stessa ricorda ancora il suo vero nome, molto più prosaico e italico), un’ex modella che conobbe Calasso nella seconda metà degli anni Sessanta. Racconta ad Antonio Gnoli su “Repubblica”: “Ci conoscemmo all'Università di Roma. Roberto dice che indossavo un loden verde, una camicetta bianca e portavo una borsa a tracolla. Mi prese per una ragazzina. Dice che mi ha notato, o meglio: osservato. Ci sposammo nel 1968 a Londra". Quell’anno pubblicò il suo primo libro, “Il dito in bocca”, edito da Adelphi, of course. Ma il meglio arriva con il secondo posto dei necrologi del Corriere dove fa il suo ingresso la seconda vita di Calasso, la scrittrice tedesca Anna Katharina Fröhlich, oggi 52enne, che gli ha dato la gioia di due figli, Josephine e Tancredi. Conosciuta alla Fiera del Libro di Francoforte, la scrittrice assai nota in Germania (ha tradotto nel 1999 il libro “Ka” di Calasso) si è alternata per un breve periodo nella vita milanese con la di lui moglie Fleur. Ma, a differenza della moglie, Calasso non ha mai pubblicato i romanzi della madre dei suoi figli. Oggi Katharina vive sul lago di Garda, a Toscolano, dove ha vergato un obituario in perfetto stile Calasso (tre verticale, 8 caselle). “Il logos trafigge in un atomo del tempo ciò che i rapsodi erano avvezzi a ricucire e a ripetere per fumosi notti senza fine. Piangiamo il nostro amato Roberto che ci ha introdotti nel mondo dello spirito”. Firmato: Josephine, Tancredi e Katharina. Ma cosa succederà dell’Adelphi? Poco, a meno che non si trovi qualcosa nel fondo del barile di Bernhard o qualche mastodontico russo da far nobilitare dalla traduzione di Serena Vitale. Sembra invece spianata la via all’acquisizione del marchio da parte di Feltrinelli, Einaudi o del gruppo Gems, sempre che il nipote Matteo Codignola non diventi una nuova incarnazione dello zio sul cammino scivoloso di quella che è stata definita su Repubblica “un’Opera non organica in più volumi”. Sulla sempre ben informata “Repubblica”, Annamaria Briganti aggiunge: “Nel segno della tradizione, Adelphi che ha già una programmazione editoriale per i prossimi tre anni, resterebbe nelle mani del nipote più vicino a Calasso, Roberto Colajanni - figlio di Vanna Calasso e dell'antropologo Antonino Colajanni - che ha lavorato accanto allo zio studiando il catalogo storico e risultando così la persona più indicata per la "reggenza".
È morto Roberto Calasso, l’autore editore che, come i suoi libri, ha invertito la freccia del tempo. Ha pubblicato il meglio di quanto è stato scritto nel passato. Ma ha anche scritto e scelto i testi che costruiranno il nostro futuro. Un omaggio appassionato. Chiara Valerio su L'Espresso il 29 luglio 2021. Tante cose si incrociano oggi nella morte di Roberto Calasso, come tante cose si sono incrociate nei libri che ha scritto e in quelli che ha pubblicato. Il suo penultimo lavoro, “Bobi” (Adelphi), su Roberto Bazlen e il premio Campiello alla carriera a Daniele Del Giudice che sempre su Bobi Bazlen ha scritto un romanzo, “Lo stadio di Wimbledon” (Einaudi), e nel quale sta una frase che mi pare sempre opportuna, ma oggi di più: «Bisogna tenere i libri lontani dai dolori». È una posizione naturale per me, io non conoscevo Roberto Calasso, ci ho bevuto qualche volta insieme, lo incontravo in casa sua quando andavo a trovare Fleur Jaeggy, o per occasioni professionali, non ero sua amica, insomma, ma ho letto i suoi libri. "Bobi” è un racconto di editoria, e un racconto di amicizia, e un racconto di libri, di viaggi. Se per conoscere un uomo – scriveva Yourcenar riferendosi ad Adriano – bisogna conoscere la sua biblioteca, allora ho conosciuto Roberto Calasso come tutti: scorrendo il catalogo della casa editrice Adelphi. Si potrebbe scrivere che è morto l’ultimo grande editore italiano, che la morte di Roberto Calasso segna la fine di un’epoca, sottolineare quanto il mondo editoriale italiano sia cambiato prima e dopo la casa editrice Adelphi, dal punto di vista dei contenuti, e dal punto di vista cromatico, si potrebbe dire che tutti almeno una volta hanno aperto almeno un libro Adelphi, l’"I-ching”, che era anche, a leggere Bobi, uno dei libri più consultati da Bazlen (l’altro era "Abbandono alla Provvidenza divina” di Jean-Pierre de Caussade). O che senza I-ching e senza leggere rimane l’Adelphi casa editrice di Simenon. Calasso e tutte le persone che hanno costruito l’Adelphi, hanno tenuto insieme, in un mondo sempre più polarizzato, nello stesso catalogo, René Guenon, Evelyne Lot-Falck e Zia Mame, La lettera d’amore di Cathleen Shine e Lo scimmiotto di Wu-Cheng En, Paolo Zellini e Shirley Jackson, gotici e perturbanti entrambi, ma il primo è un matematico. Quanto abbiamo guardato a Oriente grazie all’Adelphi, e quanto abbiamo trovato. E tutte queste cose, la celebrazione del passato, le domande sull’avvenire, la gloria irraggiungibile – nonostante la gloria, come ha scritto Berto nel romanzo omonimo, sia proprio la fine del tempo – l’elenco dei nomi, conosciuti o meno, che hanno fatto e fanno grande l’Adelphi, le defezioni e le liti, i travasi da una casa editrice all’altra, le controversie e le scoperte, l’ammirazione e la distanza, tutte queste cose sarebbero vere, sono innegabili, ma mi piace pensare al suo modo di fare l’editore, esemplare, attraverso le parole del suo "Libro di tutti i libri” (Adelphi), uscito sempre quest’anno: «Nella visione talmudica, la “cosa principale”, “asl”, è lo studio, se possibile ininterrotto. Il precetto è: “Fìssati nello studio”. Tutto il resto deve essergli subordinato». Non c’è la vita e, in aggiunta, lo studio. C’è lo studio – e la vita può diventare una sua emanazione: «Quando sarai stanco di studiare, potrai dedicarti alle faccende. Ma l’essenziale di ciò che ti occupa non devono essere le faccende mentre nel tempo libero ti dedichi allo studio». Mi piace pensare che l’editoria, e si intuisce dal catalogo Adelphi – così come, ma forse meglio, anche dai cataloghi dei grandi editori italiani – si occupi eminentemente dell’unica tradizione possibile, quella del futuro. Ecco, in morte di Roberto Calasso, spero che nessuno di noi dimentichi la scommessa, la ricerca, l’allegria e l’ossessione di pubblicare e scrivere libri oggi che immaginino e analizzino il futuro come il passato, che riescano a invertire la freccia del tempo. Nella mia testa, con le ali di pavone, Roberto Calasso, sta annunciando altrove i libri che sta pensando, leggendo, e scrivendo. Bisogna tenere i libri lontani dai dolori.
Roberto D’Agostino per Dagospia il 29 luglio 2021. Ora che se n’è andato Roberto Calasso, editore in capo di Adelphi, posso raccontarlo. Questo Kundera avrà pure lanciato la sofisticatissima casa editrice meneghina nella classifica del best-sellerismo, salvandola da un bilancio in profondo rosso, però ha rovinato la mia vita. Per pochi giorni, fortunatamente, e poi è accaduto molti anni fa. Ma rovinata, veramente. Arriva l’anno di grazia 1985 e dunque "Quelli della notte" e decido, garantito da Arbore, di "interpretare" l'intellettuale post-tutto e ante-niente, così in auge in quella prima metà degli anni Ottanta. E sul piccolo schermo si appalesava allora, in precario equilibrio fra il demente e il demenziale, il sottoscritto in modalità "cazzaro" però ben consapevole che si era chiuso il ciclo "Settanta" della politicizzazione, del protagonismo collettivo e della ricerca della felicità sociale, secondo l'espressione coniata dal sociologo Albert Hirschmann, autore appunto del libro "Felicità privata e felicità pubblica" (che spiega come i pendolarismi della storia derivino dall'oscillazione dei gusti del pubblico fra questi due poli). Da qui farfugliavo, notte dopo notte, di "look paninaro" e di "edonismo reaganiano" e farneticavo, trasmissione dopo trasmissione, quali erano i pensatori che stavano dietro al nuovo intellettuale, personaggi scelti con cura in base alla struttura del nome o dei titoli dei loro libri ("Il pensiero debole" per Gianni Vattimo, "L'estetica del brutto" per Karl Rosenkranz, "L'ideologia del traditore" per Achille Bonito Oliva). Ecco, bastava mettere in fila indiana i titoli di cui sopra per ottenere il display del cambiamento, dell'ebbrezza del nuovo e del post-moderno? No: mancava "quel" titolo capace di racchiudere lo Spirito del Tempo, quegli anni "senza deposito", nè ideologico nè morale, che sono stati gli '8O. Per caso e per fortuna, mi capitò sotto il naso il "Manifesto" e sotto gli occhi una critica letteraria del compianto Severino Cesari (formidabile editor dei “cannibali” dell'einaudiana Stile Libero). Cesari ruotava come le pale di un Moulinex impazzito su Milan Kundera. Un ottimo ma sfigato scrittore mezzo-ceco mezzo-parigino che in Italia continuava a cambiar editore perché i suoi romanzi, lanciati dalla Mondadori su input del grande Oreste del Buono, non ottenevano nè attenzione dal pubblico né osanna dalla critica. Ma il titolo del suo libro mi sembrò un'insegna-epitaffio sublime, al neon per la decade della Belle Epoque edonista: "L'insostenibile leggerezza dell'essere". (Titolo che sta agli anni Ottanta, come "Il giovane Holden" ai '5O, "Sulla strada" ai '6O, "Porci con le ali" ai '7O, "Va' dove ti porta il cuore" ai '9O). Devo confessarlo: quando menavo il tormentone de "L'insostenibile leggerezza dell'essere", non avevo nemmeno sfiorato il libro. Ogni sera mi limitavo a parodiare e sbeffeggiare un paragrafo della recensione, stilisticamente demente e involontariamente demenziale, di Cesari. Quindi rimasi a mani vuote allorché Roberto Calasso omaggiò il circo Barmun di "Quelli della notte" di copie kunderate. Al mio indirizzo ricevetti invece un librone gotico-funebre intitolato "Aberrazioni". Pensai subito che era un titolo perfetto per il riporto a 33 giri che inalberava Roberto Calasso. Rimasi poi di stucco quando l'unico Milan (che Berlusconi non ha mai comprato) fu scoperto in mano alle casalinghe sotto l'ombrellone e alle segretarie d'azienda sopra la scrivania. Infine l'inenarrabile: assediato da associazioni e librerie e Rotary vari, cominciai a tenere conferenze su Kundera e il suo osannato libro. Così, fedele al cliché di successo di "Quelli della notte", tenni a debita distanza il libro e continuai a fare il cazzaro blablando goliardismi a calembour sciolto (i titoletti delle pseudo-lezioni erano: "L'amore è Cechov", "Parmenide o Parmalat?", "Etere o catetere? questo è il problema"). Poi un bel giorno ho fatto un corso di lettura voce, ho imparato a leggere a piombo, trasversalmente la pagina, e ho potuto leggere il libro-simbolo degli anni Ottanta. Parlava degli anni Settanta. Correvano i primi anni del 2000 quando mi imbattei per la prima volta con il volto arcigno e il riporto volante di Calasso. Ero in romantica passeggiata con mia moglie Anna seguendo la battigia zigzagante del mare di Sabaudia. Onda su onda, quando vedo avanzare una coppia “meravigliosa”: lei vestita all’indiana e lui in calzoncini ma tormentato dal vento di Levante che mandava in erezione un riporto che partiva dai peli della schiena. Lunghissimo, altissimo, purissimo. La risata si azzera sulla bocca quando, avanzando, riconosco i connotati dell’editore più snob e sprezzante d’Italia, oggetto di desiderio di tanti scrittori e giornalisti (malgrado le paginate su “Repubblica”, Scalfari ancora aspetta di vedere un suo libro per i tipi Adelphi). Beh, pensavo, finalmente riceverò un “grazie” per Kundera e per aver contribuito a salvare la casa editrice dal fallimento. Naturalmente, dopo aver educatamente declinato nome cognome e codice fiscale, Calasso ha borbottato qualcosa, dopodiché scocciatissimo del pit stop ha dribblato me e mia moglie proseguendo verso i paradisi della Mitteleuropa.
Dagospia il 29 luglio 2021. Dal profilo Facebook di Ottavio Cappellani. È morto Roberto Calasso. Di lui ho due ricordi. Una cena con lui e Manlio Sgalambro. Si parlava dell’uso moderno dell’aggettivo “mitico”. Entrai a gamba tesa nella conversazione sostenendo che il primo uso dell’aggettivo “mitico” in senso moderno era nato ne i fumetti porno delle Edizioni Lo Squalo, precisamente in Lando il Camionista (“li avete mai letti?”). Il secondo ricordo è alla fiera del libro di Francoforte, una festa di una casa editrice indipendente tedesca che quell’anno aveva messo a segno un paio di ottimi colpi (il direttore editoriale fu chiamato poi a Piper). E niente, io stavo ballando con una editrice francese in topless versandole lo champagne sui capezzoli quando entrò Calasso. Mi avvicinai e gli dissi sottovoce: non lo dica a Sgalambro per favore.
L'alchimista letterario che trovò la formula per farsi "accessibile". Davide Brullo il 30 Luglio 2021 su Il Giornale. Da "L'impuro folle" a "La tavoletta dei destini" creò un labirinto culturale diventato di culto. Inavvicinabile. Ha fatto di sé stesso un tabù, un dicastero di ombre, sembrava governare su ere zodiacali, come l'Imperatore di Star Wars. Roberto Calasso, semplicemente, mero corpo corruttibile, non esisteva: si è fatto verbo, schiudeva specchi. Era bello, Calasso, da ragazzo, un fauno, benedetto da una prodigiosa giovinezza. Fiorentino, figlio di Francesco Calasso, maestro in «scienze giuridiche», preside della facoltà di giurisprudenza a Roma, e di Melisenda Codignola, figlia di Ernesto, il grande pedagogista, cofondatore de La Nuova Italia, crebbe affilando lo sguardo, ipnotico. Il fratello Gian Pietro, di quattro anni più vecchio, regista, cresciuto attorno a Monicelli e Zeffirelli, ha dichiarato di adorare Billy Wilder e Kurosawa; Roberto Calasso in Allucinazioni americane stila un mausoleo in onore di Alfred Hitchcock. «La finestra sul cortile è l'Occidente stesso, nella sua forma più ammaliante e irriducibile», scrive, avvicinando Grace Kelly a Rabbi Eisik, mistico chassidico, collegando la macchina fotografica di James Stewart all'«angoscia di Arjuna nella Bhagavadgita». Roberto Calasso capì di essere Roberto Calasso poco più che ventenne, per benedizione di Bobi Bazlen. Cinquant'anni fa fu eletto direttore editoriale di Adelphi, il suo capolavoro; col tempo, non era chiaro se fosse Teseo, Minotauro, Dedalo. Per qualcuno, Calasso era Minosse, giudice inflessibile, capace di ordire labirinti e aggiogare mostri. Per diventare inavvicinabile, tuttavia, era necessaria l'opera. Calasso nacque alla letteratura nel 1974, con L'impuro folle - inutile ricordare che «il puro folle» è Parsifal -, dove si definisce «un obliquo cronista attuale» e racconta la storia di Daniel Paul Schreber, che è lo scrittore delle Memorie di un malato di nervi, libro in catalogo Adelphi. Già, l'opera di Calasso scrittore è consustanziale al catalogo Adelphi, ne è l'appendice. Enciclopedico, istrione, involuto, Calasso aveva la virtù di non farsi capire. Non desiderava essere compreso, in effetti, non ambiva a premi, le recensioni, comunque, sarebbero giunte a pioggia: totalmente del mondo, da eccelso gnostico, era al di là del mondo. In questo, la sua scrittura è di micidiale esattezza: raffinata, colta fino a estenuare l'idea stessa di biblioteca, esangue. Aveva la grazia retorica di Michele Pisello, che della chiacchiera tra i rioni di Bisanzio seppe fare liturgia; era rigoroso come Plutarco, sempre sulla soglia di svelare i misteri, di cui dava a intendere l'odore, il colore. Nel 1983, con La rovina di Kasch, Calasso inaugura quella che alcuni definiscono «opera», ma che è corretto chiamare «pleroma»: un'epopea gnostica che si conclude, nel 2020, con La tavoletta dei destini. Per lo più, i romanzi di Calasso - che coagulano Baudelaire a Lascaux, le Ninfe e Robert Walser - stanno tra la fiaba e il saggio, sono pura sapienza, algebra catara: Calasso ha reso essoterico l'esoterico. Tentò di scrivere Il libro di tutti i libri - così il titolo del suo romanzo biblico, edito nel 2019, non il più bello -, cioè di evocare l'incendio bibliografico: con Le nozze di Cadmo e Armonia (1988), forse perché parlava degli dèi olimpici, si guadagnò un certo pubblico, l'idolatria critica, i galloni di scrittore di culto, alchemico, inafferrabile. Dedicò un libro a Franz Kafka - che figura tra i suoi atavici lari -, K. (2002), e di Kafka, per la sua casa editrice, ha curato gli Aforismi di Zürau; L'ardore (2004) si concentra sull'India vedica, «è un viaggio scombussolante, vertiginoso, quale pochissimi altri libri possono offrire», recita la quarta dell'edizione economica, firmata da Emmanuel Carrère, autore Adelphi. D'altronde, «L'energia creativa di Roberto Calasso è inarrestabile», ha scritto Muriel Spark, autrice di spicco nel catalogo Adelphi. Roberto Calasso, fenomeno pitagorico, è il più rappresentativo autore della sua casa editrice: tanto snob da autopubblicarsi per eccesso d'intelletto. Pubblicò in Adelphi anche i romanzi della moglie, Fleur Jaeggy, dotata, scrive Iosif Brodskij - immenso poeta edito da Adelphi -, di «una prosa straordinaria». Questo per dire che Calasso costituì, anche attraverso i suoi romanzi, un cenacolo, una flotta di adepti (per ogni chiarimento si legga La cena segreta, Adelphi, 1997). In una lunga intervista rilasciata alla Paris Review, dieci anni fa, racconta della sua passione per Thomas Browne e Marlon Brando, dei legami della sua famiglia con Giovanni Gentile, di quando Bianchi Bandinelli accompagnò Hitler, nel 1938, a visitare gli Uffizi. «Roberto Calasso è una istituzione letteraria», attacca la giornalista Lila Azam Zanganeh. Nel mondo inglese i romanzi di Calasso sono editi da Farrar, Straus and Giroux, e magnificati; in Francia è edito da Gallimard. Soltanto Cesare Cavalleri ha osato scrivere che i libri di Calasso «sono calchi... simulacri di simulacri» composti in una «scrittura lievitata da fioca febbre», ma in quel caso siamo nell'ambito della guerra santa, l'unico ring, per altro, verso cui Calasso dimostrava interesse. Aveva - lo si desume dal volto - una generosità leonina, aggressiva; quanto al resto, mirava il caos mondano con ironica indifferenza. Fortunatamente antipatico, nelle fotografie da ragazzo pare la reincarnazione di Antinoo, il giovane divinizzato da Adriano. Capì prima di tutti il genio di Cristina Campo; solo gli infedeli attribuiscono al caso - o al lucro - il fatto che il giorno della morte di Calasso coincida con quello dell'uscita dei suoi ultimi libri, autobiografici, Bobi e Memè Scianca. Ha vissuto preparandosi alla fine. Riuscì a rendersi inaccessibile, infine leggendario. Lo si guardava di spalle; se lo toccavi, è probabile, si sarebbe sbriciolato. Davide Brullo
Quanta destra e Tradizione in un catalogo illuminato. Luigi Mascheroni il 30 Luglio 2021 su Il Giornale. Schmitt, Jünger, Guénon, Gurdjeff: un grande editore capace di rendere qualsiasi autore "Adelphi" e basta. Nel suo ultimo libro dedicato all'amico, maestro e sciamano Bobi Bazlen, e per una volta «ultimo» non significa «nuovo», ma davvero «ultimo», Roberto Calasso a un certo punto ci lascia in eredità una frase impietosa: «Una casa editrice è fatta di sì, ma ancor più di no». E in quel «no» c'è tutto il mito Adelphi. Prima di tutto Roberto Calasso, che del Novecento italiano non è stato l'editore più popolare (per quello c'è la Mondadori) né più influente (a quello pensò Giulio Einaudi con il suo gruppo di intellettuali), ma il più ammaliante e enigmatico, disse no al premio Strega. Incredibile, ma Adelphi non ha mai vinto al Ninfeo. Roberto Calasso arrivò nella cinquina nel 1989 con Le nozze di Cadmo e Armonia, ma perse contro La grande sera di Giuseppe Pontiggia (un suo consulente...), dopodiché il marchio Adelphi non concorse più al premio. A volte basta un «no» per fare la storia. Come quando disse un no impietoso e ripetuto a Eugenio Scalfari, il quale sognava il logo con il pittogramma cinese «della luna nuova» per il suo La ruga sulla fronte. Uomo di pochissime parole (si contano meno interviste e apparizioni in pubblico dell'Editore che refusi nei libri Adelphi), Roberto Calasso fece sempre parlare i titoli che sapeva scegliere, e soprattutto il catalogo che quei titoli costruivano, dorso accanto a dorso, autore dopo autore, con un senso, un ritmo, un percorso invisibile ma reale. Un catalogo illuminato e illuminante più che illuminista. Non si riesce mai a capire esattamente il perché a volte lo si può giusto intuire ma per qualsiasi lettore è naturale che la stessa collana ospiti la biografia di uno stregone dei Sioux e La nube purpurea di Matthew P. Shiel, Klossowski e il carteggio Cioran-Eliade, le opere di Roberto Bolaño e quella di Irène Némirovsky...Del resto il mito Adelphi passa anche da quegli scaffali con tutte le copertine allineate color pastello in tinta unica, di cartoncino ruvido, tutti imperdibili, perché uno attira l'altro, che si vendono nei film dell'Archibugi, o con Sergio Castellitto e Margherita Buy... La cultura è egemonia, è moda e anche brand. È vero. Calasso, intellettuale di primissimo piano, editore-lettore-scrittore e anche imprenditore (con lui la casa editrice divenne un vero affare) aveva orrore delle categorie politiche, ormai putrefatte, di destra e sinistra. «Come si inquadrava Adelphi politicamente? Non si inquadrava, semplicemente - confessò nel saggio L'impronta dell'editore, 2013 - Nulla di più tedioso e sfibrante delle dispute sull'egemonia culturale della Sinistra negli anni '50 in Italia...». Ma è altrettanto vero che nel corso della sua lunga stagione dentro l'Adelphi se Bazlen fu l'ideatore, lui fu tra i fondatori, con Luciano Foà, nel 1962: nel '71 divenne direttore editoriale e dal '99 presidente ha compiuto una straordinaria operazione culturale che è anche politica. Solo una Sinistra come la sua, a-ideologica ed élitaria, poteva costruire un catalogo così di Destra una Destra non ideologica, ma spirituale, sapienziale, Tradizionale, persino iniziatica per farlo entrare, con nonchalance, dentro i più bei salotti della Sinistra. Bisogna essere Calasso, e sapere che la vera comunicazione non passa attraverso il marketing, per non fare sentire in colpa le professoresse democratiche col cerchietto quando si avventurano in accidentate passeggiate intellettuali accompagnate da Carl Schmitt, o Ernst Jünger, o Léon Bloy: che scandalo quando Calasso decise di pubblicare un cattolico tradizionalista in odore di antisemitismo, tanto da provocare nobili fuoriuscite dalla casa editrice. Senza citare Heidegger. O Nietzsche. Il caso è noto. È proprio la pubblicazione integrale della sua opera, che dentro Einaudi era considerato un progetto pericoloso, a segnare la nascita dell'Adelphi, con l'edizione critica del filosofo tedesco a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari. Poi arriveranno tutti gli altri autori culto (di certa Destra) riscoperti da Adelphi: René Guénon, Ananda Coomaraswamy, Mircea Eliade, Céline, Konrad Lorenz, Gurdjieff, René Daumal, Cristina Campo, Tolkien, Borges, Bruce Chatwin, persino il filo-hitleriano Knut Hamsun... Tutti nomi posti accanto a Guido Ceronetti, Geminello Alvi, o Massimo Cacciari... Si chiamano eretici, non allineati, area non conformista, cultura «non egemone». Si chiama Adelphi. Adelphi della dissoluzione? E per il resto, detto che Calasso aveva un'eleganza nello scrivere che si riverberava anche sul suo modo di editare libri, e viceversa, detto che all'Adelphi impose una cura maniacale nel lavoro redazionale, dalle traduzioni ai giri di bozze (cinque!), detto che era un campione delle quarte di copertina (le scriveva tutte lui), detto che la sua Biblioteca Adelphi è il propileo della cultura (anti)moderna, resta solo da segnalare la straordinaria, sfacciata capacità di Calasso e dei suoi collaboratori di indurre anche il lettore più avvertito a credere che la progenitura di qualsiasi libro di successo sia dell'Adelphi. Acquistando l'intero catalogo della Frassinelli anni Sessanta. Ripubblicando Malaparte, orgoglio dl catalogo Vallecchi. O Sciascia, punto di riferimento di Einaudi e Bompiani. Pescando nei cataloghi SugarCo, Longanesi, Garzanti (Gottfried Benn, ad esempio), trasformando romanzi dimenticati in bestseller (Zia Mame), rimarchiando con intelligenza un intero pezzo di Mitteleuropa (da Sándor Márai e Joseph Roth). Imbattibile nel selezionare, straordinario nel gusto, inimitabile nelle letture, Roberto Calasso è stato l'editore che tutti gli editori vorrebbero essere. E questo basta. Come ha detto Massimo Cacciari la sua «è una grandissima perdita, temo davvero difficilmente rimediabile, per ciò che avanza della nostra cultura». In tempi di occasioni e dilettantismi vari.
Luigi Mascheroni. Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010); "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge)
Da Nietzsche alla Mitteleuropa, l’universo culturale di Roberto Calasso. Andrea Muratore Su Inside Over il 30 luglio 2021. Roberto Calasso è stato, in fin dei conti, semplicemente un uomo colto e libero. E tanto basta a far comprendere l’incisività della sua opera nel mondo editoriale italiano del XX e del XXI secolo. Non è la straordinarietà dell’ordinario, in questo caso, a colpire, quanto piuttosto la capacità di Calasso di plasmare una creatura editoriale capace di fare scuola in Europa a immagine e somiglianza della sua visione del mondo e della cultura. Da direttore editoriale della Adelphi Calasso ha dato voce a un’ampia e plurale gamma di autori. Del suo tempo e del passato. Qualche volta, si può dire, del futuro, anticipando la celebrità o la trasposizione in icone “pop” di scrittori e saggisti con ben ponderate intuizioni. Ma a colpire, in particolare, è l’ampiezza dei temi su cui la Biblioteca Adelphi, che dal 1965 ad oggi ha collezionato oltre 700 titoli, si è focalizzata. Un’ampiezza che è specchio della profonda curiosità culturale del suo deus ex machina. Etologia (Konrad Lorenz) e letteratura del fantastico (J.R.R. Tolkien), esoterismo (Gurdjeff e Guenon) e fede (Ignazio di Loyola), pensatori laici (Benedetto Croce) e veri e propri mistici (Simone Weil). Un flusso di coscienza continuo, polimorfo, in grado di adattarsi ai molteplici stimoli che Calasso e la sua Adelphi erano in grado di cogliere e trasmettere, dando alla luce testi che “avevano rischiato di non diventare mai libri”, come scritto nel 2013 ne L’impronta dell’editore.
Calasso e la l’Adelphi tra sacro e profano. Calasso è stato un personaggio sui generis, non inquadrabile in cordate, filoni espressivi, aree politiche precise. Un Franco Battiato dell’editoria, capace di creare un universo di riferimento in grado di portare a visitare, metaforicamente, mondi lontanissimi e a recepire stimoli eterogenei in chi ha la predisposizione giusta per inoltrarvisi. Tra gli autori pubblicati da Calasso trovava spazio Manlio Sgalambro, filosofo la cui collaborazione col maestro siciliano è alla base di alcuni dei suoi testi più profondi; trovava spazio un grande eretico della cultura italiana come Curzio Malaparte, rivale di ogni conformismo; spiccavano i viaggi in terre lontane e le epopee culturali, storiche, naturalistiche ed etnografiche del britannico Bruce Chatwin, inaugurate da In Patagonia, testo che ha la profonda capacità di portare alla scoperta di un profondo coacervo di storie e racconti umani narrando di una terra aspra, gelida e inospitale agli antipodi della nostra Europa. Nell’Adelphi di Calasso il fiume della conoscenza scorre con tempi inusuali per l’era della società dell’informazione di massa. E i protagonisti delle sue raccolte sono, spesso, i grandi eretici, i pensatori liberi, le voci fuori dal coro. Che permettono di apprezzare con maggior profondità il lavoro di una casa editrice che, ricorda Pangea, seppe distinguersi per autonomia, e ha proseguito a farlo nell’ultimo mezzo secolo, in una fase in cui “i grandi editori, frastornati dal clima post bellico, premuti da esigenze moraliste e pedagogiche, dai pregiudizi politico-culturali della neonata società borghese, pubblicavano opere ovvie, tralasciando «vasta parte dell’essenziale. La bigotteria laica, gli afflati cattolici o marxisti, parevano obbligare gli editori ad accogliere a grappolo solo autori allineati, catalogabili”. Chi altri, in fin dei conti, poteva portare in Italia la meglio realizzata versione di Massa e potere, il testo di analisi del rapporto tra le società e l’autorità scritto dal pensatore tedesco-britannico Elias Canetti, Nobel per la Letteratura del 1981, dissacrante critica delle principali ideologie del Novecento? Chi, negli Anni Settanta, riscoprire Joseph Roth e, assieme a romanzi fondamentali come La cripta dei cappuccini, l’afflato mitteleuropeo e la nostalgia per un”Europa che si poteva ancora pensare centro del mondo? Chi far partire un viaggio culturale nelle grandi religioni del mondo in grado di toccare l’induismo (con un’edizione della Bhagavadgita), il buddhismo (con Le gesta del Buddha del monaco e poeta Asvaghosa), il canone biblico e la traduzione cristiana? In quest’ultimo campo, l’Adelphi targata Calasso ha potuto pubblicare versioni curate e commentate del Libro di Giobbe, “cibo, vestimento e balsamo per la mia povera anima” per Soren Kierkegaard, e del Cantico dei Cantici di San Francesco, affidandone la curatela al filosofo Guido Ceronetti, rispondendo con la semplicità della saggezza antica ai pomposi richiami dell’egemonia culturale di allora?
La riscoperta di Nietzsche. Calasso è un editore, ma anche un enigma. Ci si chiede se, in fin dei conti, non abbia fatto tutto questo solo per gioco. Per il vezzo intellettuale di mostrare che la cultura è tale, senza aggettivi, e deridere di conseguenza le guerre tribali inscenate da egemoni, fedelissimi di partito, scrittori mainstream. Profondità e semplicità si fondono laddove gli “Adelphi”, i fratelli riuniti in una comune visione culturale, lasciano il segno mostrando i rischi insiti in un eccessivo incasellamento delle opere letterarie in schemi ideologici e politici. Irriverente nei confronti dei censori di autori come Ernst Junger, da lui meritoriamente riportato all’attenzione del pubblico italiano, Calasso seppe costruire la sua opera omnia restituendo alla cultura italiana Friedrich Nietzsche, la cui traduzione pressoché integrale ha rappresentato un’operazione volta a restituire giustizia sul piano culturale e filologico al ricordo di un autore controverso e troppo spesso malinterpretato nel nostro contesto nazionale. In particolare nella traduzione e nel commento dell’Ecce Homo di Nietzsche, realizzati nel 1969 a 28 anni, c’è tutto Calasso: la curiosità, l’estro, l’acume culturale. Come a sanare un debito verso il grande filosofo di Rocken, Calasso traduce l’opera e la commenta al fine di invertire la tradizionale interpretazione “degenerativa” leggendo, in fin dei conti, nel “Cristo o Dionisio?” con cui si conclude l’opera più autobiografica di Nietzsche non la domanda insoluta prima del declino della sua mente ma il grande dilemma esistenziale dell’uomo contemporaneo il cui disvelamento è forse il grande dono del pensatore tedesco. Conscio che l’Europa del XX secolo sarebbe stata perennemente intrisa del dualismo tra la sua vocazione tradizionale e una spinta sistemica all’entropia. Il fatto stesso di restituire alla giustizia la traduzione letterale del termine Übermensch in “Oltreuomo“, spazzando via ogni possibile richiamo oscuro insito nel sulfureo “Superuomo”, dimostra un’attenzione e una cura dei dettagli culturali e del pensiero di un autore, anche se scomparso, tale da denotare il profondo rispetto di Calasso per ogni forma di espressione culturale. Da vero intellettuale libero. Capace di parlare al mondo in più lingue, in più stili e in più modalità espressive. Con la forza dirompente dei libri.
E’ morto Roberto Calasso, con la Adelphi picconò l’egemonia culturale della sinistra marxista. Francesco Severini giovedì 29 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. Lo scrittore ed editore Roberto Calasso, presidente e consigliere delegato della casa editrice Adelphi, è morto a Milano all’età di 80 anni dopo una lunga malattia. Era nato a Firenze il 30 maggio 1941. Saggista e narratore, nel 1962, a soli 21 anni, entrò a far parte di un piccolo gruppo di persone che, insieme a Roberto Bazlen e Luciano Foà, stava elaborando il programma di una nuova casa editrice: sotto la sua guida Adelphi è diventata uno dei marchi più importanti nell’editoria di qualità. Proprio oggi escono in libreria i suoi ultimi due libri, “Bobi” e “Memé Scianca“.
Direttore editoriale di Adelphi nel 1971. Fin dalla fondazione, Calasso è stato l’animatore di Adelphi, diventandone nel 1971 direttore editoriale e nel 1990 consigliere delegato. Dal 1999 era anche presidente della casa editrice. Per la sua casa editrice è stato traduttore e curatore di “Il racconto del pellegrino di sant’Ignazio” (1966), “Ecce homo” di Friedrich Nietzsche (1969), “Detti e contraddetti” di Karl Kraus (1972) e “Aforismi di Zürau” di Franz Kafka (2004).
I libri di Roberto Calasso. A partire dall’inizio degli anni ’80 Roberto Calasso si è dedicato a un’opera in varie parti, un monumentale work in progress, con cui ha rielaborato, tra saggistica e narrativa, materie molto diverse e strettamente connesse fra loro, mentre nessuna è assegnabile a un genere canonico. Di questa impresa editoriale sono stati pubblicati undici volumi, che formano un insieme di oltre quattromila pagine: “La rovina di Kasch” (1983); “Le nozze di Cadmo e Armonia” (Adelphi); “Ka” (1996); “K.” (2002); “Il rosa Tiepolo” (2006); “La Folie Baudelaire” (2008); “L’ardore” (2010); “Il Cacciatore Celeste” (2016); “L’innominabile attuale” (2017); “Il libro di tutti i libri” (2019); “La tavoletta dei destini” (Adelphi 2020). I suoi libri sono tradotti in 25 lingue e pubblicati in 28 paesi.
Gli autori scomodi riscoperti da Calasso. Con la casa editrice Adelphi ha demolito l’egemonia culturale dell’editoria di stampo marxista che si muoveva tra Einaudi e Laterza. Non a caso Adelphi è la prima voce del libro “Fascisti immaginari” di Luciano Lanna e Filippo Rossi. Dove si ricorda la scelta di pubblicare tutta l’opera di Nietzsche sfidando il “perbenismo” marxista fino a delineare un paesaggio culturale, grazie al catalogo Adelphi, in cui risultano essenziali anche autori come Heidegger, Dumezil, Guénon, Cioran, Schmitt, Lorenz. Calasso fu dunque l’editore – come scrisse Ugo Volli – “più attento ai grandi scrittori difficili e rimossi del nostro tempo”.
La scomunica della sinistra. Scomunicato dalla sinistra per i titoli scomodi del catalogo Adelphi e poi per la pubblicazione del testo Le Salut par les Juifs di Léon Bloy, Calasso amava la sua veste di eretico sofisticato. “Il migliore argomento che conosco in difesa della lettura in quanto tale – diceva – è un’osservazione di Robert Walser: ‘Chi legge, nel momento in cui legge, non fa danno’ “. Ha rappresentato una voce controcorrente rispetto a quell’editoria che vedeva con sospetto ciò che veniva considerato un cedimento verso “l’irrazionale” del mito e della religione, qualsiasi essa sia, e Calasso guardava con grande attenzione anche al mondo vedico e buddhista.
Figlio del giurista Francesco Calasso e di Melisenda Codignola, frequentò il liceo classico Torquato Tasso di Roma e, successivamente, si laureò in letteratura inglese con Mario Praz discutendo una tesi dal titolo “I geroglifici di Sir Thomas Browne”. Nel 1962 prese parte alla fondazione di Adelphi, di cui attualmente era proprietario come azionista del 71% del capitale. L’editore e scrittore era sposato con la scrittrice Fleur Jaeggy.
A 80 anni se ne va l'editore e scrittore. Chi è Roberto Calasso: scrittore, editore e l’amicizia con Bobi Bazlen. Matteo Moca su Il Riformista il 30 Luglio 2021. Roberto Calasso è stato fino all’ultimo istante impegnato nel lavoro editoriale e nella scrittura come si evince dall’uscita, lo stesso giorno della sua scomparsa, di due volumi di memorie, Bobi e Memè Scianca. Oltre infatti all’attività di editore e presidente della casa editrice Adelphi, Calasso è stato anche tra i più importanti scrittori italiani dell’ultimo secolo, come testimonia la sua nutrita opera pubblicata dalla casa editrice milanese che ha contribuito a fondare con Roberto “Bobi” Bazlen e Luciano Foà. Provare a etichettare la natura del lavoro di Calasso in maniera stringente porterebbe fuori strada, perché Calasso non è stato solo un editore né solo uno scrittore, come testimonia l’acribia con la quale è costruito il catalogo della casa editrice che spazia, sempre con estrema attenzione ed erudizione, tra la letteratura e la filosofia, la mitologia e le neuroscienze, la storia e la religione. Nel progetto di una nuova casa editrice di cui Bazlen parlò a Calasso nel 1962 c’era la pubblicazione dell’opera omnia di Nietzsche (straordinario lavoro nel quale anche Calasso ha avuto un ruolo decisivo con la traduzione di Ecce homo e la scrittura del vertiginoso saggio che lo accompagna) e un’idea decisiva, quella di pubblicare “libri unici”, quelli in cui “subito si riconosce che all’autore è accaduto qualcosa e quel qualcosa ha finito per depositarsi in uno scritto”. Bazlen morirà poco dopo, nel 1965, ma Calasso continuerà a crescere grazie ai suoi insegnamenti e alla guida di Foà, divenendo una complessa e straordinaria figura letteraria in cui il lavoro di scrittore si accompagna con quello di editore e si fonde con quello del lettore erudito. A partire dal 1971 la casa editrice sarà diretta da Calasso che sembrava aver già nella sua storia familiare il presagio di una vita a contatto con i libri: figlio del famoso giurista Francesco e di Melisenda Codignola, a sua volta figlia del pedagogista Ernesto, fondatore della casa editrice Nuova Italia, Calasso era nato a Firenze nel 1941 dove presto passerà le sue notti leggendo i libri della biblioteca di famiglia, come Cime tempestose («credo che fino allora non sapessi con esattezza che cos’è la passione – e dopo quella notte l’ho saputo»). Nel 1974 Calasso pubblica il suo primo libro, L’impuro folle, uno strano romanzo che unisce la narrazione alla riflessione psicoanalitica all’ombra dell’internamento psichiatrico di Daniel Paul Schreber (il cui diario, Memorie di un malato di nervi, con una nota di Calasso, inaugura una delle prestigiose collane adelphiane, “La collana dei casi”) e dal 1983 con La rovina di Kasch inizia a costruire la sua grande opera unica che con l’ultimo La tavoletta dei destini (2020) conta undici volumi. In questi libri confluisce l’esistenza e il pensiero di Calasso, ma anche tutto ciò che il catalogo di Adelphi raccoglie, dalla mitologia greca (Le nozze di Cadmo e Armonia) a quella indiana (Ka), da Kafka (K.) a Baudelaire (La Folie Baudelaire), dal pittore Giambattista Tiepolo (Il rosa Tiepolo) all’Antico Testamento (Il libro di tutti i libri). E poi ci sono gli straordinari libri che raccontano il suo mestiere, come L’impronta dell’editore o Cento lettere a uno sconosciuto, la sua concezione della letteratura (La letteratura e gli dèi) o il rapporto con gli autori che hanno segnato la sua visione del mondo (I quarantanove gradini). Nell’ultimo Bobi, Calasso racconta la nascita di Adelphi e il ruolo decisivo rivestito da Bazlen nel suo percorso di formazione letteraria («Tutto quello che Bobi diceva sui libri era ciò che più mi attirava, mi colpiva e poi rimuginavo, provando a collegare i punti, talvolta lontanissimi») e scrive che dopo aver parlato e discusso con lui arrivava «un altro modo di respirare, evidentemente. E una strana irragionevole euforia che stingeva su tutto». Sono gli stessi sentimenti che scaturiscono dalla lettura dei libri di Calasso, un’euforia che si regge sulle possibilità ermeneutiche che emergono dai suoi libri, ma anche dai percorsi segreti e imprevedibili che nascono dal catalogo della sua casa editrice, un moltiplicatore infinito di corrispondenze che costituisce un’eredità inestimabile. Matteo Moca
Marco Belpoliti il 28 novembre 2018 su doppiozero.com. Primavera del 1961. Alla Libreria Einaudi a Milano Luciano Foà incontra lo scrittore Giovanni Arpino. Parlano del più e del meno. Foà è ritornato a Milano dopo dieci anni trascorsi a Torino come segretario generale della casa editrice Einaudi. Allo scrittore Foà confessa che non è solo a causa della recente malattia della moglie che è tornato nella propria città, ma anche perché pensa di fondare una propria casa editrice. Ci pensa da molto tempo, almeno vent’anni. Foà ha sempre lavorato nell’editoria, prima con il padre, fondatore nel 1898 dell’Agenzia Letteraria Italiana (ALI), poi, tra il 1941 e il 1943, per Adriano Olivetti con la funzione di segretario delle Nuove Edizioni Ivrea, la casa editrice che l’industriale piemontese, lungimirante utopista, pensa di varare all’indomani della caduta del fascismo per rifondare la cultura italiana dopo i lunghi anni dell’autarchia culturale. Ma nel 1943, insieme al padre, Luciano si è rifugiato in Svizzera. Con la fine della guerra, Olivetti fonda le Edizioni di Comunità seguendo un progetto molto più limitato di quello approntato in origine. Luciano Foà ritorna all’ALI, che alla fine degli anni Quaranta stringe un sodalizio privilegiato con le edizioni di Giulio Einaudi, fino ad assumere il ruolo semiufficiale di ufficio esterno per i diritti. All’Agenzia è arrivato un giovane intraprendente Erich Linder, al quale Luciano Foà, che continua a covare sogni editoriali in proprio, finisce per delegare l’attività. Nel marzo del 1951, su insistenza di Giulio Einaudi, e seguendo un precedente suggerimento di Pavese, lascia l’ALI e prende il posto dello scrittore, morto suicida l’estate precedente; in breve diventa uno dei pilastri della casa editrice. Sono dieci anni intensissimi, in cui Foà, che nell’immediato dopoguerra si è iscritto al Partito comunista, matura una progressiva estraneità ad alcuni filoni intellettuali e politici che alimentano la casa editrice torinese. Il colpo finale alle sue certezze ideologiche – ma non solo sue – viene con il rapporto Krusciov e dai fatti d’Ungheria. In parecchi, tra cui Italo Calvino e Antonio Giolitti, escono dal Partito comunista. Dalla fine degli anni trenta Luciano Foà ha mantenuto uno strettissimo rapporto con un curioso intellettuale triestino di origine ebraica, Roberto Bazlen, detto Bobi, infaticabile lettore di libri strani e curiosi, un vero e proprio sciamano dell’editoria. È lui che convince Foà a cambiare città, da Torino a Milano, e ad aprire una sua attività editoriale. Dunque Arpino mette in contatto Foà con Roberto Olivetti, figlio di Adriano, che, per quanto impegnato con le sue Edizioni di Comunità è pronto a finanziare una nuova impresa. Foà apre un ufficio in via Santa Marta. Con lui ci sono Piero Bertolucci, Nino Cappelletti e, per un breve periodo, Laura Schwarz. Sul primo pieghevole che annuncia l’uscita delle edizioni Adelphi (è il 1963 e alla fine dell’anno si stamperanno quattro volumi), è scritto: “L’Adelphi edizioni s.p.a. – che viene ad affiancarsi, con il suo programma letterario e saggistico alla consorella “Edizioni di Comunità” – si è costituita a Milano nel 1962” (curiosamente la parola Milano contiene un refuso: Miano). Milano è la città di fondazione, ma è dal Piemonte, da Torino e Ivrea, che vengono le prime risorse finanziarie e organizzative per dar vita all’Adelphi. Prima di decidere di fondare una propria casa editrice, Luciano Foà aveva pensato di aprire un ufficio milanese della Boringhieri. Sei anni prima, nel 1955, Paolo Boringhieri, responsabile del settore scientifico dell’Einaudi, ha registrato una propria sigla editoriale, pur mantenendo, almeno agli inizi, uno stretto rapporto con l’Einaudi. Con lui collabora Giorgio Colli, consulente Einaudi e curatore dell’Organon di Aristotele. Dal 1958 al 1965 Colli cura una collana di libri intitolata “Enciclopedia di autori classici”. Sono circa un centinaio di volumi che lo studioso piemontese appronta con l’aiuto di Mazzino Montinari, Gianfranco Cantelli, Piero Bertolucci e Nino Cappelletti, per la parte grafica, piccolo e affiatato staff di discepoli e amici degli anni in cui insegnava filosofia in un liceo di Lucca, come spiega Giuliana Lanata nella sua nota alla ripubblicazione delle presentazioni di Colli ai singoli volumi (G. Colli, Per una Enciclopedia di autori classici, Adelphi). È lo stesso gruppo di redattori che, salvo Cantelli, ritroveremo all’Adelphi. Nella collana di Boringhieri sono disegnate alcune delle linee essenziali su cui si reggerà per almeno vent’anni il progetto dell’Adelphi: la necessità di ripartire da un discorso sui classici diverso da quello espresso dalla cultura italiana idealista, marxista e cattolica; l’idea di pubblicare opere non appesantite da commenti o introduzioni, ma senza rinunciare al rigore filologico; l’intenzione di includere non solo opere di filosofia, ma anche di scienza e di religione, attingendo alle tradizioni orientali, al buddhismo e all’islamismo; l’importanza della scienza nella cultura umana, una scienza che non suppone il divorzio tra uomo e natura, tra uomo e oggetto del conoscere. Nel 1965, a progetto adelphiano già avviato, la collana chiude per un palese insuccesso di pubblico: troppo in anticipo sui tempi; tuttavia essa troverà, in modo diverso, la propria prosecuzione proprio nella neonata casa editrice milanese. I rapporti tra Colli e Foà sono stretti e iniziano nel 1951, anno dell’arrivo di Foà all’Einaudi, con cui, come ricorda Luisa Mangoni (Pensare i libri, Bollati Boringhieri), Colli collabora già dalla fine degli anni Quaranta. Non è dunque un caso che la prima collana messa in cantiere dall’Adelphi, con l’apporto di Bazlen, sia proprio una collana di classici: Defoe, La vita e le avventure di Robinson Crusoe, tradotta da Lodovico Terzi; le opere di Büchner, a cura di Giorgio Dolfini; Fede e Bellezza di Niccolò Tommaseo, a cura di Aldo Borlenghi; e tutte le novelle, in due volumi, di Gottfried Keller, con traduzioni di Pocar, Mazzucchetti, Ruschena, e la prefazione di Elena Croce, altra autrice e collaboratrice che avrà un ruolo significativo nella storia dell’Adelphi. I classici, si dice nel pieghevole promozionale che accompagna la pubblicazione, non sono “pietre di paragone o di intoppo, ma opere e autori che ci appariranno, a mano a mano che procederemo, contemporanei e necessari”. Nel 1953 Foà, scrivendo a Bazlen a proposito della collana “I Millenni” dell’Einaudi, notava che le nuove collane sono sempre nate da altre collane: un filone di libri contenuto nei Millenni può dare origine a un’altra collana. E l’allusione è alle tracce della “collana viola” di Pavese e de Martino, la serie mitologica ed etnografica, che si leggono nei Millenni o alla propensione per il mondo fiabesco, di cui Propp fornirà le basi culturali proprio in libri editi dall’Einaudi. L’editoria è arte dell’osmosi e dello scambio continuo, tanto è vero che diversi titoli proposti da Bazlen attraverso Foà, riappaiono nei progetti di de Martino dopo il 1960. Foà ha conosciuto il mitico Bobi Bazlen nel 1937, a Milano. Mitico Bazlen è diventato per noi, dopo la sua scoperta di Italo Svevo, il rapporto con Montale, le infinite letture e suggerimenti editoriali raccolte in un libretto intitolato Lettere editoriali (Adelphi), la collaborazione con la casa editrice Astrolabio, che pubblica Jung e il legame con Ernst Bernhard. Bazlen è la persona con cui Luciano Foà condivide la parte culturale del suo progetto editoriale. E Bazlen è subito al suo fianco, così come lo era stato nel periodo del progetto di Adriano Olivetti, e ancora all’Einaudi, dove però è tenuto in forte sospetto da Giulio Einaudi per il suo potere carismatico e le sue scelte culturali (“consulente morganatico” lo definisce Foà). Uscendo dalla casa editrice torinese nel 1961, Luciano Foà porta con sé un pacchetto di autori e proposte costruito da Bazlen, ma anche da Colli, tra cui l’ipotesi di pubblicazione delle opere di Nietzsche, inizialmente prevista nei Millenni einaudiani, ma poi rimandata per la scoperta di inediti e di manoscritti originali del filosofo da parte di Colli e Montinari negli archivi tedeschi. L’idea iniziale, fortemente voluta da Foà, è che la nuova casa editrice debba essere una casa editrice “di catalogo”, il che comporta un decollo lento e una serie di impegni finanziari da distribuire nel corso di diversi anni. In questo progetto i classici sono fondamentali; e per classici Bazlen intende una collana che metta autori del canone buddhista accanto a poeti provenzali. Ma non c’è solo questo. L’altro aspetto che Foà e Bazlen condividono è che i libri debbano nascere da una esperienza vissuta, non solo sul piano intellettuale, ma anche su quello umano. È il tentativo di opporsi all’epoca delle idee astratte che segnerà tutti gli anni sessanta e settanta. Foà e Bazlen non sono a loro agio nell’Einaudi di Cantimori; per loro hanno più importanza gli uomini, le loro voci singolari in un periodo storico in cui molti tendono a essere “professionisti della cultura”. Bazlen, intellettuale e uomo lontano da ogni dilettantismo, come da ogni professionismo (Sergio Solmi), incarna perfettamente l’idea di una cultura vissuta, sperimentata direttamente nella vita oltre che nelle pagine dei libri. Bazlen lettore impareggiabile e curioso, di sterminate letture, non ha scritto alcun libro, ma ha disseminato la propria intelligenza e presenza in mille situazioni nell’arco della propria vita: l’amicizia come valore. L’altra idea dei due fondatori dell’Adelphi è di andare alla ricerca di lettori affini e non tanto di adattare la propria produzione libraria a un pubblico che c’è già. Insomma, una scommessa con il tempo, un investimento sul futuro. Per questo gli assetti economici saranno sempre precari; per più di un decennio i bilanci dell’editrice restano in rosso. Nella primavera del 1964 l’Olivetti attraversa una grave crisi e Roberto è costretto a interrompere il suo finanziamento alla neonata casa editrice. Gli subentra un industriale, Alberto Zevi, che Foà ha conosciuto in Svizzera durante la guerra, e con cui ha intessuto discorsi sull’editoria. In quel periodo Foà traduce un romanzo di Hemingway che uscirà poi a puntate sul “Politecnico” di Vittorini col titolo: Per chi suonano le campane. Pochi mesi dopo la crisi economica dell’Adelphi, grazie alla mediazione di Giovanni Pirelli, diventa socia dell’Adelphi, per alcuni anni, Giulia Falck. A questi si aggiungerà Francesco Pellizzi. Bobi Bazlen porta con sé all’Adelphi un giovane brillante e coltissimo, Roberto Calasso. Bazlen vive a Roma e frequenta diverse persone, tra cui Ernst Bernhard, psicoanalista junghiano, che ha una notevole influenza sulla cultura italiana. È in un giorno del maggio del 1962, nella villa a Bracciano di Bernhard, un mese appena prima della fondazione legale della casa editrice, avvenuta il 20 giugno, che Bazlen parla a Calasso del progetto. Lo racconta Calasso stesso, che quasi astrologicamente fa cadere il colloquio nel giorno del suo ventunesimo compleanno. Bobi gli dice di tenersi pronto, perché è venuto il momento di pubblicare i libri di cui hanno così a lungo parlato nei loro incontri romani. Anzi, gli affida subito alcuni libri in lettura per la casa editrice, e ne riferisce anche a Foà, dando per scontato la presenza del giovane amico nel gruppo dei fondatori e consulenti dell’Adelphi. Il simbolo della casa editrice lo propizia invece un altro giovane amico, Claudio Rugafiori, arrivato nel gruppo per la mediazione del saggista e poeta Sergio Solmi. Foà ha raccontato in diverse interviste che fu proprio Rugafiori a portare un libro di un sinologo tedesco dove erano riportati numerosi ideogrammi dell’antica Cina, Carl Hentze, Tod, Auferstehung, Weltordung. Una mattina Foà lo apre a caso e l’occhio gli cade su una pagina: vi appaiono due figure umane, sottili ma ben identificabili; una con la testa all’insù, l’altra con la testa in giù, che si levano sopra una falce di luna nuova. Il significato è semplice: luna nuova, morte e resurrezione. È nato il marchio Adelphi. Il nome invece non c’è ancora. È a casa di Roberto Olivetti, il finanziatore, in una riunione tra amici, che Luciano Foà porta una lista di nomi. Ci sono le persone che compongono il giro delle Edizioni di Comunità. Bazlen ha suggerito altri nomi che sono su quel foglietto: “Studio editoriale”, “Spartiacque”, “Acquario”. Adelphi significa diverse cose, ricorda Calasso; in greco è “fratelli”, ma lo si usa anche nei teatri e nei club inglesi, e persino nelle riviste letterarie. Forse contiene anche un significato esoterico: il piccolo gruppo. E nonostante Foà propendesse per altri nomi, quella sera il nome prescelto è Adelphi. Calasso, inizia un fittissimo rapporto di collaborazione con Bazlen scegliendo i testi e i traduttori. Sta frequentando l’università, ma già ha dietro di sé un patrimonio enorme di letture, in tutti i campi, dalla filosofia alla matematica, della storia delle religioni alla musica. Bazlen lo utilizza come un sensore. È un formidabile consulente, anzi di più; per Bazlen è un membro di diritto di quella piccola società di fratelli che porta il nome Adelphi: un gruppo di amici, in cui regna la massima fiducia reciproca, una comunità reale, oltre che ideale, di persone che considerano i libri parte stessa della vita, superando la schematica divisione tra cultura ed esistenza umana che pare loro dominare nelle altre case editrici. L’Adelphi, è un fatto importante, nasce con finanziatori, ma non con un padrone. Calasso pensa di abbandonare gli studi per mettersi a lavorare a tempo pieno per l’Adelphi, ma Bazlen lo convince a continuare gli studi. Pensa che ci sarà tempo per il lavoro futuro nella casa editrice di cui egli è già parte. La veste grafica viene affidata a Enzo Mari, a cui si arriva attraverso Solmi, ma è Michele Ranchetti, curiosa e inclassificabile figura di intellettuale, studioso e poeta, a suggerire di utilizzare uno schema grafico di Aubrey Beardsley, incisore e illustratore inglese dell’Ottocento, per le copertine dei libri della “Biblioteca Adelphi”. Sarà proprio questa collana, nata nel 1965, che definirà l’intera proposta culturale della casa editrice, almeno sino agli anni ottanta (“una collana che garantisca una assoluta libertà di movimento: esperienza viva, piena e insolita”); lì continuano a uscire libri e autori pensati da Bazlen, Foà, Calasso, Solmi; sono autori novecenteschi, anche appartenenti dell’avanguardia letteraria e artistica, francesi e tedeschi, grandi narratori del periodo tra le due guerre, fino ad allora trascurati dall’editoria italiana, ma sono anche autori di testi religiosi, classici orientali, libri di esperienze di vita come Cella d’isolamento di Christopher Burney, uscito, guarda caso, proprio nel 1968. Bazlen s’ispira a collane dell’anteguerra, alla collezione “Cultura dell’anima”, diretta da Giovanni Papini presso Carabba, dove sono usciti libri di filosofi, mistici, poeti. Segno di una tradizione culturale che, dopo essersi immersa come un fiume carsico, tornava ora ad affiorare nella cultura italiana degli anni sessanta, proprio mentre l’editoria italiana si avviava verso la pubblicazione di libri sociologici e politici, improntati al marxismo, e non è cessata l’egemonia dell’idealismo crociano e dei suoi eredi. Bazlen guarda fuori dall’Italia, alla collana “Pour mon plasir”, edita prima della Seconda guerra mondiale in Francia da Grasset. I primi titoli della “Biblioteca Adelphi” sono L’altra parte di Alfred Kubin, Padre e figlio di Edmund Gosse, Manoscritto trovato a Saragozza di Potocki, Al paese dei Tarahumara di Antonin Artaud; i primi tre escono nel 1965. In quell’anno, a breve distanza dall’avvio dell’attività dell’Adelphi, muore Bobi Bazlen. Il colpo è forte per tutti. Bazlen è il motore della casa editrice. Tuttavia come sua consuetudine lascia un patrimonio di schede editoriali e soprattutto di lettere indirizzate a Luciano Foà, che contengono titoli da pubblicare, indicazioni sui traduttori e sui collaboratori, che finisce inevitabilmente per alimentare la produzione della casa editrice nel decennio successivo. Nei primi tempi l’intero gruppo degli adelphiani, in cui diventa sempre più importante Roberto Calasso, realizza il programma di Bazlen, ma poi è Calasso stesso, attivissimo nella lettura dei libri, nei suggerimenti, in quell’attività mercuriale di incontri e colloqui che è essenziale per portare linfa alla casa editrice, a imporsi come principale consulente, determinante nelle scelte editoriali. Nel 1968, con il trasferimento a Milano, il suo ruolo di direttore editoriale verrà confermato anche ufficialmente. Nel 1966 arriva in casa editrice come collaboratore e poi consulente lo scrittore Giuseppe Pontiggia; viene dal gruppo della neoavanguardia, da “il Verri” di Anceschi, segno di altre collaborazioni con gruppi in apparenza lontani dalla casa editrice. Non a caso Giorgio Manganelli, a cui Calasso scrive una lettera molto bella subito dopo l’uscita di Hilarotragoedia, è tra i possibili traduttori e collaboratori di Adelphi contattati da Foà. Con la crisi economica del 1964, l’Adelphi si lega più strettamente alla Boringhieri; entra nella rete commerciale della casa editrice torinese, ma subito dopo acquista la Frassinelli, nel cui portafoglio titoli ci sono Hesse, Joyce, Kafka, Melville e quello che sarà il long-seller di Adelphi, Siddharta. In questo periodo l’Adelphi cambia anche la rete di distribuzione. Intanto escono i primi volumi dell’opera di Nietzsche: Aurora, le Note azzurre di Dossi a cura di Dante Isella, i Saggi di Montaigne. Tra il 1968 e i primi anni settanta la produzione della casa editrice invece di espandersi si contrae: da 17 titoli nel 1968 a 13 nel 1970. Nel 1971 Paolo Boringhieri va a trovare l’amico Luciano Foà e gli propone di associarsi all’Etas Kompass di proprietà di Carlo Caracciolo, nelle vendite dei libri. L’Etas entra come socio al 48% e nel 1977 la casa editrice raggiunge il pareggio. Intanto la proprietà è passata dall’Etas al gruppo editoriale Fabbri, di proprietà dell’Ifi, la finanziaria della famiglia Agnelli, sebbene la maggioranza delle azioni resti nelle mani dei fondatori e di alcuni redattori. Il successo editoriale avrà inizio solo alla fine degli anni settanta, quando muta il paesaggio culturale italiano: il crollo dei miti e delle ideologie politiche del dopoguerra. Ma non è solo questo. Senza l’idea di una casa editrice “come genere letterario”, che Calasso espone in modo brillante e acuto nel volume Adelphiana 1, il progetto iniziato da Luciano Foà, Bobi Bazlen e Calasso stesso non si sarebbe realizzato compiutamente, per quanto nel corso della sua evoluzione l’Adelphi abbia mutato molte volte il suo profilo complessivo: una evoluzione nella continuità che prima o poi bisognerà raccontare. In questa ampia vicenda Luciano Foà assume almeno tre ruoli: editore, traduttore e curatore di volumi. Armato di piccole matite e fumando sottili sigarette, corregge, rifà, appunta sino agli ultimi anni (è scomparso nel 2005). I suoi autori, che pubblica all’Adelphi, sono Goethe, Kafka, Walser, ma anche Huxley e Norman Douglas. Traduce, sua antica passione, usando lo pseudonimo di Luciano Fabbri, almeno due libri di Joseph Roth, e rivede tutte le traduzioni di questo autore, come di Konrad Lorenz, Hoffmansthal, Walser. Come molti della sua generazione ama Stendhal. Sue sono le Lettere editoriali di Bobi Bazlen tratte dell’ampio epistolario che ha avuto con Bobi sin dai tempi di Einaudi, che è anche la storia del loro sodalizio. Sarà anche dirigente d’azienda negli alti e bassi delle vicende economiche della casa editrice milanese. Un ruolo importante per molti anni. Prima o poi si farà la storia di questo uomo discreto e silenzioso, con le sue sottili sigarette infilate in bocca e in mano la matita per annotare, sottolineare, correggere, scrivere. L’editore con la matita in mano.
Repubblica.it il 3 agosto 2021. Milano intitolerà una strada a Roberto Calasso, legata ai suoi luoghi, a partire dalla sede della sua casa editrice, Adelphi. Ce lo anticipa, alla fine del funerale dell'editore scrittore, che si è tenuto oggi 2 agosto a Milano, l'Assessore Filippo Del Corno. Ce ne parla anche uno dei protagonisti del mondo editoriale milanese e italiano, Achille Mauri, pure presente all'ultimo saluto a Calasso, scomparso a Milano il 28 luglio a ottant'anni. Decorsi i termini di legge - almeno dieci anni dalla data della morte- , ci sarà una via Roberto Calasso, o una piazza Roberto Calasso, nella città che ha anche il ponte Alda Merini. Un ultimo saluto che era iniziato su Instagram. "Solo tu sai" è il post che ha pubblicato, prima della cerimonia, la scrittrice Anna Katharina Fröhlich, madre dei due figli di Calasso, Josephine, che pure lo aveva ricordato su questo social, e Tancredi, fisicamente uguale a suo padre. Calasso lascia un'Adelphi dei giovani. L'ultima generazione dei Calasso e suo nipote, Roberto Colajanni, che con la squadra adelphiana ha organizzato e gestito la camera ardente e il funerale, sono apparsi uniti, mentre ci s'interroga sul futuro di questa casa editrice, che avrà un impatto culturale e occupazionale. "Per il suo impegno culturale Roberto Calasso incarna il mestiere dell'editore. Cosa succederà ad Adelphi lo ha già deciso lui e lo deciderà lui. È importante sottolineare questo" dice Elisabetta Sgarbi, che ha fatto arrivare nella Chiesa di Santa Maria presso San Satiro, dove pure era presente con Vittorio Sgarbi, Massimo Cacciari, Mario Andreose, Eugenio Lio, Luca De Michelis, Tullio Pericoli, una corona di fiori a nome suo e della sua Nave di Teseo. "Adelphi ha tutti gli strumenti per andare avanti grazie al grande lavoro fatto da Roberto Calasso, un editore che leggeva, com'era anche Valentino Bompiani. Saranno gli autori stessi ad andare verso Adelphi, a continuare la sua linea, a prescindere da quale sarà il suo assetto societario, e Milano gl'intitolerà sicuramente qualcosa" dichiara Achille Mauri, mentre il Gruppo GeMS è dato tra i possibili acquirenti di questo marchio, ammesso che la sua vendita sia prevista dalle ultime volontà di Calasso. "C'è questo pregiudizio sui grandi Gruppi. Mondadori non ha schiacciato Einaudi, come si temeva. Bompiani, all'interno del Gruppo Giunti, ha mantenuto la sua autonomia. Calasso ha costruito una via talmente precisa che quelli che la dovranno continuare, la continueranno" afferma Antonio Franchini, direttore editoriale Giunti - Bompiani. Quando il feretro, ricoperto di fiori bianchi, alla fine di una messa appassionata in cui il prete, argentino, ha parlato anche di letteratura, è uscito nell'estate milanese, per un attimo è piovuto, mentre la moglie di Calasso, la scrittrice Fleur Jaeggy, e le persone più vicine a lui cercavano un ultimo contatto terreno attraverso il legno chiaro della bara. Poi, quando è riapparso il sole, l'editore scrittore è stato portato a Venezia: riposerà nel cimitero di San Michele con, tra gli altri, Ezra Pound e Iosif Brodskij.
· E’ morto il bassista degli ZZ top Dusty Hill.
Musica, morto il bassista degli ZZ top Dusty Hill: aveva 72 anni. Valentina Mericio il 28/07/2021 su Notizie.it. Il mondo della musica è in lutto. Si è spento a 72 anni Dusty Hill. Le cause del decesso sarebbero ancora sconosciute. Musica in lutto. Si è spento all’età di 72 anni il bassista degli ZZ Top Dusty Hill. A darne l’annuncio la sua band con un post su Facebook. Il suo agente ha inoltre confermato che le cause del suo decesso sarebbero ancora sconosciute. Era conosciuto come una delle figure barbute del grande blues, ma è stato con gli ZZ Top che la figura di Dusty Hill è brillata nel firmamento della grande musica che conta. In oltre 50 anni di carriera con il suo basso ha incantato milioni di persone. Negli ultimi anni le sue presenze nei tour si erano ridotte. In particolare si era fermato una prima volta 2014 quando a seguito di una caduta si era ferito ad un’anca portando i concerti ad essere posticipati di un anno. Un secondo infortunio è arrivato due anni dopo, nel 2016, con una frattura ad una spalla. Questa volta il tour è andato avanti senza di lui, decisione questa tra l’altro da lui voluta. “Ci mancherai moltissimo, amigo”, le parole della band sui social. Con un post su Facebook, gli ZZ Top hanno scritto un post pieno di tristezza, ma al contempo pieno di affetto per il loro bassista e amico di una vita: “Siamo addolorati dalla notizia della morte del nostro Compadre, Dusty Hill, che è morto nel sonno nella sua casa di Houston in Texas”, annunciano gli altri due membri della band, Billy Gibbons e Frank Beard, dal sito ufficiale del gruppo. “A noi, insieme ai molti fan degli ZZ Top di tutto il mondo, mancherà la tua presenza, il tuo buon animo e l’impegno duraturo nel dare ai TOP quel monumentale contributo al basso. Saremo per sempre legati a quel ‘Blues Shuffle in C”. A scrivere un post di cordoglio per il bassista anche John Fogerty dei Creedence Clearwater Revival ha twittato: “Siamo devastati nel sentire della morte di Dusty. Siamo stati così fortunati a condividere il palco con il grande Dusty e ZZ Top molte volte, e se quello non era il paradiso del rock & roll, non so cosa lo sia. Lo spettacolo che abbiamo fatto insieme la scorsa settimana sarebbe stato il suo ultimo. Così straziante”.
· E’ morto l’attore Jean-Francois Stevenin.
Cinema: morto Jean-Francois Stevenin, attore Nouvelle vague. Recitò con Truffaut e Godard, regista di tre film. La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Luglio 2021. L'attore francese Jean-François Stévenin, che ha iniziato la sua carriera con i grandi della Nouvelle Vague prima di diventare una popolare 'spalla' e poi un regista di culto in soli tre film, è morto all'età di 77 anni in un ospedale a Neuilly; lo ha detto suo figlio Sagamore, anche lui attore, all'Afp. Regista di 'Passe montagne', 'Doubles Messieurs' e 'Mischka', Stévenin ha recitato in film eclettici come 'Pocket money' di François Truffaut, 'Une chambre en ville' di Jacques Demy e 'Le pacte des loups' di Christophe Gans. Nato nel Giura nel 1944, nel 1968 diventa assistente di Alain Cavalier sul set di 'La Chamade'. Negli anni '80 ha girato sotto la direzione di Jean-Luc Godard (Passion), poi anche con Patrice Leconte. Il suo lavoro di regista gli è valso un premio onorario Jean-Vigo nel 2018 che gli è stato assegnato da Agnès Varda. Il suo ultimo film, "Illusioni perdute" di Xavier Giannoli, adattato da Balzac, sarà presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. (ANSA).
· E’ Morto il cantante Gianni Nazzaro.
Morto Gianni Nazzaro, idolo pop dei Settanta. Ranieri vinse Sanremo con la "sua" canzone. Paolo Giordano il 28 Luglio 2021 su Il Giornale. Aveva 72 anni. Si presentò al Festival con "Perdere l'amore" ma fu scartato. Se ne è andato in silenzio, in un pomeriggio al Policlinico Gemelli di Roma dopo essere stato inseguito per anni da un tumore ai polmoni. Gianni Nazzaro aveva 72 anni e una storia lunghissima di gavetta e canzoni come tutti gli artisti che negli anni Sessanta sono partiti da Napoli e poi sono riusciti a farsi conoscere in tutta Italia. Gianni Nazzaro era un cantante di bella voce e di impostazione manierata che ha accompagnato un po' della musica popolare italiana con le sue canzoni romantiche, mai impegnate, sempre positive e soprattutto imperniate sull'estensione vocale. Figlio d'arte (suo papà era Erminio Nazzaro) aveva iniziato a metà anni Sessanta imitando le voci di chi allora era in cima alla classifica, da Bobby Solo a Celentano e Morandi. Poi sale il gradino della popolarità e passa a Un disco per l'Estate, al Cantagiro, al Festival di Napoli che vince con Peppino Di Capri nel 1970. A quel punto è entrato di diritto in quel campionato particolare che la canzone popolare ha giocato in televisione e sui giornali di grande diffusione. Insomma ha partecipato a Canzonissima e tante volte al Festival di Sanremo, senza mai vincere e senza particolari glorie ma esibendo quel talento innato che tanti cantanti napoletani confermano di avere: l'empatia. Anche nel suo brano di maggiore successo, Quanto è bella lei, riusciva ad avere un tono così dolce e colloquiale da conquistare la platea, specialmente quella femminile. Al giro di boa degli anni Ottanta, per Gianni Nazzaro la situazione diventa sempre più complicata. Da una parte l'ascesa irrefrenabile dei cantautori. Dall'altra l'arrivo massiccio di star straniere, tutte di struttura musicale completamente diversa e molto distante dalla sua. Partecipa al Festival di Sanremo nel 1983 con il brano Mi sono innamorato di mia moglie che ottiene un riscontro di vendite così positivo da fargli sperare di poter tornare all'Ariston anche nel 1987. Aveva presentato un brano importante, sulla carta un capolavoro: Perdere l'amore. Ma fu respinto. E quella fu la sliding door di Gianni Nazzaro. L'anno successivo la stessa canzone fu presentata da Massimo Ranieri e non solo fu accettata ma vinse pure. Di più: Perdere l'amore è considerata una delle più belle canzoni popolari del Novecento. Entrambi napoletani, Nazzaro e Ranieri furono considerati «nemici» ma in realtà erano semplicemente legati dalla comune origine. In ogni caso, Nazzaro torna a Sanremo con Squadra Italia nel 1994 e poi si fa vedere nelle soap Incantesimo e Un posto al sole. Poi sparisce dalle scene praticamente fino alla notizia della morte, comunicata da Nada Ovcina, la madre dei suoi due figli con la quale aveva riallacciato i rapporti qualche anno fa. Alla fine, un grande interprete che ha legato in modo indissolubile la sua voce alla fase più popolare della musica italiana. Paolo Giordano
Era malato da tempo. E’ morto Gianni Nazzaro, addio al cantante e attore napoletano: aveva 72 anni. Redazione su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Addio al cantante e attore Gianni Nazzaro, morto nelle scorse ore a Roma. Nato a Napoli, aveva 72 anni ed era ricoverato da settimane al Policlinico Gemelli. Da tempo lottava contro un tumore ai polmoni e negli scorsi anni, nel 2016, è stato vittima di un grave incidente stradale in Francia. A darne notizia attraverso la sua pagina social è l’amica e presentatrice Paola Delli Colli che con il suo ‘Festival Italia in Musica’ era solita ospitare il poliedrico artista napoletano autore di successi che sono rimasti nella storia della musica italiana: da “Quanto è bella lei‘ a ‘Senza luce/Estate senza te’, per citare solo alcuni dei tantissimi brani. Nazzaro lascia la compagna Nadia Ovcina, il padre Erminio e i figli Giorgia, David, Mattia e Gianni Junior. Il suo debutto artistico avviene nel 1965, con lo pseudonimo di Buddy, imitando con successo le voci di Bobby Solo, Adriano Celentano, Gianni Morandi e altri artisti in alcune incisioni per la casa discografica KappaO. Nel 1967 partecipa ai Festival di Napoli e di Pechino con il brano “Sulo ppe mme e ppe te”, non accedendo però alla finale. Vince il Festival di Napoli 1970 con “Me chiamme ammore”, in coppia con Peppino Di Capri. Nel 1971 partecipa a Canzonissima con due brani dal titolo “Far l’amor con te” e “Miracolo d’amore”, mentre l’anno dopo si classifica al primo posto ad Un disco per l’estate 1972 con “Quanto è bella lei” e due anni dopo ad Un disco per l’estate 1974 con “Questo sì che è amore”. Sempre nel 1974 è anche uno dei protagonisti dell’operetta Al Cavallino Bianco, nella versione prodotta dalla RAI. Tra i suoi successi, concentrati soprattutto negli anni settanta: L’amore è una colomba (1970, di Giancarlo Bigazzi e Totò Savio), Bianchi cristalli sereni (1971, di Don Backy), Non voglio innamorarmi mai (1972, musica di Giancarlo Bigazzi; testo di Moreno Signorini), A modo mio (1974, scritta da Claudio Baglioni ed Antonio Coggio), tutte presentate al Festival di Sanremo, ed In fondo all’anima (musica di Emilio Campassi e Antonio Iglio; testo di Armando Ambrosino). Partecipa al Festival di Sanremo 1983 con il brano Mi sono innamorato di mia moglie, (musica di Michele Russo con il testo di Daniele Pace). Nel 1987 tenta nuovamente di partecipare al Festival ma il brano da lui proposto, “Perdere l’amore”, viene scartato alle selezioni. Ironia della sorte, lo stesso brano viene ripresentato l’anno successivo da Massimo Ranieri, e questa volta non solo viene selezionato, ma addirittura vincerà la manifestazione. Nei mesi successivi Nazzaro ricorderà più volte l’episodio manifestando tutta la sua indignazione. In occasione del Festival di Sanremo 1994 fa parte del gruppo Squadra Italia, costituito per l’occasione, cantando il brano Una vecchia canzone italiana. Nel 1998 ha ricoperto il ruolo del padre di Sara De Vito nella soap opera Un posto al sole. Nel 2007 ha anche recitato nella soap Incantesimo. Nel 2009 è nel cast principale di Un posto al sole d’estate. Dal 2010 al 2016 partecipa assiduamente, anche come presentatore, alla trasmissione musicale ‘MilleVoci’ del suo amico Gianni Turco, in onda su un circuito di emittenti regionali, su Sky e canale 68 nazionale oltre che nel web. Dal 16 novembre 2011 è impegnato nello spettacolo musicale Noi che, gli anni migliori di Carlo Conti al Teatro Salone Margherita (Roma). Nel 2014, da settembre, partecipa al programma “Tale e quale show“, condotto da Carlo Conti in prima serata su RaiUno, vincendo una puntata interpretando proprio Perdere l’amore di Massimo Ranieri. Redazione
Morto Gianni Nazzaro, stroncato da un tumore ai polmoni a 72 anni. Ilaria Minucci il 27/07/2021 su Notizie.it. Il cantante Gianni Nazzaro è morto a 72 anni al Policlinico Gemelli di Roma: l’artista era malato da tempo e lottava contro un tumore ai polmoni. Il cantante e attore Gianni Nazzaro è deceduto all’età di 72 anni presso il Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma. L’uomo era gravemente malato e lottava da tempo contro un tumore ai polmoni. Nel tardo pomeriggio di martedì 27 luglio, poco dopo le ore 19:00, è stata diramata la notizia della morte del cantante e attore Gianni Nazzaro. L’uomo è scomparso all’età di 72 anni e, come rivelato all’ANSA da fonti vicine alla famiglia, lottava da tempo contro un tumore ai polmoni. Il progressivo aggravarsi delle condizioni di salute dell’artista hanno reso necessario il ricovero in ospedale. Gianni Nazzaro, infatti, si è spento presso il Policlinico Gemelli di Roma, dove si trovava da alcune settimane. Il drammatico evento, inoltre, è stato comunicato dalla compagna del cantante, Nada Ovcina. La donna, prima di essere la compagna di Nazzaro, aveva svolto il ruolo di sua agente e aveva gestito il suo ufficio stampa. La coppia, inoltre, ha avuto due figli: Giovanni Junior, nato nel 1973, e Giorgia, nata nel 1976.
Morto Gianni Nazzaro, la carriera da cantante. Gianni Nazzaro, nato a Napoli il 27 ottobre 1948 come Giovanni Nazzaro, aveva debuttato nel mondo della musica italiana nel 1965 con lo pseudonimo di Buddy.
In questo periodo, l’artista imitava voci di successo come quelle di Bobby Solo, Gianni Morandi, Adriano Celentano e altri artisti, realizzando incisioni di rilevanza secondaria.
Nel 1967, partecipò al Festival di Napoli con il brano “Sulo ppe mme e ppe te”, non riuscendo tuttavia a qualificarsi per la finale.
Nel 1968, Gianni Nazzaro iniziò a farsi notare a “Un disco con l’estate”, esibendosi con il brano “Solo noi”.
Nel 1969, quindi, il cantante prese parte a “Incontri d’estate” al Cantagiro e vinse il Festival di Napoli nel 1970 con “Me chiamme ammore”.
Nel 1972, poi, tornando a “Un disco per l’estate”, l’artista riuscì a posizionarsi come il primo in classifica con la canzone “Quanto sei bella” – probabilmente il suo brano più famoso e di successo –. La medesima circostanza si verificò, infine, anche nel 1974 con “Questo sì che è amore”.
Tra i successi di Gianni Nazzaro che hanno caratterizzato gli anni ’70 del secolo scorso, possono essere citati “L’amore è una colomba” (1970), “Bianchi cristalli sereni” (1971), “Non voglio innamorarmi mai” (1972), “A modo mio” (1974) e “In fondo all’anima”.
Morto Gianni Nazzaro, la carriera da attore. Con l’avvento degli anni ’80, Gianni Nazzaro era stato annoverato tra i cantanti in gara al Festival di Sanremo 1983 con “Mi sono innamorato di mia moglie”, brano che ottenne un buon riscontro da un punto di vista commerciale. Nel 1994, l’artista torna a Sanremo facendo parte del gruppo Squadra Italia ed esibendosi con il brano “Una vecchia canzone italiana”. Negli anni ’90, inoltre, Gianni Nazzaro ha iniziato a cimentarsi con la carriera di attore, rivestendo il ruolo del padre di Sara De Vito, interpretata da Serena Autieri, nella soap “Un posto al sole”. Dopo aver ricoperto un simile ruolo nel 1998, il cantante è poi tornato a far parte del cast principale della serie dal 2009. Sempre in veste di attore, ha recitato in “Incantesimo” nel 2007 mentre, in qualità di presentatore, ha condotto la trasmissione promozionale canora “Mille Voci” tra il 2010 e il 2016. Nel 2014, ancora, Gianni Nazzaro è stato tra i concorrenti di “Tale e quale show”, il programma condotto da Carlo Conti e trasmesso su Rai 1.
"Prima di morire ha sposato Nada". Novella Toloni il 28 Luglio 2021 su Il Giornale. A poche ore dalla morte del cantante emergono i dettagli sulle sue ultime ore di vita: "Aveva chiesto l'eutanasia". Gianni Nazzaro sapeva che gli erano rimasti pochi giorni di vita. Il tumore ai polmoni che lo ha colpito mesi fa non gli ha lasciato scampo. Così ha scelto di compiere l'ultimo gesto d'amore per la sua compagna, Nada Ovcina, sposandola nel cuore della notte nell'ospedale dove è morto all'età di 72 anni il 27 luglio. Testimone ufficiale delle nozze il settimanale Nuovo, che ha documentato le ultime ore di vita del cantante con l'ultima esclusiva intervista. Il popolare cantautore è spirato il 27 luglio al termine di una lunga malattia. Nell'ospedale romano dove era ricoverato negli ultimi giorni Gianni Nazzaro ha però fatto molto di più che aspettare la morte. Ha scelto di unirsi in matrimonio con la sua storica compagna, Nada - la donna che per anni è stata al suo fianco anche in veste di agente e ufficio stampa - sposandola per la seconda volta. Un gesto romantico e disperato raccontato dalla moglie al settimanale Nuovo: "Lui e io eravamo divorziati e ogni tanto progettavamo di risposarci. Quando le sue condizioni si sono irrimediabilmente aggravate, Gianni mi ha chiesto di diventare sua moglie. Un matrimonio in extremis, celebrato alle tre del mattino in una stanza di ospedale. Ma mi ha regalato un attimo di felicità: l'ultimo, purtroppo, che rende il nostro legame eterno e indistruttibile". Gianni Nazzaro è spirato poche ore dopo la cerimonia privata che si è svolta in ospedale, al Gemelli di Roma. Prima di andarsene, però, ha rilasciato la sua ultima intervista a Nuovo, la sua ultima "prova di coraggio" - così l'ha definita lui stesso - per "uscire di scena nel migliore dei modi". Una chiacchierata lucida e a tratti toccante per il suo epilogo, nella quale il cantautore ha rivelato di aver chiesto l'eutanasia, che gli è stata negata. Alla rivista Gianni Nazzaro ha parlato anche del suo dispiacere più grande, non aver potuto calcare per l'ultima volta il palco di Sanremo, e dell'esser stato dimenticato dal mondo dello spettacolo. "Avrei voluto tornare al festival di Sanremo, ma sono stato messo da parte a favore di artisti spesso privi di talento", ha detto nell'intervista il cantante di Quanto è bella lei. "Non voglio essere rimpianto o, peggio, riscoperto: se avevo doti bisognava riconoscermele da vivo", ha detto il cantante togliendosi l'ultimo sassolino dalla scarpa. Matrimonio sul letto di morte.
Il cantante Gianni Nazzaro, mancato martedì 27 luglio all'età di 72 anni, pochi giorni prima della fine ha organizzato nell'ospedale romano dove era ricoverato il matrimonio con Nada Ovcina. Il Giornale il 28 Luglio 2021. E ha voluto affidare al settimanale NUOVO il suo testamento spirituale in una intervista lucida e toccante che sarà in edicola giovedì 29. Un brutto male ai polmoni non ha lasciato scampo al cantante napoletano che a NUOVO ha parlato anche del suo dolore per essere stato estromesso e dimenticato dal mondo dello spettacolo. Il matrimonio in ospedale è una tappa imprevedibile, romantica e disperata al tempo stesso. «Lui e io eravamo divorziati e ogni tanto progettavamo di risposarci», rivela la Ovcina. «Quando le sue condizioni si sono irrimediabilmente aggravate, Gianni mi ha chiesto di diventare sua moglie. Un matrimonio in extremis, celebrato alle tre del mattino in una stanza di ospedale. Ma mi ha regalato un attimo di felicità: l’ultimo, purtroppo, che rende il nostro legame eterno e indistruttibile». Nell'intervista a NUOVO, parlando con la fatica di chi sente imminente la fine, Gianni Nazzaro rivela di aver chiesto – inutilmente – l'eutanasia. E confida il suo grande rimpianto: «Avrei voluto tornare al Festival di Sanremo, ma sono stato messo da parte a favore di artisti spesso privi di talento». Poi il cantante di “Quanto è bella lei” spiega perché ha voluto rilasciare questa intervista sapendo di avere così poco tempo davanti a sé: «È per me una prova di coraggio. Da artista voglio uscire di scena nel migliore dei modi. Non voglio essere rimpianto o, peggio, riscoperto: se avevo doti bisognava riconoscermele da vivo». L'intervista completa - firmata da Matilde Amorosi - in edicola sul prossimo numero di NUOVO.
Da "leggo.it" il 25 agosto 2021. Gianni Nazzaro è morto lo scorso 27 luglio a 72 anni a causa di un tumore ai polmoni. Il cantante era in gravi difficoltà economiche e, come svelato dalla moglie Nada Ovcina, hanno avuto problemi per l’organizzazione del funerale. Situazione superata grazie gli amici del mondo dello spettacolo di Gianni Nazzaro, che hanno provveduto al pagamento della cerimonia. Gianni Nazzaro, cantante scomparso lo scorso 27 luglio a causa di un tumore, versava in gravi difficoltà economiche tanto che, nel momento della sua morte, è stato molto difficile organizzare il funerale: «Quando Gianni ritornò da me – ha raccontato la moglie Nada Ovcina al settimane “Nuovo”- dopo la sua disastrosa unione con un’altra donna, aveva accumulato milioni di debiti e in seguito ha lavorato pochissimo. Di conseguenza siamo rimasti con i conti in rosso, come è successo a molti altri artisti. Ma in questo disastro oggi ho avuto il conforto di scoprire quante persone volevano bene a mio marito». I ringraziamenti per i contributi vanno a Lino Banfi, Maurizio Costanzo, Pippo Franco, Sandro Giacobbe, Paola Delli Colli e Martufello: «Mi hanno aiutato concretamente a dargli una sepoltura dignitosa (…) Pinuccio Pirazzoli, direttore d’orchestra Rai, ha pagato la sua cremazione e anche gli orchestrali di Gianni, pur non essendo ricchi, mi hanno dimostrato solidarietà».
Gianni Nazzaro, la vedova Nada Ovcina: "Rovinato dalla ex, senza un soldo", ecco com'è morto. Libero Quotidiano il Sponsorizzato da Articlestone. Nada Ovcina è tornata a parlare della scomparsa del marito Gianni Nazzaro. Il cantante, diventato famoso negli anni Settanta, è morto all’età di 72 anni lo scorso luglio a causa di una malattia. L'uomo, però, era in gravi difficoltà economiche e per la moglie non è stato facile organizzare i funerali. A tal proposito Nada, che è stata anche la manager di Nazzaro, in un'intervista al settimanale Nuovo, ha detto: "Quando Gianni ritornò da me, dopo la sua disastrosa unione con un’altra donna, aveva accumulato milioni di debiti e in seguito ha lavorato pochissimo. Di conseguenza siamo rimasti con i conti in rosso, come è successo a molti altri artisti. Ma in questo disastro oggi ho avuto il conforto di scoprire quante persone volevano bene a mio marito”. La moglie del cantante ha fatto anche i nomi e i cognomi dei volti noti che le sono stati accanto dando un contributo materiale: Lino Banfi, Maurizio Costanzo, Pippo Franco, Martufello, Sandro Giacobbe e Paola Delli Colli. "Mi hanno aiutato concretamente a dargli una sepoltura dignitosa - ha dichiarato la donna -. Pinuccio Pirazzoli, direttore d’orchestra Rai, ha pagato la sua cremazione e anche gli orchestrali di Gianni, pur non essendo ricchi, mi hanno dimostrato solidarietà”. Nazzaro è morto a causa di un tumore al polmone, che aveva scoperto nel 2020 e di cui non aveva mai parlato pubblicamente. Nada Ovcina ha rivelato anche quale sia stato l'ultimo rimpianto del marito, quello di essere stato ingiustamente emarginato dal mondo dello spettacolo. “Sono sicura che questo tarlo abbia contribuito alla sua fine, spingendolo a fumare sempre di più per calmare i nervi e distruggendo le sue difese immunitarie”, ha precisato la moglie. La storia tra i due è stata abbastanza travagliata: si sono sposati nel 1971, ma poi il matrimonio è finito nel 1976, quando il cantante ha perso la testa per l’attrice e modella Catherine Frank, con cui si è sposato nel 1978. In seguito, però, Nazzaro ha divorziato dalla seconda moglie ed è tornato tra le braccia della prima, che ha risposato qualche ora prima di morire.
Marinella Venegoni per "la Stampa" il 28 luglio 2021. «Quanto è bella lei/ Tu mamma non lo sai/ Quando guardo lei/ Io vedo gli occhi tuoi», cantava Gianni Nazzaro nel 1972. Hai un bel dire che David Bowie era ora Ziddy Stardust, e i Roxy Music facevano faville, e gli Yes incidevano album destinati a incidere sulle vite di molti amanti del rock progressive. L'Italia che stava attaccata alla tv e ancora ai juke box, le famiglie che seguivano le canzoni del nostro repertorio, le donne e le ragazze della classe media, non avevano occhi che per quel bellone napoletano pieno di riccioli, che portava così bene lo smoking: un napoletano garbato che non si scomponeva mai, nemmeno quando cantava la sua canzone più amata, dove confessava alla mamma non senza furbizia che l'avrebbe lasciata sola per inseguire un sogno d'amore impegnativo. La canzone Quant' è bella lei fu il suo più grande successo, con tutte quelle donne che sognavano di avere quegli stessi occhi della mamma di Gianni. Nazzaro se n'è andato ieri a 72 anni in un ospedale romano, dopo una lunga malattia seguita a un cancro al polmone. Ne ha dato notizia la storica compagna Nada Ovcina che fu anche la sua manager al tempo del successo più sfolgorante. Ebbero due figli, prima che Gianni incontrasse la biondissima indossatrice Catherine Frank e se ne innamorasse e la sposasse, facendo con lei altri due figli. Ma per i walzer imprevedibili della vita, alla fine tornò con Nada. La carriera del crooner napoletano era partita con buona volontà, imitando a metà dei Sessanta gli artisti più famosi dell'epoca, da Celentano a Morandi. Il Disco per l'Estate, popolarissima kermesse televisiva d'estate, gli diede il primo successo nel '68 con Solo noi, e da lì ci fu il Cantagiro, il Festival di Napoli, Canzonissima, e tutti i programmi che facevano lo zoccolo duro delle canzoni cantate dagli italiani che non guardavano fuori le mura. Dal '70 al '94 partecipò a sei Festival di Sanremo, senza mai classificazioni di rilievo; nel '71 con la notevole Bianchi Cristalli Sereni in coppia con l'autore Don Backy; ebbe un bel successo anche, nel 1983, l'ironica Mi sono innamorato di mia moglie, che finì per rivelarsi profetica. Con quella bella faccetta e i riccioloni neri ora lunghi, l'occhio assassino da latin lover, la sua mission fu sempre l'amore, in canzoni dietro le quali si indovinavano grandi tradimenti o almeno retroscena. Si parlò un po' a sproposito, alla fine di quel decennio, di una sua rivalità con l'altro illustre napoletano Massimo Ranieri. Nazzaro aveva proposto senza fortuna Perdere l'amore, respinta a Sanremo: ma la stessa canzone, cantata dal collega, aveva poi vinto il Festival del 1988. Erano comunque tempre e vigori differenti. Gianni Nazzaro porgeva, aveva una sua ironia e un buon garbo e rimaneva nell'ambito del personaggio che si era creato. Se il suo bel profilo gli aveva dato ruoli al cinema al tempo dei musicarelli, si spostò poi sul terreno dell'operetta, fece moltissime serate a suon di cover inseguito da donzelle appassionate di varie età. Si cimentò anche in un paio di soap e alcuni musical, partecipò a Tale e Quale Show e vinse proprio con Perdere l'amore. Ma rimase nell'immaginario femminile colui che spiegava alla mamma che se ne sarebbe andato con una dagli occhi belli come i suoi.
È morto Gianni Nazzaro, una delle voci più amate degli anni 70. Ernesto Assante su La Repubblica il 27 luglio 2021. Cantante e attore, aveva 72 anni. Con i suoi successi, tra cui "Quanto è bella lei", è stato uno dei protagonisti della canzone popolare italiana degli anni Settanta. Quello di Gianni Nazzaro è stato uno dei volti e delle voci più amate della canzone popolare italiana degli anni Settanta, è scomparso a Roma, a causa di un tumore e per la canzone popolare italiana è una grande perdita. Bello, elegante, nato a Napoli nel 1948, Nazzaro era un cantante melodico che aveva saputo bene come attraversare il tumultuoso decennio interpretando l'amore, cantando canzoni scritte da Claudio Baglioni come da Gianfranco Bigazzi. Aveva esordito, diciassettenne, in quella singolare discografia "alternativa" che prosperava a Napoli fatta di dischi a 45 giri cantati da perfetti imitatori dei grandi. Il giovane Nazzaro imitava alla perfezione Adriano Celentano, Gianni Morandi e tanti altri, cantava bene e con passione, ma è come solista, nel 1967 che si fa notare al Festival di Napoli, che gli apre le porte verso la fama e il successo nel resto del Paese. Cantagiro, Settevoci, Canzonissima, il Disco per l'Estate, il Festival di Sanremo, gli show televisivi musicali lo vedono nei primi anni settanta sempre tra i grandi protagonisti, molte volte vince, altrettante porta ai primi posti delle classifiche le sue canzoni (su tutte Quanto è bella lei), interpretate sempre con grande maestria, cercando di tener fede alla sua grande natura melodica ma al tempo stesso di non farsi travolgere completamente dalla rivoluzione dei cantautori. Nazzaro, proprio per la sua avvenenza, approda rapidamente anche al cinema, ma è il teatro, e in particolare il teatro musicale, a dargli belle soddisfazioni, lanciandolo in una carriera d'attore che lo porterà spessissimo anche sul piccolo schermo, in soap come Un posto al sole e Incantesimo. La vita gli ha riservato anche delle sorprese amare e di certo Nazzaro non aveva mai accettato il destino che era stato riservato alla sua interpretazione di Perdere l'amore. La canzone, scritta da Marcello Marrocchi e Giampiero Artegiani, era stata presentata da Nazzaro alla commissione selezionatrice del Festival di Sanremo del 1987 che l'aveva scartata. L'anno seguente la canzone venne proposta nuovamente, questa volta interpretata da Massimo Ranieri, e non solo venne selezionata ma addirittura vinse il Festival. "A me dissero che la canzone non era adatta al festival", ricordò in molte occasioni negli anni seguenti. Era stato anche vittima di un grave incidente stradale nel 2016, dal quale si era ripreso con molte difficoltà.
· Morto Giuseppe De Donno, curò Covid con plasma iperimmune.
"Ha salvato vite. A De Donno la medaglia al valor civile". Francesca Galici il 10 Agosto 2021 su Il Giornale. La Lega si è rivolta a Luciana Lamorgese per avviare l'iter per conferire il riconoscimento postumo a Giuseppe De Donno. A quasi tre settimane dalla morte di Giuseppe De Donno, la Lega ha deciso di intraprendere l'iter, rivolgendosi al ministro Luciana Lamorgese, per conferire "a un grande medico, una persona di straordinaria umanità" la medaglia al valor civile "per aver perseguito in tutta la sua opera professionale il progresso della scienza e più in generale il bene del prossimo". Così si legge nel profilo Facebook di Matteo Salvini, che ha ripreso l'intervento e la richiesta fatta dal viceministro Alessandro Morelli. L'ex primario del reparto di Pneumologia dell'ospedale Carlo Poma di Mantova è stato trovato senza vita nella sua abitazione dopo essersi suicidato. Ignote al momento le cause che hanno portato il medico, stimato e rispettato nel suo campo, a decidere di perseguire il gesto estremo. Non è stato trovato nessun biglietto, nessuna lettera d'addio nemmeno per i parenti che possa per ora spiegare la scelta di togliersi la vita. "È stato il primo medico italiano a sperimentare l'utilizzo del plasma iperimmune per curare i pazienti colpiti dal Covid-19. Una intuizione arrivata durante la prima fase della pandemia, in un momento storico in cui la scienza era letteralmente disarmata di fronte all'avanzata del virus. Chi è stato al fianco dell'ex primario di pneumologia in quei giorni difficili ricorda la dedizione e il coraggio con cui si è speso per dare una opportunità terapeutica ai pazienti", ha detto Alessandro Morelli nella sua nota. La medaglia al valor civile per Giuseppe De Donno è un riconoscimento postumo al duro lavoro svolto in corsia dal professore nei momenti più drammatici della pandemia. Al grande lavoro di ricerca che ha sempre svolto sia prima che dopo l'emergenza. Poco prima di togliersi la vita, Giuseppe De Donno aveva deciso di lasciare la direzione del reparto di pneumologia e di allontanarsi dall'ospedale nel quale aveva trascorso gli ultimi decenni della sua vita per intraprendere la strada del medico di famiglia alle porte di Mantova. Una scelta estrema, non capita da molti. Nel suo post su Facebook, Matteo Salvini ha voluto lasciare anche un suo ricordo personale per il medico scomparso: "Ho avuto la fortuna di conoscerlo, ascoltarlo, apprezzarlo: il ricordo di quanto ha fatto deve rimanere sempre vivo, con la gratitudine di tutti coloro che gli hanno voluto bene". Come spiega Alessandro Morelli nella sua nota, la medaglia al valor civile è "un riconoscimento destinato a chi si è distinto per "salvare persone esposte ad imminente e grave pericolo" e "per il progresso della scienza od in genere per il bene dell'umanità". Ritengo che il compianto professor De Donno abbia incarnato a pieno lo spirito della norma".
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Morto De Donno, curò Covid con plasma iperimmune. Suscitò speranze e polemiche, aveva lasciato ospedale di Mantova. RaiNews il 27/7/2021. 27 luglio 2021. Un fulmine a ciel sereno che ha gettato nel lutto non solo la medicina mantovana ma anche tantissime persone comuni che in lui avevano visto un'ancora di salvezza nella tempesta del Covid. Si sarebbe tolto la vita oggi pomeriggio Giuseppe De Donno, l'ex primario di pneumologia dell'ospedale Carlo Poma di Mantova che per primo l'anno scorso aveva iniziato la cura del Covid con le trasfusioni di plasma iperimmune, la controversa terapia che prevedeva l'infusione di sangue di contagiati dal coronavirus, opportunamente trattato, in altri pazienti infetti. Il suo corpo è stato trovato nella sua casa di Eremo, frazione del Comune di Curtatone, da alcuni familiari. De Donno aveva 54 anni e si era dimesso dall'ospedale di Mantova ai primi giorni di giugno per cominciare, lo scorso 5 luglio, la nuova professione di medico di base a Porto Mantovano. Ancora non sono chiare le circostanze della morte. L'ex primario viveva con la moglie Laura e due figli, Martina, consigliere comunale a Curtatone, e Edoardo. Molti gli attestati di cordoglio da parte di molti cittadini attoniti per la scomparsa, che hanno ricordato De Donno per aver "salvato molte vite" con la sua terapia. De Donno, assieme a Massimo Franchini, primario della Immunoematologia e Trasfusionale del Carlo Poma, aveva iniziato a trattare i pazienti affetti da Covid che arrivano ormai stremati al Poma con la terapia del plasma iperimmune. In breve questa pratica era diventata nella primavera dello scorso anno l'unica arma contro il coronavirus, almeno nelle fasi iniziali della malattia. In poco tempo diventò il primario più conosciuto d'Italia, conteso com'era da giornali e trasmissioni televisive. Non tutti, però, nel campo della medicina ne erano convinti e così su De Donno si scatenarono tante polemiche. Lui, però, tenne duro e riuscì ad ottenere una sperimentazione del suo metodo con l'università di Pavia. Alla fine, però, la medicina ufficiale non ritenne che quello fosse la cura più indicata per il Covid, anche se in molti guarirono legandosi per sempre con eterna gratitudine al primario mantovano. Giuseppe De Donno diventò primario facente funzione delle Pneumologia del Carlo Poma nel settembre del 2018 e poi nel dicembre dello stesso anno vinse il concorso da primario effettivo. De Donno era conosciuto anche al di fuori degli ambienti ospedalieri per essere stato in passato vice sindaco di Curtatone. Diploma al liceo classico, conseguì la laurea in Medicina e Chirurgia all'università di Modena con 110 e lode. Dopo gli studi universitari ha completato la sua formazione attraverso diversi corsi di perfezionamento in fisiopatologia e allergologia respiratoria raggiungendo la specializzazione nel 1996. Dal 2010 al 2013 fu responsabile della struttura semplice "Programma di assistenza domiciliare respiratoria ad alta intensità per pazienti dipendenti della ventilazione meccanica domiciliare" e nel 2013 diventò dirigente medico della struttura complessa di Pneumologia e Utir (unità intensiva respiratoria) dell'Asst Carlo Poma. Sgomento il sindaco di Curtatone, Carlo Bottani, amico intimo del medico, che si fa interprete del sentimento di un'intera comunità sotto shock: "Giuseppe era una persona straordinaria -ha detto tra le lacrime -. Ho avuto il privilegio di essere al suo fianco nella prima fase del lockdown e ho visto quanto si è speso per i suoi pazienti. La storia lo ricorderà per il bene che ha fatto".
Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" il 29 luglio 2021. Il dottor Giuseppe De Donno era appena stato trovato senza vita nella sua abitazione che già i complottisti cronici della Rete, oggi riuniti sotto le bandiere dei No vax, lo eleggevano a martire della causa. Naturalmente l'ipotesi che De Donno si sia ucciso per motivi personali non viene neanche presa in considerazione dai campioni del retropensiero obliquo:
1. De Donno voleva curare i malati di Covid con il sangue dei guariti;
2. gli studi internazionali avevano riconosciuto al suo metodo un'efficacia limitata ai casi meno gravi;
3. lui c'era rimasto male. Per costoro basta unire i puntini e si ottiene il suicidio indotto, quando non addirittura l'assassinio. «Lo hanno ucciso perché non era uno di loro».
Ma «loro» chi? Che domande: Big Pharma, l'aristocrazia scientifica delle multinazionali che intende trasformarci tutti in vaccinati della gleba ed è pronta a sbarazzarsi di chiunque ostacoli i suoi piani. Il bello, si fa per dire, è che molti tra gli autonominati vendicatori di De Donno attribuiscono opinioni e stati d'animo a un uomo di cui non sanno niente. Neanche che si era sempre dichiarato favorevole ai vaccini. In quella che è diventata una guerra di religione (sarebbe ingiusto dimenticare che De Donno fu crocefisso sul web da chi ridicolizzava per partito preso le sue cure), ci siamo abituati a vedere i numeri piegati agli interessi di bottega. Ci venga risparmiato di vedere piegate anche le persone, specie quando non hanno più possibilità di replica.
Stefano Landi per il "Corriere della Sera" il 29 luglio 2021. Sono rimaste le luci accese. Le bici dei ragazzi slegate. Le scarpe buttate lì, come fanno gli adolescenti. Il silenzio assoluto intorno alla villetta alle porte di Mantova dove martedì pomeriggio Giuseppe De Donno, 54 anni, si è impiccato. La famiglia è partita subito. La moglie Laura e i due figli Edoardo, 16 anni, e Martina, 21, che a Curtatone era «assessore alla gentilezza», rifugiati dai nonni. In casa neanche due righe per capire come uno dei primi medici eroi della lotta al Covid, dopo aver salvato centinaia di vite, abbia deciso di fare a meno della sua. Al Carlo Poma di Mantova, dove è stato primario di Pneumologia, il vuoto lasciato dalla sua figura. Eppure molti dei suoi amici più stretti si chiedono se sia un sentimento vero. O se quella sua clamorosa esposizione mediatica non avesse suscitato l'invidia del camice accanto. Di certo in ospedale non ci poteva, oltre che voleva, più stare. Da quando la sua crociata per l'utilizzo del plasma iperimmune per curare i pazienti Covid era passata di moda, con la chiusura dei rubinetti dei finanziamenti alla ricerca. Lo stress monta: si torna a vedere nero scuro. «I mesi in prima linea gli avevano trasmesso adrenalina - racconta il direttore sanitario dell'ospedale Raffaello Stradoni -. L'avevano rimesso sulla barricata, a salvare vite umane. Il ritorno alla normalità l'aveva fatto ripiombare in quell'antica sofferenza. Qualcosa da cui stava provando a curarsi». Ieri le piazze no-vax lo hanno salutato come un eroe incompreso, ma lui, che si era vaccinato, dai social era scappato proprio quando aveva capito che i suoi ultras erano no-vax accaniti. Non il suo mondo. Il 9 giugno De Donno, comunica la decisione di fare un passo indietro. Di uscire da quell'ospedale per tornare alla sua antica passione. Il sogno era quello di tornare a fare il medico del popolo nel suo Salento. Si trasforma intanto in medico di famiglia in zona. La nuova attività sembra dargli gli stimoli giusti, non vedeva nero, ma comunque grigio. E quando vedi davanti un futuro triste e segnato, i pensieri diventano ossessivi. «Sembrava aver trovato un nuovo slancio, ma da domenica lo sguardo era perso. Sperava di poter vivere in pace. Di ritrovare aria. La macchina del fango partiva da gente che aveva intorno», racconta uno dei suoi amici più cari, Roberto Mari, presidente del consiglio comunale di Porto Mantovano. Alti e bassi: un medico di provincia sballottato nei salotti tv. Inseguito come l'uomo che poteva tirar fuori l'Italia dalle sabbie mobili della pandemia. Sedici ore in corsia e le altre in tv. Sedotto e abbandonato tra qualche problema maturato anche in famiglia. Ieri gli interrogatori: la procura di Mantova ha aperto un'inchiesta, sequestrando pc e cellulari del medico per capire se possano esserci responsabilità di terzi. Domani, la camera ardente, a Curtatone, dove De Donno in passato aveva fatto anche politica in una lista civica. «Il suo è un gesto che non può essere figlio solo di un fallimento professionale», dice Ivan Papazzoni, un amico curato da De Donno. «Trovo pesanti gli attacchi in Rete, prima ti mitizzano poi non rispettano nemmeno la morte», attacca Stefano Rossi, candidato a sindaco di Mantova nel 2020, che lo conosceva bene. Perché sui social è il solito ring di congetture. Attaccano la sua vita personale. «Merita il silenzio e il rispetto per il suo grande lavoro: lo conosco da 20 anni, viveva per gli altri», spiega il sindaco di Curtatone Carlo Bottani. Lui voleva solo spingere su una cura alternativa. Gli avevano fatto capire che non c'era futuro. Scavandogli un ulteriore vuoto intorno. E lui era già stanco del resto.
Morto a 54 anni Giuseppe De Donno: avviò la cura anti-covid da plasma iperimmune. La Repubblica il 27 luglio 2021. Il medico si è tolto la vita. Aveva dato le dimissioni dall'ospedale di Mantova per cominciare, lo scorso 5 luglio, la nuova professione di medico di base a Porto Mantovano. Si è tolto la vita oggi pomeriggio Giuseppe De Donno, l'ex primario di pneumologia dell'ospedale Carlo Poma di Mantova che per primo l'anno scorso aveva iniziato le cure del Covid con le trasfusioni di plasma iperimmune, la controversa terapia che prevedeva l'infusione di sangue di contagiati dal coronavirus, opportunamente trattato, in altri pazienti infetti. De Donno aveva 54 anni e si era dimesso dall'ospedale di Mantova ai primi giorni di giugno per cominciare, lo scorso 5 luglio, la nuova professione di medico di base a Porto Mantovano. Ancora non sono chiare le circostanze del suicidio e del ritrovamento del corpo, che sarebbe avvenuto da parte di alcuni parenti. Dalle prime notizie sembra che il medico si sia impiccato. L'ex primario abitava a Curtatone con la moglie e una figlia. Molti gli attestati di cordoglio da parte di molti cittadini attoniti per la scomparsa, che hanno ricordato De Donno per aver "salvato molte vite" con la sua terapia. De Donno, assieme a Massimo Franchini, primario della Immunoematologia e Trasfusionale del Carlo Poma, aveva iniziato a trattare i pazienti affetti da Covid che arrivano ormai stremati al Poma con la terapia del plasma iperimmune. In brave questa pratica era diventata nella primavera dello scorso anno l'unica arma contro il coronavirus, almeno nelle fasi iniziali della malattia. In poco tempo diventò il primario più conosciuto d'Italia, conteso com'era da giornali e trasmissioni televisive. Non tutti, però, nel campo della medicina ne erano convinti e così su De Donno si scatenarono tante polemiche. Lui, però, tenne duro e riuscì ad ottenere una sperimentazione del suo metodo con l'università di Pavia. Alla fine, però, la medicina ufficiale non ritenne che quello fosse la cura più indicata per il Covid, anche se in molti guarirono legandosi per sempre con eterna gratitudine al primario mantovano. Giuseppe De Donno diventò primario facente funzione delle Pneumologia del Carlo Poma nel settembre del 2018 e poi nel dicembre dello stesso anno vinse il concorso da primario effettivo. De Donno era conosciuto anche al di fuori degli ambienti ospedalieri per essere stato in passato vice sindaco di Curtatone. Diploma al liceo classico, conseguì la laurea in Medicina e Chirurgia all'università di Modena con 110 e lode. Dopo gli studi universitari ha completato la sua formazione attraverso diversi corsi di perfezionamento in fisiopatologia e allergologia respiratoria raggiungendo la specializzazione nel 1996. Dal 2010 al 2013 fu responsabile della struttura semplice "Programma di assistenza domiciliare respiratoria ad alta intensità per pazienti dipendenti della ventilazione meccanica domiciliare" e nel 2013 diventò dirigente medico della struttura complessa di Pneumologia e Utir (unità intensiva respiratoria) dell'Asst Carlo Poma. Sgomento il sindaco di Curtatone, Carlo Bottani, amico intimo del medico, che si fa interprete del sentimento di un'intera comunità sotto shock: "Giuseppe era una persona straordinaria - ha detto tra le lacrime -. Ho avuto il privilegio di essere al suo fianco nella prima fase del lockdown e ho visto quanto si è speso per i suoi pazienti. la storia lo ricorderà per il bene che ha fatto".
Morto lo pneumologo magliese De Donno: avviò la cura del plasma iperimmune. Si sarebbe tolto la vita nella sua casa di Eremo, dove viveva con la famiglia. La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Luglio 2021. Sarebbe morto suicida l’ex pneumologo di Maglie Giuseppe De Donno. I familiari lo hanno trovato ieri nella sua casa di Eremo, frazione del Comune di Curtatone, dove viveva con la moglie Laura e due figli, Martina, consigliere comunale a Curtatone, e Edoardo. Il medico, che aveva 54 anni, si sarebbe tolto la vita impiccandosi. Sgomento il sindaco di Curtatone, Carlo Bottani, amico intimo del medico, che si fa interprete del sentimento di un’intera comunità sotto shock: «Giuseppe era una persona straordinaria - ha detto tra le lacrime - . Ho avuto il privilegio di essere al suo fianco nella prima fase del lockdown e ho visto quanto si è speso per i suoi pazienti. la storia lo ricorderà per il bene che ha fatto». La morte del medico ha lasciato tutti sgomenti perché non c'erano stati segnali che potessero far pensare a un gesto estremo: «Con il nuovo lavoro di medico di base - ricorda ancora il sindaco - l’avevamo visto felice della nuova opportunità. Io stesso lo avevo affiancato quando ai primi di giugno aveva annunciato che lasciava l'ospedale per dedicarsi alla medicina di base». La notizia delll’ex primario di pneumologia dell’ospedale di Mantova, che per primo aveva iniziato le cure del Covid con le trasfusioni di plasma iperimmune, ha scatenato il popolo del web. In tanti «accusano» il mondo della scienza di aver lasciato «solo» il medico. Molti non credono che il medico si sia tolto la vita. «Suicida? Siamo sicuri? Questa storia è inquietante e surreale» scrive Filippo. «Questo suicidio in realtà è un omicidio che ha mandanti ed esecutori conosciuti» calca la mano Massimo. «Dietro il presunto suicidio di DeDonno c'è un uomo lasciato solo, un medico che aveva dedicato tutto alla sua cura e le sue ricerche» twitta Alex. A commentare la notizia, dubitando che si tratti di suicidio, anche molti cosiddetti mattonisti, gli utenti che hanno un mattone al fianco del proprio nome e che si riconoscono spesso nelle posizioni dei no-vax.
Si uccide De Donno, padre della cura del plasma iperimmune contro il Covid. Francesca Galici il 27 Luglio 2021 su Il Giornale. Sono ancora sconosciuti i motivi dietro il suicidio di Giuseppe De Donno, il medico mantovano che ha scoperto la cura al plasma per il Covid. Nel pomeriggio di martedì 27 luglio il dottor Giuseppe De Donno, medico salito agli onori della cronaca durante il periodo del coronavirus per aver scoperto e proposto una cura a base di plasma iperimmune per cercare di guarire i pazienti Covid, è stato trovato morto nella sua abitazione. Giuseppe De Donno era l'ex primario del reparto di Pneumologia dell'ospedale Carlo Poma di Mantova. Propose la cura sperimentale a base di plasma iperimmune durante la prima ondata di Covid, frutto di un lavoro corale di sperimentazione condotto con il Policlinico di Pavia. Come riporta la Gazzetta di Mantova, per il momento non sono chiare le dinamiche della vicenda. Gli uomini del colonnello Antonello Minutoli, comandante provinciale dei carabinieri di Mantova, coordinati dalla Procura di Mantova stanno indagando per escludere eventuali responsabilità di terzi. A giugno di quest'anno, De Donno scelse di lasciare non solo il suo posto da primario al Carlo Poma di Mantova ma di lasciare la professione ospedaliera per diventare medico di base. La sua cura al plasma per il Covid non è mai stata ufficialmente riconosciuta, nonostante i risultati della sua sperimentazione sembrava fossero positivi. In più di un'occasione Giuseppe De Donno rivendicò quel lavoro, perché il plasma iperimmune sembrava avesse un ottimo riscontro nel curare la malattia grave, riducendo la pressione sugli ospedali nel periodo della prima ondata del 2020, quando il vaccino era ancora lontano dall'essere preparato. “Non ci volevo credere. Perdiamo una bella persona, un grande medico, che durante il Covid ha lottato come un leone per salvare centinaia di vite, spesso contro tutto e tutti. Buon viaggio Giuseppe, lasci un vuoto grande”, ha dichiarato il leader della Lega Matteo Salvini dopo aver scoperto la notizia. Anche Giorgia Meloni ha commentato la morte di De Donno su Facebook: "Siamo profondamente colpiti e addolorati dalla tragica notizia della scomparsa del dottor Giuseppe De Donno, medico ed ex primario di pneumologia dell'ospedale Carlo Poma di Mantova, in prima linea nella lotta al Covid e promotore della terapia con il plasma iperimmune. Alla sua famiglia, ai suoi cari e ai tanti colleghi che lo hanno conosciuto e apprezzato va il cordoglio e la vicinanza di Fratelli d'Italia". Sui social lo ha ricordato Red Ronnie: "Ricordo l'intervista che gli ho fatto quando è diventato un eroe salvando 58 malati terminali di Covid su 58 utilizzando il plasma dei donatori. Lo hanno attaccato e fatto fuggire dai radar. Il dottor Giuseppe De Donno, dopo aver salvato tante vite, è stato emarginato ed era tornato a fare il medico di base, oggi ha preso una corda e ha deciso di abbandonare questo pianeta, lui che ha salvato tante vite".
Le dimissioni, il plasma abbandonato, il silenzio: cosa c'è dietro il suicidio di De Donno. Francesca Galici il 28 Luglio 2021 su Il Giornale. I carabinieri di Mantova sono all'opera per far luce sul suicidio di Giuseppe De Donno, che non ha lasciato nessuno scritto d'addio. Giuseppe De Donno è stato trovato morto nella sua abitazione di Curtatone, alle porte di Mantova, nel pomeriggio di martedì 27 luglio da alcuni parenti. L'ex primario di Pneumologia dell'ospedale Carlo Poma di Mantova si è tolto la vita a 54 anni ma i motivi non sono ancora stati chiariti. In casa, i carabinieri che coordinano le indagini non hanno trovato nessuna lettera d'addio, nessun biglietto che possa spiegare cosa ci sia stato dietro il gesto estremo del medico amato e apprezzato dalla sua comunità. Il nome di De Donno è salito alle cronache durante i primi mesi dell'epidemia nel 2020, quando propose la cura al plasma iperimmune per i pazienti con gravi forme di Covid. Curtatone e tutto il mantovano sono sotto choc per la notizia, così come i suoi colleghi. Nessuno si aspettava il suicidio di Giuseppe De Donno, che poche settimane fa aveva deciso di abbandonare il suo ruolo, dimettendosi da primario del reparto di Pneumologia del Carlo Poma per diventare medico di base a Porto Mantovano dopo una vita trascorsa in corsia. Aveva speso molte energie da febbraio in poi per trovare una cura contro il Covid, quando Mantova è stata una delle zone maggiormente colpite dall'epidemia tra marzo e aprile del 2020. Investì molto nella cura al plasma iperimmune, che sembrava potesse essere la svolta per alleggerire il carico nelle terapie intensive e guarire i pazienti con le forme più gravi di Covid ma questa strada è stata man mano accantonata anche a fronte di studi e di ricerche internazionali. "Durante la prima ondata del Covid aveva dato il meglio di se stesso ed era davvero apprezzato sia dai colleghi medici che dalle centinaia di pazienti che hanno avuto a che fare con lui", dice oggi il direttore dell'Asst di Mantova nel ricordare De Donno. Probabilmente lo scarso interesse nei confronti della sua terapia al plasma iperimmune e il suo progressivo accantonamento hanno lasciato il segno in Giuseppe De Donno, come conferma anche il direttore: "Aveva investito moltissimo anche nelle ricerche sul plasma, cura che ora è stata abbandonata ma che nonostante tutto aveva dato i suoi frutti. L’abbandono del plasma per altre cure per lui è stato sicuramente un colpo decisamente difficile da gestire". Ora saranno i carabinieri a far luce su quanto è accaduto al dottor De Donno, a chiarire le dinamiche tutt'ora oscure. Intanto gli uomini del colonnello Antonello Minutoli, comandante provinciale dei carabinieri di Mantova, coordinati dalla Procura di Mantova stanno indagando per escludere eventuali responsabilità di terzi.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Suicidio di De Donno, ora scattano le indagini: la procura apre un fascicolo. Luca Sablone il 29 Luglio 2021 su Il Giornale. La procura di Mantova ha aperto un'inchiesta: ora si vuole capire se possano esserci responsabilità di terzi per il gesto estremo. Sulla morte di Giuseppe De Donno restano ancora diversi aspetti da accertare. Incognite che vanno sciolte per poter spiegare con certezza l'estremo gesto compiuto dal dottore, il cui corpo privo di vita è stato trovato dai familiari nella sua abitazione di Curtatone (alle porte di Mantova) nel pomeriggio di martedì scorso. Agli occhi degli inquirenti, secondo quanto trapela da fonti investigative, restano ancora poco chiare le motivazioni che possono aver spinto l'ex primario di Pneumologia dell'ospedale Carlo Poma a un tale atto. Proprio per far luce su tutto questo la procura di Mantova ha aperto formalmente un'inchiesta sul suicidio del medico. Come trapelato nelle ultime ore, l'intenzione dei giudici sarebbe quella di capire se De Donno sia stato o meno indotto: si sta infatti lavorando per sapere se nel suicidio possano esserci responsabilità di terzi. L'ex primario, si legge su l'Ansa, si sarebbe suicidato impiccandosi. Nel frattempo i carabinieri e il magistrato hanno già sentito i familiari, la moglie e i due figli; inoltre sono stati posti sotto sequestro i cellulari e il computer del medico. Ma le circostanze del gesto non sono state ancora chiarite a distanza di poche ore dalla tragedia.
Quelle parole di De Donno. Nella giornata di ieri sono tornate a galla parole forti pronunciate dal dottore a maggio dell'anno scorso: in un'intervista aveva denunciate che, mentre lui era concentrato negli studi e nel salvataggio di vite umane, in ospedale sarebbero arrivati i Nas. Eventi che gli hanno fatto porre più di qualche interrogativo ma che non lo hanno fermato: "Non so né per cercare cosa né chi li ha mandati. Non cerco polemiche, ma le cose non avvengono a caso. Se qualcuno crede di scoraggiarmi, non ci riuscirà. La comunità scientifica dovrà rispondere ai cittadini di questo". Le sue dichiarazioni pesanti sono state rilanciate ieri da Paolo Grimoldi: il deputato della Lega ha postato sul proprio profilo Facebook il titolo dell'intervista e adesso pretende verità alla luce di quanto rivelato dall'ex primario. "Chi nel governo Conte mandò i carabinieri a un medico che salvava vite? Perché? Ci sono di mezzo soldi? Voglio il nome, potrebbe essere responsabile della morte del dottore", è la presa di posizione dell'esponente leghista.
Un trauma non superato?. De Donno non avrebbe lasciato alcun messaggio per spiegare la propria azione. Tuttavia, stando al racconto di alcuni ex colleghi, è emerso che la scarsa fiducia verso le sue ricerche potrebbero aver rappresentato un duro colpo psicologico difficile da digerire. Il medico infatti aveva investito davvero tanto anche nelle ricerche sul plasma, una cura che ora però è stata abbandonata nonostante avesse dato i suoi frutti. Non a caso il direttore dell'Asst di Mantova ha riferito che "l'abbandono del plasma per altre cure per lui è stato sicuramente un colpo decisamente difficile da gestire".
Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport.
De Donno e il perché del no al plasma. Maria Sorbi il 30 Luglio 2021 su Il Giornale. Dalla terapia pochi anticorpi. I No Vax non ne facciano un'icona. La faciloneria con cui i social e le schiere più politicizzate dei free vax trattano le notizie non solo travisa la realtà. Ma non conosce delicatezza. Accade così anche sul caso di Giuseppe De Donno, il medico morto suicida qualche giorno fa all'età di 54 anni. E subito trasformato dalla piazza free vax in un'icona di cui servirsi per protestare contro big pharma e vaccini. «Fu boicottato dal sistema della case farmaceutiche» sostengono i no green pass cristallizzando una fake news ed eleggendola a verità. «Aveva la cura anti Covid e lo hanno azzittito» sostiene qualche facinoroso. Frasi pericolose, che fanno male alla famiglia del medico e che dovrebbero ferire tutti i sostenitori della verità. Perché i fatti sono andati in un altro modo ed è piuttosto gretto associare il suicidio di un uomo alla vicenda della sua ricerca sulla cura anti Covid. Cura che purtroppo non si è rivelata tale. De Donno, assieme al primario Immunoematologia e Trasfusionale dell'ospedale Poma Massimo Franchini, aveva verificato che su alcuni pazienti ricoverati nel suo ospedale la terapia a base di plasma dei guariti si rivelava efficace. E in effetti funzionava. Anzi, nei mesi più grigi del 2020, in piena prima ondata, era l'unica arma che avevamo in mano per sperare di venir fuori dall'incubo. In tanti ci avevano creduto, tuttavia i limiti della terapia si sono presto fatti sentire. Aifa e Iss hanno avviato uno studio (chiamato Tsunami) su 27 centri clinici e 487 pazienti a vari stadi di gravità della malattia. Purtroppo «non è stata osservata una differenza significativa tra il gruppo di pazienti trattato con plasma e il gruppo curato con la terapia standard». Anzi, l'11% dei pazienti intubati e trattati con plasma moriva dopo una settimana dall'iniezione. La terapia del plasma non si è per altro rivelata applicabile su larga scala: mancavano i volontari guariti per donare il sangue (ammetteva lo stesso De Donno) e non sempre il loro sangue conteneva il numero adeguato di anticorpi per essere efficace. Per di più il plasma portava a qualche risultato sono in una ristretta categoria di pazienti, non in tutti. Nonostante tutti questi limiti, le trasfusioni vennero autorizzate nell'agosto dello scorso anno «come terapia emergenziale» poiché non esistevano conseguenze negative. Il boicottaggio e la censura di De Donno sono tutte fake. L'unica verità è che, a differenza dei vaccini, il plasma è una forma di immunizzazione passiva che non fornisce al malato la possibilità di sviluppare autonomamente anticorpi neutralizzanti contro il virus. Solo per questo è stato accantonato. Maria Sorbi
Incubo No Vax per i funerali di De Donno. Lettera dei familiari: "Amatelo in silenzio". Nino Materi il 2 Agosto 2021 su Il Giornale. In tanti ieri alla camera ardente per rendere omaggio al primario: "Non lo strumentalizzate, quanto detto su di lui non lo rappresenta". Massimo rispetto per l'appello firmato da «Tutti i suoi cari», che affermano: «Il silenzio è la miglior cura» (frase che fa da titolo alla lettera pubblicata su Facebook). Ieri una folla composta ha fatto la fila davanti alla camera ardente allestita nella sala consiliare del Comune di Eremo di Curtatone, il paese dove Giuseppe De Donno era nato 54 anni fa e dove, la scorsa settimana, è morto. Oggi invece i funerali religiosi si svolgeranno - speriamo con la medesima compostezza - a Modena nella basilica di Sant'Andrea. «In questo drammatico momento - sottolineano i parenti - il silenzio sarebbe la forma più grande di rispetto e di amore per lui e tutti i suoi cari. Vi ringraziamo per tutto l'amore che viene dimostrato, ma ci sono situazioni private che non possono e non devono essere strumentalizzate». L'appello all'oblio (nonostante la procura di Modena abbia aperto un fascicolo ipotizzando il reato di istigazione al suicidio) è comprensibile da parte dei familiari dell'ex primario di pneumologia dell'ospedale «Carlo Poma» di Mantova. Un medico che credeva fermamente nella bontà della terapia anti-Covid del «plasma iperimmune». Un medico che la settimana scorsa si è tolto la vita. Troppe bugie, troppe offese, si sono riversate come ondate di fango. Prima e dopo la sua morte. Nel mirino sono finiti i no vax (qualsiasi cosa significhi questo termine, che ormai ingloba chiunque si permetta di porre domande - comprese le più legittime - su vaccini e green pass). Precisiamo: i negazionisti che scendono in piazza con slogan aberranti sono ignoranti che si squalificano da soli; e non varrebbe la pena neppure preoccuparsi di confutare le loro tesi, tanto sono assurde e irreali. Discutere invece sull'incongruità delle scelte che da un anno e mezzo condizionano le nostre vite non solo è giusto, ma è anche utile. Questo, a suo tempo, cercò di fare il dottor De Donno, rimanendo umilmente nel rigore del proprio ambito professionale e rifuggendo riflettori che invece tanto piacciono ai virologi-star della tv. Un'attività, quella di De Donno, sempre in ossequio alle scienza e non certo in contrapposizione ad essa. La sua cura («È una vecchia terapia, non l'ho inventata io», ripeteva) - pur avendo superato i test di validazione degli enti sanitaria di controllo - voleva essere un contributo al superamento della fase emergenziale del contagio Covid. Nulla di più. Ma neppure nulla di meno. Invece De Donno, che pur qualche buon risultato aveva ottenuto, fu schernito da quegli stessi personaggi radical-sì vax che ora accusano i loro speculari contrari no vax di voler fare di De Donno la propria icona. E allora dinanzi a tanta malafede si capisce bene come alla famiglia De Donno non sia rimasta altra strada che l'appello al «silenzio»: «Giuseppe De Donno - scrivono nel loro post - era un medico che amava la sua professione fino in fondo e che non ha mai rinnegato la scienza. Un medico stimato ed apprezzato per aver dato tutto se stesso per il bene della comunità. Era una persona gentile, con una parola di conforto al momento giusto in ogni occasione per ognuno di noi». Poi un accenno polemico: «Chi lo conosce realmente sa che nulla di ciò che in questi tristi giorni stiamo leggendo su web, social, quotidiani e striscioni appesi per la città lo rappresentano». Il riferimento è al popolo no-vax. Ma sarebbe giusto, per onore alla verità, estenderlo anche alla fazione opposta: cioè camici bianchi, giornalisti e blogger travestiti da opinionisti che De Donno lo hanno ridicolizzato ingiustamente. Non sapremo mai perché Giuseppe De Donno si è tolto la vita. Non ha lasciato biglietti. Forse per non lasciare rimpianti e rimorsi in chi ha dimostrato di non rispettarlo. L'ennesima prova di bontà di un grande uomo. Nino Materi
Giuseppe De Donno, interrogazione della Lega: "Dava fastidio a qualcuno del governo", nel mirino Roberto Speranza. Libero Quotidiano il 03 agosto 2021. Si cercano ancora le motivazioni alla base del suicidio di Giuseppe De Donno. Il padre del plasma iperimmune per curare il Covid si è tolto la vota nella propria abitazione senza lasciare alcuna spiegazione. E così la Procura di Mantova ha deciso di aprire un'inchiesta per verificare un'eventuale responsabilità di terzi. Di pari passo con gli inquirenti anche la Lega ha voluto fare chiarezza sulla scomparsa dell'ex primario di pneumologia dell'ospedale Carlo Poma di Mantova. Il partito di Matteo Salvini ha presentato un’interrogazione indirizzata al ministro della Salute Roberto Speranza. Il testo, firmato da Paolo Grimoldi, evidenzia che "De Donno era noto per essere stato il pioniere della terapia sperimentale anti-Covid a base della trasfusione di plasma iperimmune; le potenzialità della terapia iperimmune, da tempo oggetto di serio studio in Italia e in diversi Paesi del mondo, si basano sugli effetti benefici che, in alcuni casi, sembrano riscontrarsi per la cura del Covid-19 dall'utilizzo del siero iperimmune e dalla possibilità di estrarre da quest'ultimo anticorpi a fini di prevenzione; inoltre, fin dal periodo iniziale della pandemia, De Donno si era battuto per le terapie domiciliari, poi rivelatesi molto spesso provvidenziali, e anche per questo aveva ingiustamente scontato l'emarginazione e l'isolamento di una parte della comunità medica". E ancora: "Le circostanze del drammatico suicidio del dottor De Donno sono ancora da chiarire, tuttavia l'interrogante non può fare a meno di pensare alla traumatica vicenda che ha coinvolto De Donno nel maggio 2020 quando, proprio a seguito della sperimentazione della terapia sui pazienti affetti da Covid-19, i carabinieri del Nas di Mantova si sono interessati al lavoro dell'allora primario; fu un duro colpo per De Donno, che percepì chiaramente il tentativo, anche politico, di scoraggiare i suoi sforzi; sembra infatti che la decisione di far intervenire i Nas provenisse direttamente da Roma, dove le terapie ‘complementari’ del medico avrebbero infastidito alcuni esponenti dell'allora Governo, attenti, secondo l'interrogante, più ad un approccio ideologico che a quello autenticamente terapeutico nei confronti del contenimento del virus”. Accuse pesantissime, che chiedono una volta per tutte all'esecutivo di "fornire chiarimenti in ordine alle circostanze e alle dinamiche che, nel maggio 2020, hanno causato l'intervento dei Nas nei confronti del dottor De Donno, nella sua veste di direttore del reparto di pneumologia".
Giuseppe De Donno morto suicida: "Come lo hanno trovato in casa". Era il padre della cura al plasma contro il Covid. Libero Quotidiano il 27 luglio 2021. Lo scorso giugno aveva lasciato l’ospedale Carlo Poma dopo tanti anni di onorato servizio per diventare medico di medicina generale. Oggi pomeriggio, martedì 27 luglio, Giuseppe De Donno è stato trovato morto nella sua abitazione di Curtatone: stando alle prime tristissime indiscrezioni, si sarebbe suicidato impiccandosi. Una notizia che ha sconvolto l’intera comunità e non solo, dato che De Donno era diventato conosciuto in tutta Italia per la terapia con il plasma. De Donno era infatti ritenuto il medico simbolo per il plasma iperimmune che aveva aiutato molti pazienti durante i primi mesi del 2020, i più tragici nella lotta al coronavirus. Da mesi giravano voci sulla stanchezza del medico, che dopo 27 anni aveva deciso di optare per un cambiamento epocale per lui, che era entrato all’ospedale Carlo Poma subito dopo la laurea. Nel reparto di Pneumologia era stato in prima linea contro l’epidemia e soprattutto aveva condotto la sperimentazione sull’utilizzo del plasma. “Non ci volevo credere - ha dichiarato Matteo Salvini una volta appresa la brutta notizia - perdiamo una bella persona, un grande medico, che durante il Covid ha lottato come un leone per salvare centinaia di vite, spesso contro tutto e tutti. Buon viaggio Giuseppe, lasci un vuoto grande”.
Giuseppe De Donno, "ricoverato in una clinica": il demone della depressione dietro al suicidio? Lorenzo Mottola Libero Quotidiano il 29 luglio 2021. Sembra che la storia del professor Giuseppe De Donno sia un po' diversa da quella finora scritta sui social dalle fazioni che da tempo si dividono sul suo caso. Da una parte, troviamo virologie giornalisti che hanno sostanzialmente cercato di ridicolizzare lo pneumologo di Mantova. Dall'altra trasmissioni televisive e politici che hanno invece visto in lui una speranza. Fino ad arrivare alle teorie più "estreme", elaborate da chi crede che il primario di Curtatone abbia trovato una cura semplice ed economica al virus ma che sia stato contrastato dalle grandi industrie del farmaco. Ieri i No-vax scesi in piazza a Milano scandivano il suo nome: "È un eroe, è stato ammazzato da chi voleva metterlo a tacere". Un suicidio indotto, in pratica.
IL RICOVERO
In realtà De Donno era malato da tempo. Lo era ben prima di diventare uno dei protagonisti delle polemiche sulla pandemia. Durante l'emergenza Covid si era tuffato nel lavoro e le cose paradossalmente parevano essere migliorate. Negli ultimi mesi, dopo essersi dovuto assentare per alcune settimane, aveva deciso di lasciare l'ospedale. Poco dopo si era ricoverato volontariamente in una clinica, per cercare di superare una fase nera. Con risultati che, evidentemente, non sono stati quelli attesi. La depressione a volte non dà scampo. Dal 5 luglio ha poi iniziato a lavorare come medico di base a Porto Mantovano, con grande successo. «C'era la coda per farsi visitare da lui», dice un amico. D'altra parte, chi l'ha visto all'opera, sostiene che fosse un clinico abilissimo. Ieri la procura di Mantova ha aperto un'inchiesta sul suicidio. De Donno, 54 anni, si è tolto la vita impiccandosi nella propria abitazione, senza lasciare messaggi, né per la moglie né per i due figli. Gli inquirenti vogliono capire se c'è qualcosa o qualcuno che possa aver spinto il dottore a farla finita e stanno interrogando parenti e conoscenti. Il computer e i telefoni sono stati posti sotto sequestro. Al centro dell'inchiesta c'è il lavoro del medico e le polemiche che ne sono derivate. E anche la sua attività su Facebook, dove spesso dialogava con se stesso sulle sue teorie (anche utilizzando profili falsi, fatto sul quale era stato preso di mira da Selvaggia Lucarelli).
LA SPERIMENTAZIONE
De Donno è stato definito il "papà della terapia del plasma iperimmune". Ma anche su questo bisognerebbe rivedere un po' la storia. La decisione di iniziare una sperimentazione di questo genere non è stata dell'ospedale del medico recentemente scomparso, il Poma di Mantova, ma del San Matteo di Pavia. Un tentativo come altri di cercare una cura per il Covid: di fronte all'emergenza gli scienziati hanno giustamente provato qualsiasi cosa. Per chi non lo conoscesse, questo tipo di rimedio prevede di trattare i malati con trasfusioni da parte dei pazienti guariti. Un metodo già utilizzato contro l'ebola e tentato anche in mezzo mondo contro il Covid. Il San Matteo ha provato a seguire questa strada e ha coinvolto nei test anche il Poma. E De Donno ha collaborato con passione, anticipando addirittura l'esito delle ricerche, che inizialmente avevano dato ottimi risultati. Da allora è diventato una celebrità, ha cominciato a rilasciare interviste a raffica per illustrare il suo sistema. Oggi, come sappiamo, la cura con il plasma è stata sostanzialmente accantonata, anche se tanti ancora credono in questo metodo. La polemica continua. E forse De Donno non aveva la forza per affrontarla.
Giuseppe De Donno, la testimonianza del collega: "Stava provando a curarsi. Ma la scorsa domenica..." Libero Quotidiano il 29 luglio 2021. Ci sono ancora dubbi sulla morte di Giuseppe De Donno, il medico padre della cura del plasma iperimmune, trovato impiccato martedì nella sua abitazione alle porte di Mantova. Chi lo conosce, Matteo Salvini compreso, non può che parlare bene. Ma sono in tanti gli amici che rivelano il malessere che lo aveva colpito negli ultimi mesi. Complice, con ogni probabilità, la frenata sull'utilizzo del plasma iperimmune per curare i pazienti Covid dopo la chiusura dei rubinetti dei finanziamenti alla ricerca. "I mesi in prima linea gli avevano trasmesso adrenalina - racconta il direttore sanitario dell'ospedale Raffaello Stradoni al Corriere della Sera -. L'avevano rimesso sulla barricata, a salvare vite umane. Il ritorno alla normalità l'aveva fatto ripiombare in quell'antica sofferenza. Qualcosa da cui stava provando a curarsi". Il 9 giugno De Donno infatti ha comunicato la decisione di lasciare l'ospedale per fare il medico di base. Qui, ha raccontato ancora chi lo conosceva bene come il presidente del consiglio comunale Roberto Mari, "sembrava aver trovato un nuovo slancio, ma da domenica lo sguardo era perso. Sperava di poter vivere in pace. Di ritrovare aria. La macchina del fango partiva da gente che aveva intorno". De Donno a inizio pandemia era sulla bocca di tutti, l'uomo in grado di rivoluzionare la lotta contro il virus. Qualcosa però ancora non torna, tanto che la procura di Mantova ha deciso di aprire un'inchiesta, sequestrando pc e cellulari del medico per capire se possano esserci responsabilità di terzi. "Il suo è un gesto che non può essere figlio solo di un fallimento professionale - ha commentato Ivan Papazzoni, un amico curato da De Donno. E infatti c'è parla di un piccolo malessere anche in famiglia. Nel frattempo però non sono mancate le teorie complottiste degli sciacalli piovute sui social.
Da liberoquotidiano.it il 30 luglio 2021. Choc e polemiche dopo la notizia della morte di Giuseppe De Donno, l'ex primario di pneumologia dell'ospedale di Mantova morto suicida, impiccandosi nella sua casa. De Donno fu uno dei principali fautori della cura con plasma iperimmune per il coronavirus, cura che fu poi fermata: un duro colpo che il medico non avrebbe mai superato. La notizia del suo suicidio, come detto, ha scatenato un vespaio di polemiche, soprattutto sui social. Molti hanno puntato il dito contro il mondo della scienza, che avrebbe "lasciato solo" il medico mantovano, ostracizzato a causa della sua terapia contro il Covid, considerata un poco controversa, una terapia che prevedeva l'infusione di sangue di contagiati, dopo un trattamento, in altri pazienti infetti. E tra chi punta il dito, ecco Red Ronnie, che alla notizia della scomparsa del primario si è prodotto in un durissimo sfogo: "Lo hanno lasciato solo, lo hanno ucciso. De Donno è una vittima di quelli che hanno deciso questo scempio a cui stiamo assistendo, dovrebbe essere fatto santo". E ancora, lo storico conduttore di Roxy Bar, rimarca come De Donno era "una persona semplice, un medico che aveva capito che non bisognava intubare i malati e bruciargli i polmoni, ma bastava il plasma. Eppure non è possibile salvare le vite con metodi che non sono prescritti. Una sacca di plasma costava 80 euro (...). Avrebbe aiutato i malati a reagire, a vincere", ha concluso. Ma non è tutto. Red Ronnie, dopo lo sconforto, aggiunge: "Sono triste, arrabbiato. Questo mi fa diventare determinato. È ora di dire basta. Giuseppe De Donno se n'è andato. Lo volevo chiamare, non pensavo che sarebbe andata così. Con questo gesto De Donno ha motivato ancora di più noi che crediamo nell'umanità e non sul profitto, sul guadagnare su un farmaco", ha concluso Red Ronnie. Parole pesantissime.
"A un certo punto non serviva più". Suicidio De Donno, la "sentenza" della Lucarelli: perché si è suicidato. Ne è così sicura? Libero Quotidiano il 29 luglio 2021. Del suicidio di Giuseppe De Donnno, sul Fatto Quotidiano di oggi, giovedì 29 luglio, ne scrive Selvaggia Lucarelli. La stessa Selvaggia Lucarelli che nei giorni seguenti al dibattito sulla terapia con plasma iperimmune dedicò al professore mantovano un tweet di rara ferocia, che recitava: "Vi ricordate il messia Giuseppe De Donno? Quel medico che salvava tutti con il plasma che chiamava proiettile magico, mentre Salvini e Le Iene insinuavano che siccome era una cura gratuità chissà, cielanakondono (scritto così nel cinguettio, ndr)? Beh, lasciato l'ospedale, ora è medico di base a Porto Mantovano". Un cinguettio che, per ovvie ragioni, ieri, nel giorno del suicidio di De Donno, era tornato a rimbalzare un po' ovunque. Dunque, sul Fatto, Selvaggia scrive: "E la sua morte racconta molto di questo tempo storto, malato, incattivito. Perché il medico dei miracoli, l'uomo che con la plasmaterapia avrebbe guarito i malati, sconfitto il Covid, esportato la sua cura in tutto il mondo in una sorta di evangelizzazione terapeutica, aveva dovuto fare i conti con la dura realtà: la plasmaterapia non funzionava", sentenzia in premessa la sacerdotessa del giusto. "A questo punto, riavvolgere il nastro del caso De Donno sarebbe fin troppo facile, se non fosse vero che i suicidi sono materia imperscrutabile. Impossibile però non ricordare con quanta superficialità, nel periodo più duro della pandemia, si siano attribuiti a Giuseppe De Donno talenti e capacità sovrumane. La politica lo vendeva come l'uomo che aveva scoperto la cura economica e miracolosa, la stampa lo intervistava come il nuovo salvatore, le pagine Fb in suo sostegno fiorivano numerose", rimarca.
"Questo vortice di colpevole superficialità ha travolto una personalità complessa, in cui evidenti manie di grandezza facevano i conti - ora lo sappiamo - con fragilità ben nascoste. Fragilità esplose, probabilmente, quando tutto il circo mediatico e politico che l'aveva illuso e corteggiato, ha capito che la grande speranza del plasma miracoloso era tramontata. A un certo punto De Donno non serviva più. Non poteva più supportare la narrazione del medico di campagna che combatte contro i poteri forti. Contro il governo. Che sfida Burioni e chiunque osi mettere in dubbio l'efficacia delle sue cure", conclude la Lucarelli. Insomma, e non ne avevamo dubbi, la sacerdotessa del giusto sa qual è la Verità, assoluta e inconfutabile. De Donno si sarebbe suicidato poiché "abbandonato" da chi lo aveva sostenuto. E la possibilità che il suicidio sia dovuto al fatto che le sue terapie siano di fatto state ostacolate, nemmeno viene presa in considerazione.
Fu tra i primi a lavorare a una terapia anti Covid. Giuseppe De Donno trovato morto: era il medico pioniere del plasma iperimmune. Elena Del Mastro su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Lo hanno trovato senza vita nella sua casa di Curtatone, alle porte di Mantova. Giuseppe De Donno si è tolto la vita lasciando tutta la comunità di medici e amici sotto choc. Nessuno si sarebbe mai potuto aspettare quel gesto estremo arrivato nel pomeriggio di martedì 27 luglio. Secondo le prime ricostruzioni il medico si sarebbe impiccato e non avrebbe lasciato messaggi nella casa dove viveva con la moglie Laura e due figli, Martina, consigliere comunale a Curtatone, e Edoardo, ma le cause di quel suicidio sarebbero da ricercare in problemi di natura personale e forse lavorativa. Da alcune settimane De Donno era medico di base a Porto Mantovano. Per anni è stato primario della Pneumologia dell’ospedale di Mantova. Aveva rassegnato le dimissioni da quel prestigioso incarico preferendo dedicarsi alle famiglie del piccolo comune mantovano. “Siamo sinceramente allibiti — afferma il direttore dell’Asst di Mantova intervistato dal Corriere della Sera – Ho avuto modo di conoscere di persona e confrontarmi più di una volta con De Donno e devo dire che era una persona davvero squisita: onesto fino in fondo, si è sempre speso per la verità e per gli altri. Durante la prima ondata del Covid aveva dato il meglio di se stesso ed era davvero apprezzato sia dai colleghi medici che dalle centinaia di pazienti che hanno avuto a che fare con lui. Aveva investito moltissimo anche nelle ricerche sul plasma, cura che ora è stata abbandonata ma che nonostante tutto aveva dato i suoi frutti. L’abbandono del plasma per altre cure per lui è stato sicuramente un colpo decisamente difficile da gestire”. Sgomento il sindaco di Curtatone, Carlo Bottani, amico intimo del medico, che si fa interprete del sentimento di un’intera comunità sotto shock: “Giuseppe era una persona straordinaria – ha detto tra le lacrime all’Ansa – . Ho avuto il privilegio di essere al suo fianco nella prima fase del lockdown e ho visto quanto si è speso per i suoi pazienti. La storia lo ricorderà per il bene che ha fatto”. La morte del medico ha lasciato tutti sgomenti perchè non c’erano stati segnali che potessero far pensare a un gesto estremo: “Con l nuovo lavoro di medico di base – ricorda ancora il sindaco – l’avevamo visto felice della nuova opportunità. Io stesso lo avevo affiancato quando ai primi di giugno aveva annunciato che lasciava l’ospedale per dedicarsi alla medicina di base”.
Chi era Giuseppe De Donno. De Donno era balzato alle cronache durante la prima fase del Lockdown a cui la prima ondata di contagi da Covid costrinse l’Italia intera. Con i colleghi dell’ospedale Carlo Poma di Mantova aveva investito energie e risorse nella cura del Covid per mezzo del plasma iperimmune. Quando ancora poco o nulla si sapeva del virus, per primo aveva iniziato la cura del Covid con le trasfusioni di plasma iperimmune, la controversa terapia che prevedeva l’infusione di sangue di contagiati dal coronavirus, opportunamente trattato, in altri pazienti infetti. Cura che però nel corso del tempo è stata abbandonata, anche a fronte di ricerche e studi internazionali sull’argomento.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Morto De Donno, i social gli rendono omaggio tra tristezza e rabbia. La Gazzetta di Mantova il 27/7/2021. Decine di migliaia di post e commenti, un abbraccio virtuale collettivo. “No doc, non dovevi farlo”, “Se n’è andata una persona speciale”
MANTOVA. “No doc, questo non dovevi farlo”, “Un dolore immenso”, “Se n’è andato un uomo che ha salvato tante vite”. La notizia della morte di Giuseppe De Donno ha generato un’ondata di commozione sui social network. Decine di migliaia i post e i commenti scritti da tutta Italia per il medico diventato celebre per la terapia al plasma.
Stasera (27 luglio), soprattutto su Facebook, una quantità enorme di persone ha partecipato al lutto. Ex pazienti, amici, conoscenti, simpatizzanti del medico di provincia diventato simbolo della lotta al Covid-19. Gente comune, un fiume di condoglianze alla famiglia, centinaia di foto postate in ricordo di De Donno.
Le lacrime virtuali, in alcuni casi, si sono mischiate alla rabbia.
Il suicidio dell’ex primario di Pneumologia del Poma, infatti, è stato interpretato da molti come l’atto conclusivo di una fase difficile della vita di De Donno, coincisa con la ribalta nazionale prima e, stando ai commenti dei suoi supporter, con il successivo isolamento professionale e personale a causa dell’impegno per promuovere l’uso del plasma iperimmune.
«Credo sia stato un medico incompreso e messo all’angolo – scrive una lettrice della Gazzetta su Fb – Nonostante le sue qualità e le sue intuizioni era finito a fare il medico condotto. Vergogna a chi non ha compreso la sua umanità, la sua lungimiranza e la sua professionalità. Ai suoi cari un abbraccio che possa confortare il grande dolore».
«Mi hai curato fino all’ultimo – scrive un suo ex paziente – Mi mancherai perché eri un grande uomo ma soprattutto una grande persona».
Come spesso capita in casi simili, quando si apprende della scomparsa di un personaggio popolare, non sono mancate reazioni scomposte che sono sfociate nel complottismo: decine i post di utenti che per sfuggire da una realtà terribile hanno elaborato teorie sulla morte dell’ex primario. «Era un personaggio scomodo, io non credo che si sia tolto la vita uno come lui, è impossibile» dice un utente Twitter.
Qualcuno ha addirittura condiviso un’immagine in cui a caratteri cubitali si chiede “Verità per De Donno”. Quella verità che però, purtroppo, è stata chiara sin da subito quando il corpo di De Donno è stato trovato senza vita.
Morto il medico di origini salentine De Donno: avviò la cura del plasma iperimmune. Si sarebbe tolto la vita nella sua casa di Eremo, dove viveva con la famiglia. La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Luglio 2021. Sarebbe morto suicida l’ex pneumologo di origini salentine Giuseppe De Donno. I familiari lo hanno trovato ieri nella sua casa di Eremo, frazione del Comune di Curtatone, dove viveva con la moglie Laura e due figli, Martina, consigliere comunale a Curtatone, e Edoardo. Il medico, che aveva 54 anni, si sarebbe tolto la vita impiccandosi. Sgomento il sindaco di Curtatone, Carlo Bottani, suo amico intimo, che si fa interprete del sentimento di un’intera comunità sotto shock: «Giuseppe era una persona straordinaria - ha detto tra le lacrime - . Ho avuto il privilegio di essere al suo fianco nella prima fase del lockdown e ho visto quanto si è speso per i suoi pazienti. la storia lo ricorderà per il bene che ha fatto». La morte del medico ha lasciato tutti sgomenti perché non c'erano stati segnali che potessero far pensare a un gesto estremo: «Con il nuovo lavoro di medico di base - ricorda ancora il sindaco - l’avevamo visto felice della nuova opportunità. Io stesso lo avevo affiancato quando ai primi di giugno aveva annunciato che lasciava l'ospedale per dedicarsi alla medicina di base». La notizia della morte dell'ex primario di pneumologia dell’ospedale di Mantova, che per primo aveva iniziato la cura del Covid con le trasfusioni di plasma iperimmune, ha scatenato il popolo del web. In tanti «accusano» il mondo della scienza di aver lasciato «solo» il medico. Molti non credono che il medico si sia tolto la vita. «Suicida? Siamo sicuri? Questa storia è inquietante e surreale» scrive Filippo. «Questo suicidio in realtà è un omicidio che ha mandanti ed esecutori conosciuti» calca la mano Massimo. «Dietro il presunto suicidio di DeDonno c'è un uomo lasciato solo, un medico che aveva dedicato tutto alla sua cura e le sue ricerche» twitta Alex. A commentare la notizia, dubitando che si tratti di suicidio, anche molti cosiddetti mattonisti, gli utenti che hanno un mattone al fianco del proprio nome e che si riconoscono spesso nelle posizioni dei no-vax.
Quegli ultimi due mesi di silenzio: cosa è successo a De Donno. Giuseppe Spatola il 28 Luglio 2021 su Il Giornale. L'ex primario inventore del plasma iper-immune da tempo lottava con i suoi "mostri". Aperta un'inchiesta. Il professor Giuseppe De Donno, 54 anni ex primario di pneumologia dell'ospedale Poma di Mantova, già a fine maggio aveva deciso di prendersi "mesi sabbatici" lontano dalla sua corsia. Da settimane, quindi, era "assente per malattia", un modo per "ritrovarsi" e cercare di far luce tra le ombre che lo accompagnavano da tempo.
L'uomo fragile e il medico intransigente. Ottimo medico, capace di salvare vite con il suo plasma iper-immune, ma uomo fragile che alla fine si è piegato al buio. Un'anima combattuta e perennemente in bilico, come traspare dai post affidati ai social. Sì, perché il professore si rifugiava nei suoi angoli per commentare la vita reale evidentemente diventata "troppo pesante". Pensieri amari. Come quelli che a fine 2020 hanno riempito la sua bacheca. "Ma mai come in questi giorni, a Roma, ho capito come è strana la vita - ha scritto de Donno accompagnando una foto scattata alla scrivania con alle spalle la sua gigantografia in mascherina -. Ti prende, ti lascia, ti riprende. Come il mare. Come il sole. Come il cuore. Il silenzio. Il rumore. Il dolore".
I pensieri sulla vita e i dubbi. "La vita è fatta così - ha messo nero su bianco il professore in uno dei suoi lunghi pensieri social -. Ti rapisce per poi ferirti. Ti rialzi e vai avanti. Non ti volterai mai indietro. Assordante, lunghissimo, silenzio. Dopo tanto rumore. Si. Era solo rumore. La vita. Che strana che è. Ci vuole tantissima forza. Tantissimo coraggio. Tantissima serenità.
La vita. Un cammino". Il rifugio della normalità. La fragilità dell'uomo non è mai arrivata in corsia, dove De Donno è sempre stato in prima linea, arrivando anche a dormire nel suo ufficio durante le lunghe notti della prima ondata Covid. Per lui esistevano i pazienti e la rincorsa a una cura, anche palliativa, che potesse salvare la vita agli altri. "Peccato che non abbiamo potuto salvare la sua", hanno commentato i colleghi increduli e sgomenti alla notizia del gesto estremo. E Giuseppe, detto dagli amici e colleghi "U Pippi", alla fine aveva scelto di allontanarsi dalle responsabilità, dal ruolo divenuto pesante da affrontare nel quotidiano. Da qui la scelta di non rientrare dai mesi presi per malattia e ad inizio luglio dedicarsi alla medicina di base nel suo paese, Curtatone (Mantova).
L'addio all'ospedale e la nuova vita. "Ci siamo incontrati e parlato del suo futuro - ha chiarito Raffaello Stradoni, dg dell'Asst di Mantova -. Da medico di base sarebbe stata una risorsa preziosa, come del resto lo era in corsia. Forse l'unico rammarico è proprio quello di non averlo saputo salvare così come lui aveva fatto con decine di suoi pazienti".
Aperta un'inchiesta. La procura di Mantova ha aperto un'inchiesta. Gli inquirenti, che hanno già sentito i familiari e sequestrato cellulari e computer del medico, vogliono accertare eventuali responsabilità di terzi. Giuseppe Spatola
"Siamo distrutti...". I colleghi piangono De Donno. Giuseppe Spatola il 28 Luglio 2021 su Il Giornale. Incredulità, dolore e sgomento: chi lo conosceva ricorda il medico per la sua dedizione al lavoro e la sua profonda umanità. I colleghi di de Donno lo ricordano in una lettera. Incredulità, dolore e sgomento: sono questi i sentimenti che oggi hanno spinto la direzione di ASST Mantova stretta attorno alla famiglia di Giuseppe De Donno, trovato morto nella sua abitazione.
Il dolore dei colleghi. "La scomparsa del medico ha lasciato un vuoto incolmabile fra i colleghi che esprimono il loro dolore e la loro stima per un professionista eccellente e di grande umanità - hanno spiegato in direzione sanitaria dell'ospedale Poma di Mantova, dove De Donno aveva avviato gli studi e la sperimentazione sul sangue iper-imune durante la prima ondata della panemia -. De Donno era direttore della struttura complessa di Pneumologia dal novembre 2018, incarico che ha ricoperto fino a poche settimane fa, quando ha deciso di diventare medico di base per contribuire con le sue competenze allo sviluppo della medicina territoriale". "Un percorso di cambiamento maturato dopo il periodo più intenso e drammatico della pandemia, che ha visto De Donno dedicarsi con passione e abnegazione alla cura dei pazienti colpiti dal Covid - hanno proseguito in ospedale -. I colleghi hanno avuto modo di apprezzare il suo impegno, il suo desiderio di giustizia, il suo approccio profondamente umano e gli sono stati vicini, supportandolo anche nella scelta di lasciare la medicina ospedaliera".
Specialista di fama internazionale. De Donno era approdato all’ospedale di Mantova nel 1998, dove fra il 2009 e il 2017 era stato direttore della struttura semplice Assistenza Domiciliare Respiratoria, incarico ricoperto fino al 2018, quando era passato alla direzione della Pneumologia. Precedentemente era stato titolare del Servizio di Continuità Assistenziale all’Asl di Mantova e prima ancora di una borsa di studio nella struttura complessa Malattie dell’Apparato Respiratorio del Policlinico Universitario di Modena. Aveva una specializzazione in Medicina dell’Apparato Respiratorio, indirizzo Fisiopatologia Respiratoria. Era autore di numerose pubblicazioni.
Le dimissioni, il plasma abbandonato, il silenzio: cosa c'è dietro il suicidio di De Donno
Il dolore e la rabbia dei colleghi di reparto. "Siamo increduli - hanno scritto in una lettera aperta i colleghi dell’ASST di Mantova in attività e in pensione -. Lo vogliamo ricordare per la sua completa abnegazione sia da medico prima che da primario poi, con un’attenzione quasi spasmodica alle necessità e al benessere dei pazienti non solo dal punto di vista clinico, ma soprattutto umano. Li faceva sentire in qualche modo parte di una famiglia allargata…quello che era per lui la Pneumologia". Secondo quanto ripercorso in ospedale De Donno nel suo percorso professionale ha sempre dato molta importanza al rapporto diretto con il paziente e i caregivers, come testimoniano le sue partecipazioni alle attività del territorio e la sua attività come responsabile del servizio di assistenza respiratoria domiciliare per più di dieci anni. "Questa attenzione - hanno confermato i colleghi - lo ha portato nei mesi scorsi a prendere la decisione di abbandonare l’ospedale, a cui teneva e a cui aveva dato gran parte della sua vita professionale arrivando a occupare la posizione di vertice, per tornare a fare “il medico” in ambulatorio, senza preoccupazioni che non fossero il benessere e la salute dei suoi assistiti. Noi che lo conoscevamo da molti anni, non solo professionalmente, ma anche come amici al di fuori del lavoro, siamo distrutti dalla sua perdita e siamo vicini ai suoi cari, in particolare a Edoardo, Martina e Laura che sentiranno l’enorme vuoto lasciato più di quanto possa essere solo immaginato da noi".
Uomo solare e professionista serio. "Lo vogliamo ricordare con il suo sorriso, le sue battute, il suo entusiasmo nello studio dei casi e nel trovare le risposte a tanti dubbi, anche la sua profonda delusione quando qualche paziente nonostante tutto non ce la faceva, esperienza vissuta spesso come un insuccesso personale - hanno rimarcato i medici del Poma con cui De Donno ha lavorato -. Giuseppe era così, a momenti solare e in altri ombroso, perché disilluso da qualcosa o indispettito o arrabbiato per non essere riuscito a fare quello che sperava per i pazienti. Per fortuna erano più i successi che gli insuccessi e questo era in gran parte merito della sua caparbietà, che ha dimostrato bene nel periodo così drammatico della pandemia, ma che in parte lo ha profondamente logorato e stancato, come è accaduto a molti di noi e forse a lui più che a tutti. Speriamo che ora possa trovare quella pace e quella serenità che gli è mancata qui". Giuseppe Spatola
I carabinieri da De Donno durante il governo Conte, Lega all'attacco. Luca Sablone il 28 Luglio 2021 su Il Giornale. Il dottore aveva dichiarato: "Io salvo le vite e mi arrivano i Nas in ospedale". Ora la Lega vuole chiarezza: "Fuori il nome, potrebbe essere responsabile della morte". La scomparsa di Giuseppe De Donno ha lasciato tutti sconvolti. L'ex primario di Pneumologia dell'ospedale Carlo Poma di Mantova si è tolto la vita a 54 anni per motivi che devono essere ancora chiariti: il corpo è stato trovato privo di vita da alcuni parenti nella sua abitazione di Curtatone, alle porte di Mantova, nel pomeriggio di martedì 27 luglio. Può essere considerato il padre della cura del plasma iperimmune contro il Coronavirus: propose la cura sperimentale durante la prima ondata di Covid-19 in seguito a un duro lavoro condotto con il Policlinico di Pavia. Gli ex colleghi sono sotto choc: nessuno si aspettava un gesto simile da parte di De Donno, che di recente aveva deciso di dimettersi dal proprio ruolo per diventare medico di base a Porto Mantovano. Il dottore aveva investito davvero tanto anche nelle ricerche sul plasma, una cura che ora però è stata abbandonata nonostante avesse dato i suoi frutti. "L'abbandono del plasma per altre cure per lui è stato sicuramente un colpo decisamente difficile da gestire", ha riferito il direttore dell'Asst di Mantova. A distanza di poche ore dal dramma tornano in mente le parole forti che De Donno rilasciò a maggio 2020. In un'intervista a La Verità, l'ex primario disse che in ospedale addirittura arrivarono i Nas: "Non so né per cercare cosa né chi li ha mandati. Non cerco polemiche, ma le cose non avvengono a caso. Qualcuno, alla fine, dovrà spiegare ai familiari degli ammalati e al Paese cosa sta succedendo". L'esperto ritenne "gravissimo" proibire l'uso del plasma: "La comunità scientifica dovrà rispondere ai cittadini di questo". E poi sui social difese a spada tratta il suo operato: "Se qualcuno crede di scoraggiarmi, non ci riuscirà". Dichiarazioni riprese da Paolo Grimoldi, deputato della Lega, che sul proprio profilo Facebook ha rilanciato l'articolo dell'intervista. L'esponente del Carroccio ora pretende chiarezza e vuole i dettagli di quanto avvenuto in passato, alla luce di ciò che De Donno rivelò: "Chi nel governo Conte mandò i carabinieri a un medico che salvava vite? Perché? Ci sono di mezzo soldi? Voglio il nome, potrebbe essere responsabile della morte del dottore". Parole di grande affetto e riconoscimento professionale sono state usate dagli ex colleghi dell'Asst di Mantova. Di De Donno vengono sottolineati con orgoglio il "desiderio di giustizia" e la "grande umanità" che lo hanno contraddistinto nella sua carriera lavorativa. La direzione e tutti i professionisti si sono stretti attorno alla famiglia per la tragedia avvenuta. "La scomparsa del medico ha lasciato un vuoto incolmabile fra i colleghi che esprimono il loro dolore e la loro stima per un professionista eccellente e di grande umanità", si legge in una nota.
Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabatterie e… PC.
Le dimissioni, il plasma abbandonato, il silenzio: cosa c'è dietro il suicidio di De Donno. Francesca Galici il 28 Luglio 2021 su Il Giornale. I carabinieri di Mantova sono all'opera per far luce sul suicidio di Giuseppe De Donno, che non ha lasciato nessuno scritto d'addio. Giuseppe De Donno è stato trovato morto nella sua abitazione di Curtatone, alle porte di Mantova, nel pomeriggio di martedì 27 luglio da alcuni parenti. L'ex primario di Pneumologia dell'ospedale Carlo Poma di Mantova si è tolto la vita a 54 anni ma i motivi non sono ancora stati chiariti. In casa, i carabinieri che coordinano le indagini non hanno trovato nessuna lettera d'addio, nessun biglietto che possa spiegare cosa ci sia stato dietro il gesto estremo del medico amato e apprezzato dalla sua comunità. Il nome di De Donno è salito alle cronache durante i primi mesi dell'epidemia nel 2020, quando propose la cura al plasma iperimmune per i pazienti con gravi forme di Covid. Curtatone e tutto il mantovano sono sotto choc per la notizia, così come i suoi colleghi. Nessuno si aspettava il suicidio di Giuseppe De Donno, che poche settimane fa aveva deciso di abbandonare il suo ruolo, dimettendosi da primario del reparto di Pneumologia del Carlo Poma per diventare medico di base a Porto Mantovano dopo una vita trascorsa in corsia. Aveva speso molte energie da febbraio in poi per trovare una cura contro il Covid, quando Mantova è stata una delle zone maggiormente colpite dall'epidemia tra marzo e aprile del 2020. Investì molto nella cura al plasma iperimmune, che sembrava potesse essere la svolta per alleggerire il carico nelle terapie intensive e guarire i pazienti con le forme più gravi di Covid ma questa strada è stata man mano accantonata anche a fronte di studi e di ricerche internazionali. "Durante la prima ondata del Covid aveva dato il meglio di se stesso ed era davvero apprezzato sia dai colleghi medici che dalle centinaia di pazienti che hanno avuto a che fare con lui", dice oggi il direttore dell'Asst di Mantova nel ricordare De Donno. Probabilmente lo scarso interesse nei confronti della sua terapia al plasma iperimmune e il suo progressivo accantonamento hanno lasciato il segno in Giuseppe De Donno, come conferma anche il direttore: "Aveva investito moltissimo anche nelle ricerche sul plasma, cura che ora è stata abbandonata ma che nonostante tutto aveva dato i suoi frutti. L’abbandono del plasma per altre cure per lui è stato sicuramente un colpo decisamente difficile da gestire". Ora saranno i carabinieri a far luce su quanto è accaduto al dottor De Donno, a chiarire le dinamiche tutt'ora oscure. Intanto gli uomini del colonnello Antonello Minutoli, comandante provinciale dei carabinieri di Mantova, coordinati dalla Procura di Mantova stanno indagando per escludere eventuali responsabilità di terzi.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Cos’è successo alla cura del plasma iperimmune. Francesco Boezi su Inside Over il 28 luglio 2021. Il dottor Giuseppe De Donno era divenuto noto alle cronache per la terapia del plasma iperimmune. Mentre scriviamo, il suicidio del medico, che l’Italia aveva conosciuto durante la prima fase della pandemia, è ancora avvolto dal mistero. Il Covid-19 aveva appena fatto la sua comparsa o quasi. Gli esperti erano al lavoro per comprendere almeno come tamponare il quadro epidemiologico. Si parlava di vaccino, ma non con le certezze odierne. Il SarsCov2 aveva sconvolto l’intero pianeta. La soluzione del problema appariva lontana. Avevamo appena preso confidenza con la figura del “virologo”, che ci avrebbe accompagnato per anni. Si avvicinava l’estate del 2020. Il primo lockdown del Belpaese era alle spalle. Il tempo e la situazione imponevano alla scienza di non cedere centimetri e di battere ogni strada percorribile. Tra tanti virologi, epidemiologi e primari esposti in prima linea, sia sul piano mediatico-televisivo sia su quello della ricerca e dell’intervento medico-scientifico, era spuntato uno pneumologo. Il professor De Donno iniziava a raccontare di quanto e come funzionasse la sua “scoperta”. Il plasma iperimmune non era un’esclusiva per contrastare il Covid19: la tecnica era già utilizzata nei confronti di altre patologie, con una serie di applicazioni, sperimentali o meno. Noi di InsideOver, all’epoca, intervistavamo De Donno per comprendere al meglio se e quali speranze potessimo nutrire. E il dottore, senza girarci troppo attorno, ci spiegava sia i meccanismi alla base della “cura” sia quello che stava accadendo dal punto di vista “politico”: il medico aveva appena tenuto un’audizione in Senato. Una diretta social con Matteo Salvini, peraltro, diffondeva la figura e le tesi dello pneumologo lombardo. La questione del plasma iperimmune era insomma discussa. Circolava un pronunciato scetticismo sulla terapia che il professore, che era incaricato presso l’ospedale di Mantova, cercava di difendere. Era nato un fenomeno social: sulle piattaforme proliferavano i gruppi di sostegno al dottore ed alle sua ragioni: “Guardi – ci raccontava De Donno – , il plasma del convalescente lo abbiamo utilizzato per pazienti con una grave insufficienza respiratoria. Va da sé – aggiungeva – che possa essere utilizzato anche nel paziente meno grave. Ma può essere utilizzato anche in profilassi, come stanno facendo negli Stati Uniti, dove lo stanno proponendo in favore del personale sanitario. Lo scopo è evitare che quel personale si ammali”. Poi la storia di Pamela, cui il dottore sembrava tenere particolarmente: una paziente afflitta da Covid-19 ed in stato interessante, che De Donno definiva “restituita alla famiglia” dopo la somministrazione del plasma. Dicevamo degli aspetti “politici”: l’ospedale di De Donno – come raccontava la Gazzetta di Mantova – era stata esclusa in prima battuta dallo studio Tsunami sul plasma iperimmune, la ricerca predisposta dall’ISS e dall’Aifa per verificare l’eventuale utilità di quella “terapia”. Poi l’ospedale Poma sarebbe stato inserito nella sperimentazione. Tra difficoltà varie e presunti boicottaggi, lo Tsunami avrebbe poi fornito esiti negativi: “Nel complesso TSUNAMI non ha quindi evidenziato un beneficio del plasma in termini di riduzione del rischio di peggioramento respiratorio o morte nei primi trenta giorni”, si legge ancora sul sito dell’ISS. Per quanto una piccola apertura venisse evidenziata: “Questo (una leggera positività statistica, ndr) potrebbe suggerire l’opportunità di studiare ulteriormente il potenziale ruolo terapeutico del plasma nei soggetti con COVID lieve-moderato e nelle primissime fasi della malattia”. Ma niente di più o quasi.
Per fortuna, la vaccinazione era divenuta realtà, per quanto fossimo al principio della diffusione a macchia d’olio tra tutta la popolazione. Il professor De Donno – lo aveva confermato pure nella nostra intervista – non era affatto contrario ai vaccini anti-Covid19, anzi li auspicava. Comunque, il dottore e le sue terapie, dopo un periodo di sovraesposizione, erano finite in secondo piano. Tanto che oggi si parla di “accantonamento”. Prima di togliersi la vita, De Donno aveva optato per le dimissioni dall’ospedale in cui aveva lottato contro la pandemia e per un incarico come medico di base.
"È stato tolto di mezzo": la morte di De Donno scatena i social. Angela Leucci il 28 Luglio 2021 su Il Giornale. La morte di Giuseppe De Donno ha sollevato tantissimi interrogativi nel popolo dei social network: i commenti alludono all’istigazione al suicidio. Sgomento, incredulità, dolore: sono le emozioni che la notizia del suicidio di Giuseppe De Donno ha portato con sé. È stato reso noto nella serata di ieri che il medico che ha sostenuto e promosso la cura del plasma iperimmune contro il Covid-19 si era suicidato nella sua casa di Eremo, frazione di Curtatone in provincia di Mantova. La sua storia professionale aveva colpito l’immaginario collettivo, insieme con l’ostracismo che gli era stato opposto da parte della comunità scientifica: per questa ragione sui social network molti gridano all’istigazione al suicidio o addirittura all’omicidio. “Mi dispiace tanto. Molti sacrifici per la sua cura, una persona seria e onesta. Qualcosa c'è sotto. Induzione al suicidio. Ci sono tante serpi in giro... scomodo al sistema”, scrive un uomo su Facebook. “Si sarà sentito stritolato da quel sistema clientelare, che mette sul piedistallo gli amici, e rende la vita difficile, se non addirittura impossibile, a chi ha l'onestà intellettuale e osa non piegarsi davanti ai diktat dei poteri forti - scrive un’altra utente - In questa Italietta, oggi più che mai, se non condividi il pensiero unico dominante, i meriti non valgono più nulla”. L’incredulità la fa da padrone: non sono ancora note le ragioni del gesto di De Donno, ma in molti hanno ipotizzato che il medico, ex primario al “Carlo Poma” di Mantova e da qualche giorno medico di base a Porto Mantovano, fosse affranto dal dolore di vedere rigettata dalla medicina ufficiale la sua cura per la cui sperimentazione aveva combattuto strenuamente. “Non ci credo che sia suicidio… se non c'è un motivo… spero che venga la verità… non ci crederò mai… grazie di tutto cuore di quello che hai fatto per noi”, recita un altro commento. E queste parole non vengono necessariamente da sostenitori del medico, ma anche da altre persone che guardavano con curiosità e ammirazione il lavoro di De Donno. Finché qualcuno azzarda: “Per me lo hanno fatto passare per suicidio (e non è la prima volta) qualcuno l’ha voluto togliere di torno, girano interessi miliardari sui vaccini e lui aveva trovato la cura efficace che disturbava le case farmaceutiche”. Quel che è certo è che Giuseppe De Donno, benché la terapia con il plasma iperimmune sia stata osteggiata, godeva di un grande affetto da parte delle persone comuni. Da nord a sud Italia erano tantissimi i suoi estimatori, alcuni dei quali testimoniavano personalmente la bontà dei suoi studi. Il cordoglio è particolarmente sentito nella zona in cui era stato primario, vincitore di concorso, la “sua” Mantova che aveva lasciato, oltre che il Salento, Maglie, la città in cui si era diplomato al liceo classico, Morigino, la frazione che gli aveva dato i natali.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Giovanni Bernardi per corriere.it il 28 luglio 2021. Il medico pneumologo Giuseppe De Donno si è tolto la vita. La scoperta è avvenuta nel tardo pomeriggio di martedì 27 luglio, quando il corpo senza vita del medico è stato trovato nella sua abitazione di Curtatone, alle porte di Mantova. Sotto choc la comunità mantovana e i suoi colleghi medici, che mai si sarebbero aspettati si potesse verificare un episodio simile. Il medico non avrebbe lasciato messaggi, ma le cause andrebbero ricercate sia in problemi di natura personale che, forse, lavorativa. De Donno era balzato agli onori delle cronache durante il lockdown del 2020, quando con i colleghi dell’ospedale Carlo Poma di Mantova aveva investito energie e risorse nella cura del Covid per mezzo del plasma iperimmune. Cura che però nel corso del tempo è stata abbandonata, anche a fronte di ricerche e studi internazionali sull’argomento. Da alcune settimane, dopo aver passato anni come primario della Pneumologia dell’ospedale di Mantova, era medico di base a Porto Mantovano. De Donno infatti aveva dato le dimissioni dal nosocomio cittadino preferendo dedicarsi alla medicina di famiglia nel comune alle porte della città. «Siamo sinceramente allibiti — afferma il direttore dell’Asst di Mantova —. Ho avuto modo di conoscere di persona e confrontarmi più di una volta con De Donno e devo dire che era una persona davvero squisita: onesto fino in fondo, si è sempre speso per la verità e per gli altri. Durante la prima ondata del Covid aveva dato il meglio di se stesso ed era davvero apprezzato sia dai colleghi medici che dalle centinaia di pazienti che hanno avuto a che fare con lui. Aveva investito moltissimo anche nelle ricerche sul plasma, cura che ora è stata abbandonata ma che nonostante tutto aveva dato i suoi frutti. L’abbandono del plasma per altre cure per lui è stato sicuramente un colpo decisamente difficile da gestire».
(ANSA il 28 luglio 2021) La procura di Mantova ha deciso di procedere con ulteriori indagini, aprendo formalmente un'inchiesta sulla morte di Giuseppe De Donno, l'ex primario di pneumologia dell'ospedale Carlo Poma e padre della terapia anti Covid con il plasma iperimmune. De Donno si sarebbe suicidato impiccandosi ed è stato trovato ieri dai familiari nella sua casa di Eremo di Curtatone, ma la procura vuole capire se nel suicidio possano esserci responsabilità di terzi. In pratica, l'obiettivo degli inquirenti è comprendere se qualcuno possa aver indotto l'ex primario, che il 5 luglio scorso aveva iniziato le sua nuova attività di medico di base dopo essersi dimesso dall'ospedale, a togliersi la vita, senza lasciare alcun messaggio. Già ieri sera i carabinieri e il magistrato hanno sentito i familiari, la moglie e i due figli, mentre sono stati posti sotto sequestro i cellulari e il computer del medico. Il corpo del medico si trova alle camere mortuarie dell'ospedale Carlo Poma di Mantova, in attesa di essere restituita alla famiglia per i funerali. De Donno, nei mesi caldi della pandemia dello scorso anno, era diventato il simbolo della lotta al virus condotta con il plasma prelevato dagli infettati e guariti e poi trasfuso nei malati. La sua battaglia per imporre la terapia aveva suscitato molte polemiche, dividendo sui social l'opinione pubblica tra favorevoli e contrari. De Donno era un assiduo frequentatore, fino a qualche mese fa, di Facebook, dove anche con falsi profili discuteva con se stesso dell'efficacia del plasma iperimmune. Qualche tempo fa ne era però uscito quando si era accorto che tanti dei suoi seguaci erano no vax. Adesso sui social la sua morte, oltre a suscitare cordoglio e commozione, ha anche scatenato una ridda di teorie complottistiche. Soprattutto, sulla sua decisione, improvvisa, di dimettersi da primario ospedaliero per intraprendere la carriera del medico di famiglia. De Donno, pubblicamente, non l'aveva mai messa in relazione alla delusione per la terapia del plasma iperimmune giudicata inefficace; quello stop, invece, in lui aveva fatto riaffiorare i fantasmi di un vecchio disagio psicologico fin lì tenuto sotto controllo. Paradossalmente, l'emergenza Covid con la necessità di rimanere in reparto anche 18 ore accanto ai pazienti aveva avuto un effetto positivo su De Donno, svanito via via che l'emergenza in ospedale si affievoliva. I suoi ex colleghi della pneumologia e la direzione dell'Asst, sconvolti per l'accaduto, in una nota, lo ricordano come un "professionista eccellente e di grande umanità" e per "la sua completa abnegazione", con i pazienti al primo posto. "Giuseppe era così, a momenti solare e in altri ombroso", "perché disilluso da qualcosa o indispettito o arrabbiato per non essere riuscito a fare quello che sperava per i pazienti. Speriamo che ora possa trovare quella pace che gli è mancata qui".
Avviate le indagini sulla morte di De Donno. Silenzio assordante da parte delle Istituzioni. Rec News il 28 Luglio 2021. Sul decesso e sulle possibili responsabilità da parte di terzi indagano ora la Procura e i Carabinieri di Mantova, coordinati dal colonnello Antonello Minutoli. Per il momento nessuna frase di cordoglio da parte di Draghi, Speranza e Mattarella er il mainstream si è “suicidato”, per quelli che vengono considerati complottisti “è stato aiutato ad andare”. Per alcuni, invece, a pesare è stato il clima avvelenato dalle calunnie e dagli insulti gratuiti. La morte del dottor Giuseppe De Donno – considerato erroneamente il padre della plasmaferesi, tecnica che si utilizza fin dagli anni ’50 – è un giallo completo. La stampa commerciale riferisce del decesso che sarebbe avvenuto il pomeriggio del 27, e della famiglia che avrebbe ritrovato il corpo. Si parla di “impiccagione” e dell’assenza di un biglietto con cui giustificare il gesto. Le ombre rimangono tante, ma quel che è certo è che la narrazione dell’episodio è ora utilizzata per tentare di incutere un clima di paura nei più critici verso la dittatura sanitaria. Social, commenti ai siti e ai personaggi in vista: da ore è tutto un fiorire di “ecco che succede se ti esponi come ha fatto De Donno”, e simili. Tutte frasi che lasciano il tempo che trovano, strumentalizzazioni che tentano di scoraggiare chi ha deciso di esporsi o, meglio, di non piegarsi. E’ già, tuttavia, un fiorire di gruppi, associazioni e comitati risoluti a scoprire la “verità” sul professore attivo nel Mantovano. La vicenda di De Donno è nota: già primario del reparto di Pneumologia del Carlo Poma – uno dei tanti che nel corso dell’emergenza ha utilizzato la contestata tecnica della prono - supinazione – ad un certo punto della sua attività – spiega la stampa commerciale – “abbandona tutto per fare il medico di base”. Alcune testate parlano di grosse somme investite nella plasmaferesi, e del conseguente “stato depressivo” che sarebbe seguito dopo il no alle terapie delle sfere alte. Vicino e avvicinato dalla politica, diventa suo malgrado un paladino anti-sistema, pur frequentando determinati contesti. Si contrappone alla narrazione dominante e agli influencer pro-vax, sempre debitamente in vista nelle trasmissioni più seguite, a differenza di altri medici che hanno curato centinaia di pazienti confrontandosi con un silenzio assordante da parte della stampa e delle reti commerciali. Che la questione non sia solo sanitaria, del resto, lo dice lo stesso panorama italiano sulle cure di questo tipo. Che la plasmaferesi naturale ottenuta utilizzando semplicemente gli anticorpi dei pazienti guariti non potesse avere futuro in un Paese in cui l’emergenza è mantenuta in vita per forza – soprattutto in vista di “quei 200 miliardi che dobbiamo spendere” (cit. Fusani) – lo racconta la storia della stessa azienda Kedrion che si occupa anche di plasmaferesi, ma artificiale. Di proprietà di Paolo Marcucci (fratello del senatore del Pd Andrea), Kedrion è ormai lanciatissima, e potrà contare su almeno un quadriennio di investimenti. Quelli che De Donno cercava da tempo, che per un motivo o per l’altro non gli sono stati concessi. Sul decesso e sulle possibili responsabilità da parte di terzi indagano ora la Procura e i Carabinieri di Mantova, coordinati dal colonnello Antonello Minutoli. Intanto, oltre alla tristezza comunicata da molti in queste ore, c’è il silenzio assordante delle massime Istituzioni. Non una parola di cordoglio, fino a questo momento, dal premier Mario Draghi, dal ministro della Salute Speranza e dal presidente della Repubblica Mattarella.
Giuseppe De Donno, indaga la Procura: "responsabilità di terzi nel suicidio?", i sospetti. Libero Quotidiano il 28 luglio 2021. Ulteriori indagini sono state disposte dalla procura di Mantova sulla morte di Giuseppe De Donno. È stata quindi aperta formalmente un’inchiesta per far luce sul suicidio dell’ex primario di pneumologia dell’ospedale Carlo Poma: il 54enne è stato trovato privo di vita nella sua casa di Eremo, la procura vuole capire se nel suicidio possano esserci responsabilità di terzi. Nella serata di ieri, martedì 27 luglio, i carabinieri e il magistrato hanno sentito i familiari - De Donno aveva una moglie e due figli - e hanno sequestrato i cellulari e il computer personale del medico. L’ex primario del Poma aveva acquisito una certa popolarità per la sua terapia con il plasma che era stata utile per guarire diversi pazienti affetti dal Covid. Il plasma iperimmune è però stato giudicato inefficace, ma pare che non sia stata questa delusione a spingere De Donno a lasciare l’ospedale per intraprendere la carriera del medico di famiglia. I colleghi del Poma e la direzione dell’Asst ricordano De Donno come “un professionista eccellente e di grande umanità, che ha lasciato un vuoto incolmabile”. In merito alla sua decisione di cambiare vita lavorativa, la direzione della Asst di Mantova sottolinea che il “percorso di cambiamento” era stato maturato “dopo il periodo più intenso e drammatico della pandemia, che ha visto De Donno dedicarsi con passione e abnegazione alla cura dei pazienti colpiti dal Covid”.
Giuseppe De Donno, Selvaggia Lucarelli: "Miserabili no-vax che sbraitate, la frase estrema sul "morto per propaganda”. Libero Quotidiano il 28 luglio 2021. Selvaggia Lucarelli ha espresso la sua opinione sulla morte di Giuseppe De Donno, che nel pomeriggio di ieri - martedì 27 luglio - si è suicidato nella sua abitazione. Ancora da chiarire le circostanze e le motivazioni che hanno portato l’ex primario di pneumologia dell’ospedale Carlo Poma a togliersi la vita. “Volevo ricordare a quei miserabili dei no vax che oggi stanno santificando De Donno - ha scritto la Lucarelli in un tweet - che sbraitano da mesi chiedendo di non usare i morti per fare propaganda”. “Ecco - ha aggiunto la giornalista di Tpi - oggi state usando un morto per fare propaganda. Tacete”. Molti no vax sui social stanno infatti usando il medico, divenuto famoso per la terapia al plasma che è stata utile nelle fasi più tremende dell’epidemia di coronavirus, per alimentare teorie di complotto che non fanno bene a nessuno e soprattutto sono irrispettose nei confronti della famiglia di una persona che si è tolta la vita per motivi che non sono noti. Tra l’altro De Donno era stato tra i primi vaccinati all’ospedale Carlo Poma: “La giornata odierna ha un significato molto importante - aveva dichiarato in quell’occasione - rappresenta l’emblema della ripartenza del Paese. Noi operatori abbiamo cercato di dare un esempio, visto che l’obiettivo è quello di toccare un 90% di vaccinati che metterebbe al riparo il Paese”.
Giuseppe De Donno, il vecchio e vergognoso sfregio di Selvaggia Lucarelli: "Beh, lasciato l'ospedale...". Libero Quotidiano il 28 luglio 2021. Addio a Giuseppe De Donno, il medico mantovano e padre della cura con plasma iperimmune, di cui fu tra i primi sponsor insieme a Le Iene. L'ex primario si è tolto la vita, a 54 anni. Lascia moglie e figli. Dietro al gesto estremo, stando alle prime ricostruzioni, il dolore per lo stop alla sperimentazione del plasma iperimmune come cura contro il coronavirus e qualcuno sostiene anche una malattia. Un caso che sta facendo rumore, che sta polarizzando, che fa discutere. Già, De Donno viene subito tirato per la giacchetta, a sproposito e in modo scomposto e indecente, dai no-vax, i quali sui social alimentano le più bieche teorie del complotto. Il ritornello? "È stato ucciso", certo non materialmente, ma dalle decisioni che lo hanno tagliato fuori. Oltre alle posizioni deliranti, però, ce ne sono di più composte, e che devono far riflettere, come quella di Maria Giovanna Maglie, che punta il dito contro i colleghi e i giornalisti che, per lungo tempo, De Donno lo avevano irriso e "calunniato", per usare le sue parole. Ed insomma, in questo contesto non può che rimbalzare agli onori delle cronache un vecchio cinguettio di Selvaggia Lucarelli, la quale si scagliò contro De Donno proprio quando Matteo Salvini e Le Iene, due nemici giurati della sacerdotessa del giusto, sostenevano i suoi studi. Ai tempi, la blogger scrisse: "Vi ricordate il messia Giuseppe De Donno? Quel medico che salvava tutti con il plasma che chiamava proiettile magico, mentre Salvini e Le Iene insinuavano che siccome era una cura gratuità chissà, cielanakondono (scritto così nel cinguettio, ndr)? Beh, lasciato l'ospedale, ora è medico di base a Porto Mantovano", concluse Selvaggia Lucarelli. Un tweet vergognoso. Uno sfregio gratuito e lo sfottò, come se un medico di base a Porto Mantovano fosse l'ultimo dei fessi. Uno sfott piovuto senza neppure conoscere le vere ragioni del passo indietro di De Donno. Un cinguettio che, oggi, stona. E parecchio.
Giuseppe De Donno, l'affondo di Pietro Senaldi: "Lo sciacallaggio di Selvaggia Lucarelli. Chi ha il medico sulla coscienza". Libero Quotidiano il 02 agosto 2021. Pietro Senaldi, condirettore di Libero, torna a parlare nel suo video-editoriale di oggi del suicidio del medico Giuseppe De Donno, trovato impiccato in casa sua. Aveva sponsorizzato una terapia anti-covid fatta di trasfusioni di sangue infetto. Aveva avuto più effetto mediatico che scientifico ed infatti era stata bocciata. De Donno aveva lasciato l'ospedale per la professione privata. "Adesso ci si litiga le spoglie", tuona Senaldi ricordando i nov vax che adesso sostengono che "è stato un omicidio poiché dopo aver trovato la cura e dispiacendo alle case farmaceutiche, è stato abbandonato. Altri sostengono che fosse un ciarlatano". "Non essendo noi laureati in medicina non esprimiamo pareri a riguardo", puntualizza Senaldi facendo notare però che, al contrario, "Selvaggia Lucarelli, che è laureata in giurie di ballo e riempimento di maroni al prossimo, ma evidentemente ha anche qualche titolo scientifico, pur comprendendo la tragedia umana di De Donno, dice che questo spacciava fake news, era un complottista, il tutto per portare avanti le sue teorie e il suo successo scientifico". "Secondo me è sciacallaggio" conclude Senaldi. "De Donno, per me, si è ucciso perché, giuste o sbagliate, credeva fortemente nelle sue idee. Cosa che non posso dire per chi lo critica con questa furia selvaggia e anche ripugnante".
Giuseppe De Donno, la drammatica accusa di Maria Giovanna Maglie: "Calunnie e insulti, il collega che lo ha irriso". Libero Quotidiano il 28 luglio 2021. La morte di Giuseppe De Donno scatena la polemica. Il medico ed ex primario di pneumologia dell'ospedale di Mantova, da poco tempo tornato a fare il medico di base, è stato trovato senza vita nella sua abitazione, impiccata. Si tratta del medico che per primo iniziò le cure al coronavirus con le trasfusioni di plasma iperimmune, tecnica controversa e contro la quale, di fatto, è piovuto lo stop della comunità scientifica. E sarebbe stato anche questo stop a pesare come un macigno, per De Donno. Tra chi subito ha puntato il dito, si è speso in accuse per quanto accaduto, ecco Maria Giovanna Maglie, una che come sempre non le manda a dire. Su Twitter, la giornalista ha picchiato durissimo: "Troppe calunnie, insulti, irrisione dei colleghi da talk tv col sopracciò. Gli stessi che ci impongono il greenpass", ha cinguettato. Un tweet, quello della Maglie, che in una sola ora ha collezionato oltre mille like. Ma non è l'unica, la Maglie. Anche molti utenti "semplici", non famosi, nutrono dei dubbi per quanto accaduto. Per esempio Filippo, il quale si interroga: "Suicida? Siamo sicuri? Questa storia è inquietante e surreale". E ancora, Massimo, il quale alza il livello delle accuse: "Questo suicidio in realtà è un omicidio che ha mandanti ed esecutori conosciuti". Quindi Alex: "Dietro il presunto suicidio di De Donno c'è un uomo lasciato solo, un medico che aveva dedicato tutto alla sua cura e le sue ricerche". Insomma, come sempre online monta il sospetto...
Giuseppe De Donno, l'agghiacciante teoria di Alessandro Meluzzi: "Ecco perché è morto", occhio a questa foto. Libero Quotidiano il 28 luglio 2021. Una morte, anzi un suicidio, che scatena sospetti e complottismi. Si parla della tragica fine di Giuseppe De Donno, l'ex primario di pneumologia dell'ospedale di Mantova trovato senza vita nella sua casa. De Donno, sostenuto anche da Le Iene di Italia 1, fu uno dei principali fautori della cura al coronavirus con plasma iperimmune, una cura che di fatto non ha mai trovato terreno fertile (ed è proprio questo il fattore che ha scatenato i complottisti). Lo stop alla ricerca sul plasma iperimmune sarebbe stato un duro colpo per De Donno, un dolore che faticava a superare. Dopo la notizia della sua morte, come detto, ecco le polemiche. In primis Red Ronnie, che ha picchiato durissimo: Lo hanno lasciato solo, lo hanno ucciso. De Donno è una vittima di quelli che hanno deciso questo scempio a cui stiamo assistendo, dovrebbe essere fatto santo". Quindi, tra i molti, anche Maria Giovanna Maglie, la giornalista che ha puntato il dito contro i virologi e i colleghi che lo hanno calunniato e offeso in televisione. Insomma, una Maglie che sosteneva la cura con plasma iperimmune. Si arriva poi al terrificante cinguettio di Alessandro Meluzzi, che non può non dire la sua su questa vicenda. E lo psichiatra, schierato da tempo sul fronte del negazionismo più spinto, rilancia sui suoi profilo social ciò che potete vedere qui sotto: l'immagine di un'infermiera con gli occhi coperti da una mascherina improvvisata con una banconota da 500 euro. A corredo, il commento: "De Donno è morto perché non era uno di loro, ma non illudetevi, potete uccidere un uomo ma non le sue idee", conclude Meluzzi.
Giuseppe De Donno, "gli sciacalli del suicidio". Dopo la morte, il drammatico sfogo del collega: chi finisce nel mirino. Libero Quotidiano il 28 luglio 2021. La morte di Giuseppe De Donno ha sconvolto l’intera comunità mantovana e non solo, dato che l’ex primario di pneumologia dell’ospedale Carlo Poma era conosciuto in tutta Italia come il padre della terapia al plasma che ha contribuito a salvare diverse vite nella fase più violenta dell’epidemia di coronavirus. In molti sui social si sono scagliati contro il mondo della scienza e alcuni colleghi, accusati di aver lasciato solo De Donno e di averlo screditato per la sua terapia che prevedeva l’infusione di sangue di contagiati in altri pazienti infetti. Sul tema è intervenuto anche Nino Cartabellotta di Gimbe, che ha voluto mettere un punto: “Strumentalizzare la morte di De Donno per alimentare posizioni no vax e teorizzare complottismi è sciacallaggio allo stato puro”. Il medico aveva 54 anni ed è stato trovato privo di vita nella sua casa di Eremo, frazione del comune di Curtatone: a fare la tristissima scoperta sono stati alcuni familiari. De Donno pare che si sia impiccato, al momento non sono ancora chiare le circostanze del suicidio né tantomeno le motivazioni. Anche Matteo Salvini ha commentato la morte del medico, che aveva avuto occasione di conoscere: “Non ci volevo credere. Perdiamo una bella persona, un grande medico, che durante il Covid ha lottato come un leone per salvare centinaia di vite, spesso contro tutto e tutti. Buon viaggio Giuseppe, lasci un vuoto grande”.
Giuseppe De Donno, la sconvolgente accusa di Red Ronnie: "Ora basta, ecco chi lo ha ammazzato. Lo hanno ucciso". Libero Quotidiano il 28 luglio 2021. Choc e polemiche dopo la notizia della morte di Giuseppe De Donno, l'ex primario di pneumologia dell'ospedale di Mantova morto suicida, impiccandosi nella sua casa. De Donno fu uno dei principali fautori della cura con plasma iperimmune per il coronavirus, cura che fu poi fermata: un duro colpo che il medico non avrebbe mai superato. La notizia del suo suicidio, come detto, ha scatenato un vespaio di polemiche, soprattutto sui social. Molti hanno puntato il dito contro il mondo della scienza, che avrebbe "lasciato solo" il medico mantovano, ostracizzato a causa della sua terapia contro il Covid, considerata un poco controversa, una terapia che prevedeva l'infusione di sangue di contagiati, dopo un trattamento, in altri pazienti infetti. E tra chi punta il dito, ecco Red Ronnie, che alla notizia della scomparsa del primario si è prodotto in un durissimo sfogo: "Lo hanno lasciato solo, lo hanno ucciso. De Donno è una vittima di quelli che hanno deciso questo scempio a cui stiamo assistendo, dovrebbe essere fatto santo". E ancora, lo storico conduttore di Roxy Bar, rimarca come De Donno era "una persona semplice, un medico che aveva capito che non bisognava intubare i malati e bruciargli i polmoni, ma bastava il plasma. Eppure non è possibile salvare le vite con metodi che non sono prescritti. Una sacca di plasma costava 80 euro (...). Avrebbe aiutato i malati a reagire, a vincere", ha concluso. Ma non è tutto. Red Ronnie, dopo lo sconforto, aggiunge: "Sono triste, arrabbiato. Questo mi fa diventare determinato. È ora di dire basta. Giuseppe De Donno se n'è andato. Lo volevo chiamare, non pensavo che sarebbe andata così. Con questo gesto De Donno ha motivato ancora di più noi che crediamo nell'umanità e non sul profitto, sul guadagnare su un farmaco", ha concluso Red Ronnie. Parole pesantissime.
Giuseppe De Donno, inquietante Enrico Ruggeri: "La verità sul suicidio? Nel difetto della sua cura". Libero Quotidiano il 28 luglio 2021. Dopo Red Ronnie, anche Enrico Ruggeri ha espresso il suo pensiero sulla morte di Giuseppe De Donno, trovato privo di vita nella sua abitazione di Eremo, frazione del comune di Curtatone. Il medico aveva 54 anni e si sarebbe suicidato impiccandosi: al momento non sono chiare le circostanze né tantomeno le motivazioni. Il suo gesto estremo non ha lasciato indifferente l’opinione pubblica, dato che De Donno era conosciuto in qualità di padre della terapia al plasma, i cui benefici non sono stati certificati ufficialmente ma erano stati diversi i pazienti salvati in questo modo. Il tweet di Ruggeri è stato piuttosto polemico: “Messo a tacere, delegittimato, deriso, escluso dai programmi tv. La sua cura aveva solo un difetto: costava pochissimo. Come disse De Andrè siamo tutti coinvolti in questa tragedia, che è anche la nostra”. Ruggeri è uno dei tanti famosi e non che sui social si sono scagliati contro il mondo della scienza e alcuni colleghi, accusati di aver lasciato solo De Donno e di averlo screditato per la sua terapia al plasma. Anche Matteo Salvini ha voluto commentare la morte dell’ex primario dell’ospedale Carlo Poma di Mantova: “Non ci volevo credere. Perdiamo una bella persona, un grande medico, che durante il Covid ha lottato come un leone per salvare centinaia di vite, spesso contro tutto e tutti. Buon viaggio Giuseppe, lasci un vuoto grande”.
Aveva lasciato i social dopo aver scoperto che tra i suoi seguaci molti erano no vax. Giuseppe De Donno, la procura apre un’inchiesta sulla sua morte: “Speriamo possa trovare la pace che gli è mancata qui”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Luglio 2021. Sono stati i suoi familiari a trovare il corpo senza vita di Giuseppe De Donno, l’ex primario di pneumologia dell’ospedale Carlo Poma di Mantova e padre della terapia anti Covid con il plasma iperimmune. Si sarebbe suicidato impiccandosi ma la procura di Mantova vuole vederci chiaro e ha deciso di aprire formalmente un’inchiesta per capire se dietro quella morte apparentemente volontaria ci possa essere qualcuno che lo ha indotto a farlo. A destare sospetto il fatto che il medico non abbia lasciato alcun biglietto per la sua famiglia nella casa di Eremo di Curtatone dove è stato trovato il 27 luglio. Già ieri sera i carabinieri e il magistrato hanno sentito i familiari, la moglie e i due figli, mentre sono stati posti sotto sequestro i cellulari e il computer del medico. De Donno, che il 5 luglio scorso si era dimesso dal ruolo di primario della pneumologia dell’Ospedale di Mantova per iniziare con entusiasmo la sua attività di medico di base, era diventato il simbolo della lotta al Covid. Era il marzo 2020 quando scoppiò la pandemia che colpì subito il nord Italia. Lui sempre in prima linea in quei giorni in cui poco o nulla si sapeva del virus, fu tra i primi a proporre una terapia mediante l’uso del plasma prelevato dagli infettati e guariti e poi trasfuso nei malati. Questa pratica fu molto dibattuta all’epoca suscitando molte polemiche tra favorevoli e contrari. De Donno era un assiduo frequentatore, fino a qualche mese fa, di Facebook, dove anche con falsi profili discuteva con se stesso dell’efficacia del plasma iperimmune. Qualche tempo fa ne era però uscito quando si era accorto che tanti dei suoi seguaci erano no vax. Adesso sui social la sua morte, oltre a suscitare cordoglio e commozione, ha anche scatenato una raffica di teorie complottistiche. A suscitare dubbi in cui innestare teorie, molte delle quali estremamente fantasiose, la decisione di De Donno di lasciare il ruolo di primario e diventare medico di base. De Donno non ha mai pubblicamente affermato che ci potesse essere una correlazione con la delusione per la terapia al plasma iperimmune da lui studiata e poi giudicata inefficace. Forse quello stop potrebbero aver fatto riaffiorare i fantasmi di un vecchio disagio psicologico fin lì tenuto a bada forse anche dalla necessità di stare accanto ai suoi pazienti in un momento così difficile come quello appena trascorso. I suoi ex colleghi della pneumologia e la direzione dell’Asst, sconvolti per l’accaduto, in una nota, lo ricordano come un “professionista eccellente e di grande umanità” e per “la sua completa abnegazione”, con i pazienti al primo posto. “Giuseppe era così, a momenti solare e in altri ombroso”, “perchè disilluso da qualcosa o indispettito o arrabbiato per non essere riuscito a fare quello che sperava per i pazienti. Speriamo che ora possa trovare quella pace che gli è mancata qui”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
IL “SUICIDIO” DEL DOTTOR GIUSEPPE DE DONNO. SOLO CONTRO “BIG PHARMA”. Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci il 28 Luglio 2021. Un uomo vero, un medico autentico che ha salvato moltissime vite nella prima ondata del Covid, grazie alla terapia del "plasma iperimmune". Una presenza scomoda, pericolosa, la sua, soprattutto per gli stramiliardari interessi delle case farmaceutiche, della piovra chiamata Big Pharma. Forse per questo la vita di Giuseppe De Donno doveva finire e lui ‘doveva morire’, come hanno titolato – a proposito del delitto Moro – Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato. Secondo altri, era molto depresso, estenuato dalle battaglie di un piccolo Davide contro Golia, sfinito per il suo sforzo quasi solitario, attaccato dai soloni in camice bianco, i virologi che impazzano in tivvù, dai media in un frastornante e belante coro, mai difeso dalla politica. A botta calda sorge spontanea la domanda. Poteva finire i suoi giorni così, impiccato nella sua casetta di campagna ad Eremo (un nome profetico), la minuscola frazione di Curtatone, nel mantovano? Una scena raccapricciante per i suoi, la moglie Laura e i figli Martina (consigliere comunale a Curtatone) e Eduardo. Può mai un medico esperto come lui cercare la morte in un modo così atroce e difficile da organizzare, e anche dall’esito non certo? Quando, proprio per un medico, esistono agevoli vie per andare al creatore impasticcandosi a dovere oppure iniettandosi la dose fatale? Non c’è forse un "segno" in quella tragica esecuzione, pardòn, fine? Un avvertimento forte e deciso: guai a toccare certi "fili", attenti, in futuro, a sfiorare certi interessi, a intaccare alcuni equilibri, a disturbare i manovratori. Saprà una seria inchiesta far luce sulla tragica fine? C’è solo da augurarselo, anche se siamo molto scettici, visto che in altri clamorosi casi la "giustizia" (sic) s’è arenata, totalmente spiaggiata: come, per fare solo due esempi, nel caso dei ‘suicidi’ di David Rossi e Marco Pantani, dove non sono bastate le infinite "anomalie" per far aprire gli occhi agli inquirenti, che hanno piombato tutto sotto una tombale archiviazione. Vergogna. Ma anche restando entro il perimetro del pur improbabile suicidio, e motivandolo con la depressione fortissima causata da tutti i tentativi di emarginazione professionale e delegittimazione a tutto campo, vediamo le ultime notizie e cerchiamo di ricostruire la "scena".
ERA APPENA TORNATO A FARE IL MEDICO DI CAMPAGNA
Era appena tornato, il 5 luglio, a fare il medico di base, il "dottore di campagna" come lui stesso amava definirsi. Sì, perché ai primi di giugno aveva lasciato l’incarico per il quale aveva speso tutta la sua vita: dopo lunghe fatiche professionali, infatti, era diventa primario pneumologo all’ospedale "Carlo Poma" di Mantova. Il dottor Cesare Perotti, che insieme al collega Giuseppe De Donno ha messo a punto la cura con il plasma iperimmune. Lì il suo percorso ha una svolta otto anni fa, nel 2013, quando diventa dirigente medico della struttura complessa di Pneumologia e dell’Unità di Terapia Intensiva Respiratoria (Utir). A settembre 2018 viene nominato primario facente funzione, vince il concorso e diventa primario a pieno titolo ad inizio 2019. E, dopo un anno esatto, arriviamo ai drammatici giorni del coronavirus. Dove il suo nome balza ben presto agli onori delle cronache, perché con il collega Cesare Perotti del policlinico "San Matteo" di Pavia mette a punto la tecnica del "plasma iperimmune". Una tecnica "storica" e "innovativa" al tempo stesso. Perché terapie a base di plasma vennero utilizzate fin dal 1901 per curare la difterite, quindi impiegate per fronteggiare l’ultima grande pandemia del 1918, poi per contenere negli anni seguenti i focolai di morbillo, poliomielite e parotite. Quell’approccio terapeutico – nota subito De Donno – è utilissimo per combattere immediatamente il virus al suo primo insorgere: un po’ come succede con le cure, i farmaci di cui spesso la "Voce" ha scritto (idrossiclorochina, invermectina, lattoferrina etc.) e regolarmente boicottati dal governo e dalle autorità (sic) scientifiche, come Ema a livello europeo e AIFA a livello nazionale. Al plasma iperimmune viene riservato un trattamento "speciale": emarginato, oscurato, messo da parte, quasi desse fastidio. Con ogni probabilità anche perché si trattava (e si tratta) di una terapia molto economica – come ha più volte sottolineato De Donno – appena 80 euro per la sacca di plasma che consente la rivitalizzazione, in parole povere, del sangue aggredito dal virus.
"IENE" ALL’ATTACCO
Ma c’è un improvviso momento di gloria, per il metodo-De Donno. Quando cioè le ‘Iene’, a maggio 2020, realizzano alcune inchieste choc capaci di catalizzare l’attenzione di un pubblico sempre più distratto, di cittadini cloroformizzati dal ritornello “tachipirina e vigile attesa” impartito – anzi letteralmente imposto – dal governo, che è il vero responsabile (con il Comitato Tecnico Scientifico) per migliaia e migliaia di vite perse in attesa del miracoloso vaccino, mai curate in modo adeguato (con i farmaci ad hoc e la terapia del plasma iperimmune) e invece inviati al massacro nelle corsie ospedaliere per l’intubazione e poi quasi sempre la morte. I reportage delle "Iene" (autori Alessandro Politi e Marco Fubini) svelano un’altra terapia possibile, e perfino economica. Viene intervistato De Donno. Un vero scoop: perché il medico di campagna scopre quanto il re sia nudo, come sia possibile fronteggiare il Covid prima dell’arrivo dei vaccini, quali siano i reali interessi di Big Pharma. Scorriamo alcune frasi pronunciate da De Donno, il cui senso adesso – dopo la sua tragica fine – possiamo capire ancora meglio. “Ho passato 25 giorni senza dormire. E anche ora quando arrivo a casa non riesco a smettere di pensare agli occhi dei nostri pazienti. Gli occhi dei morti, quelli che non siamo riusciti a salvare, mi accompagnano tutte le notti. Questo è un virus maledetto, in 36 ore ti distrugge. Dobbiamo imparare a conviverci. Ma proprio perché è un virus che ti colpisce duro, alle spalle, non capisco questo accanimento contro la cura al plasma”. Con questa terapia praticata al Carlo Poma “nessuno si è aggravato, non abbiamo registrato alcun effetto collaterale. Il plasma è sicuro. Non stiamo parlando di una pozione magica. I risultati dello studio stanno per essere pubblicati. A questo punto sarà la letteratura a parlare”. Sui motivi del boicottaggio contro la plasmaterapia, osserva: “Non lo so, forse perché sono un uomo libero, un medico di campagna che pensa solo a salvare vite umane. Forse il mondo accademico soffre perché la scoperta arriva da un piccolo ospedale e non da qualche rinomato laboratorio. Negli Stati Uniti stanno pensando di fare dei cicli di plasmaferesi per proteggere il personale medico. Di certo abbiamo aperto una nuova era. Questo è un nuovo modello che potremo utilizzare anche in futuro. A costi estremamente bassi”. Sui vaccini: “Io sono un sostenitore dei vaccini, ma sarà un lavoro lungo. Questo virus muta (le parole sono state pronunciate ben prima dell’arrivo delle varianti, ndr), ha diversi ceppi. Quello che ha colpito l’Italia non è lo stesso della Cina e nella stessa Lombardia ci sono diversi ceppi. A noi serve oggi subito un proiettile da usare per la fase acuta: una cura capace di seguire le mutazioni del virus. Il plasma lo fa”. “Era difficile reggere all’urto di un virus così terribile. Ma forse avremmo salvato qualche vita in più se la politica avesse ascoltato di meno gli accademici in televisione e di più gli ospedalieri che facevano le notti in bianco inseguiti dagli occhi dei morti”. Contro gli attacchi scatenati dall’allergologo di tutti i salotti tivvù, Roberto Burioni, osservava: “Burioni si comporta come se avesse la verità in tasca, dicendo che è meglio un farmaco sintetizzato che il plasma iperimmune. Non credo che sintetizzare il farmaco in laboratorio sia più economico. Questa è una cura democratica: arriva dal sangue donato dai guariti”. In un’altra puntata al calor bianco, le ‘Iene’ attaccano frontalmente "Kedrion Biopharma", la corazzata del gruppo Marcucci che si è autoproposta come azienda in grado di lavorare e produrre industrialmente il plasma iperimmune. Il reportage è al calor bianco: vengono ricostruite tutte le fasi ‘parlamentari’ dell’operazione, che ha il suo clou in un’audizione che si svolge al Senato e alla quale prende parte un ‘non invitato’ Paolo Marcucci, ceo di Kedrion e fratello di Andrea Marcucci, all’epoca capogruppo del Pd in Senato. In perfetto conflitto di interessi.
Kedrion parte lancia in resta e querela le "Iene". Ed anche la Voce, rea di aver osato parlare del mini golpe dei Marcucci a palazzo Madama e di aver ripreso il servizio delle Iene. La nostra querela viene "allargata" anche ad un’altra inchiesta, relativa ai rapporti di collaborazione fra Kedrion e un laboratorio cinese che opera nell’area di Wuhan, come aveva candidamente dichiarato Paolo Marcucci in un’ampia intervista rilasciata al Corriere della Sera. La querela firmata da Paolo Marcucci contro la Voce è stata archiviata appena un mese fa, dopo l’ordinanza del gip del tribunale di Napoli, Valentina Gallo, che ha considerato pienamente legittimi gli articoli della Voce e assolutamente non diffamatori ma rispecchianti la realtà dei fatti.
IL PLAUSO INTERNAZIONALE AL METODO DE DONNO
Ma torniamo al giallo De Donno. La cui tecnica del plasma iperimmune con il passar dei mesi miete continui riconoscimenti a livello internazionale. Uno studio realizzato da un’equipe di Calcutta, condotto sui pazienti dell’ID&BG Hospital, ha fatto registrare un anno fa risultati sorprendenti: “una significativa mitigazione immediata dell’ipossia – scrivono i ricercatori – una riduzione della degenza ospedaliera e benefici di sopravvivenza” in pazienti covid-19. Proprio sull’efficacia immediata nella fase iniziale della malattia si è concentrato uno studio della "Johns Hopkins University", dal quale sono scaturiti risultati altrettanto confortanti, soprattutto per evitare le ospedalizzazioni (e/o ridurre i tempi di degenza), e attenuare sensibilmente gli effetti del virus. Ancora. Sono di appena tre mesi fa i risultati di uno studio di Fase 2 condotto presso un importante centro di ricerca statunitense, l’‘Hackensack University Medical Center’ del New Yersey. Sono stati pubblicati dalla rivista scientifica ‘JCI Insights’ e indicano con estrema chiarezza i vantaggi che derivano dalla terapia, nonché la sua sicurezza ed efficacia. I pazienti sono stati divisi in due gruppi – viene descritto – a seconda della necessità di assistenza respiratoria e hanno ricevuto un’infusione di plasma ad alto titolo anticorpale. I promettenti risultati dell’intervento precoce – aggiungono – hanno portato all’avvio di un programma ambulatoriale attualmente in corso presso il Medical Centeruniversitario, con l’obiettivo di “trattare i pazienti nelle prime 96 ore dalla comparsa dei sintomi di covid-19 e dunque prevenire il ricovero in ospedale”. Così concludono: “La neutralizzazione virale precoce, con la conseguente prevenzione della risposta immunitaria dovuta al danno virale, costituisce la base per l’infusione del plasma dei convalescenti ad alto titolo. Poiché gli anticorpi provengono dai guariti che hanno sviluppato una risposta immunitaria anche contro le nuove varianti, la terapia potrebbe anche tenere il passo con l’aumento delle versioni mutate di Sars-Cov-2”. Le famigerate varianti. Nemo propheta in patria. Mentre il metodo De Donno raccoglie successi e riconoscimenti all’estero, in Italia continua ad essere boicottato e del tutto sottovalutato. Vediamo cosa succede, neanche un mese e mezzo fa, a metà giugno, in Emilia. Ecco cosa batte un’agenzia: “Decine e decine di unità di plasma iperimmune, più di 150, prelevato in provincia di Modena da donatori guariti dal Covid e pronte a diventare, attraverso trasfusione, cura per ammalati, giacciono inutilizzate presso il centro trasfusionale del Policlinico di Modena, a quanto pare senza prospettiva di essere utilizzate per la cura del covid”. Ecco la pezza a colori piazzata dal direttore del centro trasfusionale presso il Policlinico locale, Giovanni Ceccherelli: “Dopo un primo momento di entusiasmo nel quale sembrava fosse l’unica cura possibile per il covid, studi ed articoli apparsi su prestigiose riviste scientifiche hanno dimostrato che il plasma iperimmune non serve per la cura dei pazienti gravi ma serve solo in caso di malattia iniziale, rendendo il suo utilizzo di fatto impraticabile”. Chi ha mai detto si trattasse dell’unica cura possibile? Al contrario, sia De Donno che gli studi scientifici, come quelli appena citati, hanno sempre ribadito l’estrema utilità nella fase iniziale di aggressione del virus. Ed è evidente anche ad un bambino che in tutte le patologie vi sia sempre una ‘fase iniziale’: quindi il metodo può essere utilizzato in tutti i casi di insorgenza del covid. Con quale logica, quindi, l’utilizzo del plasma iper immune può rivelarsi "impraticabile"? Per quale arcano mistero? Palese più che mai, quindi, il boicottaggio "scientifico". A tutto campo. A tutto spiano. Per screditare e delegittimare il metodo e il suo "autore".
P.S. Abbiamo parlato, all’inizio, di un metodo comunque "storico". A tal proposito vi consigliamo la visione di un film ‘vintage’ (è del 1971) protagonista eccellente Charlton Heston, il mitico Ben Hur stavolta nei panni di un medico che salva l’umanità da una tremenda pandemia. Si tratta di “The Omega Man”, da noi circolato con il titolo “1975: occhi bianchi sul pianeta terra”, tratto dal romanzo ‘I am Legend’ di Richard Matheson. Il protagonista – rimasto miracolosamente, unico uomo sulla terra, indenne dal virus – non riesce a brevettare in tempi rapidi un vaccino e ricorre quindi ad un altro metodo: comincia a trarre dal suo sangue il siero per curare uno, due, dieci pazienti; i quali faranno altrettanto fino a salvare il mondo. Rivedere per credere. O se preferite c’è un’altra pellicola ancor più datata, del ’64, ‘The Last Man on Earth’: lo scienziato protagonista, Vincent Price, “opera una trasfusione del suo sangue nel corpo della donna”: la sua Ruth guarisce e il miracolo comincia.
LO PNEUMOLOGO ACCUSA: BIG PHARMA CONTRO IL PLASMA IPERIMMUNE. Mario Avena su La Voce delle Voci il 7 Maggio 2020.
Viaggiano tra i social ma non trovano spazio sui media di regime le notizie sulle cure a base di plasma iperimmune sperimentate fino ad oggi con efficacia all’Ospedale Carlo Poma di Mantova da Giuseppe De Donno, il direttore della Pneumologia all’Unità di Terapia intensiva respiratoria. Dopo l’apparizione a Porta a Porta, alcune interviste e quindi il silenzio. Il suo profilo è sparito dai radar di Facebook. E comincia la ridda di voci: a chi dà fastidio la sua voce? Tocca dei grossi interessi o cosa?
A questo punto, ci pare necessario e doveroso riportare le sue ultime dichiarazioni. Ecco quindi i passaggi salienti di un articolo-intervista di Giuliano Balestrieri.
“Ho passato 25 giorni senza dormire. E anche ora quando arrivo a casa non riesco a smettere di pensare agli occhi dei nostri pazienti. Gli occhi dei morti, quelli che non siamo riusciti a salvare, mi accompagnano tutte le notti. Questo è un virus maledetto, in 36 ore ti distrugge. Dobbiamo imparare a conviverci. Ma proprio perché è un virus che ti colpisce duro, alle spalle, non capisco questo accanimento contro la cura al plasma”.
Da inizio aprile al Carlo Poma – scrive Balestrieri – “per lottare contro il coronavirus si sperimenta il plasma iperimmune. Tradotto: tratta i pazienti con il sangue dei contagiati che sono guariti. I numeri della sperimentazione non sono ancora enormi, circa un centinaio, ma nell’ultimo mese l’ospedale non ha avuto decessi tra le persone trattate: solo pazienti migliorati o stabilizzati. ‘Nessuno si è aggravato – sottolinea De Donno – non abbiamo registrato alcun effetto collaterale. Il plasma è sicuro. Non stiamo parlando di una pozione magica. I risultati dello studio stanno per essere pubblicati. A questo punto sarà la letteratura a parlare”.
Scrive il giornalista: “L’idea di usare il plasma, peraltro sostenuta anche da Giulio Tarro, è partita da De Donno e Salvatore Casari, direttore di Malattie infettive a Mantova, poi il protocollo è stato messo a punto da Cesare Perotti e Massimo Franchini, direttori di Immunoematologia e Medicina Trasfusionale a Pavia e Mantova. Il primario di Pneumologia, però, ancora non si capacita degli attacchi arrivati alla sua ricerca da parte della comunità scientifica”.
Il perché di questo ostracismo? “Non lo so, forse perché sono un uomo libero, un medico di campagna che pensa solo a salvare vite umane. Forse il mondo accademico soffre perché la scoperta arriva da un piccolo ospedale e non da qualche rinomato laboratorio. Di certo, se questa cura andrà avanti sarà per merito della rete ospedaliera. Che in Italia resta eccellente. Io non escludo che il plasma si possa utilizzare anche prima dell’insufficienza respiratoria. Negli Stati Uniti stanno pensando di fare dei cicli di plasmaferesi per proteggere il personale medico. Di certo abbiamo aperto una nuova era. Questo è un nuovo modello che potremo utilizzare anche in futuro. A costi estremamente bassi”.
Sulle critiche ricevute dal Mago di Vaccini & Brevetti, Roberto Burioni, così risponde De Donno.
“Burioni si comporta come se avesse la verità in tasca, dicendo che è meglio un farmaco sintetizzato piuttosto che il plasma iperimmune e che secondo lui potrebbe trasmettere malattie, mentre è sicuro grazie ai controlli accurati e meticolosi che facciamo da sempre. Burioni risponderà di quello che dice, ma attaccare la sicurezza del plasma è folle. Fossi il presidente dell’Avis mi vergognerei. E’ inaccettabile che sia intervenuto mettendo in dubbio la nostra sperimentazione quando avrebbe solo dovuto dire con chiarezza che il plasma è sicuro: se inoculiamo un dubbio del genere, le donazioni crollano. E il plasma iperimmune in questo momento è l’arma migliore che possediamo”.
Sul costo della cura De Donno chiarisce: “Per ogni paziente si spendono 82 euro, che sono il costo della sacca, del trattamento in laboratorio del plasma e del personale ospedaliero: più o meno quanto gli integratori per la palestra. Se sono tanti per salvare una vita non ho capito nulla della medicina. Poi, se le case farmaceutiche sono in grado di darci soluzioni migliori in tempi rapidi e a prezzi più bassi, sarei il più felice della terra. Non credo che sintetizzare il plasma in laboratorio sia più economico. Questa è una cura democratica: arriva dal sangue donato dai guariti”.
E sul vaccino? Ecco cosa risponde lo pneumologo mantovano: “Io sono un sostenitore dei vaccini, ma sarà un lavoro lungo. Questo virus muta, ha diversi ceppi. Quello che ha colpito l’Italia non è lo stesso della Cina e nella stessa Lombardia ci sono diversi ceppi, basta vedere come sono i decorsi dei pazienti. A noi serve oggi subito un proiettile da usare per la fase acuta: una cura capace di seguire le mutazioni del virus. Il plasma lo fa. Poi, se dalle case farmaceutiche ne arrivasse uno più economico e più efficace, ne saremmo felici”.
Continua De Donno: “I farmaci per l’artrite sono stati usati senza fiatare. Il plasma, una cura che funziona senza effetti collaterali, è contestato. Forse perché non muove grandi interessi economici. Però tanti ospedali stanno partendo con il nostro protocollo. E’ un buon segnale. Non so perché Burioni sia così negativo, ma di certo ha toppato ogni previsione, fin dall’inizio della pandemia. E purtroppo ha condizionato molte scelte politiche. Noi ospedalieri non cerchiamo notorietà, vogliamo solo salvare vite umane”.
“Era difficile reggere all’urto di un virus così terribile. Ma forse avremmo salvato qualche vita in più se la politica avesse ascoltato di meno gli accademici in televisione e di più gli ospedalieri che facevano le notti in bianco inseguiti dagli occhi dei morti”.
GRUPPO MARCUCCI. LA "VOCE" VINCE IL PRIMO ROUND GIUDIZIARIO. Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci il 5 Luglio 2021. La "Voce" vince il primo round giudiziario contro il gruppo Marcucci che aveva querelato poco più di un anno fa, a giugno 2020, tre nostre inchieste d’un paio di mesi prima e relative soprattutto alla pandemia da Covid-19.
Il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Napoli, Valentina Gallo, ha infatti archiviato la querela presentata dai legali di Paolo Marcucci, amministratore delegato di Kedrion nonchè fratello di Andrea – ex capogruppo del PD al Senato – e Marialina, ex azionista dell’Unità ad inizio anni 2000. Gli articoli, secondo il gip, che ha accolto le tesi del pm, sono perfettamente in linea con le tre regole del buon giornalismo: la notizia deve essere di interesse pubblico, va rispettata la verità dei fatti, gli stessi fatti devono essere esposti entro i limiti della continenza. E la Voce – lo ha stabilito il gip con una ordinanza inappellabile emessa il 6 giugno 2021 – ha rispettato questi tre criteri. Alla Voce non è mai pervenuto il testo della querela: abbiamo solo avuto notizia dell’udienza davanti al gip. Quindi non abbiamo presentato alcuna memoria difensiva. Il pm, perciò, ha chiesto l’archiviazione basandosi unicamente sui nostri articoli e sulla querela dei Marcucci. Per questo motivo ha ancor maggior valore l’ordinanza di archiviazione scritta dal gip Gallo. Ma vediamo adesso di quali articoli si tratta.
L’INTERVISTA SCOOP AL CORSERA
Il primo è del 6 maggio 2020 e vede al centro una lunga intervista rilasciata da Paolo Marcucci al "Corriere della Sera", nel corso della quale il Ceo di Kedrion – la più importante impresa italiana sul fronte degli emoderivati – illustra le ultime performance dell’azienda di famiglia, nata ad inizio anni duemila, e fa riferimento ai rapporti di lavoro intrecciati all’estero. E parla, con dovizia di dettagli, dei rapporti intercorsi anche con la Cina, ed in particolare con imprese del distretto di Wuhan. La Voce ha trovato l’intervista molto interessante, per questo l’ha ripresa nella sua inchiesta, cogliendo tutto l’interesse pubblico (cioè dei cittadini-lettori) a saperne di più sulle ricerche condotte a Wuhan, in quei mesi al centro dell’attenzione mondiale per via delle perplessità legate alla genesi dell’epidemia; e, quindi, di essere informati circa i rapporti di collaborazione scientifica tra aziende italiane e cinesi, soprattutto quelle del distretto di Wuhan. In tempo reale, la Voce ha ricevuto una risentita lettera inviata dall’avvocato Carla Manduchi per conto di Paolo Marcucci, in cui veniva stigmatizzato il contenuto dell’articolo e venivamo accusati senza mezzi termini di aver costruito un collegamento tendenzioso tra Kedrion e il laboratorio di Wuhan finito nell’occhio del ciclone. A questo punto la Voce ha pubblicato, sempre in "tempo reale", sul suo sito la lettera dell’avvocato Manduchi e una nostra risposta, nella quale sottolineavamo che la clamorosa notizia era stata fornita da Paolo Marcucci in persona nell’intervista al Corserae noi non avevamo fatto altro che riportarla, con qualche ovvio, più che fisiologico commento. Concetto che il direttore della Voce ha ribadito nel corso dell’udienza che si è svolta davanti al gip Gallo: la notizia era vera, d’interesse pubblico ed esposta in modo "contenuto".
IL BUSINESS DEL PLASMA IPERIMMUNE
Il secondo articolo querelato era incentrato sulla questione, di forte attualità un anno fa, del "plasma iperimmune". Una vicenda balzata alla ribalta della cronaca in piena pandemia, e riguardante una tecnica innovativa per fronteggiare il contagio, sperimentata con successo da un medico padovano. A questo punto fioccano gli interrogativi sul ricorso più massiccio a quella tecnica, e la cosa finisce anche tra le aule parlamentari. E viene affrontata nel corso di una riunione in Commissione al Senato, alla quale partecipa anche Paolo Marcucci che, in qualità di amministratore delegato di Kedrion, illustra i vantaggi che possono derivare da un processo ‘industriale’ relativo al plasma iperimmune. Scoppiano le polemiche, alimentate soprattutto da un reportage al calor bianco delle ‘Iene’ che attaccano frontalmente il gruppo Marcucci, accusandolo di voler speculare sulla cosa, facendo lievitare a dismisura il prezzo di una tecnica altrimenti molto economica (circa 80 euro a trattamento). La Voce viene querelata dai Marcucci per aver accostato il nome dei due Marcucci: uno, potente capogruppo del Pd al Senato, l’altro al timone di Kedrion. E per aver dato spazio alle pesanti accuse lanciate dalle Iene.
ARTICOLI VOLATILIZZATI
Passiamo al terzo articolo querelato. Che vede al centro una denuncia di hackeraggio presentata dalla Voce alla stazione di polizia Napoli-Pianura. Il contenuto è presto spiegato. Chiunque voglia trovar traccia sul sito internet della Voce, ad esempio, dell’articolo su Wuhan appena descritto, farà un buco nell’acqua. Così come non troverà altri 4 articoli contestati dai Marcucci e di cui faremo cenno in seguito. Da qui è nata, un anno fa, la nostra denuncia in polizia, una denuncia di hackeraggio contro ignoti: perché, appunto, risultavano spariti dal nostro sito (e dall’archivio del sito) alcuni articoli che riguardavano il gruppo Marcucci. Anche quell’articolo è stato querelato, ma è ancora presente sul sito. A questo punto vediamo cosa scrive il gip nella sua ordinanza di archiviazione del 7 giugno.
LA PAROLA AL GIP
“Il presente procedimento trae origine dalla integrazione di denuncia-querela presentata il 24.6.2020 da Marcucci Paolo che, in qualità di rappresentante della "Kedrion Spa", lamentava la pubblicazione, a far data dal 6.5.2020, sul sito web "La Voce delle Voci", il cui direttore responsabile è l’odierno indagato Cinquegrani Andrea, di taluni articoli ritenuti diffamatori in quanto lesivi della sua reputazione”. “Specificamente, secondo il denunciante, negli articoli in questione si affermerebbe che la società Kedrion, attiva nel settore degli emoderivati, avrebbe delle illecite connivenze con i laboratori cinesi di Wuhan, sospettati di aver agevolato la diffusione del Covid 19 e, ancora, che la società e la famiglia Marcucci sarebbero stati pronti ad approfittare dell’epidemia per guadagnare con l’affare del plasma iperimmune. Ritiene, inoltre, il querelante che l’articolista abbia offeso la sua reputazione riferendo di rapporti opachi tra i Marcucci e la politica, sussistendo una situazione di conflitto d’interessi in capo a Marcucci Andrea”. “Ciò posto, con riferimento alle esternazioni ritenute offensive in relazione alle quali veniva esercitata l’azione penale, con citazione a giudizio versata in atti, nell’ambito del procedimento penale n.9713/20 RGNR, sussiste l’improcedibilità per il principio del ne bis in idem”. Si tratta, in sostanza, di un altro filone processuale, riguardante altri 4 articoli querelati, che avrà inizio, sempre al tribunale di Napoli, il prossimo settembre. Continua il gip: “Per quanto concerne le frasi, nonché le immagini pubblicate negli articoli sul web, ritenute diffamatorie, si condividono le argomentazioni presentate dal P.m. in ordine alla sussistenza, nel caso in specie, dell’esimente del diritto di cronaca”. “Ed infatti le esternazioni del commentatore, lungi dal costituire un gratuito attacco alla reputazione del querelante, appaiono essere, piuttosto, delle considerazioni dell’articolista che, nel riportare talune notizie, sollevava delle perplessità in ordine all’operato dell’azienda, attiva nel mercato degli emoderivati”. “Il limite alla configurabilità dell’esimente è rappresentato, come è noto, dalla correttezza della forma espositiva in quanto la critica deve essere strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione, senza sfociare nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione. Rispettato tale limite, non è vietato neppure l’utilizzo di termini che, sebbene offensivi, abbiano il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tener conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato (tra le tante, Cassazione Penale, sentenza n.17243 del 19/2/2020)”. Prosegue l’ordinanza: “Ebbene, il tenore delle espressioni pubblicate appare, nel caso in specie, rispettoso del limite della continenza, non essendo state proferite parole in sé oggettivamente offensive della reputazione del legale rappresentante della Kedrion nè della famiglia Marcucci ed apparendo le stesse strettamente correlate alle notizie riportate negli articoli ed alle riflessioni svolte dal giornalista”. “Anche con riferimento al lamentato ‘fotomontaggio’ ritenuto offensivo in quanto accostava il logo aziendale all’immagine di alcune persone con tratti somatici asiatici che indossavano mascherine protettive, appare evidente, dalla lettura dell’articolo, che il giornalista abbia riportato la notizia di una collaborazione con laboratori aventi sede nell’area di Wuhan, da dove è partito il virus e non anche che, come lamentato dal querelante, la società fosse in qualche modo coinvolta in tale ipotizzata diffusione del virus”. “Ancora, in relazione all’esternazione del sospetto di un possibile conflitto di interessi in capo a Marcucci Andrea, essa non appare offensiva della reputazione dell’opponente, richiamando il giornalista l’attenzione sui rapporti di quest’ultimo con forze politiche, nel rispetto dei limiti della verità e della continenza”. Così si avvia alla conclusione il gip del tribunale di Napoli: “Pertanto, ritenendosi rispettati i limiti oggettivi della scriminante del diritto di critica, in relazione a tutte le esternazioni contenute negli articoli, non coperte dall’atto di esercizio dell’azione penale, non si ravvisano fatti per i quali possa validamente sostenersi l’accusa in giudizio. Né appare utile lo svolgimento di ulteriori attività investigative considerato che la ricostruzione della vicenda, dal punto di vista fattuale, può dirsi esaustiva e non essendo stati prospettati ulteriori temi di indagine non vagliati dall’Ufficio di Procura e meritevoli di approfondimento”. “Pertanto, condividendosi le argomentazioni addotte dal P.m., deve disporsi l’archiviazione del procedimento”. Come abbiamo detto prima, un altro filone andrà a giudizio a metà settembre prossimo. Riguarda 4 inchieste pubblicate dalla Voce (ma sparite dal sito) sempre nei mesi bollenti dell’inizio della pandemia e querelate dai tre fratelli Marcucci (Andrea, Paolo e Marialina) e dalla madre, Iole Capannori, consorte del patriarca Guelfo Marcucci. Le inchieste toccavano anche le vicende legate alla strage del "sangue infetto". Vicende che hanno avuto un iter processuale per la bellezza di vent’anni: un iter partito nel 1998 a Trento e infine approdato a Napoli. Dove il processo è durato tre anni esatti e si è concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati, tra i quali l’ex re Mida della Sanità e direttore generale al ministero, Duilio Poggiolini, e diversi ex dirigenti e funzionari del gruppo Marcucci. “Il fatto non sussiste”.
Così il business del plasma finisce in mano al senatore Pd. Felice Manti Edoardo Montolli il 20 Maggio 2020 su Il Giornale. La Kedrion della famiglia Marcucci mette a disposizione i propri stabilimenti per produrre sangue iperimmune. Arriva il plasma iperimmune industriale. A produrlo sarà l'azienda di famiglia di un senatore Pd. Grazie a una sperimentazione partita con l'ok del governo, di cui l'esponente dem ha un ruolo di primissimo piano. Ma prima bisogna fare un passo indietro. E spostarci all'ospedale Poma di Mantova. Dove chi si è ammalato di coronavirus e si è visto trasfondere il plasma iperimmune non muore più da un mese e mezzo. Nessun effetto collaterale. È il risultato della sperimentazione portata avanti con il San Matteo di Pavia (su 48 pazienti). Pioniere lo pneumologo Giuseppe De Donno. All'inizio qualcuno lo fa passare per matto («Mi hanno dato del demente», dirà). Baruffe tra scienziati, come quando in tv un collega dice che è una terapia costosa e pericolosa. E quando De Donno salva la ventottenne Pamela Vincenzi, incinta di sei mesi, i Nas vanno a chiedergli spiegazioni. Luigi invece ha 51 anni ed è dato già per morto a Bergamo. De Donno lo sottopone a plasmaterapia su richiesta diretta del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: si risveglia dal coma e torna a vivere. Si salva anche un terzo paziente nonostante l'agammaglobulinemia: non produceva anticorpi eppure è vivo. Mondo politico e comunità scientifica capiscono che la sperimentazione può dare buoni frutti. E qui succede l'impensabile. L'Istituto Superiore di Sanità fa partire una sperimentazione nazionale. Il capofila ideale è Mantova ma viene scelta Pisa, che ha guarito due pazienti: «Non hanno nemmeno atteso i miei risultati» dirà De Donno. Al protocollo aderiscono quattro Regioni, tutte a guida Pd. Tu chiamale, se vuoi, coincidenze. Il 15 maggio nasce il comitato scientifico: 13 esperti, da Reggio Emilia a Catania, dall'Aifa al Centro nazionale del sangue. De Donno no, sbotta e parla di scelte politiche. E il governatore della Toscana Enrico Rossi annuncia querela. Giovedì scorso De Donno è atteso in streaming alla commissione Sanità del Senato. Deve parlare di quanto sia gratuito il plasma e di come una persona guarita da coronavirus possa salvarne 2 (con una sacca da 82 euro). Prima deve intervenire Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria. Che presto cede la parola al toscano Paolo Marcucci, che non era atteso. È l'amministratore delegato di Kedrion Biopharma, colosso dei plasmaderivati con un fatturato da 687 milioni di euro: «Lavoriamo a fianco del Centro nazionale del sangue contro il contagio». L'azienda ha fornito gratuitamente la strumentazione e i kit di consumo per l'inattivazione virale del plasma e accompagna tutte le sperimentazioni in corso sul plasma iperimmune. Ma Marcucci spiega la seconda fase: Kedrion metterà a disposizione il proprio stabilimento di Napoli per raccogliere il plasma dei donatori italiani e trasformarlo, in «conto lavorazione» in plasma iperimmune industriale utilizzabile nei quattro anni successivi: «Così si eviterà di eseguire l'inattivazione virale nei singoli centri che è un'inattivazione comunque artigianale, costosa e adatta solo alla sperimentazione». Peccato sia esattamente il contrario di quanto sosterrà poco più tardi lo pneumologo mantovano. Lo abbiamo cercato, De Donno. Non ci ha risposto. Aggiunge Marcucci anche che è prevista una terza fase: la produzione di gammaglobuline imperimmuni con l'israeliana Kamada, con cui è d'accordo da aprile. Prime consegne per ottobre. Insomma, il plasma donato gratuitamente dai convalescenti italiani diventerà un prodotto industriale di un'azienda privata che, evidentemente, non lavorerà gratis. Ci sta che il manager dell'azienda privata ne parli a sorpresa in un'audizione al Senato. Ma il diavolo si nasconde nei dettagli. L'ad di Kedrion è Paolo Marcucci, fratello di Andrea Marcucci, capogruppo in Senato del Pd, esattamente come è del Pd la regione cui è stata affidata la sperimentazione nazionale. Con il beneplacito dell'Iss. Senza dire neanche grazie a De Donno. È come se ai tempi del governo Berlusconi lo Stato avesse assegnato a una multinazionale in mano alla famiglia di un senatore di Forza Italia un affare miliardario. Ma i conflitti d'interesse, si sa, può evocarli solo la sinistra o i grillini. Ai tempi del governo gialloverde si chiamano coincidenze. Felice Manti.
Il business del plasma e il senatore Pd. Lo strano silenzio del governo. Giuseppe De Lorenzo il 21 Maggio 2020 su Il Giornale. L'interrogazione leghista sul caso plasma iperimmune: "Dal ministero arrivano 'non risposte'". Silenzio di tomba sulla Kedrion Biopharma. Anche gli stolti sanno che un politico si vede da ciò che tace, più che da quel che dice. Ne deve sapere qualcosa Sandra Zampa, sottosegretaria del Pd al ministero della Salute, che oggi si è presentata in commissione Affari Sociali alla Camera per un importante Question Time: avrebbe dovuto chiarire i tanti dubbi che ruotano intorno al plasma iperimmune contro il Covid-19, sopratutto sul coinvolgimento dell'azienda di famiglia del collega di partito Andrea Marcucci, come rivelato in esclusiva da ilGiornale. E invece ha lasciato di stucco i presenti, ignorando del tutto il tema più scottante. Facciamo qualche passo indietro. Ormai da tempo il Policlinico San Matteo di Pavia e il Carlo Poma di Mantova stanno sperimentando su 49 pazienti Covid la cura con il plasma iperimmune. I risultati sono incoraggianti, e lo pneumologo Giuseppe De Donno lo va ripetendo da tempo. "È l’unico farmaco ed è molto più potente di un vaccino", assicura lui. "All’inizio la mortalità era tra il 13 e il 15% – gli fa eco il collega Fausto Baldanti da Pavia – mentre con la cura del plasma iperimmune è scesa al 6%". Qualcuno, tra cui il telegenico Burioni, non dà molto credito ad una sperimentazione da lui considerata pericolosa e pure costosa. Ma si tratta di scaramucce tra scienziati. Quel che conta è che a un certo punto, un po' a sorpresa, l’Istituto superiore di sanità avvia un progetto intitolato "Tsunami" proprio sul plasma anti-Covid. Bene, direte. Certo. Solo che invece di selezionare lo studio dell'ospedale di De Donno, decide di sceglie quello dell'azienda ospedaliera universitaria di Pisa. Scatenando inevitabili polemiche. Nel marasma delle liti tra medici e scienziati, s’insinua però anche la questione più succulenta. Giovedì scorso in commissione Sanità al Senato a sorpresa viene invitato a parlare Paolo Marcucci, che oltre ad essere amministratore delegato di Kedrion Biopharma, colosso dei plasmaderivati, è anche accidentalmente il fratello di Andrea, capogruppo a Palazzo Madama del Pd. In audiozone l'ad si spinge a mettere "a disposizione il nostro stabilimento di Sant’Antimo a Napoli" per "raccogliere il plasma dei donatori italiani e in conto lavorazione restituirlo standardizzato a titolo di anticorpi". Un modo, dice il fratello del senatore dem, per "evitare di eseguire l'inattivazione virale” in modo "artigianale" nei singoli centri, riducendo così i costi, in vista della fase 2: la produzione industriale insieme all'israeliana Kamada. A quel punto, per fare un po' di luce sulla vicenda, la Lega presenta un'interrogazione a risposta immediata rivolta al ministero della Salute. Vuole, o meglio vorrebbe sapere non solo le "ragioni per le quali fra i componenti del comitato scientifico con compiti di supervisione non vi sia menzione dei medici dell’Ospedale di Mantova" (tra cui De Donno). Ma anche se "trovino conferma" le notizie sul fratello di Marcucci e i suoi "interessi collegati alla sperimentazione con il plasma nazionale". La risposta del ministero dice poco, ma non tutto. Spiega che la selezione del progetto Tsunami di Pisa è dovuta al fatto che "era l'unico protocollo italiano attivato con un disegno di studio randomizzato controllato, multicentrico, che potesse consentire, con opportuno rigore metodologico, di valutare l'efficacia e la sicurezza della terapia con plasma". Dice inoltre che i promotori sono l'Iss e l'Aifa, che sono rappresentate anche altre Regioni (e non solo quelle di centrosinistra), che il Comitato scientifico è stato composto "coinvolgendo i massimi responsabili delle istituzioni del Ssn" e che "su specifico invito del direttore generale dell’Aifa" è stato incluso pure De Donno. Bene, o quasi. La risposta letta dalla Zampa sarà pure corposa. Ma glissa sui punti focali. Marcucci? Nulla. L'azienda di famiglia? Nisba. La produzione industriale di plasma iperimmune? Nada. "Sull'opportunità di coinvolgere l'azienda del fratello del capogruppo Pd - attacca la Lega - dal governo arrivano 'non risposte' e rimangono tanti punti interrogativi. Ci aspettiamo ulteriori chiarimenti".
Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano nel Mediterraneo. Poi nel 2020 insieme ad Andrea Indini ho dato alle stampe Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni)
Plasma iperimmune: il ruolo di Kedrion, la società della famiglia del senatore Marcucci (Pd). L’azienda: “Nessun conflitto d’interessi”. Se i risultati continueranno a essere promettenti e con l’assenso dell’Aifa, si potrebbe arrivare a produrne in quantità industriale per almeno 4 anni. Il nuovo business, con ogni probabilità, sarà in mano alla Kedrion Biopharma, colosso dei plasmaderivati di proprietà della famiglia Marcucci: l’amministratore delegato è Paolo Marcucci, fratello maggiore del senatore e capogruppo Pd Andrea, che è consigliere. La società: "Nessun supporto politico per lo sviluppo del progetto". Giacomo Salvini su Il Fatto Quotidiano il 20 maggio 2020. Se i risultati continueranno a essere promettenti e con l’assenso dell’Aifa, anche la terapia del plasma potrà avere la sua Fase 2. Obiettivo? Produrne in quantità industriale per almeno quattro anni. E con ogni probabilità il nuovo business sarà in mano alla Kedrion Biopharma, colosso dei plasmaderivati con un fatturato annuo di circa 800 milioni, di proprietà della famiglia Marcucci. L’amministratore delegato è Paolo Marcucci, fratello maggiore del senatore e capogruppo Pd Andrea, che a sua volta è consigliere di amministrazione di Kedrion con funzione di supervisione sugli Stati Uniti. La notizia è stata anticipata domenica da Il Giornale dopo l’audizione, non prevista, dell’amministratore delegato e presidente dell’azienda Paolo Marcucci. Contattata dal Ilfattoquotidiano.it la Kedrion spa ha respinto qualsiasi accusa di possibile conflitto d’interessi: “Nessun supporto politico è richiesto per lo sviluppo di questo importante progetto”. La terapia del plasma – Da diverse settimane il Policlinico San Matteo di Pavia e il Carlo Poma di Mantova hanno avviato e chiuso una prima fase di sperimentazione su 49 pazienti Covid che, secondo il direttore dell’unità di virologia di Pavia Fausto Baldanti sta dando risultati promettenti: “All’inizio la mortalità era tra il 13 e il 15% – ha spiegato – mentre con la cura del plasma iperimmune è scesa al 6%”. Al momento, nonostante i buoni risultati della ricerca che martedì è stata estesa anche a 120 ospiti delle case di riposo di Mantova mentre Lombardia e Veneto stanno facendo partire chiamate per i guariti per creare delle banche dati di plasma, si aspetta la pubblicazione sulla rivista scientifica Jama che dovrebbe avvenire a breve. Nel frattempo, una settimana fa, l’Istituto Superiore di Sanità e l’Aifa hanno deciso di designare l’azienda ospedaliera universitaria di Pisa come capofila del progetto dopo averlo testato su due pazienti con ottimi risultati: è stato scelto il progetto “Tsunami” del professor Francesco Menichetti, direttore di malattie infettive a Cisanello (Pisa). Per questo nei giorni scorsi è esplosa la polemica con lo pneumologo di Mantova Giuseppe De Donno che non ha preso bene la designazione della città toscana: “Pisa non sa neanche cos’è il coronavirus”, ha detto. In audizione al Senato poi De Donno ha fatto un riferimento al fatto che la decisione di assegnare il progetto a Pisa dipenda da una questione politica (la Toscana è governata dal centrosinistra, al contrario della Lombardia): “La scienza non può avere colori”, ha sostenuto. Il governatore Enrico Rossi ha minacciato di querelarlo e il primario ha replicato che così “è la a politica che vuole ammutolire la scienza”. A questo, due giorni dopo, si aggiunge il fatto che tra i 13 membri del Comitato scientifico sul progetto Tsunami ci siano molti medici di tutta Italia ma nessuno del Poma di Mantova dove era partita la sperimentazione. Plasma prodotto industriale – Nella stessa audizione al Senato di giovedì scorso in commissione Igiene e Sanità del Senato, l’intervento di De Donno è stato preceduto dal presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi che alla fine del suo discorso lascia inaspettatamente la parola a Paolo Marcucci, fratello di Andrea il cui intervento non era previsto dai lavori. Marcucci dice che in questo periodo “l’azienda ha fornito gratuitamente i kit necessari per l’inattivazione virale del plasma” accompagnando “tutte le sperimentazioni in corso sul plasma iperimmune” a partire proprio dal San Matteo di Pavia al progetto Tsunami. Poi l’ad di Kedrion spiega la cosiddetta Fase 1 della terapia: “Gli esiti della sperimentazione si annunciano promettenti – dice – e le Regioni stanno avviando campagne di arruolamento per avere scorte di plasma”. Poi, ed è qui che arriva il colpo a sorpresa, Marcucci descrive la seconda fase che, con l’assenso dell’Aifa, potrebbe far capo alla sua azienda, ovvero quella della produzione industriale: “Mettiamo a disposizione il nostro stabilimento di Sant’Antimo a Napoli – continua il fratello del senatore dem – raccogliere il plasma dei donatori italiani e in conto lavorazione restituirlo standardizzato a titolo di anticorpi”. Secondo Marcucci al momento questo processo potrebbe portare alla produzione di plasma per quattro anni “così da evitare di eseguire l’inattivazione virale nei singoli centri: un processo artigianale, costoso e ancora in fase di sperimentazione”. De Donno in realtà da settimane sostiene che la terapia non sia per niente costosa, come sostenuto anche dal virologo Roberto Burioni: “82 euro a sacca, se questo vi sembra troppo per salvare una vita umana…”, va dicendo lo penumologo mantovano. L’idea di Marcucci, comunque, è che “dopo aver lavorato con Regione Lombardia, Veneto, Toscana e Campania, l’auspicio è che il progetto possa diventare nazionale”. Ma l’ad di Kerion non si ferma alla Fase 2 e individua anche un processo successivo che si concluderà con un prodotto industriale entro sei mesi: grazie alla partnership siglata ad aprile con l’azienda israeliana di biotecnologie Kamada, sarà possibile isolare le gammaglobuline. Le prime consegne potrebbero partire addirittura in ottobre. Contattata da Ilfatto.it, la Kedrion spa ha confermato il progetto: “Kedrion da tempo produce a Sant’Antimo plasma inattivato di grado farmaceutico, un prodotto utile e che può essere conservato a lungo – fanno sapere dall’azienda – e, come crediamo, il plasma iperimmune da pazienti convalescenti Covid sarà uno strumento terapeutico efficace, Kedrion è in grado di inattivare industrialmente anche questo tipo di plasma”. Dall’azienda di Barga, nel Lucchese, spiegano anche che il plasma iperimmune proverrà dai centri di raccolta all’ estero e anche di quello del sistema trasfusionale di proprietà delle Regioni: il tutto ovviamente previa autorizzazione del Sistema sanitario nazionale. “La produzione di plasma inattivato iperimmune italiano avverrà, se le autorità decideranno di utilizzare questo servizio, attraverso un servizio conto lavorazione e il plasma resterà di proprietà pubblica”, ha concluso un portavoce dell’azienda.
De Donno torna in video e sbugiarda i complottisti del plasma: ecco i motivi della sua ‘scomparsa’. Redazione su Il Riformista l'8 Maggio 2020. Giuseppe De Donno non è stato ‘censurato’ da poteri forti, Big Pharma o dal governo per favorire il vaccino di Bill Gates. La teoria del complotto che ha invaso i social network, in parte cavalcata dalla Lega e da Matteo Salvini, è stata smentita dallo stesso pneumologo dell’ospedale Carlo Poma di Mantova, al centro del dibattito per la terapia sperimentale col plasma per curare i pazienti affetti da Coronavirus.
De Donno era infatti scomparso dai social il 6 maggio, col profilo Facebook disattivato che aveva dato il via a ipotesi complottistiche sulla ‘censura’. Oggi il medico è tornato a farsi vivo con un video di circa cinque minuti in cui spiega cosa è successo in queste 48 ore. Lo pneumologo spiega già dai primi secondi del filmato perché si è allontanato dal mondo social, ricordando come “nei giorni scorsi la pressione mediatica e popolare sul mio operato è stata tale da non permettermi di operare serenamente, soprattutto nell’ambito della sperimentazione del protocollo implementato insieme ai colleghi di Pavia, del San Matteo di Pavia”. Per questo De Donno ha reputato “prudente” chiudere i suoi profili, una scelta “per lanciare un messaggio di calma, un messaggio di rasserenazione. Se ho parlato e sono intervenuto in pubblico l’ho fatto semplicemente per fare informazione e vedo però che l’informazione è stata recepita da alcuni come mezzo per azzuffarsi con chi la pensa diversamente”. De Donno, che in queste settimane ha visto crescere una ‘fan base’ molto aggressiva sui social, purtroppo piena di personaggi complottisti, ha voluto sottolineare che “a differenza di come può pensare qualcuno, non utilizzo mai i morti per farmi pubblicità, questa è una speculazione che non accetterò mai”. Il medico del Carlo Poma di Mantova rivendica quindi i risultati ottenuti dalla terapia col plasma: “Lunedì un’importante rivista scientifica sottometterà il nostro lavoro, analizzerà i nostri risultati, ci dirà se il lavoro che abbiamo compiuto è un lavoro degno di essere pubblicato su riviste di elevato impact factor, cioè di riviste importanti, di riviste cioè che fanno letteratura”. Moltissimi, spiega De Donno, sono gli ospedali che hanno preso esempio dalla sperimentazione: “L’ospedale Pavia, Crema e Cremona son partite anche loro, Milano è partita anch’essa arruolando pazienti, così stanno facendo la Valle d’Aosta e il Piemonte, così sta facendo la Toscana, così sta facendo la Puglia, così sta facendo la Calabria”.
Coronavirus e plasma iperimmune: il mondo ne parla, in Italia fioccano le polemiche. Le Iene News il 13 maggio 2020. Alessandro Politi e Marco Fubini tornano a parlarci della possibile terapia con il plasma iperimunne, affrontando le critiche che vengono mosse da molti esperti in Italia. Mentre nel resto del mondo il protocollo su cui si lavora a Pavia, Mantova e ora anche Padova viene studiato con interesse. E intanto il governatore del Veneto Zaia si porta avanti. Alcide ha 81 anni, e ha rischiato di morire per il coronavirus. Oggi, dopo esser stato trattato con il plasma iperimmune, sta meglio: “Ero un mezzo cadavere”, dice ad Alessandro Politi. Ma dopo il plasma “ho sentito questa spinta interna, il corpo ce la fa. Quando si comincia a mangiare e aver voglia di vivere è una cosa meravigliosa”. Alessandro Politi e Marco Fubini ci hanno portato a conoscere la possibile terapia con il plasma iperimmune per combattere il coronavirus, che gli ospedali di Mantova, Pavia e adesso anche Padova stanno testando con risultati finora incoraggianti. E la notizia della sperimentazione ha fatto il giro del mondo. Negli Stati Uniti la terapia viene adesso testata in 116 università. In Italia però molti esperti sono scettici, sostenendo che “i plasmi non sono un farmaco ideale, sono difficili e costosissimi da preparare”. E’ davvero così? “Tutti i servizi trasfusionali sono attrezzati per la raccolta del plasma, non è difficile da preparare”, ci dice la dottoressa Giustina De Silvestro, dell’azienda ospedaliera di Padova. “Una sacca di plasma costa intorno agli 80 euro”, aggiunge il professore di pneumologia a Padova Andrea Vianello. “Con tre somministrazioni siamo intorno ai 300 euro complessivi. I farmaci antivirali possono arrivare a costare anche 4, 5 o 6 volte di più”. “Al momento non c’è nessuna evidenza, né per i farmaci né per il plasma”, specifica Giustina De Silvestro. “Le consideriamo tutte terapie che possono contribuire all’evoluzione benigna delle malattie”. Ma il plasma iperimmune è sicuro? “Una delle caratteristiche è la sicurezza”, ci spiega Andrea Vianello. “Non è noto per causare importanti effetti collaterali. Lo possono ricevere tutti, salvo che non ci siano controindicazioni specificatamente legate al soggetto”. C’è anche un’altra critica mossa da molti esperti, tra cui il professor Burioni: “Questi plasmi si basano sulla disponibilità di persone guarite che abbiano questi anticorpi, che non sono tantissime”. I guariti in Italia oggi sono oltre 100mila, i malati ospedalizzati poco più di 13mila di cui mille in terapia intensiva. A conti fatti, ci sono quasi dieci potenziali donatori per ogni paziente in ospedale. Non tutti comunque hanno un plasma con alti livelli di anticorpi, solo un 60/80% ha un plasma utile: un numero comunque elevato. Negli Stati Uniti da poche settimane è partita una sperimentazione con il plasma, che coinvolge 7mila malati trattati in 2.178 ospedali. “Sono tutti pazienti trattati in forme severe o gravi, che hanno bisogno di ossigeno o intubati“, ci dice il professor Alessandro Santin dell’università di Yale. E il dipartimento della Salute “ha contattato la Croce rossa americana chiedendo la raccolta e la distribuzione del plasma iperimmune e renderlo disponibile a tutti gli ospedali americani”. E sentendo le parole del professor Santin verrebbe da pensare che il problema della disponibilità del plasma dipende dalla raccolta, non dal numero dei donatori. E gli Stati Uniti, dove essenzialmente non c’è un sistema sanitario pubblico, hanno deciso di investire soldi pubblici in questa ricerca. “Quello che abbiamo visto fino a oggi è estremamente confortante”, ci dice ancora Santin. “Ma è solo quando riusciremo a confrontare tutti i pazienti con quelli che hanno ricevuto solo le terapie di supporto” che si riuscirà a capire “quanto il plasma aggiunge in termine di efficacia terapeutica”. Intanto, dopo la messa in onda del primo servizio sul plasma iperimmune, qualcuno fa una segnalazione ai Nas che intervengono per verificare come viene fatta la sperimentazione. Il professor Giuseppe De Donno viene attacca da molti esperti, e nel frattempo lui stesso oscura le sue pagine. Dopo qualche giorno riappare e dice: “Non sono disponibile in questo momento a risse televisive, a zuffe mediatiche con questo o quello collega, atteso che essendo noi tutti medici lavoriamo per una causa unica: la lotta al coronavirus”. E ci tiene a ricordare che il protocollo di ricerca “è stato preso come esempio da molti Stati europei e americani”. Mentre ci si azzuffa sull’efficacia e convenienza della terapia con il plasma iperimmune, c’è chi porta avanti: il governatore del Veneto Luca Zaia. “Se verrà confermato che il plasma funziona, tutti si gireranno verso le emoteche e diranno: il sangue dov’è? Noi quindi ci portiamo avanti”. Il Veneto ha infatti deciso di creare la più grande banca del sangue per raccogliere il plasma dei guariti dal coronavirus. Potete ascoltare le parole del governatore Zaia nel servizio qui sopra. “Dico a tutti i colleghi: accumulate sacche di sangue. Anche se dimostrassero che il plasma non funziona, si può utilizzare per altro”. E pochi giorni fa, su Nature, è uscito questo articolo: “Plasma di convalescenti, trattamento di prima scelta per il coronavirus”. Da tutta Italia ci hanno scritto persone guarite che vorrebbero donare, ma nelle loro regioni non ci sono ancora i centri per la raccolta del plasma iperimmune: cosa stiamo aspettando?
Plasma-terapia: così il salentino De Donno ha curato a Mantova 80 pazienti. Trnews.it il 4 Maggio 2020. Impiegando il plasma dei soggetti affetti da Covid ormai guariti, ha trattato più di 80 dei suoi pazienti con gravi problemi respiratori, evitando loro la morte. Giuseppe De donno, medico originario di Maglie, è alla guida del Reparto di Pneumologia dell’Ospedale Carlo Poma di Mantova. Questa terapia sperimentale, sulla quale parte del mondo scientifico invita ad andarci cauti, è stata messa in pratica proprio da lui, partendo dalla scoperta dei direttori di Immunologia e Medicina Trasfusionale di Pavia e Mantova: i primi ad accorgersi che il sangue dei guariti avrebbe potuto aiutare il resto degli ammalati alle prese, ancora, con il coronavirus. Risultato: i pazienti con più sintomi, in poche ore, si sono ritrovati senza febbre, tosse e difficoltà respiratorie. La sperimentazione è stata già avviata al Policlinico di Bari. Oltre al plauso del sindaco di Maglie, il primario salentino nelle scorse ore è stato contattato anche dall’ONU: “Da parte della comunità scientifica internazionale -ha detto De Donno – è stato manifestato grande interesse a conoscere i risultati del nostro studio”. Non solo. Una seconda chiamata è arrivata direttamente da un consigliere del Sottosegretario alla Salute, che ha spiegato come anche negli Stati Uniti si guardi con molto interesse alla terapia e ferve l’attesa per i risultati della sperimentazione condotta, appunto, a Mantova e Pavia. A dimostrazione dell’interesse degli Usa verso la terapia del plasma ci sono le decine di sperimentazioni avviate nell’ultimo mese. Addirittura si sta percorrendo la via del plasma anche come profilassi per le persone più esposte al virus, come i sanitari. In Italia, invece, le cose non filano proprio così lisce. Nei giorni scorsi, ad esempio, il primario salentino è stato contattato telefonicamente dai Nas, venuti a conoscenza della terapia al plasma applicata, eccezionalmente, su una donna incinta che, viceversa, avrebbe rischiato la sua vita e quella del bambino. Sebbene quotidianamente alle prese con diffidenza e lungaggini burocratiche, il primario salentino rassicura: “Non ci lasceremo sfiduciare”.
Covid, primario salentino a Mantova: “Il plasma dei guariti funziona”. Giuseppe De Donno, 53enne pneumologo di Morigino di Maglie: “A Mantova abbiamo creato una banca del plasma. Creandone altre in giro per l’Italia riusciremo ad arginare un’eventuale seconda ondata”. Il Gallo il 4 Maggio 2020. La terapia basata sul plasma iperimmune prelevato dai pazienti con Covid-19 si sta rivelando efficace. Lo ha spiegato primario del Reparto Pneumologia dell’Ospedale Carlo Poma, Giuseppe De Donno, che, per inciso è salentino, originario di Morigino di Maglie. Tra Mantova e Pavia sono stati trattati quasi 80 pazienti con gravi problemi respiratori, nessuno dei quali è deceduto. “La mortalità del nostro protocollo finora è zero”, ha sottolineato il 53enne pneumologo magliese, “a Mantova abbiamo creato una banca del plasma. Creandone altre in giro per l’Italia riusciremo ad arginare un’eventuale seconda ondata”.
“La richiesta di autorizzazione al comitato etico ci fa perdere tempo prezioso”. Sono stati arruolati dei volontari donatori di plasma tra persone già guarite dal coronavirus (per accertare la guarigione, gli esperti li hanno sottoposti a due tamponi sequenziali): “I donatori guariti”, ha spiegato in un’intervista radiofonica il dott. De Donno, “donano 600ml di sangue. Tratteniamo quindi il liquido che ha come caratteristica fondamentale la concentrazione di anticorpi, tra cui quelli contro il coronavirus”, ha aggiunto De Donno. Prima di procedere, però, gli esperti devono chiedere ogni volta l’autorizzazione al Comitato etico. “Si tratta di un impedimento enorme, perché ci fa perdere tempo prezioso per salvare le persone”, ha commentato il luminare salentino, “il plasma può essere congelato e durare fino a sei mesi in stoccaggio: questo ci ha portato a creare una banca del plasma a Mantova. Riusciamo anche ad aiutare altri ospedali che ci stanno chiedendo aiuto”. Per illustrare meglio quanto possa essere efficace il trattamento col plasma, De Donno ha raccontato di Francesco, un ragazzo di 28 anni ricoverato in terapia intensiva: “Le sue condizioni si sono aggravate lo scorso venerdì. Dopo aver ricevuto l’autorizzazione del Comitato Etico, l’abbiamo trattato col plasma iperimmune. Dopo 24 ore era già sfebbrato e stava bene. Da poco lo abbiamo svezzato dal ventilatore. È un ragazzo arrivato qui senza altre patologie: doveva essere intubato e invece tra due giorni potremo restituirlo ai suoi genitori”. Francesco non è l’unico: circa un centinaio di pazienti con coronavirus sono guariti grazie alla cura col plasma iperimmune. “Finora non abbiamo avuto decessi tra le persone trattate. E i segni clinici tendono a sparire dalle 2 alle 48 ore dopo il trattamento”, ha concluso De Donno. “abbiamo sottoposto i risultati ottenuti alla comunità scientifica e siamo in attesa di pubblicazione. Senza alimentare false speranze”, ammette infine, “se la malattia ha lavorato a lungo fino a compromettere la funzionalità degli organi, il plasma non è sufficiente a salvare il paziente”.
Congratulazioni da Maglie. Intanto dal Salento, in particolare da Maglie arrivano le congratulazioni del sindaco Ernesto Toma: “Non ho le competenze per giudicare il lavoro che in questo periodo stanno compiendo medici e scienziati”, ha postato il primo cittadino, “voglio però congratularmi da cittadino magliese con il dott. Giuseppe De Donno, originario di Morigino di Maglie, dirigente del reparto di pneumologia di Mantova, in Lombardia epicentro dell’epidemia, che da quasi un mese ha azzerato i morti per Covid. A Mantova hanno utilizzato e testato il plasma iperimmune ricavato dal sangue dei guariti senza tante passerelle e questo potrebbe essere utile anche in altre parti d’Italia. Spero”, ha concluso, “di poter salutare a Morigino, anche quest’estate, insieme ai suoi parenti, il dottor De Donno”.
Plasmaterapia, De Donno contro Burioni: “Lui sta in tv, noi lavoriamo”. Riccardo Castrichini il 04/05/2020 su Notizie.it. De Donno contro Burioni sulla Plasmaterapia sminuita in malo modo dal famoso virologo dei talk show. Il primario di Pneumologia dell’ospedale Carlo Poma di Mantova, Giuseppe De Donno, ha sperimentato con successo la Plasmaterapia per guarire i pazienti Covid gravemente malati. Questa scoperta che potrebbe salvare la vita a molte persone è stata però banalizzata dal virologo Roberto Burioni come “nulla di nuovo”. L’esternazione del virologo più famoso dei talk show ha fatto molto innervosire De Donno che a Radio Cusano Tv Italia, si è così espresso: “Siamo riusciti a realizzare questa sperimentazione che è molto seria anche se qualcuno ha voluto farla passare per una cosa ciarlatanesca. Lui va in tv a parlare, noi lavoriamo 18 ore al giorno al fianco dei nostri pazienti”. Il riferimento a Burioni è presto fatto. La Plasmaterapia per guarire i pazienti Covid consiste nell’infusione di plasma iper immune (o super immune) nell’organismo di pazienti gravemente malati. Per De Donno si tratterebbe di una vera arma magica, che consentirebbe di salvare molte persone. É lo stesso primario a sottolineare tra l’altro la sua volontà di non arrogarsi alcun merito circa l’invenzione di nulla. La sua struttura, insieme al Policlinico di Pavia, avrebbe solo perfezionato un’idea che già esisteva e generato un protocollo ambiziosissimo.
Come funzione la Plasmaterapia. Per rendere possibile questa tecnica, sono stati fondamentali i donatori di sangue dei guariti Covid che devono avere caratteristiche fondamentali e il cui plasma deve essere certificato come contenente di anticorpi iper immuni. Ognuno dei guariti, ha spiegato De Donno, dona poco più di mezzo litro di sangue ma, per usarlo, d’ora in poi, pare stiano sorgendo degli impedimenti: “Adesso ogni volta dobbiamo chiedere l’autorizzazione al Comitato etico e questo ci fa perdere tempo prezioso”, spiega il primario di Pneumologia del Carlo Poma. Certo, il plasma può essere congelato, motivo per cui a Mantova hanno creato una banca del plasma per conservarlo ed eventualmente aiutare gli altri ospedali che ne fanno richiesta. De Donno ha detto che “creando banche plasma in giro per l’Italia riusciremmo ad arginare un’eventuale seconda ondata”.
Coronavirus, il plasma iperimmune e lo scontro tra Burioni e il primario di Mantova. Le Iene News il 02 maggio 2020. All’ospedale di Mantova si lavora a una possibile terapia per il coronavirus usando il plasma dei pazienti già guariti dal COVID-19. In un video sul suo sito il professor Burioni parla dei pro e dei contro di questa cura, ma il primario di pneumologia del Carlo Poma di Mantova lo ha attaccato su Facebook: ecco qual è l’oggetto della contesa. Il plasma dei guariti dal coronavirus può curare i malati di COVID-19? E’ la teoria su cui stanno lavorando al Carlo Poma di Mantova e al policlinico San Matteo di Pavia. I due ospedali lombardi hanno concluso da pochi giorni la sperimentazione e “i risultati visti nei casi singoli sono stati sorprendenti”, dice il responsabile dell'Immunoematologia e Medicina trasfusionale del Poma. Intorno a questa possibile cura per il coronavirus si è scatenata una lotta sui social tra Roberto Burioni e il primario di pneumologia dell’ospedale di Mantova, il dottor Giuseppe De Donno. Ma andiamo con ordine: cos’è la terapia in discussione? Secondo molti ricercatori una possibile cura per i pazienti affetti da una forma severa di COVID-19 sarebbe il trattamento con “plasma iperimmune”, cioè il plasma delle persone guarite dal coronavirus che è ricco di anticorpi contro la malattia. Questi anticorpi, iniettati nel sangue dei malati, aiuterebbero il corpo a combattere il virus. Non esiste ancora certezza assoluta che questa cura possa essere efficace, ma gli ospedali di Pavia e Mantova hanno appena concluso una sperimentazione che avrebbe portato a esiti molto soddisfacenti: "I risultati visti nei casi singoli sono stati sorprendenti”, dice Massimo Franchini, responsabile dell'Immunoematologia e Medicina trasfusionale del Poma di Mantova. “Ora con i colleghi di Pavia stiamo riesaminando tutti i casi, valutando la risposta clinica e strumentale, per trarre delle conclusioni generali su questa che è una terapia specifica contro COVID-19". Una possibile terapia di cui si sta parlando molto in rete, e che ha dato adito anche una bufala secondo cui si rischierebbe di contrarre altre malattie: “Il plasma prodotto in questo modo è sicuro e la possibilità che trasmetta malattie infettive è pari a zero”, specifica Franchini. Che poi aggiunge: "Si tratta di una terapia di emergenza, ma noi non abbiamo realizzato un protocollo d'emergenza: si tratta di un lavoro rigoroso che segue le indicazioni del Centro nazionale sangue. Il risultato è una terapia specifica e mirata, all'insegna della massima sicurezza". In attesa di un vaccino sembra che i risultati ottenuti finora siano molto importanti. Perché allora s’è scatenata una polemica con Roberto Burioni? Il noto virologo il 29 aprile ha pubblicato un video sul suo blog MedicalFacts, in cui ha commentato la terapia col plasma. Tra le varie cose che ha detto Burioni afferma che “è qualcosa di serio e già utilizzato”. Insomma, il professore conferma che non stiamo parlando di una qualche strana terapia. Però poi aggiunge che “non è nulla di nuovo”, perché in passato anche altre malattie sono state trattate in modo simile. Inoltre, racconta Burioni, già in Cina si è sperimentata questa terapia. “Una prospettiva interessante, ma d’emergenza. Non può essere utilizzata ad ampio spettro”, dice. Ricordando poi tutte le necessarie precauzioni e protocolli da rispettare. E poi aggiunge: “(Questa cura) diventa interessantissima nel momento in cui riusciremo a stabilire con certezza che utilizzare i sieri dei guariti fa bene, perché avremo aperta una porta eccezionale per una terapia modernissima: un siero artificiale” prodotto in laboratorio. Parole insomma tutto sommato positive verso gli studi e le sperimentazioni sulle cure con il plasma, che però a qualcuno non sono andate giù. Parliamo del dottor Giuseppe De Donno, primario di pneumologia del Carlo Poma di Mantova. Il medico infatti ha attaccato frontalmente Burioni su Facebook: “Il signor scienziato, quello che nonostante avesse detto che il coronavirus non sarebbe mai arrivato in Italia, si è accorto in ritardo del plasma iperimmune”, scrive in un post. “Forse il prof non sa cosa è il test di neutralizzazione. Forse non conosce le metodiche di controllo del plasma. Visto che noi abbiamo il supporto di AVIS glielo perdono. Io piccolo pneumologo di periferia. Io che non sono mai stato invitato da Fazio o da Vespa. Ora, ci andrà lui a parlare di plasma iperimmune. Ed io e Franchini alzeremo le spalle, perché.... importante è salvare vite! Buona vita, quindi, prof Burioni. Le abbiamo dato modo di discutere un altro po’. I miei pazienti ringraziano”. E poi una postilla, che sembra suonare come un’accusa: “PS: vedo che si sta già arrovellando a come fare per trasformare una donazione democratica e gratuita in una ‘cosa’ sintetizzata da una casa farmaceutica. Non siamo mammalucchi!”, conclude. Non sappiamo a cosa De Donno intendesse alludere: quello che sappiamo per certo è che se il plasma iperimmune sarà confermato come terapia valida, ci sarebbe una nuova e formidabile arma nella lotta contro il coronavirus.
“La plasmaterapia funziona. Pronto alla galera pur di salvare un paziente”. Il Dubbio il 5 maggio 2020. Il professor Giuseppe De Donno dell’ospedale di Mantova: “Abbiamo trattato 48 pazienti e non abbiamo avuto decessi”. “Se dovessi scegliere tra salvare una vita ed andare in carcere non ho dubbio in merito. Anche se non dovessi avere l’autorizzazione del comitato etico per me la vita e’ sacra. Sono un cattolico praticante e la vita è l’obiettivo della mia professione”. Lo ha detto il primario di pneumologia presso l’ospedale Carlo Poma di Mantova, Giuseppe De Donno, a Tv2000 in collegamento con il programma "Il mio medico" in merito alla plasmaterapia da lui inventata per salvare la vita di altri pazienti gravi affetti da coronavirus. “Tra pochi giorni- ha annunciato De Donno a Tv2000- pubblicheremo la nostra produzione scientifica sulla plasmaterapia. Nei 48 pazienti arruolati nel nostro studio non abbiamo avuto alcun decesso anzi sono tutti guariti e ora sono a casa. Chiedo ai nostri legislatori che una volta pubblicato il lavoro ci diano la possibilità di usare il plasma iperimmune come si usano altri farmaci perchè abbiamo in mano un’arma che è l’unica in questo momento che agisce contro il coronavirus”.
“La plasmaterapia - ha proseguito - è un atto democratico che viene dai pazienti e torna ai pazienti. I pazienti guariti da coronavirus donano il loro plasma ricco di anticorpi che serve per guarire altre persone. Ogni donatore riesce a far guarire due pazienti riceventi”. “L’intuizione della plasmaterapia- ha rivelato De Donno a Tv2000- nasce quando io e il mio infettivolgo il prof. Casari ci siamo trovati una notte a gestire il pronto soccorso con i colleghi che erano disperati perchè erano arrivati 110 pazienti. Anche la nostra direttrice sanitaria, anche lei sull’orlo della disperazione, ci aveva chiamati per chiederci se qualcuno dei nostri medici poteva andare ad aiutare i medici del pronto soccorso. Ci siamo andati noi come gli ultimi degli specializzandi con grande umiltà. Quella notte abbiamo capito che dovevamo inventarci un’arma che ci aiutasse a salvare i pazienti”.
La polemica con Roberto Burioni. Nei giorni scorsi il professore De Donno aveva polemizzato con Roberto Burioni che aveva minimizzato la plasmaterapia. : “Siamo riusciti a realizzare questa sperimentazione che è molto seria – dichiara De Donno – anche se qualcuno ha voluto farla passare per una cosa ciarlatanesca”. Burioni aveva commentato la terapia di recente ed il suo approccio allo studio di De Donno non è stato in realtà negativo. Ha parlato di un “qualcosa di serio e già utilizzato”. Certo, dal suo punto di vista resta una soluzione “d’emergenza e che non può essere utilizzata ad ampio spettro” ma De Donno non l’ha comunque presa bene: “Lui va in tv a parlare, noi lavoriamo 18 ore al giorno al fianco dei nostri pazienti”.
La terapia del plasma nel mondo. De Donno contattato da Onu e Usa. Affari Italiani Lunedì, 4 maggio 2020. E' il caso lanciato da Affari degli ospedali di Mantova e Pavia. Come far mangiare la frutta ai bambini? I successi dell’ospedale Carlo Poma con la terapia del plasma iperimmune per i malati di covid approdano oltre Atlantico e arrivano alle Nazioni Unite e tra i più stretti collaboratori del Governo Usa. Il caso è quello emerso alla ribalta della cronaca dopo questo articolo di Affaritaliani.it di sabato scorso. Tutto accade ieri a metà pomeriggio quando il primario della Struttura di Pneumologia del Poma Giuseppe De Donno riceve una telefonata da un alto rappresentante dell’Onu, come si legge su mantovauno.it. “Voleva complimentarsi con il nostro ospedale – spiega De Donno – per la sperimentazione del plasma iperimmune su cui c’è molta attenzione da parte della comunità scientifica internazionale. Mi ha detto che sono molto interessati a conoscere i risultati del nostro studio”. Passa solo mezz’ora e a De Donno arriva una seconda telefonata: questa volta è un consigliere del sottosegretario alla salute. Anche lui si complimenta con il medico mantovano, gli spiega come pure negli Stati Uniti si guardi con molto interesse alla terapia del plasma iperimmune e, come era accaduto per l’alto funzionario Onu, anche lui gli dice che c’è molta attesa per i risultati della sperimentazione conclusa dall’ospedale mantovano insieme a quello di Pavia. A dimostrazione dell’interesse degli Usa verso la terapia del plasma ci sono le decine di sperimentazioni avviate nell’ultimo mese. Addirittura si sta percorrendo la via del plasma anche come profilassi per le persone più esposte al virus, come i sanitari: è al via una sperimentazione su infermieri e medici a cui sarà infuso preventivamente il plasma iperimmune, per aiutare le loro difese nel caso in cui venissero infettati. L’infusione dovrebbe avere un’efficacia di qualche settimana ma ovviamente, trattandosi di plasma. potrebbe essere ripetuta. E intanto proprio domani De Donno sarà protagonista di una iniziativa a stelle e strisce. Interverrà infatti a un evento promosso da NYCanta (Il Festival della Musica Italiana di New York) e l’Associazione Culturale Italiani di New York, in collaborazione con la Nazionale Italiana Cantanti. Si tratta di un pomeriggio, che prenderà il via alle 15,30, tra parole e musica con tanti big della musica italiana tra cui Fausto Leali, Al Bano, Enrico Ruggeri, Riccardo Fogli, Stefano Fresi, Paolo Vallesi, Massimo di Cataldo. L’intento è quello di promuovere una raccolta fondi a sostegno della creazione di un centro di ricerca etico sul plasma all’ospedale Carlo Poma di Mantova. Un centro, indipendente dalle case farmaceutiche, che in futuro potrebbe poi occuparsi di altre ricerche.
Il professor De Donno: “Quando mi ha chiamato l’Onu ho pianto. In Italia non mi cerca nessuno”. De Donno, il prof della plasmaterapia: “Mi ha chiamato l’Onu, ho pianto”. (Selvaggia Lucarelli – tpi.it 5 maggio 2020) – Il direttore della Pneumologia dell’ospedale Poma di Mantova, Giuseppe De Donno, che sta sperimentando, sembra con risultati incoraggianti, la terapia sui pazienti Covid col plasma dei pazienti guariti, oggi ha rilasciato un’intervista a Radio Bruno in cui è tornato sulle polemiche dei giorni scorsi. In particolare, ha commentato le parole di Roberto Burioni che ospite di Che tempo che fa aveva affermato: “La plasmaterapia è una tecnica già in uso, si vedrà nelle prossime settimane se funziona. Ha dei limiti, perché serve molto plasma di persone guarite e ce ne sono poche. Questi plasmi non sono la soluzione ideale, sono costosissimi e difficilissimi da preparare, si basano sulla disponibilità di persone guarite che non sono tantissime, è un approccio di emergenza, se si dimostra che anticorpi funzionano possiamo riprodurli artificialmente in laboratorio”. De Donno, stamattina in radio si è sfogato con una certa amarezza: “La plasmaterapia è l’unica terapia specifica per il Coronavirus, si destina il plasma solo a pazienti che non abbiano storie di insufficienza respiratoria per più di 10 giorni. Oggi noi a Mantova abbiamo il maggior numero di pazienti nell’ambito di questo protocollo e nella nostra sperimentazione non abbiamo avuto alcun decesso tra 48 pazienti con polmoniti”. E poi: “Leggo corbellerie immani sulla plasmaterapia, oggi ho letto di chissà quali indagini che vanno fatte e di una terapia costosa, noi non abbiamo avuto reazioni avverse e gli indici di infiammazione si sono ridotti, per cui oggi quei 48 pazienti sono tutti a casa con le loro famiglie. Riguardo i costi, tenendo conto di tutti gli elementi, dalla sacca al personale alla macchina e ai reagenti, ogni sacca da 600 ml costa 164 euro. Per un paziente la usiamo da 300 ml, vuol dire che ne costa 82 a terapia, più o meno quanto gli integratori per la palestra. Se sono tanti per salvare una vita non ho capito nulla della medicina”. Il professor De Donno ha poi commentato l’interesse internazionale su questa sperimentazione: “Mi stanno chiamando tutti, ieri il console del Messico, l’Onu, il consigliere del ministro della Salute americana, abbiamo avuto proposte di lavoro nei centri di ricerca stranieri. Ogni volta che mi chiama un istituto straniero e non mi chiama mai il nostro Istituto superiore di sanità o non sento il nostro ministro della Salute sono grandi dolori per un ricercatore come me, che fa il medico ospedaliero e che si è speso, che è stato in prima fila nell’emergenza Covid lavorando di notte in pronto soccorso”. De Donno non nasconde l’amarezza: “Quando mi ha telefonato l’alto funzionario dell’Onu ho pianto dalla commozione, finita la telefonata, però, ho provato un grande senso di amarezza perché questa sperimentazione è una chance che stiamo dando al nostro paese e lo dico a prescindere dal risultato finale, perché magari questa sperimentazione dirà che mi sto sbagliando e nel caso lo ammetterò, ma non credo. Però abbiamo in mano una sperimentazione terapeutica che può cambiare la sorte di questa epidemia e dei pazienti, l’amarezza resta”. Infine, commenta le dichiarazioni di Roberto Burioni sui costi alti e le difficoltà di reperimento del plasma: “Questa per me è la cosa più grave e mi ha fatto più male perché mettere in dubbio la rete trasfusionale italiana, il fatto che il plasma possa essere insicuro e trasmettere malattie mette una grossa ombra rispetto al nostro sistema trasfusionale che è uno dei più sicuri del mondo. È inaccettabile che il presidente di Avis nazionale non sia intervenuto su questo ma sia intervenuto mettendo in dubbio la nostra sperimentazione che è stata fatta con grande serietà e con criteri di arruolamento specifici e stringenti pubblicati per dirimere ogni dubbio”.
Laura Cuppini per il “Corriere della Sera” il 7 maggio 2020. Pavia, Mantova, Lodi, Novara, Padova. In arrivo anche Pisa e un laboratorio in Puglia. La plasmaterapia sta scatenando entusiasmi e polemiche. Ma a vincere è la prudenza, la necessità di avere dati scientifici inconfutabili. «L' uso del plasma da convalescenti come terapia per Covid-19 è oggetto di studio in diversi Paesi del mondo, Italia compresa. Il trattamento non è consolidato perché non sono ancora disponibili evidenze robuste sulla sua efficacia e sicurezza» sintetizza il ministero della Salute. «Perché il governo non chiede nulla e l' Istituto superiore di sanità se ne disinteressa?» chiede polemico il leader della Lega Matteo Salvini in diretta su Facebook. Per chiarirsi le idee bisogna fare un passo indietro. Al Policlinico San Matteo di Pavia e all' Ospedale di Mantova il plasma immune è stato infuso in 52 pazienti con esiti definiti «confortanti». Si attende un bilancio di questa prima fase di sperimentazione. Un progetto internazionale che in Lombardia si avvale anche della collaborazione di Avis per il reclutamento dei donatori. Negli Stati Uniti sul plasma dei guariti scommettono in molti, a partire dalla Food and Drug Administration , l'ente di regolamentazione dei farmaci, che ha messo un annuncio in grande evidenza sul proprio sito: «Donate Covid-19 plasma».
Come funziona la tecnica? Il plasma (parte liquida del sangue) prelevato da persone guarite viene purificato e poi somministrato a pazienti con Covid. L' obiettivo è trasferire gli anticorpi specifici a chi ha l' infezione in atto per sostenerne la risposta immunitaria. Prima di questo passaggio sono necessari dei test di laboratorio per quantificare i livelli di anticorpi in grado di combattere efficacemente il coronavirus. Non solo: le procedure sono volte a garantire la massima sicurezza per il ricevente. Gli anticorpi sono proteine prodotte dai linfociti B: quelli cosiddetti «neutralizzanti» hanno il potere di legarsi all' agente patogeno, rendendolo inoffensivo. Ma esistono anche altri tipi di anticorpi, che possono essere inutili o addirittura dannosi per l' organismo. «Quella del plasma è una risorsa terapeutica nota da oltre 50 anni - ha spiegato Pierluigi Viale, direttore dell' Unità di Malattie infettive al Policlinico Sant' Orsola di Bologna -, ma sarebbe necessario mettere in atto uno studio prospettico randomizzato e soprattutto verificarne l' efficacia in fase più precoce di malattia e in assenza di co-trattamenti». Non solo. Isolare anticorpi dai guariti non è semplice né economico, al contrario di quel che si potrebbe pensare. «La terapia al plasma è interessante e importante, un approccio molto sofisticato. Bisogna saperlo fare e avere grandi tecnologie - ha precisato Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza -. Consente di traferire gli anticorpi naturali da un soggetto a un altro: è una cosa difficile, costosa e complessa. Se questi anticorpi naturali funzionano, la sfida è produrli artificialmente e in larga scala, altrimenti si potrebbero proteggere e curare solo poche persone».
Simone Pierini per leggo.it il 7 maggio 2020. Mentre tutti cercavano Giuseppe De Donno, primario di pneumologia dell’ospedale Carlo Poma di Mantova, ormai paladino del web per la terapia del plasma iperimmune, è passata in secondo piano la precisazione della struttura ospedaliera dove opera: proprio l’ASST di Mantova. Su Leggo.it proviamo a fare chiarezza. «Anche in questa azienda l’effetto letale del virus si è manifestato, avviato uno studio specifico per valutare questa casistica». Una nota apparsa sul sito ufficiale dell’ospedale il 5 maggio che ha sentito la necessità di puntualizzare e calmare le acque di un fenomeno che ha scatenato la “guerra” tra complottisti, virologi e politici (tra cui Matteo Salvini che ha usato tutti i suoi profili puntando il dito contro il governo colpevole secondo lui di voler nascondere la terapia), aprendo un dibattito che aveva assunto toni troppo aspri. Tra l'altro, sempre il 5 maggio, anche il ministero della Salute aveva pubblicato sul sito internet le informazioni sulla terapia al plasma. La prima considerazione è indicativa: la sperimentazione non è partita dal Poma di Mantova e, di conseguenza, non si tratta di una scoperta del dottor De Donno attorno al quale ieri si è creato un giallo. Improvvisamente salito alla ribalta per il suo scontro a distanza con Roberto Burioni, le sue lamentele per non essere ascoltato, da un giorno all’altro i suoi profili social sono “scomparsi”. Si è immediatamente gridato al complotto: «Lo hanno oscurato», hanno gridato in molti su Facebook e Twitter. A quanto pare sembra che sia andata diversamente e che lo pneoumologo si sia chiuso in una sorta di “silenzio stampa”. «L’ASST di Mantova - si legge nella nota apparsa sul sito - ha aderito al progetto per l’utilizzo del plasma iperimmune in collaborazione con il Policlinico San Matteo di Pavia. La collaborazione è proseguita fruttuosamente raggiungendo gli obiettivi previsti dalla sperimentazione». A lanciare la sperimentazione è in effetto stato il laboratorio di virologia molecolare del Policlinico San Matteo di Pavia diretto da Fausto Baldanti che, durante Che tempo che fa, ha parlato di «risultati incoraggianti» specificando però come si trattasse di «un trial che è in fase di completamento», ma «che questa non sia la soluzione del problema» che «arriverà con il vaccino, con farmaci specifici oppure con la sintesi di questi stessi anticorpi in maniera ingegnerizzata, cose che richiedono tempo». Tornando alla precisazione dell’ASST di Mantova, si legge: «Il principal investigator Cesare Perotti, direttore del Servizio Immunoematologia e Medicina Trasfusionale del San Matteo, sta in queste ore concludendo il report definitivo da sottoporre alla comunità scientifica. Preso atto che i primi dati sono risultati molto incoraggianti si ritiene opportuno, seguendo il metodo scientifico, rimandare al momento della pubblicazione l’esame accurato dei risultati». Poi viene fatta chiarezza sulla richiesta di informazioni dei Nas, letta dal mondo del web come un tentativo di frenare la sperimentazione al punto che lo stesso De Nonno aveva dichiarato: «non mi farò scoraggiare». «Riguardo ad altri temi emersi negli ultimi giorni - ha scritto il Poma di Mantova - si precisa che all’ASST di Mantova sono state semplicemente richieste informazioni generiche sulla natura della sperimentazione, proprio a seguito delle notizie riportate dalla stampa. Non c’è stato però alcun accesso alla struttura da parte dei Nas. La raccolta del plasma prosegue, grazie anche al prezioso contributo di Avis per il reclutamento dei donatori e l’ASST si augura di potere presto aderire ad altri studi in corso di programmazione». Infine il passaggio chiave, sulla necessità di non mettere in contrapposizione l’utilizzo del plasma iperimmune con la ricerca di un vaccino, e un chiarimento sui decessi: «La terapia con il plasma non è una cura miracolosa, ma uno strumento che insieme ad altri potrà consentirci di affrontare nel modo migliore questa epidemia. Mettere in contrapposizione vaccino, test sierologici o virologici, plasma, terapie farmacologiche o terapie di supporto è insensato, poiché dobbiamo disporre di tutte le armi possibili per fare fronte alla minaccia devastante rappresentata dal coronavirus. Per quanto riguarda la mortalità da Covid, si precisa che anche in questa azienda e nella provincia di Mantova l’effetto letale del virus si è manifestato. L’ASST di Mantova ha avviato uno studio specifico per valutare questa casistica».
Pamela, incinta, curata con il plasma. E arrivano i Nas in ospedale. Lo pneumologo De Donno: non mi intimidite. Redazione de Il Secolo d'Italia domenica 3 maggio 2020. Coronavirus, una donna incinta, Pamela, sta bene dopo la cura col plasma iperimmune all’ospedale di Mantova. Ma alle porte dell’ospedale hanno bussato i Nas: chiedono informazioni sulla cura. La terapia sperimentale è “somministrata fuori protocollo in ambito compassionevole”, precisa il direttore generale dell’Asst di Mantova, Raffaello Stradoni, sulla "Gazzetta di Mantova", che riporta la notizia della richiesta del Nas. La terapia con il plasma iperimmune, utilizzato in pazienti con Covid-19 in condizioni critiche, è diventata molto popolare sui social, suscitando diverse polemiche fra gli addetti ai lavori sulla sua efficacia. “Il plasma iperimmune ci ha permesso di migliorare ancora di più i nostri risultati. È democratico. Del popolo. Per il popolo. Nessun intermediario. Nessun interesse. Solo tanto studio e dedizione. Soprattutto è sicuro. Nessun evento avverso. Nessun effetto collaterale”, rivendica su Facebook Giuseppe De Donno, direttore della Pneumologia del Poma, dove è stata condotta la sperimentazione. Uno studio alla ricerca di una cura per Covid-19 è portato avanti congiuntamente al Policlinico San Matteo di Pavia da marzo. Sul caso della donna incinta trattata con il plasma iperimmune è “tutto in regola” per De Donno, che scrive: “Ho letto su qualche quotidiano che la mia oramai figlioccia, non avrebbe avuto i requisiti per ricevere il plasma. Beh, nei criteri di esclusione non è prevista la gravidanza – sottolinea – quindi amici, tutto ok. Lo dico perché un protocollo va rispettato, ma certo, quando fosse possibile salvare vite, concorderei con la deroga per uso compassionevole”. Lo pneumologo sta utilizzando il plasma su un altro giovane paziente, sottoposto alla seconda infusione. “Il nostro giovane amico, come vi avevo anticipato, sta sorprendentemente bene. Così anche Pamela”, la donna incinta. “Se qualcuno crede di scoraggiarmi – scriveva De Donno sempre su Facebook qualche giorno fa, riferendosi appunto al giovane paziente – non ci riuscirà. Oggi, dopo l’infusione di plasma iperimmune, ormai amico mio, stai molto meglio. La febbre quasi scomparsa. Migliorata l’ossigenazione. Meno ore di ventilazione meccanica. Tutto come da protocollo. Non sempre riusciamo a salvare tutti. Ma il più delle volte sì. E se qualcuno volesse solo provare ad intimidirmi, dovrà risponderne alla sua coscienza. La mia è limpidissima”.
Plasma iperimmune, Giuseppe De Donno costretto al silenzio dai vertici dell’ospedale. Ecco cos’è successo. Manuel Montero il 7 Maggio 2020 su frontedelblog.it. Lo pneumolgo Giuseppe De Donno, che ha portato avanti la sperimentazione sul plasma iperimmune contro il coronavirus a Mantova, ha sospeso i suoi profili social per andare il silenzio stampa. L’Asst: “Si ribadisce che nessun professionista è autorizzato a diffondere a terzi i dati aziendali e/o dati riguardanti le sperimentazioni”. Ma non tutto è chiaro…Cominciano ad essere più chiari i contorni del giallo sulla sparizione del profilo e della pagina Facebook del dottor Giuseppe De Donno, lo pneumologo che per l’ospedale di Mantova ha portato avanti la sperimentazione sul plasma iperimmune contro il coronavirus. Il medico li avrebbe sospesi il giorno dopo la puntata di Porta a Porta in cui era ospite per mettersi in silenzio stampa. Racconta La Voce di Mantova: «A dare l’innesco è stata l’interruzione dell’intervento del dottor Giuseppe De Donno, titolare della pneumologia del “Poma”, cui Bruno Vespa ha tolto la parola durante la puntata di “Porta a porta” di martedì, durante la pausa pubblicitaria, senza più restituirgliela nel corso della puntata». Ecco cos’è accaduto:
A quanto spiegava il medico prima del black out, la sperimentazione del plasma iperimmune a Mantova – condotta unitamente al San Matteo di Pavia – aveva coinvolto 48 pazienti: e nessuno dei 48 pazienti era morto. Tanto che identici programmi sono iniziati altrove, nel mondo, ma nella stessa Lombardia, da Lodi a Crema, come abbiamo avuto modo di raccontarvi. Tra i guariti (con miglioramenti che cominciavano quasi subito, dalle 2 alle 48 ore dall’infusione) c’era anche Pamela Vincenzi, 28enne incinta di sei mesi: unico caso al mondo. Ma un caso che aveva pure indotto i Nas a chiedere chiarimenti all’Asst, non essendo prevista l’infusione in una donna gravida. E c’è anche il caso di un uomo dato per spacciato e salvato a Mantova da De Donno dopo l’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma cos’è successo poi? Il quotidiano mantovano riporta una nota che l’Unità di crisi avrebbe trasmesso alla direzione dell’ospedale di Mantova: «La struttura comunicazione è l’unico canale comunicativo ufficiale dell’Asst. Si ribadisce che nessun professionista è autorizzato a diffondere a terzi i dati aziendali e/o dati riguardanti le sperimentazioni per le quali i risultati non siano ancora stati pubblicati senza l’autorizzazione rilasciata dalla Direzione attraverso coinvolgimento della dottoressa Elena Miglioli come da regolamento vigente». Ma il bollettino n. 52 del team dell’Unità di crisi avverte anche che «l’articolo relativo alla sperimentazione con il plasma convalescente è stato sottoposto al “New England Journal”, siamo in attesa della risposta per la definitiva validazione dei dati che dovrebbero giungere entro la prossima settimana». Il New England è forse la più importante pubblicazione medico scientifica del mondo: evidentemente, per aver deciso di sottoporle la sperimentazione, ci sono stati a Mantova significativi risultati. E forse si è deciso di usare la linea della prudenza. De Donno paventava presunte pressioni sul suo lavoro e sui social si erano diffuse voci, dicono, complottiste. Eppure stiamo parlando di una tecnica collaudatissima che ha cento anni, non di pozioni miracolose, non di bizzarre terapie: semplicemente l’articolazione del protocollo di De Donno starebbe dando risultati eccelsi. De Donno sostiene che abbia funzionato anche dove ha fallito l’ormai noto farmaco contro l’artrite reumatoide tocilizumab. Ma sul sito dell’Asst di Mantova appare ora un messaggio che prova a far chiarezza, ma che si conclude in maniera sibillina: L’ASST di Mantova ha aderito al progetto per l’utilizzo del plasma iperimmune in collaborazione con il Policlinico San Matteo di Pavia. La collaborazione è proseguita fruttuosamente raggiungendo gli obiettivi previsti dalla sperimentazione. Il principal investigator Cesare Perotti, direttore del Servizio Immunoematologia e Medicina Trasfusionale del San Matteo, sta in queste ore concludendo il report definitivo da sottoporre alla comunità scientifica. Preso atto che i primi dati sono risultati molto incoraggianti si ritiene opportuno, seguendo il metodo scientifico, rimandare al momento della pubblicazione l’esame accurato dei risultati. Riguardo ad altri temi emersi negli ultimi giorni, si precisa che all’ASST di Mantova sono state semplicemente richieste informazioni generiche sulla natura della sperimentazione, proprio a seguito delle notizie riportate dalla stampa. Non c’è stato però alcun accesso alla struttura da parte dei Nas. La raccolta del plasma prosegue, grazie anche al prezioso contributo di Avis per il reclutamento dei donatori e l’ASST si augura di potere presto aderire ad altri studi in corso di programmazione. La terapia con il plasma non è una cura miracolosa, ma uno strumento che insieme ad altri potrà consentirci di affrontare nel modo migliore questa epidemia. Mettere in contrapposizione vaccino, test sierologici o virologici, plasma, terapie farmacologiche o terapie di supporto è insensato, poiché dobbiamo disporre di tutte le armi possibili per fare fronte alla minaccia devastante rappresentata dal coronavirus. Per quanto riguarda la mortalità da Covid, si precisa che anche in questa azienda e nella provincia di Mantova l’effetto letale del virus si è manifestato. L’ASST di Mantova ha avviato uno studio specifico per valutare questa casistica.
Che cosa significa che anche a Mantova ci sono stati dei morti? Nessuno l’aveva messo in discussione, tantomeno De Donno. Lo pneumologo aveva detto che dei 48 pazienti sottoposti a plasma iperimmune nessuno è morto; non aveva detto che tutti i pazienti di Mantova erano stati sottoposti a plasma iperimmune. Aveva anzi chiarito come il plasma potesse essere infuso solo a determinate condizioni. A cosa serve dunque la nota finale? Perché uno potrebbe intendere che ci siano state vittime anche tra quelle sottoposte a plasma. E dunque che ciò che ha detto il medico non corrispondesse alla realtà. E questo non va bene: per la sua immagine e per quello dell’ospedale. Fatelo parlare, lasciate che sia lui a chiarire eventuali equivoci e che la gente sia informata direttamente dalla fonte di chi sta a contatto coi pazienti 18 ore al giorno. Il silenzio stampa, di fronte a decine di migliaia di morti, non è una bella soluzione. Soprattutto in Lombardia, dove le bare furono portate via con l’esercito due settimane dopo aver sentito i virologi dire in tv che questa era solo una «forte influenza» e che in Italia, per carità, non c’era «alcun pericolo». Persone che, ancora, senza vergogna, discettano di ridicole certezze.
Dal plasma iperimmune al giallo su Facebook: scomparso il profilo di De Donno. Le Iene News il 7 maggio 2020. È il simbolo della possibile terapia che potrebbe curare il coronavirus con il plasma iperimmune. Proprio martedì sera a Le Iene Giuseppe De Donno, primario dell’ospedale di Mantova, ha spiegato come funziona questa possibile terapia. Dopo qualche ora dalla messa in onda del servizio di Alessandro Politi e Marco Fubini i profili Facebook del professore risultano irraggiungibili come se qualcuno li avesse disattivati. Chiusi i profili Facebook di Giuseppe De Donno? Il primario di pneumologia dell’ospedale Poma di Mantova è diventato il simbolo per una possibile cura del coronavirus. Anziché ricorrere al vaccino atteso non prima di un anno, il professore ha avviato la sperimentazione del “plasma iperimmune”, cioè il plasma delle persone guarite dal coronavirus che è ricco di anticorpi contro la malattia. Questi anticorpi, iniettati nel sangue dei malati, aiuterebbero il corpo a combattere il virus. Nel servizio di Alessandro Politi e Marco Fubini che vi riproponiamo qui sopra abbiamo cercato di capire come funziona questa possibile terapia. Proprio dopo la messa in onda su Italia 1 del nostro servizio, De Donno è scomparso dai social. I suoi profili sono irraggiungibili, come se fossero stati chiusi. Cos’è successo? Proviamo a ricostruire questa lunga settimana per tentare di dare una risposta. Proprio Facebook per lui si è trasformato in un campo di battaglia già da sabato scorso. Su iene.it vi abbiamo parlato dello scontro tra De Donno e Roberto Burioni (qui l’articolo). “È qualcosa di serio e già utilizzato”, ha detto il virologo riferendosi alla sperimentazione in corso di De Donno. Parole che a quest’ultimo non sono andate giù: “Il signor scienziato si è accorto in ritardo del plasma iperimmune”, ha replicato il medico. E poco dopo ha rimarcato: “Lui sta in tv, noi lavoriamo”. Passano le ore, De Donno rimane al centro della polemica. “Salvo vite con il plasma iperimmune e da Roma mi mandano i carabinieri”, titola La Verità di martedì riferendosi a una sua dichiarazione. Un titolo che dopo qualche ora viene ridimensionato dallo stesso professore che parla di una “chiamata informativa” da parte dei carabinieri. È possibile che i Nas abbiano voluto verificare che tutti i protocolli siano stati osservati. Come ad esempio se il numero totale delle persone arruolate fosse quello previsto dal protocollo. “Con queste trasfusioni sono in via di guarigione 48 pazienti e ad altri 10 è stato chiesto di fare altrettanto”, dichiara De Donno nella giornata di martedì. Nella puntata di martedì a Le Iene vi abbiamo mostrato questo studio, e il primario ci ha spiegato “che è l’unica terapia mirata in questo momento”. Dopo poche ore la sua scomparsa dai social. I suoi due profili Facebook risultano ancora irraggiungibili. È stato fatto dal social network o forse è una decisione presa dallo stesso De Donno? Qualcuno parla di “silenzio stampa” e quindi di un gesto volontario. E se così fosse, perché è stato fatto?
I poteri forti "censurano" il profilo del dottor De Donno, la bufala cavalcata da Salvini. Redazione su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Quando si tratta di cavalcare bufale e tesi complottiste, in Italia la Lega e Matteo Salvini sono sempre in prima fila. Non contenti di aver contribuito a diffondere, con tanto di interrogazione parlamentare, il video del Tg Leonardo del 2015 sul Coronavirus, un filmato scientificamente corretto ma strumentalizzato per far passare il messaggio che il Covid-19 fosse stato realizzato in un laboratorio cinese, ora è il turno del dottore Giuseppe De Donno. Il medico pneumologo dell’ospedale Carlo Poma di Mantova è diventato in queste settimane un volto noto al pubblico televisivo per la sua terapia sperimentale col plasma per curare i pazienti affetti da Coronavirus. Ma il medico è anche al centro di diverse teorie complottiste, in parte rilanciate dallo stesso De Donno, tra cui la finta irruzione dei Nas nell’ospedale (in realtà una semplice telefonata per il caso di una donna incinta curata con la terapia) o il complotto di governo, poteri forti e Bill Gates contro la sua terapia per facilitare l’ascesa del vaccino finanziato dal miliardario americano. L’ultima bomba sul medico riguarda il presunto oscuramento della sua pagina personale di Facebook, diventata oggetto di teorie complottiste sui social e cavalcata da Lega e Salvini. La realtà? È stato lo stesso medico a decidere di disattivare il suo account, altro che poteri forti. A rivelarlo è stato un suo “portavoce”, come viene definito da alcuni utenti il profilo di Leonardo M. che nel gruppo Facebook “Io sto con il dott. De Donno” scrive chiaramente che “la pagina l’ha chiusa lui stesso, mi ha detto solo che per ora non può dire niente”. Di silenzio stampa autoimposto parla invece su Twitter l’utente Bonnie379, che aveva provato ad intervistare De Donno: “Sono finalmente riuscita a contattare il Dott De Donno. È in silenzio stampa, quindi annulla l’intervista di domani sera”, riferendo poi di “fonti sicure” che rivelano come il dottore “è molto provato, ha cancellato lui stesso la pagina e per ora non può rilasciare dichiarazioni”.
QUANDO LA POLITICA (PIDDINA) COMANDA LA SCIENZA: IL CASO DE DONNO E LA SPERIMENTAZIONE DI PISA CHE… NON COMPARE. Guido da Landriano il 16 maggio 2020 su scenarieconomici.it. Nei giorni scorsi è partita una polemica fortissima quando l’Istituto Superiore di Sanità e AIFA hanno preso come capofila della sperimentazione sulla sieroterapia anti Covid-19 non il Prof. De Donno di Mantova, il primo a sperimentarla scientificamente in Italia, ma lo studio “Tsunami” dell’università di Pisa, in toscana. De Donno si è giustamente arrabbiato e non lo ha mandato a dire. “Perché Pisa? Non lo so, sono sconcertato da questa decisione, nonostante il fatto che stamattina leggendo la stampa il presidente Rossi abbia minacciato di querelarmi, la politica che vuole ammutolire la scienza. Secondo me qualsiasi città lombarda andava bene. E non venitemi a dire che la Toscana si è organizzata meglio della Lombardia, perché qui parliamo di scienza. Era Pavia che doveva diventare principal investigator” ha detto di fronte alla Commissione parlamentare. La sperimentazione di De Donno coinvolge due grandi ospedali, il Policlinico Universitario San Matteo di Pavia ed il San Pomo di Mantova, non due ospedaletti di provincia. Inoltre è stata applicata nella regione più colpita ed in due aree che, fra le prime, hanno patito i colpi per il COVID-19 in Europa. Se c’è qualcuno che ha esperienza, lavora in questi due ospedali. Invece, , come per miracolo lo studio premiato è stato a Pisa, in Toscana, regione non particolarmente colpita. Però non è finita. Esiste un sito governativo americano Clinicaltrials.gov, che raccoglie tutti i trial clinici rilevanti a livello mondiale, anche per permettere a chi ne ha bisogno, di scegliere una terapia sperimentale. Il sito riporta la terapia di De Donno: Oltre a Pavia vengono riportati i trial sieroterapici svolti a Bergamo, al Giovanni XXIII, dove si sperimenta un nuovo tipo di separazione del siero tramite tecniche normalmente utilizzate per la dialisi, molto più rapide ed efficienti, uno in partenza in Calabria ed uno in partenza a Roma, al policlinico Gemelli e Spallanzani. Non riporta nessuna sperimentazione sieroterapica a Pisa. O almeno, se c’è è molto ben nascosta perchè io, dopo un paio d’ore di ricerca, non l’ho trovata. Quindi De Donno, ed altri, fanno una ricerca riconosciuta a livello internazionale e vengono ignorati, Pisa fa una ricerca misteriosa e viene premiata dall’ISS. Anzi il Super Iper Piddino Rossi, presidente della Regione Toscana, spinge la propria impudenza al punto di minacciare una denuncia penale verso il medico lombardo! Ormai siamo al livello di Unione Sovietica del periodo peggiore, quella di Stalin e Beria, dove lo Stato Comunista decideva quale era la terapia giusta da applicare. Ringraziamo il governo Conte anche per questo incredibile risultato.
Felice Manti e Edoardo Montolli per il Giornale il 17 maggio 2020. Arriva il plasma iperimmune industriale. A produrlo sarà l'azienda di famiglia di un senatore Pd. Grazie a una sperimentazione partita con l' ok del governo, di cui l' esponente dem ha un ruolo di primissimo piano. Ma prima bisogna fare un passo indietro. E spostarci all' ospedale Poma di Mantova. Dove chi si è ammalato di coronavirus e si è visto trasfondere il plasma iperimmune non muore più da un mese e mezzo. Nessun effetto collaterale. È il risultato della sperimentazione portata avanti con il San Matteo di Pavia (su 48 pazienti). Pioniere lo pneumologo Giuseppe De Donno. All'inizio qualcuno lo fa passare per matto («Mi hanno dato del demente», dirà). Baruffe tra scienziati, come quando in tv un collega dice che è una terapia costosa e pericolosa. E quando De Donno salva la ventottenne Pamela Vincenzi, incinta di sei mesi, i Nas vanno a chiedergli spiegazioni. Luigi invece ha 51 anni ed è dato già per morto a Bergamo. De Donno lo sottopone a plasmaterapia su richiesta diretta del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: si risveglia dal coma e torna a vivere. Si salva anche un terzo paziente nonostante l' agammaglobulinemia: non produceva anticorpi eppure è vivo. Mondo politico e comunità scientifica capiscono che la sperimentazione può dare buoni frutti. E qui succede l' impensabile. L' Istituto Superiore di Sanità fa partire una sperimentazione nazionale. Il capofila ideale è Mantova ma viene scelta Pisa, che ha guarito due pazienti: «Non hanno nemmeno atteso i miei risultati» dirà De Donno. Al protocollo aderiscono quattro Regioni, tutte a guida Pd. Tu chiamale, se vuoi, coincidenze. Il 15 maggio nasce il comitato scientifico: 13 esperti, da Reggio Emilia a Catania, dall' Aifa al Centro nazionale del sangue. De Donno no, sbotta e parla di scelte politiche. E il governatore della Toscana Enrico Rossi annuncia querela. Giovedì scorso De Donno è atteso in streaming alla commissione Sanità del Senato. Deve parlare di quanto sia gratuito il plasma e di come una persona guarita da coronavirus possa salvarne 2 (con una sacca da 82 euro). Prima deve intervenire Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria. Che presto cede la parola al toscano Paolo Marcucci, che non era atteso. È l' amministratore delegato di Kedrion Biopharma, colosso dei plasmaderivati con un fatturato da 687 milioni di euro: «Lavoriamo a fianco del Centro nazionale del sangue contro il contagio». L' azienda ha fornito gratuitamente la strumentazione e i kit di consumo per l' inattivazione virale del plasma e accompagna tutte le sperimentazioni in corso sul plasma iperimmune. Ma Marcucci spiega la seconda fase: Kedrion metterà a disposizione il proprio stabilimento di Napoli per raccogliere il plasma dei donatori italiani e trasformarlo, in «conto lavorazione» in plasma iperimmune industriale utilizzabile nei quattro anni successivi: «Così si eviterà di eseguire l' inattivazione virale nei singoli centri che è un' inattivazione comunque artigianale, costosa e adatta solo alla sperimentazione». Peccato sia esattamente il contrario di quanto sosterrà poco più tardi lo pneumologo mantovano. Lo abbiamo cercato, De Donno. Non ci ha risposto. Aggiunge Marcucci anche che è prevista una terza fase: la produzione di gammaglobuline imperimmuni con l' israeliana Kamada, con cui è d' accordo da aprile. Prime consegne per ottobre. Insomma, il plasma donato gratuitamente dai convalescenti italiani diventerà un prodotto industriale di un' azienda privata che, evidentemente, non lavorerà gratis. Ci sta che il manager dell' azienda privata ne parli a sorpresa in un' audizione al Senato. Ma il diavolo si nasconde nei dettagli. L' ad di Kedrion è Paolo Marcucci, fratello di Andrea Marcucci, capogruppo in Senato del Pd, esattamente come è del Pd la regione cui è stata affidata la sperimentazione nazionale. Con il beneplacito dell' Iss. Senza dire neanche grazie a De Donno. È come se ai tempi del governo Berlusconi lo Stato avesse assegnato a una multinazionale in mano alla famiglia di un senatore di Forza Italia un affare miliardario. Ma i conflitti d' interesse, si sa, può evocarli solo la sinistra o i grillini. Ai tempi del governo gialloverde si chiamano coincidenze.
"Pd in conflitto d'interessi sul plasma". Lo pneumologo: "Quello industriale Kedrion non è gratis e non è sicuro". Felice Manti e Edoardo Montolli, Giovedì 21/05/2020 su Il Giornale. Come rivelato dal Giornale il plasma dei donatori italiani guariti da Covid-19 finirà ad un'azienda privata per essere lavorato con standard industriali. Ad occuparsene sarà il colosso toscano Kedrion, di proprietà della famiglia Marcucci: Paolo è l'amministratore delegato, il fratello Andrea è capogruppo Pd al Senato. Sulla vicenda oggi il deputato della Lega Andrea Dara presenterà un'interrogazione parlamentare al ministro della Salute Roberto Speranza, esponente di Leu. Ne abbiamo parlato con lo pneumologo di Mantova, Giuseppe De Donno, il pioniere della tecnica che ha ottenuto una guarigione del 100%, senza effetti collaterali né recrudescenze. Eppure è stato fatto fuori dalla sperimentazione, anche se si dice che entrerà nel comitato scientifico: «Il protocollo Tsunami scelto da Aifa e Istituto superiore di Sanità con capofila Pisa è il nostro Protocollo. Ma quella sperimentazione è vecchia perché doveva iniziare una Fase 2 con item differenti di studio: giovani, anziani, pazienti oncologici...». Secondo l'ad Kedrion Paolo Marcucci, intervenuto a sorpresa al Senato, il plasma iperimmune lavorato oggi in maniera «artigianale» dai singoli centri è «costoso» e «adatto solo alla fase sperimentale».
Cosa risponde?
«È in conflitto di interessi».
Marcucci sostiene anche che il plasma iperimmune industriale possa essere congelato anche per 4 anni. Il vostro?
«Se neutralizzato può durare fino a sei mesi. Se non neutralizzato, molto di più. Il vantaggio però del plasma convalescente è che costa molto meno, segue la antigenemia del virus, pertanto gli anticorpi sono più specifici. Il plasma inoltre contiene sostanze antinfiammatorie che sicuramente in futuro dimostreranno avere un peso notevole nel miglioramento clinico».
Il plasma industriale è meno pericoloso del vostro?
«Altra corbelleria. Si vuole spianare la strada ai prodotti di sintesi, verso i quali peraltro io non sono contrario. Ma ciò non vuole dire demonizzare il plasma convalescente. Gli industriali cercano profitto. Noi no. Il problema è quando il profitto collude con la scienza o con la politica. Vuol dire che il sistema ha delle pecche. Mostruose».
Quando alcuni scienziati in tv parlavano di pericolosità del plasma Avis non ha detto nulla e lei si è detto «sorpreso...»
«A dir la verità da uomo meridionale mi sono imbestialito ma al presidente nazionale Gian Pietro Briola, persona di grande serietà, ho spiegato che di fronte ai donatori dobbiamo essere uniti».
Marcucci ha sostenuto al Senato di aver fornito gratuitamente i kit di inattivazione virale alla sperimentazione del San Matteo (e quindi anche alla vostra). Se questi kit fossero a pagamento, la lavorazione del plasma che raccogliete sarebbe molto più costosa?
«No. Ma Marcucci manco ha nominato Mantova in Senato. Era distratto».
La produzione delle gammaglobuline iperimmuni industriali che Kedrion produrrà con l'israeliana Kamada sono utili?
«Se vi sarà una seconda ondata ed avremo istituito banche del plasma e magari sarà stato sintetizzato il vaccino, credo siano inutili e costose. Staremo a vedere».
Quando saranno pubblicati i risultati della sua sperimentazione su Andrology?
«Presto. Abbiamo visto che bassi livelli di testosterone correlano con la gravità di malattia. Questo dato, se confermato, potrà aprire nuovi ed importanti scenari anche nell'ambito della terapia. Sul plasma abbiamo sottomesso i dati a Jama. Siamo tutti ansiosi di sapere se verrà accettato. Ma di sicuro, in ogni modo, ha cambiato il destino del trattamento del Covid-19».
Secondo lei c'è plasma iperimmune per curare tutti?
«Secondo voi Luca Zaia è uno sprovveduto? Secondo me no».
Felice Manti ed Edoardo Montolli per “il Giornale” il 22 maggio 2020. L'affaire plasma si fa più interessante. Nei giorni scorsi il Giornale ha denunciato lo scandalo del plasma iperimmune industriale che sarà prodotto dalla Kedrion, azienda di famiglia del capogruppo Pd al Senato Andrea Marcucci grazie a una sperimentazione partita da Aifa e Istituto superiore di Sanità con l' ok del governo. Un conflitto d' interessi mostruoso per un business che si annuncia miliardario se arrivasse la conferma che il plasma guarisce dal Covid-19. La sperimentazione è stata portata avanti per primo dal San Matteo di Pavia (su 48 pazienti) e dal dottor Giuseppe De Donno a Mantova. Eppure lo pneumologo è stato fatto fuori dal trial, assegnato all' ospedale di Pisa (che di pazienti ne ha curati due), a cui hanno già aderito diverse Regioni. Non il Lazio di Nicola Zingaretti, che si è chiamato fuori. Ieri il deputato della Lega Andrea Dara ha presentato un' interrogazione al ministro della Salute Roberto Speranza. «Quando ho letto la risposta - dice Dara al Giornale - ho dubitato della capacità di comprensione di chi ha ricevuto l' interrogazione». Di Marcucci e della Kedrion non si parla. «Non una parola sugli evidenti conflitti di interessi. È costume del governo - sottolinea il leghista - agire nel buio ma non ci fermeremo». Nella risposta ci sono diverse cose che non tornano. Si dà atto che «originariamente» come capofila era prevista solo Pisa, senza dire che il San Matteo di Pavia è stato aggiunto dopo. Il ministero non spiega perché l' Iss, nella sua scelta, non ha tenuto conto della sperimentazione di Mantova e Pavia e dice che De Donno è nel comitato scientifico. Peccato che nel comunicato pubblicato sul sito dell' Aifa il nome di De Donno non ci sia. Inoltre si sostiene che lo studio Tsunami è «l' unico randomizzato in grado di valutare la sicurezza e l' efficacia della terapia». Ma se questa sicurezza ed efficacia non sono ancora certe (tanto che l' Iss non ha tenuto minimamente il conto l' esperienza di Mantova) per quale ragione si è dato il via libera alla produzione di plasma industriale imperimmune alla Kedrion? Per quale ragione le prime consegne sono previste ad ottobre? Anche l' Avis, chiamata in causa da De Donno nell' intervista al Giornale di ieri, ci tiene a precisare di non aver mai parlato di pericolosità del plasma, la cui terapia in Italia ha elevatissimi standard di qualità e sicurezza. Resta un dubbio. Nella sua audizione al Senato, l' ad Kedrion Paolo Marcucci ha detto che il plasma iperimmune industriale, se congelato, può durare fino a 4 anni. Ma se il virus mutasse? Il plasma industriale congelato sarebbe utile? Lo abbiamo chiesto a De Donno: «In realtà una risposta precisa non c' è. È ovvio però che se il virus muta, fra quattro anni il plasma sarà vecchio. Un po' come il vaccino dell' influenza che deve cambiare ogni anno».
LA PRECISAZIONE DI KEDRION. Dagospia il 26 maggio 2020. Gentile Direttore, Le scrivo in nome e per conto della Kedrion s.p.a., in persona del Presidente ed Amministratore delegato Dott. Paolo Marcucci, al fine di tutelare gli interessi della Società nei confronti del Vostro giornale on line, poiché, a seguito di attività di monitoraggio sul web, è emersa la pubblicazione, nella data di ieri, di un articolo intitolato “Sangue amaro esposto della Lega sulla vicenda del Business del plasma affidato all’Azienda do Famiglia del Capogruppo PD al Senato Andrea Marcucci...” (doc.1) tuttora presente sul web, nel quale vengono affermate circostanze non corrispondenti a verità. Le chiedo la cortesia di intervenire immediatamente, provvedendo alle opportune modifiche su quanto espongo alle Sue valutazioni e responsabilità. La Società è ovviamente consapevole che, in questo periodo, si stia dibattendo presso la pubblica opinione a proposito dell’utilizzo terapeutico del plasma umano in funzione anti-Covid e non ha ritenuto di intervenire, fino ad adesso, perché ha osservato, da subito, che il tema ha assunto i toni di una contesa politica, alla quale è e deve rimanere del tutto estranea. Tuttavia, proprio per la importanza e l’attualità del tema, a questo punto, la mia assistita non può esimersi dal precisare alcuni fatti, che, per ragioni varie, sono stati rappresentati, in diverse sedi, compresa la Sua, in maniera difforme dal vero, per cui si ritiene utile che la platea dei Suoi lettori e dei cittadini italiani sia messa in grado di conoscere puntualmente gli accadimenti affinché sia offerta un'informazione completa ed ineccepibile.
1) La prima cosa che è doverosa chiarire é che non c’è mai stata nessuna contrapposizione tra la Ke- drion e il Dott. De Donno, come si lascia intendere sulla stampa, anzi:
a) Nel periodo tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, Kedrion ha ricevuto da parte dei centri tra- sfusionali degli Ospedali di Padova, Mantova e Pisa la richiesta di fornitura di macchinari e kit per l’inattivazione virale del plasma da convalescente Covid-19 da utilizzare a cura di questi Ospedali per uso trasfusionale e per trattare a titolo sperimentale i pazienti con Covid-19; era stato il Centro Nazionale Sangue a richiedere che il plasma utilizzato in queste sperimentazioni fosse preventiva- mente sottoposto ad un processo di inattivazione virale prima della sua somministrazione.
b) Kedrion, pertanto, ha fornito all’Ospedale Carlo Poma di Mantova (il cui primario di Pneumolo- gia è il Prof. Giuseppe De Donno) il macchinario per l’inattivazione virale (nome commerciale IN- TERCEPT®) e 500 kit utili alla preparazione di unità di plasma da convalescente che consentono di trattare circa 500 pazienti. Ad oggi nell’ambito della sperimentazione, il cui promotore è l’Ospedale San Matteo di Pavia e a cui ha aderito anche il Carlo Poma di Mantova, sono stati trattati circa 50 pazienti. La circostanza non è seriamente discutibile, come risulta dalla stampa della cittadina (cfr.: La Voce di Mantova del 4.4.20 (doc. 2a) e la Gazzetta di Mantova del 14.5.20 (doc.2b) e di oggi 24.4.20 (doc.2c), dalla quale risultano i ringraziamenti dell’Ospedale cittadino nei confronti di Kedrion, “che ha donato al Carlo Poma apparecchiatura e Kit per portare aventi il protocollo sul plasma”.
c) Per completezza, altri Centri lombardi hanno avanzato la richiesta di fornitura di questi strumenti (Bergamo, Niguarda – MI, Lecco) e a tutti è stata garantita la fornitura gratuita inclusi 100 kit . Anche in Veneto (Ospedali di Verona e di Vicenza) sono state fornite ulteriori strumentazioni, con la stessa modalità.
2) In più punti, l’ articolo di oggi afferma che “il plasma iper-immune industriale sarà prodotto dalla Kedrion" e si domanda, estrapolando frasi attribuite a terzi, “per quale ragione si è dato il via libera alla produzione di plasma industriale iper-immune alla Kedrion?”...”Per quale ragione le prime consegne sono previste ad ottobre?”. Ebbene non è così: Kedrion non ha ricevuto dalle Autorità pubbliche italiane alcuna autorizzazione o commessa per inattivare in maniera industriale il plasma iper-immune. Ad oggi Kedrion ha solo donato agli Ospedali che lo hanno richiesto i kit di inattivazione virale e offerto in comodato d'uso la macchina necessaria per questa inattivazione. Nessuna consegna di plasma iper-immune italiano è prevista per ottobre o per il futuro. I fatti veri, sul dibattito emerso sulla stampa in questi giorni, sono i seguenti:
A) Si è già concluso il protocollo sperimentale sviluppato dal Servizio di Immunoematologia e Medicina Trasfusionale del San Matteo di Pavia (Principal Investigator) in collaborazione con altre strutture quali quelle di Lodi e Mantova. I risultati sono stati proposti per la pubblicazione sulla rivista JAMA. La sperimentazione dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Padova è attualmente in corso. Si noti che “le sperimentazioni fino a qui citate non sono studi controllati randomizzati”.
B) Erano circolate voci secondo le quali il Ministero della Salute non si sarebbe fatto carico della sperimentazione e, in data 7 maggio, Istituto Superiore di Sanità e AIFA, insieme, hanno annunciato di essere impegnati nello sviluppo di uno studio nazionale comparativo (randomizzato) e controllato per valutare l’efficacia e il ruolo del plasma ottenuto da pazienti guariti da Covid-19 con metodica unica e standardizzata.
C) L’Ospedale San Matteo di Pavia, insieme all'Azienda ospedaliero-universitaria di Pisa, è ad oggi il Principal Investigator dello studio (chiamato TSUNAMI), che coinvolge al momento 56 centri distribuiti in 12 Regioni. L’Ospedale di Pisa si tira dietro le Regioni del consorzio PLANET della plasma-derivazione (Campania, Marche, Umbria ed altre ancora fino ad arrivare ad una decina circa) per cui possiamo solo presupporre che l’assegnazione che impegna, e soprattutto coinvolge, più Regioni, indipendentemente dal colore politico, sia dettata da fini della maggior sensibilizzazione possibile per un’operazione che promette di randomizzare una procedura in grado di salvare così tante vite umane da una morte orribile. Deve, quindi, essere chiaro che Kedrion non ha nulla a che fare con queste sperimentazioni né con altri studi in corso. Ha solo fornito strumentazione e i kit per l’inattivazione virale in comodato d’uso a titolo gratuito.
D) Si intende, inoltre, precisare, come è stato confermato pubblicamente da varie autorevoli voci scientifiche, la terapia al plasma è complementare, non è in alternativa, ad altre terapie utilizzate o in via di sviluppo contro il Covid-19.
E) Il Sistema Sanitario Italiano si è mosso tra i primi nel mondo nella ricerca sull’utilizzo del pla- sma come terapia Anti-Covid-19 e l’Italia è stata presa come riferimento da tantissimi Paesi.Tutta l’industria della plasma-derivazione a livello mondiale sta lavorando in progetti di ricerca su un concentrato di immunoglobulina partendo dal plasma dei guariti come potenziale trattamento per ipazienti con Coronavirus.
Il Sistema Sanitario Nazionale potrà scegliere di utilizzare Kedrion, se lo riterrà vantaggioso, sia per un servizio di inattivazione a livello industriale del plasma da convalescente allo scopo di ottenere delle scorte da utilizzare, in caso di ripresa della pandemia, sia per un servizio di conto lavorazione del plasma da convalescente per produrre un’immunoglobulina destinata al Sistema Italia. Tale attività consisterà nella trasformazione di una materia prima di proprietà pubblica e di restituzione di un prodotto finito, che presumibilmente potrebbe avere costi più bassi rispetto ai prodotti del mercato o di piccolo laboratorio. Questo servizio, è bene chiarirlo, viene offerto da Kedrion, che è un player internazionale, a tutti indistintamente, così per il plasma italiano come pure per il plasma proveniente da altri Paesi del mondo intero.
Caro Direttore, personalmente mai avrei immaginato che sarebbe stata trascinata in polemiche artificiose l’unica Azienda italiana di emoderivati che, oltretutto, con encomiabile senso del dovere, ha messo gratuitamente a disposizione tutto quanto occorresse agli Ospedali che ne facevano richiesta, per la salvezza di vite umane nella propria Nazione e che non lascerà niente di intentato per le guarigioni del maggior numero possibile di malati nel mondo: scoraggiare il perseguimento di questi obiettivi è per me incomprensibile e sicuramente riprovevole. La invito, pertanto, a provvedere molto cortesemente alla rimodulazione dell’articolo precisando che quelle che appaiono affermazioni di verità altro non sono che espressioni di una parte politica, che esercita legittimamente i suoi diritti in Parlamento, ma che risultano del tutto infondate allo stato dell’arte, senza che sia necessario aggiungere altro, per ora, da parte mia, se non ringraziare per avere immediata conferma che sia stata resa Giustizia alla mia assistita, a chiusura definitiva della vicenda, ben disponibili a darLe tutta la documentazione che desiderasse, oltre a quella già offerta, per la Sua opportuna completa conoscenza su un tema così delicato...
Il plasma contro il coronavirus sta diventando un business? Le Iene News il 26 maggio 2020. Alessandro Politi e Marco Fubini tornano a parlarci del plasma iperimmune, utilizzato nelle sperimentazioni per curare il coronavirus. La K.edrion B.iopharma ha presentato in Senato un progetto farmaceutico legato all’utilizzo del plasma: questa possibile cura sta diventando un business? E se fosse vero: cosa ne penserebbe chi dona gratuitamente? In queste settimane con Alessandro Politi e Marco Fubini vi abbiamo parlato del plasma iperimmune utilizzato nelle sperimentazioni per curare il coronavirus. Oggi c’è una grande novità che ha stupito tutti: durante un’audizione in Senato in cui è intervenuto anche il dottor Giuseppe De Donno è stato presentato a sorpresa, cioè senza essere stato ufficialmente invitato, il presidente di K.edrion B.iopharma, Paolo M.arcucci che ha illustrato un mega progetto farmaceutico legato all’utilizzo del plasma iperimmune contro il COVID-19. Ma andiamo con ordine: la cura con il plasma iperimmune, sperimentata per la prima volta in Occidente negli ospedali di Pavia e Mantova, ha dato ottimi risultati. E sono partite sperimentazioni in tutto il mondo. Il ministero della Salute, insieme ad Aifa e all’Iss, ha fatto partire una sperimentazione nazionale. Il cosiddetto progetto “Tsunami”. Come capofila di questo studio, insieme all’ospedale di Pavia, viene scelta l’università di Pisa che ha all’attivo solo due casi di pazienti trattati con il plasma. Mantova invece è stata inizialmente estromessa: avevamo chiesto al ministro Speranza il perché, ma non abbiamo avuto risposta. Dopo le polemiche a seguito del nostro servizio, Mantova è entrata nella sperimentazione nazionale. E di questo il nostro Alessandro Politi ha parlato con il dottor Giuseppe De Donno, come potete vedere nel servizio qui sopra. Torniamo però all’audizione in Senato di cui vi abbiamo parlato all’inizio. È il presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi, a introdurre il presidente di K.edrion. K.edrion è una multinazionale farmaceutica che ha sedi in tutto il mondo, ma quella centrale si trova in Toscana, e ha collaborato spesso con l’università di Pisa finanziando progetti, fondazioni, bandi e concorsi. La K.edrion tra l’altro sponsorizza conferenze web sul plasma in cui, insieme al suo responsabile della ricerca Alessandro Gringeri, ci sono il professor Francesco Menichetti, che dall’università di Pisa guiderà la nuova sperimentazione nazionale, ma anche i direttori dei centri regionali sangue della Lombardia e dell’Abruzzo e anche quello nazionale. “Chiederò al dottor Paolo M.arcucci che ha un’azienda fortemente impegnata in questo studio clinico, magari vi darà qualche aggiornamento su come siamo messi”, ha detto Scaccabarozzi. Prima di ascoltarlo, è importante sapere che il business del plasma nel mondo vale miliardi di euro e che K.edrion B.iopharma è della famiglia M.arcucci. Paolo è il presidente, la sorella Marialina è stata vicepresidente della Regione Toscana per diversi anni e il fratello Andrea è nel consiglio di amministrazione dell’azienda e capogruppo del Partito democratico al Senato. Per prima cosa Paolo M.arcucci spiega il suo programma a lungo termine: “Il piano di contrasto si identifica in tre elementi. Il primo: l’industria ha risposto all’appello lanciato dagli ospedali fornendo gratuitamente la strumentazione e i kit necessari per l’inattivazione virale”. La K.edrion senza bando di gara, sia perché ha agito in situazione di emergenza vista la pandemia, sia perché non c’è stato scambio di denaro, ha regalato agli ospedali i kit per trattare il plasma iperimmune. Il progetto però non si ferma qui: “K.edrion intende mettere a disposizione il proprio stabilimento di Napoli Sant’Antimo per inattivare il plasma delle regioni e restituirlo come plasma industriale”. E inoltre aggiunge: “Nel paese ci sono quantitativi sufficienti per garantire la produzione di lotti industriali, così si eviterebbe di eseguire l’inattivazione virale nei singoli centri che è costosa”. Chi lavora questo plasma tutti i giorni però ci ha detto che il costo è bassissimo, come potete sentire nel servizio qui sopra. Il progetto di K.edrion comunque va oltre: “Il terzo elemento è un passaggio a una fase industriale più avanzata, che è l’utilizzo delle gammaglobuline iperimmuni. K.edrion ha siglato una partnership con Kamada, che è una eccellenza israeliana delle biotecnologie. L’idea è quella di renderle disponibili in termini farmaceutici”. Dal plasma si arriverebbe a un vero e proprio farmaco, che non servirebbe solo a curare i malati ma anche “per rafforzare le difese immunitarie di coloro che sono in prima linea. Penso ai medici, agli infermieri”. Quindi proteggere anche le persone a rischio. Parliamo di un progetto enorme, che potrebbe fruttare milioni di euro e che partirebbe proprio dal plasma dei nostri donatori che per legge in Italia possono donare solo a titolo gratuito. Se i donatori sapessero di questo progetto, cosa direbbero? Alessandro Politi è andato a parlare con alcuni di loro: “Ti viene da dire ‘allora sai, ciao’”, ci dice una di loro. “Io sono un donatore gratuito, voglio che sia dato gratuitamente a quella persona che devo salvare”, aggiunge un altro. La Iena interpella anche il professor Santin dell’università di Yale: il plasma standardizzato farmaceutico quanto costerà di più di quello delle donazioni? “Stiamo parlando sicuramente di migliaia di dollari, contro i meno di 100 dollari che in questo momento costa una sacca di plasma. Sapendo però bene che questo si trasforma poi in un farmaco. Guarda che i farmaci vengono ricaricati dieci, cento, mille volte sul costo reale. E le case farmaceutiche producono un prodotto per guadagnarci”. Ma voi che state trattando migliaia di pazienti con questo metodo, lo fate lavorare dalle case farmaceutiche? “No”. Ci sono dei vantaggi a farlo lavorare da una casa farmaceutica? “Prima di tutto hai un prodotto superconcentrato, essendo piccole quantità le congeli e le puoi mandare in tutto il mondo”. E ha anche degli svantaggi? “Gli svantaggi sono che il plasma sappiamo che funziona perché è carico di anticorpi neutralizzanti, però ci sono alcune delle proteine presenti nel plasma che hanno funzioni antivirali e questa componente nella raffinazione viene persa. Ecco quindi che questi nuovi anticorpi concentrati hanno bisogno di studi per poter dimostrare che funzionano come il plasma”. La lavorazione industriale quindi sembra lunga, e potrebbe anche non andare a buon fine. Quindi ci sorge una domanda: K.edrion da chi ha avuto mandato di fare il progetto che ha presentato? Lo chiediamo al direttore generale di Aifa, sotto cui è partita la sperimentazione nazionale Tsunami”: “Io non ne so niente, non ero all’audizione e non è compito mio. È di competenza del Centro nazionale sangue. In questa sperimentazione K.edrion non ha nessun ruolo”. Qui ci tornano in mente le parole del presidente di Farmindustria, che in Senato presenta il presidente di K.edrion in questo modo: “Ha un’azienda fortemente impegnata in questo studio clinico, uno studio nazionale… Per valutare l’efficacia e il ruolo del plasma ottenuto da pazienti guariti dal COVID-19”. Quindi K.edrion c’entra o no in questo studio? Ha vinto oppure no un appalto per lavorare il plasma iperimmune e farlo diventare un prodotto farmaceutico? E ci viene in mente un altro passaggio apparentemente poco chiaro: “Queste tre fasi sono tutte in corso… sono tutte in forse e le stiamo… perseguendo”, ha detto M.arcucci. Ma sono in corso, in forse o le stanno perseguendo? La Iena parla con Raffaello Stradoni, direttore generale dall’Asst di Mantova. Voi avete un accordo con K.edrion per la lavorazione del plasma iperimmune? “No, per il plasma iperimmune ancora non c’è. Adesso viene preso da singolo donatore a singolo ricevente e viene sempre lavorato internamente”. In Senato il presidente M.arcucci dice: “Per dare seguito a questa progettualità stiamo lavorando con la regione Lombardia, Veneto, Toscana, Campania, con l’auspicio che il progetto possa svilupparsi su scala nazionale”. Perché allora M.arcucci dice che è una cosa già in atto? “Non ne ho la più pallida idea”, risponde Stradoni. Alessandro Politi allora va a parlare anche con Carlo Nicotra, direttore generale del policlinico San Matteo di Pavia: a voi è arrivato un accordo che vi invita a mandare il plasma a K.edrion? “Assolutamente no, anche perché in Lombardia questo tipo di gestione del plasma è centralizzato”. Quindi non c’è nessun tipo di previsione di mandare a industrializzare il plasma? “Assolutamente no”. E anche dall’università di Padova ci confermano che non c’è alcun accordo con K.edrion per la fornitura di plasma iperimmune. Allora la Iena telefona al direttore scientifico dello Spallanzani di Roma, da cui passa l’approvazione di tutte le sperimentazioni nazionali, per chiedere il ruolo della K.edrion. “Non ne so niente di questo”. Ma è previsto che poi il plasma venga lavorato da loro? “Che io sappia no, anzi. Se vuole sapere, starei molto lontano da questi affari che sono sempre difficili da valutare”. Cosa vuol dire? “Se qualcuno pensa di farne un fatto di tipo economico, è un’altra cosa ma preferisco occuparmi di aspetti scientifici. Questo è plasma di convalescenti, conservato nei centri trasfusionali e rinfuso, basta”. Perché dice che starebbe lontano da questi affari? “Perché in questa vicenda del sangue non ho mai capito quale sia la catena e vorrei dire che i cittadini donano il sangue e lo Stato si ricompra il sangue più volte. Ma questa è una cosa che va lontana sul costo del sangue”. Quello che è certo è che se si deciderà di industrializzare la produzione del plasma iperimmune, una cosa è chiara: “La decisione, questa sì politica, è lo diamo in mano pubblica o privata?”, ci dice Stradoni. “Facciamo una gara o chiamiamo un’università e facciamo fare a lei? Lo affidiamo tramite un controllo o ai militari come in America?”. Se l’accordo l’avessero fatto in questo modo sarebbe stato giusto, il problema è che nell’audizione in Senato è uscita questa persona che sembra che dica ‘lo faccio io’. I rappresentati democraticamente eletti prendano queste decisioni attraverso tutto il gioco democratico”, aggiunge Stradoni. Ministro Speranza, noi siamo sempre qui. Anche se a noi non vuole rispondere, può almeno controllare che il plasma non diventi un business fatto sulla nostra pelle?
Le Iene: la cura al plasma sta diventando un business con al centro la famiglia del Pd M.arcucci. Il Secolo d'Italia sabato 30 Maggio 2020. Il plasma iperimmune contro il coronavirus sta diventando un business? Le Iene puntano i riflettori sull’ultima novità che riguarda la cura contro il Covid: la K.edrion B.iopharma ha presentato in Senato un progetto farmaceutico legato all’utilizzo del plasma. La K.edrion B.iopharma, con sede in Toscana e con un fatturato annuo di circa 800 milioni, è di proprietà della famiglia M.arcucci. L’amministratore delegato è Paolo M.arcucci, fratello maggiore del senatore e capogruppo Pd Andrea, che a sua volta è consigliere di amministrazione di K.edrion con funzione di supervisione sugli Stati Uniti. A ciò si aggiunge il fatto che l’Aifa e l’Iss hanno scelto Pisa (in Toscana) come capofila della sperimentazione della cura al plasma estromettendo Mantova e il dottor Giuseppe De Donno. Quindi da prodotto a basso costo il plasma iperimmune potrebbe diventare prodotto farmaceutico. Proprio ciò che paventava Giuseppe De Donno, il pioniere della cura al plasma contro il Covid. Quest’ultimo, che ha riaperto il profilo Fb, ha annunciato ai suoi followers che gli è stato assegnato il premio dedicato a San Giuseppe Moscati. “Era un dottore napoletano che curava la gente “gratuitamente” e veniva chiamato “dottore santo”. Ora, io santo non lo sono, e, vi confesso, non credo di meritare un premio dedicato a una così alta figura. Questo premio lo accetto a nome di tutti i pazienti che non abbiamo salvato, a nome di Massimo Franchini e di tutti i nostri colleghi, ma, soprattutto, a nome di tutti i meravigliosi donatori. Ricordatelo. La vostra donazione salva e chi salva una vita salva il mondo intero!”.
Richiesta di rettifica e deindicizzazione.
All’attenzione del Direttore responsabile. Oggetto: Marcucci + Kedrion s.p.a. /Antonio Giangrande. Rimozione di contenuti diffamatori. RIW n. 329.
Gentile Direttore, Facendo seguito a pregressi interventi positivamente definiti, l’ultimo dei quali come da Sua email del 4 maggio 2019 (doc. 1), il Senatore Andrea Marcucci, dott. Paolo Marcucci in proprio ed in qualità di Presidente di Kedrion s.p.a., hanno conferito ancora una volta mandato al mio Studio al fine di tutelare i loro interessi nei confronti di un Suo libro intitolato: “Il Coglionavirus quarta parte. La cura” disponibili ed acquistabili sia in formato e-book che cartaceo e pubblicati sul sito web books.google.it, nel quale da pag 622 e ss. (doc.2) viene ripreso e richiamato un servizio prodotto dalla trasmissione televisiva “Le Iene” andato in onda su Italia 1 il 26.05.2020, intitolato: “Il Plasma contro il Coronavirus sta diventando un business?”
Debbo preliminarmente ricordarLe che tale servizio, diffuso sui siti web iene.mediaset.it e mediasetplay.mediaset.it, fonte originaria della pubblicazione dell’articolo, a seguito di nostra denuncia penale presso la Procura della Repubblica di Lucca contro Regista e Conduttori della trasmissione, è stato rimosso mediante oscuramento della pagina web disposto con sequestro preventivo dal G.I.P. dott. Nerucci del Tribunale di Lucca, con provvedimento del 29.01.2021 (RG 3051/2020). Non solo, successivamente, contro il Direttore del programma “Le Iene” ed i due inviati del servizio sopra indicato, il PM dott. Corucci del medesimo Tribunale ha emesso decreto di citazione diretta a giudizio del 12.05.2021 (RG 3051/2020) contestando il reato di diffamazione aggravata, con data della prima udienza dibattimentale fissata al prossimo 13.05.2022 così condividendo la bontà delle argomentazioni rappresentate dai querelanti. Per le vie brevi, nel merito, il servizio de “Le Iene” è gravemente lesivo dell’onorabilità dell’Azienda e dei suoi dipendenti, infatti, ha trattato con disarmante superficialità e ignoranza tecnica la normale catena di trasformazione del sangue (di cui il plasma è la parte liquida) in farmaci salvavita, e il suo ordinario funzionamento nel mondo, che prevede l’intervento di procedimenti industriali svolti da aziende private o pubbliche. Imputare ad una Azienda di emoderivati che faccia industria con il sangue ha lasciato francamente interdetti. Inoltre Kedrion, una significativa realtà d’impresa tutta italiana, 5° gruppo al Mondo nel settore dei plasma-derivati, non casualmente, non ha avuto la possibilità di argomentare le proprie ragioni in un contraddittorio con Le Iene, pur richiesto prima della trasmissione stessa. I responsabili della trasmissione, come detto, imputati per diffamazione davanti al Tribunale penale di Lucca hanno inflitto un gravissimo danno a Kedrion, la più importante azienda italiana di emoderivati ed all’intero sistema sangue italiano, che rappresenta un’eccellenza nel mondo e di cui le Associazioni di donatori sono parte indispensabile, insieme alle Istituzioni pubbliche di gestione e regolazione.
Orbene, Le ricordo che la Giurisprudenza si è già occupata del tema sulla riproduzione e riproposizione di contenuti diffamatori già pubblicati altrove per affermare che: “Non costituisce una modalità esecutiva di un unico reato di diffamazione già consumato con la prima pubblicazione, bensì integra una condotta autonoma sul piano oggettivo ed eventualmente anche su quello soggettivo, rispetto a quella precedente” (Cassazione sez. I n. 317/1976; Cass. Sez. V n. 5781/2013): esattamente la fattispecie in oggetto. Il fatto non è più attuale e non esiste più il pubblico interesse affinché la notizia permanga sulla rete internet, con espressioni fuorvianti che non rappresentano la veridicità dei fatti esposti nel servizio, a maggior ragione a seguito dell'intervento censorio contestato dalla Magistratura penale del Tribunale di Lucca, sopra richiamata.
La invito, pertanto, a provvedere cortesemente all’ immediata rimozione dei richiami al servizio de Le Iene, contenente riferimenti a Kedrion spa ed al Dott. Paolo Marcucci, del tutto impropri, peraltro, già eliminati, come detto, dalla fonte di origine, con la avvenuta de-indicizzazione da Google e dai più comuni motori di ricerca del web, evitando così di incorrere nella contestazione di un'autonoma fattispecie di diffamazione aggravata ex art. 595 c.p., senza che sia necessario aggiungere altro, per ora, da parte mia, se non ringraziare per avere sollecita conferma che è stata resa Giustizia ai miei assistiti, a chiusura definitiva della vicenda, senz’altro a pretendere né in sede penale né civile. Con i migliori saluti Avv. Carlo Cacciapuoti
Genova 30 giugno 2021
Quarantena, autopsie e plasma iperimmune: tre domande al ministro della Salute. Le Iene News il 20 maggio 2020. Quarantena, autopsie sulle vittime del coronavirus e plasma iperimmune: Alessandro Politi ci racconta alcune cose che non siamo riusciti a capire nelle decisioni del ministero della Salute in questa crisi. Dopo aver parlato con il professor Giuseppe De Donno della sperimentazione del plasma iperimmune, abbiamo fatto alcune domande al ministro della Salute Roberto Speranza. Perché non avete ancora aggiornato i protocolli per le quarantene? Perché avete sconsigliato di fare le autopsie ai casi conclamati di Covid-19? Perché l’ospedale di Mantova è stato estromesso dalla sperimentazione nazionale del plasma iperimmune? Sono le tre domande che rivolgiamo al ministro della Salute, Roberto Speranza, ora che tutta Italia è entrata nella Fase 2 dell’emergenza coronavirus. Partendo dal primo quesito, Alessandro Politi ci ha raccontato di essere stato positivo per ben 49 giorni e purtroppo non è un caso isolato, nonostante i numeri regionali continuano a consigliare “una quarantena di 14 giorni dalla fine dei sintomi”. Durante l’emergenza sanitaria il ministro ha firmato un decreto in cui scrive che “per l’intero periodo della fase emergenziale non si dovrebbe procedere all’esecuzione di autopsie o riscontri diagnostici nei casi conclamati di Covid-19”. C’è chi ha preferito non seguire queste indicazioni come il professore Paolo Dei Tos, dirigente di anatomia patologica all’Università di Padova: “Una scelta che non aveva senso, noi oggi sappiamo che il virus rimane all’interno dei liquidi biologici per alcuni giorni. Abbiamo compreso che non si tratta semplicemente di una banale polmonite. Probabilmente il ministero ha consigliato di non fare le autopsie per un eccesso di zelo nel non esporre gli operatori a un rischio giudicato da loro non sufficientemente utile”. Il ministero della Salute ha dato il via libera a una sperimentazione sul plasma iperimmune che ha messo a capo l’ospedale di Pisa, nonostante a Mantova ci lavoravano con successo già da due mesi. “Un protocollo preso da esempio da molti stati europei”, dice Giuseppe De Donno, direttore di terapia intensiva al Carlo Poma di Mantova. “Alla fine Speranza con me non si è fatto vivo, nonostante la prima certificazione dello studio sia di Mantova e Pavia”, dice a Le Iene. “Non ci sono motivi scientifici per questo nuovo studio a Pavia, le motivazioni vanno cercate in altro ambito. C’era la volontà di chiudere il plasma in cantina”. Ma nessuno sembra si sia scagliato allo stesso modo contro le sperimentazioni con i farmaci. “In questo paese si usano due pesi e due misure”, sostiene De Donno. Pochi giorni fa l’Emilia-Romagna ha bocciato la plasma-terapia. “Gli esperti in tv creano un effetto negativo sull’opinione pubblica e sarebbe il caso che si assumessero le loro responsabilità, i pazienti guariti così non verranno mai a donare e quelli attualmente malati non potranno ricevere il plasma dai convalescenti”, dice De Donno. “È una cosa gravissima. Abbiamo avuto scienziati che dicevano che per ammalarsi di coronavirus bisognava andare a Wuhan…”. Ora è importante creare le banche del plasma dei guariti che sono in numero maggiore rispetto agli ammalati, ma non sappiamo fino a quando il loro plasma rimane iperimmune. “Dobbiamo essere prontissimi qualora dovesse arrivare una seconda fase, se continuiamo così la Lombardia e il Veneto saranno pronti”. Intanto che il governatore Zaia è partito con la raccolta del plasma due settimane fa, rimangono senza risposta le nostre 3 domande che abbiamo fatto al ministro Speranza.
Coronavirus, Salvini: “Perché nessuno parla della terapia al plasma?” Marco Alborghetti il 05/05/2020 su Notizie.it. Il leader della Lega Salvini chiede spiegazioni riguardo al presunto silenzio dei media sulla terapia al plasma utilizzata contro il coronavirus. Il leader della Lega Matteo Salvini su Twitter ha parlato della terapia al plasma utilizzata per curare i malati di coronavirus negli Stati Uniti e all’ospedale di Mantova, chiedendo spiegazioni sul silenzio che aleggia intorno alla notizia, nonostante la sua efficacia. Un implicito attacco alle aziende farmaceutiche? Matteo Salvini tuona di volerci vedere chiaro sulla questione della terapia al plasma che negli Usa e all’ospedale di Mantova avrebbe trovato consistenza in termini clinici per la cura del coronavirus, esprimendo con toni polemici la propria opinione a riguardo e attirando non poche polemiche. “Dateci una mano facendo sapere agli italiani quello che molte televisioni nascondono, il fatto che funziona una cura il virus ed è gratis o quasi”. Una terapia che come ricorda lo stesso leader della Lega “è dovuta all’ingegno dei medici, dei ricercatori e dei donatori di plasma”.
Attacco alle aziende farmaceutiche. Il silenzio che si è creato attorno alla notizia ha destato qualche sospetto nell’ex ministro degli Interni: “Perché non sperimentarla a livello nazionale? Perché il silenzio del ministero della Salute, perché il silenzio dell’istituto superiore della sanità?”. “I cittadini – sottolinea con tono sarcastico – a questo punto potrebbero avere il dubbio che siccome il plasma è gratis, siccome non c’è dietro un business di qualche industria farmaceutica, siccome non ci sono appalti e guadagni milionari, allora è meglio occuparsi di altro“.
Cura al plasma, De Donno saluta: mi faccio da parte, per il bene della scienza. Lo hanno costretto? Redazione venerdì 8 maggio su Il Secolo d'Italia. Cura al plasma, il dottore-sponsor Giuseppe De Donno si autocensura. Dopo la sparizione dai social è arrivato il videomessaggio di cinque minuti nel quale il direttore di Pneumologia al Poma di Mantova, il principale paladino della cura al plasma iperimmune per battere il Covid, annuncia che farà un passo indietro. Che non cerca visibilità, che ringrazia le istituzioni e anche i Nas che hanno voluto indagare sui suoi metodi. Dice che non vuole zuffe tra colleghi e che non vuole utilizzare i morti per fare pubblicità. Ringrazia chi lo ha sostenuto e invita i gruppi social in suo sostegno a lanciare solo messaggi di pace e amore.
De Donno si fa da parte, un’imposizione dall’alto?
“Sembra un prigioniero dell’Isis”, ha commentato Selvaggia Lucarelli, facendo intendere che lei propende per l’ipotesi secondo cui a De Donno è stato intimato il silenzio. Troppi interessi in gioco, troppo pericolosa la divaricazione che si era creata tra lo schieramento in favore di De Donno e i suoi detrattori per i quali senza vaccino il virus non è imbattibile. I virologi da talk show lo hanno attaccato, i media lo hanno trascurato fino a quando la pressione dal basso dei social è stata talmente evidente da non poter più ignorare il caso De Donno. Ora lui stesso si fa da parte, ristabilendo equilibri e gerarchie tra poteri e lobby sanitarie che la sua cura “per il popolo” aveva destabilizzato. Ecco cosa ha detto nel suo videomessaggio: “La pressione mediatica è stata tale da non permettermi di operare serenamente. Per questo motivo ho reputato prudente chiuderei miei account social”.
Ha detto poi di voler lanciare un “messaggio di calma e rasserenazione”. “Se ho parlato l’ho fatto per fare informazione ma non come mezzo per azzuffarsi, i miei interventi sui mass media sono stati solo animati da spirito divulgativo su un protocollo che ottiene risultati lusinghieri e incoraggianti”. Un protocollo – ha specificato – che tanti Stati ci invidiano e che ora viene seguito da più centri in Italia.
Lavoriamo tutti per la lotta al virus. “Vi ringrazio per la vicinanza- ha detto poi ai suoi sostenitori – ma non sono disponibile a zuffe mediatiche atteso che tutti noi medici lavoriamo per una causa unica che è la lotta al virus. Non utilizzo i morti per fare pubblicità. Manterrò un profilo basso in attesa che arrivino i risultati sulla sperimentazioni che riguardano l’Italia e il mondo”.
Massimo Finzi per Dagospia l'8 maggio 2020. Un po' di chiarezza a proposito della terapia con plasma iperimmune nella lotta al Covid19. E’ una cura innovativa? No, è stata impiegata per la prima volta su basi scientifiche nella seconda metà del 1800 dal Prof. Paul Ehrlich, uno scienziato ebreo tedesco premio Nobel. In pratica una cura che prevede la somministrazione per via iniettiva di siero prelevato da persone o animali resi immuni da una determinata malattia. Esistono varie forme di sieroterapia: antitossica, antibatterica ecc. Una pratica che in oltre 140 anni ha permesso di affrontare malattie come difterite, tetano, botulino o di neutralizzare il veleno di serpenti, scorpioni ecc. Nel caso del covid19 si tratta di usare il plasma dei soggetti guariti dalla malattia contenente gli anticorpi specifici contro il coronavirus Sars2. Allora tutto risolto? Ci sono alcune criticità.
1) Il prelievo presuppone che ci siano i donatori cioè che ci siano persone che abbiano contratto e superato la malattia.
2) Per una singola infusione sono necessari almeno 2 donatori.
3) La donazione è gratuita ma gli accertamenti di laboratorio, la separazione delle varie frazioni del sangue (plasmaferesi) necessitano di personale altamente specializzato e di apparecchiature costose.
4) I candidati alla donazione non sono numerosi per vari motivi: a) la malattia è molto debilitante. b) la maggior parte dei malati sono molto anziani. c) Non possono donare il sangue i diabetici, gli ipertesi, coloro che assumono cronicamente farmaci ecc.
5) Malgrado gli esami più accurati, l’infusione di emoderivati non è esente dal rischio di trasmissione di malattie infettive specie epatite B/C ( finestra immunologica).
Ovviamente vale sempre la regola: a mali estremi estremi rimedi. Molto promettenti al riguardo sono gli studi condotti in Israele per produrre sinteticamente (clonazione) l’anticorpo specifico verso il covid19 in attesa del vaccino. Quale la differenza tra l’azione dell’anticorpo e quella del vaccino? Sinteticamente: l’anticorpo contrasta la malattia, il vaccino la previene: il primo cura il malato il secondo impedisce al sano di diventare malato.
Il plasma può fermare il Covid-19? La risposta degli esperti. Francesco Boezi su Inside Over l'8 maggio 2020. Il professor Pietro Chiurazzi è un genetista. Si occupa di Dna. E il Dna, in qualche modo, ha a che fare con questa storia del plasma dei guariti dal Covid-19. Vedremo bene perché. Chiurazzi è un professore associato della Università Cattolica, Facoltà Medicina e Chirurgia. All’interno del Policlinico Gemelli, è un dirigente medico dell’Unità operativa complessa di genetica medica. “C’è molta confusione in giro”, esordisce.
Una “confusione” che può però essere “giustificata” per via dello stato di emergenza, che certo non facilita una descrizione chiara del quadro. Chiurazzi ha anche comparato le sequenze del Dna del Sars-Cov2, contribuendo a dimostrare, con buone probabilità, la compatibilità del virus con un’evoluzione naturale. Il Covid-19 nulla dunque avrebbe a che fare con manipolazioni umane da laboratorio. In questo articolo, abbiamo già parlato di quello studio.
L’argomento del giorno, dal punto di vista medico-scientifico, è il plasma dei guariti…
«Un punto mi risulta chiaro: a rigor di logica, questo trattamento ha una sua utilità. In molti casi, specie in situazioni di emergenza, l’uso del plasma dei guariti può essere determinante. Sul lungo periodo, invece, il plasma non è certamente la soluzione migliore. La nostra speranza è che, avendo adesso una maggiore conoscenza della patologia e dell’infezione, non sia più necessario arrivare a rianimare un paziente. Bisogna fare testing a pioggia (tamponi per l’Rna virale ai sintomatici e ricerca degli anticorpi agli asintomatici ed ai guariti), più test possibili e più presto possibile, in modo tale da iniziare a fare prima ciò che deve essere fatto, a seconda del quadro clinico».
Più test possibili, ma il sistema immunitario sembra rispondere in modo diverso da paziente a paziente..
«Se ci sono delle difficoltà respiratorie, possono essere utilizzate coperture cortisoniche importanti. Infatti, apparentemente, una iper-reattività del sistema immunitario innato di alcuni pazienti rappresenta una concausa importante dei problemi respiratori. In alcuni casi, non è tanto il virus che uccide cellule e polmoni, ma è l’eccessiva reazione immunitaria a colpire. La risposta immunitaria, in alcuni soggetti, è esagerata. Questa iper-reattività potrebbe dipendere anche da fattori genetici: il Dna, in alcune circostanze, ordina di rispondere in quel modo. Quindi alcuni pazienti guariscono proprio grazie al sistema immunitario, mentre altri, invece, avendo una reazione esagerata, fanno sì che i polmoni si riempiano di liquido per la troppa infiammazione. Inoltre è importante prevenire una tromboembolia polmonare (e non solo) iniziando tempestivamente, ma sempre sotto controllo medico, una terapia anticoagulante con eparina».
E quindi il plasma dei pazienti guariti?
«Serve, ma è una scelta di emergenza. Bisogna avere un donatore compatibile con lo stesso gruppo sanguigno e poi le donne non possono donare. Infatti, donne in età fertile o che abbiano avuto delle gravidanze, sviluppano degli anticorpi anti-Hla che possono essere molto pericolosi per il ricevente. Infine esiste un rischio di reazione allergica (fino a shock anafilattico) per alcuni soggetti che reagiscono a proteine del plasma che differiscono naturalmente tra individuo e individuo o di cui, per motivi genetici, possono essere privi. E questo potrebbe avvenire nel corso di una seconda somministrazione».
Quindi ci sono dei rischi..
«Dei rischi ci sono. Quelli infettivi però sono bassissimi. In Italia c’è un alto grado di controllo sulle donazioni. Ad esempio il rischio di contrarre l’epatite B con l’uso di emoderivati è inferiore ad uno su un milione. Non possiamo escludere mai del tutto ogni rischio, ma in certi casi il gioco può valere la candela».
E i costi della trasfusione del plasma dei guariti?
«Di per sé i costi non sono enormi».
Ma il plasma è comunque sottoposto a molti attacchi…c’è un pregiudizio ideologico?
«Il costo – come detto – non è eccessivo, ma la preparazione e l’organizzazione dovrebbero essere molto accurate. Noi al Gemelli potremmo in teoria somministrare il plasma dei guariti. Però attenzione: non tutti gli anticorpi di coloro che sono guariti dal Covid-19 sono neutralizzanti, cioè in grado di bloccare la progressione della infezione. Significa che non tutto il plasma di tutti i guariti risulta davvero utile contro il virus. Per valutare il titolo degli anticorpi dei soggetti guariti servirebbe un laboratorio di microbiologia con livelli di sicurezza molto elevati perché bisogna poter maneggiare il virus. E perché è necessario dimostrare su colture cellulari che quegli anticorpi di quello specifico donatore sono capaci di bloccare l’infezione. Però, dagli studi su altri coronavirus, sappiamo che un certo quantitativo degli anticorpi sviluppati è comunque neutralizzante e praticamente tutti i pazienti finora analizzati producono anticorpi a partire da 20 giorni dopo l’inizio dei sintomi».
E quindi?
«Si può supporre che, al di sopra di un certo titolo anticorpale contro questo nuovo coronavirus, il plasma di un soggetto guarito sia neutralizzante. E’ possibile che in Lombardia, per via della assoluta emergenza, qualche verifica sia stata saltata, senza preoccuparsi insomma se c’erano titoli sufficienti di anticorpi effettivamente “neutralizzanti”. L’alternativa, del resto, era quella di non fare nulla, mentre gli studi dei colleghi cinesi hanno confermato una certa efficacia delle trasfusioni di plasma. Ora attendiamo la pubblicazione dei dati relativi ai trattamenti eseguiti dai colleghi del Nord del Belpaese».
Sembra nascere un derby tra sostenitori del vaccino e sostenitori del plasma…
«Penso che questo sia un contrasto sbagliato e controproducente. Possono servire entrambi gli strumenti in contesti epidemiologici diversi. Sulla linea del fonte, con la medicina di guerra, tutto può essere utile. Il plasma del donatore guarito può essere d’aiuto. Il vaccino, quando l’infezione è avanzata, non serve a niente. Tutti ci auguriamo che il vaccino arrivi ed è possibile che divenga presto realtà con i tanti laboratori impegnati nel suo sviluppo. Alcuni temono che il virus muti troppo rapidamente per ottenere un vaccino valido per tutti i “ceppi” circolanti, ma alcune proteine, come la Spike (le antenne del virus che ne consentono l’ingresso tramite il recettore ACE2) sembrerebbero essere più “costantei”, per cui la speranza di un vaccino è fondata. Certo dovrebbe essere disponibile a costi accessibili e ovviamente proposto su base volontaria ai soggetti più “fragili” ed agli operatori sanitari che sono professionalmente più esposti».
Coronavirus, il plasma umano? Poco "remunerabile", ecco perché nessuno dà retta al dottor De Donno. Libero Quotidiano il 10 maggio 2020. Tiene banco la questione del plasma iperimmune con anticorpi policlonali, quella che ad oggi sarebbe la cura più efficace contro il coronavirus. Tiene banco anche per la denuncia del dottor Giuseppe De Donno, direttore di Pneumologia e Terapia intensiva respiratoria del Carlo Poma: "Non abbiamo un decesso da un mese. I dati sono splendidi. La terapia funziona ma nessuno lo sa". De Donno, in buona sostanza, spiega che governi stranieri si sono rivolti a lui per la cura mentre, in Italia, nessuno gliene ha chiesto conto. Da qui, una teoria un pelo complottista: dato che è una cura su cui è quasi impossibile monetizzare, ovvero fare soldi, non interessa a nessuno. Ragione per la quale De Donno sarebbe sparito. Il punto è che la sieroterapia col plasma iperimmune ha il limite che nessuno può commercializzarla o brevettarla, almeno in Italia. Non è un farmaco perché trattasi di plasma donato dai pazienti ed è una cura antica che si usa da 100 anni.
"Governo e Iss disinteressati, forse perché è gratis". Virus, il dubbio di Salvini sulla cura al plasma: giocano sulla nostra pelle?
Lo spiega Affaritaliani.it, che ricorda come "è stata utilizzata ogni volta che non c'erano altre terapie utili o un vaccino, come contro le epidemie di Spagnola, l'Ebola, la Sars, la Mers. È sicura e controllata come può esserla una trasfusione moderna. Ma non sembra vada bene". Anche il governatore Luca Zaia aveva lanciato un appello a favore della sperimentazione. Ma sempre Affaritaliani.it ha interpellato i direttori del San Matteo e del Carlo Poma, che hanno spiegato che "il plasma iperimmune si basa sull’azione di anticorpi policlonali neutralizzanti per il Sars-Cov-2, prelevati da pazienti già guariti dal Covid. Gli anticorpi policlonali trasfusi nei malati, debellano il virus in tempi rapidi, dalle 2 alle 48 ore, bloccando il danno sugli organi. Le somministrazioni controllate possono avvenire a distanza di 48 ore l’una dall’altra, nel caso un'unica infusione non vada a segno".
"Facile e veloce, così i guariti possono salvare tante vite". Anche la 'iena' Politi dona il sangue per la cura al plasma.
Il sangue umano ancora non si può riprodurre artificialmente nella sua complessità. La sieroterapia funziona con il plasma, una parte del sangue. E l'efficacia della terapia realizzata con plasma artificiale, da realizzare in laboratorio e dunque commercializzabile, è ancora tutta da valutare. "In questo momento il plasma iperimmune che ci viene donato è il più sicuro al mondo", spiega ad Affaritaliani Cesare Perotti, direttore del Servizio Immunoematologia e Medicina Trasfusionale del policlinico San Matteo. E ancora, spiega che "la legislazione italiana ha delle regole stringenti che non ci sono in Europa e in nessun altro Paese al mondo, neanche negli Stati Uniti. Non solo abbiamo gli esami obbligatori di legge sul plasma per essere trasfuso, ma abbiamo degli esami aggiuntivi e il titolo neutralizzante degli anticorpi che è una cosa che facciamo solo noi al policlinico di Pavia. Neanche gli americani sono in grado di farlo in questo momento. Non ha eguali al mondo. Noi sappiamo la potenza, la capacità che ciascun plasma accumulato ha di uccidere il virus. Ogni plasma è fatto in modo diverso perché ogni paziente è diverso, ma noi siamo in grado di sapere quale usare per ogni caso specifico”. Resta un evidenza, però: la sieroterapia da Mantova e Pavia si sta diffondendo in tutto il mondo. Ma è un metodo vecchio, come detto poco remunerabile, si basa sulla solidarietà di chi è guarito. E se non c'è un complotto dietro al suo mancato utilizzo, per certo ci sono delle ragioni che ci devono spingere a fare qualche riflessione.
Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 10 maggio 2020. È una brutta storia quella del dottor De Donno. Una storia che parte in un modo e diventa altro, una storia luminosa di una sperimentazione col plasma che sembra suggerire risultati incoraggianti e che poi si trasforma in tifo, strumentalizzazioni, complottismo da bar. Con un epilogo – il video di oggi in cui De Donno legge un comunicato con l’aria rigida e innaturale del rapito dall’Isis – che non lascia presagire niente di buono. Partiamo dall’inizio. Giuseppe De Donno è primario di pneumologia presso l’ospedale Carlo Poma di Mantova. In questa struttura e al Policlinico di Pavia, si sperimenta la plasmaterapia per guarire i pazienti Covid che non hanno più di 10 giorni di problemi respiratori pregressi. Oggi la tecnica comincia ad essere sperimentata in diversi ospedali d’Italia tra cui lo Spallanzani, ma in effetti gli ospedali di Pavia e Mantova in Italia sono stati i primi. Nel mondo, invece, la sperimentazione avviene già in numerosi paesi tra cui gli Stati Uniti. La sperimentazione, a Mantova, ha dato buoni risultati: dei 48 pazienti trattati con il plasma, non c’è stato alcun decesso e tutti i pazienti sembrano sulla strada della guarigione. La plasmaterapia, va ricordato, non è un’invenzione di De Donno ma è una tecnica antica che venne utilizzata già nei primi del Novecento per curare la difterite. La complicata storia di De Donno inizia quando il primario fino a quel momento sconosciuto nella costellazione degli esperti sul campo, racconta con enfasi il successo della sperimentazione. De Donno non ha modalità di comunicazione tecniche, non ha il phisique du role del trombone della medicina, non ha fatto il tour dei salotti buoni della tv e lavora in un ospedale di provincia. Insomma, ha tutte le caratteristiche per diventare l’idolo del popolo. Quando inizia a parlare del successo della plasmaterapia sui pazienti trattati, il suo nome e la sua faccia iniziano a circolare. De Donno si concede per interviste, scrive post carichi di entusiasmo sui suoi social, comincia ad essere citato su giornali nazionali e la sua sperimentazione diventa un tema appassionante, sebbene ancora poco mainstream. Il cambio di rotta avviene quando il virologo influencer Roberto Burioni interviene sul tema. È fine aprile e Burioni pubblica un video in cui sottolinea l’importanza della plasmaterapia, aggiungendo che però non è niente di nuovo, che ha le sue criticità relative alla sicurezza del sangue dei donatori e che si potrebbe produrre del plasma artificiale. De Donno ha una reazione molto accesa e in un post su Facebook scrive: “Il signor scienziato, quello che nonostante avesse detto che il Coronavirus non sarebbe mai arrivato in Italia, si è accorto in ritardo del plasma iperimmune. Forse non conosce le metodiche di controllo del plasma. Visto che noi abbiamo il supporto di Avis. Glielo perdono. Io piccolo pneumologo di periferia. Io che non sono mai stato invitato da Fazio o da Vespa. Buona vita, quindi, prof Burioni. Le abbiamo dato modo di discutere un altro po’. I miei pazienti ringraziano. Condividete questo post, amici. Forse arriviamo al prof. E gli potrò chiedere un autografo! PS: vedo che si sta già arrovellando a come fare per trasformare una donazione democratica e gratuita in una ‘cosa’ sintetizzata da una casa farmaceutica. Non siamo mammalucchi!”. Il post, forse scritto con una foga eccessiva ma genuina e di certo senza calcoli sull’effetto che avrebbe potuto generare, conteneva in sé tutti gli elementi per diventare una miccia micidiale. Finalmente un medico delle “retrovie” mediatiche che si oppone alla prosopopea del potente Burioni. Quello che va ospite da Fabio Fazio, a Che tempo che fa. Quello che da vera star, in questa fase ha un contratto d’esclusiva con il programma di Fazio ed è rappresentato da un’agenzia bolognese, Elastica, assieme ad altri personaggi di diversi ambiti, da quello televisivo a quello letterario. Quello che è amico di Renzi e a lui Renzi aveva chiesto di candidarsi. Ed è così che De Donno diventa l’idolo delle masse. Di quelli che detestano la sinistra da salotto, di quelli che combattono i poteri forti coi meme e i gruppi Facebook, di quelli che “dobbiamo sconfiggere la lobby dei farmaci” e quindi di anti-vaccinisti e di una ciurma variegata di personaggi strambi. Oltre che di persone ragionevoli e dalla parte della sperimentazione seria, di persone che amano la discrezione del medico che lavora in corsia e meno le sicurezze di quello che pontifica in tv pur non occupandosi di terapie e pazienti. Insomma, di tutto un po’. Quel “Non siamo mammalucchi!” diventa un tormentone sul web, molti cittadini di Mantova lo ripetono tipo mantra in alcuni video. La situazione precipita dopo l’ultima puntata di Che tempo che fa, in cui si affronta il tema “plasmaterapia”. Roberto Burioni, ve detto, non critica affatto né la tecnica di cui ben conosce l’antica efficacia né la sperimentazione. Tra l’altro in collegamento c’è anche il virologo dell’ospedale di Pavia in cui avviene la stessa sperimentazione, Fausto Baldanti, che Burioni definisce “mio caro amico”, quindi non smonta affatto il suo lavoro. Ribadisce però che la plasmaterapia è molto costosa, che serve molto plasma di persone guarite e ce ne sono poche e che probabilmente la strada è quella di produrre plasma artificiale. E questa è la svolta dell’intera vicenda. La storia che sembra bella diventa un circo triste di partigianeria e recriminazioni, di politica e potere. Il giorno dopo De Donno si lamenta ai microfoni di Radio Bruno: “Burioni ha detto parole inaccettabili. La plasmaterapia non è costosa e il sangue è sicuro. In Italia non mi chiama nessuno, quando mi ha chiamato l’Onu ho pianto”. E poi, altrove, De Donno racconta che i Nas si sono messi a controllare il suo operato, che lui cerca di fare il bene della medicina e gli mettono il bastone tra le ruote. Gli elementi perché la politica se ne approfitti e cavalchi la tifoseria ci sono tutti. E così Salvini si attacca al carrozzone De Donno senza che De Donno gliel’abbia chiesto e scrive che la plasmaterapia funziona ma siccome le lobby farmaceutiche non ci possono speculare sopra, il Ministero della Salute si disinteressa. In pratica Salvini è meglio di Nature: lui decide che la cura funziona. Nascono gruppi Facebook con 40mila fan di De Donno , per esempio “Io sto con il dottor De Donno”. Anche il vecchio gruppo “Gli amici di Gesù” viene ribattezzato “#iostocondedonno”, come a dire che De Donno è il nuovo Messia. Chi osa esprimere anche un velato scetticismo sulla plasmaterapia come svolta definitiva per la cura del Covid viene bersagliato da una valanga di critiche e insulti su Twitter, come accaduto all’immunologa Antonella Viola che ieri, a Piazza Pulita, ha solo detto: “La terapia non sostituisce il vaccino, perché il plasma dei guariti può essere una cura ma non una prevenzione”. Che è una semplice verità, non un giudizio. Ma ormai De Donno è stato eletto, suo malgrado, icona della medicina pura e dura contro i poteri forti e il complottiamo è inarrestabile. Porta a Porta lo invita ma taglia una parte dell’intervista e “chissà cosa aveva detto di scomodo il dottor De Donno”. Spariscono, infine, tutti i profili social di De Donno e questa diventa la conferma definitiva che il coraggioso, piccolo medico di provincia (che poi è un fior di primario in un fior di ospedale) è caduto sotto la scure del Burionesimo. Salvini e i siti della Lega alimentano il sospetto con post insinuanti, circolano voci che De Donno sia stato invitato dalla Direzione sanitaria a stare zitto, sui siti che lo sostengono si respira aria di preoccupazione come se fosse legato e imbavagliato in una cantina sotto la terapia intensiva. Qual è la verità? Indagando sull’accaduto e ascoltando la voce di chi conosce lui e anche alcuni di quelli che non lo amano, l’impressione è che per vedere il fondo del lago si debba stare in quel punto a metà tra la riva e il centro del lago. Da una parte c’è un medico entusiasta, un appassionato che in questo momento si sente un soldato al fronte, per cui il camice è una divisa. Dall’altra, forse, c’è un mondo di rigidi professori disabituati ai post rissosi di un medico fuori da certi circoli di amici e grandi luminari. Nessuno oserebbe dire a Burioni di non dileggiare la Gismondo o di non fare il bullo sui social, di sicuro qualcuno – probabilmente la Direzione sanitaria, ma non mi stupirei se le lamentele fossero partite da più lontano – ha invitato De Donno e i responsabili della sperimentazione a tacere, a mantenere un atteggiamento sobrio. È però anche vero che De Donno non è stato ostacolato nel suo lavoro, che sebbene Burioni ma anche la Capua o Pierluigi Viale, direttore delle malattie infettive del Sant’Orsola di Bologna, abbiano sottolineato alcune criticità nel metodo, nessuno ha mai detto che la sperimentazione non s’ha da fare. E se è vero che Burioni ha rilasciato affermazioni poco veritiere come quelle secondo le quali la plasmaterapia sarebbe una terapia costosa (De Donno ha obiettato che le sacche da 300 ml costano 82 euro), il “pasionario” della plasmaterapia ha avuto modo di controbattere in più sedi e con la foga desiderata. “La democrazia non è un optional”, è la frase fissata sul profilo di Whatsapp di De Donno. E qui sorge il sospetto che la verità sia nel mezzo: intorno a De Donno c’è un po’ di puzza sotto al naso e De Donno soffre (un po’) della sindrome del perseguitato. Con queste premesse non poteva che diventare un caso di quelli da arruffare i popoli e da smuovere la politica degli avvoltoi. “Si è ridotto tutto a un misero scontro politico. Se voti Pd dileggi De Donno, se voti Salvini De Donno è infallibile, se voti 5 stelle confondi la sperimentazione col vaccino, se ragioni nel merito vedi un’opportunità su cui andare a fondo. Nel mezzo sarebbe il miglior regalo vedere il virus sparire all’improvviso, dissolversi nel nulla e portare via con sé qualche leader politico che vorremmo dimenticare e i più fanatici dei loro fan”, afferma la giornalista Clarissa Martinelli, che De Donno l’ha intervistato nel momento di maggior esposizione. Il tutto si conclude con un epilogo mesto. Oggi, dopo la sparizione dai social, De Donno è apparso in un video di 5 minuti in cui sembra l’ombra di se stesso. L’aria del guerriero del popolo ha lasciato spazio a rigidità e mancanza di naturalezza del rapito dall’Isis. De Donno legge un comunicato scritto da chissà chi, impappinandosi, e con aria poco serena chiede a tutti di rasserenarsi. Dice con un filo di voce: “Il mio era solo spirito divulgativo in cerca di un sereno confronto tra colleghi, non voglio zuffe mediatiche. Non ci sono gare tra colleghi. Manterrò un profilo molto basso, i risultati non sono solo personali ma di tutta la comunità. Ringrazio Mattarella, il Papa, i vescovi, il mio vescovo che mi ha cambiato la vita, Don Cristian, Don Sandro, i Nas”. Insomma, fa pace con quelli che fino a ieri erano i colleghi sboroni, ringrazia le istituzioni e i Nas e tutti quelli che aveva attaccato impavido, e poi già che c’è ringrazia tutta la Chiesa, dalla parrocchia allo stato pontificio. Il che è un peccato, perché il primario eroe un po’ “suo malgrado” un po’ “sua intenzione” sarebbe potuto diventare un riferimento interessante se si fosse opposto con coraggio a strumentalizzazioni da una parte e a snobismi altezzosi dall’altra. E invece è finita così. “Ha esagerato e l’ha capito”, dirà qualcuno”. “Gli hanno messo il bavaglio”, dirà qualcun altro. Certo è che si è passati da De Donno a Padre Maronno, in soli due giorni. E non è la fine che avremmo voluto.
De Donno, pioniere della plasmaterapia: «Sono infuriato, siamo in mano a scienziati prezzolati». Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 su Corriere.it. «Non sono arrabbiato. Sono infuriato». Giuseppe de Donno, lo pneumologo pioniere della plasmaterapia, in una lunga intervista sul settimanale Oggi, in edicola da domani, non ingrana la marcia indietro sulle sue frasi che hanno scatenato tante polemiche nell’ambiente medico-scientifico: «Ho due rimpianti. Dovevo iniziare ad alzare la voce prima, e in maniera più energica. Il mio era un dovere civico. Se tutto resta in mano a scienziati prezzolati non si va da nessuna parte. Quando parlo a un congresso, la prima slide che proietto riguarda il conflitto di interessi. Io non ne ho. Mi piacerebbe che i medici che vanno in tv facessero lo stesso».
A chi lo accusa di essere dalla parte di no-vax e altri complottisti risponde: «Sono per le vaccinazioni. E non avrei nulla in contrario se un giorno il plasma con gli anticorpi contro il Covid fosse elaborato industrialmente. Sono un medico e devo salvare la vita ai pazienti. Il resto non conta». Definisce il presidente Sergio Mattarella «l’unico faro che abbiamo», non rinnega nessuna delle frasi che lo hanno portato a diventare una star dei social perché, dice a Oggi, «se non avessi fatto nulla la plasmaterapia sarebbe finita in cantina» e resta convinto che la scelta di Pisa come capofila della sperimentazione nazionale della plasmaterapia sia stata una scelta politica: «L’ho detto ed Enrico Rossi, il governatore della Toscana, che non ho mai nominato, mi ha già detto che mi querelerà. Probabilmente ha la coda di paglia». Infine una convinzione sul virus: «In Lombardia ci sono quattro ceppi di questo virus, e nessuno è identico a quello cinese. Sappiamo ancora poco… Io ho fatto uno studio sui casi di polmonite del mio reparto. Secondo me, i primi pazienti sono di fine settembre. Una forma aggressiva, che ha avuto uno stranissimo picco tra ottobre e novembre e che colpiva soprattutto gli adolescenti. Sono sicuro fossero riconducibili al coronavirus. Non riusciamo a capire come mai però la grande diffusione sia esplosa mesi dopo. Forse la prima ondata, quella dello scorso autunno, era causata da un ceppo meno contagioso».
“SE TUTTO RESTA IN MANO A SCIENZIATI PREZZOLATI NON SI VA DA NESSUNA PARTE”. Anticipazione da “Oggi” il 20 maggio 2020. «Non sono arrabbiato. Sono infuriato». Giuseppe de Donno, lo pneumologo pioniere della plasmaterapia, in una lunga intervista sul settimanale OGGI, in edicola da domani, non ingrana la marcia indietro sulle sue frasi che hanno scatenato tante polemiche nell’ambiente medico-scientifico: «Ho due rimpianti. Dovevo iniziare ad alzare la voce prima, e in maniera più energica. Il mio era un dovere civico. Se tutto resta in mano a scienziati prezzolati non si va da nessuna parte. Quando parlo a un congresso, la prima slide che proietto riguarda il conflitto di interessi. Io non ne ho. Mi piacerebbe che i medici che vanno in tv facessero lo stesso». A chi lo accusa di essere dalla parte di no-vax e altri complottisti risponde: «Sono per le vaccinazioni. E non avrei nulla in contrario se un giorno il plasma con gli anticorpi contro il Covid fosse elaborato industrialmente. Sono un medico e devo salvare la vita ai pazienti. Il resto non conta». Definisce il presidente Sergio Mattarella «l’unico faro che abbiamo», non rinnega nessuna delle frasi che lo hanno portato a diventare una star dei social perché, dice a OGGI, «se non avessi fatto nulla la plasmaterapia sarebbe finita in cantina» e resta convinto che la scelta di Pisa come capofila della sperimentazione nazionale della plasmaterapia sia stata una scelta politica: «L’ho detto ed Enrico Rossi, il governatore della Toscana, che non ho mai nominato, mi ha già detto che mi querelerà. Probabilmente ha la coda di paglia». Infine una convinzione sul virus: «In Lombardia ci sono quattro ceppi di questo virus, e nessuno è identico a quello cinese. Sappiamo ancora poco… Io ho fatto uno studio sui casi di polmonite del mio reparto. Secondo me, i primi pazienti sono di fine settembre. Una forma aggressiva, che ha avuto uno stranissimo picco tra ottobre e novembre e che colpiva soprattutto gli adolescenti. Sono sicuro fossero riconducibili al coronavirus. Non riusciamo a capire come mai però la grande diffusione sia esplosa mesi dopo. Forse la prima ondata, quella dello scorso autunno, era causata da un ceppo meno contagioso».
Stefano Filippi per la Verità il 15 giugno 2020. Finché non è scoppiata l'epidemia di coronavirus, il dottor Giuseppe De Donno era semplicemente il direttore del reparto di pneumologia e di terapia intensiva dell'ospedale di Mantova. Improvvisamente è diventato uno degli uomini più famosi d'Italia, conteso dalle televisioni e messo in discussione dal mondo medico e dalla politica. Che aveva combinato De Donno? Soltanto quello che ogni clinico dovrebbe avere la libertà di fare: sperimentare una cura che aveva dato buoni risultati in casi che presentavano analogie con il Covid-19. È la terapia del plasma autoimmune: essa utilizza il plasma sanguigno dei pazienti guariti per fornire ai malati gli anticorpi utili a contrastare l'infezione. Da Mantova la sperimentazione si è estesa a Pavia, poi a Padova e altri ospedali e ora è allo studio in tutto il mondo. Ma su De Donno si è scatenata una bufera mediatica. In un momento in cui ogni successo positivo contro un nemico così oscuro andrebbe salutato con sollievo, lui è stato trattato alla stregua di uno stregone. È stato criticato perfino per essere stato per 4 anni vicesindaco di Curtatone, il paese mantovano in cui abita, località finora nota soprattutto per la battaglia del 1848 in cui il generale Radetzky fu fermato da uno scalcinato esercito di studenti volontari. Per De Donno parlano i fatti: oltre il 90% dei pazienti curati con questa metodica sono guariti.
Come sta andando la terapia con il plasma autoimmune?
«In questo momento la terapia con plasma convalescente sta dando risultati molto promettenti non solo a Mantova. Dalla nostra banca del plasma inviamo sacche in tutta Italia, dal Nord al Sud, arrivando anche sulle isole; tutti i pazienti trattati con plasma convalescente hanno un recupero fisico immediato. Due settimane fa è partito il progetto Rescue, curato da me e dal dottor Massimo Franchini, che è il direttore del servizio trasfusionale dell'ospedale di Mantova».
A chi è rivolto il progetto?
«Alla cura dei pazienti delle residenze sanitarie assistenziali. I risultati clinici preliminari, nonostante lo studio abbia, al momento, una scarsa potenza, sono incoraggianti».
Quante persone ha curato, quante sono guarite?
«Se per guarigione si intende la negativizzazione del tampone, il plasma del paziente convalescente, avendo un'importante capacità antivirale, riesce a negativizzare il tampone in oltre il 90% dei casi».
Quanti morti si sarebbero potuti evitare se la plasmaterapia fosse stata applicata in misura più ampia?
«L'analisi statistica del protocollo Mantova-Pavia evidenzia un incremento significativo della sopravvivenza; ogni 10 pazienti si riesce a salvare una vita».
Il tempo ha dato ragione alle sue intuizioni iniziali sulla terapia?
«Direi di sì e i pazienti guariti ne sono la dimostrazione. I centri che utilizzano il plasma sono sempre di più. È notizia di pochi giorni fa che il plasma è stato utilizzato per negativizzare un bambino Covid positivo, in seguito sottoposto a trapianto per una forma leucemica».
Ha dovuto «forzare la mano» per avviare queste cure?
«Ho dovuto espormi in prima persona per riuscire a sdoganare questa terapia rinunciando alla mia privacy a cui, tra l'altro, ho sempre tenuto molto. Ho dovuto concedere molte interviste radio e tv, ho aperto una pagina Facebook, sono stato invitato in commissione al Senato; tutto questo non per animare il mio ego, come qualcuno ha sostenuto e continua a sostenere, ma solo per il bene del paziente e per dare una speranza a questo Paese. Nel segno dell'onestà».
Come spiega l'ostilità verso la sua terapia, quando ogni successo contro il coronavirus dovrebbe essere salutato con favore?
«Eviterei di parlare di ostilità. A volte la paura, o peggio ancora l'ignoranza, nell'accezione di "condizione determinata dalla mancanza di istruzione o conoscenza", può portare a essere fuorviati dalla verità. In ogni ambito della vita, e a maggior ragione in quello medico-clinico, bisogna lasciare spazio ai fatti. Se ci si basasse sui fatti, vivremmo tutti meglio. Ecco quindi che le guarigioni dei miei pazienti, la gioia delle loro famiglie, la grande solidarietà della donazione, tutti questi fatti tangibili parlano da soli del successo di questa terapia. Crede ci sia riconoscimento migliore al mondo? Io credo di no».
Lei ha detto che vogliono zittirla, come mai? Chi ha volontà di nascondere queste cure?
«Non posso sapere di chi è la volontà di nascondere questa cura. Come ho detto più volte, il plasma iperimmune è quanto di più democratico ci possa essere al giorno d'oggi; è dato dal popolo e torna al popolo, è il più grande atto di solidarietà che un paziente guarito possa avere nei confronti di chi ancora sta lottando con la malattia. Cosa non meno importante, il plasma è gratuito. Quindi, come ha detto il grande Enrico Montesano, questa cura ha tre grossi problemi: costa poco, funziona benissimo, non rende miliardario nessuno».
Ci sono interessi della Big Pharma, cioè dei colossi farmaceutici, a screditare questa terapia per puntare sui vaccini, più redditizi?
«Questo non lo deve chiedere a me. Sono un medico di campagna, non un azionista di Big Pharma».
Che accoglienza ha avuto la terapia nel mondo accademico e scientifico?
«Il fatto che questa idea sia partita da un ospedale pubblico, anche se in collaborazione con l'ospedale di Pavia, ha suscitato parecchie diffidenze nel mondo accademico. A questo si aggiungano tutte le diffidenze che si avevano verso un emocomponente, nonostante la terapia del plasma convalescente non sia una novità. A volte il dottor Franchini e io, nei pochi minuti di pausa che abbiamo, ci chiediamo come mai non si sia partiti subito a organizzare una multicentrica che forse oggi qualche risultato definitivo lo avrebbe portato».
Al Senato ha detto che «uno scienziato pagato per divulgare conoscenze scientifiche non è credibile».
Conferma?
«Assolutamente sì. La scienza e la ricerca devono essere libere. La nostra vita deve avere la priorità su qualsiasi interesse politico o economico, altrimenti anche questa diventa merce di mercato data in mano a chi offre di più».
Uno studio cinese uscito nei giorni scorsi sostiene che la terapia al plasma ha un'efficacia limitata per i malati di Covid-19. Che ne pensa?
«Lo studio cinese ha numerosi bias (dati parziali, ndr) e inoltre è stato interrotto per carenza di casistica. Se però lo si analizza bene, nonostante la potenza di questo studio sia ancora più bassa rispetto al nostro, esso dimostra che i pazienti gravi ma non gravissimi si giovano notevolmente di questo trattamento: si riducono sia la mortalità, sia i tempi di ricovero, sia i tempi di svezzamento dalla ventilazione meccanica. Inoltre, si conferma che la negativizzazione dei tamponi, come già detto prima, supera il 90% dei casi».
La politica ha commesso errori nella gestione dell'emergenza sanitaria?
«Posso dire che un errore che la politica deve evitare è non investire nella ricerca o consentire ad aderenze politiche di gestire, per interesse economico, la ricerca stessa. Nessuno poteva prevedere ciò che è accaduto. Il lockdown è stato uno strumento buono per ridurre la circolazione del virus, ma mi limito a questo perché sono un medico, non un politico. Gli errori della politica saranno evidenziati dalla storia».
Ora a chi state somministrando il plasma? Lo fornite anche ad altri ospedali? Anche all'estero?
«Il plasma è somministrato in quasi tutta la nostra penisola, e, come detto, la nostra banca del plasma lo fornisce anche alle altre strutture che lo richiedono. All'estero abbiamo collaborato, attraverso call conference, con molti Paesi tra cui Brasile, Perù, Cile, Uruguay, Kenya, ai quali abbiamo inviato il nostro protocollo operativo. Molti di questi Paesi sono partiti con la raccolta del plasma».
Lei è stato tanto apprezzato quanto contestato: che esperienza sono stati per lei questi mesi?
«Purtroppo non posso piacere a tutti. L'unico mio interesse era sdoganare la terapia al plasma convalescente e, con il mio espormi, ci sono riuscito. Certo, sono stato criticato, insultato e deriso, ma poco mi importa. La cosa importante è che tutto questo ha permesso di aiutare molti pazienti che, come noi medici, non vedevano la luce in fondo al tunnel».
Che cosa non dimenticherà?
«Nessuno mai potrà cancellare dalla mia mente gli sguardi di terrore di chi moriva senza aver vicino nessuno. Ma anche questo mi ha dato la forza di combattere per quella che era l'unica arma a nostra disposizione contro questa pandemia. In tutto questo sono stato supportato da colleghi meravigliosi con i quali si è instaurato un rapporto umano e professionale molto forte. Ne cito uno per tutti, il dottor Franchini, che è diventato per me come un fratello. Devo inoltre dire che le persone che mi hanno appoggiato, incoraggiato, sostenuto sono di gran lunga superiori a quei pochi che mi hanno criticato. Il nostro Paese non va sottovalutato».
La polemica. La pubblicazione scientifica relativa all'esito della "cura pavese", sperimentata anche al Carlo Poma di Mantova e all'Ospedale Cotugno di Napoli a partire da metà maggio, sarà disponibile nelle prossime settimane. Nell'attesa che i dati possano fugare ogni eventuale dubbio sull'adeguatezza del trattamento, il numero dei pazienti immunizzati raggiunge una quota a dir poco significativa: 48 guariti e neanche un decesso. Tuttavia, sono ancora molti i virologi che sostengono l'impraticabilità della terapia manifestando scetticismo e, talvolta, beffante disappunto. "La nuova pozione magica", commenta con tono vagamente irridente il virologo Roberto Burioni lanciando una frecciatina piccata al collega Giuseppe De Donno, primario presso il Reparto di Pneumologia dell'Ospedale Carlo Poma di Mantova e fautore della cura. Resta in silenzio, invece, il Comitato tecnico scientifico mentre il leader della Lega Matteo Salvini non fa mistero delle sue posizioni chiedendo l'intervento del Governo: "Nessuno ne parla. Approfondite quello che questi medici stanno facendo". A sedare gli animi ci pensa Cesare Perotti, dirigente di Immunoematologia del Policlinico San Matteo di Pavia, coautore dello studio insieme al collega del centro trasfusionale Massimo Franchini, l'infettivologo Salvatore Casari e lo pneumologo Giuseppe De Donno. "Il trattamento dà esiti incoraggianti, - afferma l'esperto - ma è necessario terminare l' analisi di tutti i parametri biologici e clinici relativi ai 50 pazienti trattati, analisi tuttora in corso, e superare il vaglio della comunità scientifica, prima di poter affermare se e quanto funziona". Secondo fonti del Fatto Quotidiano, il gruppo di studiosi avrebbe scritto fin da marzo al ministero della Salute per chiedere un coordinamento della raccolta del sangue dei guariti ma non avrebbe mai ricevuto alcuna risposta. E anche l'Istituto superiore di sanità (Iss) non avrebbe manifestato grande interesse. Insomma, si brancola nel buio o, meglio ancora, nel silenzio. Alla luce dei riscontri ottenuti, la cura sembrerebbe sortire risultati incoraggianti. Tuttavia, per poterne convalidare l'efficacia bisognerà attendere l'esito relativo parametro della viremia, cioè la quantità di virus presente nell'organismo dei pazienti prima e dopo l' infusione di anticorpi. Fatto sta che, se la sperimentazione fosse messa a protocollo nazionale, richiederebbe un investimento economico piuttosto contenuto - 90 euro per paziente a carico del Servizio sanitario nazionale - dettaglio non trascurabile in tempi di ristrettezze. "Il plasma non è commerciabile in Italia - spiega Casari -Al massimo si può cederlo a un' altra struttura sanitaria, con rimborso del costo vivo".
I risultati dello studio. Intanto, i risultati di ben tre ricerche condotte a Wuhan confermano la validità del trattamento anche nei pazienti con sintomatologia Covid acuta. Perotti e i suoi colleghi chiedono, pertanto, che la cura venga testata nell' ambito di studi più ampi e randomizzati, cioè dove sia previsto anche un gruppo di pazienti cosiddetti 'di controllo', che abbiano sintomi molto più lievi dei primi o siano trattati con un altro farmaco, per poter confrontare la reale superiorità, in termini di efficacia, della terapia. Indagine che finora nessuno ha ancora svolto. "Senza studi randomizzati, non si può essere sapere se i pazienti sono guariti a causa di una terapia sperimentale o nonostante essa", si legge il 7 aprile sulla rivista medica Jama in merito alla terapia del plasma iperimmune. Il protocollo di Pavia e Mantova è stato chiesto da molti altri Paesi nel mondo. Inclusi gli Usa. Lì ora sono già pronti 2.089 ospedali, 4.600 medici, 10 mila pazienti arruolati e 5 mila sono stati già trattati con il plasma iperimmune, pur essendo partiti ben dopo l' Italia. Il gruppo ha ceduto parte del plasma anche a molti altri ospedali italiani per trattare altri 50 malati gravi, fuori dal protocollo di sperimentazione. "Anche da lì stanno emergendo risultati interessanti, che presto verranno pubblicati", ha detto Perotti.
La testimonianza. "Sono un medico di famiglia, e capisco che cosa si prova a stare nei panni del malato, perché anch' io ho dovuto lottare con tutte le mie forze contro questo Coronavirus. Mi considero fortunato per essere stato preso in cura in Lombardia e trattato con il plasma ricco di anticorpi neutralizzanti ricavati dal sangue di donatori convalescenti". A raccontarlo è Mario Scali, medico di base residente a Parma, risultato positivo al Covid-19 lo scorso aprile. In una lunga intervista rilasciata al Quotidiano Nazionale, il dottore racconta la sua esperienza da paziente esprimendo riconoscenza incondizionata nei confronti dei colleghi che lo hanno trattato con la cura del plasma iperimmune. "Sono stato ricoverato 19 giorni all' Ospedale di Mantova, dove lavora anche mia moglie immunologa, nel reparto malattie infettive. - racconta - Mi era venuta la febbre, l' affanno, altri segni caratteristici, insomma ai primi sintomi ho capito che mi ero beccato l' infezione da Coronavirus. Ora sono guarito, finalmente posso dirlo. Lo hanno provato anche le analisi sierologiche e molecolari cui sono stato sottoposto, un doppio tampone negativo, le immunoglobuline G positive, e IgM negative, segno che ho affrontato una malattia impegnativa che mi toglieva le forze e che avrebbe potuto prendere una brutta piega se non avessi avuto la fortuna di essere sottoposto alla terapia con plasma iperimmune, ricco di anticorpi neutralizzanti contro il virus Sars-Cov-2". La terapia sperimentale sembra aver sortito ottimi risultati e il dottor Scali ne è la prova evidente. Cionostante, il Ministero continua a mostrare reticenza circa il protocollo sperimentato a Pavia e Mantova invitando alla prudenza. "L'invito alla prudenza è legato al fatto che questa è una malattia ancora poco conosciuta, ma la terapia con le immunoglobuline ha una lunga storia. - spiega - ho seguito i corsi di evidence based medicine della Fondazione Gimbe, concordo pienamente sul fatto che devono esserci delle prove di efficacia robuste perché una terapia possa entrare in un protocollo condiviso. Però sono meravigliato, e anche deluso da certe affermazioni che ho letto nella mia Regione". Tanto, forse troppo, lo scettismo da parte delle istituzioni che potrebbero, al contrario, favorire il trattamento sperimentale accellerando il processo di guarigione per molti pazienti Covid. "Non credo che il plasma possa essere una terapia da utilizzare subito e per tutti i pazienti. -continua il dottore - Ma ritengo che sia una terapia che merita di essere sperimentata e valutata, e che potrebbe aiutare qualche paziente. C' è chi l' ha definita un tormentone, avvicinandola alla terapia Di Bella e al siero Bonifacio". La vicenda appare piuttosto controversa e intricata, tale da alimentare una polemica senza precedenti: "Dico, anche la Fda americana ha preso in considerazione il plasma. In Italia si sta sperimentando a Mantova, Pavia, Pisa, Padova, mi resta oscuro il motivo per cui da altre parti si sollevano resistenze e perplessità", conclude Scali.
Angela Marino per "fanpage.it" il 6 maggio 2020. Era sul punto di fare "scoperte molto significative": un professore dell'Università di Pittsburgh impegnato nella ricerca medica contro il Covid-19 è stato ucciso a colpi di pistola in un apparente dinamica omicidio-suicidio. Il corpo di un secondo uomo – identificato martedì dall'ufficio del medico legale della Contea di Allegheny come Hao Gu, 46 anni – è stato trovato in un'auto parcheggiata vicino alla scena della prima morte. Bing Liu presentava ferite da arma da fuoco alla testa, al collo, al busto e agli arti. Gli investigatori credono che si stato ucciso dall'uomo trovato morto a pochi passa da casa, me le indagini sono ancora in corso. L'università ha rilasciato una dichiarazione affermando che "è profondamente rattristata dalla tragica morte di Bing Liu, un prolifico ricercatore e ammirato collega di Pitt. L'Università estende le nostre più sentite simpatie alla famiglia, agli amici e ai colleghi di Liu in questo momento difficile". Liu ha conseguito il dottorato presso l'Università di Singapore nel 2012. Si è trasferito negli Stati Uniti e ha lavorato come borsista presso la Carnegie Mellon University con il famoso scienziato informatico Edmund M. Clarke, vincitore del Turing Award 2007. "Bing era sul punto di fare scoperte molto significative per comprendere i meccanismi cellulari che sono alla base dell'infezione da SARS-CoV-2", hanno detto i suoi colleghi del Dipartimento di Biologia Computazionale e dei Sistemi dell'Università. I membri della School of Medicine dell'Università descrivono il loro ex collega come ricercatore e mentore eccezionale, e si sono impegnati a portare avanti il lavoro fatto da Liu "nel tentativo di rendere omaggio alla sua eccellenza scientifica".
Dottor Speciani: «Devono mantenere il panico fino all’arrivo del vaccino». Denise Baldi il 15 Maggio 2020 su Oltre.tv. Il dottor Luca Speciani è il presidente di Ampas, un’associazione di oltre 800 medici che in questo periodo di lockdown si è più volte fatta sentire. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente. Alcuni dicono che il coronavirus sia in Italia da ottobre, altri da gennaio. Il periodo di incubazione dura al massimo 14 giorni e in media una settimana. Quindi il virus avrebbe avuto mesi per girare indisturbato e nessuno si sarebbe accorto di nulla. Poi il 10 marzo chiudono 60milioni di italiani dentro casa e il 21 marzo abbiamo il picco dei positivi. È un andamento coerente con le informazioni che abbiamo? Io non sono un virologo ma una considerazione posso farla. Troppe cose sono state date per vere e non lo erano, come troppe cose sono state spacciate per fake e sono risultate vere. C’è stata un’azione violenta da parte dell’informazione, con martellanti pubblicità televisive, per determinare quali notizie seguire. In democrazia non dovrebbe esistere. Per quanto riguarda i decessi abbiamo un dato nazionale del tutto paragonabile a quello degli anni passati, salvo in alcune province della Lombardia. In totale 30.000 morti di cui 14.000 in Lombardia e di questi 7.000 deceduti in RSA. Il caso della Lombardia è il riflesso di una serie di errori drammatici, forse fatti in buona fede per le poche informazioni sul virus. Le persone uscivano dalla terapia intensiva e venivano mandate in RSA a fare la convalescenza, ancora infette. Questa situazione ha generato una strage. In tutte le altre regioni d’Italia abbiamo invece dati del tutto equiparabili a quelli degli anni passati. Dice Lustig: “Il virus non distingue chi infetta ma distingue benissimo chi uccide”. I decessi riguardano infatti per lo più anziani con età media di 78 anni, 3,3 patologie concomitanti, 75% maschi e 75% obesi. Una categoria molto specifica a cui la Covid-19 dà una risposta violenta generando una coagulazione intravascolare disseminata che porta alla morte. Nelle RSA c’erano proprio questo tipo di persone.
Morti “per” o “con” Codiv-19. Ancora oggi, sul sito della Protezione Civile, sotto al numero dei decessi (arrivato quasi a 30.000) è scritto: «In attesa di conferma ISS». Quando arriverà questa conferma? E come, dato che hanno cremato i cadaveri e quindi non possono effettuare autopsie? È normale che, a distanza di due mesi e mezzo, ancora non si riesca a scorporare il numero dei deceduti in attesa di conferma dal numero di deceduti confermati o non confermati?
Leggono la cartella clinica, quindi basta che il medico abbia scritto Covid-19. Mi pare strano che l’ISS possa non convalidare la scheda.
Ma uno è morto “per Covid-19” o “con Covid-19”? È un’altra valutazione da fare. Un esempio: un signore ha avuto un infarto qualche anno fa, prende farmaci ed è obeso, quindi è molto sensibile al Sars-Cov-2, prende il virus e muore. Magari sarebbe morto ugualmente tra sei mesi o un anno ma io questa morte la considero per Covid-19. Anche se è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso questo signore avrebbe potuto vivere sei mesi o un anno in più. Quando invece arriva una persona in ospedale, muore di infarto e poi risulta il tampone positivo e assegnano la morte alla Covid-19 ritengo che non sia corretto. So che sono girate disposizioni ministeriali che indicano di riportare come morte per Covid-19 tutti quei decessi associati a sintomi riconducibili al coronavirus. Vogliamo farci del male da soli e mantenere un clima di terrore, una dittatura sanitaria. Quest’anno infatti sono improvvisamente scomparse dal computo dei morti le polmoniti e sono sparite completamente le mortalità da influenza e altre patologie virali. Tutti Covid-19.
Dottor Speciani su contagiati, asintomatici e guariti. Hanno falsificato tutto il falsificabile. E i giornalisti hanno mantenuto alto il tiro per aumentare il panico. Il numero di morti dovrebbe essere un dato più preciso ma in realtà non sappiamo quanti sono.
Anche i numeri di contagiati sono opinabili perché non si può considerare contagiata una persona che ha il tampone positivo ma è asintomatica. Questa è una “persona che ha incontrato il virus”, definizione che fa molto meno paura. Inoltre hanno fatto pochissimi tamponi, rispetto alla popolazione totale, quindi quanti sono davvero i contagiati? Su quel numero reale (che comprende tamponati e non tamponati) andrebbe calcolata la letalità. In Italia si arriva al 16% di decessi ma i contagiati sono molti di più di quelli dichiarati. Se questo virus è davvero un po’ più infettivo rispetto a una normale influenza vuol dire che a oggi ci saranno almeno 6-7 milioni di contagiati e che la letalità è bassissima. Chi è al potere dovrebbe far fare il test sierologico che ha un costo irrisorio e permette di avere un numero davvero preciso, vista anche la poca affidabilità dei tamponi. Il valore reale di letalità è quindi irrisorio e colpisce una categoria di persone a rischio perfettamente identificabile. Sarebbe inoltre corretto, durante gli annunci della Protezione Civile, oltre a indicare i decessi giornalieri, comunicare anche il numero di coloro che sono guariti senza nemmeno aver bisogno di terapie mirate, che è un dato importante e molto rassicurante.
Correlazione coi vaccini e la novità del plasma iperimmune. Il virologo Giulio Tarro e il medico Mariano Amici hanno parlato di una possibile associazione tra le vaccinazioni antinfluenzali e l’aumento del rischio di contrarre il coronavirus e di avere complicanze. Secondo lei andrebbe indagata questa possibile associazione? Le risulta che qualcuno lo stia facendo? Ippocrate ha insegnato: “prima di tutto non nuocere”. Il principio di precauzione andrebbe usato sempre nel dubbio. Ma sappiamo, anche grazie a uno studio dell’esercito americano sulle vaccinazioni e il coronavirus, che esiste un fenomeno chiamato interferenza virale. Nel bergamasco e nel bresciano c’è stata una campagna vaccinale importante, a causa dei focolai di meningite, che potrebbe aver influito. Questa è un’ipotesi plausibile anche se non ancora verificata.
Dottor Speciani, ci può dire cosa pensa, da un punto di vista scientifico, economico e politico, di tutta la questione plasma iperimmune? È assolutamente un rimedio da utilizzare per chi è in terapia intensiva o sta soffrendo in modo grave. Nell’Ospedale Carlo Poma di Mantova, dove lavora il dottor De Donno, da un mese non c’è più un decesso. Le nostre autorità sanitarie stanno sbagliando criticando De Donno. Il primario ha preso un po’ di visibilità per far conoscere anche agli altri il metodo, per utilizzarlo. Negli Stati Uniti hanno infatti chiesto in 4000 cliniche di conoscere il sistema del plasma iperimmune e cosa succede? Mandano i NAS all’Ospedale di Mantova. Anche nella sua intervista in Rai, De Donno è stato praticamente zittito. Poi ha chiuso i suoi due profili Facebook. Perché questa cosa fa paura? Fa paura perché se trattiamo la categoria a rischio (anziani, con più patologie, obesi e di sesso maschile) col plasma, il numero di decessi può tranquillamente scendere verso lo zero.
Dottor Speciani: «Si è seguito la via del terrore». Sembrerebbe che in altri Paesi del mondo le restrizioni siano state più leggere rispetto all’Italia. Non solo: in Italia hanno chiuso prima e stanno riaprendo dopo (qui, qui e qui un po’ di testimonianze). Eppure, negli altri Paesi, il numero di positivi e di morti non è inferiore ai numeri che avevamo a inizio marzo in Italia, quando è iniziato il lockdown totale di due mesi. La domanda è: perché negli altri Paesi non si sta avendo quell’aumento impressionante di casi e di decessi che in Italia sarebbe stato scongiurato dal lockdown? Cosa c’è di diverso in Italia rispetto all’estero? C’è di diverso che, invece del buon senso, si è seguito la via del panico e del terrore. In Svezia sono stati più ragionevoli. È chiaro a tutti che la diffusione del virus ha avuto il picco in un momento in cui non avevamo molte informazioni. Poteva quindi essere condivisibile dire di stare a casa. Dopo però bisogna ricominciare a riaprire tutto. Negli altri paesi hanno chiuso cinema, teatri e altri luoghi dove si riunivano molte persone ma hanno lasciato la possibilità di andare al mare, stare al sole e all’aria aperta. Questi tipi di restrizioni minimali sono quelle che hanno avuto più successo. Il lockdown dovrebbe deciderlo il presidente del Consiglio e discuterlo in parlamento, invece tutto questo viene bypassato. Decide la task force, che chiede l’immunità, e questa è un’assurdità. Loro dovrebbero studiare il problema e portare le relazioni al politico che poi prenderà le sue decisioni.
Già se fermassero il lockdown oggi si conterebbero (hanno stimato alcuni economisti) sette milioni di persone senza lavoro per le chiusure delle rispettive aziende. Borrelli che dice che va prolungata l’emergenza sanitaria di altri sei mesi. Lui forse resta padrone della scena ma il resto d’Italia va a picco. Sarà un disastro economico.
La totale indifferenza dei mass media per AMPAS. A proposito di trasparenza e pluralità dell’informazione: AMPAS è un’associazione di oltre 800 medici. Avete pubblicato un comunicato che, se dovesse leggerlo il telespettatore medio di Fabio Fazio, resterebbe basito. In tv si vedono sempre le stesse facce che dicono le stesse cose. Qualche trasmissione televisiva vi ha mai contattato? Possibile che autori e giornalisti non si rendano conto che con voi farebbero uno scoop? Com’è possibile che un’associazione di 700 medici pubblichi certi comunicati e venga totalmente ignorata dai mass media tradizionali? Senza un confronto le persone non possono capire l’importanza di un’opinione indipendente. Non hanno mai chiamato uno di noi a parlare nelle grandi TV mainstream perché questa storia ha una regia e devono continuare a mantenere il panico fino all’arrivo del vaccino. Quando vedevamo il teatrino giornaliero di Borrelli, alla sua destra c’erano talvolta figure impresentabili. Alcune di queste hanno conflitti di interesse mostruosi che dovrebbero essere dichiarati a chi guarda la diretta. Le persone devono sapere perché parlano sempre i soliti personaggi e che molti di questi individui hanno ricevuto ingenti somme da case farmaceutiche. Un semplice avviso, come avviene nei congressi e nei lavori scientifici, sarebbe utile e farebbe capire a molti che non tutti (anche se lo dicono) parlano in nome della Scienza. Denise Baldi
“Il virus è morto”. “Anzi no, è vivo e colpirà ancora”… La guerra senza fine dei virologi. Il Dubbio il 27 luglio 2020. I virologi divisi e litigiosi. Lo scontro tra Burioni e De Donno e tra Zangrillo e il resto del “mondo”. Crisanti contro Zangrillo. Tarro contro Burioni. Ranieri Guerra contro Clementi. Critiche, insinuazioni, persino insulti. Dopo la tregua forzata causa lockdown, l’inizio della “nuova normalità” ha riportato in auge la “guerra” tra gli esperti, divisi ormai in maniera abbastanza netta in due fazioni: ottimisti e pessimisti. Una polemica inedita per toni e modalità, uscita dalle polverose aule accademiche per divampare sui social, sulle agenzie, sui giornali. E naturalmente, le due fazioni hanno il loro nutrito seguito di fan, che a loro volta si insultano tacciandosi, di volta in volta, di catastrofismo a tutti i costi o di ottimismo ottuso e immotivato. Con un interrogativo non sempre espresso ma onnipresente, magari sotto traccia: il governo ha fatto bene o sta sbagliando? E con i due fronti, scientifici e politici, che in qualche modo si sovrappongono e si sostengono a vicenda. La disfida insomma, da accademica è diventata politica. Inevitabile, quando si toccano argomenti che interessano l’intera popolazione. D’altra parte lo diceva già Thomas Mann: l’apoliticità non esiste, tutto è politica.
L’accusa di Alberto Zangrillo: “Il virus è morto”. A gettare il sasso nello stagno, come noto, è stato all’indomani delle riaperture Alberto Zangrillo, primario dell’Unità Operativa di Anestesia e Rianimazione del San Raffele di Milano, con la frase “il virus ormai è clinicamente morto”. Concetto contestato dagli esperti che potremmo definire, con una buona dose di approssimazione (elemento fondamentale in politica), del fronte “di sinistra”. A partire dai membri del Comitato tecnico scientifico, da Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità, a Silvio Brusaferro, numero uno dell’Istituto Superiore di Sanità, fino a Gianni Rezza, passato nelle scorse settimane dall’Iss alla direzione del dipartimento Prevenzione del ministero della Salute. A pesare sulla polemica, inutile negarlo, la figura stessa di Zangrillo, medico personale di Berlusconi, esponente di punta del mondo della sanità lombarda “formigoniana”, insomma, si presume, non esattamente affine ideologicamente al governo in carica. Altra figura cara agli “ottimisti”, o al fronte affine al centrodestra, quella del virologo Giulio Tarro, storico esperto campano in prima linea 40 anni fa nella lotta al colera, anche lui convinto dell’esagerazione nella risposta al virus, sceso in polemica diretta e furibonda più volte con i colleghi, fino alla querela contro Roberto Burioni, reo di aver pronunciato la frase “se Tarro è stato candidato al Nobel io lo sono a Miss Italia”.
La querela di Roberto Burioni. E’ proprio Burioni, dopo le guerre all’arma bianca degli scorsi anni sul tema dell’obbligatorietà vaccinale, uno dei paladini del fronte dei “pessimisti”, o affini al centrosinistra, per proseguire sulla linea del doppio binario scientifico-politico. Sulla sua pagina Facebook “Medical Facts” sono immancabili le polemiche, con un fronte più estremo passato con disinvoltura dal credo “No vax” a quello “No mask”, e sfociato in iniziative più folkloristiche che politiche come quelle del generale Pappalardo. Inevitabile anche il servizio delle Iene su un presunto conflitto d’interessi del virologo rispetto agli anticorpi monoclonali, a cui Burioni ha risposto con la querela. Ed è certamente tra gli ottimisti Massimo Clementi, direttore del laboratorio di Microbiologia e Virologia dell’Ospedale San Raffaele, assertore della tesi, ancora non dimostrata, di un virus diventato in qualche modo “più buono”, e comunque con una carica virale attenuata. Tesi su cui si e’ registrato il furibondo scontro con Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’Oms, che lo ha invitato poco cavallerescamente a “tornare nelle fogne”, anche qui con un richiamo non troppo sottile a disfide politiche di altri tempi. Non si è risparmiato neanche Andrea Crisanti, direttore del laboratorio di virologia dell’università di Padova e “padre” del modello veneto, che ha consentito nei primi drammatici mesi di contenere l’epidemia a suon di tamponi e tracciamenti, contravvenendo anche alle catastrofiche indicazioni iniziali dell’Oms. Non solo contro i colleghi, a partire da Zangrillo, ma anche contro il governatore Luca Zaia, accusato di prendersi i meriti e nelle ultime settimane di aver cambiato linea dando retta ai suoi “virologi di fiducia che gli dicono che il virus non c’è più”. Ma che gli scienziati, diventati improvvisamente superstar, spesso utilizzino la visibilità per scopi personali, anche politici (nulla di male, ovviamente), è più che un sospetto.
De Donno e la polemica sul plasma. Giuseppe De Donno, primario di pneumologia a Mantova e massimo propugnatore della terapia con il plasma dei convalescenti, si è detto e scritto che l’intenzione ancora non dichiarata era addirittura quella di correre a sindaco della città lombarda (ipotesi finora smentita dall’interessato). Si è mormorato anche di Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani di Roma, sempre con posizioni molto prudenti (i detrattori le definirebbero "catastrofiste"), di cui ha fatto rumore l’intervento all’assemblea del Pd a fine febbraio, proprio mentre iniziava a infuriare la pandemia. Mentre è ufficiale la candidatura di Pier Luigi Lopalco, consulente di Emiliano in Puglia, proprio nelle fila del governatore Pd uscente in corsa in autunno per il secondo mandato. Scelta che lo ha indotto a dimettersi dalla presidenza del Patto trasversale per la Scienza, l’associazione che riunisce (o per meglio dire, riuniva) gran parte degli esperti italiani impegnati nella lotta al coronavirus. La dicotomia scienza-politica è diventata un tema non più eludibile, incrinando proprio l’unità del Patto, con il convegno di oggi promosso da Vittorio Sgarbi al Senato per presentare la nuova associazione ‘Osservatorio per i diritti fondamentali’, le cui tesi di fondo sono sostanzialmente che il virus non rappresenta più un grave pericolo e che continuare con lo stato d’emergenza è inutile e dannoso per l’economia e la società tutta, oltre che lesivo, appunto, delle libertà fondamentali. Facendo emergere l’impossibilità di convivenza tra i due “partiti”, quello dei virologi ottimisti (che un mese fa hanno lanciato un manifesto proprio per dire come il virus si sia indebolito, firmato tra gli altri anche da Matteo Bassetti, Giorgio Palù, Giuseppe Remuzzi, oltre a Zangrillo e Clementi) e quello dei pessimisti (ma loro si definiscono realisti), secondo cui questa tesi è molto pericolosa perchè, se frainteso, il concetto di “indebolimento clinico” del Covid può portare, come in effetti in parte è stato, a un eccessivo rilassamento rispetto alle misure di prudenza. L’opposizione, Salvini in primis, sposa convintamente la linea espressa dal manifesto, accusando il governo di voler mantenere forzatamente lo stato di emergenza per scavalcare il Parlamento. Mentre la maggioranza, con in testa il ministro della Salute Roberto Speranza che ogni giorno ribadisce la necessità di mantenere alta la guardia, continua a seguire la linea della massima prudenza dettata dal Comitato tecnico-scientifico. Dal convegno di oggi si è chiamato fuori Guido Silvestri, che insegna alla Emory University di Atlanta, che malgrado il grande successo della sua rubrica web ‘Pillole di ottimismo’ non si è sentito di partecipare a un’iniziativa, a suo dire, più politica che scientifica (è previsto anche l’intervento dello stesso Salvini). Il Patto per la Scienza (la cui definizione iniziale “trasversale” somiglia sempre più a un’utopia) ha emesso un duro comunicato che sintetizza tutte le difficoltà di conciliare i due aspetti: “Appare grave ed incomprensibile l’eventuale adesione da parte di importanti soci del PTS ad iniziative in chiave chiaramente politica ed elettorale che vedano come guida o contributori soggetti che sono stati oggetto di querela o di diffida da parte del PTS proprio per le pericolose posizioni antiscientifiche espresse durante l’epidemia di COVID-19, insieme ad altri che in moltissime occasioni hanno dimostrato la propria lontananza dal metodo scientifico”. Chi partecipa al convegno, spiegano i responsabili dell’associazione, è fuori. Ma se gli scienziati si accapigliano, anche la sfida tra regioni si accende, in base naturalmente al colore politico della giunta. Il governatore campano Vincenzo De Luca ha a più riprese attaccato la gestione lombarda, con uscite non sempre nei limiti del buon gusto, mentre di fronte alle critiche per il caso camici che ha coinvolto il governatore lombardo Fontana i suoi sostenitori contrattaccano ricordando il pasticcio delle mascherine acquistate e mai recapitate nel Lazio di Nicola Zingaretti, leader del Pd. E inevitabilmente, nel tritacarne finisce anche il tema divisivo per eccellenza, quello dei migranti, dopo i diversi casi di positività tra gli sbarcati, ma anche tra gli arrivi dal Bangladesh e ultimamente dall’Europa dell’Est (che hanno portato a blocchi e quarantene).
Lo stesso Lopalco ha chiarito su Facebook, dopo che qualcuno dall’opposizione si era spinto addirittura a parlare di un governo che fa entrare di proposito migranti infetti per tenere alta l’emergenza: “I virus sono individui esigenti: se proprio devono viaggiare, preferiscono farlo in aereo in prima classe piuttosto che sui barconi”. Con il consueto corredo di polemiche, di post e contro-post, che hanno spinto Lopalco a un ulteriore chiarimento, in cui ammette però il disagio della sua condizione ‘bifronte’: “Quando parlo, non so se parlo da scienziato o da politico. Ma quando dico che se la circolazione di coronavirus riparte non è certo per colpa dei barconi, so quello che sto dicendo”. Se c’è una cosa che il virus ha insegnato, insomma, è che anche la scienza è una materia “umana”, e quindi madre di continue contrapposizioni (per fortuna, altrimenti probabilmente saremmo ancora confinati in una caverna). E che Thomas Mann non poteva avere più ragione: tutto è politica.
· Morto l’attore Dieter Brummer.
Morto Dieter Brummer, l’attore australiano star di “Home and Away”. Ilaria Minucci il 26/07/2021 su Notizie.it. L’attore australiano Dieter Brummer, star di “Home and Away”, è morto all’età di 45 anni a causa di un improvviso e fatale malore. L’attore Dieter Brummer è deceduto all’età di 45 anni: la star di Home and Away è stata rinvenuta priva di vita all’interno del suo appartamento. Nella giornata di sabato 24 luglio, il corpo esanime di Dieter Brummer è stato trovato all’interno della sua abitazione dalla polizia, in seguito a una chiamata di soccorso che ha allertato le forze dell’ordine. L’attore australiano è stato colto da un improvviso malore mentre si trovava da solo in casa: la fatale circostanza, quindi, ne ha determinato la prematura scomparsa all’età di soli 45 anni. L’uomo aveva iniziato a cimentarsi con la recitazione da adolescente, all’età di 15 anni, prendendo parte alla serie televisiva australiana Home and Away, una famosa produzione destinata al piccolo schermo che rese Dieter Brummer celebre in contesto internazionale. A proposito del decesso del 45enne, la casa di produzione dello show che lo consacrò come attore, The Seven Network, ha rilasciato una nota nella quale è possibile leggere quanto segue: “Dieter Brummer era un membro del cast di Home and Away amato e celebrato dal pubblico internazionale”.
Morto Dieter Brummer, il ricordo della famiglia. In merito alla sconvolgente morte di Dieter Brummer, si è espressa anche la sua famiglia che ha pubblicato sui alcuni giornali australiani un messaggio per commemorare l’attore, asserendo: “la scomparsa di Dieter Brummer ha lasciato un vuoto enorme nelle nostre vite ed ora il nostro mondo non sarà più lo stesso. Il nostro pensiero va a tutti voi che lo avete conosciuto, lo avete amato o che avete lavorato con lui negli anni. Ringraziamo tutti voi anche per come state rispettando la nostra privacy in questo momento così terribile”.
Dieter Brummer, nato a Sydney il 5 maggio 1976, è deceduto nella giornata di sabato 24 luglio, a Glenhaven, un sobborgo di Sidney, situato a circa 32 chilometri dalla città. L’attore ha raggiunto l’apice del suo successo tra il 1992 e il 1996, in qualità di star di Home and Away. Nel corso di quegli anni, Brummer ricevette il premio di attore più popolare per ben due volte, in occasione dei Logie Tv Awards. Successivamente, l’uomo aveva deciso di abbandonare il mondo dello spettacolo e lavorare come lavavetri di grattacieli. A questo proposito, Dieter Brummer aveva dichiarato: “Volevo dimostrare che potevo sporcarmi le mani e sudare per un dollaro nello stesso modo in cui stavo sul set”. La sua morte, stando alle informazioni sinora trapelate, pare essere riconducibile a cause naturali.
· Addio a Nicola Tranfaglia. Storico, giornalista e politico.
Addio a Nicola Tranfaglia, una vita tra storia, giornalismo e politica. La Repubblica il 25 luglio 2021. Nicola Tranfaglia alla manifestazione che nel 2002 vide scendere in piazza 700 docenti universitari e avvocati torinesi per difendere la giustizia e la Costituzione. Lo storico dell'Università di Torino si è spento a 82 anni. Allievo di Galante Garrone, fu preside della facoltà di Lettere dell'Università di Torino. Si è spento a 82 lo storico Nicola Tranfaglia. Nato, cresciuto e laureatosi a Napoli, la sua carriera accademica era decollata da Torino, grazie a un posto da ricercatore alla Fondazione Luigi Einaudi e al ruolo di assistente di Alessandro Galante Garrone, due tappe che lo avevano poi portato a diventare ordinario di Storia contemporanea e, più avanti, preside della facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino. La vita di Nicola Tranfaglia è stata però caratterizzata da altre due grandi passioni. Quella per il giornalismo, che lo ha portato a scrivere su Repubblica e l'Espresso, a curare il volume "La Storia della stampa italiana" con Valerio Castronovo e a dirigere il Master in giornalismo di Torino. E quella per la politica, che lo ha visto iscriversi al Partito dei comunisti italiani nel 2004 e diventare deputato due anni più tardi. "A Nicola Tranfaglia va senz’altro riconosciuto il ruolo eminente avuto sia in ambito accademico sia nel rapporto costante e fruttuoso con il contesto più ampio del dibattito storiografico, culturale e politico di quasi cinquant’anni", lo ricorda l'Università di Torino. Che ricorda: "E' stato il primo ad avviare un insegnamento di storia contemporanea a Torino nel momento in cui l’Università cercava di aprirsi ad un rinnovato rapporto con la società circostante e ad una più proficua sensibilità alle tematiche emerse dalla crisi politica e culturale degli ultimi anni ’60. Egli ha alimentato il suo impegno nell’insegnamento, rivolto nel corso degli anni a migliaia e migliaia di studenti e a un vasto numero di allievi, con una costante attività di ricerca". Tranfaglia, sottolinea l'ateneo, "si è dedicato in primo luogo allo studio del fascismo non solo attraverso contributi di rilievo nazionale e internazionale – basti ricordare anche soltanto la raccolta di saggi "Dallo stato liberale al regime fascista" del ‘73, pietra miliare della storiografia sul tema -, ma sapendo anche esercitare uno stimolo costante all’avanzamento delle ricerche e del dibattito; gli studi sull’antifascismo con un’attenzione particolare ai fratelli Rosselli; quelli sull’Italia repubblicana con uno sguardo privilegiato alle vicende della politica nazionale, delle classi dirigenti, del Mezzogiorno e della mafia; e poi i lavori sulla storia della stampa e della magistratura, nei quali ha posto le basi per approcci in larga parte inediti in ambiti storiografici destinati poi a interessanti sviluppi". A nome delle colleghe e dei colleghi del Dipartimento di Studi storici, lo ricorda il Direttore del dipartimento Gianluca Cuniberti: “Nicola Tranfaglia ha lasciato un segno importante e duraturo nell’ateneo torinese e nella facoltà di Lettere e filosofia: in primo luogo ha assunto la responsabilità del Dipartimento di Storia al momento della sua nascita e quindi del dottorato istituito nell’ambito delle discipline contemporaneistiche. E’ stato determinante per l’istituzione del primo corso di laurea specificamente dedicato agli studi storici. Con lo stesso spirito fattivo e innovatore, ha ricoperto per due mandati la carica di preside nella difficile fase della riforma dei corsi di studio, nonché quella di vicerettore delegato in particolare ai problemi della didattica e, più di recente, di direttore del master di giornalismo. Insieme all’intensa attività di ricerca e di impegno nella società questi tratti descrivono l’assoluto rilievo di Nicola Tranfaglia, della sua presenza vivace e propositiva nella vita dell’Università di Torino intesa come parte essenziale della realtà cittadina e nazionale”.
· E’ morta l’artista Sabrina Querci.
Alberto Dandolo per Dagospia il 23 luglio 2021. "La vita l'ho goduta perché mi piace anche l'inferno della vita e la vita è spesso un inferno. La vita per me è stata bella perché l'ho pagata cara". Sabrina Querci, musa per elezione dell'inquietudine visionaria e apolide della Milano avanguardista che fu, è morta ad un'età indefinita questa notte nella sua Toscana. Lei, icona androgina che ha raccontato in anni non sospetti le maliziose e borghesi trappole della fluidità, si è finalmente fatta sola immagine. Addio regina delle notti senza buio di Via Panfilo Castaldi. Addio Sabrina.
La moda piange Sabrina Querci, figura di riferimento in Italia e negli Stati Uniti. Edoardo Semmola per corriere.it il 23 luglio 2021. Diceva che la sua casa fosse “l’iperuranio”. In realtà era Milano. Anche se Sabrina Querci, artista dai multiformi interessi, era nata a Prato, cresciuta e legata al triangolo che unice la sua città a Firenze e Livorno. Soprattutto negli anni Ottanta punk e new wave, dove moda, costume, poesia, musica, andavano di pari passo. E lei con la sua eleganza li abbracciava tutti. E se qualcuno le chiedesse che lavoro faceva, rispondeva “professione vanesia”. Sabrina Querci è venuta a mancare oggi a Milano, a 51 anni. Era malata da tempo. Protagonista dell’evoluzione del costume sia in Italia che negli Stati Uniti, è stata per decenni una delle figure di riferimento nel mondo della moda, del design, della fotografia – in questo caso come soggetto passivo, nel senso di modella per fotografie – delle arti visive, dell’innovazione dello stile. Un’intellettuale senza confini di disciplina. E una musa per altri artisti. Con la sua agenzia “Q. Connections” ha compiuto piccoli miracoli nell’avvicinare i giovani alle arti e viceversa. Sabrina Querci era una di quei personaggi che subito veniva in mente citare quando si pensava alla Firenze capitale della cultura, anzi “delle culture” degli anni Ottanta. Elegante, passionale, cinicamente ironica. Questo è quello che mi viene subito in mente se penso alla mia ospite. Un nobile intelletto ed una personalità travolgente che ha il pregio di saperla trasmettere a chiunque le stia accanto. Personalità onnivora, oserei dire. Lei si nutre di tutto: di arte, di moda, di poesia, di luoghi, di gente e di vita. C’è in lei una specie di indomita ferocia perpetuamente in lotta con l’ordine accettato delle cose che fa lei desiderare di creare all’istante piuttosto che aspettare pazientemente, rendendola, di conseguenza, intollerante alle restrizioni. Ha in sé una bellezza iperuranica tutta sua, più potente di quanto le parole e le azioni possano comunicare. Sum ergo Flash. Eccola immortalata, in tutta la sua presenza vibrante, in qualche scatto famoso o semplicemnte in qualche happening esclusivo, circondata da designer, fotografi e artisti della sua rete infinita di contatti, di idee e di sinapsi. Ovvero le Q.Connections.
Sabrina “musa” si nasce o si diventa?
Si diventa per elezione.
Se io dico “iperuranio”, tu dici…
Casa.
Cos'è per te l’originalità?
Facendo delle citazioni “L’originale non è quello che non imita nessuno, ma quello che nessuno può imitare. E’ colui che fa ogni giorno qualcosa che nessun altro sia abbastanza stupido da fare. E’ brutto per la mente fare continuamente parte dell’umanità.”
Chi riconosci come tuoi simili?
Tutti quelli che sono aperti a nuovi confini in qualsiasi ambito.
Quali sono state le tue collaborazioni più importanti?
Quelle che mi hanno arricchita intellettualmente, umanamente, spiritualmente. In trenta anni di attività sono tantissime e in vari ambiti, ne cito qualcuna dimenticandone sicuramente molte altre. Vanessa Beecroft a cui ho prestato il mio corpo, Nigel Coates amico e grande designer , John Maybury regista e continua ispirazione cerebrale, uno degli uomini che adoro di più per cultura ed ironia. Liborio Capizzi altra fonte di ispirazione, con cui collaboro anche con la mia agenzia Q.Connections, Gianpaolo Barbieri che mi ha fotografata, Matteo Garrone che mi ha permesso di trascorrere dei bellisimi giorni ad Ariccia in un tale of tales ma soprattutto tutti i giovani e nuovi talenti in erba che chiamo i miei bimbi, che mi danno energia e linfa vitale, ultimo in ordine di tempo Michele Chiocciolini che mi ha voluta come testimonial per la sua linea di borse.
Valentina Ardia per panorama.it il 23 luglio 2021. PICK&CHIC – Sabrina Querci: «professione vanesia», scherza lei alla mia prima domanda “Who is Sabrina?”. Questa ragazza cresciuta a Prato, che a soli 14 anni si destreggiava senza indugi nella city più underground dopo Londra e New York, ovvero Firenze anni 80, si può dire sia cresciuta praticamente a cantucci e riviste di moda. «Musa in primis per mio fratello Marco, che a 6 anni mi faceva già l’outfit per le uscite della domenica con basco all’uncinetto. Da allora il costume è diventato il mio regno e il lavoro di modella (che continua a fare ancora oggi, ma solo in occasioni speciali come è accaduto per il servizio moda della collezione di Raphael Lopez primavera-estate 2012 scattata dal fotografo Gianpaolo Barbieri) il mio primo vero passo nell’iperuranio della moda. Ma non mi sono mai considerata una modella e basta. Non sopporto le definizioni, non sono capace di rientrare in un solo profilo, la mia è sempre stata una figura atipica, sia fisicamente che professionalmente», così si definisce Sabrina. Dopo aver lavorato per riviste come WESTUFF, THE FACE, ID, BLITZ, vola prima a Londra e poi a Parigi, dove la sua innata passione per il vintage e per l’arte del travestimento si trasforma in poco tempo nel suo più grande amore: inizia ad occuparsi di collezioni di abiti vintage, come fashion curator anche per shop dedicati. Ancora oggi è consulente e curatrice di una delle culle milanesi per gli appassionati del vintage: ELIO FERRARO gallery/store, con cui collabora da sempre e per cui organizza anche eventi e mostre all’interno dello spazio meneghino di via Maroncelli e non solo. Ecco forse è proprio la frase “non solo” che apre lo scenario sulla professione che Sabrina si è inventata in questi ultimi anni e che a me ha davvero incuriosito. Ovvero le Q.Connections. Q come Querci e Connections come la reta infinita di contatti, idee e sinapsi che questa donna è in grado di tessere in pochi istanti. Perché se vi capita di incontrarla e di scambiarci anche solo due parole, state certi che lei trova una connessione tra voi e un personaggio che fa parte del suo network, per cui nel giro di poche ore è già partito un progetto nuovo, inedito, speciale a cui nessuno aveva pensato prima. L’elenco delle Q.Connections di Sabrina è davvero troppo lungo, ma tanto per rendere l’idea di quanto la moda sia solo una scusa per poi celebrare l’estetica e l’arte a 360 gradi (perché nelle sette vite di Sabrina, figura poliedrica e versatile, ci sono anche dei trascorsi oltre oceano dove la ragazza respira a pieni polmoni l’atmosfera underground di New York, circondata da designer, fotografi e artisti) si può dare una sbirciata allo scorso Salone del Mobile di Milano e poi ad Altaroma. Di grande impatto l’evento presentato al Salone di aprile, che vede la collaborazione di Sabrina con l’interior designer inglese Nigel Coates. Insieme hanno realizzato “Casa Reale“, una performance che ricostruisce il lusso delle ambientazioni monarchiche all’interno di uno spazio reale e onirico al tempo stesso. Un luogo vero in cui camminare, coronato anche da un cortometraggio, diretto dall’iconico regista John Maybury, che torna alle origini della regia, usando la sua fotocamera Leica con la funzione video, dando così una patina di antichità alle riprese. Ad Altaroma, invece, è grazie alle Q.Connections di Sabrina se per la prima volta la città capitolina ha visto le creazioni del couturier Liborio Capizzi, che ha lavorato per sedici anni accanto a Gianfranco Ferré. IMA SUMMIS TRANSMUTATE è il titolo che lo stilista siciliano ha scelto per la performance di debutto, nella location del Palazzo dei Congressi all’Eur, per una serata dove sacro e profano si sono fusi abilmente negli abiti d’ispirazione talare, realizzati assemblando vesti e simboli ecclesiastici, dedicati alla città di Roma. «Un’impresa che sembrava impossibile e che alla fine è stata molto più di una semplice presentazione. Non sono mancati i voguers che ballavano (ovviamente con le mosse riprese dal celebre video Vogue di Madonna), una videoproiezione realizzata da John Maybury e soprattutto il dj-set di Skin, musa da sempre di Liborio e artista (nonché cantante) davvero eclettica che ha emozionato e fatto vibrare tutta la platea. Ecco, questa forse è “la connessione” che mi ha dato davvero immensa soddisfazione», spiega Sabrina. E da questa agenzia pensata per stabilire e consolidare connessioni tra i giovani talenti nell’arte e nella moda, e gli interlocutori più adatti nell’industria e nella stampa, è in arrivo un altro progetto speciale, che alza il sipario il 12 settembre: «una data da non dimenticare: è il mio compleanno» – ironizza lei – «che festeggio con un evento super emozionante. Si tratta della mostra (presso ELIO FERRARO Gallery Store, via Maroncelli 1, fino al 30 ottobre) e performance live (allo spazio Edit di via Maroncelli 14, il 12 settembre alle 21:00) di un giovanissimo artista, Ralph Hall, che presenta Krudeltà MentHall, ovvero una serie di sculture di animali che vengono simbolicamente pugnalate alle spalle, trafitte dalla mano dell’uomo, inteso come Global Predator. «Una performance molto forte, forse anche cruda a primo impatto, ma che vuole rappresentare la crudeltà umana. Un manifesto voluto e sentito che evoca un ritorno alle origini, ad un equilibrio fatto di simbiosi con la natura, troppo spesso oltraggiata dall’uomo, che in ogni opera di Hall è un pugnale affondato», svela Sabrina. Non resta che aggiungere…Happy Birthday dear Miss Q.
· È morto il fisico Miguel Virasoro.
Fisica: morto Virasoro, studiò teoria delle stringhe. Amico di Parise e Mézard,diresse Ictp; insegnò a Sissa, Sapienza. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Luglio 2021. È morto all'età di 81 anni Miguel Virasoro, fisico argentino e direttore, dal 1995 al 2002, del Centro Internazionale di Fisica Teorica "Abdus Salam" - ICTP di Trieste. Virasoro, nato a Buenos Aires, era noto a livello internazionale per le sue ricerche in fisica teorica e fisica matematica. Laureatosi all'Universidad de Buenos Aires nel 1962, lasciò il Sudamerica dopo la Noche de los Bastones Largos, lo sgombero violento da parte della polizia federale argentina, il 29 luglio 1966, di studenti e insegnanti che avevano occupato cinque facoltà accademiche dell'Università di Buenos Aires per rivendicarne l'autonomia dal governo militare del Generale Juan Carlos Onganía. Il fisico argentino si trasferì in Italia nel 1977 dove, oltre all'ICTP, aveva collaborazioni e amicizie alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati - SISSA, sempre a Trieste, trascorse inoltre periodi di ricerca e insegnamento anche all'Università di Torino e di Roma "La Sapienza", dove insegnò per 30 anni. Attualmente era professore emerito all'Instituto de Ciencias, Universidad Nacional de General Sarmiento, Argentina. Virasoro era noto per gli studi sulla teoria delle stringhe e per lo sviluppo di algebre di Lie a dimensione infinita; con Giorgio Parisi, presidente dell'Accademia Nazionale dei Lincei, e Marc Mézard, direttore dell'École normale supérieure di Parigi, ha dato un grande contributo alla meccanica statistica, e allo studio dei "vetri di spin" in dimensioni infinite. Nel 2020 fu insignito della Medaglia Dirac dell'ICTP, condividendo il premio con André Neveu dell'Università di Montpellier e Pierre Ramond della University of Florida, "per i loro contributi pionieristici all'inizio e alla formulazione della teoria delle stringhe che ha introdotto nuove simmetrie bosoniche e fermioniche in fisica". (ANSA).
· E’ morto lo scrittore Christian La Fauci.
(ANSA il 22 luglio 2021) Lo scrittore esperto di calcio inglese, Christian La Fauci, 46 anni, è morto nella sua abitazione a Genova Marassi. La Fauci viveva con la madre, 86 anni, era gravemente malata e non autosufficiente e sarebbe morta di stenti per non essere riuscita a chiedere aiuto. Secondo le prime ipotesi, lo scrittore sarebbe morto per un malore e la madre non sarebbe sopravvissuta perché non in grado di provvedere a se stessa. Nell'abitazione dove madre e figlio vivevano sono intervenute le volanti della polizia avvisate da un amico di La Fauci che non lo sentiva da giorni. I poliziotti hanno trovato i due corpi in avanzato stato di decomposizione ognuno nella propria camera. Il pubblico ministero Stefano Puppo ha aperto un fascicolo per omicidio colposo per poter procedere ad accertamenti. Verranno sentiti i conoscenti e analizzati farmaci trovati in casa.
E’ morto lo scrittore Christian La Fauci. Newsmondo.it il 23/7/2021. Lo scrittore Christian La Fauci è morto all’età di 46 anni. Il corpo senza vita dell’uomo è stato rinvenuto insieme a quello della madre. ROMA – E’ morto all’età di 46 anni lo scrittore Christian La Fauci. Il corpo senza vita dell’uomo, come scritto dal Corriere della Sera, è stato rinvenuto dalla polizia in un appartamento insieme a quello della madre dopo la segnalazione di un amico. L’ipotesi più probabile, secondo una prima ricostruzione, sembra essere quella di un doppio decesso avvenuto in modo naturale. Lo scrittore potrebbe essere morto per un malore, mentre la donna si è lasciata andare dopo la scomparsa del figlio. Una doppia tragedia che ha sconvolto l’intera città di Genova, visto che l’uomo era molto conosciuto in zona per i suoi lavori.
Christian Fauci morto per un malore. L’ipotesi è quella di un malore, ma non si esclude nessuna pista almeno fino a quando non si hanno delle prove. Vicino al corpo del 46enne sono stati trovati due quadernetti pieni di appunti. Fogli che sono al vaglio degli inquirenti per capire meglio quanto successo e provare a ricostruire i motivi di questo decesso. La Procura ha aperto un’indagine. Si tratta di un passaggio obbligatorio anche per accertare le cause della morte dell’uomo. Non sembrano esserci dubbi sul decesso della donna: la madre è morta di stenti visto che era dipendente dal figlio per la sopravvivenza.
Indagini in corso. Le indagini sono in corso e presto ci potrebbero essere importanti novità. Gli inquirenti aspettano i risultati dell’autopsia per accertare meglio le cause del decesso. L’ipotesi al vaglio degli agenti è quella di un malore, ma si preferisce non escludere nessuna pista almeno fino a quando non si hanno delle certezze. Una scomparsa che ha lasciato un vuoto incolmabile nella città di Genova. Lo scrittore, infatti, era molto conosciuto per i suoi libri.
· E’ morta l’attrice Joyce MacKenzie: fu Jane in Tarzan.
Morta Joyce MacKenzie: fu Jane in Tarzan. Erika Pomella il 19 Luglio 2021 su Il Giornale. Si è spenta all'età di 95 anni l'attrice Joyce MacKenzie, diventata famosa per aver interpretato Jane in Tarzan e i cacciatori d'avorio. Si è spenta a 95 anni Joyce MacKenzie, attrice che si era fatta conoscere al grande pubblico interpretando Jane nel film del 1953 Tarzan e i cacciatori d'avorio, dove aveva recitato al fianco dell'attore Lex Barker. A dare la notizia della morte è stato il figlio maggiore dell'attrice, Norman Leimert, che ne ha dato comunicazione alla testa statunitense The Hollywood Reporter. Nata il 13 ottobre 1925 a Redwood City, in California, Joyce MacKenzie lavorò dapprima come aiutante carpentiere in un cantiere navale di San Francisco per potersi pagare la scuola di recitazione e cercare così di realizzare il suo sogno di diventare attrice. Aspirazione resa possibile quando, durante una sua esibizione al Pasadena Playhouse, venne notata dal regista Orson Welles, regista di Quarto Potere e responsabile dello scherzo radiofonico su La guerra dei mondi che spinse al panico gli spettatori. Fu proprio Orson Welles a conferirle il ruolo di Cherry Davis nel film Conta solo l'avvenire, che rappresentò il suo debutto sul grande schermo, avvenuto nel 1946. L'ultimo ruolo da attrice di Joyce MacKenzie risale al 1961, quando fece un cameo in un episodio della serie della Cbs Perry Mason. Abbandonato il mondo della recitazione lavorò come assistente di produzione alla ABC prima di darsi all'insegnamento e diventare insegnante di inglese. Recitò anche al fianco del divo Gregory Peck in Cielo di fuoco e ne L'amante indiana spartì il set con James Stewart, attore conosciuto soprattutto per aver interpretato il protagonista di La vita è meravigliosa, uno dei cult intramontabili del cinema statunitense e grande classico del periodo natalizio. Sposatasi per tre volte nel corso della vita, l'attrice lascia due figli: il già citato Norman Leimert e Walter Leimert.
Erika Pomella. Nata a Roma, mi sono laureata in Saperi e Tecniche dello Spettacolo Cinematografico a La Sapienza. Dopo la laurea ho seguito un corso di specializzazione di montaggio e da allora scrivo di Cinema e Spettacolo per numerose testate. Ho collaborato con l’Ambasciata Francese in Italia per l’organizzazione della prima edizione del festival del cinema francese a Roma. Parlo fluentemente francese e, quando non lavoro, passo il mio tempo a leggere montagne di rom…
· È morto Kurt Westergaard, il fumettista danese della famosa vignetta su Charlie Hebdo.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 19 luglio 2021. È morto nel sonno a 86 anni Kurt Westergaard, il fumettista danese che indignò il mondo musulmano con la famosa vignetta su Charlie Hebdo al centro della strage del giornale. L'illustratore aveva realizzato 12 disegni sul tema “Il volto di Maometto” per il quotidiano conservatore Jyllands-Posten. Inizialmente le vignette erano passate quasi inosservate, ma dopo due settimane i manifestanti erano scesi in piazza a Copenhagen per protestare e gli ambasciatori dei paesi musulmani avevano protestato. Nel febbraio del 2006 la violenza anti-danese si era intensificata in tutto il mondo musulmano. Nel 2012 il settimanale satirico Charlie Hebdo, di Parigi, aveva ristampato le vignette incriminate. Tre anni dopo, nel 2015, terroristi si presentarono alla sede del giornale uccidendo 12 persone. Westergaard lavorava alla Jyllands-Posten dalla metà degli anni '80 come illustratore e, secondo Berlingske, il disegno in questione era stato effettivamente stampato una volta, ma senza suscitare molte polemiche. Durante gli ultimi anni della sua vita Westergaard, come molti altri associati alle vignette, ha dovuto vivere sotto la protezione della polizia in un indirizzo segreto. All'inizio del 2010, la polizia danese ha catturato nella sua casa di Westergaard un somalo di 28 anni armato di coltello che aveva intenzione di ucciderlo.
· E’ morto il sarto Mario Caraceni.
Elisabetta Andreis per milano.corriere.it il 16 luglio 2021. «Duro e severo con i nostri trentacinque sarti, pignolo come non ho mai conosciuto nessun altro, ma quando uno di loro aveva bisogno era il primo a correre per sostenerlo con una umanità e una responsabilità d’altri tempi». Il ricordo di Carlo Andreacchio, genero di Mario Caraceni, mancato mercoledì mattina a 95 anni per tumore, va al di là delle immagini pubbliche note. Il famosissimo sarto milanese vestiva Calvin Klein, Gianfranco Ferré, Eugenio Montale, Ralph Lauren e ancora Mike Bongiorno («non ci ha mai chiesto un centesimo di sconto»), Marco Tronchetti Provera, la famiglia Moratti e tutti gli Agnelli (duecento abiti di Gianni sono andati in eredità a Lapo). È stato Cavaliere della Repubblica, membro della Camera Europea dell’Alta Sartoria, accademico dell’Accademia dei sartori, Cavaliere di San Maurizio e Lazzaro, con medaglie in tutte le epoche della sua vita. In ultimo, aveva smesso di voler vivere: «Voleva raggiungere la moglie Rachele, detta Lina, mancata quattro anni fa, cui soleva cantare ogni sera “La vie en rose” — racconta Andreacchio —. Mi diceva con autoironia: “Mia figlia continua a farmi fare esami medici, dicono che sono in forma ma allora di cosa posso morire?». Il suo papà, Augusto, era un sarto a sua volta notissimo che lavorava a Parigi dal 1930, dunque Mario ha frequentato le scuole in Francia. Arrivò a Milano nel 1946 quando il padre aprì in via Fatebenefratelli 16 la prima sartoria che esiste ancora oggi. «Non cambieremo mai sede — dice il genero, che a sua volta lavora nella sartoria con il figlio, nipote di Mario —. La nostra tradizione e le nostre radici di famiglia sono salde qui e vogliamo che continuino a crescere. Era il più grande desiderio di Mario e quello che non disattenderemo, l’abbiamo promesso anche a lui, tutti insieme, parenti figli e nipoti, in questi ultimi giorni». Ha combattuto per aprire scuole di sartoria gratuite per i giovani e «anche in questi anni ha contribuito come promotore e docente» e diceva sempre una frase: “La cosa più importante nel lavoro, anche di fronte alle inevitabili frustrazioni e sacrifici, non è la fama: è la serietà».
· E’ morto il giornalista antimafia Peter de Vries.
Jacopo Iacoboni e Cecile Landman per “La Stampa” il 16 luglio 2021. Nel punto in cui hanno sparato a Peter de Vries ad Amsterdam, adesso, oltre a tanti mazzi di fiori portati dai cittadini e adagiati dietro le transenne c'è una scritta su un cartello bianco che recita «Mafia is a mountain of shit». Citazione di Peppino Impastato. Ieri pomeriggio de Vries, il più conosciuto reporter investigativo olandese, 64 anni, una vita a raccontare storie di criminalità organizzata, assassinii, narcotraffico, non ce l'ha più fatta. Martedì scorso era stato ferito alla testa con un colpo di pistola mentre usciva dallo studio tv di RTl Boulevard, nel Leidseplein, il centro della movida di Amsterdam. Camminava verso la sua macchina nel parcheggio nella strada dietro, il Lange Leidse Dwarsstraat. Da allora non si è più ripreso. Che questo sia un assassinio di mafia - la cosiddetta "mocromafia", la mafia marocchina (ma non solo marocchina) che domina da anni i lucrosi affari del traffico di droga nei Paesi bassi - lasciano sospettare molti indizi, anche se per ora non ci sono altre certezze se non l'arresto, vicino a L'Aja, dei due accusati per l'agguato a De Vries: uno, un polacco di 35 anni, Kamil E, che ha guidato l'auto per la fuga, e l'altro, il presunto killer, un olandese di 21 anni, Delano G. Il giovane che ha sparato, secondo quanto rivelato da fonti di intelligence a La Stampa, sarebbe il nipote di uno degli uomini di Ridouan Taghi, il più ricercato tra i criminali in Olanda. Taghi, marocchino-olandese, oggi 43 anni, è stato arrestato nel dicembre del 2019 a Dubai, dove era in ottimi rapporti con Raffaele Imperiale, uno dei latitanti di camorra più ricercati d'Italia, e Daniel Kinahan (il più temuto latitante irlandese), e da allora è sotto processo con l'accusa di aver commissionato omicidi e traffico internazionale di droga. Nei processi contro la "mocromafia" si poteva facilmente incontrare de Vries, sempre con l'immancabile sacchetto di "krentenbollen", i panini al ribes. Amsterdam è da almeno dieci anni teatro di violentissime sparatorie, cominciate con una nel quartiere popolare Staatsliedenbuurt, nel 2012. Spesso i porti e i loro traffici sono sullo sfondo, ma ora c'è come un salto di qualità, qualcosa di diverso. Una guerra. Rotterdam è uno dei principali hub per l'import di cocaina in Europa, dominato dalla mocromafia, appunto, con l'Olanda paese leader nella produzione illegale di anfetamine e metanfetamine. L'estrema destra di Geert Wilders usa queste imprese criminali mafiose per pompare un nazionalismo sempre più forte (tra parentesi: de Vries ha accusato ripetutamente Wilders di fascismo, ed era a favore di un cambio deciso nella politica sulle droghe, via dalla repressione, e con passi più spediti verso la legalizzazione). Cosa c'entra però il reporter ucciso in tutto questo quadro? Oltre ad aver lavorato per anni su storie di crimini famosi - il più celebre fu il rapimento del re della birra Freddy Heineken, da cui fu tratto un film con Anthony Hopkins - de Vries era in contatto, anche nell'insolita veste di consigliere (che è stata criticata perché sarebbe andato oltre il semplice ruolo di reporter) di un pentito cruciale nel processo in corso a Taghi: si chiama Nabil B, è un marocchino che a un certo punto - forse per salvarsi la vita - ha deciso di collaborare con la giustizia. In questi due anni gli è stato ammazzato prima il fratello, poi l'avvocato, Derk Wiersum. I presunti killer anche qui sono giovanissimi, con quoziente IQ basso (in questo caso, 73), quasi dei kamikaze. Taghi aveva fatto sapere che chiunque avesse aiutato il pentito «doveva andare a dormire». De Telegraaf, uno dei quotidiani più noti in Olanda, ha scritto che gli inquirenti olandesi temono vi sia un possibile piano di evasione violenta di Taghi dal carcere di massima sicurezza di Vught, con un gruppo tattico per assistere nell'operazione, forse dai Balcani, con armi pesanti. Sempre secondo il giornale, Taghi avrebbe anche ordinato ai suoi di cercare di capire se era possibile rapire un diplomatico olandese in Africa per servire come riscatto per la sua liberazione. La storia pare improbabile, ma anche il crescendo di connessioni criminali internazionali di questa mafia lo sembrava. Quel che è certo è che la settimana scorsa è uscito un rapporto del «Group of States against corruption» del Consiglio d'Europa, che indica i Paesi Bassi come ormai uno dei più pericolosi paradisi per le operazioni criminali globali.
Il caso che scuote l'Olanda. Morto Peter de Vries, il giornalista colpito in un agguato ad Amsterdam: dietro l’omicidio i narcos olandesi. Carmine Di Niro su Il Riformista il 15 Luglio 2021. Peter R. de Vries non ce l’ha fatta. Il giornalista investigativo olandese, ferito lo scorso 6 luglio in un agguato a colpi d’arma da fuoco nella capitale Amsterdam, è morto oggi in ospedale. A riferirlo sono i media olandesi che citano una dichiarazione della famiglia. L’emittente olandese Rtl, per cui il reporter lavorava, ha riferito che “Peter ha lottato fino alla fine, ma non è riuscito a vincere la battaglia”. È morto circondato dai suoi cari. “Ha vissuto secondo la sua convinzione: ‘in ginocchio non si può essere liberi'”, prosegue la dichiarazione, “siamo incredibilmente orgogliosi di lui e allo stesso tempo inconsolabili”. De Vries, 64 anni, aveva appena appena partecipato a un programma televisivo del quale è ospite abituale quando è finito vittima dell’imboscata, colpito dai sicari con cinque colpi alla testa.
LE INDAGINI SULL’OMICIDIO – Poche ore dopo l’agguato la polizia olandese aveva fermato e arrestato, bloccandoli in un’auto, Delano G., 21 anni, e Kamil Pawel E., 35 anni. I due sono i principali sospettati per l’omicidio del reporter: in particolare Delano G. sarebbe l’autore dell’omicidio, mentre il 35enne Kamil Pawel E., originario della Polonia e residente a Maurik, è sospettato di essere l’autista che ha favorito la fuga di Delano G.
La famiglia del 21enne ritiene che sia stato ingaggiato per assassinare de Vries dall’organizzazione criminale di Ridouan Taghi, uomo chiave del narcotraffico olandese. De Vries era il consulente di Nabil Bakkali, testimone principale dell’accusa nel caso Taghi, il cui fratello era stato assassinato nel 2018, poco dopo l’annuncio che Nabil avrebbe collaborato come testimone nella vicenda giudiziaria che vede coinvolto Taghi, in prigione dal 2019.
LA CARRIERA (E LE MINACCE) DI DE VRIES – Il reporter olandese dal 1995 al 2012 aveva condotto un programma televisivo molto popolare in Olanda sulla criminalità. La trasmissione si occupava anche di casi e profili di alto livello. Era diventato famoso anche per il lavoro investigativo svolto dopo il rapimento del magnate della birra, Freddy Heineken, noto in tutto mondo, nel 1983. Era diventato conosciuto anche negli Stati Uniti dopo aver lavorato alla scomparsa della 19enne americana Natalee Holloway ad Aruba, nei Caraibi.
Il reporter nel 2019 aveva annunciato su Twitter di essere stato informato dalla polizia e da funzionari della Giustizia di essere sulla “lista nera” di un criminale latitante: era stato minacciato già diverse altre volte durante la sua carriera.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
· E’ morto il fotoreporter Danish Siddiqui.
Lo scontro tra forze di sicurezza e talebani. Chi era Danish Siddiqui, il fotoreporter Premio Pulitzer ucciso in Afghanistan. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Luglio 2021. È morto durante gli scontri tra le forze di sicurezza afghane e i talebani. Danish Siddiqui, reporter e fotografo indiano della Reuters, già premio Pulitzer nel 2018 per i reportage fotografici sui rifugiati Rohingya aveva 40 anni. La tragedia vicino a un valico di frontiera tra il Pakistan e l’Afghanistan, a Spin Boldak, nel distretto di Kandahar. A rendere nota la notizia fonti delle forze speciali afghane. “Stiamo cercando con urgenza più informazioni e stiamo lavorando con le autorità regionali”, hanno affermato in una nota il presidente di Reuters, Michael Friedenberg, e la direttrice della testata, Alessandra Galloni che si dicono addolorati per la perdita del loro collega. “Danish era un giornalista eccezionale, un marito e padre leale e un amatissimo collega – hanno aggiunto i colleghi – I nostri pensieri sono con la sua famiglia in questo momento terribile”. Siddiqi era stato insignito di numerosi premi a livello internazionale e dirigeva il dipartimento multimediale di Reuters in India. Aveva seguito diversi conflitti dall’Afghanistan all’Iraq alla crisi dei Rohingya alle proteste Hong Kong e i terremoti in Nepal. Da alcuni giorni seguiva gli scontri a Kandahar. Era embedded da una settimana con le forze di sicurezza afghane. La BBC ha ricostruito che il giornalista sarebbe stato ucciso in un’imboscata dei talebani. Non è ancora chiaro quante persone siano morte nell’agguato. L’ambasciatore dell’Afghanistan in India, Farid Mamundzay su Twitter si è detto “profondamente scosso dalla triste notizia dell’uccisione di un amico”. Le forze di sicurezza afghane, secondo Reuters, stavano cercando di riprendere il controllo dell’area del mercato di Spin Boldak. Siddiqi aveva già riferito all’agenzia di essere rimasto ferito al braccio da una scheggia di proiettile “shrapnel” venerdì scorso mentre copriva gli scontri. Era stato curato e stava recuperando quando i talebani si sono ritirati dai combattimenti a Spin Boldak, ma secondo il comandante afghano citato da Reuters i talebani hanno poi attaccato di nuovo, mentre il giornalista parlava con dei commercianti.
Continua intanto l’avanzata dei talebani su tutto l’Afghanistan: più di un quarto dei 421 distretti del Paese è sotto il loro controllo. Il ritiro delle truppe americane che si concluderà il prossimo 11 settembre potrebbe creare un grande vuoto e rendere le forze afghane sempre più vulnerabili secondo diversi osservatori. L’Afghanistan è rimasto sotto il controllo dei talebani dal 1996 al 2001, dopo gli attacchi dell’11 settembre agli Stati Uniti e l’intervento statunitense.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Da Il Messaggero il 17 luglio 2021.
LA TRAGEDIA Raccontare, attraverso le immagini, le storie e i volti delle crisi e dei conflitti nel mondo, portando luce dove c'è solamente oscurità. Danish Siddiqui lo ha fatto fino a sacrificare la propria vita a soli 38 anni, tra le terre dell'Afghanistan. Fotoreporter della Reuters e premio Pulitzer del 2018, Siddiqui è deceduto mentre copriva i combattimenti tra le forze di sicurezza afgane e i talebani vicino al valico di frontiera con il Pakistan di Spin Boldak, caduto nei giorni scorsi nelle mani degli insorti. Siddiqui e un alto ufficiale sono stati uccisi nel fuoco incrociato con i talebani, ha riferito la Reuters che ha ricevuto le informazioni dall'esercito del Paese.
IL RICORDO «Danish era un giornalista eccezionale, un marito e un padre devoto e un collega molto amato. I nostri pensieri vanno alla sua famiglia in questo momento terribile», hanno dichiarato in una nota il presidente di Reuters Michael Friedenberg e la direttrice Alessandra Galloni, sottolineando che l'agenzia sta raccogliendo «urgentemente maggiori informazioni, in collaborazione con le autorità della regione». Il giornalista, di nazionalità indiana, era nelle forze afghane dall'inizio di questa settimana, e ieri mattina aveva riferito alla sua agenzia di essere stato ferito al braccio da una scheggia mentre stava seguendo gli scontri. È stato curato, e si stava riprendendo mentre i talebani si ritiravano dagli scontri a Spin Boldak. La Reuters ha riferito che un comandante afghano sotto anonimato ha raccontato che Siddiqui stava parlando con alcuni negozianti quando i talebani hanno attaccato di nuovo. L'agenzia ha precisato di non poter verificare in modo indipendente la ricostruzione della vicenda. Siddiqui lavorava per Reuters dal 2010, e aveva coperto le guerre in Afghanistan e Iraq, le proteste di Hong Kong, i terremoti in Nepal e la crisi dei rifugiati Rohingya, per la quale nel 2018 il suo team ha vinto il Pulitzer per il miglior servizio fotografico.
· E’ morta l’ambientalista Joannah Stutchbury.
La foto dell'escavatore aveva fatto il giro del mondo. Chi era Joannah Stutchbury, l’ambientalista uccisa a colpi di arma da fuoco. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Luglio 2021. È stata uccisa a colpi di arma da fuoco, nei pressi della sua abitazione, nella contea di Kiambu in Kenya. Johannah Stutchbury era un’attivista ambientalista, nota per il suo impegno a difesa della foresta di Kiambu. Il suo corpo è stato ritrovato ieri. “Per lungo tempo, Johanna è stata una strenua sostenitrice della conservazione del nostro ambiente ed è ricordata per i suoi incessanti sforzi per proteggere la foresta di Kiambu”, la dichiarazione del presidente del Kenya Uhuru Kenyatta. L’aggressione si sarebbe consumata nei pressi del vialetto di quella che era l’abitazione di Stuchburry. L’ambientalista, secondo le prime informazioni, sarebbe stata raggiunta da almeno quattro colpi di arma da fuoco. Non è stato sottratto nessun oggetto alla sua abitazione. Nessun furto è stato dunque segnalato. Il corpo della donna è stato trovato dai vicini di casa. La notizia è stata diffusa dall’ambientalista keniana e direttrice di Wildlife Direct, in difesa degli elefanti, Paula Kahumbu. L’assassinio dell’attivista è il secondo nel giro di pochi anni dopo quello, nel 2018, di Esmond Bradley Martin, americano che viveva in Kenya. L’uomo indagava sul commercio di avorio di elefante e di corno di rinoceronte e fu pugnalato a morte nella sua casa di Nairobi. Il suo caso non è stato mai risolto. Stutchburry invece era nota per le sue campagne contro il “land grabbing”, l’accaparramento di terra da parte degli investitori, spesso stranieri, che si è sviluppato e diffuso soprattutto nel primo decennio del XXI secolo. Aveva fatto il giro del mondo la sua foto dentro il braccio di un escavatore per fermare le macchine sulla foresta. L’attivista era keniana di Nairobi, la capitale. Aveva fondato la società Porini Permaculture che insegnava pratiche sostenibili e olistiche. Un centro di riferimento. Negli anni aveva promosso sottoscrizioni e petizioni. Era da tempo era minacciata per il suo impegno. Tra i primi messaggi di cordoglio quello di Amnesty Kenya che oltre a condannare l’omicidio ha invitato le Direzioni delle indagini criminali e il Ministero dell’Ambiente e delle foreste a indagare a fondo sull’assassinio dell’attivista.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
· E’ morto l’attore Libero De Rienzo.
Marco De Risi per ilmessaggero.it il 16 luglio 2021. Libero De Rienzo è morto. L'attore, classe '77, è stato ritrovato morto in casa a Roma in zona Madonna del Riposo, dopo l'intervento di un amico preoccupato per le mancate risposte al telefono. Inutili i soccorsi dei sanitari, il corpo è stato sottoposto ad autopsia. Sul posto sono intervenuti i carabinieri.
(ANSA il 16 luglio 2021) E' deceduto all'età di 44 anni, stroncato da un infarto, nella sua casa romana, l'attore napoletano Libero De Rienzo. Nato a Napoli nel 1977, aveva intrapreso la carriera dello spettacolo sulle orme del padre, Fiore De Rienzo, che è stato aiuto regista di Citto Maselli. Libero aveva vinto il David di Donatello nel 2002 e nel 2006, nel film Fortpàsc di Marco Risi, ha interpretato il giornalista napoletano Giancarlo Siani. Tra i suoi lavori successivi, "Smetto quando voglio" (2014) e nel 2019 il film "A Tor Bella Monaca non piove mai". Benché abitasse dall'età di due anni a Roma, Libero De Rienzo era legato alla città di Napoli. Sposato con la costumista Marcella Mosca, lascia due figli di 6 e 2 anni. Dopo i funerali (la cui data non è stata ancora fissata) la salma sarà inumata in Irpinia, accanto alla mamma. (ANSA).
Ilaria Sacchettoni per corriere.it il 16 luglio 2021. Per la morte dell’attore Libero De Rienzo i magistrati indagano per il reato di morte come conseguenza di altro reato. L’ipotesi investigativa è che il protagonista di «Santa Maradona» avesse consumato droga. Ma al momento è solo una supposizione dalla quale partire per effettuare una serie di accertamenti. Il primo dei quali sarà l’autopsia, delegata agli esperti del Policlinico Gemelli.
(ANSA il 16 luglio 2021) La7 renderà omaggio stasera a Libero De Rienzo, morto prematuramente a 44 anni, trasmettendo Fortapasc, per la regia di Marco Risi, film in cui l'attore di origini napoletane interpretava il giornalista Giancarlo Siani, assassinato dalla camorra. "Stasera dopo In Onda in prima serata", annuncia Andrea Salerno, direttore della rete, su Twitter. (ANSA).
(ANSA il 16 luglio 2021) Libero De Rienzo se ne è andato. Un malore improvviso ha portato via nella notte l'attore napoletano a soli 44 anni. Figlio d'arte, suo padre Fiore è stato aiuto regista di Citto Maselli e autore Rai, Libero aveva vinto il Davide di Donatello nel 2002 con "Santa Maradona". Tra i film indimenticabili di cui è stato interprete c'è " Smetto quando voglio" del 2014 e " A Tor Bella Monaca non piove mai" del 2019. La Rai oggi vuole rendergli omaggio, mandando in onda già nel primo pomeriggio, su Rai3 alle 15.50 "Smetto quando voglio", storia corale e divertente del regista Sidney Sonnino che vede Libero De Rienzo protagonista assieme a Edoardo Leo, Stefano Fresi, Pietro Sermonti, Valeria Solarino e altri ancora, in una commedia brillante con al centro un gruppo di ricercatori disoccupati, che per uscire dall'empasse lavorativa, decide di produrre Smart Drugs. Anche RaiPlay ricorderà l' attore scomparso prematuramente, nell'offerta Cinema con 4 dei suoi film più noti: "Smetto quando voglio - Ad Honorem"; "Smetto quando voglio - Masterclass"; "Una vita spericolata"; "Ho ucciso Napoleone". (ANSA).
BIOGRAFIA DI LIBERO DE RIENZO
Da cinquantamila.it - la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti
Napoli 24 febbraio 1977. Attore. David di Donatello come miglior attore non protagonista per Santa Maradona (Marco Ponti, 2001). Altri film: Milano-Palermo: il ritorno (Claudio Fragasso, 2007), Fortapàsc (Marco Risi, 2009), La kryptonite nella borsa (Ivan Cotroneo, 2011), Miele (Valeria Golino, 2013) e Smetto quando voglio (Sydney Sibilia, 2014). In televisione visto nei panni di Valerio Morucci nella fiction televisiva con Michele Placido Aldo Moro - Il Presidente (Gianluca Maria Tavarelli, 2008) e nelle miniserie Nassiriya - Per non dimenticare (2007) e Caccia al re - La narcotici (2011), entrambe di Michele Soavi. Regista di Sangue - La morte non esiste (2006).
In Fortapàsc interpreta Giancarlo Siani, il giornalista del Mattino assassinato dalla camorra nel 1985: «A un certo punto non lo volevo più fare, poi non mi voleva più il regista… Non capita tutti i giorni, soprattutto in Italia, di raccontare una storia così» (a Valerio Cappelli) [Cds 18/3/2009].
«Io sono per il calcio nello stomaco. A dire che va tutto bene ci pensa già la tivù».
Passione come allevatore di zanzare: «Per esaminarle meglio, ho iniziato a nutrirle: prima frutta, poi carne, alla fine il mio braccio. Mi lascio pungere cinque-sei volte al giorno, così loro vivono bene e io sono contento» (a Marina Cappa) [Vty 11/5/2006].
E' morto Libero De Rienzo: stroncato da un infarto a 44 anni. Anna Laura De Rosa e Ilaria Urbani su La Repubblica il 16 luglio 2021. L'attore napoletano nel 2002 vinse il David di Donatello, si trovava nella sua casa romana. E' deceduto all'età di 44 anni, stroncato da un infarto nella sua casa romana, l'attore, regista e sceneggiatore napoletano Libero De Rienzo. A dare la notizia è stata la famiglia. Il suo corpo senza vita è stato trovato da un amico, preoccupato perchè non riusciva a mettersi in contatto con l'attore da qualche giorno. Sul posto, il 118 e i carabinieri: sul caso indaga la Procura di Roma anche se sul corpo dell'attore non ci sarebbero segni di violenza. Nato a Napoli nel 1977, De Rienzo aveva intrapreso la carriera dello spettacolo sulle orme del padre, Fiore De Rienzo, che è stato aiuto regista di Citto Maselli. Viveva a Roma, legato a Napoli, aveva nel cuore Procida per la quale ha combattutto tante battaglie come quella per salvare l'unico ospedale dell'isola. Lascia la moglie Marcella Mosca, costumista, due splendidi bambini di 6 e 2 anni. Libero aveva vinto il David di Donatello nel 2002, nel film Fortapàsc di Marco Risi, ha interpretato il giornalista napoletano Giancarlo Siani. Tra i suoi lavori successivi, "Smetto quando voglio" (2014) e nel 2019 il film "A Tor Bella Monaca non piove mai".
Trovato morto in casa l'attore Libero De Rienzo stroncato da un infarto. Novella Toloni il 16 Luglio 2021 su Il Giornale. L'attore non dava sue notizie da un paio di giorni. Il suo cadavere è stato rinvenuto da un amico preoccupato dalla sua assenza. Dalle prime indiscrezioni, De Rienzo sarebbe stato colpito da un infarto. Il corpo senza vita dell'attore Libero De Rienzo, 43 anni, è stato ritrovato in un'abitazione di Roma. A fare la terribile scoperta è stato un amico dell'attore, originario di Napoli, che non aveva sue notizie da un paio di giorni. Preoccupato dallo strano silenzio, l'uomo ha allertato le forze dell'ordine e il 118, ma all'arrivo nell'appartamento in zona Madonna del Riposo, a Roma, i soccorritori non hanno potuto far altro che constatare il decesso. Ora la Procura capitolina indaga per capire le cause del decesso. Libero De Rienzo aveva alle spalle una lunga carriera nel mondo del cinema e della televisione. Dopo l'esordio davanti alla macchina da presa alla fine degli anni '90, l'attore aveva conquistato la notorietà recitando al fianco di Stefano Accorsi in Santa Maradona del 2001. Interpretazione che gli aveva fatto vincere il David di Donatello nel 2002 come miglior attore non protagonista. Decine le pellicole per il piccolo e il grande schermo in cui De Rienzo aveva lavorato: Milano - Palermo, il ritorno, la serie Smetto quando voglio, Nassiriya per non dimenticare, fino agli ultimi due film Cambio tutto! e Il caso Pantani - L’omicidio di un campione. Nulla faceva presagire una fine così tragica. L'ultimo messaggio affidato ai social network da Libero De Rienzo risale ad appena due giorni fa. L'attore era tornato su Instagram dopo una lunga assenza di mesi, commentando il gran caldo degli ultimi giorni: "Notte africana. Tanto vale accendersi un fuoco in bocca". Nei commenti aveva risposto ad alcuni amici scherzando sul suo post e dicendo di stare bene. Poi la tragedia. Di Rienzo non ha avuto più contatti con gli amici più stretti e uno di questi, insospettitosi, ha allertato i carabinieri della stazione Madonna del Riposo. Gli agenti, insieme ai soccorritori del 118, si sono recati insieme all'amico dell'attore a casa del 43enne, che è stato trovato morto in casa. Le autorità ora indagano per capire cosa sia successo. Sul corpo di Libero De Rienzo non ci sarebbero segni di violenza, ma saranno le indagini, coordinate dalla procura di Roma, a chiarire la dinamica della morte dell'attore. Secondo le ultime indiscrezioni, l'interprete classe 1977 sarebbe stato stroncato da un infarto. La notizia però non è ancora stata confermata.
Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita.
Libero De Rienzo trovato morto in casa a 44 anni: cinema italiano in lutto, la causa del decesso. Libero Quotidiano il 16 luglio 2021. È morto l’attore Libero De Rienzo: l'interprete di film come Santa Maradona e soprattutto la saga di Smetto quando voglio aveva solo 44 anni, a stroncarlo sarebbe stato un infarto. A renderlo noto è stata la famiglia. Interprete, regista e sceneggiatore napoletano di nascita, era romano di fatto: viveva nella capitale dall'età di 2 anni. Era sposato con la costumista Marcella Mosca da cui ha avuto due figli, di 6 e 2 anni. La salma sarà inumata in Irpinia, accanto a quella della mamma. De Rienzo viveva in zona Madonna del Riposo. A trovarlo è stato un amico, che non aveva sue notizie da giorni e che aveva cercato invano di mettersi in contatto con lui. Sul posto sono arrivati i sanitari del 118 e i carabinieri della stazione Madonna del Riposo. A quanto risulta al momento, sul corpo dell'attore non sono stati riscontrati segni di violenza. Libero era in qualche modo figlio d'arte e cresciuto nel mondo del cinema: suo padre Fiore De Rienzo era stato aiuto regista di Citto Maselli. Nel 2002 il primo ruolo importante e il primo prestigioso riconoscimento, il David di Donatello per Santa Maradona di Marco Conti. Nel 2004 altro successo di critica e pubblico con A/R Andata+ritorno, sempre per la regia di Conti e con Vanessa Incontrada come partner sulla scena. Non solo commedie. Nel 2006 l'intenso Fortapàsc di Marco Risi (De Rienzo interpretava Giancarlo Siani, giornalista napoletano assassinato dalla camorra). Il film che però lo ha consacrato è stato il cult Smetto quando voglio nel 2014, il film di Sidney Sibilia che ha mescolato genere comico e action all'americana inaugurando una nuova stagione per la commedia italiana. Nel 2017 ha girato anche i sequel Masterclass e Ad honorem. L'ultima pellicola interpretata è stata Il caso Pantani - L’omicidio di un campione, firmato da Domenico Ciolfi nel 2020.
Libero De Rienzo, giallo sulla morte: "Conseguenza di un altro reato". Droga, la pista che filtra dalla procura. Libero Quotidiano il 16 luglio 2021. Morto. A 44 anni. Il dramma di Libero De Rienzo, l'attore celebre su tutto per aver interpretato al cinema Giancarlo Siani nel film Fortapàsc. Un lutto che sconvolge il cinema italiano. Il corpo dell'attore, regista e sceneggiatore napoletano è stato ritrovato senza vita ieri sera intorno alle 20, nella sua casa di Roma. A trovarlo un amico che non aveva più sue notizie ormai da qualche giorno. A portarlo via, un infarto. Da subito le indagini, coordinate dalla procura di Roma: sul posto sono intervenuti anche i carabinieri della stazione Madonna del Riposo, oltre ai sanitari del 118. Sul corpo dell'attore, nato a Forcella nel 1977 e cresciuto a Roma da che aveva due anni, si apprende, nessun segno di violenza. Ancora non è stata resa pubblica la data dei funerali: la salma, però, sarà inumata in Irpinia, accanto a quella della madre. Ma nel pomeriggio di oggi, venerdì 16 luglio, ecco filtrare l'indiscrezione: per la morte di De Rienzo, i magistrati indagano per il reato di morte come conseguenza di un altro reato. La notizia è stata rilanciata dal Corriere della Sera, che aggiunge anche come l'ipotesi investigativa è che il protagonista del celebre film Santa Maradona avesse consumato droga. Il Corsera aggiunge e rimarca come al momento è soltanto una supposizione dalla quale si partirà per effettuare una serie di accertamenti, il primo dei quali sarà l'autopsia sul corpo dell'attore, delegata agli esperti del Policlinico Gemelli di Roma.
De Rienzo, l'ipotesi choc: "Mix di eroina e sedativi. La morte per overdose". Stefano Vladovich il 18 Luglio 2021 su Il Giornale. In casa dell'attore sequestrati calmanti e una polvere chiara che potrebbe essere stata fumata. Ucciso da un mix di sedativi ed eroina. È questa l'ipotesi più inquietante ma anche la più accreditata per spiegare la morte assurda dell'attore Libero De Rienzo, 44 anni, trovato cadavere nel corridoio di casa, a Roma, giovedì sera da un amico allarmato dalla moglie. La cronaca è nota. La donna, la costumista Marcella Mosca, è a Napoli con i loro due figli, di due e sei anni. Non riesce a mettersi in contatto con il marito, chiama disperata un amico di famiglia che ha le chiavi dell'appartamento. Poco dopo le 20 la macabra scoperta. Per il medico legale per De Rienzo, «Picchio», non c'è più nulla da fare, stroncato da un malore, probabilmente da un attacco cardiaco 24 ore prima del ritrovamento. In casa gli inquirenti sequestrano scatole di calmanti e una polvere chiara, non propriamente bianca sottolineano, già spedita ai laboratori del Ris dei carabinieri per le analisi. Molti dubbi, e tutti da sciogliere, per il procuratore Nunzia D'Elia e il sostituto Francesco Minisci che aprono un fascicolo d'indagine, contro ignoti, con l'ipotesi di reato tipica di chi muore per overdose: «Morte come conseguenza di altro reato», ovvero lo spaccio. Ufficialmente uno strumento che serve per compiere tutta una serie di accertamenti tecnici, a cominciare dall'autopsia (domani verrà conferito l'incarico al policlinico Gemelli), all'analisi dei tabulati del suo cellulare. I carabinieri della compagnia San Pietro e della stazione Madonna del Riposo, dal canto loro, setacciano il resto della casa in cerca di elementi utili alle indagini. Nessuna traccia, però, di aghi, siringhe e altro. Che De Rienzo quella polvere l'abbia fumata? Eroina purissima, classificata dagli esperti con il grado quarto: se il dato verrà confermato dagli esami di laboratorio e dal tossicologico eseguito sulla vittima, scatterà la caccia allo spacciatore. De Rienzo mercoledì notte, poche ore prima della morte, posta su Instagram la foto di un posacenere zeppo di mozziconi. E scrive: «Notte africana. Tanto vale accendersi un fuoco». Proprio da quest'ultimo post sui social l'idea che l'attore di origini partenopee l'eroina possa averla fumata. Uno scenario comunque drammatico ma che spiegherebbe l'assenza di altri strumenti necessari per iniettarsi droga in vena. I familiari avrebbero ammesso agli inquirenti che l'attore, vincitore del David di Donatello nel 2002 per il film «Santa Maradona», in passato aveva avuto a che fare con la droga. Brutte storie superate da tempo però. Chi lo conosceva bene, soprattutto attori e registi con i quali aveva lavorato, lo ricorda per la simpatia travolgente ma anche per una profonda disperazione. Un «male oscuro», per il quale De Rienzo sarebbe stato in cura. Ma pure questo dato non è chiaro. Anche perché, al momento, le indagini sono ferme, in attesa dei referti medico legali e delle analisi di laboratorio. Solo allora verrà eseguito l'esame delle ultime chiamate e messaggi inviati e ricevuti dall'attore per risalire agli eventuali pusher. Certo è che il 44enne era solo in casa, nessuna traccia della presenza di altre persone. La porta chiusa senza mandate, a pochi metri lui sul pavimento, magari nel tentativo di aprirla e chiedere aiuto ai vicini. «Siamo sconvolti - raccontano i pochi condomini che hanno voglia di parlare -, lo vedevamo tutti i giorni. Una persona solare, sempre gentile e sorridente». Un dolore straziante per tanti. Stefano Vladovich
Sedativi e droga, ora è caccia al pusher di De Rienzo. Stefano Vladovich il 19 Luglio 2021 su Il Giornale. L'ipotesi che lo spacciatore abbia abbandonato l'attore in fin di vita. Indagini su pc e telefono. Eroina tagliata o crack. E caccia allo spacciatore che avrebbe fornito la dose letale all'attore Libero De Rienzo. A tre giorni dalla sua morte assurda, fra le poche certezze, c'è quella polvere chiara trovata nell'appartamento assieme a mozziconi di sigaretta, tracce di uno spinello, forti sedativi. Era davvero solo Picchio quando si è accasciato a terra? Chi è entrato ed uscito dal condominio al 49 di via Madonna del Riposo, nel quartiere Aurelio? Gli investigatori, mentre attendono il via libera dei pm Nunzia d'Elia e Francesco Minisci per avviare definitamente le indagini, avrebbero disposto l'acquisizione di alcune telecamere della zona per studiare i movimenti della vittima fin da mercoledì pomeriggio, quando il protagonista di «Fortapàsc» posta su Instagram la foto del posacenere sequestrato, fino alla sera stessa quando, dopo aver acceso il braciere letale («Notte africana. Tanto vale accendersi un fuoco», scrive De Rienzo, come riportato ieri su queste pagine), il 44enne accusa il malore. La domanda è necessaria: si poteva salvare? Si se De Rienzo era in compagnia di un amico, dello stesso pusher, che, preso dal panico, sarebbe fuggito a gambe levate chiudendo dietro sé la porta di casa. Ascoltato dai carabinieri, C.T., l'amico di famiglia accorso al mezzanino dei De Rienzo con le chiavi lasciate dalla moglie della vittima, racconta che la serratura della porta era senza mandate. Come se fosse stata chiusa dall'interno, nel caso l'attore fosse stato solo, o dall'esterno, se qualcuno se ne fosse andato via accostandola dietro di sé. Ricostruzione, però, priva di elementi utili per confermare o smentire l'una o l'altra ipotesi. Mistero fitto, insomma, aggravato purtroppo da fake news, come quella che parla di un fantomatico testimone che avrebbe visto in un bar il vincitore del David di Donatello in compagnia di un losco personaggio, uno «spacciatore africano» o «siriano», poche ore prima della drammatica scoperta. Voci prive di fondamento, tutt'altro che confermate dagli inquirenti che indagano sul caso. Gli investigatori avrebbero anche acquisito i tabulati telefonici per studiare il traffico sul cellulare dell'attore scomparso. Stamattina la Procura di Roma conferirà l'incarico per l'autopsia e un primo test tossicologico sul cadavere di De Rienzo. Resta in piedi il fascicolo aperto con l'ipotesi di reato prevista dall'articolo 586 del codice penale, ovvero morte come conseguenza di altro reato, per l'uomo che avrebbe fornito la droga a Picchio. Stefano Vladovich
De Rienzo e l'ipotesi overdose. "La polvere in casa era eroina". Stefano Vladovich il 20 Luglio 2021 su Il Giornale. I risultati delle analisi dei Ris sulla sostanza rinvenuta nell'abitazione dell'attore. Ora è caccia allo spacciatore. Uno «schizzo» da 20 euro. Eroina purissima ma con il solo 10 per cento di principio attivo. La polvere chiara, non bianca, trovata in casa di Libero De Rienzo, secondo il rapporto consegnato dal Ris dei carabinieri in Procura, sarebbe una dose da pochi euro. Eroina «da strada» tagliata al 90 per cento con sostanze non particolarmente tossiche. Comunque non in grado di provocare la morte, a meno che non si ipotizzi un mix letale con altri farmaci. Come i sedativi, forti calmanti, trovati nell'appartamento in via Madonna del Riposo 49, nel quartiere Aurelio. Dalla bustina sarebbero state prelevate tracce biologiche, DNA, all'esame degli esperti. A pochi giorni dalla morte assurda del protagonista di «Fortapàsc», vincitore del David di Donatello per «Santa Maradona», la caccia al fornitore della «roba» è già cominciata. Se verrà confermato il malore in seguito all'assunzione di droga, il pusher sarà accusato di «morte come conseguenza di altro reato», come dal fascicolo aperto dai pm D'Elia e Minisci, altrimenti solo di spaccio. Se, invece, si trovava con la vittima, il reato potrebbe diventare omissione di soccorso se non omicidio. Molti i punti da chiarire, insomma. Primo. De Rienzo aveva fatto uso di un'altra dosa di eroina, simile a quella trovata in casa? Fumata, come si intuisce dal post su Instagram accanto al posacenere zeppo di cicche di sigarette, e provocare il malore e l'arresto cardiaco. Un quesito che solo l'autopsia, che sarà eseguita stamattina all'Istituto di Medicina Legale del policlinico Gemelli alla presenza di un perito della famiglia, potrà chiarire. Magari supportata dall'esame tossicologico, un test lungo settimane, sul cadavere del 44enne. Due: cosa c'era nel posacenere sequestrato dai carabinieri? Di certo c'è che De Rienzo fumava sigarette. E fra quello che rimane di queste c'è anche il filtro bianco di una bionda «rollata» a mano, o di uno spinello. Amici e parenti avrebbero escluso che l'attore utilizzasse tabacco per confezionarsi sigarette «fai da te». Allora? Le analisi di laboratorio dovranno accertare a quali sostanze appartengono i resti trovati nel mozzicone bianco. Se di solo tabacco, di hashish o di eroina. Quest'ultima è l'ipotesi più probabile visto che nell'appartamento non sono state trovate siringhe o pipette adatte allo scopo. Se il «fuoco» da accendere, come scrive De Rienzo sui social pochi minuti prima della morte mercoledì notte, sia quello testimoniato dalla «canna» lo potranno confermare le analisi sui residui combusti. Tre: le ha fumate tutte lui quelle sigarette e la canna, o in casa c'era davvero qualcuno? L'esame del DNA sui resti bruciati potrà chiarire anche questo aspetto di una vicenda tutt'altro che lineare. Fra le ipotesi è che il pusher sia entrato nel mezzanino dei De Rienzo e si sia fermato a farsi una fumata d'eroina assieme al suo cliente, magari per prova, lasciandogli poi l'altra dose, quella trovata in salone. Forti calmanti e altro, dunque, potrebbero aver provocato il collasso e la morte. L'esame delle telecamere della zona, acquisite in parte dagli inquirenti, potrebbe invece dimostrare che era solo. Sarebbero cominciati, d'altro canto, gli esami dei tabulati telefonici e delle chiamate fatte e ricevute fin da mercoledì mattina, quando De Rienzo era ancora vivo, memorizzate sul suo smartphone. Gli investigatori, infine, sono alla ricerca di testimoni che possono aver visto De Rienzo con il pusher. Stefano Vladovich
"Quella dose non è letale". De Rienzo, l'ipotesi è il mix. Stefano Vladovich il 21 Luglio 2021 su Il Giornale. L'autopsia non chiarisce, si attende l'esame tossicologico. Tra15 giorni le cause del decesso. Arresto cardiocircolatorio. L'esame autoptico eseguito ieri dal professor Fabio Di Giorgio, dell'Istituto di Medicina Legale del policlinico Gemelli, non chiarisce la morte di Libero De Rienzo. È ancora giallo, insomma, sulle cause che hanno portato al decesso, mercoledì notte, dell'attore di origini partenopee, figlio di un giornalista Rai, trovato cadavere, la sera di giovedì, sul corridoio d'ingresso della sua abitazione in via Madonna del Riposo 49. Un mistero che ruota attorno al posacenere utilizzato pochi minuti prima di morire e ora nei laboratori del Ris dei carabinieri, ai tabulati telefonici, a un fantomatico testimone che avrebbe visto De Rienzo assieme a uno spacciatore. L'esame, eseguito alla presenza del consulente di famiglia, il professor Dino Mario Tancredi, lascia molti dubbi sulla fine del 44enne. Un passato recente legato all'uso di droga, cocaina, De Rienzo potrebbe aver assunto eroina e forti tranquillanti, come quelli sequestrati, è la pista più seguita. Un mix letale che potrà essere confermato, o meno, dai risultati dell'esame tossicologico. Riscontri che saranno sul tavolo dei pm D'Elia e Minisci, però, non prima di 14 giorni. Di certo una dose di eroina pura, come la «polvere chiara» tagliata al 90 per cento rinvenuta in casa, non avrebbe potuto uccidere. Eroina di quarto grado ma con il 10 per cento di principio attivo non sarebbe letale. Da stabilire, dunque, in che quantità De Rienzo, abbia assunto la droga fumandola. E se una dose non sarebbe stata sufficiente a provocare il malore, due bustine, mescolate con altre sostanze, potrebbero essere state fatali. De Rienzo avrebbe cercato aiuto avvicinandosi alla porta della sua abitazione. Ma si accascia sul pavimento. Tutto ciò sarebbe accaduto 24 ore prima della macabra scoperta dell'amico di famiglia, C.T., in possesso delle chiavi e accorso al mezzanino dei De Rienzo dopo aver sentito la moglie, la costumista Marcella Mosca, a Napoli con i due figli. La donna dalla mattina di giovedì non riesce a mettersi in contatto con il marito. «Per tutto il pomeriggio non mi risponde, vai a vedere» chiede all'amico. Quando l'uomo trova «Picchio» pensa sia ancora vivo, si dispera, chiama il 118. I sanitari non possono far altro che constatare il decesso, avvenuto il giorno prima secondo il primo rapporto del medico legale. Chi ha fornito la droga a De Rienzo? Era solo quando si è sentito male? Ha davvero fumato eroina mentre postava la foto del posacenere zeppo di cicche? Interrogativi che potranno avere risposte solo grazie agli ultimi contatti avuti dal protagonista di Fortapàsc. Messaggi e chiamate, in arrivo e in uscita, ancora al vaglio degli esperti dell'Arma. Non solo. Gli esami di laboratorio e la comparazione del Dna della vittima con altre tracce trovate sul portacenere potrebbero fare luce sugli ultimi momenti di vita dell'attore, premiato con il David di Donatello per Santa Maradona nel 2002. Un giallo centrato sulla dose rimasta nella bustina, sui mozziconi di sigaretta Marlboro e, soprattutto, su quel filtro «fai-da-te» postato il 14 luglio su Instagram che fa pensare a una fumata particolare, tabacco e hashish o, peggio, eroina. Da oggi la salma è a disposizione dei familiari per i funerali mentre resta aperto il fascicolo d'indagine per «morte come conseguenza di altro reato» (lo spaccio) per il pusher. E un vuoto immenso per la moglie, amici e colleghi dell'attore. Un'artista «dallo sguardo sempre sorridente, ma disperato dentro». Stefano Vladovich
Libero De Rienzo, l'ipotesi: mix di eroina e sedativi, poi l'overdose. E il sospetto: un messaggio dietro all'ultimo post? Libero Quotidiano il 18 luglio 2021. Sulla morte di Libero De Rienzo, scomparso a 44 anni per arresto cardiaco nella sua casa, si fa strada un'ultima, terrificante, ipotesi: potrebbe essere stato ucciso da un mix di sedativi ed eroina. Questa la pista più accreditata, secondo quanto riporta Il Giornale, dietro la morte dell'attore, trovato senza vita giovedì sera a Roma da un amico, allarmato dalla moglie a cui non rispondeva più al telefono. Per il medico legale per De Rienzo, Picchio, non c'è più nulla da fare, stroncato da un malore, probabilmente da un attacco cardiaco 24 ore prima del ritrovamento. E in casa, si è appreso, gli inquirenti hanno sequestrato scatole di calmanti e anche una polvere chiara, non propriamente bianca, hanno sottolineato, subito spedita ai laboratori dei Ris. E proprio la colorazione, più che alla cocaina, fa pensare all'eroina. Molti dubbi, e tutti da sciogliere, per il procuratore Nunzia D'Elia e il sostituto Francesco Minisci, che non a caso hanno aperto un fascicolo contro ignoti in cui l'ipotesi di reato è quella che si mette nero su bianco per le sospette overdose: "Morte come conseguenza di un altro reato", ossia lo spaccio. Questo tipo di strumento, ufficialmente, serve per compiere tutta una serie di accertamenti tecnici, a cominciare dall'autopsia (domani, lunedì 19 luglio, verrà conferito l'incarico al policlinico Gemelli), all'analisi dei tabulati del suo cellulare. In casa, aggiunge Il Giornale, non è stata trovata però alcuna traccia di aghi e siringhe. Possibile però che, nel caso si trattasse di eroina, la polvere sia stata inalata oppure fumata. Stando alle prime indiscrezioni, potrebbe trattarsi di eroina purissima. Se la circostanza verrà confermata, ovviamente, si aprirà la caccia allo spacciatore. Infine, un ultimo tassello. Il post pubblicato su Instagram da De Rienzo mercoledì notte, poche ore prima di morire: la foto di un posacenere zeppo di mozziconi di sigaretta e il commento "Notte Africana. Tanto vale accendersi un fuoco". E proprio il post avrebbe avvalorato il sospetto che l'eroina potrebbe averla fumata.
Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 20 luglio 2021. Nell'appartamento dell'attore Libero De Rienzo c'era eroina. Pura al dieci per cento e tagliata con altre sostanze, secondo gli esami tossicologici effettuati dai carabinieri del Ris. Si parte da questo per orientare le indagini che ipotizzano la morte come conseguenza di altro reato. Ipoteticamente la cessione di sostanza stupefacente avrebbe causato la fine del celebrato protagonista di Fortapàsc. Mentre l'inchiesta accelera la famiglia fa sentire la propria voce attraverso il suo legale di fiducia, l'avvocato Piergiorgio Assumma, che chiede rispetto per «i figli di Picchio», bimbi di 2 e 6 anni appena. Così, a quattro giorni dalla scomparsa dell'antidivo del cinema italiano, i carabinieri coordinati dall'aggiunto Nunzia D'Elia e dal suo sostituto Francesco Minisci si concentrano sulla cessione della sostanza stupefacente. La domanda, inevitabile, è la seguente: come è entrata l'eroina in casa di De Rienzo? Chi è l'uomo che ha rifornito l'attore? Gli esperti stanno scandagliando i contatti trovati sul cellulare dell'attore. Nomi, cognomi rinvenuti sullo smartphone sono oggetto di verifica e approfondimento da parte della polizia giudiziaria. Le audizioni di persone informate sui fatti sono in corso, ovviamente sono stati immediatamente ascoltati i familiari che, in estrema sintesi, hanno confermato i problemi di Picchio con la cocaina dalla cui dipendenza sembrava però essersi affrancato. A detta di Marcella Mosca, costumista e moglie dell'attore, la dipendenza apparteneva al passato dell'attore che però, forse, aveva mantenuto alcuni contatti nella propria rubrica. Secondo gli investigatori non bisogna dare nulla per scontato: le prime verifiche dei carabinieri del Ris hanno dato esito negativo. L'attore non aveva tracce di sostanza stupefacente né sul viso né sulle mani. Un'apparente incongruenza che sarà sciolta dall'autopsia affidata al professor Fabio De Giorgi, medico legale del Policlinico Gemelli. Uno dei quesiti formulati dai magistrati riguarda la presenza di stupefacenti nei tessuti della vittima. Già oggi potrebbero arrivare le prime risposte al riguardo. Si sa che nell'appartamento c'erano scatole di farmaci e si sta individuando il medico che li aveva prescritti. Si sa anche che Picchio aveva i suoi riti. Prendeva il caffè al bar della zona, facendo due chiacchiere con i clienti, alla mano con tutti in barba ai molti cliché cinematografici. Chi ha visto per ultimo Libero De Rienzo allora? Dalla famiglia smentiscono ricostruzioni «fantasiose» secondo le quali ci sarebbe stata un'altra persona in casa con lui. Si cercano invece telecamere che abbiano ripreso la sua abitazione a caccia del fermo immagine che dica qualcosa in più sugli avventori. Ma il risultato non è scontato. La via, una strada come molte al quartiere Aurelio, nella Roma Nord, potrebbe essere priva di telecamere di sorveglianza. Sono alcune tra le molte difficoltà di un'inchiesta delicata, nella quale i tempi potrebbero decidere l'esito. Sono già trascorsi quattro giorni dal ritrovamento del corpo dell'attore. Il vantaggio nei confronti di eventuali pusher potrebbe assottigliarsi. Non è tutto, perché anche dal punto di vista giuridico la contestazione - l'unica possibile per poter effettuare i riscontri necessari - è complessa da dimostrare. Si dovrà provare che chiunque abbia ceduto la sostanza a Picchio - e ammesso che sia stata quella la causa della sua morte - era consapevole dei rischi contenuti in quell'azione. Nel frattempo dalla famiglia rimarcano: «Siamo in presenza di una violazione della privacy. L'incontrollata divulgazione, ingiustificata a livello umano, è basata su notizie che per legge, rappresentando anche il contenuto di atti di indagine, dovrebbero essere coperte dal segreto istruttorio».
Libero De Rienzo, "Picchio non c'è più". Immobile, sulle scale: lo straziante grido dell'amico che ha trovato il cadavere. Libero Quotidiano il 16 luglio 2021. La morte dell'attore napoletano Libero De Rienzo, trovato senza vita ieri sera intorno alle 20 nella sua casa di Roma, ha sconvolto il mondo del cinema e non solo. A dare l'allarme è stato un suo amico che non aveva più sue notizie ormai da qualche giorno. "Picchio non c'è più, Picchio è morto", ha urlato dopo essere rimasto paralizzato sulle scale della palazzina di via Madonna del Riposo, a pochi passi dall'Aurelia. L'uomo era andato da Libero con le chiavi dell'appartamento per vedere se fosse successo qualcosa. Dopo qualche minuto l'ambulanza e poi l'arrivo del padre Fiore. Adesso i carabinieri stanno cercando di capire cosa sia successo dentro la casa dell'attore e regista. Bisogna capire per esempio se fosse da solo o in compagnia quando ha iniziato a sentirsi male. La Procura, intanto, ha disposto l'autopsia. Sul posto gli investigatori non hanno trovato tracce di droga ma per sicurezza verranno eseguiti anche i test tossicologici. "Intorno alle 21 e 15 di ieri ho sentito un urlo provenire dalle scale. Era una ragazza. Poi più niente e pochi minuti dopo un'altra voce di uomo che ripeteva a raffica che Picchio era morto - ha raccontato a Repubblica un vicino della palazzina -. Sono sconvolto, lo avevo incontrato pochi giorni fa. Lo abbiamo sempre chiamato Picchio ma non mi chieda il legame con questo soprannome". A chiamare l'amico è stata la moglie di De Rienzo, che non sentiva il marito da qualche ora ed era preoccupata. Poi la tragica scoperta. "A casa sua arrivavano spesso attori e colleghi del mondo del cinema. Ma Picchio non era uno che se la tirava", ha raccontato un giovane inquilino dello stesso palazzo.
Libero De Rienzo, il ricordo straziante a PiazzaPulita: quella lettera per Michele, il giovane morto suicida. Libero Quotidiano il 16 luglio 2021. Il mondo dello spettacolo è sconvolto per l'improvvisa morte di Libero De Rienzo, scomparso oggi 16 luglio a 44 anni. Corrado Formigli e la redazione di PiazzaPulita, su La7, lo ricordano ripubblicando un video del 2017 in cui l'attore "emozionò tutti leggendo a Piazzapulita la lettera di Michele, suicida a 30 anni". Un'interpretazione da brividi che rivista ora fa ancora più commuovere". Libero De Rienzo è morto, pare stroncato da un infarto nella sua casa. Nato a Napoli nel 1977, aveva intrapreso la carriera dello spettacolo sulle orme del padre, Fiore De Rienzo, aiuto regista di Citto Maselli. Libero aveva vinto il David di Donatello nel 2002 e nel 2006, nel film Fortpa'sc di Marco Risi, ha interpretato il giornalista napoletano Giancarlo Siani. Tra i suoi lavori successivi, Smetto quando voglio, A Tor Bella Monaca non piove mai. Prima ancora aveva recitato in A/R andata + ritorno e Santa Maradona. De Rienzo era sposato con la costumista Marcella Mosca, lascia due figli di 6 e 2 anni. Dopo i funerali la salma sarà seppellita in Irpinia, accanto alla madre. "La notizia della morte improvvisa di Libero De Rienzo è terribile e ci lascia tutti senza parole", commenta il ministro della Cultura, Dario Franceschini. "Perdiamo un giovane talento, un protagonista del cinema italiano che già aveva visto riconosciuta la sua arte con la doppia vittoria del David di Donatello nel 2002 e nel 2006. Il mondo della cultura italiana si stringe con affetto e cordoglio alla sua famiglia, ai suoi piccoli figli, alla moglie e a tutte le persone che lo hanno amato, stimato e apprezzato".
Libero De Rienzo, la straziante reazione di Vanessa Incontrada: "Sono senza fiato. Cosa devo dire...", un colpo al cuore. Libero Quotidiano il 16 luglio 2021. Vanessa Incontrada è disperata per la morte di Libero De Rienzo, l'attore scomparso improvvisamente a 44 anni: "Solo ora leggo ciò che non avrei mai pensato di leggere... Libero io sono senza parole, senza fiato mentre mi stanno preparando sul set… le mie lacrime scendono senza riuscire a fermarsi", scrive in un post pubblicato sul suo profilo Instagram dove pubblica anche due foto di loro insieme. "Cosa devo dire.. niente… solo piango per te. Ti voglio bene e te ne ho sempre voluto". Vanessa e Libero avevano recitato insieme in A/R Andata + Ritorno film del 2004 scritto e diretto da Marco Ponti. Lei interpretava una hostess, Nina, e lui un fattorino, Dante. Molto romantica la scena in cui i due si lasciano andare all'amore e alla passione. Libero De Rienzo è morto a 44 anni. L'attore napoletano è stato trovato senza vita, probabilmente stroncato da un infarto, nella sua casa in zona Madonna del Riposo a Roma, intorno alle 21 di ieri 15 luglio. A dare l'allarme un amico. Sul posto i carabinieri della stazione Gianicolense. De Rienzo aveva vinto il David di Donatello nel 2002 e nel 2006. Nel film Fortpàsc di Marco Risi, aveva interpretato il giornalista napoletano Giancarlo Siani. Quindi, altre tappe fondamentali della carriera, Smetto quando voglio (2014) e nel 2019 il film A Tor Bella Monaca non piove mai. Era sposato con la costumista Marcella Mosca, da cui aveva avuto due figli di 6 e 2 anni.
Aveva vinto anche un David di Donatello. È morto Libero De Rienzo, a soli 44 anni scompare l’attore di "Santa Maradona" e "Fortapàsc". Fabio Calcagni su Il Riformista il 16 Luglio 2021. Stroncato da un infarto a soli 44 anni. È morto così l’attore Libero De Rienzo, napoletano, che aveva intrapreso la carriera nello spettacolo seguendo le orme del padre Fiore, già aiuto regista di Citto Maselli. Nato nel quartiere napoletano di Chiaia, a soli due anni si era trasferito con la famiglia a Roma, pur essendo legatissimo alla sua città natale. Lascia due figli di 2 e 6 anni, avuti con la moglie Marcella Mosca, costumista. De Rienzo aveva vinto anche il David di Donatello, nel 2002, per la sua interpretazione da attore non protagonista per ‘Santa Maradona’ di Marco Ponti. Sempre con Ponti aveva lavorato in ‘A/R Andata + Ritorno‘ (2004), in cui è protagonista insieme a Vanessa Incontrada. Era stato anche sceneggiatore, nonché regista e attore, nella pellicola ‘Sangue – La morte non esiste’ con cui ottiene anche dei riconoscimenti. Nel 2009 ottiene un grande successo di critica portando sul grande schermo la vita di Giancarlo Siani, giornalista de Il Mattino, ucciso nel 1985 dalla camorra, col film di Marco Risi "Fortapàsc". Nel 2014 è invece protagonista di "Smetto quando voglio", commedia diretta da Sydney Sibilia sulla vicenda di una banda di giovani laureati che si improvvisano spacciatori: De Rienzo parteciperà anche ai due sequel del film, "Smetto quando voglio – Masterclass" e "Smetto quando voglio – Ad honorem". De Rienzo aveva anche lavorato in alcune produzioni televisive, tra cui il film tv "Più leggero non basta" (1998), con regia di Elisabetta Lodoli, e le miniserie tv ‘Nassiriya – Per non dimenticare‘ (2007), di Michele Soavi, e ‘Aldo Moro – Il presidente‘ (2008), regia di Gianluca Maria Tavarelli.
A trovare il corpo senza vita di De Rienzo, alle 20 di ieri sera in un appartamento in zona Madonna del Riposo, a Roma, è stato un amico dell’attore. Secondo l’Agi questo era preoccupato perché non aveva sue notizie da qualche giorno. Sulla vicenda indagano i carabinieri della stazione Madonna del Riposo, anche se sul corpo dell’attore non vi sarebbero segni di violenza.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
L'attore morto all'improvviso a 44 anni. “Libero De Rienzo ha reso immortale mio fratello Giancarlo”, il ricordo di Paolo Siani. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Luglio 2021. Il giornalista-giornalista porta le notizie, che sono “rotture e’cazz”. L’attore-attore interpreta personaggi, e in questi scompare. Libero De Rienzo era scomparso per esempio nel volto di Giancarlo Siani, il cronista napoletano ucciso dalla Camorra nel settembre 1985 al quartiere Vomero, a pochi passi da casa sua. Per Fortapàsc, diretto da Marco Risi, 2009, De Rienzo era stato candidato come Miglior Attore Protagonista Al David di Donatello nel 2010. L’attore è morto a 44 anni, per un infarto, all’improvviso. Il mondo del cinema è a lutto, e sconvolto. De Rienzo da anni viveva a Roma. Ha interpretato film cult come Santa Maradona – David al Miglior Attore Non Protagonista – e la saga Smetto Quando Voglio. Era nato a Napoli nel 1977. Lascia la moglie, la costumista Marcella Mosca, e due figli di sei e due anni. Aveva cominciato seguendo le orme del padre, Fiore De Rienzo, aiuto regista di Citto Maselli. Per soldi, aveva ammesso in un’intervista a Il Messaggero. Poi, grazie soprattutto al teatro, aveva trovato un senso nella recitazione, nell’interpretare personaggi, nel raccontare storie. Era anche sceneggiatore e regista. De Rienzo era nato a Forcella e cresciuto nel quartiere di Chiaia. Era napoletano come Giancarlo Siani, che ha interpretato a 24 anni dalla morte, guidando la sua iconica Citroën Méhari in alcune scene, come ricorda a Il Riformista il fratello del “giornalista-giornalista” Paolo Siani, dottore e deputato del Partito Democratico. Il film contrappone il “giornalista-giornalista” che porta le notizie che sono “rotture e’cazzo” al “giornalista-impiegato” comodo e assicurato. Siani, ucciso a 26 anni a colpi di pistola, apparteneva alla prima categoria. Quella sera del 23 settembre 1985 voleva andare a un concerto di Vasco Rossi. De Rienzo nell’ultimo giro in Méhari alla fine del film canta Ogni volta.
Che ruolo ha giocato Fortapàsc nel ricordo di Giancarlo Siani?
Il film è stato una svolta e un’opportunità. È stato un momento cruciale affinché mio fratello non venisse mai dimenticato. Ha fatto quello che fanno i film con le storie: le rendono immortali. E infatti continua a girare, nelle scuole per esempio. Resto ancora oggi molto grato al regista, Risi, e allo stesso De Rienzo. Lui era andato davvero al di là del copione.
In che senso?
Ci mise dentro l’anima. Libero ha capito chi era Giancarlo. Non ne ha fatto un santino, un eroe, ma un ragazzo semplice, gioviale. Lo ha interpretato con leggerezza rendendo la sua di leggerezza.
Quale fu il suo approccio all’interpretazione e voi, alla famiglia del giornalista?
Era preoccupato dall’incontro con me. Dal sentirsi giudicato da me, da noi, dalla sua famiglia e da chi con mio fratello aveva vissuto e l’aveva conosciuto. Alla fine è stato come se fosse entrato in contatto con Giancarlo. Una grande sintonia. Parlando con me, confrontandoci, rafforzò la sua convinzione, e quindi ne uscì l’interpretazione che ricordiamo tutti. E successe anche una cosa strana.
Cosa?
Vedevo che lui faceva sempre questo gesto, di toccarsi i bottoni della camicia. Era un gesto che faceva sempre Giancarlo, e anche io come altri membri della famiglia. ‘Perché lo fai?’, gli chiesi. E lui mi disse che lo faceva sempre anche lui.
C’è una scena di Fortapàsc che ricorda con più trasporto di altre?
Sì, la scena alla quale sono più legato è quella quando torna da Daniela (interpretata da Valentina Lodovini, ndr), citofona, vuole fare pace, e sta in macchina e aspetta.
Venne usata proprio l’originale, la Méhari di suo fratello, per alcune scene.
Esattamente. Quella scena l’ho vista girare in diretta. E poi c’è quella nella palestra, nella quale parla agli studenti, e dove compaio anche io e mi dà la mano. Di quei giorni, sul set, ho tanti ricordi. Libero per buona parte dell’anno viveva a Procida. A volte lo chiamavo, quando presentavo il film nelle scuole o in altre occasioni, e lui a volte è venuto, ha raccontato la sua esperienza nell’aver interpretato mio fratello Giancarlo in Fortapàsc. Con Libero eravamo rimasti legati e dopo anni capitava ancora che ci incontrassimo. Conoscevo la sua famiglia, i figli. Un dispiacere enorme.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Ilaria Sacchettoni per corriere.it il 17 luglio 2021. «Io sono per il calcio nello stomaco. A dire che tutto va bene ci pensa già la tivù». Il manifesto artistico di Libero De Rienzo ora suona tristemente profetico. Nella memoria di molti l’attore di Santa Maradona, pellicola che gli valse il David di Donatello come attore non protagonista nel 2002, è morto giovedì sera nella sua casa romana. Il suo corpo è stato trovato da un amico sul pavimento. Apparentemente De Rienzo è stato stroncato da un malore. Il procuratore aggiunto Nunzia D’Elia e il suo sostituto Francesco Minisci hanno aperto un fascicolo ipotizzando la morte come conseguenza di altro reato (articolo 586 del codice penale) e hanno incaricato il medico legale del Policlinico Gemelli di effettuare l’autopsia che sarà eseguita lunedì per valutare anche l’eventuale presenza di sostanze stupefacenti nel corpo. L’ipotesi dell’assunzione di droga I carabinieri della stazione Madonna del Riposo di Roma, dopo aver ascoltato la moglie dell’attore e l’amico, stanno ricostruendo i dettagli delle ultime 48 ore di vita di De Rienzo. Solo in casa, l’attore aveva con sé il cellulare, nella cui memoria i carabinieri potrebbero trovare tracce per ricostruire movimenti e contatti. Non si trascurano anche altre ipotesi investigative formulate in prima battuta, come quella dell’assunzione di droghe. Per questo motivo è stato messo a punto un quesito puntuale al medico legale. La moglie Marcella Mosca aveva provato a chiamarlo Ma cosa è accaduto giovedì sera? L’allarme scatta nel pomeriggio, quando l’attore smette di rispondere a una serie di chiamate della moglie, Marcella Mosca, costumista e scenografa. È lei, preoccupata, a telefonare a un amico di famiglia che ha anche una copia delle chiavi dell’appartamento. L’amico corre, entra in casa e capisce che Libero ha avuto un malore. Intuisce la gravità, ma pensa ancora di poterlo salvare. Chiama allora il 118 che interviene in tempi rapidi. Inutile: è già troppo tardi. Il cuore di Libero De Rienzo si è fermato. Vengono quindi avvisate le forze dell’ordine. I carabinieri avvertono il magistrato di turno e iniziano ad elencare le prime ipotesi. Gli interrogativi sono diversi: con chi si era incontrato De Rienzo? Qualcuno gli ha ceduto sostanze stupefacenti? In casa sono stati trovati molti farmaci e tracce di polvere da analizzare. Il ricordo di Libero De Rienzo L’attore, nato a Napoli, aveva 44 anni e lascia anche due figli, di 6 e 2 anni. Alla famiglia e al ricordo di Picchio, così lo chiamavano gli amici, sono diretti i molti messaggi di cordoglio postati ieri sui social. «Ricordo un ragazzo estremamente dinamico, conosceva il nostro mondo in maniera profonda. Stare con lui era piacevole perché si poteva parlare di cinema», ha detto Pupi Avati che lo aveva scelto per il suo ruolo di suo padre in La via degli angeli «perché gli assomigliava per gioiosità, leggerezza e bellezza». Commossi i messaggi dei colleghi della sua generazione: Anna Foglietta, Stefano Accorsi, Alessandro Borghi, Edoardo Leo e Claudio Santamaria. Anche la politica e le istituzioni lo hanno voluto ricordare. «Il cinema italiano perde uno dei suoi attori più brillanti e di talento. Indimenticabile la sua interpretazione di Siani, giornalista ucciso dalla camorra», ha detto il presidente della Camera Roberto Fico. «Perdiamo un giovane talento», ha commentato il ministro della Cultura Dario Franceschini. «Onesto, appassionato, profondamente umano. Un attore di talento capace di esprimere la vita», ha ricordato don Luigi Ciotti.
Libero De Rienzo, dal cellulare e dal pc le risposte sulla morte dell'attore. In casa trovate confezioni di tranquillanti. Luca Monaco su La Repubblica il 18 luglio 2021. L'ultimo post dell'attore su Instagram: "Notte africana, tanto vale accendersi un fuoco in bocca". Si attende l'esito degli esami dei carabinieri del Ris sulle tracce di polvere bianca trovata nell'appartamento in via Madonna del Riposo all'Aurelio e l'autopsia al Policlinico Gemelli. Gli esami che i carabinieri del Ris eseguiranno lunedì 19 luglio sulle tracce di polvere biancastra trovata nell'appartamento al piano ammezzato in via Madonna del Riposo all'Aurelio e l'esito dell'autopsia, che sarà eseguita al Policlinico Gemelli, aiuteranno a chiarire le cause della morte improvvisa di Libero de Rienzo. "Picchio", come lo chiamavano gli amici più stretti, gli esercenti del quartiere sopra via Gregorio VII, dove l'attore di Smetto quando voglio abitava da anni con la sua famiglia, è morto di infarto.
Libero De Rienzo, i Ris: «Era eroina la polvere trovata in casa sua». Da corriere.it il 19 luglio 2021. La sostanza trovata in casa dell’attore Libero De Rienzo nel giorno del suo ritrovamento è risultata eroina. Così hanno stabilito le indagini dei carabinieri delegati dalla procura a effettuare gli approfondimenti. Va precisato tuttavia che ad una prima verifica l’attore è risultato senza tracce di droga addosso, così come appurato dal Ris. Oggi intanto i magistrati hanno delegato l’autopsia al medico del policlinico Gemelli De Giorgio. L’esame sarà effettuato domani. Il corpo è stato trovato da un amico sul pavimento, la sera dello scorso giovedì, apparentemente stroncato da un malore. Il procuratore aggiunto Nunzia D’Elia e il suo sostituto Francesco Minisci hanno però aperto un fascicolo ipotizzando la morte come conseguenza di altro reato (articolo 586 del codice penale) e hanno incaricato il medico legale del Policlinico Gemelli di effettuare l’autopsia, in programma per oggi, per valutare anche l’eventuale presenza di sostanze stupefacenti nel corpo. Nei giorni scorsi sono stati ascoltati dai carabinieri i familiari dell’attore, fra cui la moglie Marcella Mosca, costumista e scenografa, sua compagna da molti anni (assieme hanno anche due figli). La donna avrebbe parlato di trascorsi problematici a causa della cocaina di cui De Rienzo era un consumatore pentito. Marcella Mosca ha detto che suo marito si era da anni liberato dalla dipendenza dalla droga.
(ANSA il 28 luglio 2021) I carabinieri hanno proceduto all'arresto del pusher che avrebbe ceduto la droga all'attore Libero De Rienzo, trovato privo di vita nella propria abitazione nelle scorse settimane. Si tratta di un cittadino gambiano colto in flagranza del reato di spaccio nei confronti di diverse persone nella zona di Torre Angela. L'analisi dei tabulati telefonici ha consentito di individuare la posizione dello spacciatore proprio nei pressi dell'abitazione dell'attore napoletano nel pomeriggio di quel tragico 14 luglio. L'attività di indagine è stata svolta dai carabinieri del Nucleo operativo della Compagnia di Roma San Pietro. Gli accertamenti sono partiti dopo il ritrovamento di eroina nell'appartamento dell'artista. Gli inquirenti hanno svolto accertamenti nell'ambiente dello spaccio di sostanze stupefacenti nelle zone limitrofe al luogo del decesso, riuscendo a ricostruire alcuni collegamenti che li hanno condotti fino al quadrante sud-ovest della Capitale, in particolare nel quartiere di Torre Angela dove hanno arrestato lo spacciatore. All'uomo sono stati sequestrati ulteriori 7,7 grammi di eroina, rinvenimento che ha portato all'arresto per detenzione ai fini di spaccio anche del connazionale convivente. A carico del cittadino gambiano un solido quadro indiziario che ha dimostrato la sua quotidiana attività di spaccio che effettuava prevalentemente "a domicilio" utilizzando in particolare le linee Metro per spostarsi rapidamente tra le varie zone della Capitale. Le indagini, fatte di testimonianze e attività tecniche, hanno permesso di acquisire elementi indiziari sul fatto che fosse stato proprio lo spacciatore gambiano a cedere, nel pomeriggio di mercoledì 14 luglio, la dose di eroina al De Rienzo. Sulle cause del decesso del protagonista di Fortapasc i magistrati di piazzale Clodio, che sulla vicenda hanno avviato un procedimento per morte come conseguenza di altro reato, sono in attesa di conoscere i risultati dei prelievi tossicologici effettuati nell'ambito dell'attività autoptica.
Emiliano Bernardini per "il Messaggero" il 29 luglio 2021. Sono le ore 11:06 del 14 luglio, il giorno prima della sua morte, quando dal cellulare di Libero De Rienzo parte un messaggio verso un'utenza straniera: «If you can't, can you give Ali' s number?». Poco dopo lo stesso De Rienzo scrive all'utenza denominata Ali 2 chiedendogli la disponibilità ad incontrarlo. «Please tell me if you can come». Contemporaneamente chatta con un suo amico soprannominato Walterone, a cui riferisce le difficoltà a mettersi in contatto con il presunto pusher: «Ora non risponde, lo sto a chiamà a rotella. Vuoi provarlo a chiamare te? Ma tra l'altro io mi rubo una cosetta e il resto lo lascio a te». Sono i messaggi whatsapp contenuti nell'ordinanza di custodia cautelare di Mustafa Minte Lamin, cittadino gambiano di 32 anni arrestato ieri, dopo l'indagine dei Carabinieri del Nucleo Operativo della Compagnia di San Pietro, con l'accusa di aver venduto la droga all'attore Libero De Rienzo, morto a seguito di un infarto e ritrovato nella sua abitazione romana il 15 luglio scorso. Ma anche ad altre tre persone in 48 ore. Ali era l'alias che usava da spacciatore. Al momento la contestazione di reato è cessione di stupefacenti. All'esito degli esami tossicologici sulla salma dell'attore campano saranno valutate eventuali altre contestazioni come quella di morte come conseguenza di un altro reato. L'indagato è stato fermato in flagranza di reato nella zona di Torre Angela, mentre stava vendendo dosi di sostanze ad altri «clienti». Minte Lamin era gravato da due ordini di espulsione a cui si era sottratto e dunque, secondo gli inquirenti, sarebbe potuto fuggire. Dall'analisi dei tabulati telefonici dell'utenza intestata a De Rienzo, confluiti nel fascicolo del pm Francesco Minisci e dell'aggiunto Nunzia D'Elia, emerge che tra le 11:25 e le 18:31 del 14 luglio abbia agganciato la cella telefonica in via San Pio V, vicina all'abitazione dell'attore, poi trovato senza vita, in via Madonna del Riposo. Significa dunque che De Rienzo era nei pressi della sua abitazione. A conferma del fatto che la vittima si trovasse in quella zona quel pomeriggio c'è anche la testimonianza di un rilegatore che ai carabinieri impegnati nelle indagini ha detto di averlo incontrato proprio nel negozio in via Madonna del Riposo. Analizzati poi nella VI sezione del Roni di Roma i tabulati dell'utenza in uso al gambiano, è stato tracciato un movimento in avvicinamento e successivo allontanamento dall'area dove si trova la casa dell'attore tra le 16:15 e le 16:41. Ma non solo. Dai tabulati telefonici di entrambe le utenze, quella dell'attore e quella del presunto spacciatore, emerge oltre a vari precedenti contatti un'ultima telefonata di pochi secondi tra i due alle 16:15 in cui il telefono dell'attore aggancia la cella in via San Pio V nello stesso tempo in cui la cella in via Aurelia aggancia l'utenza in uso al gambiano. Tra le due celle, si evidenzia nel decreto di fermo, vi è una distanza di poco più di 600 metri in linea d'aria e per questo si può ritenere che la vittima e lo spacciatore si trovassero contemporaneamente nello stesso posto. Gli accertamenti del Nucleo operativo della Compagnia di Roma San Pietro erano partiti dopo il ritrovamento di eroina nell'appartamento dell'artista. Gli inquirenti hanno, quindi, svolto verifiche nell'ambiente dello spaccio di sostanze nelle zone limitrofe al luogo del decesso, riuscendo a ricostruire alcuni collegamenti che li hanno condotti fino al quadrante sud-ovest della Capitale, in particolare nel popolare quartiere di Torre Angela dove hanno arrestato lo spacciatore. All'uomo sono stati sequestrati ulteriori 7,7 grammi di eroina: un rinvenimento che ha portato all'arresto per detenzione ai fini di spaccio anche del connazionale convivente. A carico del cittadino gambiano un solido quadro indiziario che ha dimostrato la sua quotidiana attività di spaccio che veniva effettuava prevalentemente «a domicilio» utilizzando in particolare le linee metro per spostarsi rapidamente tra le varie zone della Capitale. Sulle cause del decesso del protagonista di Fortapasc i magistrati di piazzale Clodio, che sulla vicenda hanno avviato un procedimento per morte come conseguenza di altro reato, sono comunque in attesa di ricevere i risultati dei prelievi tossicologici effettuati nell'ambito dell'attività autoptica.
"Ci incontriamo?": così il gambiano ha venduto la droga a De Rienzo. Francesca Galici il 28 Luglio 2021 su Il Giornale. Un gambiano è finito in manette con l'accusa di aver venduto la droga a Libero De Rienzo, l'attore romano trovato morto nella sua abitazione. Sono trascorsi 10 giorni dalla morte dell'attore Libero De Rienzo, il cui corpo è stato rinvenuto senza vita all'interno della sua abitazione romana. Le ispezioni svolte dalle forze dell'ordine nelle ore successive avevano permesso di ritrovare una bustina di polvere bianca, che le successive analisi dei Ris hanno rivelato fosse eroina. Da quel momento il Nucleo operativo della compagnia dei carabinieri Roma San Pietro si è attivato per scoprire chi avesse venduto la droga a Libero De Rienzo e quest'oggi è stato arrestato un pusher di origini gambiane, Mustafa Lamin di 31 anni.
Le indagini e l'arresto. L'uomo, come riportano i verbali, risulta "già essere gravato da due ordini di espulsioni a cui si è sottratto" e per i magistrati di piazzale Clodio "sussiste il pericolo di fuga". Per tale ragione il pubblico ministero Francesco Minisci scrive che "sulla base di elementi e di fatti obiettivi è ragionevole ritenere che l'indagato, ove non si intervenga con urgenza, si sottrarrà a una successiva misura cautelare tesa a impedire la reiterazione dei gravi, sistematici, reiterati e abituali reati per i quali si indaga". Le indagini dei carabinieri sono partite dagli ambienti della Capitale legati allo spaccio di quella zona di Roma. Alcuni contatti e collegamenti dell'attore hanno portato gli investigatori a indagare nella zona sud-ovest di Roma, con particolare attenzione al quartiere di Torre Angela. Ed è proprio qui che è stato arrestato, per altro in flagranza di reato, l'uomo accusato di aver venduto la droga a Libero De Rienzo. All'arrivo dei carabinieri il gambiano era intento a spacciare droga con alcune persone presenti sul posto. Con successiva perquisizione dell'appartamento dello straniero sono stati rinvenuti e sequestrati ulteriori 7,7 grammi della stessa sostanza stupefacente trovata in casa di De Rienzo. A carico dell'uomo finito in manette i carabinieri hanno un quadro indiziario solido, che dimostra la quotidiana attività di spaccio a domicilio. L'uomo era solito utilizzare la metro per spostarsi rapidamente tra le varie zone della Capitale. Per gli investigatori lui avrebbe venduto il 14 luglio la dose ritrovata in casa dell'attore. L'indagato è stato condotto del carcere di Regina Coeli dove si trova attualmente recluso anche per altri reati relativi allo spaccio non direttamente collegati con il caso di De Rienzo. Oggi il gip presso il Tribunale di Roma, su richiesta della Procura della Repubblica, ha convalidato il fermo e ha applicato la custodia cautelare in carcere per il gambiano. In manette è finito anche il suo coinquilino, presente in casa al momento della perquisizione. Per lui l'accusa è di detenzione ai fini di spaccio.
Le analisi tecniche. Una conclusione che i carabinieri hanno potuto trarre anche grazie all'analisi dei tabulati telefonici del gambiano, che ha agganciato le celle nei pressi di casa di De Rienzo proprio nel pomeriggio del 14 luglio. Esattamente tra le 16.15 e le 16.41 si aggancia alla cella in via Aurelia, distante meno di 600 m dall'abitazione di De Rienzo. Nel decreto di fermo di indiziato di delitto firmato dal pubblico ministero Francesco Minisci, e di cui è in possesso l'Adnkronos, si legge anche che tra le 11.25 e le 18.31 del 14 luglio scorso tutti i contatti telefonici di De Rienzo hanno agganciato la cella telefonica in via San Pio V, vicina all'abitazione dell'attore. Incrociando i dati dei telefoni di De Rienzo e di Lamin, le forze dell'ordine hanno ricostruito precedenti contatti ma soprattutto un'ultima telefonata di pochi secondi tra i due alle 16.15. Quello è il momento in cui il telefono dell'attore aggancia la cella in via San Pio V e in cui la cella in via Aurelia aggancia l'utenza in uso al gambiano. Nel decreto si sottolinea che, data la breve distanza tra le due celle, si può ritenere che la vittima e lo spacciatore si trovassero contemporaneamente nello stesso posto.
Gli ultimi messaggi di De Rienzo. Come riferisce la Repubblica, l'attore avrebbe scritto un messaggio Lamin quel pomeriggio: "Ci incontriamo?". A condurre gli inquirenti a Mustafa Lamin sarebbero state anche alcune testimonianze che, unite alle analisi tecniche, hanno permesso ai carabinieri di arrivare nell'appartamento di Torre Angela. Pare che De Rienzo abbia chiesto il numero di telefono del gambiano a un amico. L'attore, quindi, pare lo abbia contattato tramitw Whatsapp, come si evidenzia dal decreto. "Oh prima mi ha risposto, mi ha detto non prima delle 3, le 4. Mo lo sto a chiamà a rotella e non mi risponde... Vuoi provare a chiamarlo te?", si legge in un messaggio inviato da De Rienzo a un amico. Lo stesso amico ha dichiarato ai carabinieri di aver assunto più volte eroina insieme all'attore. In un messaggio successivo, De Rienzo scrive che "ci avrebbe pensato lui". L'interpretazione del pm è che questo messaggio faccia riferimento al pagamento di quanto acquistato, tanto che poi in un altro messaggio scrive: "O ci penso io... ma tra l'altro io mi rubo una cosetta e il resto te la lascio...".
Intanto proseguono le analisi per stabilire l'esatta causa della morte di Libero De Rienzo. Non sono ancora stati resi noti i risultati degli esami tossicologici, che potrebbero dare risposte importanti sui motivi che hanno portato al decesso l'attore quarantenne, sepolto lo scorso martedì con una cerimonia semplice nel cimitero di Paternopoli, in provincia di Avellino.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Matteo Rovere: "Il mio amico Libero, che teneva il David di Donatello nel freezer". Silvia Fumarola su La Repubblica il 17 luglio 2021. Il produttore della saga "Smetto quando voglio" racconta il rapporto con l'attore. Matteo Rovere ha prodotto la saga Smetto quando voglio ed era amico di Libero De Rienzo. "Con Picchio abbiamo respirato la stessa aria fin dai tempi del liceo", racconta il regista-produttore, "e anche se lui era più grande di me quel percorso comune è stato poi oggetto di tante chiacchiere quando abbiamo cominciato a lavorare insieme e l'ho sempre sentito vicino.
Valeria Golino: “Libero era complesso non cercava la fama”. Ilaria Urbani su La Repubblica il 17 luglio 2021. L'attrice ricorda l’amico De Rienzo morto a 44 anni. "Sono qui a Cannes affranta, non riesco a credere che Libero non ci sia più. Siamo stati proprio qui al festival insieme otto anni fa per presentare il mio film Miele. Libero era bravissimo, era un attore pieno di grazia". La voce di Valeria Golino, a poche ore dalla cerimonia finale sulla Croisette, si ferma per un attimo per la commozione.
Marco Giusti per Dagospia il 16 luglio 2021. Era bravo, anzi bravissimo Libero De Rienzo detto Picchio, che se ne è andato davvero troppo presto a 44 anni. Guardatelo nel film di Marco Bocci “A Tor Bella Monaca non piove mai”, dove è il protagonista che precipita da una sfiga all’altra. E’ perfetto. Ha la classe di un vecchio attore americano classico, distaccato, divertente anche quando la situazione si fa davvero drammatica, elegante anche nelle situazioni più coatte. Il suo Siani nel bellissimo film di Marco Risi, “Fortapasc”, è l’eroe dei nostri giorni, fermo e coraggioso, che lotta per un paese migliore e per il trionfo della verità. In Italia. A Napoli, in mezza alla camorra…E’ bravo anche in quel brutto film, ma penso sia brutto anche il romanzo, che è “Appunti di un venditore di donne” diretto da Fabio Resinaro, da poco in streaming, dove fa un poliziotto appesantito con la barba mal fatta, amico del protagonista. Ovviamente gli ruba la scena. Anche da appesantito. Nel 2001, se non sbaglio, andai a intervistare lui, Stefano Accorsi e Marco Ponti a Torino sul set di “Santa Maradona”, che diventò quel che si dice un film generazionale per i trentenni del momento. Era una delle prime interviste di “Stracult” di Rai Due. Rimasi rapito dalla carica vitale di Libero De Rienzo, che allora aveva fatto poco e niente (“Asini”). In coppia con Stefano Accorsi, anche allora più attore, più contenuto, era inarrestabile. Battute su battute, trovate. Non mi ricordo quanto abbiamo girato quel giorno, ma sembrava non esaurirsi mai. Peccato che poi al montaggio, taglia qui e taglia là, non rimase moltissimo di quella vitalità, ma la ripresa originale, vi giuro, era esplosiva. Marco Ponti stava girando il film che tutti i trentenni di allora desideravano, i gol di Maradona nei titoli di testa, la dedica a Bud e Terence alla fine, un film che raccontasse i loro desideri, le loro passioni, i loro amori, proprio alla fine di un secolo e all’inizio di un altro. Il Bart di Libero era favoloso, ricordate quando spiega perché non fuma? “Vuoi sapere il perché? Ti dico il perché. Io non fumo perché al cinema non si può fumare e non potrei mai vedere un film senza fumare, se fumassi. Quindi non fumo. Humm! Sai qual'è la verità? È che è tutta la vita che aspetto di dire questa cosa e non me l'aveva mai chiesta nessuno. E guarda che è brutto avere una risposta bella pronta e nessuno mai ti fa la domanda giusta”. Bart sembrava vivere su quel divano, immerse tra i ricordi e le battute. Nell’autunno del 2001, quando uscì il film, stavo preparando un programma che lasciò davvero il segno, “Cocktail d’amore”, fortemente voluto da Carlo Freccero, uno show sulla musica degli anni ’80 presentato addirittura da Amanda Lear, ma accanto alle sue interviste alle grandi star del tempo, alla sigla di testa girata dai Manetti, avevamo pensato di costruire in quel di Via Teulada, dentro agli studi occupati da “I fatti vostri” di Michele Guardì (non mi dite che sta ancora lì…) e dai suoi programmi per telemorenti, una sorta di controscena critica con due ragazzi, tra i venti e i trenta, che guardano la tv e parlano e ripensano ai loro anni ’80, tra calcio, musica, pubblicità, tv, politica. Un po’ come in “Santa Maradona”, diciamo, ma era anche un omaggio e un modo per fare vedere agli spettatori repertori di vecchia tv ormai rarissimi, prima dell’arrivo di You Tube. Fu Massimo Coppola, allora stella di MTV a BrandNew a dirci che forse Libero De Rienzo, suo amico, ci sarebbe stato. Così lo richiamai, lì per lì era interessato, ma certo, il film stava andando così bene, lui ci vinse anche un David, i ragazzi sapevano già a mente le sue battute e, insomma, gli si stava aprendo un futuro di grande cinema da protagonista che prevedeva anche il suo film da regista, “Sangue”, che realmente fece. Non mi ricordavo, me lo ha ricordato oggi Enrico Salvatori, che venne in Rai a spiegarci le sue ragioni del perché non potesse fare “Cocktail d’amore”. Non me ne ricordavo più. C’eravamo tutti noi autori, Alberto Piccinini, Luca Rea, Salvo Guercio, Massimo Coppola. Lo voleva fare però… però… però… Peccato. Certo non sarebbe stato simpatico fare questa sorta di spin off del film di Marco Ponti, ma l’idea era di ragionare sugli anni ’80 e su tutto quello che aveva formato una generazione. Era un bla bla bla molto teorico e totalmente libero. Pazienza. Si fece lo stesso, e benissimo. E lui fece i suoi film. Non tutti, ahimé, funzionarono. Soprattutto non funzionò come il primo il secondo film di Marco Ponti scritto per lui, “A/R: Andata+ritorno”, né il suo film da regista, “Sangue: la morte non esiste”, che raccolse però dei premi all’estero. Libero si scontrò da subito con dei sogni che non era facilissimo realizzare nel nostro non simpaticissimo mondo del cinema e della fiction italiana. Mi ricordo che voleva smettere del tutto, il non successo di “Sangue” non gli era andato giù. E poi si arrese, accettando ruoli non sempre bellissimi, anche della fiction modesta coi poliziotti. E per fortuna che trovò Marco Risi e “Fortapasc”, dove fece vedere quanto era bravo, in un film che ebbe l’unico torto di uscire dopo il successo di “Gomorra” di Matteo Garrone. Lo ricordo anche come novello Gigi Proietti in un buffo ruolo in “Tutti al mare”, il sequel di “Casotto” diretto da Matteo Cerami. Un film che andrebbe ricuperato. Ma quando lo rivedemmo in “Smetto quando voglio” di Sydney Sibilia e nei suoi due sequel, nel ruolo di un altro Bart, ci sembrò quasi un reduce rispetto a “Santa Maradona”. In fondo erano passati ben 14 anni e non era più lo stesso Bart ragazzo di allora. Tutta quella carica sembrava scomparsa. Ma Sydney Sibilia aveva comunque ricostruito con affetto il Libero De Rienzo che tanto era piaciuto a tutti ai tempi di “Santa Maradona” e grazie a questo nuovo Bart ha avuto molto lavoro in questi ultimi anni. Non mi ricordavo che si chiama Bartolomeo, anzi Bartolomeo Vanzetti anche nel buffo “Una vita spericolata” di Marco Ponti, dove però, accanto all’emergente Matilda De Angelis, ci sono due ragazzi più giovani, Lorenzo Richelmy e Eugenio Franceschini, e a lui spetta il ruolo dell’ispettore che li insegue. Un film sfortunato, perché pensato per Richelmy e Domenico Diele, che a metà riprese venne arrestato perché aveva messo sotto una donna. Fu sostituito e le gran parte delle sue riprese rigirate con Franceschini. Ma il film intanto non era più così caldo. Uscì malissimo e andò malissimo. E’ ottimo, invece, nel recente “Fortuna” di Nicolangelo Gelormini, dove fa un padre piuttosto assente e misterioso, e qualcosa ci aspettiamo dai due film che ha girato come protagonista e che devono ancora uscire, “Takeaway” di Renzo Carbonera e “Una relazione” di Stefano Sardo. In tutti questi film, quello che noto, e che non aveva certo il vecchio Bart sul divano di “santa Maradona” è un’aria di angelo caduto. Ma ancora pronto a divertirsi. Mi ricorda dal set del suo nuovo film americano Luca Guadagnino che il film più importante di Libero De Rienzo è "A ma soeur" di Catherine Breillat, girato nel 2001, dove due sorelle francesi, una è Romane Mexida, hanno un ambiguo rapporto con lui. La Breillat ebbe non pochi problemi sul set con Libero e la situazione diventò addirittura la storia del suo film successivo, "Sex Is Comedy", dove ritroviamo la Mexida nel ruolo di se stessa, la Breillat interpretata da Anne Parillaud e Libero è interpretato da Gregoire Colin in un tripudio di piselli finti usati per le scene di sesso al cinema. Subito dopo Guadagnino lo ebbe poi protagonista di un film che non ho visto, "Mundo civilizado", girato interamente a Catania, con Claudio Gioe' e Valentina Cervi.
Noi cronisti e la spazzatura su Libero De Rienzo. Dettagli minuziosissimi e “scabrosi” sulle “bustine” e le “polveri” manco parlassimo della serie “Narcos”: davvero non ci si poteva limitare a scrivere, dell’attore scomparso, che era un padre amorevole? E davvero è illegittimo il sospetto che tanti vogliano vendicarsi di Picchio e delle sue battaglie scomode – contro la violenza della polizia, il sistema penitenziario, la strategia repressiva dello Stato? Boris Sollazzo su Il Dubbio il 19 luglio 2021. Libero De Rienzo, attore straordinario. Libero De Rienzo, padre amorevole. Libero De Rienzo, amico geniale. Potevate scrivere parole così, colleghi. Potevate raccontarlo da vivo, lui che in pochi anni ha illuminato l’arte cinematografica italiana, come interprete incredibilmente versatile e regista di un unico grande film, Sangue – La morte non esiste. Sottotitolo beffardo oppure incredibilmente vero, chissà. Sono un suo amico. E sono un giornalista. Conosco sua moglie, i suoi figli, molti suoi amici. E conosco pure i miei colleghi, molti direttori, troppi caporedattori. E so che l’attore di sinistra, duro e puro, trovato con della droga a casa è qualcosa di troppo goloso per l’aridità avida di una categoria che funziona ormai con i trend topic, il Seo, le ricerche su google ma soprattutto con i titoli ad effetto, le fake news o solo il particolare scabroso. Mentre ridevamo dei tabloid, l’informazione italiana è diventata spazzatura e noi giornalisti non siamo neanche capaci di fare i netturbini, siamo quelli che la danno alle fiamme. Con Libero De Rienzo, che non aveva la corazza protettiva del grande maestro a cui il servile giornalismo nostrano si inginocchia anche da morto né faceva paura come quel boss romano a cui, in condizioni analoghe, non è stato riservato lo stesso trattamento, l’intera filiera della cronaca nera ha dato il peggio. Intendiamoci, quello del cronista di nera è un mestiere ingrato, bastardo, ambiguo. Da sempre. Chi ha qualche anno in più sa che prima dei profili social, i più sgamati dei colleghi saccheggiavano le case delle vittime di atti violenti, magari intervistando i congiunti e rubandosi da un portaritratto la foto giusta. Ma almeno consumavano suole di scarpe e neuroni, avevano rispetto del lettore e delle persone coinvolte, operavano riscontri e torchiavano le fonti. Ora i giornalisti di nera – ma vale anche per quasi tutti gli altri, pensiamo alla giudiziaria – sono cassette della posta. In cui procure, questure e non solo infilano le loro veline. E con la schiena piegata non dal duro lavoro, ma dalla sudditanza, si prestano a far da altoparlante, megafono, strumento di toghe e divise. Siamo in zona ventennale del G8 di Genova: ricordate la trasmissione di Vespa sulla morte di Carlo Giuliani? Se sì, sapete di cosa parliamo – l’ipotesi più credibile di quel Porta a Porta? La pallottola più pazza del mondo, un incrocio tra quella che uccise Kennedy e raccontata da Kevin Costner in JFK – un caso ancora aperto e una gag di Beep Beep e Willy il Coyote – non c’è bisogno di dire altro. Con Libero De Rienzo facciamo un po’ schifo tutti. Anche i lettori, che cercano, vogliono, consumano questa spazzatura come fosse caviale. I caporedattori e i direttori che chiedono certi titoli, certe notizie, i colleghi che si sono dimenticati quanto e cosa hanno studiato per fare l’esame da professionisti. Che la deontologia l’hanno buttata insieme al rigore in quella spazzatura di cui prima. Il sospetto, a volte bisogna avere lo stesso coraggio di Picchio nel dire le cose come stanno, è che nell’accanimento attuale contro un giovane uomo che al talento univa la voglia di ingaggiare battaglie scomode – contro la violenza della polizia, il sistema penitenziario, la strategia repressiva dello Stato, le ingiustizie sociali, il pessimo giornalismo – ci sia una gran voglia di vendicarsi di tutte le categorie coinvolte. Altri – il boss succitato (e giustamente, tutti devono essere tutelati nei propri diritti fondamentali e la privacy è uno di questi), ma anche manager e imprenditori – sono stati protetti, perché un’autopsia non è un avviso di reato, ma su corpi giovani è necessaria. Eppure non si vede l’ora, qui, di aprire un’inchiesta, le forze dell’ordine sono state subito un colabrodo di indiscrezioni (“polvere bianca tra salotto e cucina, crack, una dose in una bustina di cellophane” neanche parlassimo della serie Narcos, con tutte le testate, dalla più importante al sitarello più spregiudicato a scrivere tutto, sotto dettatura), ipotesi (“non si può escludere che” è una frase schifosa in italiano, figuriamoci in un articolo su un padre morto così giovane), improbabili testimonianze non riscontrate di chi lo aveva visto nelle ultime ore. Sì, Libero De Rienzo era mio amico. Libero è mio amico. Ma vale per tutti gli indifesi, da una ragazza giovanissima morta sul lavoro a poveri villeggianti su una funivia, ostaggi anche da morti delle trattative Stato-stampa, baratti “rattusi” in cui una vita viene esposta e sezionata dai curiosi per fare un favore a chi potrebbe passarti un giorno, in anticipo rispetto agli altri, un’ordinanza, una soffiata su un’inchiesta dal nome evocativo, il luogo di un arresto illustre. Eravamo i cani da guardia della democrazia, ora siamo solo topi di fogna che si accontentano delle briciole, dei rifiuti, dei resti putrefatti del Potere.
Quella reazione “isterica” dei giornaloni su Libero De Rienzo. Il nostro articolo sulla “spazzatura” mediatica seguita alla morte dell’attore ha causato la risposta muscolare dei due grandi giornali mainstream italiani, Corriere della Sera e Repubblica, che evidentemente non hanno intenzione di fare autocritica. Eppure basterebbe riconoscere che nelle cronache sulle “strisce bianche” trovate a casa di Picchio si è violata proprio la deontologia evocata come lasciapassare nelle repliche al Dubbio: in particolare il principio per cui anche il giornalista deve rispettare il codice penale. A cominciare dal segreto d’indagine. Boris Sollazzo su Il Dubbio il 22 luglio 2021. Sarebbe stato ingenuo da parte di chi scrive e chi pubblica questo giornale pensare che il pezzo “Noi cronisti e la spazzatura su Libero De Rienzo” non avrebbe provocato un terremoto, soprattutto nell’ambito giornalistico. La diffusione dell’articolo, condiviso da migliaia di persone, ha fatto il resto. Più sorprendente è però la reazione scomposta e più o meno isterica dei due grandi giornali, mai citati esplicitamente nell’articolo ̶ ma ovviamente, nessun problema a specificarlo, ci riferivamo in particolare al modo in cui Repubblica e Corsera avevano trattato la vicenda e loro si sono riconosciuti ̶ e esplicitata in due editoriali a firma Alessandro Trocino e Marco Mensurati. Il primo più garbato inizia furbescamente citando un passo di Fortapasc e poi con una prosa elegante e insinuante chiude dicendo che “chiedere un trattamento di favore per qualcuno, solo perché è amico, o di sinistra, o scomodo, questo sì, sarebbe ingiusto”, il secondo più muscolare, dice che loro questo tipo di giornalismo lo fanno da sempre e che nel caso di Maddalena Urbani (figlia di Carlo, medico eroe che isolò il virus Sars) nessuno “del circolo intellettuale che oggi ringhia contro i giornali” reagì male. E poi anche lui non resiste e sostiene che “gli amici” stiano “implicitamente, e in maniera umanamente comprensibile, invocando una sorta di trattamento di favore per un congiunto, un affine (anche solo intellettualmente). Nulla di più”. Ora, qui crediamo nella forza del confronto e della dialettica, e proveremo a fare quello che i due illustri colleghi non hanno fatto: rispondere nel merito. Nel caso del pezzo del Dubbio c’erano riflessioni circostanziate che i due hanno dribblato preferendo l’attacco personale (Trocino ha avuto il buon gusto di citare autore e articolo, Mensurati no), cavalcare una populista accusa di opportunismo elitarista contro la casta dei cinematografari piuttosto che provare a costruire un dibattito adulto, responsabile, maturo. E soprattutto necessario a una categoria che ha perso conoscenza e orientamento tra i punti cardinali della professione. Proviamo a farlo noi, pur riconoscendo ai due giornali un’ottima capacità strategica. Trocino scrive un editoriale nella newsletter del giornale (Il punto) per giocare in casa con un pubblico di parte, Repubblica sceglie Mensurati, uno dei pochi cronisti che affronta onorevolmente il proprio conto, perché a difendere l’indifendibile mandi sempre quello che non ha scheletri nell’armadio. Vecchie tattiche che però danno poco al dibattito, che è quello che interessa a noi (e infatti chi scrive ha usato spesso la prima persona plurale: il problema è di sistema, non solo della categoria). Partiamo dall’accusa di “amicizia”. Cari colleghi, chi scrive ha dichiarato la propria amicizia per un eccesso di zelo, per quell’onestà intellettuale dimenticata da troppi nel nostro lavoro. Se tutti dichiarassimo chi ci ha passato cosa (va bene proteggere una fonte, ma vi guardate bene anche dal far solo intuire da che ambiente arriva la notizia) o appunto l’amicizia con chi è il protagonista dei nostri scritti, i nostri lettori avrebbero tutte le possibilità di giudicare e giudicarci. Invece la maggior parte dei nostri articoli sono figli di un’imparzialità tutta presunta: siamo cittadini e uomini e abbiamo il dovere di essere sinceri con chi ci legge. Io l’ho fatto, per dare a tutti la possibilità di giudicare con obiettività sia l’autore sia cos’aveva scritto. E infatti vi ha dato la possibilità di accusare “il circolo intellettuale”, “gli amici del cinema”. Voi lo fate? No, mai. Ed è sbagliato, soprattutto in un giornalismo così suddito come il nostro. Trocino poi, dopo aver tirato di nuovo fuori Siani piuttosto a sproposito, parla della richiesta del lettore di non essere sgradevoli e fa intendere che no, la cronaca e in particolare nera, non può non esserlo perché tale è la realtà. Mensurati, che al posto del fioretto ha inforcato la spada, si vanta semplicemente del fatto che il suo giornale è stato altrettanto sgradevole con Maddalena Urbani, appena maggiorenne. Affascinanti modi di giustificare la violenza gratuita e pretestuosa di certi articoli. Siccome sono giornalisti ricordiamo loro i fatti: ad ora non si è riuscita neanche a stabilire la causa della morte. Ma loro senza entrare in casa del morto, hanno scritto di strisce bianche tra salotto e cucina, di buste di cellophane con eroina dentro, di “non si può escludere che”. Qui non si tratta di sgradevolezza, si tratta di obbedire a due regole base, che nell’articolo precedente non abbiamo sentito il bisogno di ricordare per un eccesso di fiducia nel genere umano e nella categoria: dopo i frequenti dibattiti degli ultimi anni sul segreto istruttorio, eravamo convinti che anche ai più duri di comprendonio dei colleghi fosse entrata in testa che non li vogliamo gradevoli, ma solo operanti nella legalità. E che il diritto di cronaca ha il suo argine nel non condizionare l’inchiesta e il buon esito della stessa. E dovendo prendere per buone le indiscrezioni dei loro articoli, il presunto spacciatore omicida avrà avuto ogni possibilità di fuga, inquinare prove e testimonianze. Non vi chiediamo gradevolezza, ma correttezza. Non vi accusiamo di aver scritto che la procura lavorasse sull’ipotesi investigativa di “morte come conseguenza di altro reato”, siamo indignati per aver esposto al pubblico ipotesi che non potevano non essere che frutto di veline di inquirenti e forze dell’ordine, non notizie. Perché il nostro è un mestiere di fatti, non di “si dice”, di “polveri bianche”. Il problema è che citando Siani (siamo bravi anche noi a farlo) ci sono giornalisti-giornalisti e giornalisti-impiegati. E aggiungiamo noi, giornalisti stenografo. Quelli che ricopiano fedelmente le parole, le indiscrezioni, i pareri di una delle parti in causa. Di quelli che dovrebbero essere oggetti dei loro controlli. Abbiamo appena scavallato il ventennale di Genova 2001: immaginate se di fronte alla Diaz i cronisti si fossero bevuti la balla delle molotov o delle ferite pregresse. Hai ragione Trocino, ci sono anche giornalisti-giornalisti. Ma il sistema premia gli altri. Il nostro è un albero pieno di mele marce e dovremmo nasconderci dietro quel dieci per cento di frutta non guasta? Tornando a Mensurati, che ha la sventura di scrivere per un quotidiano che la bussola l’ha persa da parecchio, il suo pezzo è piuttosto spericolato. Ha la furbizia di non citare il sottoscritto, ma un generico “circolo intellettuale” – pescare a strascico evidentemente è un vizio, cosa viene su poco importa -, ma dimostra di non essere informato (la stessa penna che si è scagliata contro i giornalisti che hanno affrontato l’affaire De Rienzo si è indignato per il trattamento a Silvio Berlusconi e Lapo Elkann, non proprio l’identikit che darebbe dei propri “amici”) e di ignorare le regole elementari della professione. Si trincera dietro Maddalena Urbani e il fatto che il circolo dei cinematografari non l’abbia difesa, un benaltrismo carpiato che lascia basiti solo a ripeterlo. Con retorica grillina insinua che la élite se ne freghi della gente normale, ma non risponde nel merito. Sì, cari colleghi, perché quello che manca nelle vostre editorialesse permalose e risentite sono le risposte. Diteci, è vero o no che i cronisti di nera sono cassette della posta che attingono per le loro notizie quasi esclusivamente da ciò che gli elemosinano le forze dell’ordine? Curiosamente a questo non avete risposto. E ancora, come mai nei vostri apodittici “le notizie vanno date, perché sì, pappappero” non citate capisaldi della nostra società civile, del nostro ordinamento e della professione come il rispetto del segreto istruttorio (ah, se la risposta è: lo fanno tutti, avete la risposta sul perché a malincuore ho sottolineato che da cani da guardia siamo diventati topi di fogna). Non ci sono carte deontologiche che proibiscono il 70% delle cose che avete scritto nei vostri pezzi? Sfruttare il peso della propria firma e della propria testata per fare bullismo a un collega che solleva un’autocritica su cui dovremmo confrontarci, su un ambiente ferito che ha reagito compostamente, è davvero il compito del giornalista? E ancora, se è vero che per voi i morti sono tutti uguali, perché un grand commis dello Stato italiano che si suicida viene trattato con (giustissimo) rispetto e così il tentativo di suicidio di una dirigente di un ministero di cui erano tutti amici (qualcuno come me ha avuto il buon gusto di dirlo), e in entrambi i casi c’erano lati inspiegabili della vicenda o comunque di difficile interpretazione? Non sarà che il trattamento di (s)favore lo fate voi? L’attore con dipendenze, nella penuria di notizie di luglio, con simpatie politiche scomode e battaglie anche più antipatiche per Stato e istituzioni, può essere trattato con meno empatia dei potenti da proteggere? Ci sono morti più uguali delle altre per cui ci si può dimenticare più serenamente le regole che con quel tesserino ci impegniamo a rispettare? E pure il codice penale? Poi, facciamo un gioco, vi va? Prendiamo i pezzi usciti sui maggiori giornali e siti. Togliamo gli autori. Presentiamoli come compiti al prossimo esame da giornalisti professionisti. E vediamo chi e quanti verranno bocciati. Mensurati dice che se i giornali smettessero di dare le notizie “usando un criterio nobile e umanamente accettabile come quello del dolore arrecato – sarebbe un giorno un po’ più simile alla notte”. No, è già notte perché per dare delle non notizie, per farvi megafono di altri, al dolore arrecato neanche pensate. Tra il potere e i deboli scegliete il primo, pure fieri. No, con Picchio non stiamo proteggendo un amico, noi vogliamo difendere tutti. E sì, il dolore di vederlo schiacciato in un personaggio funzionale di bassa lega, un brutto racconto d’appendice, ci ha ferito. Come ci ferisce quando un femminicidio diventa un romanzo Harmony “in cui lui l’amava troppo”. Colleghi, riflettiamo. Se questa (auto)critica ha così colpito l’immaginario di tutti, è perché il problema non è Libero, ma anni in cui si è fatta carne di porco del nostro mestiere, prima per qualche copia, poi per qualche click in più. E una supercazzola isterica e affatto argomentata come risposta non aiuta. Se i nostri lettori – i nostri primi referenti, ricordiamolo, a cui non dobbiamo obbedire ma che dobbiamo rispettare – si indignano così e da tanto, troppo tempo, abbiamo un grosso problema. Ma vuol dire ancora che non si sono arresi, loro. Se si arrabbiano, sperano ancora in un’informazione migliore. Torniamo degni di chi ci ha insegnato il mestiere, torniamo degni della nostra passionaccia. Confrontiamoci, invece di replicare le dinamiche di potere di una società che dovremmo raccontare, migliorare e non assecondare nei suoi bassi istinti. Sì, Picchio era mio amico. Ma rimango un giornalista.
Libero De Rienzo e l'eroina, la sinistra invoca la censura e Repubblica reagisce: "Ma con la figlia di Urbani tutti zitti". Libero Quotidiano il 23 luglio 2021. Censura per Libero De Rienzo. La follia del mondo dello spettacolo "di sinistra" colpisce anche Repubblica, e Marco Mensurati è costretto a difendersi e contrattaccare. Tutto nasce dallo scoop del quotidiano diretto da Maurizio Molinari, che per primo ha parlato del ritrovamento di una busta di eroina a casa dell'attore 44enne morto la scorsa settimana per un malore. La pista è quella dell'assunzione di droga, e il sospetto degli inquirenti è che l'interprete di Santa Maradona e Smetto quando voglio, uno degli interpreti più intensi e versatili della sua generazione, non fosse da solo ma in compagnia di un pusher che poi l'ha abbandonato, fuggendo. Tra colleghi di De Rienzo e semplici commentatori, è scattata la protesta selvaggia: non si dovevano svelare quei dettagli riservati. "Era proprio necessario - contesta Mensurati di Repubblica -. E no, non si poteva omettere un particolare così rilevante. Possiamo discutere sui toni e le forme - che nel caso di Repubblica pensiamo siano state inappuntabili - ma sulla necessità del racconto giornalistico non ci sono dubbi. E il motivo è semplice. I giornali pubblicano le notizie. Devono farlo, è la loro missione, il loro senso, il loro valore". "I suoi amici, i suoi affini, non vorrebbero altro che stringersi nel dolore in una composta e silenziosa celebrazione", prosegue Mensurati. Esigenza comprensibile, umanamente, ma non è il mestiere di un giornalista. Auto-censurarsi sarebbe "pericoloso, perché salterebbero i meccanismi di controllo e di imparzialità che sono alla base del rapporto con i lettori". E qui la firma di Repubblica colpisce nella carne viva di un certo mondo: "Molte delle critiche arrivate ai giornali provengono da una ben determinata categoria di persone. Intellettuali del cinema, professionisti della comunicazione, persone per dirla in breve che avevano una frequentazione diretta e personale con De Rienzo e con la sua famiglia". Nessuno di loro, ricorda Mensurati, "ha sollevato un sopracciglio quando abbiamo raccontato, con la medesima professionalità, la vicenda della giovane Maddalena Urbani, figlia di Carlo Urbani, il medico eroe che isolò la Sars". Anche lei travolta da eroina e psicofarmaci. Un dramma umano che non va giudicato, ma raccontato sì.
Marco Mensurati per repubblica.it il 22 luglio 2021. Ci sono un paio di domande che in queste ore da più parti ci vengono poste con una certa insistenza (e con diversi gradi, diciamo così, di civiltà). Era proprio necessario raccontare tutti i dettagli della morte dell'attore Libero De Rienzo? E poi ancora, e forse soprattutto, non si poteva omettere il dettaglio del ritrovamento dell'eroina? La risposta, ovviamente, è sì, era proprio necessario. E no, non si poteva omettere un particolare così rilevante. Possiamo discutere sui toni e le forme - che nel caso di Repubblica pensiamo siano state inappuntabili - ma sulla necessità del racconto giornalistico non ci sono dubbi. E il motivo è semplice. I giornali pubblicano le notizie. Devono farlo, è la loro missione, il loro senso, il loro valore. A volte questo paradigma rende il mestiere di giornalista duro, difficile, scomodo. Anche antipatico. Succede soprattutto con la cronaca nera, la specialità più difficile. È successo anche stavolta. Muore un attore bravissimo e amato come De Rienzo, un padre di famiglia, un insolito e laterale intellettuale della malconcia scena italiana, e il suo pubblico, i suoi amici, i suoi affini, non vorrebbero altro che stringersi nel dolore in una composta e silenziosa celebrazione. Il compito di un giornale e di un giornalista, però, non è quello di celebrare. Ma di raccontare i fatti. E se la notizia, come in questo caso, è una bustina di eroina trovata nella casa dell'attore, non pubblicarla sarebbe un errore. Grave. E pericoloso. Perché salterebbero i meccanismi di controllo e di imparzialità che sono alla base del rapporto con i lettori. Il giorno in cui i giornali dovessero smettere di pubblicare le notizie, o peggio dovessero scegliere quali pubblicare - anche se lo facessero usando un criterio nobile e umanamente accettabile come quello del dolore arrecato - sarebbe un giorno un po' più simile alla notte. Colpisce in particolare che molte delle critiche arrivate ai giornali provengano da una ben determinata categoria di persone. Intellettuali del cinema, professionisti della comunicazione, persone per dirla in breve che avevano una frequentazione diretta e personale con De Rienzo e con la sua famiglia. In molti di questi casi l'impressione che si è avuta è che gli amici stessero implicitamente, e in maniera umanamente comprensibile, invocando una sorta di trattamento di favore per un congiunto, un affine (anche solo intellettualmente). Nulla di più. Nessuno di loro, diciamolo per inciso, ha sollevato un sopracciglio quando abbiamo raccontato, con la medesima professionalità, la vicenda della giovane Maddalena Urbani, figlia di Carlo Urbani, il medico eroe che isolò la Sars. Parlammo del ritrovamento del suo corpo, della morte per probabile arresto cardiaco, del sequestro dell'eroina e degli psicofarmaci, scrivemmo dell'autopsia e delle indagini partite dalle analisi del suo telefonino e infine raccontammo dell'arresto dell'uomo che le aveva dato la droga. Nessuno del circolo intellettuale che oggi ringhia contro i giornali ci trovò niente di strano. Quelle erano notizie, noi stavamo facendo il nostro mestiere. E loro non erano amici di Maddalena.
Dagospia il 22 luglio 2021. GLI SCRITTORI ITALIANI? VOGLIONO LA SIRINGA PIENA E LA MOGLIE DROGATA – DAGOSPIA E “REPUBBLICA” DEVONO TACERE SU DE RIENZO CON L’EROINA SUL COMODINO. I NOSTRI AMICI NON SI TOCCANO: È LA PRIMA REGOLA DI TUTTE LE CONGREGHE. MAGARI LO SI ALLUDE IN UN ROMANZO COME “L’ISOLA DELL’ABBANDONO” DI CHIARA GAMBERALE, OVE SI RACCONTA DI UN ‘MARITO UN PO’ TOSSICO’, MA NON È EMANUELE TREVI, QUELLO DELLO STREGA CHE SCRIVE SUL “CORRIERE”: È FICTION, NON SIAMO NOI - ECCO LA LORO GRANDE AMBIZIONE: NASCONDERE I VIZI E PUBBLICARE PER LA CASA DEL BERLUSCA, SCRIVERE PER IL GIORNALE DEGLI AGNELLI E ASSICURARSI, COSÌ, RECENSIONI PER I PROSSIMI LIBRI. ALTRO CHE BAUDELAIRE O JIM MORRISON!
DAGOREPORT il 22 luglio 2021. Vizi privati e pubbliche virtù. Ultrà per i Premi letterari, democristiani per natura. Dove sono le “nevi” di un tempo, quando Baudelaire rivendicava di aver fondato il Club des Hashischins, i mangiatori di hashish di Parigi? Ci facevano la fila, incuranti dei reporter dell’epoca, Victor Hugo, Theofile Gautier, Gerard de Nerval e Alexandre Dumas - che fa assumere hashish pure al suo Conte di Montecristo. E dov’è Samuel Coleridge, che scoprì l’oppio a Malta e raccontò le sue visioni dopate nella “Ballata del vecchio marinaio”? E Thomas De Quincey, che in “Confessioni di un oppiomane” racconta a tutti la sua vita della quale l’oppio fu compagno? Si abbandonò alla droga Edgard Allan Poe, che però scrisse di “essere più stimolato dall’alcol”; Jean Cocteau sosteneva che doveva all’oppio “le ore più perfette della vita” mentre Proust si curava con lo stramonio, “l’erba del diavolo”: si chiuse in una stanza con pareti isolate e non uscì fino a “Recherche” completata. E dove sono Ginsberg, Bourroughs, Ferlinghetti e Kerouac che cercavano nella mescalina e nell’Lsd un mondo mistico, con Burroughs che dichiarò ai giornali americani di trasferirsi a Tangeri “perché poteva fumare in tranquillità ogni tipo di erba e incontrare ragazzi di tutte le nazionalità e farne i suoi amanti” (anche minorenni)? I dannati del rock, quelli che morivano sempre a 27 anni, molti strafatti di ero, finirono sempre sui giornali senza che i loro amici lo negassero. Il fondatore dei Rolling Stones, Brian Jones, fu consumato dai vizi; la leggenda della chitarra Jimi Hendrix e il frontman dei Doors, Jim Morrison, morirono per overdose da barbiturici e eroina; Janis Joplin fu trovata stesa nella sua stanza d’hotel dopo aver assunto eroina e alcool. C’è droga in tutte le loro canzoni, la rivendicano senza vigliaccherie, senza discrezioni moralistiche o opportunismi: “Questa è la fine, una bella amica. Questa è la fine, la mia unica amica, la fine.” (“The end” dei Doors); ““Se vuoi essere fuori, devi procurartela; Cocaina” (“Cocaine” di Eric Clapton); “Bianco calore scalda il mio amore / bianco calore sfondami il cuore / bianco il mio dio ciò che è mio è tuo” (“La sottile linea bianca”, Afterhours)…Sid Vicious, dei Sex Pistols, morì a 21 anni di droga dopo esser stato accusato di aver fatto fuori la fidanzata Nancy Spungen. Bon Scott, paroliere degli AC/DC, nel 1980 uscì di casa per comprare dell'eroina senza mai fare ritorno. Per Hillel Slovak dei Red Hot Chili Peppers andò così: si era allontanato dal gruppo perché le crisi di astinenza gli impedivano di suonare: il 27 giugno 1988, la polizia, allertata dagli altri membri della band che non riuscivano a contattarlo, trovò il corpo di Hillel senza vita nel suo appartamento di Hollywood. L'autopsia chiarì che era morto per overdose di eroina. Gli amici lo piansero, scrissero i giornali. Ora la droga è rimasta solo nella fiction, vi si allude per ottenere successo, ma non c’entra con noi. La si vede, magari, nella trilogia Smetto quando voglio sulle vicende di una banda di giovani precari che si improvvisano spacciatori interpretata da Libero De Rienzo – ma è una fiction, non siamo noi. Magari lo si allude in un romanzo come “L’isola dell’abbandono” di Chiara Gamberale (figlia di un “boiardo” di Stato vicino alla Dc), ove si racconta di un marito un po’ tossico – ma non è Emanuele Trevi, quello dello Strega che scrive sul “Corriere”: è fiction, non siamo noi. Non c’è problema: film di plastica, libri di cartone, storie di amici dei quali si può parlare (anche per vincere lo Strega), ma fino a un certo punto. Già, cannibali Stile Libero in libreria, sostenuti dal marketing editoriale del Berlusca, ma un po’ vegani figli di papà in black tie quando serve. In prima fila a difendere terroristi e rom nei libri contro il Capitone, ma pur sempre con vista sulle terrazze romane. Non siamo noi, non siamo noi e se riguarda un nostro compagno, la verità, allora, non si deve sapere. Altro che Baudelaire o Jim Morrison! Noi rivendichiamo per finta, non per davvero! Dagospia deve tacere su De Rienzo eroinomane e persino l’amica “Repubblica” deve venir meno al primo compito di un giornale: dare le notizie. E giù telefonate, pressioni, tweet e stupore social. “Che schifo che lo dicono”. Già, che vergogna dire la verità quando è un nostro compagno che muore di eroina! Non dovremmo nascondere la polvere sotto il tappeto persiano? Si può, si deve dire dell’assessore leghista che gira con la pistola credendosi un John Wayne, ma va taciuto che il povero De Rienzo teneva l’eroina sul comodino. I nostri amici non si toccano: è la prima regola di tutte le congreghe, dei patti di sangue. E poi è tutta gente che vive in periferia come il ministro Orlando, che fa giusto un po’ di sport al Tennis club, che è all’Ultima spiaggia per un tuffo che poi, guarda caso, finisce sempre a scrivere per i giornali della borghesia. Ecco la grande ambizione: nascondere i vizi e pubblicare per la casa del Berlusca, scrivere per il giornale degli Agnelli e assicurarsi, così, recensioni per i prossimi libri e nuove relazioni con “Gli amici della domenica”. Che poi, la domenica, è il giorno della Messa, quello da santificare come facevano i democristiani - che, però, loro, ci credevano davvero.
Dagospia il 23 luglio 2021. È GIORNALISMO, BELLEZZA! (DITELO AI RADICAL CHIC CHE HANNO ARRICCIATO IL NASINO SUL CASO LIBERO DE RIENZO) - QUATTRO GIORNI DOPO LA TRISTE FINE DI PHILIP SEYMOUR HOFFMAN, IL "NEW YORK TIMES" PUBBLICAVA UNA RICOSTRUZIONE PUNTUALE E DETTAGLIATA DEI SUOI ULTIMI GIORNI DI VITA - L'ATTORE E' STATO TROVATO RIVERSO IN BAGNO CON UN AGO CONFICCATO NEL BRACCIO - AVEVA SMESSO DI DROGARSI E FREQUENTAVA UN GRUPPO DI SUPPORTO, MA GIA' AL SUNDANCE FESTIVAL...
Dagotraduzione dal New York Times il 23 luglio 2021. (articolo uscito il 6 febbraio 2014, quattro giorni dopo la morte di Phillip Seymour Hoffmann)
È giorno, e in un parco giochi del Greenwich Village c’è un padre con i suoi figli. È tardo pomeriggio, e vicino al bancomat di un negozio di alimentari c’è un uomo trasandato, che ogni dieci minuti preleva 200 dollari. È sera, e un tifoso scrive ad un amico per invitarlo a vedere i Knicks. Gli ultimi giorni di Phillip Seymour Hoffman sono stati un mix di affari, famiglia, droga, culminati in un’overdose di eroina che gli è stata fatale. Il suo corpo senza vita è stato scoperto una domenica mattina, sul pavimento del bagno, con un ago ancora conficcato nel braccio. A detta di tutti, è morto da tossicodipendente; alternava periodi di normalità esteriore a comportamenti impulsivi. Girava film campioni d’incasso. Faceva incontri di lavoro. Giocava con la palla. Si sbronzava. Comprava droga. Il viaggio di quest’uomo, morto a 46 anni da solo, è stato tutto tranne che privato. Al Greenwich Village, dove viveva, era una sorta di ambasciatore, i vicini lo vedevano spesso spingere passeggini, fumare una sigaretta in veranda o dare indicazioni a qualche turista. In poche parole, un newyorkese qualunque, ma con un Oscar in libreria. I suoi ultimi giorni non sono stati diversi. Niente di più lontano dal vivere recluso. Si muoveva nel Village e nei dintorni. Rientrando da Atlanta, dove stava girando “Hunter Games”, probabilmente ubriaco, litigò in due aeroporti diversi. Era apparso sotto tono e trasandato anche l’ultima volta che s’era visto in pubblico, al Sundance Film Festival, il 19 gennaio, durante la presentazione dei suoi film “God’s Pocket” e “A Most Wanted Man”. Ma gli amici hanno raccontato che Hoffmann aveva spesso l’aria di aver fatto festa tutta la notte anche se si era appena alzato dopo una bella dormita. Sempre al Sundance, rispondendo a un editore che non lo aveva riconosciuto e chiedeva il suo mesterie, disse: «Sono un eroinomane». In altri momenti, si era comportato come sempre. «L'ho visto e l'ho salutato», ha detto Howard Cohen, presidente di Roadside Attractions, il distributore che ha portato "A Most Wanted Man" al festival. «Era molto gentile e amichevole e ha detto: “Sono felice di partecipare”. È stata una conversazione normalissima». Sempre al Festival, Hoffmann aveva raccontato di avere poco tempo per vedere i film, ma di aver apprezzato “Frozen” con i suoi figli. Dopo il Festival Hoffman se n’era tornato a New York, a vivere da solo in un appartamento in affitto a Bethune Street per via della separazione dalla moglie Mimi O’Donnell, rimasta a Janet Street con i loro tre figli. A dicembre, durante la riunione di un gruppo di supporto, Hoffman aveva ammesso di essere ricaduto nella droga. Alla domanda: “da quanto tempo non fate uso di sostanze, giorni, mesi o anni?”, l’attore aveva risposto: «Conto i giorni». «Ha alzato la mano, ha detto il suo nome e ha confessato che non si drogava da 28 o 30 giorni», ha detto un testimone anonimo. Hoffman era ben rasato e ben vestito. «Sembrava fantastico, sembrava totalmente, totalmente normale». Quella con la droga è stata una lotta che ha preso sul serio. «Phil è stato pulito per oltre 25 anni e ha conquistato il massimo grado possibile, conoscendo la sua natura», ha detto il drammaturgo David Bar Katz, suo grande amico, tra i primi a scoprire Hoffman morto. «Era contro ogni aspetto del consumo di droga». Il 25 gennaio Tatiana Pahlen, una scrittrice, aveva incontrato Hoffmann nell’ascensore. I due si erano conosciuti un paio di anni prima durante un reading al Joe’s Pub. Siccome ne era in programma un altro due giorni dopo, Pahlen gli aveva chiesto se si sarebbe unito a loro. «Oh no, sarò ad Atlanta» aveva detto Hoffmann. Sembrava felice, ha raccontato poi la scrittrice, forse un po’ “su di giri”, e la sua pelle «non era sana, era in pessime condizioni». L’attore è arrivato ad Atlanta la scorsa settimana per girare le scene finali del film "Hunger Games", in uscita nel 2015. Un cameriere lo ha fotografato seduto in un bar nel centro di Atlanta, ma non è chiaro, dalla foto, cosa ci fosse nel suo bicchiere. Quando Hoffman è tornato da Atlanta, le sue condizioni erano tali che Theresa Fehr, dirigente, lo ha scambiato per un «barbone». «Era molto ubriaco». Dopo il volo per l'aeroporto La Guardia – durante il quale è stato fotografato, sempre da uno sconosciuto, accasciato sul sedile – è stato allontanato dal cancello su un carretto motorizzato. «È passato davanti a me e alla mia fidanzata», ha detto Andrew Kirell, editore di Mediaite, blog sui media. «Era straordinario quanto fosse orribile». Lo hanno riconosciuto subito: «Io e la mia fidanzata siamo suoi grandi fan». Sabato mattina, Hoffmann sembrava tornato in pista, e si era presentato al Chocolate Bar chiedendo un espresso. I suoi colleghi hanno raccontato che era preoccupato per alcune possibilità future e per una serie di Showtime. Doveva tornare ad Atlanta la settimana successiva. Katz, il drammaturgo suo amico, lo aveva invitato a mangiare una bistecca prima di ripartire. Nel pomeriggio, Hoffmann aveva incontrato l’ex moglie e i figli in un parco giochi. La donna ha poi raccontato che le era sembrato sballato. Intorno alle 17:00, Paul Pabst, produttore esecutivo di "The Dan Patrick Show", un programma sportivo, stava camminando nel Village con la sua famiglia quando ha notato Hoffman. Sua sorella ha chiamato l'attore, che si è voltato per darle il cinque. «Mia sorella mi ha guardato e ha detto: "Wow, non aveva un bell'aspetto"». Intorno alle 19.30 Hoffman ha cenato insieme ad altri due uomini all'Automatic Slim's, un popolare bar del West Village che frequentava regolarmente, e che ha lasciato prima delle 21.30. La polizia ha detto che poi ha prelevato 1.200 dollari dal bancomat di D'Agostino, una drogheria vicino al suo appartamento, in sei transazioni da 200 dollari ciascuna. È rimasto lì un’ora. Alle 20.44 ha scritto all’amico Katz: «vuoi guardare la seconda metà della partita dei Knick?». Quattordici minuti dopo, alle 20.58, il signor Hoffman ha inviato un altro messaggio: «tipo alle 22.15». Ma Katz ha detto di aver letto l'invito solo più di un'ora dopo. Alle 23:30, dopo aver visto per la prima volta i messaggi, ha scritto ad Hoffman: “Sono appena uscito dalla cena. Dove sei?"
Dagospia il 24 luglio 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Spettabile redazione di «Dagospia», in riferimento agli articoli oltraggiosi e crudeli - nonché pieni di falsità facilmente verificabili - pubblicati in questi giorni sul vostro sito, non abbiamo nulla da pensare che sia riferibile pubblicamente. Ne prendiamo atto come di una violenza dalla quale non vogliamo e non possiamo difenderci in nessun modo, dispiaciuti solo che ne venga profondamente turbata una famiglia di persone oneste e generose come quella di Libero De Rienzo, con tutto il dolore che sta dignitosamente sopportando. Quello che ci turba di più è l'anonimato di questi scritti, che ci ricorda una pratica tipicamente fascista, caratteristica ad esempio delle riviste dei collaborazionisti francesi negli anni dell'occupazione nazista, o delle lettere dei ricattatori. Che questo sia legale o passibile di querele non ci interessa, è il profilo morale di tutto ciò che ci sconcerta, ma ognuno, a partire dal direttore del vostro sito, ha la sua coscienza e dunque i suoi limiti, sui quali non ci intendiamo né indagare né esprimere il giudizio che ce ne siamo fatti. Non possiamo né vogliamo, insomma, fare nulla contro di voi, ma pensiamo di avere un solo diritto: è capitato in passato e potrebbe accadere in futuro che il vostro sito (peraltro senza nessun avvertimento e nessun compenso) riproduca dei nostri articoli, creando l'idea implicita di un nostro assenso alle pratiche della vostra testata. Non faremo nulla per impedirvi di infangare la nostra reputazione e la nostra buona fede, è la nostra vita che parla per noi, ma possiamo diffidarvi dal ripetere questa pratica. Essere il bersaglio della vostra inumanità può anche essere un onore, apparire come «firme» in una testata che pratica in questo modo ingiurioso l'anonimato, collaborando anche in maniera infinitesimale all'offerta proposta ai lettori, è un fatto intollerabile dal quale intendiamo tutelarci con ogni mezzo. In fede, Chiara Gamberale e Emanuele Trevi
DAGO-RISPOSTA
Come scriveva Voltaire in “Discours en vers sur l'homme”, “ama la verità e perdona l’errore”: noi (tutti i testi sono firmati) serviamo la verità riportando i fatti e non condanniamo proprio nessuno per gli errori, nemmeno coloro che hanno lasciato solo Libero De Rienzo scoprendosene poi amici per mettere la museruola agli altri e dare lezioni di giornalismo e di morale. E lo fanno peraltro mandando messaggi criptici e fumosi, senza alcuna contestazione puntuale.
Gianmarco Aimi per mowmag.com il 23 luglio 2021. La scomparsa di Libero De Rienzo continua, suo malgrado, a far discutere. Il decesso dell’attore, avvenuta a soli 44 anni il 15 luglio scorso, si è però spostata da un piano strettamente cronachistico a quello deontologico. Materia del contendere, il racconto dei motivi che ne hanno causato la morte. Da una parte testate come Repubblica o Corriere – riprese da Dagospia -, che hanno deciso di rendere noti dettagli emersi durante le indagini, come per esempio che nella casa romana dell’attore sono state rinvenute tracce di eroina. E hanno motivato il perché di questa scelta, sia in un articolo di Marco Mensurati, che in uno di Alessandro Troncino. Dall’altra, una schiera di commentatori di varia natura, che vanno dai giornalisti Luca Bottura («Ma quindi l’idea che di come è morto Libero De Rienzo non ci interessi nulla e che dovreste lasciarlo in pace non vi sfiora») a Francesca Barra («Con Libero De Rienzo si sta oltrepassando un limite che mortifica la famiglia e non (ancora) verità, viene da chiedersi a cosa servono i dettagli morbosi»), oppure il politico Mario Adinolfi («È inutile il fascicolo aperto dalla procura di Roma su Libero De Rienzo per “morte come conseguenza di altri reati”. C’è chi cerca gloria sui giornali parlando di tracce di droga. A che serve? Una volta accertato che non s’è trattato di atto violento, si lascino in pace i morti»), oppure lo sfogo dell’attore Herbert Ballerina («Ma come è possibile che il primo idiota che passa possa scrivere tutto ciò vuole? Ma giornalisti di cosa???»), fino alla serie di articoli del giornalista e critico cinematografico Boris Sollazzo, che più di tutti ha spostato la questione su un piano deontologico, come nell’ultimo articolo intitolato «Quella reazione “isterica” dei giornaloni su Libero De Rienzo». Insomma, riducendo la questione all’osso: è giusto o no raccontare certi dettagli di come sarebbe morto (le indagini sono ancora in corso) un personaggio noto? Visto che si entra nel campo dei doveri dei giornalisti, che sono regolati dall’Ordine, ci siamo rivolti a uno dei massimi esperti in materia. Si tratta di Michele Partipilo, direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, per anni presidente dell’Ordine dei giornalisti in Puglia, poi eletto nel Consiglio nazionale dove entra a far parte del Comitato esecutivo e si occupa della formazione, delle scuole di giornalismo e, fra i tanti, ha scritto anche un libro pochi anni fa di oltre 200 pagine che si intitola appunto “La deontologia del giornalista ai tempi dell'informazione digitale”.
Direttore, senza girarci troppo intorno: è giusto che i giornalisti, di fronte alla scomparsa di un personaggio noto, riportino i dettagli di cosa ne avrebbe causato la morte?
Va fatta una premessa generale. Al di là di quello che si dice, dal punto di vista deontologico è fondamentale come lo si dice. È un elemento che dobbiamo tenere sempre presente. Sono dell’opinione che non ci sia nulla che non si può raccontare, ma tutto dipende dalla maniera in cui lo si racconta. È questa la bussola che deve guidare il nostro lavoro. Nel caso specifico, entra in ballo il concetto dell’essenzialità dell’informazione, formalizzato nel 1998 quando entrò in vigore il codice di deontologia legato alla legge sulla privacy. Questo è il concetto: è lecito riferire tutti quei particolari che sono indispensabili alla comprensione del fatto.
Quindi, chi ha parlato del ritrovamento da parte degli inquirenti di tracce di eroina non è andato oltre ai doveri che rientrano nella deontologia giornalistica?
Se c’è una persona, che può essere attore, calciatore, politico o senza un ruolo pubblico, che è stata trovata morta in casa e apparentemente non ci sono spiegazioni è evidente che conoscere le cause della morte è essenziale ai fini della notizia. Aver riportato il dato che in casa fosse presente della droga mi sembra assolutamente corretto dal punto di vista deontologico. Argomentare, poi, sull’utilizzo di quella droga, inizia a farci allontanare dal concetto di essenzialità.
Chi ha contestato il racconto che è stato fatto da alcune testate giornalistiche sulla morte di De Rienzo, ha parlato anche di “violazione del segreto di indagine”.
Su questo punto bisogna fare chiarezza. Il segreto dell’indagine nasce a tutela dell’indagine stessa. Quindi è un segreto che deve essere mantenuto, là dove sia necessario mantenerlo, da parte delle forze dell’ordine, degli inquirenti e della magistratura. Il giornalista ha un ruolo completamente diverso, cioè quello di raccontare i fatti con tutti i particolari disponibili, a patto che non vada contro le regole deontologiche. E qui i paletti sono molto chiari, cioè il racconto del giornalista deve essere rispettoso delle persone. Se nel fare questo andiamo a violare un segreto di indagine, essendo certi che quell’elemento rivelato sia essenziale per la notizia, e nel fare questo non andiamo a violare la tutela di altri soggetti, non vedo quale sia il problema.
Quindi il giornalista può anche violare il segreto di indagine?
Certo, i giornalisti possono violare il segreto di indagine una volta che, sotto la loro responsabilità, siano convinto che è necessario farlo. Dopodiché andranno incontro alle sanzioni previste, ammesso che ci sia una violazione, ma avranno fatto bene il loro lavoro. Da sempre i giornalisti sono costretti a violare il segreto di indagine.
Nel caso di De Rienzo l’indagine si basa sull’ipotesi di “morte come conseguenza di altro reato”.
In questo caso siamo di fronte al concetto di essenzialità dell’informazione.
Nella sua lunga carriera, le sarà capitato di andare incontro alle reazioni di chi era emotivamente legato a un fatto di cronaca. Cosa sente di dire a chi da più parti chiede si non scrivere di certi dettagli?
Credo che sia comprensibile questa reazione. A nessuno fa piacere che la figura di un personaggio noto che amiamo o di una persona cara finisca sui giornali sotto una cattiva luce. È comprensibile, in qualsiasi circostanza. Ma dobbiamo stare attenti a un distinguo. Un conto è raccontare i fatti, un altro è oltraggiare la memoria di chi è protagonista di quei fatti. Per questo dicevo che non esistono notizie o particolari che non si possono diffondere, ma conta moltissimo il modo in cui vengono diffusi. È qui che risiedono la responsabilità e anche la capacità del giornalista.
Marco Giusti per Dagospia il 24 luglio 2021. "Merde", "Sciacalli", "Fate vomitare", "Cafoni", "Pagliacci", "Lui era gentile e voi carta straccia senza vergogna". "Fate schifo". Questi sono solo alcuni dei commenti su Twitter alla pubblicazione di un'intervista inedita, probabilmente l'ultima, a Libero De Rienzo. Anche bella devo dire ("anarchico? No, sono un comunista"). La colpa di "Vanity Fair", che la pubblica solo adesso, leggo uno sciagurato "in omaggio" all'attore scomparso, è non averla pubblicata un anno fa, quando venne fatta e Libero era ancora vivo e vegeto. Cioè era stata fatta e messa lì a prender la polvere, preferendo magari qualche nome più alla moda, magari vestito Gucci, e tirata fuori solo ora, con queste anche giuste reazioni. Con Libero vivo, mi sa, non sarebbe mai uscita. E sarebbe stato meglio per tutti. Ora. Mi chiede Dago il perché di questa reazione di tanta gente, attori ma non solo attori, uniti solo generazionalmente, i trenta-quarantenni insomma, alla scomparsa di Libero e all'antipatico trattamento riservato al caso da cronaca della sua morte dai giornali. Non si rende conto Dago, che non ha certo visto al tempo "Santa Maradona" ne' i suoi film successivi, che molto piu di tanti attori anche celebri e riconosciuti, penso a Stefano Accorsi o a Riccardo Scamarcio, Libero e il suo personaggio di Bart in "Santa Maradona" siano diventati di culto perché rappresentino per quella generazione l'esatta immagine di quel che stavano vivendo e sognando e non è mai stato realizzato. Una generazione di orfani di tutto, a cominciare dell'ideologia, dal lavoro, passata per le botte di Genova e l'utopia repressa di un altro mondo è possibile che si è presto rinchiusa nel divano di Bart e Libero a far battute, guardare televisione adattandosi al disastro di una giovane borghesia che si frantumava nel precariato più orribile degli anni 2000. Un precariato che la pandemia di questi ultimi due anni ha solo finito per santificare cone inutile martirio generazionale. Mentre i genitori si adagiavano nei territori ancora riconosciuti, le terribili pagine culturali di Repubblica, il rito serale di Lilli Gruber con Scanzi Travaglio Cacciari. I talk del dopo Santoro che lanciavano Salvini e 5 stelle. Magari anche il buon cinema di una volta, da Ken Loach ai Dardenne ai bravi borghesi di Nanni Moretti. Niente di tutto questo rappresentava o può rappresentare oggi la generazione perduta dei Bart sdraiati sul divano e orfani anche della buona TV degli anni 90. Che si rifugiano più facilmente nello tze tze antico e popolare di Bombolo, nei vecchi manga che nei mal di pancia morettiani e nei pazzi borghesi urlanti di Muccino, ormai vecchi come un film di Petri Rosi Scola trent'anni fa. Al di là della cronaca, dello scivolamento nella droga, chi siamo noi per giustificare o spiegare i motivi di una morte prematura, il culto di Bart/Libero è qualcosa che tocca profondamente le corde di un disastro generazionale che non solo è passato sotto i nostri occhi, ma del quale siamo ampiamente responsabili. A cominciare dalle botte di Genova, dal non rendersi conto di dove stava portando un atteggiamento succube nei riguardi della moda e delle mode, dal non aver cercato di cambiare le brutture della TV e dei giornali, precipitati nel disastro che vediamo tutti i giorni. Libero magari non era il James Dean che pensavano in tanti, ma certo rappresentava perfettamente tutto quello che la sua generazione stava perdendo e che oggi sembra aver irrimediabilmente perduto.
Dal profilo Facebook di Fulvio Abbate il 25 luglio 2021. Ma le anime belle di sinistra che scrivono romanzi edificanti dedicati ad amici morti giovani drammaticamente, e per questo puntualmente premiati, gli stessi che si sono risentiti per l’accenno a una possibile presenza di “polvere bianca” (fra l'altro, citata nel loro giornale di riferimento culturale, "la Repubblica") nella tragica fine di Libero De Rienzo, dov’erano quando delle notti di Lapo veniva raccontata ogni possibile crudele e oscena cosa? E ancora, se almeno una volta hanno avuto un disco o un poster, metti, di Jim Morrison o di Jimi Hendrix o di Amy Winehouse, morti anche loro ingiustamente come sappiamo, da dove gli giunge l’ipocrita idea che si debba tacere sul dolore, la sofferenza, la fragilità altrui? Dimenticavo ancora una domanda: in quali mondi, quartieri, strade, traverse hanno vissuto, quale piccina e timorosa perbenista idea del mondo hanno condiviso, nell'incapacità di comprendere il genocidio umano che la droga ha consegnato almeno alla mia generazione? O forse devo ricordare lo sguardo di stupore misto quasi a sospetto che altri loro amici, anche questi del medesimo mondo intellettuale romano non meno edificante, mostravano quando provavo a raccontare delle macerie dei coetanei persi lungo la (mia) strada? A queste persone, a questo punto, vista l'ipocrisia, andrebbero sequestrati dalle loro librerie private anche i versi di Rimbaud. Altrettanto incomprensibile definire "fascista" chi pone un quesito sull'intera vicenda.
DAGOSPIA E LA MORTE DI LIBERO DE RIENZO – GLI SCRITTORI EMANUELE TREVI E CHIARA GAMBERALE AFFERMANO, DANDO A QUESTO SITO DEL “FASCISTA” (SIC), DI ESSERE GLI UNICI DEPOSITARI DELLA MEMORIA DELL’ATTORE. MA COSA HANNO FATTO LORO DI FRONTE ALLA FRAGILE CONDIZIONE UMANA DELL’AMICO? E I VARI LUCA BOTTURA E BORIS SOLLAZZO, CHE OGGI POLEMIZZANO SU COME I GIORNALI HANNO RACCONTATO LA MORTE DI DE RIENZO E LO CELEBRANO PER “LE SUE BATTAGLIE SCOMODE CONTRO LA VIOLENZA DELLA POLIZIA, IL SISTEMA PENITENZIARIO, LA STRATEGIA REPRESSIVA DELLO STATO”, PERCHE’ NEGLI ANNI PASSATI NON GLI HANNO MAI DEDICATO UNO STRACCIO DI ARTICOLO, UN’INTERVISTA, UN CORSIVO?
DAGONOTA il 26 luglio 2021. Nota a margine alla lettera-accusa pubblicata su Dagospia dagli scrittori Emanuele Trevi e Chiara Gamberale sulla morte (fin qui oscura) dell’attore Libero De Rienzo. Per gli amici, “Picchio”. Ma di cosa è incolpato questo disgraziato sito? In primis di aver dato la notizia, lanciata dalle agenzie di stampa, sul decesso del protagonista di ‘’Fortpàsc’’ e ‘’Santa Maradona’’. Notizia ripresa da tutti i media con il sospetto degli inquirenti (non nostro) che era stato stroncato da una dose di eroina. Così scrivendo avremmo, secondo i nipotini in fasci del Minculpop, “profondamente turbato una famiglia di persone oneste”. E fin qui ce ne spiace. Anche se nel raccontare il triste episodio eravamo in buona compagnia del “Corriere della Sera” di Urbano Cairo e Walter Veltroni di cui Trevi e Gamberale sono illustri collaboratori. Ben pagati nonostante i tagli agli stipendi dei redattori, dei collaboratori e dei cassaintegrati in via Solferino. Ma pensiamo pure, che a sconvolgere la famiglia del povero “Picchio” sia stata la fine a 44 anni, in sofferta solitudine, del loro caro congiunto. Il figlio rinvenuto e il marito rinvenuto senza vita il 15 luglio nella sua casa soltanto ventiquattro ore dopo la sua fine. E che da giorni non rispondeva più al telefono. E di questa “sofferta solitudine” cosa sapevano i suoi amici più intimi? Gamberale e Trevi che il 9 luglio, una settimana prima della morte dell’attore, festeggiavano con tanto di bottiglia dello sponsor in mano la vittoria al Premio Strega con il romanzo “Due vite”, cosa hanno fatto di fronte alla fragile condizione umana dell’amico? E i vari Luca Bottura e Boris Sollazzo, che polemizzano su come i giornali hanno raccontato la morte di De Rienzo e oggi celebrano per “le sue battaglie scomode contro la violenza della polizia, il sistema penitenziario, la strategia repressiva dello Stato” (vedi pezzo a seguire), cosa hanno fatto loro di fronte alla fragile condizione umana dell’amico? Perché negli anni passati non gli hanno mai dedicato un articolo, un’intervista, un corsivo? La rete, l’informazione del web, da tempo ha messo fine al potere dei signorini delle lettere che si auto recensiscono nelle terze pagine o si spartiscono (nell’anonimato, quello vero) i premi nel salotto tarocco Bellonci. Già, la morte di Picchio non può avere altri contraddittori se non di chi può salire comodamente in cattedra sui giornaloni boccheggianti in edicola. Sempre nell’ipotesi che la droga fosse arrivata nella sua casa romana di Madonna del Riposo a “riempire un vuoto”. Un vuoto che Pier Paolo Pasolini considerava per quelli giudicati “diversi” soprattutto un “vuoto culturale”. E a quale titolo, e con quali argomenti, la ditta dalla virgola catoniana Trevi&Gamberale si permette di calunniare Dagospia che, a loro sentire, sarebbe colpevole di nascondersi dietro l’anonimato dei suoi articoli, “una pratica tipicamente fascista” (sic)? Forse non vale neanche la pena ricordare ai due apostoli della verità (negata) che il filosofo Adorno sosteneva: “Di quello che si può parlare, bisogna parlare”. E rammentare loro quanto scriveva e osservava il poeta e saggista Franco Fortini contro il silenzio degli “intellettuali generici che scrivendo su per i giornali si fingevano obbligati solo alle proprie parole firmate, e con boria cresciuta rigogliosa sulla mala coscienza”. E aggiungeva: “Volevano far credere di credere ancora alla favola della indipendenza, come se ogni loro parola non prendesse colore delle aniline infuse nei contesti, da quel che li circonda e li fa lievitare: istituzioni redazionali, politiche della cultura, poteri visibili e no”.
Giuseppe Candela per Il Fatto Quotidiano il 26 luglio 2021. Il 15 luglio scorso l’attore Libero De Rienzo è stato trovato senza vita. Morto a soli 44 anni, stroncato da un infarto, con il successivo ritrovamento di eroina nella sua abitazione. La Procura di Roma ha aperto un’inchiesta per morte in conseguenza di altro reato disponendo l’autopsia. La scomparsa dell’attore di Fortpàsc e Santa Maradona ha aperto un dibattito sul ruolo del giornalismo nel racconto della tragica vicenda, categoria finita nel mirino nei giorni scorsi. Dettagli scabrosi ritenuti inutili e irrispettosi, titoli acchiappaclick, mancanza di rispetto verso la famiglia senza reali certezze: questo il tono dei commenti di utenti comuni sui social. “Ma quindi l’idea che di come è morto Libero De Rienzo non ci interessi nulla e che dovreste lasciarlo in pace non vi sfiora”, scrive l’autore Luca Bottura. Critiche arrivano anche da Mario Adinolfi: “È inutile il fascicolo aperto dalla procura di Roma su Libero De Rienzo per “morte come conseguenza di altri reati”. C’è chi cerca gloria sui giornali parlando di tracce di droga. A che serve? Una volta accertato che non s’è trattato di atto violento, si lascino in pace i morti.” A stretto giro si aggiungono le opinioni dell’attore Herbert Ballerina (“Ma come è possibile che il primo idiota che passa possa scrivere tutto ciò vuole? Ma giornalisti di cosa???“) e della giornalista Francesca Barra (“Con Libero De Rienzo si sta oltrepassando un limite che mortifica la famiglia e non (ancora) verità, viene da chiedersi a cosa servono i dettagli morbosi“). Accuse che sono piovute anche da chi fa parte della stessa categoria. “Dettagli minuziosissimi e ‘scabrosi’ sulle ‘bustine’ e le ‘polveri’ manco parlassimo della serie ‘Narcos’: davvero non ci si poteva limitare a scrivere, dell’attore scomparso, che era un padre amorevole? E davvero è illegittimo il sospetto che tanti vogliano vendicarsi di Picchio e delle sue battaglie scomode – contro la violenza della polizia, il sistema penitenziario, la strategia repressiva dello Stato?“, scrive Boris Sollazzo su Il Dubbio in un articolo dal titolo eloquente “Noi cronisti e la spazzatura su Libero De Rienzo”. Nel mirino, anche sui social, finisce il quotidiano Repubblica che affida la replica al giornalista Marco Mensurati: “Ci sono un paio di domande che in queste ore da più parti ci vengono poste con una certa insistenza (e con diversi gradi, diciamo così, di civiltà). Era proprio necessario raccontare tutti i dettagli della morte dell’attore Libero De Rienzo? E poi ancora, e forse soprattutto, non si poteva omettere il dettaglio del ritrovamento dell’eroina? La risposta, ovviamente, è sì, era proprio necessario. E no, non si poteva omettere un particolare così rilevante.” “Muore un attore bravissimo e amato come De Rienzo, un padre di famiglia, un insolito e laterale intellettuale della malconcia scena italiana, e il suo pubblico, i suoi amici, i suoi affini, non vorrebbero altro che stringersi nel dolore in una composta e silenziosa celebrazione. Il compito di un giornale e di un giornalista, però, non è quello di celebrare. Ma di raccontare i fatti. E se la notizia, come in questo caso, è una bustina di eroina trovata nella casa dell’attore, non pubblicarla sarebbe un errore. Grave. E pericoloso. Perché salterebbero i meccanismi di controllo e di imparzialità che sono alla base del rapporto con i lettori”, continua Mensurati che poi si sofferma su chi ha criticato il lavoro dell’intera categoria: “Colpisce in particolare che molte delle critiche arrivate ai giornali provengano da una ben determinata categoria di persone. Intellettuali del cinema, professionisti della comunicazione, persone per dirla in breve che avevano una frequentazione diretta e personale con De Rienzo e con la sua famiglia. In molti di questi casi l’impressione che si è avuta è che gli amici stessero implicitamente, e in maniera umanamente comprensibile, invocando una sorta di trattamento di favore per un congiunto, un affine (anche solo intellettualmente). Nulla di più.” Così il giornalista ricorda l’assenza di critiche quando la testata raccontò la storia di Maddalena Urbani, figlia di Carlo Urbani, il medico che isolò la Sars: “Parlammo del ritrovamento del suo corpo, della morte per probabile arresto cardiaco, del sequestro dell’eroina e degli psicofarmaci, scrivemmo dell’autopsia e delle indagini partite dalle analisi del suo telefonino e infine raccontammo dell’arresto dell’uomo che le aveva dato la droga. Nessuno del circolo intellettuale che oggi ringhia contro i giornali ci trovò niente di strano. Quelle erano notizie, noi stavamo facendo il nostro mestiere. E loro non erano amici di Maddalena.” Al dibattito si aggiunge anche la voce del sito Dagospia che replica a modo suo alle critiche delle scorse ore: “Dagospia deve tacere su De Rienzo eroinomane e persino l’amica "Repubblica" deve venir meno al primo compito di un giornale: dare le notizie. E giù telefonate, pressioni, tweet e stupore social. "Che schifo che lo dicono". Già, che vergogna dire la verità quando è un nostro compagno che muore di eroina! Non dovremmo nascondere la polvere sotto il tappeto persiano? Si può, si deve dire dell’assessore leghista che gira con la pistola credendosi un John Wayne, ma va taciuto che il povero De Rienzo teneva l’eroina sul comodino. I nostri amici non si toccano: è la prima regola di tutte le congreghe, dei patti di sangue. E poi è tutta gente che vive in periferia come il ministro Orlando, che fa giusto un po’ di sport al Tennis club, che è all’Ultima spiaggia per un tuffo che poi, guarda caso, finisce sempre a scrivere per i giornali della borghesia. Ecco la grande ambizione: nascondere i vizi e pubblicare per la casa del Berlusca, scrivere per il giornale degli Agnelli e assicurarsi, così, recensioni per i prossimi libri e nuove relazioni con ‘Gli amici della domenica’. Che poi, la domenica, è il giorno della Messa, quello da santificare come facevano i democristiani – che, però, loro, ci credevano davvero.”
Libero De Rienzo e l’ingiustizia di morire più giovani di noi che non abbiamo fatto niente. “Santa Maradona” non era un film della mia generazione. Ma poi arriva il giorno in cui il tempo si contrae e scompare gente che a un certo punto era diventata tua coetanea. Guia Soncini il 19 Luglio 2021 su L'Inkiesta. Quando uscì il più bel film di questo secolo, “The Social Network”, Aaron Sorkin, che l’aveva scritto, aveva 49 anni, l’età che ho io ora. Il discorso sul mio essere in ritardo per scrivere anche solo il più bel qualcosa del mese lo facciamo un’altra volta, adesso voglio parlare di uno degli articoli che vennero pubblicati per l’uscita del film. A Esquire pensarono bene, invece di intervistare attori come fanno di solito le riviste patinate, di dare allo sceneggiatore la loro paginetta “What I’ve learned”, “Quel che ho imparato”. Sorkin la riempì di svariati errori di saggezza, uno dei quali vi tradurrò. «Lungo la via per l’invecchiamento, ci sono questi cartelli stradali. Il primo è quando la Playmate del mese è più giovane di te. Improvvisamente ti senti uno zozzone perché hai ventitré anni, e lei ne ha diciannove, e non dovresti fissare quella foto. Il segnale successivo è che gli atleti professionisti sono più giovani di te. Poi gli allenatori sono più giovani di te. E infine, l’ultima cosa che accade: ho l’età del presidente degli Stati Uniti». A 24 anni ebbi un flirt con un tizio che ne aveva 19. Ho ancora un quadretto che mi regalò un’amica per irridermi: una copertina d’epoca con scritto «Come ti svezzo il pupo». Lo chiamavano tutte «il pupo» (tranne una che lo chiamava «il bocconcino»). Ero una donna, avevo un lavoro, e lui era uno che viveva coi genitori e stava decidendo a che università iscriversi: non mi vergognavo? Eravamo, le mie amiche e io, tutte convinte che fosse un divario anagrafico inaccettabile, che fosse esaurimento nervoso, che mi sarei ripresa da quella fase di pedofilia. Non lo vedo da tantissimo tempo e non mi torna in mente spesso, ma quando ne ho compiuti 45 ho pensato per tutto il giorno: il pupo ha quarant’anni. Credo fosse Gesualdo Bufalino che diceva che lui e Sciascia erano legati da quell’amicizia che può esistere solo tra coetanei. Da giovane mi sembrava una cosa insensata, adesso mi sembra un’ovvietà, però non so cosa voglia dire «coetanei»: io e il pupo, che non eravamo coetanei negli anni Novanta, lo siamo ora. Elisabetta Franchi, che ufficialmente ha quattro anni più di me, l’altro giorno su Instagram ha rievocato le abbronzature degli anni Ottanta con la parola in codice che tutte noi ragazze che andavamo sulla riviera romagnola in quegli anni capiamo: Lancaster. Se non ti sei mai spalmata di quella crema marrone senza filtri protettivi che ti faceva sembrare meno bianchiccia e moltiplicava i danni dei raggi di sole, non sei mia coetanea. C’è un momento nella vita in cui il tempo si contrae, e non lo dico solo per piazzare qui la mia citazione preferita, quella pagina della “Vedova incinta” in cui Martin Amis racconta la fine del presente: «Con l’approssimarsi del cinquantesimo compleanno, cominci a sentire che la tua vita si diluisce, e continuerà a diluirsi fino a ridursi in niente. E ogni tanto ti dici: È andata un po’ in fretta. È andata un po’ in fretta. A seconda dell’umore, potresti anche volerla mettere in termini più decisi. Del tipo: EHI!! È andata un po’ TANTO IN FRETTA CAZZO!!!… Poi i cinquanta arrivano e se ne vanno, e i cinquantuno, e i cinquantadue. E la vita si addensa di nuovo. Perché in te adesso c’è un’enorme e insospettata presenza, come un continente inesplorato. Parlo del passato». Quello viene dopo. Ci vorrebbe un Martin Amis, e invece qui ci sono solo io, per spiegare quell’altra contrazione del tempo, quella per cui quei cinque anni di differenza che sono un’enormità quando hai dieci o vent’anni a un certo punto diventano un niente. Non conoscevo Libero De Rienzo. Ero l’unica, ho scoperto quando l’altro giorno è morto. Ci sono, tra le persone che conosco, molti che gli volevano bene. Io invece non so neanche se ho mai visto un suo film, credo di non aver visto neanche quello che sembra essere il preferito d’un po’ tutti, il film di formazione della nostra generazione. Mi sono chiesta come fosse possibile, e sono giunta alla conclusione che c’entri quel divario che a un certo punto scompare. Quando uscì “Santa Maradona”, avevo compiuto 29 anni da una settimana, avevo già cambiato tre tipologie di lavori, e un film sulla perpetua immaturità non parlava a me. Era quando cinque anni facevano ancora la differenza: De Rienzo era coetaneo del pupo. Finché non mi è cascato lo sguardo sulla sua data di nascita, devo fare una confessione orrenda: ero sollevata. Sollevata di non conoscerlo, di non dover vivere quello strazio che è la morte di qualcuno con cui hai mangiato o chiacchierato o litigato, quello strazio che ogni volta mi sembra assurdo. Com’è possibile che ci muoiano gli amici, siamo la generazione coi genitori immortali epperò muore gente che ha usato le nostre stesse creme solari? Ma poi: quale generazione, è proprio che non muoiono più quelli che sarebbe naturale e sano morissero, muoiono solo quelli che ti fan dire stronzate sul loro essere cari agli dèi. Pochi giorni prima di De Rienzo è morta la madre di Catherine Deneuve: aveva 109 anni. I padri dei figli della Deneuve, Roger Vadim e Marcello Mastroianni, erano morti da decenni, e sua madre era ancora viva. Poi ho notato la data di nascita di De Rienzo. Aveva cinque anni meno di me. Chissà che cartello stradale è mai questo, questo che indica la morte di gente più giovane di te che neanche sai quando di preciso fosse diventata tua coetanea, dev’essere un cartello invisibile perché sembra proprio succeda senza avvisare, facendoti inchiodare all’incrocio e restare lì come una stronza, a dirti per trenta secondi che devi assolutamente fare qualcosa di rilevante giacché potresti morire domani, e per i trenta successivi che è inutile sbattersi, tanto lo vedi che ingiustizia, si muore. È andata un po’ tanto in fretta, cazzo.
(ANSA il 30 settembre 2021) - La Procura di Roma ha chiuso le indagini a carico del cittadino gambiano Mustafà Minte Lamin di 32 anni accusato di avere ceduto all'attore Libero Di Rienzo la droga che gli ha provocato la morte il 15 luglio scorso. Secondo i risultati tossicologici il 45enne è deceduto a causa di una overdose di eroina. Gli esami hanno fatto emergere che Di Rienzo aveva assunto anche cocaina e ansiolitici che però non sarebbero la causa della morte. Nei confronti dell'indagato le accuse sono di morte come conseguenza di altro reato, detenzione e cessione di sostanza stupefacente. Nell'atto di chiusura delle indagini il pm Francesco Minisci scrive che il decesso dell'attore De Rienzo (e non Di Rienzo come scritto in precedenza) "è riconducibile ad un arresto cardiorespiratorio per intossicazione acuta da eroina". In base a quanto ricostruito dai carabinieri il pusher avrebbe ceduto eroina anche ad altre cinque persone. Il cittadino gambiano venne arrestato il 28 luglio scorso in flagranza di reato mentre era intento a vendere droga nella zona di Torre Angela, a Roma.
L'attore De Rienzo morto per un'overdose. A processo il pusher che gli vendette l'eroina. Stefano Vladovich l’1 Ottobre 2021 su Il Giornale. Gambiano 32enne accusato di "morte come conseguenza di altro reato". Eroina, psicofarmaci e cocaina. Libero De Rienzo la notte del 14 luglio si era fatto di tutto. Ma è solo la «polvere chiara» la causa della fine tragica dell'attore di Fortapàsc. I risultati dell'esame tossicologico confermano quanto emerso dall'autopsia: decesso per «arresto cardiorespiratorio per intossicazione acuta mortale da eroina». Si chiude l'indagine contro lo spacciatore di De Rienzo, il gambiano di 31 anni, Mustafa Minte Lamin, arrestato dopo 15 giorni di indagini e appostamenti. È lui il pusher che l'attore, premio David di Donatello nel 2002 per il film Santa Maradona, incontra sotto casa sua il mercoledì pomeriggio, poche ore prima della fumata letale.
Il pm Francesco Minisci, nell'atto di chiusura delle indagini ribadisce le accuse, ipotizzate fin dall'apertura del fascicolo: morte come conseguenza di altro reato (lo spaccio), detenzione e cessione di sostanze stupefacenti. Lamin viene arrestato assieme a un connazionale mentre vende eroina ad altre cinque persone nel quartiere in cui vive, Torre Angela. A incastrarlo il contatto sul cellulare dell'attore, i messaggi scambiati via Whatsapp e i suoi spostamenti durante la giornata del 14 luglio. Spostamenti «congelati» dalle celle telefoniche a ridosso l'abitazione di De Rienzo. In particolare il percorso dalla fermata «Ubaldo degli Ubaldi» della metro A, fino al civico 49 di via Madonna del Riposo. Per i carabinieri della stazione San Pietro il gambiano consegna la «roba» a domicilio muovendosi con i mezzi pubblici e con sé porta solo pochi grammi di droga. Poi torna alla base, lascia il denaro incassato e riparte per altre consegne. Secondo la perizia medica è l'eroina la causa diretta della morte mentre la cocaina e le benzodiazepine non sarebbero state fatali. Probabilmente assunte tempo prima e rimaste nel sangue di De Rienzo. Una conclusione che in parte si scontra con i primi risultati di laboratorio del Ris sulle dosi trovate nell'appartamento dell'attore: eroina tagliata al 90 per cento. Ovvero solo il 10 per cento di principio attivo. Bassa concentrazione di droga, non letale secondo i medici. Insomma, non è certo che l'eroina che ha ucciso il 45enne, quella fumata nella «notte africana, tanto vale accendersi un fuoco», come posta su Instagram lo stesso attore poco prima di morire, sia la stessa rinvenuta in salotto e sequestrata. Perlomeno non della stessa concentrazione. Picchio viene trovato da un amico di famiglia la sera del 15 luglio dopo l'allarme lanciato dalla moglie, la costumista Marcella Mosca, a Napoli con i loro due bambini. Il corpo è a terra, sul corridoio vicino la porta. Stefano Vladovich
Da leggo.it il 21 dicembre 2021. È accusato di avere ceduto droga all'attore Libero De Rienzo, morto per overdose nel luglio scorso. Per questo il cittadino gambiano Mustafa Minte Lamin, di 32 anni, è stato rinviato a giudizio dal gup di Roma. L'uomo, secondo l'impianto accusatorio, avrebbe venduto sostanze stupefacenti all'attore ed altre cinque persone. Nei suoi confronti viene contestato anche il reato di morte come conseguenza di altro reato per il nesso di causalità tra il decesso di De Rienzo e la cessione di eroina. Il processo è stato fissato al prossimo 6 aprile davanti al giudice monocratico.
Giu.Sca. per il Messaggero il 22 dicembre 2021. «L'intossicazione acuta» da eroina che causò la morte di Libero De Rienzo, il 15 luglio scorso, fu dovuta alla sostanza che il pusher gambiano Mustafà Minte Lamin aveva venduto all'attore alcune ore prima. Per questo il gup di Roma lo ha rinviato a giudizio oggi anche con la pesante accusa di morte come conseguenza di altro reato. Per Lamin il processo è stato fissato al prossimo 6 aprile davanti al giudice monocratico. Nei suoi confronti i pm di piazzale Clodio contestano inoltre i reati di detenzione e cessione di stupefacenti. Il pusher venne arrestato il 28 agosto scorso al termine di una serrata attività di indagine svolta dai carabinieri. In base a quanto accertato dagli inquirenti la «sostanza killer» sarebbe stata ceduta a De Rienzo il 14 luglio, ventiquattro ore prima di quando fu trovato, privo di vita, nella sua abitazione in zona Madonna del Riposo. Lamin venne bloccato in flagranza di reato a Torre Angela, proprio mentre era intento a spacciare.
GLI ACCERTAMENTI Secondo l'accusa oltre a De Rienzo, il pusher aveva ceduto droga ad almeno altre cinque persone in quei giorni. Gli accertamenti dei carabinieri del Nucleo operativo della Compagnia di Roma San Pietro erano partiti dopo il ritrovamento di eroina nell'appartamento dell'artista. Gli investigatori hanno, quindi, svolto verifiche nell'ambiente dello spaccio di sostanze nelle zone limitrofe al luogo del decesso, riuscendo a ricostruire alcuni collegamenti che li hanno condotti fino al quadrante sud-ovest della Capitale, in particolare nel popolare quartiere di Torre Angela dove hanno arrestato lo spacciatore. Le indagini hanno permesso di acquisire elementi sul fatto che fosse stato proprio lo spacciatore gambiano a cedere, nel pomeriggio di mercoledì 14 luglio, la dose di eroina a De Rienzo. Ad inchiodare l'arrestato anche l'analisi dei tabulati telefonici che ha consentito di individuare la posizione dello spacciatore proprio nei pressi dell'abitazione dell'attore napoletano nel pomeriggio di quindici giorni fa.
· E’ morto l’ex presidente della Corte Costituzionale e dell’Antitrust Giuseppe Tesauro.
La scomparsa del giurista. Chi era Giuseppe Tesauro, un grande giurista che portò Napoli nel diritto europeo. Salvatore Prisco su Il Riformista l'8 Luglio 2021. Sarà dispiaciuto a Giuseppe Tesauro, tra l’altro grande appassionato di calcio e tifoso del Napoli, nonché melomane nel consiglio d’indirizzo del San Carlo, andarsene senza sapere se l’Italia di Mancini, con dentro tre campani finora determinanti per i successi della squadra, vincerà i campionati europei di calcio, a meno che le notizie non arrivino dove si trova ora in anticipo rispetto a quanto non accada qui: se così fosse, nulla quaestio, già saprà chi vincerà domenica la coppa. Ne ho un ricordo da ragazzino: interessato a un articolo pubblicato sull’estinta Rassegna di diritto pubblico fondata dal padre, il costituzionalista, avvocato e politico democristiano Alfonso (all’università il numero c’era, ma mutilato proprio delle pagine a me utili, strappate da qualcuno in tempi in cui non esistevano ancora le fotocopie), mi presentai con l’ingenuità dei ventenni nel suo studio di piazza Nicola Amore e chiesi di leggere dalla copia della collezione che immaginavo avesse, offrendo persino, da gaffeur, di acquistarne un’eventuale copia in più, se ne disponesse. Mi guardò con un sorriso complice da monello, da adulto che tornava a essere il poco più che adolescente che ero allora e mi disse: «Non ti preoccupare, leggi intanto dalla mia, poi se ne trovo un fascicolo in più te lo regalo». Con quest’aria ironica e autoironica ha dominato, ricco di autorevolezza non cercata, ma spontaneamente riconosciutagli, l’accademia, le Corti, i consessi dei potenti della politica e dei colleghi, risolvendo con apparente semplicità questioni intricatissime che, prima di finire nei libri, richiedevano di essere sbrogliate dal suo tocco. La sua famiglia era originaria di Bellosguardo, dove si contendeva allori con l’altro compaesano Salvatore Valitutti, gentiluomo liberale poi ministro della Pubblica Istruzione. Lui era però nato a Napoli, da una madre lettone e, mentre gli zii spadroneggiavano a Medicina (uno ginecologo e rettore, un altro chirurgo) e un cugino, terrore degli studenti, era costituzionalista a Giurisprudenza, esordiva tra Catania e Messina da internazionalista, per poi tornare a Napoli a Scienze Politiche e approdare infine a Economia alla Sapienza. Nella seconda fase della vita spuntò l’uomo delle istituzioni, prima avvocato generale della Corte di Giustizia dell’Unione europea, poi presidente dell’Antitrust, infine giudice e presidente della Corte Costituzionale. Suoi allievi o altri, che ho sentito, ne ricordano l’ansia di scindere dal diritto internazionale quello dell’Unione europea, di cui è stato un padre fondatore, e la spinta, in ogni ruolo ricoperto, a letture innovative di scarne norme scritte da parte della giurisprudenza che di volta in volta ispirava: Fabio Ferraro (che con Patrizia De Pasquale ne ha aggiornato un manuale che tutti gli studenti della materia conoscono) cita, tra molte, le sentenze europee sulla responsabilità risarcitoria degli Stati e sulla sospensione cautelare di leggi in contrasto con il diritto comunitario; il giuscommercialista Giuseppe Guizzi le battaglie contro cartelli e abusi di posizione dominante; Giovanni Pitruzzella, suo successore all’Antitrust e all’avvocatura della Corte di giustizia dell’Unione europea, ne sottolinea l’impronta decisiva nelle due istituzioni e ne rimpiange l’umanità. Io stesso rammento la sentenza della Consulta sull’obbligo tedesco di risarcire i danni di guerra alle vittime italiane del nazismo o quella sull’apertura alla fecondazione eterologa e si dovrebbe continuare. Quando se ne va un uomo così, la retorica impone di asserire che si è perduto un grande. Nel suo caso sarebbe semplicemente la verità, anche per la stazza fisica ragguardevole. Ma, a leggerlo, sorriderebbe, come gli vidi fare nel suo studio quando ero giovanissimo e osserverebbe con malinconia di essere stato davvero a suo agio solo nel buen retiro di Scario, dove amava passare pigre giornate estive a guardare il mare, a pescare e a cucinare personalmente quanto riusciva a tirare su, come aveva confessato con la consueta autoironia. Salvatore Prisco
· E' morto il pilota automobilistico Carlos Reutemann.
E' morto Carlos Reutemann: corse con la Ferrari in formula uno per due stagioni. Con la Rossa nel 1977 e nel 1978, con la Williams arrivò a un solo punto dal titolo mondiale. La Repubblica il 7 luglio 2021. La Formula uno perde un grande protagonista del passato. E' morto a 79 anni Carlos Reutemann: in Formula 1 dal 1972 al 1982, ha gareggiato con la Ferrari due anni, nel 1977 e 1978, con sei vittorie, un terzo e quarto posto nella classifica mondiale piloti. I suoi compagni di scuderia, Lauda e Villeneuve. Gli altri team, Brabham, Lotus e Williams. Nella sua carriera nella massima categoria ha ottenuto 12 vittorie, 45 podi e sei pole position, in 144 gare a punteggio, oltre a due trionfi in gare fuori campionato. Nel 1981, dopo aver superato il compagno di squadra e primo pilota della Williams Alan Jones, arrivò secondo nel campionato piloti ad un solo punto dal campione Nelson Piquet.
Dopo la Formula Uno la politica: è stato anche senatore. Reutemann è deceduto a Santa Fe, provincia della quale è stato per due volte governatore oltre ad aver ricoperto la carica di senatore nazionale. "Papà è morto in pace e con dignità dopo aver combattuto come un campione con un cuore forte e nobile che lo ha accompagnato fino alla fine. Sono orgogliosa per il padre che ho avuto. So che mi accompagnera' ogni giorno della mia vita fino a quando non ci incontreremo di nuovo nella casa del Signore" il tweet della figlia Cora, con cui ha annunciato la scomparsa di Reutemann.
Carlos Reutemann, il campione di Formula 1 è morto all’età di 79 anni. Ilaria Minucci il 07/07/2021 su Notizie.it. Carlos Reutemann è morto in Argentina a causa di un improvviso peggioramento delle sue condizioni di salute: la leggenda della Formula 1 aveva 79 anni. L’ex pilota di Formula 1, Carlos Reutemann, è deceduto all’età di 79 anni presso l’ospedale di Santa Fe, in Argentina, dove era stato ricoverato a causa delle sue precarie condizioni di salute. Nella giornata di mercoledì 7 luglio, l’ex pilota di F1 della Ferrari, Carlos Reutemann, è morto mentre si trovava nel reparto di terapia intensiva del nosocomio argentino di Santa Fe. La degenza in ospedale del 79enne si era resa indispensabile a causa del progressivo aggravarsi delle sue condizioni di salute. Il trasferimento di Carlos Reutemann in ospedale, avvenuto nei giorni scorsi, era stato stabilito in seguito ad alcuni episodi di emorragie gastrointestinali e problemi renali dei quali l’uomo soffriva. Da alcuni anni, infatti, Reutemann lottava contro una grave malattia che lo aveva più volte costretto al ricovero in terapia intensiva. Nonostante gli sforzi dei medici e le cure fornite al paziente, il quadro clinico dell’ex pilota è costante peggiorato fino a decretarne la morte. La scomparsa di Carlos Reutemann è stata annunciata dalla figlia Cora che, attraverso un post apparso sul suo account Twitter, ha voluto salutare per l’ultima volta il padre, scrivendo il seguente messaggio: “Papà è partito in pace e dignità dopo aver combattuto come un campione con un cuore forte e nobile che lo ha accompagnato fino alla fine. Sono orgogliosa e benedetta per il padre che ho avuto. So che mi accompagnerà ogni giorno della mia vita fino a quando non ci incontreremo di nuovo nella casa del Signore”. Soltanto pochi giorni fa, la figlia di Carlos Reutemann aveva smentito alcune indiscrezioni relative alla presunta morte dell’uomo, verificatasi infine nella giornata di mercoledì 7 luglio. Carlos Reutemann è stato un pilota di Formula 1, tra i driver di punta della Ferrari. Il pilota argentino, inoltre, è stato il professionista che si è maggiormente distinto in F1, dopo Manuel Fangio, conquistando la vittoria in ben 12 gare. Nel 1981, poi, fu sul punto di vincere il titolo mondiale con la Williams. Nel momento in cui decise di concludere la sua carriera di pilota, Carlos Reutemann tornò in Argentina e iniziò a dedicarsi alla politica diventando un personaggio particolarmente apprezzato. Nel 1991, infatti, venne eletto come governatore di Santa Fe: incarico per il quale venne rieletto anche nel 1999. Al momento, stava portando al termine il suo quarto mandato come senatore all’interno del parlamento argentino.
· È morto il regista Richard Donner.
Cinema, morto all’età di 91 anni il regista Richard Donner: realizzò Superman e i Goonies. Valentina Mericio il 05/07/2021 su Notizie.it. Il noto regista hollywoodiano Richard Donner si è spento all'età di 91 anni. A lui si devono capolavori come i Goonies, Superman e Arma Letale. Il 5 luglio per diversi aspetti è stato un giorno nero non solo per la televisione italiana, ma anche per il cinema holliwoodiano. Dopo la showgirl Raffaella Carrà si è spento anche il regista Richard Donner all’età di 91 anni. Dalle sapienti mani del cineasta statunitense sono passati infatti alcuni dei film più iconici del cinema mondiale. Dal primo iconico Superman con il mai dimenticato Christopher Reeve, al classico per l’infanzia del 1985 “I Goonies” per passare ad Arma Letale che ha portato tra le stelle del firmamento attori del calibro di Mel Gibson. In anni più recenti è stato il produttore del film X-Men del 2000 e del fortunato X-Men le origini che sono diventati dei veri e propri blockbuster al botteghino. “Steven Spielberg riflette sulla scomparsa di Richard Donner, amico e amato regista di THE GOONIES per Amblin Entertainment, scomparso oggi a 91 anni”, così la Amblin Entertainment nota casa di produzione fondata da Steven Spielberg che con un tweet ha voluto dedicare un pensiero a Richard Donner, morto per cause non ancora note all’età di 91 anni. A confermare la notizia del decesso la moglie Lauren Schulern Donner. Sono moltissimi i fan che sui social hanno voluto ricordare come con la morte di Donner se ne sia andato un pezzo di giovinezza. Opere come Superman, Arma Letale e i Goonies hanno segnato un’intera generazione di persone che hanno vissuto gli anni ’80. E sono proprio gli anni ’80 il periodo d’oro delle produzioni di Donner. Il suo debutto è iniziato sotto i migliori auspici con la pellicola “Sale e pepe – Super spie hippy” nella quale figuravano star di prim’ordine come Sammy Davis Junior. Per arrivare alla consacrazione vera e propria dovremo attendere il primo Superman del 1978 con Christopher Reeve protagonista e Marlon Brando. Arrivano poi i film cult i Goonies, Ladyhawke e soprattutto Arma Letale del 1987 che vede protagonisti Mel Gibson e Danny Glover. In tempi più recenti Donner stava lavorando alla realizzazione del quinto Arma Letale che vede ancora la partecipazione del duo Glover-Gibson. “Questo è l’ultimo. È sia un mio privilegio che un dovere di portarlo a termine. È emozionante, in realtà…. Hahaha! È l’ultimo, ve lo prometto”, aveva dichiarato qualche mese fa al Telegraph.
È morto Richard Donner, il regista dei Goonies e di Superman. Fanpage il 6/7/2021. Donner era noto nel mondo del cinema per aver diretto il primo film di Superman (1978), i famosissimi Goonies oltre ai film di Arma Letale. Richard Donald Schwartzberg, nome di battesimo, è nato nel Bronx il 24 aprile 1930, le cause della morte non sono state rese note. Nel corso della sua carriera ha diretto oltre 25 telefilm e ha firmato, tra i tanti, i Goonies, il primo film di Superman e Arma Letale. Richard Donner è morto a 91 anni, ha fatto sapere Variety dopo che la Donner Productions, società di produzione del regista statunitense, ha confermato la notizia. Donner era noto nel mondo del cinema per aver diretto il primo film di Superman (1978), i famosissimi Goonies oltre ai film di Arma Letale. Richard Donald Schwartzberg, nome di battesimo, è nato nel Bronx il 24 aprile 1930, le cause della morte non sono state rese note. Dopo aver studiato economia e teatro alla New York University, Richard Donner ha iniziato la sua carriera come attore, dedicandosi presto alla regia televisiva per alcuni spot pubblicitari. Negli anni 50 ha iniziato a mettersi dietro la macchina da presa per diversi telefilm, tra i quali il wester Ricercato vivo o morto con Steve McQueen. Donner vanta oltre 25 serie tv, come Get Smart, Selvaggio west, L'isola di Gilligan, L'uomo da sei milioni di dollari, Kojak e lo show per bambini dei Banana Splits. Nell'87 ha prodotto il cult Ragazzi perduti, un mix di horror e genere comico simile a quello dei Goonies. Dopo la regia del primo film The Omen con Gregory Peck e Lee Remick, Donner ha la sua grande occasione con il primo storico film di Superman nel quale comparivano Marlon Brando, Gene Hackman e Christopher Reeve. Nel 1985 ha firmato I Goonies, in collaborazione con Steven Spielberg e Chris Columbus. Ha diretto le saghe di Ultimo figlio, con il Generale Zod come nemico di Clark Kent, e Fuga da mondo bizzarro. Nel 2006, uno dei suoi ultimi lavori, Solo 2 ore, del 2006, con Bruce Willis. Insieme alla moglie Shuler ha prodotto importanti blockbuster del calibro di X-Men (del 2000) che ha incassato 297 milioni di dollari in tutto il mondo e il suo prequel di successo del 2009, X-Men Origins: Wolverine, che realizzò al botteghino 379 milioni di dollari.
Da Ilmessaggero.it il 6 luglio 2021. Lutto nel cinema. Il regista e produttore televisivo statunitense Richard Donner, entrato nella storia del cinema per aver diretto il primo “Superman” con Christopher Reeve, “I Goonies” e i quattro film della saga di “Arma letale” con Mel Gibson, è morto lunedì 5 luglio. Aveva 91 anni. L'annuncio della scomparsa è stato dato dalla moglie, la produttrice Lauren Schuler Donner e dal suo manager. Nato a New York il 24 aprile 1930, Donner iniziò la carriera come attore, recitando piccole parti. Intorno ai 30 anni esordì alla regia dirigendo spot pubblicitari. Il suo primo film per il grande schermo fu “Il leggendario X-15” (1961), con la partecipazione di Charles Bronson, un dramma militare a basso costo che però non ottenne un gran successo, e per questo Donner decise di lavorare in televisione, dirigendo in seguito numerosi episodi di celebri serie come “Ai confini della realtà”, “Il fuggitivo”, “Kojak” e “Cannon”. Risale al 1976 il secondò debutto di Donne al cinema, anno in cui gira il film horror “Il presagio” con Gregory Peck. Ma è solo nel 1978 che il regista ottiene la consacrazione a lungo perseguita e il primo grande successo commerciale: dirige Marlon Brando, Gene Hackman e Christopher Reeve in “Superman”. Ispirato alla storia del celebre fumetto di Jerry Siegel e Joe Shuster, il film vede il giovane “Superman” arrivare sulla Terra e procurarsi un lavoro. Nel 1980 firma “I ragazzi del Max's bar” e nello stesso anno (benché non accreditato) è uno dei realizzatori di “Superman II”. Dopo “Giocattolo a ore” (1982), nel 1985 dirige “I Goonies”, in collaborazione con Steven Spielberg e Chris Columbus, e “Ladyhawke”. Nel 1987 aiuta l'esordiente regista Joel Schumacher a crearsi un nome a Hollywood, producendo il cult «Ragazzi perduti», che unisce le tematiche di film horror alle predilette situazioni alla “Goonies”. Nel 1987 Donner dirige “Arma letale”, con Danny Glover e Mel Gibson, scritto da Shane Black: il film racconta la storia di due poliziotti molto diversi, dei quali Gibson è l'arma letale della situazione. Il successo dell'action movie è così straordinario, che nel 1989 esce “Arma letale 2” dove i due agenti Riggs e Murtaugh sono affiancati per la prima volta da Joe Pesci. Nel 1992 la coppia Glover-Gibson ritorna con “Arma letale 3” e sei anni dopo arriverà il capitolo finale con “Arma letale 4” (1998). Nel 1994 Donner torna a lavorare in tv, girando episodi della serie “I racconti della cripta”. Per il cinema firma “Maverick” (1994), “Assassins” (1995) e “Ipotesi di complotto” (1997). Sul finire degli anni Novanta Donner accantona la regia per dedicarsi alla produzione di serie televisive e pellicole (quali il fortunato “X Men»” del 2000), tornando però dietro la macchina da presa con «”Timeline - Ai confini del tempo” (2003), tratto dal romanzo di Michael Crichton, e “Solo 2 ore” (2006) con Bruce Willis. Nel 2009 ha co-prodotto «”X-Men origins: Wolverine”.
Marco Giusti per Dagospia il 6 luglio 2021. Se ne va a 91 anni Richard Donner, leggendario regista di film di culto come “The Goonies”, non c’è trentenne che non lo conosca a mente, o come il primo “Superman” con Christopher Reeve e Marlon Brando, in realtà anche del secondo, “Superman II”, per non parlare di un classico dell’horror con bambino indemoniato, “The Omen” con Gregory Peck, di “Lady Hawke” con Rutger Hauer e Michelle Pfeiffer, e dei ben quattro strepitoso thriller comedy della saga “Arma letale” con Mel Gibson e Danny Glover che si muovono come Bud e Terence alla ricerca dei cattivi. Donner ha dimostrato, in tantissimi anni di attività, che anche il regista più legato alla serialità, alla praticaccia di tutti i giorni, avendone l’occasione, avrebbe potuto dimostrare di essere non solo un grande professionista, ma anche un vero autore di cinema tout court. Perché “The Goonies” e “Superman” sono oggi riconosciti come grande cinema, non come perfette macchine hollywoodiane. Se c’è anzi uno che, pur crescendoci dentro, non deve molto a Hollywood, è proprio Donner. Oggi lo omaggiano i grandi registi e attori ancora attivi che ben conoscono la sua importanza all’interno del fantasy e del film tratto dai fumetti, come Zack Snyder, Elijah Wood, Mark Hamill, Patty Jenkins o Kevin Feige, che scrive “Richard Donner non solo mi fece credere che un uomo possa volare, mi fece credere che i personaggi dei fumetti possano prendere vita sullo schermo con cuore, humor, umanità e verisimilitudine”. Nato nel Bronx, a New York, nel 1930 si sposta presto a Los Angeles per lavorare nella televisione. Come altri celebri registi che si formarono allora, da Sam Peckinpah a Robert Altman, gira qualsiasi serie e film tv del tempo per ben 16 anni. Si va da “Wanted: Dead or Alive” a “Route 66”, da “The Detectives” a “The Rifleman”, da “Have Gun — Will Travel” a “Combat!”, da “The Man from U.N.C.L.E.” a “Perry Mason”. Senza scordare “Ironside”, “Cannon”, “The Streets of San Francisco”, “Kojak”. Uno dei suoi titoli più famosi del periodo televisivo è l’episodio paurosissimo di “Ai confini della realtà”/“The Twilight Zone” intitolato “Nightmare at 20,000 Feet” con William Shatner su un aereo terrorizzato da un gremlin che se la gode sull’ala dell’aeroplano. Sicuramente ricorderete il bellissimo remake diretto da George Miller con John Lightow in "Ai confine della realtà". Molto stimato dai produttori televisivi non lo doveva essere altrettanto da quelli cinematografici, visto che fino alla fine degli anni ’60 non gli vengono offerti molti titoli interessanti. La sua opera prima al cinema è un film di guerra moscetto, “X-15”, dedicato a una azione eroica del futuro presidente Kennedy. Passano qualcosa come dieci anni e lo troviamo in Inghilterra alle prese con una commedia demenziale con Sammy Davis e Peter Lawford, “Sale e Pepe, super spie hippy”. Non c’entrava proprio nulla con quel film, che avrà un sequel molto più interessante nelle mani di Jerry Lewis regista, “Controfigura per un delitto”. C'entra poco anche con “Twinky”, una commedia romantica alquanto imbarazzante con un Charles Bronson quarantenne che si innamora di una ragazzina inglese di sedici anni, Susan George. In tutto questo rimane però gettonatissimo come regista televisivo. Al punto che quando ha finalmente tra le mani un vero film, come “The Omen”, che gli aprirà davvero le porte di Hollywood e del grande successo popolare, ha già 45 anni e un curriculum televisivo spaventoso. Grazie anche alla musica di Jerry Goldsmith (vincerà l’Oscar) e all’esser riuscito a accaparrarsi Gregory Peck come protagonista, “The Omen” è un horror sbanca al box office e lancia il veterano Richard Donner tra i registi più importanti di Hollywood. Gira così “Superman” e “Superman II”, facendo di Christopher Reeve una vera star, riscoprendo Marlon Brando nel ruolo più pagato di sempre e riuscendo a convincere Gene Hackman a tagliarsi i baffi (dovette farlo anche lui…). Ma soprattutto costruendo il primo vero comic book movie dello schermo funzionante. I contrasti con la produzione porteranno i fratelli Salkind ha cacciarlo da “Superman II” e a rimpiazzarlo con Richard Lester quando ha girato già il 75% del film. Ha girato talmente tanto che riuscirà più tardi a ricostruire una Richard Donner version del film perfettamente autonoma. Ma quello che più importa e che tutti, da Steven Spielberg a George Lucas notano è che Donner è riuscito dove di solito i registi, anche più celebrati fallivano, cioè nel rendere credibile l’uomo che vola con la tutina blu, il mantellino e la S di Superman sul petto. Ci credevi? Sì. E credevi anche a Gene Hackman cattivo assieme al suo vice Ned Beatty. Per non parlare di Marlon Brando…Ma sono belli anche i suoi film successivi, di genere anche totalmente diverso, a cominciare da “Lady Hawke” con Rutger Hauer e Michelle Pfeiffer, grande avventura fantasy romantica tutta girata in Italia, e, soprattutto, a “The Goonies”, su soggetto di Steven Spielberg e grande modello per il cinema avventuroso per i piccoli di tutti gli anni che verranno. Funziona meno “The Toy”/”Giocattolo a ore”, remake americano di una commedie di Francis Veber qui con Richard Pryor e Jackie Gleason. Ma nella commedia, Donner, funziona davvero molto meno che nell’avventuroso o nel fantasy. In questo periodo, assieme alla moglie Lauren Shuler Donner, a cominciare da “Lady Hawke” e “The Goonies”, ha fondato la sua stessa casa di produzione, che darà vita a ben 37 film, non solo suoi come “Free Willy” o “The Lost Boys” e più tardi anche alla saga di “X-Men”. Nel 1987 gira per il produttore Joel Silver e con la sceneggiatura di Shane Black “Arma letale” con la coppia di poliziotti Mel Gibson e Danny Glover in giro per le strade di Los Angeles. Diventerà da subito una bomba al box office. In quel periodo andavano di moda i film con la coppia di poliziotti bianco e nero. Ma Donner riesce a fare del suo film un modello perfetto per tutta la serie che verrà, anche se non è altro che la naturale evoluzione di tante serie televisive poliziesche che ha diretto. Intanto “S.O.S. Fantasmi” con Bill Murray come lo Scrooge di Dickens in abiti moderni. Seguita a girare film di grande successo anche negli anni successivi, “Assassins” con Stallone e Banderas, il bellissimo “Maverick”, il suo unico western cinematografico, “Ipotesi di un complotto”, “Solo 2 ore”, il suo ultimo film girato nel 2006, senza mai perdere quella sua particolare messa in scena, quel senso preciso della struttura di racconto che non possono non soddisfare totalmente qualsiasi spettatore. Anche il più esigente. Non è Lars Von Trier, diciamo, non è Tarkovskij, ma è sempre così piacevole da vedere…
· Addio a Raffaella Carrà: la signora della tv.
(ANSA il 5 luglio 2021) - E' Morta Raffaella Carrà. "Raffaella ci ha lasciati. E' andata in un mondo migliore, dove la sua umanità, la sua inconfondibile risata e il suo straordinario talento risplenderanno per sempre". Con queste parole Sergio Iapino dà il triste annuncio unendosi al dolore degli adorati nipoti Federica e Matteo, di Barbara, Paola e Claudia Boncompagni, degli amici di una vita e dei collaboratori più stretti. Raffaella Carrà si è spenta alle ore 16.20 di oggi, dopo una malattia che da qualche tempo aveva attaccato quel suo corpo così minuto eppure così pieno di straripante energia. Una forza inarrestabile la sua, che l'ha imposta ai vertici dello star system mondiale, una volontà ferrea che fino all'ultimo non l'ha mai abbandonata, facendo si che nulla trapelasse della sua profonda sofferenza. L'ennesimo gesto d'amore verso il suo pubblico e verso coloro che ne hanno condiviso l'affetto, affinché il suo personale calvario non avesse a turbare il luminoso ricordo di lei. Donna fuori dal comune eppure dotata di spiazzante semplicità, non aveva avuto figli ma di figli - diceva sempre lei - ne aveva a migliaia, come i 150mila fatti adottare a distanza grazie ad "Amore", il programma che più di tutti le era rimasto nel cuore. Le esequie saranno definite a breve. Nelle sue ultime disposizioni, Raffaella ha chiesto una semplice bara di legno grezzo e un'urna per contenere le sue ceneri. Nell'ora più triste, sempre unica e inimitabile, come la sua travolgente risata. Ed è così che noi tutti vogliamo ricordarla. Ciao Raffaella.
DAGONOTA il 7 luglio 2021. Prima di essere portata alla Clinica Villa del Rosario di Roma, dov’è morta, Raffaella Carrà era stata ricoverata anche al Policlinico Gemelli. La conduttrice era malata di tumore ai polmoni, e non voleva vedere nessuno, tranne i familiari, gli assistenti e le persone a lei più care, come Sergio Japino. A seguirla nella terapia era stato il professor Paolo Marchetti, uno degli oncologi romani più apprezzati.
Carrà: partito dalla sua casa il corteo funebre. (ANSA il 7 luglio 2021) E' appena partito tra una folla di fan, operatori tv, giornalisti e fotografi, dalla sua casa in un quartiere di Roma Nord, il carro funebre grigio metallizzato che trasporta il feretro di Raffaella Carrà, per il corteo dedicato all'artista e conduttrice che farà tappa in quei luoghi simbolo della Rai, dove è stata tante volte protagonista: l' Auditorium del Foro Italico (largo Lauro de Bosis), la sede Rai di di Via Teulada 66, il Teatro delle Vittorie, la sede Rai di Viale Mazzini 14 fino all'arrivo in Campidoglio (Sala Protomoteca).
Carrà: Applausi ininterrotti all'Auditorium. (ANSA il 7 luglio 2021) Arriva tra gli applausi ininterrotti della gente all'Auditorium Rai del Foro Italico, il carro funebre di Raffaella Carrà, a bordo del quale davanti accanto all'autista c'è Sergio Japino, che ha salutato commosso la folla. "Era la donna del sorriso, il suo modo di fare spettacolo sempre teso a portare emozione" ha detto durante la diretta del Tg1 Milly Carlucci in attesa davanti all'Auditorium. "C'è stata da parte sua la sua grande versatilità nell'adattarsi a un mondo che cambia dalle grandi mise di Colabucci Canzonissima - aggiunge Milly Carlucci - a Pronto Raffaella, con il quiz dei fagioli che ha appassionato l'Italia, fino alle interviste che a dimostrato di saper fare con grande mirabilia su rai3. Era un personaggio a tutto tondo. Ho solo il rimpianto di non averla potuta avere come ballerina per una notte a Ballando con le stelle, poi l'avevamo cercata per il Cantante mascherato, ma non avevamo avuto risposta, evidentemente stava già male" Da parte della gente che l'aspetta "c'è la gratitudine per una persona che abbiamo sentito di famiglia. Con lei c'è stata anche un'evoluzione del ruolo femminile in tv, è partita da soubrette ma oggi era direttore artistico". Raffaella, "ci guarda in questo momento e sorride" conclude Milly Carlucci, commentando l'accoglienza per l'artista e conduttrice.
Carrà: corteo a Via Teulada, l'omaggio dei lavoratori Rai. (ANSA il 7 luglio 2021) Lavoratori e colleghi del servizio pubblico affacciati alle finestre, e sul terrazzo della sede Rai di Via Teulada, hanno accolto, assieme alla folla, tra gli applausi, il feretro di Raffaella Carrà nella seconda tappa del corteo funebre. L'auto, preceduta da agenti della polizia municipale in moto, ha fatto un piccolo giro e si è fermata per alcuni minuti nel cortile interno, tra due ali di persone, per un altro lunghissimo applauso, prima di riprendere il percorso. "Raffaella è stata la protagonista del sorriso in un pezzo di storia italiana. La gente ha anche voglia di distrarsi e lei ha fatto i suoi programmi sempre in maniera intelligente ed alta, senza mai una volgarità - ha detto nella diretta Rai Bruno Vespa che ha atteso il feretro a Via Teulada insieme a Giancarlo Magalli - "Il successo non è regalato, è guadagnato giorno per giorno, a testa bassa e con umiltà. E' la lezione di Raffaella" ha aggiunto il giornalista, che al ripartire del feretro non ha trattenuto la commozione. In collegamento con Rai1 anche Vincenzo Mollica: "Raffaella ha sempre fatto la tv da artista" ha ricordato.
Carrà: corteo funebre al Delle Vittorie. (ANSA il 7 luglio 2021) Il feretro di Raffaella Carrà è arrivato, accolto dagli applausi della folla, con molte persone affacciate anche alle finestre, davanti al Teatro delle Vittorie, nella terza tappa del corteo funebre. Lungo la strada tante le persone che si fermano per renderle omaggio. Davanti al teatro, come nelle precedenti tappe c'è una gigantografia dedicata all'artista e conduttrice, con la scritta, Grazie, Raffaella. "C'è solo da ringraziare il talento straordinario di una signora che continuerà a farci ballare ma che è andata via senza rumore - ha detto nella diretta Rai Flavio Insinna, davanti al Delle Vittorie -. Quando è arrivata la notizia, speravo di aver letto male o che fosse uno scherzo di cattivissimo gusto. E' andata via con il suo stile, con la stessa classe che ci ha regalato in scena". L'applauso "non finirà mai - aggiunge il conduttore - Raffaella ha reso il mondo più bello e leggero". La gente è tanta che l'auto riesce a riprendere il percorso solo dopo qualche minuto.
Carrà: corteo arrivato al Campidoglio, l'accoglie Raggi. (ANSA il 7 luglio 2021) Il feretro di Raffaella Carrà è arrivato in Campidoglio, nell'ingresso accanto alla sala della Protomoteca dove verrà allestita la camera ardente, aperta dalle 18, poi domani 8 luglio e venerdì 9 mattina. Ad accogliere il corteo la sindaca Virginia Raggi che prima di entrare insieme alla famiglia dell'artista e conduttrice ha scambiato qualche parola con Sergio Japino.
Carrà: Corteo a Viale Mazzini. Salini, era modello per Rai. (ANSA il 7 luglio 2021) Raffaella Carrà "oltre al talento metteva in campo dedizione, lavoro e fatica e grandissimo professionismo. E' stata un'artista unica capace di parlare ad intere generazioni, ad essere avanti nel tempo". Lo ha detto nella diretta del Tg1 l'ad Rai Fabrizio salini, che all'arrivo del feretro davanti a Viale Mazzini, ha toccato il carro funebre in segno di omaggio e si è unito al lunghissimo applauso della folla e dei lavoratori Rai. Dall'auto, Sergio Japino a inviato un bacio verso le persone in attesa. Raffaella Carrà "ci mancherà - aggiunge Salini - ma ci piace anche ricordarla con quel sorriso che per lei era vitale. Era un modello e un punto di riferimento, anche per il servizio pubblico. I valori che esprimeva erano quelli che portiamo avanti". "E' un grande momento di tristezza ma anche di unione nazionale - sottolinea in collegamento con il Tg1 il presidente della rai Marcello Foa - Raramente si è vista una commozione così diffusa e trasversale senza nessuna ombra ed è molto bello. Raffaella Carrà sapeva di essere un simbolo e se potesse vederci penso sarebbe contenta di un affetto così autentico, come lei è stata autentica per tutta la vita. Raffaella Carrà ha fatto quasi tutta la sua carriera con la Rai e la Rai le è stata vicino fino all'ultimo". Tra i dirigenti Rai che rendono omaggio all'artista e conduttrice davanti a Viale Mazzini anche i direttori dei canali Rai. "Ho un ricordo di un condensato di allegria e vera vitalità - dice Stefano Coletta, direttore di Rai1che da direttore di rai3, le aveva affidato l'ultimo programma, A raccontare comincia tu -. Avrei voluto riportarla su Rai1, lei ne era felice, ne abbiamo parlato fino a 15 giorni prima della pandemia. Ci siamo scritti fino a un mese fa, quando non ho più ottenuto risposta. Potevamo intuire qualcosa non andasse perché lei era veramente l'antidiva, puntualissima". La sua forza "era la grande determinazione nel capire cosa portare in tv e al primo posto c'erano sempre allegria e serenità. Lei non aveva mai orpelli". Il corteo ha ripreso la marcia verso il Campidoglio dove l'attende il sindaco Virginia Raggi, per la camera ardente.
Valeria Costantini e Ester Palma per corriere.it il 9 luglio 2021. La semplice bara di legno di Raffaella Carrà è entrata puntualmente a mezzogiorno nella basilica di Santa Maria all’Ara Coeli, accolto dalla sindaca Virginia Raggi, da Sergio Japino, dal ministro della Cultura, Dario Franceschini, e dall’applauso del pubblico che seguiva il funerale dal maxischermo in piazza del Campidoglio. Corone di fiori - molti gialli - a forma di cuore e il confalone di Monte Argentario, insieme a decine di colleghi e amici attendevano Raffaella Carrà per l’ultimo saluto. Il feretro è entrato in un silenzio sommesso nella luminosa basilica romana, circondato subito dai fiori lasciati da Japino, che non ha mai lasciato sola la sua ex compagna, e i nipoti della Carrà, seduti nel primo banco insieme alla sindaca di Roma Virginia Raggi. «È un addio che pesa, un dolore che ci attanaglia, - sono state le parole di accoglienza di Frate Simone Castaldi, dell’antica basilica a fianco del Campidoglio da anni accanto a Raffaella nel suo percorso di fede - gli artisti non sanno quanto bene fanno alle persone, ma in questi giorni si è visto quanto affetto ha seminato, un affetto senza colori, nè bandiere». Davanti al maxi-schermo allestito fuori dalla chiesa al centro della Capitale, sono centinaia i cittadini e ammiratori in attesa sotto il sole dell’inizio del funerale dell’artista previsto per le 12. Poco prima si era chiusa la camera ardente poco distante, nella sala della Protomoteca, che per due giorni ha ospitato ininterrottamente l’enorme ondata di affetto per la cantante scomparsa lunedì scorso. Tra le prime file Alessandro Grieco, figlioccio televisivo della Carrà, che saluta tutti commosso, abbracci ed emozioni simili a quelle di Massimo Lopez, Milly Carlucci, Enzo Paolo Turchi e Carmen Russo, tra i primi ad arrivare nella suggestiva chiesa romana. A celebrare la funzione religiosa sono i 4 frati cappuccini amici della Carrà arrivati appositamente dal convento di San Giovanni Rotondo, quello di Padre Pio, di cui la star era molto devota, e Simone C. Sono entrati intanto in chiesa (dove oggi in ossequio al protocollo anti Covid è permesso l’ingresso di 200 persone) anche il ministro della Cultura Dario Franceschini, Roberto Gualtieri, ex ministro e candidato sindaco per Roma e i conduttori Michele Cucuzza e Beppe Convertini. Sono proprio i frati a annunciare il luogo dell’eterno riposo della star: le ceneri e l’urna viaggeranno dopo il funerale fino alla Puglia e poi giungeranno a Monte Argentario, la località in cui la grande donna della tv amava trascorrete la bella stagione. «Noi siano pronti ad accoglierla, è già tutto predisposto per la famiglia», spiega Franco Borghini, sindaco della località toscana. Al centro dell’altare c’è la grande immagine della presentatrice ritratta da Oliviero Toscani insieme a tanti neonati, immagine che già ha accompagnato, durante i due giorni di commiato nella camera ardente in Campidoglio, il feretro della Carrà. Uno dei frati cappuccini dell’altare ha voluto sottolineare sopratutto la grande umanità di Raffaella, la sua «inclusività»: «Vai in pace e goditi il meritato riposo nella fiesta del cielo» il toccante saluto del prelato. «L’Italia si ferma per omaggiare una grande donna, un’icona per il mondo, dotata di un enorme carisma e empatia. Oggi l’Italia si ferma per rendere onore a una grande donna che è stata un’icona del nostro paese, e non solo all’interno dei confini nazionali». Così la sindaca di Roma Virginia Raggi ha reso omaggio a Raffaella Carrà nel corso della cerimonia funebre per l’artista, aggiungendo: «Raffaella ha accompagnato tante trasformazioni del nostro paese, conquiste sociali e culturali ed è riuscita ad entrare nella vita di ciascuno di noi». Commossa anche Lorena Bianchetti, seguito da un applauso che non vuole fermarsi più: «Quando ballava lei la tv sembrava a colori anche quando non lo era. Un simbolo che ha scavalcato un secolo e un millennio. Forse solo ora vediamo ciò che è stata per noi: un regalo». Al termine della funzione religiosa, durato un’ora e 15 minuti, nella basilica e in piazza del Campidoglio sono risuonati lunghi minuti di applausi in omaggio a Raffaella Carrà. E anche i frati officianti sono usciti dalla chiesa per accompagnare sul sagrato la semplice bara e si sono fermati ad applaudire. E dopo i battimani fra la folla è partito il coro sulle musiche delle sue canzoni più celebri, dal «Tuca Tuca» a «Ballo ballo», a «Ma che musica maestro». Un altro modo, stavolta l’ultimo, per dire addio a chi all’Italia, per anni, ha regalato sorrisi e buonumore.
Da liberoquotidiano.it il 20 settembre 2021. Chi era veramente Raffaella Carrà? Della showgirl, cantante e presentatrice scomparsa lo scorso 5 luglio a 78 anni si è detto praticamente tutto. La donna, invece, ha sempre mantenuto un grandissimo riserbo sulla sua vita privata. Ospite di Mara Venier a Domenica In, su Rai1, è Vincenzo Mollica, decano dei giornalisti di spettacolo della Rai, a offrire uno spaccato commovente della personalità della autrice di Fiesta e A far l'amore comincia tu. "Per lei c'erano due cose, nella vita, molto più importanti di tutte le altre", ha esordito Mollica, "la voce" delle recensioni cinematografiche e televisive del Tg1, ricordando l'ultima intervista realizzata alla Raffa nazionale: "In quell'occasione mi disse che per lei erano importanti la salute e la libertà, Raffaella era un essere unico, chiunque l'abbia incontrata non potrà mai dimenticarla perché il suo sorriso apriva un sipario, era una meraviglia". Significativo, e commovente, il fatto che proprio sui suoi gravi problemi di salute la Carrà abbia tenuto tutti all'oscuro. Da mesi lottava con una grave forma di tumore ai polmoni, poi risultato fatale, ma nessuno tranne pochissimi e fidatissimi tra familiari e amici più intimi, ne era a conoscenza. "L'ultima volta che l'ho incontrata fu nel 2018, in occasione dell'uscita di un suo disco con canzoni di Natale, dopo tanti anni voleva dedicare un lavoro ai bambini e ai ragazzi - ricorda ancora Mollica -. Mi disse delle cose bellissime, una su tutte: 'Mi dicono che sono una signora no, ma faccio un programma solo se è una vera sfida e lì ci metto tutta me stessa'. Era di una precisione pazzesca, passammo un pomeriggio insieme bellissimo, in quel disco cantava brani molto importanti. Raffaella era molto spiritosa, simpatica, autoironica: era unica". Di questo, è una consolazione non da poco, se ne sono davvero resi conto tutti, in Italia e non solo.
L'ultimo saluto a Raffaella Carrà tra lacrime e ricordi: "Goditi il meritato riposo". Novella Toloni il 9 Luglio 2021 su Il Giornale. Centinaia di persone hanno dato l'ultimo saluto all'icona della televisione italiana. I funerali dalla Basilica di Santa Maria Aracoeli a Roma sono stati trasmessi in diretta televisiva. L'ultimo omaggio a Raffaella Carrà è arrivato dalla Basilica di Santa Maria in Aracoeli, dove alle ore 12 si sono svolti i funerali della popolare conduttrice. Un tributo composto e rispettoso quello che Roma ha offerto all'icona della televisione italiana scomparsa il 5 luglio dopo una lunga malattia. Sin dalle prime ore della mattinata piazza del Campidoglio si è riempita di centinaia di persone, fan, ammiratori e simpatizzanti, che hanno scelto di essere presenti al funerale di Raffaella Carrà. Giovani e meno giovani, provenienti da tutta Italia e anche dall'estero, che hanno voluto rendere omaggio all'icona dello spettacolo assistendo alla funzione attraverso il maxischermo posizionato nella piazza. Decine le corone di fiori deposte poco fuori e dentro alla Basilica hanno accolto il feretro, scortato dalle forze dell'ordine. Il primo ad accompagnare la bara di Raffaella Carrà in chiesa è stato Sergio Iapino, compagno di una vita della Carrà, che ha chiesto un minuto di raccoglimento per la showgirl. Abbracciato da un lungo e caloroso applauso, il feretro è stato portato all'interno di Santa Maria in Aracoeli, dove hanno trovato posto le autorità, amici e parenti in una capienza limitata a causa delle restrizioni dovute alla pandemia. Ad attenderla nella Basilica, tra gli altri, c'erano i nipoti del fratello prematuramente scomparso e le figlie di Gianni Boncompagni, che la ritenevano una madre e tanti colleghi della televisione e del mondo dello spettacolo. Davanti all'altare la bara di legno grezzo, come richiesto dalla stessa Raffaella Carrà, e la foto della popolare conduttrice sorridente insieme ad alcuni neonati. Gli occhi lucidi e il dolore dei presenti nella Basilica hanno accompagnato la funzione, sobria e concisa - senza canzoni ma solo con l'organo - per volontà della famiglia. Toccanti le parole di frate Simone Castaldi che ha presenziato alla funzione: "Chissà se gli artisti sanno quanto bene fanno alle vite che toccano. Lei lo sapeva, ma se anche avesse avuto dubbi in questi giorni se li è levati, si è resa conto di tutto il bene che ha seminato, un bene senza bandiere e senza colore, come l'abbraccio che le stiamo dando. Aspettiamo di ritrovarci tutti insieme, essendo una festa sono certo che la troveremo là, in prima fila. Lei non è morta, si è spostata solo un po' più in là". Il frate cappuccino durante l'omelia ha ricordato "il talento, la personalità, l'umanità e la bellezza di una donna straordinaria che ha saputo conquistare il cuore di milioni di persone". Poi il saluto finale: "Ciao Raffaella, goditi il meritato riposo nella 'fiesta' del cielo". Dopo il suo ricordo, frate Simone ha annunciato a sorpresa l'ultima volontà di Raffaella, tornare sulla tomba di Padre Pio post mortem: "L'urna di Raffaella compirà un ultimo pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo e poi al monte Argentario". Dopo la funzione, prima che la bara di Raffaella Carrà percorresse per l'ultima volta la navata della Basilica, sono state la sindaca Raggi e la conduttrice Lorena Bianchetti a salutare, con un ultimo toccante messaggio, l'icona della televisione italiana. "Il suo ingrediente segreto - ha detto Virginia Raggi - era il grande carisma. La capacità di trascinare e travolgere con grande carica e simpatia tutti coloro che lavoravano con lei. Tutti possono concordare su un aggettivo che la descrive: indimenticabile. Roma era diventata la sua città e Roma non la dimenticherà. Ciao Raffaella ti vogliamo bene". Lunghi secondi di applausi all'interno della chiesa e in piazza davanti per le parole della conduttrice Lorena Bianchetti: "Quando ballava lei la tv sembrava a colori anche se era in bianco e nero, è stata un'artista che ha saputo rendere un ombelico sensuale e innocente al tempo stesso. Raffaella è stata un simbolo che ha scavalcato un secolo e un millennio, forse solo oggi riusciamo a capire che è stata un regalo per tutti noi ci ha insegnato che cuore passione e libertà scrivono pagine di storia e non solo quella della tv". Parole che hanno accompagnato il feretro di Raffaella Carrà fuori dalla chiesa tra gli applausi e i baci affettuosi delle persone presenti fuori dalla Basilica, che l'hanno omaggiata con un lungo abbraccio virtuale che ha ritardato la partenza del carro funebre. E poi i cori con le sue canzoni e quelle mani dei suoi cari che hanno toccato per l'ultima volta la sua bara in segno di addio.
Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perché non c’è niente di più bello delle cose frivole e leggere che distolgono l’attenzione dai problemi
Raffaella Carrà al funerale compare questa "roba": attimi di gelo e imbarazzo, giudicate voi. Libero Quotidiano il 09 luglio 2021. Il funerale di Raffaella Carrà è stato un momento molto sentito per l’Italia intera, tanto è vero che una gran folla si è radunata dentro e fuori la chiesa di Santa Maria in Ara Coeli di Roma per dare l’ultimo saluto alla regina della televisione italiana. Ammiratori di tutte le età non hanno voluto mancare in un momento così toccante e che ha restituito tutta la grandezza della Carrà, capace di farsi conoscere e amare dai suoi telespettatori come se fosse una di famiglia. Tra la folla c’è però stato un momento un po’ spiazzante quando è apparsa una caricatura un po’ grottesca di Raffaella e apparsa leggermente fuori luogo: ma probabilmente la diretta interessata si sarebbe fatta una risata. Ad aprire la funzione è stato frate Simone Castaldi: “Ci ritroveremo, sarà una festa e lei sarà in prima fila”. Poi l’omelia è stata celebrata da quattro frati cappuccini di San Giovanni Rotondo. All’interno la chiesa è stata adornata con tanti fuori gialli, il colore preferito della Carrà. All’uscita del feretro, molto semplice per volontà della stessa Raffaella, lunghi applausi e un canto collettivo.
Raffaella Carrà “satanista condannata all’inferno”: l’accusa shock sui social. Alice Coppa il 14/07/2021 su Notizie.it. Una pagina social di matrice cattolica ha accusato Raffaella Carrà di satanismo per un suo vecchio brano musicale. Una pagina social dedicata a “Beato Bartolomeo Camaldonese” ha gettato pesanti accuse contro la compianta conduttrice Raffaella Carrà per il testo di un suo vecchio successo intitolato Satana. Mentre l’Italia ancora piange Raffaella Carrà – uno dei volti più noti di sempre per il piccolo schermo – sui social si è diffusa l’infamante accusa di “satanismo” nei confronti della conduttrice da parte della pagina Associazione Beato Bartolomeo Camaldonese, dove si fa riferimento a un vecchio successo della Carrà intitolato Satana. Nel brano la showgirl chiamava “satana” la figura di un uomo di cui lei si sarebbe invaghita pur avendo compreso che lui non sarebbe adatto a lei. Citando la canzone in questione, l’account social ha scritto: “I nostri esperti di demonologia e fenomeni anticristiani, scavando nei trascorsi della cantante in questione, hanno trovato una connessione della stessa con l’adorazione del demonio, si può infatti trovare su youtube un’ode al maligno che la Carrà ha inciso tanto tempo fa. Non escludiamo che il successo della ballerina possa esser frutto di un patto stipulato col diavolo.” Tra i commenti al post in questione in tanti – tra fan della Carrà e non – hanno replicato al messaggio e hanno chiesto la chiusura immediata della pagina. La conduttrice è scomparsa lo scorso 5 luglio dopo aver combattuto contro un tumore ai polmoni. Fino alla fine Raffaella Carrà aveva preferito tenere segreta la sua malattia, e l’annuncio della sua scomparsa è stato dato dal suo compagno di una vita, Sergio Japino, una delle poche persone ad essere a conoscenza del suo stato di salute. La morte della conduttrice ha lasciato l’Italia sotto shock e in tanti tra fan, amici e colleghi le hanno dedicato messaggi e pensieri d’affetto negli ultimi giorni. In tanti hanno avuto da ridire sugli attacchi ricevuti dalla conduttrice dalla pagina di matrice religiosa sui social, specie vista la grande religiosità di Raffaella Carrà. La conduttrice era notoriamente devota a Padre Pio e ai suoi funerali hanno partecipato 4 frati cappuccini che aveva conosciuto personalmente durante uno dei suoi viaggi a San Giovanni Rotondo. “Raffaella Carrà era una donna di grande spiritualità, me lo ha confermato Sergio Japino, che sta seguendo tutti i dettagli della cerimonia, e lei stessa in più interviste ha detto di essere abituata a pregare come le aveva insegnato la nonna”, ha detto il frate Simone Castaldi in merito alla spiritualità della conduttrice.
Raffaella Carrà alla clinica Villa del Rosario, in attesa dei funerali. Carmen Guadalaxara per iltempo.it - articolo del 6 luglio 2021. ''Raffaella Carrà è stata una donna che ha ispirato diverse generazioni con allegria, coraggio e impegno. La sua musica ha reso felici i nostri cuori, il suo spirito libero ha riempito le nostre anime. Riposa in pace mia cara''. Così il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez ha ricordato su Twitter Raffaella Carrà, che era ricoverata da tempo alla Clinica Villa del Rosario nella Capitale. Questa mattina tanti titoli in prima pagina per la nostra amata conduttrice. “Marca", famoso quotidiano iberico d'informazione sportiva, in vista del match di stasera fra Italia e Spagna, ha dedicato il titolo di apertura della propria prima pagina odierna all'attesa semifinale di Euro2020 citando Raffaella Carrà, scomparsa ieri a 78 anni. "Que' fantastica esta Fiesta", si legge sul tabloid spagnolo. Chiaro il riferimento all'album e al singolo del 1977 della showgirl, cantante e ballerina, che era molto popolare non solo in Italia ma anche in Spagna.
Da cinquantamila.it di Giorgio Dell’Arti. Raffaella Carrà, nata a Bologna il 18 giugno 1943 (77 anni). Donna di spettacolo. Cantante. Ballerina. Presentatrice televisiva. Attrice
«È stata la prima icona pop, ma è sempre piaciuta alle casalinghe. Ha rivoluzionato il modo di intrattenere il pubblico, ma poi è diventata la tradizione. È stata famosissima, ma mai diva. È alla mano, ma mai sguaiata. È affettuosa ma, anche, impenetrabile. Ha dato tanto amore, ma non si è mai sposata»
(Irene Maria Scalise, la Repubblica, 6/1/2008)
«Un mito» (J-Ax)
«Una bomba» (Sabrina Ferilli)
«Da bambino ero innamorato pazzo di Raffaella Carrà, perché oltre che bravissima era anche bellissima» (Marco Travaglio)
«Pippo Baudo, ma femmina» (Brunella Giovara)
«Un’opera d’arte, a prescindere dai programmi che fa» (Fabio Fazio)
«Una diva. Una delle pochissime rimaste, forse l’unica vera diva televisiva» (Maria Grazia Filippi)
«È stata dichiarata sito archeologico, si può entrare solo con piccone, casco e guida» (Roberto D’Agostino)
Debuttò in televisione nel 1961 in Tempo di danza, al fianco di Lelio Luttazzi. Nel 1970 partecipò a Canzonissima e divenne famosissima
Ha vinto 12 Telegatti
Ha recitato per il cinema, il teatro e in numerosi sceneggiati televisivi
Prima donna a mostrare l’ombelico in tivù in Italia
Tra le sue canzoni: Ma che musica maestro (1970), Tuca Tuca (1971), Rumore (1974), A far l’amore comincia tu (1976), Tanti auguri (1978), Pedro (1980), Ballo ballo (1982) a presentato un’edizione del Festival di Sanremo (2001), tre di Canzonissima (1970-71, 1971-72, 1974-75), due di Fantastico (Rai 1, 1982-83, 1991-92), una di Domenica in (Rai 1, 1986-87). Tra i suoi programmi televisivi più famosi: Pronto, Raffaella? (Rai 1, 1983-1985); Benvenuta Raffaella (Canale 5, 1987), Carramba! Che sorpresa (Rai 1, 1995-1998, 2002); Carramba! Che fortuna (Rai 1, 1998-2001, 2008-09); Forte forte forte (Rai 1, 2015); A raccontare comincia tu (Rai 3, 2019-21). È stata anche giudice di The voice of Italy (Rai 2, 2013-14, 2016) Ha detto: «Ho più paura che la gente dica: “Ancora lei!”, piuttosto che: “Dove è andata a finire?”». Titoli di testa «Il 45 giri di Raffaella Carrà lo utilizzai per la prima volta in una serata a Modena, allo Snoopy, e il mio amico e dj Nicola Zucchi mi disse: sei pazzo, quella roba lì non va più di moda. E invece…» (Bob Sinclair, cui si deve A far l’amore comincia tu).
Vita «È nata un mese prima di Mick Jagger ma tre mesi dopo di Mario Monti, così giusto per dare un’idea» (Paolo Giordano, Il Giornale, 12/12/2016)
Il suo nome all’anagrafe è Raffaella Maria Roberta Pelloni
«“Mi hanno cresciuto due donne. Tre, contando la nurse inglese: severissima. Mia mamma Angela Iris fu una delle prime a separarsi nel dopoguerra. Non si risposò più. Nonna Andreina era rimasta vedova di un poliziotto originario di Caltanissetta che si chiamava Dell’Utri. Per addormentarmi mi cantava le arie d’opera, piene di disgrazie.
E io: “Nonna, cantami qualcosa di allegro, diobono...”. Le mancava la figura maschile? “Mi vergognavo di non averla. E nascondevo la verità. A scuola, quando mi chiedevano che cosa avevo fatto col babbo nel fine settimana, mi inventavo la qualunque”. Ma lui, il signor Pelloni, dov’era? “Aveva un caseificio a Castelfranco. Con la mamma le cose erano andate male subito. La prima notte di nozze lei l’aveva passata su una poltrona. Ma io non mi arrendevo. Proposi un fioretto a mio fratello Enzo: se mamma e papà tornano insieme, non mangiamo più banane”. E vostra madre? “Se volete che torni con lui, lo faccio, ma sappiate che sarebbe il sacrificio più grande della mia vita”. Ci guardava coi suoi grandi occhi blu, che splendevano su quella pelle bianca da normanna su cui non aveva mai lasciato battere il sole. Fu una freccia al cuore. Non glielo chiesi più”» (Massimo Gramellini, Corriere della Sera, 1/7/2017)
Sua mamma ha una famosa gelateria a Bellaria. «La mia famiglia era molto benestante. È inutile che io racconti la favola della piccola Cenerentola che poi ha avuto successo. No, no, non era così. Per me Bellaria era il luogo della libertà, del profumo delle piadine, della gente per cui sono sempre stata la “fiola della Iris”. Mentre Bologna è il luogo dove ho vissuto, il luogo delle fatiche, del dovere, di queste cose qua insomma»
«In famiglia aspettavamo con trepidazione la vecchina, per noi la vera festa era l’Epifania. Il Natale a Bologna era invece un giorno di scherzi per i bambini. Non ti piacevano le uova? E la mamma ti faceva trovare uova di marzapane nel tegamino, sotto l’albero. E ovviamente dolci. I regali arrivavano il 6 gennaio. Tante bambole, ma non ci giocavo. Preferivo muovere bottoni sul pavimento ascoltando musica classica. Inventavo balletti: volevo diventare una grande coreografa. E avevo un cavallo a dondolo bianco, di cartapesta. Il mio Pegaso» (Stefano Mannucci, Il Fatto Quotidiano, 13/12/2018)
Sogna di diventare una coreografa. «Una vita senza adolescenza: la mattina la scuola e gli studi rigorosi, il pomeriggio il ballo. Un’istitutrice di se stessa. “Diventavo una ragazza normale solo quando l’ estate andavo al mare in Romagna con i miei cugini, quella era ancora l’Italia spensierata”» (Irene Maria Scalise, la Repubblica, 6/1/2008)
A otto anni sono andata via da Bologna. Per frequentare l’Accademia nazionale di Danza, quella di Jia Ruskaia a Roma, all’Aventino. Sacrifici a non finire, esercizi interminabili, ossessioni. Io che stavo sulle punte da quando avevo tre anni. Da rovinarsi i piedi.Poi a quattordici anni la Ruskaia mi dice che avevo le caviglie troppo piccole. E che avrei dovuto studiare fino a 28 anni. Sono scappata via. Mia nonna amava l’arte, il violino, la musica, il teatro. Così feci l’esame per entrare al Centro sperimentale di cinematografia. E il corso per diventare attrice. Ero diventata un’attrice. Ebbi una piccola parte ne La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini»
«In televisione ci sono arrivata dopo un sacco di tempo. E prima ero passata dal cinema»
Suo padre non è contento. «Ogni tanto telefonava per chiedermi se ero ancora vergine, minacciando in caso contrario di togliermi da mia madre e dal centro sperimentale. Ero così terrorizzata da quella spada di Damocle che fino ai 18 anni non mi sono lasciata toccare con un dito…» (Gramellini)
Sua mamma è stata contenta delle sue scelte? “Non era proprio “pro”. Lei voleva la casa, l’architetto, il marito dottore, quelle robe là”. E lei? “Io no. Si nasce anche con un impulso diverso”»
«In Maciste nella terra dei Ciclopi (1961) Raffaella Carrà - molto raccomandata - recita come vestale: è quella che sviene dopo aver toccato Maciste con un dito sul pettorale muscoloso» (Luigi Mascheroni, il Giornale 1/3/2014)
A un certo punto arriva anche a Hollywood, dove gira Il colonnello Von Ryan, assieme a Frank Sinatra. «Frank mi chiamava la signora Von Ryan, era molto cortese e, a quel tempo, aveva voglia di sposarsi. Lo ammiravo, ma ascoltavo i Beatles. I suoi occhi magnetici non mi hanno fatto innamorare». Firma un contratto per altri due film con la 20th Century Fox, ma decide di recedere: trova Los Angeles molto noiosa
«Tutto il cast del film si ritrovava ogni sera nella villa di questo o di quello e passavano la serata a bere e lei si annoiava mortalmente. Stava dieci minuti e poi tornava nella villa che le avevano dato e continuava la serata con sua madre, che l’aveva accompagnata negli States» (Gianni Boncompagni)
«Nel frattempo (nel ’61) […] aveva debuttato in tv, prima a fianco di Lelio Luttazzi, in Il paroliere questo sconosciuto, poi di Modugno, in Scaramouche, iniziando quella scalata che l’avrebbe eletta incontrastata regina del sabato sera della Rai» (Gigi Vesigna, Oggi, 6/6/2013)
Un autore tivù, Davide Guardamagna, stufo di sentirla chiamare Belloni o Palloni dai tecnici, la ribattezza Raffaella Carrà
I parrucchieri Vergottini le preparano un caschetto biondo. Fanno in modo che i capelli tornino perfettamente a posto dopo la mossa con la testa all’indietro. Dicono: «I capelli si devono muovere come gli occhi»
Loris Azzaro le scopre l’ombelico, Corrado Colabucci le fa calzare le zeppe, Luca Sabatelli le mette le spalline agli abiti. Lei dice: «Io non posso vestire questa o quella griffe. Io devo vestire Carrà»
«Si è favoleggiato della rivalità con Mina a Milleluci. “Macché! Era colpa di Antonello Falqui, che se vedeva una lampadina fulminata in fondo allo studio ci faceva ripetere i numeri! Ore e ore così, e noi cantavamo tutto dal vivo. Mina alloggiava all’Hilton e la sera veniva da me a giocare a scopone scientifico. La mia governante le cucinava cavolo al forno. Poi andavo a trovarla a Lugano, lei mi preparava la colazione. C’era feeling. E io non sono buona sul lavoro. Se trovo un collega che non mi piace mi ritiro subito, ma con i grandi non si litiga”» (Mannucci)
«Avrebbe potuto stregare i discografici. Lei è Maga Maghella…“L’avrei soppressa, Maga Maghella!” Ma come? Un’icona per i bambini… “Per me era un inferno cantare quella filastrocca. Non amavo vedermi così piccola, ridotta a una bamboletta. Mi piaceva solo il piedone di Corrado, su cui mi poggiavo. Ma Canzonissima era per tutti, grandi e piccini. Io mi identifico con Rumore, quella è la Carrà!” I balli sfrenati. “Sì, ma quando me li proponevano non ne azzeccavo uno. Bracardi mi propose A far l’amore comincia tu. Gli risposi: Franco, basta con queste sambine…” E Com’è bello far l’amore da Trieste in giù? “Chiedevo a Boncompagni: quelli di Bolzano non si deprimeranno? Lui: mi serviva ritmo. Quanto mi manca”» (Mannucci)
«Ha lasciato fuori il Tuca tuca…. “Adoro il Tuca tuca e ha una storia incredibile. Lo ballai con Enzo Paolo Turci e fu considerato troppo trasgressivo così lo cancellarono dalla televisione”» (Volpe)
«La Rai me lo censurò dopo una puntata, malgrado fosse in cima alle classifiche dei 45 giri. C’era Alberto Sordi che veniva da me e Gianni a giocare con il baracchino. Imitava se stesso, in incognito, e i radioamatori dicevano: “So’ mejo io a fa’ la voce de Sordi!”. Una sera a cena, e c’era pure la Zanicchi, lui mi fa: “Vengo da te a Canzonissima, ma solo se possiamo ballare quella cosa”. Non potevano dire di no a Sordi. Fu memorabile: mi sfiorava i seni con la punta delle dita. Gli sussurrai, dopo: “Albè, stavolta ce cacciano”» (Mannucci).
Amori «Ho avuto due grandi storie d’amore note, con Boncompagni e con Iapino. E altre ignote che non rivelerò mai…»
«Mia madre voleva io sposassi un medico o un architetto, ma che gli raccontavo? Con loro invece c’è stato lo stesso linguaggio»
«Il babbo che cercavo l’ho trovato in Gianni Boncompagni, che aveva 11 anni più di me. Finalmente mi sono rilassata. Per tutta la giovinezza mi era mancata la spalla a cui appoggiarmi»
Boncompagni: «Sono stato con lei dieci anni, tre di più che con mia moglie. Lei era una stakanovista. Io lavoravo molto poco. Lei si arrabbiava perché io guadagnavo il doppio di lei»
«Con Sergio c’è stato un rapporto diverso: lui è più giovane di me (dieci anni meno), capiva e amava le stesse cose mie. Del resto io da bambina volevo fare la coreografa, che è il suo mestiere. C’era un rapporto più giocoso, scherzoso, che poi è diventato amore, e poi per scelte diverse è finito. Ma siamo in ottimi rapporti perché il bene non muore mai»
Anche dopo che le storie d’amore sono finite, la Carrà, Boncompagni e Iapino continuarono ad abitare nello stesso condominio di Roma. «Abbiamo realizzato la vera famiglia allargata»
«È mai stata corteggiata da una lesbica? “Ho molte “fan” femmine che non so se siano femmine. Mai nessuna di loro però mi ha rivolto sguardi di un certo tipo…”» (Gramellini).
Gay «Come si diventa madrina del World Pride 2017 e icona planetaria dei gay? “L’ho chiesto a un amico gay, direttore di una rivista in lingua spagnola: "Que te gusta de mi persona?". Lui mi ha guardato come se fossi una torta al cioccolato: ‘Todo’. La verità è che morirò senza saperlo. Sulla tomba lascerò scritto: ‘Perché sono piaciuta tanto ai gay?’» (Gramellini)
Racconta che tutto è iniziato quando conduceva la prima Canzonissima, quando tanti ragazzi omosessuali le mandavano lettere. Alcuni scrivevano cose come: «Non mi suicido solo perché ci sei tu»
«Non si sentivano accettati specialmente in famiglia. E mi sono chiesta: possibile che esista questo gap tra genitori e figli? Poi nel mondo dello spettacolo ci sono tante persone omosessuali» (Volpe)
«Luca Sabatelli e Corrado Colabucci su tutti: i due stilisti che mi hanno vestito. Luca era così simpatico, colto, intelligente. Poi ce ne sono stati altri, ma niente nomi, perché qualcuno non ha mai fatto outing…».
Molestie «C’è una cura Carrà per gli abusi: lo smataflone. Ovvero, detto in dialetto bolognese, un sonoro ceffone capace di smontare ogni ardore di sopraffazione sessuale. “Davanti a un bestione sudato in accappatoio ci vuole una come me. Io so come reagire, una come Asia Argento, che è una ragazza meravigliosa, non ce la fa, ha dentro un mondo di paure”» (Marco Molendini, Il Messaggero, 15/7/2018).
Figli Il suo più grande rimpianto è di non averne avuti
Quando stava con Boncompagni, con loro in casa c’erano le tre bimbe di lui. «Non mi sono mai sostituita alla loro mamma, ma sono stata per loro un’amica e una confidente. Ancora oggi è così»
«Ho perso un fratello a 56 anni di tumore e gli ho promesso che avrei fatto da babbo ai suoi figlioli»
«La dimensione genitoriale, in fondo, si può vivere in tanti modi. Io, per esempio, non ho mai smesso di adottare bambini a distanza. Ogni anno mi arrivano le loro foto e vederli crescere mi rende felice»
«Il destino non mi ha lasciato sola».
Politica «Anche io ho il mio partito, il partito della gente. E allora i politici ci hanno sempre pensato due volte prima di andare contro i milioni di persone che mi aspettano davanti allo schermo». In passato ha detto di stimare Emma Bonino, Fabrizio Barca e Walter Veltroni. Nel 2013, disse di condividere le idee di Beppe Grillo: «Oggi credo nella sua rivoluzione e spero che la porti avanti».
Psicanalisti Non ci è mai andata. «Mi sarei messa a ballare sul lettino, ho fatto da sola».
Religione «Lei è credente?
“A modo mio. Sono sicuramente una persona molto spirituale e prego tanto”» (Volpe)
«Il mio rapporto con i preti è molto emiliano».
Vizi «Ho un unico vizio e sono le sigarette, che facciano male me ne frego. Del resto mio fratello non aveva mai fumato e in quattro mesi è morto di cancro ai polmoni».
Calcio «Tifo Juve e Real Madrid, però ammiro il Barcellona» (a Franco).
Curiosità È alta 1 metro e 68
«Perché indossa quei guantini di pelle nera tra il fetish e il motociclista? “Ah ah, è un’invenzione di Luca Sabatelli, il mio costumista e pare che abbiano avuto un gran successo”» (Fumarola)
A Sanremo, una volta, indecisa su quali paia di scarpe mettersi, se ne portò dietro quaranta
Superstiziosa
Ha una dieta tutta sua: mangia solo una volta al giorno da lunedì a venerdì, nel fine settimana ha libertà assoluta
La vigilia di Natale mangia sempre pasta con il tonno perché Mastroianni le spiegò che porta fortuna
Fa ginnastica: «piccoli movimenti giusti per tenere il corpo sempre in stretch»
Guarda poco la televisione («Troppe tragedie e ripetizioni nei programmi»), preferisce andare a teatro o al cinema
A ogni pausa di lavoro gioca a tresette
Le piace molto anche scopone scientifico
«Ho un debole per il Giro d’Italia. Mi ha contagiato uno zio, bartaliano. Da allora non mi sono più staccata»
Ha il dentista a Madrid
Ha pensato di scrivere un’autobiografia. «Mi piacerebbe sciogliere alcuni luoghi comuni sul mio conto. Ma se penso che dovrei andare a promuoverla in giro, allora preferisco non scriverla proprio!»
«Sarei una pigra ma poi il desiderio di arrivare sempre preparata mi ha corretto il carattere»
«Cosa le fa paura? “L’intrigo, l’ipocrisia, la menzogna. L’italiano è un popolo pacifico, generoso, non cambiamolo con cattivi esempi”» (Fumarola)
«Ho l’ansia da prestazione come Fiorello per questo tendo a lavoricchiare una tantum e a fare qualcosa che mi incuriosisce. Alla mia età non mi metterei al lavoro su un progetto lungo, non voglio vivere nell’ansia, voglio sentirmi libera perché è da quando ho 15 anni che galoppo»
«Pippo Baudo dice che la Rai è moribonda. “Lui ha tirato fuori tantissimi personaggi, è un talent scout illuminato. Ha una voglia pazzesca di fare un programma, soffre di stare fuori dalla tv”. Ma la tv come sta? “Credo che in questo momento abbia un difetto grandissimo di base: la preparazione di un programma avviene in due-tre settimane.
Neanche il Mago Bakù riuscirebbe a fare bene le cose in così poco tempo”» (Franco)
«Perché non si fanno più grandi show come una volta? Volontà politica? O tempi diversi? “Di certo, in questi anni ho lavorato con i giovani, e ce ne sono di talentuosi. Ma dove possono mostrare di saper cantare, ballare, affrontare scene brillanti? Forse nei teatri. La tv non valorizza più una soubrette, una che duri. Ai tempi d’oro il segreto era togliersi di mezzo, ogni tanto. Non inflazionare lo schermo. Non puoi rischiare che la gente, vedendoti tutti i giorni, pensi: ancora la Carrà? Devono desiderarti”» (Mannucci)
All’inizio non voleva concedere i diritti di A far l’amore comincia tu per La Grande Bellezza. «Pensavo ai soliti 20 secondi in un film commerciale, non avevo capito si trattasse di Sorrentino»
«Quando il film ha vinto l’Oscar ero gonfia come un pavone. Era un po’ come se lo avessi vinto anche io».
Titoli di coda Quando a Fruttero e Lucentini, che amavano la prosa di Gabriele D’Annunzio, chiedevano: «Ma oggi andrebbe ospite della Carrà?», rispondevano: «Ma sarebbe lui la Carrà!».
NOSTRA SIGNORA DELLA TV, UN SUCCESSO SENZA FINE. Dal Tuca tuca con Sordi al remix di Sinclair. Figura incancellabile. Per Raffaella il lavoro era la vita. Marco Molendini su Il Quotidiano del Sud il 6 luglio 2021. Carramba, che lutto: se ne vanno i resti di un bianco e nero glorioso, il caschetto biondo che ha dominato la televisione per decenni, il Tuca tuca colossale con Alberto Sordi, l’ombelico che scandalizzava i bacchettoni, la sua risata fragorosa, il vaso con i fagioli di Pronto Raffaella? La sua pignoleria maniacale, il suo stakanovismo, il suo spirito da fondista, il gusto di fare tv all’americana, oggi si fa solo una tv dei fatti nostri, dove tutto è chiacchiera e distintivo. Raffaella Carrà se ne va senza un perché, riservata anche nella malattia che l’aveva colpita da tempo. È scomparsa in silenzio salutando con il messaggio sintetico di Sergio Japino che ha annunciato la sua morte rimasta sospesa in un caldo pomeriggio di luglio. Non la sentivo da prima dell’esplosione del Covid. Qualche tempo fa avevo visto una foto che circolava sul web di lei coi capelli bianchi incolti priva del classico caschetto senza il quale non apriva neppure la porta. Strano, sapeva quanto valeva il peso della sua immagine. Sicuramente, anche nella malattia, non aveva alcuna intenzione di arrendersi, lei che aveva sempre considerato la vita sinonimo di lavoro. Anche all’amore era rimasto uno spazio ristretto e coincidente: amore e lavoro. La sua vita sentimentale ha dato spazio solo a due riferimenti maschili, Gianni Boncompagni e Sergio Japino. Non faceva nulla senza sentire Boncompagni, compagno storico e dirimpettaio di terrazza nella casa di via Nemea e all’Argentario. Quando se ne è andato rimase in silenzio, rispettosa. Eppure era un dolore da gridare. Quel giorno di quattro anni fa, forse, se ne è andato anche un pezzo di lei. Non faceva nulla neppure senza sentire Japino, anche se Sergio da tempo era sposato con un’altra donna. In un certo senso è rimasta fedele ai suoi uomini, una biografia sentimentale da bacchettona nel mondo dello spettacolo. Eppure ai tempi si diceva che avesse avuto un flirt con Frank Sinatra sul set del film Il colonnello von Ryan. Naturalmente non lo ha mai ammesso, solo che a fine riprese The Voice le regalò una collana di perle con la chiusura in smeraldo. Una volta gliel’ho chiesto e lei ha risposto con la solita risata: «No, i suoi occhi magnetici non mi hanno fatto innamorare. E se io non mi innamoro, niente da fare». Inutile fare speculazioni, restano Gianni e Sergio. Ai tempi di Sinatra Raffaella non era neppure bionda, faceva cinema da quando era una bambina. Bionda è diventata con il restyling di Boncompagni e con la sua trasformazione in showgirl, star della tv e cantante di successo sempre grazie ai pezzi scritti da quel mago di Gianni. Così ha imboccato il viale di un successo senza fine, che resiste con la sponda della Spagna, del mondo gay che la elegge a icona, e resiste anche al periodo di oscuramento della Rai, quando i progetti che continuava a presentare indomita venivano bocciati. Ma Raffa è rimasta sempre Raffa, con la sua figura incancellabile, con le sue canzoni, destinata a rivivere con il remix di Bob Sinclair di Com’è bello far l’amore che spopola nelle discoteche e che Paolo Sorrentino sceglie per dare fuoco a una delle scene migliori del suo La grande bellezza. «Un po’ del suo Oscar è anche mio» si era lasciata sfuggire. Ma così per ridere, come avrebbe fatto Gianni. E poi ha accettato di lavorare su Rai 3, era contenta comunque con il suo programma di incontri con personaggi celebri, anche se poi aveva rinunciato a mettere in piedi una terza serie. Lei personaggio ultranazionalpopolare (il Guardian, non molto tempo fa, l’aveva dipinta così: «Gli svedesi amano gli Abba, gli italiani la Carrà») sulla rete meno nazionalpopolare della tv pubblica. C’era un tempo in cui, scrivendo di lei, prendendola un po’ in giro la chiamavo Nostra signora della tv. Erano i tempi del grandissimo successo tutto lacrime e agnizioni di Carramba che sorpresa. Lei rideva poi mi ringraziava. Era fatta così Raffaella, allenata alla scuola del successo dall’intelligenza ironica di Gianni Boncompagni. Siamo diventati amici, eppure l’avevo brutalmente presa di mira ai tempi del programma Buonasera Raffaella, dove la sua personalità strabordava e lo show venne messo sotto inchiesta per le spese esorbitanti nell’ingaggio di grandi star. Eppure non si era offesa. Scuola Boncompagni. Gianni aveva provato ad allenarla alla sua filosofia del distacco, in parte c’era riuscito, ma la verità è che Raffaella sul lavoro non sapeva scherzare, per lei era la vita.
LA PLAYLIST - 10 tra le più celebri canzoni di Raffaella Carrà. Maria Assunta Castellano su Il Quotidiano del Sud il 6 luglio 2021. È stata la regina indiscussa della televisione, indimenticabile il suo caschetto biondo e la sua risata. Così come nel cuore di tutti rimarranno le sue canzoni. 23 i dischi pubblicati, le cui tracce hanno fatto il giro del mondo. Qui una selezione di dieci tra i brani più celebri di Raffaella Carrà che ieri 5 luglio si è spenta lasciandoci il suo bellissimo ricordo.
MA CHE MUSICA MAESTRO
Questa canzone rappresenta in assoluto il suo esordio. Pubblicata nel 1970, è la sigla del programma tv “Canzonissima” che la stessa Raffaella Carrà ha condotto assieme a Corrado. Della sigla inoltre, la Carrà ne ha curato anche la coreografia.
TUCA TUCA
Quando si parla di Raffaella Carrà è inevitabile il ricordo del “Tuca tuca”. Uscito nel 1971, a un anno di distanza dal suo esordio, il testo fu scritto da Gianni Boncompagni e la musica da Franco Pisano. Chiunque conosce il balletto di questa canzone, eseguito per la prima volta assieme al ballerino Enzo Paolo Turchi, ma la coreografia porta la firma di Don Lurio.
CHISSA’ SE VA
È stata la sigla di “Canzonissima” nel 1971, programma presentato ancora una volta da Corrado e dalla stessa Carrà; ed è uno dei brani più popolari dell’artista. Scritto da Castellano e Pipolo assieme a Franco Pisano, fu un grande successo e raggiunse la seconda posizione dei singoli più venduti.
RUMORE
È il 1974 e Raffaella Carrà con questo brano anticipa la disco dance, genere che spopolerà poi negli anni successivi. Il disco ha venduto più di dieci milioni di copie e rappresenta uno dei più grandi successi dell’artista. Qui comincia anche la sua ascesa internazionale. “Rumore” infatti, è stato pubblicato in altre tre versioni: inglese, spagnola e tedesca. Del brano ne esiste una nuova versione dance remixata, pubblicata dalla stessa Carrà nel ’91.
A FAR L’AMORE COMINCIA TU
Questa canzone è forse tra i successi più grandi di Raffaella Carrà, non solo in Italia ma anche nel resto del mondo. Pubblicata nel 1976 è stata di recente remixata anche da Bob Sinclair. La nuova versione del dj francese è inoltre presente nel film “La Grande Bellezza”, oscar nel 2013 come miglior film straniero.
FORTE FORTE FORTE
Scritta per lei da Cristiano Malgioglio, è la canzone che dà il titolo all’album del ’76 in cui è contenuta anche “A far l’amore comincia tu”. Ripresa poi nel 2015 ancora una volta dal dj Bob Sinclair, il remix si è tramutato in “Forte”. La nuova versione è diventata la sigla del programma “Forte forte forte”, talent show del 2015 prodotto da Raffaella Carrà e Sergio Japino.
FIESTA
È il 1977 e Raffaella Carrà è nota oramai in tutto il mondo. Ma è la Spagna soprattutto a tessere le lodi dell’artista. Non sarà un caso dunque, se proprio in questo anno esce “Festa”, poi diventato “Fiesta”. Brano scritto ancora una volta da Gianni Boncompagni, assieme a Franco Bracardi, Paolo Ormi ed Escolar. La versione in lingua spagnola, ovviamente, è molto popolare ancora oggi in tutti i paesi latini. La canzone inoltre, è diventato un vero e proprio inno della comunità Lgbtq+.
TANTI AUGURI
Un anno dopo, nel 1978, esce “Tanti auguri”. Una canzone impossibile da non conoscere, così come il suo balletto. Indimenticabile il verso “Com’è bello far l’amore da Trieste in giù”, e così il suo casqué subito dopo il “Tanti auguri”. Il brano divenne inoltre anche la sigla del varietà “Ma che sera”.
PEDRO
Arrivano gli anni ’80 e con essi anche “Pedro”. Un brano che descrive l’avventura di una ragazza in vacanza a Santa Fe, dove si innamora di Pedro. Il ragazzo più bello e “per benino” che inizialmente si offre di farle da Cicerone e poi diventa il suo amante. Particolare è la linea melodica di questo brano che, a quanto pare, sarebbe la versione ritmata della “Siciliana” di Bach.
BALLO BALLO
“Ballo ballo ballo da capogiro!” Chi non ha mai cantato questa strofa? Anche questo brano infatti, è tra i più celebri del caschetto biondo della tv. Pubblicato nel 1982, è la sigla di “Fantastico” ed è contenuto nell’album Raffaella Carrà 82 assieme ad un’altra celebre canzone: “Che dolor”.
A RACCONTARE COMINCIA FIORELLO. Dagospia il 5 luglio 2021. (...) Lo showman siciliano ricorda il suo ‘imprinting artistico’ nella prima puntata del nuovo programma di Raffaella Carrà “A raccontare comincia tu”. “La svolta fu l’imitazione di Raffa. Facevo l’animatore nei villaggi, una sera in platea c’erano anche i miei genitori, allibiti nel vedermi nei panni della Carrà. Avevo la parrucca, le gambe da calciatore e cantai ‘Ballo ballo’. Alla fine dell’esibizione, mio padre guardò mia madre e disse: “Tuo figlio, quello è tuo figlio”.
Marco Molendini per Dagospia il 5 luglio 2021. C'era un tempo in cui, scrivendo di lei, prendendola un po' in giro la chiamavo Nostra signora della tv. Erano i tempi del grandissimo successo tutto lacrime e agnizioni di Carramba che sorpresa. Lei rideva poi mi ringraziava. Era fatta così Raffaella, allenata alla scuola del successo dall'intelligenza ironica di Gianni Boncompagni. Siamo diventati amici, eppure l'avevo brutalmente presa di mira ai tempi del programma Buonasera Raffaella, dove la sua personalità strabordava e lo show venne messo sotto inchiesta per le spese esorbitanti nell'ingaggio di grandi star. Eppure non si era offesa. Scuola Boncompagni. Se ne va Nostra signora della tv e se ne va per sempre un pezzo grande della tv. Se ne vanno i resti di un bianco e nero glorioso, il Tuca tuca colossale con Alberto Sordi, il suo ombelico che scandalizzava i bacchettoni, il suo caschetto che ha dominato la televisione per decenni, la sua risata fragorosa, il vaso con i fagioli di Pronto Raffaella?, la sua pignoleria maniacale, il suo stakanovismo, il suo spirito da fondista, inarrestabile macchina da spettacolo che Gianni aveva battezzato Raffica, il gusto di fare tv all'americana, oggi si fa solo una tv dei fatti nostri, dove tutto è chiacchiera e distintivo. Se ne va a soli 78 anni senza un perché, riservata anche nella malattia che, così viene detto, l'aveva colpita da tempo. E' scomparsa in silenzio salutando con il messaggio sintetico di Sergio Japino che annuncia la sua morte in questo caldo pomeriggio di luglio. Mi dispiace, non la sentivo da prima dell'esplosione del covid. Qualche tempo fa avevo visto una foto che circolava sul web di lei coi capelli bianchi incolti senza il classico caschetto senza il quale non apriva neppure la porta. Strano. Ha scelto la riservatezza, come aveva fatto quando se ne è andato Boncompagni, l'altro suo uomo: rimase in silenzio, rispettosa. Eppure era un dolore da gridare. Forse se ne è andato anche un pezzo di lei quel giorno di quattro anni fa. Non faceva nulla senza sentire lui, compagno storico e dirimpettaio di terrazza nella casa di via Nemea e all'Argentario. E non faceva nulla senza sentire Japino. La sua vita sentimentale aveva solo quei due riferimenti maschili, una biografia sentimentale da bacchettona nel mondo dello spettacolo. Eppure ai tempi si diceva che avesse avuto un flirt con Frank Sinatra sul set del film Il colonnello von Ryan. Naturalmente non lo ha mai ammesso, solo che a fine riprese The Voice le regalò una collana di perle con la chiusura in smeraldo. Una volta gliel'ho chiesto e lei ha risposto con la solita risata: «Lo ammiravo, ma nella mia roulotte ascoltavo i Beatles. No, i suoi occhi magnetici non mi hanno fatto innamorare. E se io non mi innamoro, niente da fare». Inutile fare speculazioni, restano Gianni e Sergio. Amore e lavoro. Ai tempi di Sinatra Raffaella non era neppure bionda, faceva cinema da quando era una bambina. Bionda è diventata con il restyling di Boncompagni e con la sua trasformazione in showgirl, star della tv black and white, ma anche cantante di successo sempre con gli uffici di quel mago di Gianni. E così ha imboccato il viale del successo senza fine, che resiste con la sponda della Spagna, del mondo gay la la legge a icona, e resiste anche al periodo di oscuramento della Rai, quando i suoi progetti che continuava a presentare indomita venivano bocciati. Ma Raffa è rimasta sempre Raffa, con la sua figura incancellabile, con le sue canzoni destinata a rivivere il remix di Bob Sinclair di Com'è bello far l'amore che spopola nelle discoteche e che Paolo Sorrentino sceglie per dare fuoco a una delle scene migliori del suo La grande bellezza. «Un po' del suo Oscar è anche mio» si era lasciata sfuggire. Ma così per ridere, come avrebbe fatto Gianni.
Marco Giusti per Dagospia il 5 luglio 2021. L’avevamo appena vista celebrata nello scatenato “Ballo Ballo”/“Explota Explota”, opera prima dell’uruguayano Nacho Alvarez interamente dedicato ai suoi successi degli anni ’70 e al ruolo che ebbe in una Spagna che cercava di uscire dall’oscurantismo franchista, dove appariva in un buffo cammeo finale al Colosseo proprio a sorpresa negli ultimi minuti del film. Un cammeo che rimarrà, ahimé, anche la sua ultima apparizione sul grande schermo. Ma già avevano riscoperto la sua forza tante serie tv di mezzo mondo, dalla francese “En tout cas” all’inglese “Trust” alla spagnola “Pasapalabra”. Per non parlare della fondamentale citazione di “A far l’amore” che in qualche modo apriva, già nel trailer, “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino. E nessun’altra avrebbe saputo esprimere meglio di lei tutta la follia del mondo cafonal romano. Le cose, per quanto riguarda il cinema, sarebbero andate in maniera totalmente diversa se Raffaella Carrà avesse magari accettato il ruolo della protagonista di “I pugni in tasca” di Marco Bellocchio. Ma è curioso che proprio il cinema, che l’aveva formata fin da ragazzina, quando si chiamava ancora Raffaella Pelloni, con piccoli ruoli, poi con ruoli maggiori ma non così significativi, tra peplum, film di guerra, sceneggiati, l’abbia infine celebrata per tutto quello che era diventata nella musica e negli show televisivi. Cioè per la Raffa che tutti abbiamo conosciuto dopo. Eppure, i fan lo sanno bene, la Carrà ha cominciato prestissimo a muoversi nel cinema, addirittura da bambina nel 1952 con “Tormento del passato” di Mario Bonnard, poi con “Caterina Sforza, la leonessa di Romagna di Giorgio Walter Chili, molto a fianco della protagonista, l’allora emergentissima Virna Lisi, o con “Valeria ragazza poco seria” di Guido Malatesta dove è addirittura a fianco di Gabriella Pallotta, che non decollerà mai da protagonista. Per imparare a recitare, giustamente, si iscrive e si diploma al centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, e grazie a questo la troviamo in film molto seri, come “Il peccato degli anni verdi” di Leopoldo Trieste e, soprattutto, nell’ultra drammatico “La lunga notte del 43” di Florestano Vancini tratto da un racconto di Giorgio Bassani. E’ allora che potrebbe tentare la carta del cinema d’autore, ma finisce invece nel calderone dei peplum italiani dei primissimi anni ’60 in ruoli di ancella, vestale, non certo di regina cattiva o di fatalona di turno. Eccola in “La furia dei barbari” di Guido Malatesta con Edmund Purdom e Rosanna Podestà, in due Maciste diretti da Antonio Leonviola, “Maciste nella terra dei ciclopi”, cultissimo con il forzuto Gordon Mitchell e la fatale danzatrice cubana Chelo Alonso, capace di travolgere qualsiasi maschio del tempo, e “Maciste l’uomo più forte del mondo” con Mark Forrest e Moira Orfei. Certo, di fronte a due star del glam exotic anni ’60 come le scatenatissime Moira e Chelo, la giovane Raffaella, che ha poco preso il nome di Carrà, ha solo da imparare. E imparerà in fretta. Anche se deve ancora smaltire una massa di film storici e mitologici, “Ulisse contro ercole” di Mario Caiano con Georges Marchal e Mike Lane, un “Ponzio Pilato” di Irving Rapper con Jean Marais, Jeanne Crain e Basil Rathbone, dove è difficile farsi notare, e un “Giulio Cesare conquistatore delle Gallie” diretta dal king of B’s Tanio Boccia con Cameron Mitchell, dove interpreta il ruolo di Publia. E’ il suo ultimo peplum, per fortuna. Esce dal genere senza grandi rimpianti. Ma non le va meglio con “L’ombra di Zorro”, né con “I Don Giovanni della Costa Azzurra”, dove finisce per avere il ruolo della cameriera. Meglio allora nei film più seri, come “Il terrorista” di Gian Franco De Bosio con Gian Maria Volonté o “I compagni” di Mario Monicelli, dove riesce a ritagliarsi un ruolo almeno simpatico. Ma non è ancora la Carrà che conosciamo noi. Le va meglio con “L’amore e la chanche”, film a episodi di coproduzione italo-francese, dove recita diretta dal raffinato Charles Bitsch, toccando di striscio la Nouvelle Vogue. Ancora meglio come “Ortensia” nel celebre sceneggiatone tv di Sandro Bolchi “I grandi camaleonti”, che è forse il suo ruolo maggiore prima di arrivare al suo film che tutti i fan conoscono, “Il Colonello Von Ryan” di Mark Robson, girato in Italia, con Frank Sinatra protagonista. L’unico ruolo femminile del film. Nei giornali americani del tempo, leggo che Mark Robson la scelse vedendola in uno show a fianco di Marcello Mastroianni, ovviamente “Ciao Rudy!”, kolossal da 150 milioni di lire di Garinei e Giovannini al Sistina, dove aveva il ruolo di Margie, ballerina di Al Jolson, ma l’ha messa sotto contratto solo dopo che il “fine occhio italiano” di Sinatra ha dato la sua approvazione. Per i giornalisti Raffaella, allora ventunenne, ha qualcosa sia di Audrey Hepburn che di Sophia Loren. Le sue misure sono 38-25-37 (altro che il #metoo). Un giornalista cerca di intervistarla, ma scopre che non parla granché bene inglese e termina il suo articolo dicendo che “l’americanizzazione di Miss Carrà è ancora da venire. Lei è deliziosamente, totalmente, assolutamente straniera”. Si narra, certo, che Frank Sinatra fosse impazzito per lei. Max Turilli, buffo caratterista romano che aveva sempre i ruoli di tedesco, mi disse che ospitava i due a casa sua. Vero? Falso? Chissà? A Hollywood andò davvero, però. E era tra le poche che potesse parlare direttamente con Sinatra. Certo, l’aver preso parte a un grande film americano le aprì altre porte. La troviamo a fianco di Domenico Modugno nello sceneggiato musicale tv “Scaramouche”, primo passo verso il grande successo televisivo. E’ la protagonista del film di Steno “Rose rosse per Angelica”, dove si tentò di farne una nuova Michéle Mercier a fianco di Jacques Perrin. Diventa poi Aura, aliena sexy e bionda scesa sulla terra, in “Il vostro super agente Flit”, opera prima di Mariano Laurenti, dove recita a fianco di Raimondo Vianello in una buffissima parodia del Flint di James Coburn. Anche lì, si narra di una storia con Vianello. L’unica che sia mai stata attribuita all’attore. Non sembra però capitalizzare il successo di “Von Ryan”, perdendosi tra film di coproduzione, come “il Santo prende la mira” del vecchio Christian-Jaque con Jean Marais, o la commedia erotica italo-tedesca “Professione bigamo” di Franz Antel dove è una delle due donne sposate a Lando Buzzanca, il bigamo del titolo, l’altra è Teri Tordai, più celebre come Susanna. Era quasi terribile, e poverissimo, il film di guerra italo-spagnolo “Sette eroiche carogne” di José Luis Merino con Guy Madison e Stelvio Rosi. Ha però un buon ruolo a teatro e in tv nella commedia “Del vento tra i rami del sassofrasso” coi vecchi Gino Cervi e Elsa Merlini. Lì si narra di una storia con Massimo Foschi, che aveva il ruolo di un aitante indiano. Il suo ruolo maggiore e più spinto prima del quasi addio al cinema è il noir tratto da un giallo di Giorgio Scerbanenco “Il caso Venere privata” diretto dall’ottimo Yves Boisset, dove è Gabriella, che morirà dopo una serie di pose sadomaso che ogni bravo cinéphile cresciuto in quel periodo ricorda perfettamente. Vederla nuda, in pose non da prima serata tv ci fece davvero colpo, perché contemporaneamente stava esplodendo come soubrette. E lì era proprio un’altra cosa. Altro che Maga Maghella. Nei primi anni ’70 lascia proprio il cinema, a parte un ruolo nella serie di “Arsenio Lupin”. In fondo, il cinema le aveva dato poco, pochissimo, rispetto a tutto quello che le avrebbero dato i grandi show televisivi e perfino la pubblicità, un percorso che la vedrà attivissima per tutti gli anni ’70, prima diretta addirittura da Richard Lester, e poi chiamata a chiudere per sempre il programma alla fine del 1976. Per non parlare poi degli spot per Scavolini…Ritornò, distrattamente, al cinema e alle serie con “Barbara” diretto da Gino Landi nel 1980, dove fa un po’ se stessa, e nella serie della Rai “Mamma per caso” nel 1997 che vedemmo tutti distrattamente. Ma è solo grazie alla continua riscoperta del mito Carrà in questo ultimi vent’anni che il suo culto troverà nel cinema e nelle serie tv la giusta consacrazione.
Chiara Maffioletti per il "Corriere della Sera" il 6 luglio 2021. «Raffaella era come un'azienda dell'elettricità: trasmetteva energia». Il destino di Piero Chiambretti si è incrociato diverse volte con quello di Raffaella Carrà. Tutte memorabili. C' è il Sanremo che avrebbe dovuto condurre con lei, poi sfumato. «E un altro dove non ci dovevo essere e invece sono diventato suo compagno di avventura. È successo nel suo Festival del 2001: ero stato invitato in giuria poi, con la complicità di Japino, mi ero inventato uno spazio in cui invitavo dei cantanti neomelodici per presentare - in contemporanea con il Festival di Raffaella - quello della canzone napoletana».
Davvero lei non lo sapeva?
«No, assolutamente. Ma dopo un primo sbandamento diventò un appuntamento fisso: venni annoverato tra i conduttori del Festival».
Quale era stata la reazione di Raffaella?
«Aveva reagito con le risate che la toglievano sempre dall' imbarazzo. Era una grande artista, si capiva che era nata per fare questo mestiere, non poteva fare altro. Aveva una tale passione che il lavoro non era mai un peso ma un piacere. Ci ho anche litigato...».
Quando?
«Abbiamo presentato una serata dei palinsesti Rai, a Cannes. Ero giovane e un po' esuberante e lì feci molte battute, uscii dal seminato. Ci fu un attimo di tensione ma una settimana dopo mi chiamò, dicendomi: "Ho capito perché ti sei comportato così: eri preoccupato". Le ho detto che era vero anche se non era così».
Non era dunque una persona che portava rancore?
«No, no, mai. In trent' anni ci ho lavorato alcune volte e tutte sono state magiche. Il nostro fil rouge era Boncompagni, con cui avevamo in comune una certa ironia. Ma la particolarità di Raffaella era l'energia incredibile».
In cosa si distingueva?
«Quando si diventa icone c' è una luce che è tipica. Lei è tra le poche persone che hanno navigato con grande successo 40-50 anni di storia dello spettacolo. La sua energia la trasmetteva non solo quando si esibiva: si poteva percepire quando incontrava la gente. La sua grandezza era di essere sempre sé stessa».
Che effetto le ha fatto sapere della malattia?
«È stata una triste sorpresa che ci ha lasciati sconcertati: il non parlare del suo male dimostra, come si è detto, l'affetto per il suo pubblico che non voleva vedere soffrire».
Una nuova Raffaella Carrà non esiste.
«La cosiddetta fabbrica delle star oggi cerca cose differenti. Lei era un'artista completa. È unica: di Raffaella Carrà ne resterà una sola».
Emilia Costantini per corriere.it il 6 luglio 2021. «Me la ricordo come Mary Poppins, dentro casa un ciclone»: Barbara Boncompagni aveva solo 5 anni quando Raffaella Carrà iniziò la sua convivenza con il padre Gianni. «Papà era un uomo che vive da solo con tre figlie e si può immaginare in che stato abbia trovato la casa Raffaella quando venne a vivere da noi. Io ero la più piccola e per tutte noi fu come una mamma. Avevamo in comune anche il fatto che lei da bambina era stata abbandonata dal padre, noi dalla madre»
Come è stato il vostro rapporto?
«Di grande complicità. Con me in particolare, che poi ho proseguito la mia strada nel mondo dello spettacolo, è stata una maestra. Sin da ragazzina mi portava con lei in tournée, potevo vedere il modo in cui si preparava. Era dotata di una grande serietà, ma anche di grande leggerezza, non faceva mai pesare le sue scelte. Bisogna tener conto che Raffaella si è dedicata interamente alla sua carriera, al su grande talento ha sacrificato tanto della sua vita privata. Il lavoro era fondamentale nel suo percorso esistenziale».
Ha sacrificato anche la sua vita di donna?
«Sì ha sacrificato la possibilità di diventare madre. Non ha avuto figli perché, quando era molto giovane, diceva che un figlio non si può mettere in valigia e portarlo con te in giro per le piazze, non ha senso… Quando poi, intorno ai 40 anni, si sentiva più matura e pronta ad accettare la maternità, la natura le disse: no, carina, non decidi tu, decido io… E Raffaella ha accettato questa condizione, non si è imbarcata in un accanimento terapeutico… ha lasciato che il destino decidesse per lei… Però era molto contenta del fatto che io avessi figli e, quando andavo a cena da lei, oppure nella sua casa all’Argentario, si raccomandava sempre, dicendomi: porta i tuoi gioielli!».
Una grande showgirl, però riservata…
«Riservatissima! Era consapevole di essere molto conosciuta e non amava andare troppo in giro in luoghi pubblici. Diceva: se vado nei ristoranti, o a certe manifestazioni, le persone mi riconoscono, mi fermano e magari giustamente mi chiedono la foto, l’autografo… io preferisco stare nell’ombra quando non devo espormi per ovvi motivi di lavoro… Insomma, non amava fare la diva in scena».
Chissà quanto volte le avranno proposto di scrivere libri sulla sua storia professionale…
«Eccome no! Ma Raffaella declinava sempre, molto gentilmente, l’invito. Proveniva da una storia familiare semplice, e nonostante la sua incredibile notorietà, era dotata di una umiltà impressionante, una grande pudore, detestava ogni celebrazione. Si sorprendeva quando le giungevano, inaspettati, dei riconoscimenti importanti. Arrivava ad affermare che preferiva essere dimenticata… Non era presenzialista nei programmi, non amava fare l’ospite e parlare di sé… andava in certe trasmissioni solo se doveva presentare qualche suo nuovo progetto… E a volte scherzava sul fatto di essere diventata un’icona gay. Ridendo diceva: ma perché i gay mi amano tanto? Non lo capisco!».
Nella quotidianità che tipo di donna era?
«Certo, non proprio una casalinga e mi meravigliò una volta quando, tornata dalle Filippine, mi raccontò con grande sorpresa che a Manila aveva visto dei centri commerciali grandissimi, con tanti negozi… Allora io, ridendo, le risposi: Raffa, i centri commerciali ci sono anche qui in Italia! E lei: ah sì? Ma io non ci vado! Però, poi, siccome papà adorava andare a Ikea, lo accontentò e tutte le volte che lui decideva di andare, lo seguiva. E addirittura, per un compleanno di mio padre, andarono insieme a Decathlon e il regalo di Raffa a lui fu proprio di fargli comprare tutto quello che gli piaceva».
Ha ricevuto da Raffaella consigli sul piano professionale?
«Ci confrontavamo spesso. Lei seguiva il mio percorso di autrice televisiva e anche recentemente, per il programma La canzone segreta, lei guardava con attenzione le puntate e poi mi esprimeva il suo pensiero, ma sempre con grande rispetto e discrezione. Insomma, non faceva quella che sa tutto e ti impone il suo pensiero… era sempre delicata anche nelle eventuali osservazioni. D’altronde Raffa ha esplorato tantissimi generi di programmi e aveva parecchio da insegnare, se avesse voluto farlo. Ma lei non lo faceva… non l’ho mai sentita fare un commento su qualche suo collega».
La presenza in Tv le mancava?
«Assolutamente no, non aveva l’ansia da prestazione. Il programma che, negli ultimi anni, l’aveva maggiormente divertita, era stato quello di andare a fare le interviste a personaggi famosi… tra questi, quello che adorava era il Maestro Muti».
Come ha vissuto la pandemia?
«Abitavamo nello stesso comprensorio a Roma, e avevamo l’abitudine di vederci per giocare a carte, a Burraco… ma ovviamente durante il lockdown non potevamo farlo… ci sentivamo spesso al telefono, era impaurita, infastidita anche dal fatto che, alla sua età, un anno vissuto così era tanta roba buttata via…».
Il suo ultimo ricordo di Mary Poppins?
«Se ne è andata da signora, quale era. In rigoroso silenzio. Non me la posso immaginare vecchia e malata, Raffa ha lasciato un’immagine di sé assolutamente perfetta. Se potessi ancora dirle qualcosa, le direi: quanto bene ti voglio».
Michela Tamburrino per "la Stampa" il 7 luglio 2021. L' effetto che le procura l'assenza di Raffaella Carrà é devastante. Barbara Boncompagni, (figlia di Gianni che per anni ha vissuto con Raffaella fidanzata di suo padre), sente una mancanza sorda per quello che non sarà più e che era da tempo immemore e mai allentato: l'amore di figlia, il piacere di condividere tutto, i piccoli piaceri, le grandi gioie e i dolori, perfino il lavoro adorato da tutte e due.
Barbara, come è stato l'incontro con la Carrà?
«Immagini la forza di carattere di una donna che arriva nella casa e immagini che casa, di un single con tre figlie piccole. Tutto è cominciato così dopo un incontro a dir poco non convenzionale».
Perché, come si erano conosciuti?
«Alle 5 del mattino a piazza di Spagna. Papà le doveva fare un'intervista per uno spot delle Poste. E voleva la piazza deserta. Disse a Renzo Arbore: "Domani intervisto una ragazza, carina, poi ti dico". Raffaella dal canto suo mi raccontò che era incuriosita da questo tipo che si svegliava all' alba per uno spot. Dopo qualche mese si misero insieme. Una forza di donna, lui oltretutto aveva 10 anni di più».
Che legame si era creato tra voi due?
«Io delle tre figlie di Gianni ero la più legata a lei. Ci univa una speciale condizione, l'abbandono. Io avevo subito quello di mia madre e lei quello di suo padre. Più che due sopravvissute eravamo due combattenti, ci siamo sentite uguali».
Convivere con la Carrà Anni 70 era come trovarsi sull' otto volante?
«Io, piccolina, ne ero completamente affascinata, mi catalizzava l'attenzione, sempre.
Stavo ore e ore a guardarla mentre la truccavano, la vestivano. Erano appunto i fantastici Settanta e lei era pazzesca, per casa passavano Gino Landi, Colabucci, una meraviglia».
Poi successe qualcosa di bellissimo attorno ai suoi 12 anni?
«Sì, Raffaella decise di portarmi con lei in tournée. Io ero impazzita di gioia tanto che feci una tragedia al ritorno. Dormivamo insieme, viaggiavamo insieme, mi portava anche sul palco fra tantissimi ballerini. Ogni spettacolo per me ragazzina era una magia pura che si compiva. E, senza rendermene conto nell' immediato, imparavo a conoscerla in tutto il suo essere, privato e professionale».
E com' era Raffaella?
«Educatissima con tutti. Mai visto un gesto di stizza, un fare maleducato, mai una punta di arroganza. Stando in giro con lei capivo quanto si dedicasse ai suoi fan e quanto per rispetto non si facesse vedere quando era stanca. Infatti non conduceva vita sociale e non parlo di feste che ha sempre detestato. Mai un cinema, una cena fuori, lo shopping. Si ritirava nei suoi spazi, era coerente».
Oggi non ce ne sono più di personaggi così?
«Mi faceva sorridere leggere, pochi giorni fa, che una cantante come Madame che peraltro a me piace moltissimo, aveva mandato al diavolo una persona che le chiedeva l'autografo mentre lei stava mangiando, invitandolo, invece di disturbarla, a comprare i suoi dischi. Impensabile reazione per Raffaella».
La sua caratteristica più evidente?
«La semplicità con tratti pazzeschi. Mai mediocre, mai banale, capace di intrattenersi allo stesso modo con un re o con l'immigrato di Carramba. Era empatica ma soprattutto rilassata».
Una rilassatezza che le veniva forse dall' essere arrivata al massimo della sua carriera. In queste condizioni è meno complicato non trova?
«Certo, aiuta ma lei era fatta così. Fino ai 60 anni aveva vissuto concentrata sulla carriera. Dopo aveva cominciato a scegliere solo quello che le piaceva fare».
E oltre al lavoro che le piaceva fare?
«Stare al mare e giocare, era una grande appassionata di Burraco. Aveva avuto una vita da single ed essere dominata dalle carte la divertiva. E poi adorava viaggiare, le cene con pochi amici e cibo buono.
Era appagata e non si è mai lamentata della vita privata, del non avere avuto figli, prima non li aveva cercati, poi non erano venuti. Ne aveva adottati a distanza e voleva un gran bene ai nipoti. Ogni volta che andavo a cena da lei mi chiedeva: "vieni con i gioielli?", indicando i miei figli».
Perciò vi vedevate spesso?
«Certo, c' era tra noi un rapporto parentale. Le nostre chiacchierate erano epiche, mi ha sempre consigliato sia sul lavoro sia sul privato. Era una donna priva di pregiudizi, era una donna libera. Non andava dove non voleva, o bianco o nero. Mai un compromesso, un lusso che si è conquistata a caro prezzo».
Quello che le mancherà di più di lei, di voi insieme?
«Le chiacchierate come dicevo. Io andavo da lei non da mio padre. Mi viene a mancare un amore materno, un pilastro di vita. Sento franarmi la terra sotto i piedi. È un cazzottone forte allo stomaco».
E nonostante questo legame non sapeva che era malata in questo modo?
«Non si sapeva e non si sa nulla. Aveva preso la scelta di non far soffrire, il massimo della riservatezza. È andata via in punta di piedi come i grandi, come Ennio Morricone. Oltretutto lei detestava le celebrazioni, non era per il passato. Credeva di non smuovere l'aria così facendo, invece il dolore collettivo per questa figura luminosa ha preso il sopravvento pure su di lei».
Che cosa la porta a sorridere pensando a lei?
«Che fosse una secchiona terribile. Come Sophia Loren, ho letto la sua intervista e le cose sono andate proprio così. Raffaella la chiamava, "Sopfi, vieni al mare da me". Si volevano bene da poco ma molto. Secchiona e stakanovista. "Giannino, Giannino", diceva appresso a mio padre che invece era tutt'altro e che aveva coniato il motto "Presto e male".
Lui aveva le idee pazzesche ma poi era pigro e se ne andava, lei acchiappava e sviluppava. Anche con Sergio Japino era lo stesso, hanno fatto tantissimi progetti insieme oltre il fidanzamento. Lei i rapporti li sublimava con il lavoro».
Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 6 luglio 2021. Raffaella Carrà ha attraversato la storia della televisione italiana regalandole molte fisionomie, prima a passo di danza, poi a passo con i tempi. È stata show girl, regina del sabato sera, da Canzonissima a Milleluci, da Ma che sera a Fantastico. Chi ricorda quelle trasmissioni ricorda soprattutto le sigle: Tuca Tuca , Chissà se va , Tanti auguri («Com' è bello far l' amore da Trieste in giù»). Così simpatica, così a portata di mano, così «la più amata dagli italiani», eppure saldamente legata a immagini erotiche: inevitabilmente icona gay. Con la Carrà, la trasgressione sessuale diventa parentale: il Tuca Tuca è stata la scoperta dell'ombelico da parte dell'ampia platea televisiva; appello di natura sessual-familiare capace solo di scatenare qualche timida vibrazione nel ricovero dei sensi. Con lei, l'interdizione sessuale si tramuta in seduzione buffa: anni dopo, Roberto Benigni la scaraventò per terra (Fantastico) e, mimando l'atto, la ricoprì solo di sinonimie ed eufemismi. È stata intrattenitrice, inventando per la Rai lo spazio del mezzogiorno, capace di elargire milioni con la conta dei fagioloni (uno dei giochi più folli mai inventati dalla Rai) e le telefonate in diretta con il pubblico (che da allora sono diventate una costante dei programmi di intrattenimento), ma capace anche di compiere piccoli miracoli (la bambina dislessica che finalmente si scioglie e dice: «Raffaella ti amo!»), intervistare Enzo Ferrari, suo insospettabile fan. Intanto gli ascolti all'ora di pranzo diventano stratosferici (fino a dieci milioni di telespettatori). 1983, Pronto, Raffaella? crea un caso politico per i disturbi mossi alla concorrenza: l'allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, protesta con il presidente della Rai Sergio Zavoli, mentre Ciriaco De Mita sostiene il direttore generale Biagio Agnes. Altre polemiche: nel 1986 conduce Domenica in: durante una puntata del contenitore domenicale la Carrà affida alle telecamere il suo sfogo privato per un articolo giornalistico che criticava il suo scarso senso filiale nei confronti della madre; l'iniziativa le costa l'accusa di utilizzare il video a fini personali ma rafforza il suo mito di italiana a tutto tondo. Così, quasi per dispetto, nel 1987, dietro compensi principeschi, la show girl passa a Canale 5, dove è stata protagonista di Raffaella Carrà show (1988) e Il principe azzurro (1989), non proprio due successi esaltanti. È stata madonna della lacrima, missionaria di una religione morbida, sentimentaloide, confortevole. Con Carràmba! Che sorpresa (1995) fa piangere mezza Italia. Sono lacrime calde, lacrime che fanno spettacolo. Ciò che è separato deve essere ricongiunto, ciò che turba eliminato, ciò che è distante ravvicinato. La Carrà non ha pubblico; ha qualcosa di più, che Auditel non è in grado di registrare. Può contare sui fedeli, su appartenenti a una confessione parareligiosa pronti a baciarle le mani, a toccarla, a venerarla. Così, stranite adolescenti finalmente incontrano il loro idolo canoro, camiciaie fans piangono con il ritratto di Little Tony in mano mentre una collega ritrova una parente, intere famiglie date per disperse si sublimano nell' agnizione finale. In questo programma, Raffaella è una donna molto determinata, estranea all' ironia, vive per il successo e per la santificazione in video ma è brava; accidenti se è brava: non sbaglia un tempo o un incontro o una lacrima. Per paradosso, Carramba è il programma che ha inciso di più sull' immaginario televisivo perché è stato vissuto come un messaggio di speranza: rincontrarsi con parenti lontani e dispersi ma poter ancora cantare e sgambettare, pur avendo una certa età. Più che una trasmissione era un corso terapeutico per spettatori incalliti, uno sfogatoio settimanale. Più che una trasmissione era una svendita di pianti in diretta, saldi di fine stagione e di fine emozione. È stata infine intervistatrice. Nel 2019 la Carrà si misura con il talk: A raccontare comincia tu di cui serbiamo il ricordo di un programma elegante, del valore del sorriso, della necessità di veri professionisti. Possiamo paragonare la Carrà ad alcuni intramontabili protagonisti maschili, come Mike Bongiorno, Pippo Baudo, Enzo Tortora, Corrado. In più lei sapeva cantare, ballare, recitare e scrivere programmi con i suoi mentori Gianni Boncompagni e Sergio Japino. Inossidabile, ma capace di adeguarsi alla tv che cambia di continuo, da soubrette diventa conduttrice e intervistatrice senza mai dimenticare le sue doti artistiche. Di sé amava ripetere: «Più che un'artista mi sento un'ottimizzatrice. Dovunque sia andata, ho imparato delle cose. Ma sono nata sotto il segno dei Gemelli e quando scendo dalla giostra, ho bisogno di volare, viaggiare e andare via. Se ho tempo per me, mi alzo dalla sedia e faccio finalmente quello che mi pare». Con Delia Scala, resta la nostra più grande show girl, l'indiscussa regina del varietà e della commozione.
Da corriere.it il 6 luglio 2021. Si terranno a Roma le esequie di Raffaella Carrà. Avranno inizio domani con un corteo funebre che partirà alle 16 dalla sua casa di via Nemea, e seguirà le tappe fondamentali della carriera della showgirl:
- Auditorium Rai del Foro Italico (largo Lauro de Bosis)
- RAI di Via Teulada
- Teatro delle Vittorie
- RAI di Viale Mazzini
per terminare alla Sala della Promoteca in Campidoglio (ingresso dalla Cordonata). L’apertura della camera ardente sarà dalle 18.00 a mezzanotte.
Giovedì 8 luglio la camera ardente sarà aperta dalle 08.00 alle 12.00, e dalle 18.00 a mezzanotte.
Venerdì 9 luglio alle 12 si terrà infine la funzione funebre presso la chiesa di Santa Maria in Ara Coeli, sempre in Piazza del Campidoglio.
«Faccio un appello: chiedo a tutti i suoi fans, in Italia, nel mondo, nelle chiese dei piccoli paesini come in quelle delle grandi città, di darsi appuntamento alle ore 12 di questo venerdì, per offrire tutti insieme l’ultimo saluto virtuale a Raffaella», ha detto Sergio Japino, ex compagno storico di Carrà, che ha voluto lanciare un appello a tutti i fans della «signora della televisione». Intanto mercoledì sera, allo stadio di Wembley, l’Italia renderà omaggio alla regina della televisione italiana prima del match con la Spagna.
Francesco Olivo per "la Stampa" il 6 luglio 2021. Nel condominio dei suoi amori ora tutto tace. Raffaella non c' è, non più. Il portiere giura: «Non la vedo da un mese». Le finestre sono chiuse e impolverate, tende abbassate a metà. A guardare da fuori non si direbbe, eppure se c' è un luogo dove la sua vita si racchiude in pochi metri è qui. L' indirizzo lo conoscono in tanti, quasi tutti, e si cita sempre con il numero civico: via Nemea, 21. Siamo nel quartiere di Vigna Stelluti, cuore di Roma Nord, a due passi dalla chiesa di Santa Chiara, dove Aldo Moro si fermava ogni mattina a pregare. Il mitico «21» è un comprensorio di 15 palazzine di lusso, con una bella piscina e campi da tennis. La vita sentimentale, professionale, insomma la vita tutta di Raffaella Carrà si è sviluppata all' interno di questo cancello, dove si entra solo con il via libera del portiere. Al primo piano del palazzo che confina con la strada, c' è l'appartamento della Carrà sul quale domina lo splendido attico con terrazza di Gianni Boncompagni, poco più in là quello di Sergio Japino. Storie finite, ma sempre attaccate. Anche al mare lo schema si riproponeva, a Cala Piccola, sul promontorio dell'Argentario, la villa di Raffaella e quella di Gianni. «Faceva condominio», racconta una signora che si commuove a guardare quell' attico pieno di vita, «qui era un via vai», grandi cene, partite a carte, «ne era appassionata» e il vino preso all' enoteca Lucantoni. Molte delle cose importanti della sua vita sono successe qui dentro, la principale forse, anche se nell' ombra, è stata quella di crescere le tre figlie del ragazzo padre Gianni Boncompagni, avute da una donna fuggita e allevate da Raffaella. Tre donne che la hanno amata enormemente, in ogni luogo, ma soprattutto in via Nemea, 21. Altra caratteristica del luogo è la privacy, anche in queste ore di commozione e omaggi, in pochi si fermano a parlare per rivelare qualche dettaglio di quella vicina che certo non passava inosservata. «Era una persona sorridente ed era un onore essere sua vicina», dice Alice. Oggi c' è un po' di folla, giornalisti, operatori, c' è anche la Cnn latinoamericana, la tv spagnola e quella argentina, cronisti dirottati dai lunghi appostamenti davanti al Gemelli: «Da Buenos Aires ci hanno detto di lasciare immediatamente l'ospedale del Papa per andare davanti casa di Raffaella». Arrivano anche fan e colleghi: «È una creatura che ci ha fatto sentire la sua felicità per tutta la vita e anche oltre», dice, letteralmente tremando, Roberto Marconi che ha lavorato con lei a Pronto Raffaella e Carramba. Al tramonto, arriva un signore in lacrime, per mano la figlia Ludovica che lascia un mazzo di fiori sul cancello. Il condominio degli amori riprende colore.
Alberto Mattioli per "la Stampa" il 6 luglio 2021. Ma da dove incominciare? Dal Tuca Tuca o da Ma che mu, ma che mu, ma che musica maestro, da Maga Maghella o dai fagioli di Pronto Raffaella, da Com' è bello far l’amore da Trieste in giù fra l'Italia in miniatura di Rimini o da Begnini che l'abbranca a Fantastico declamando tutto il dizionario dei sinonimi e dei contrari della corporeità riproduttiva? Dai bianco-e-nero superchic di Antonello Falqui o dalle carrambate, da Topo Gigio o da Henry Kissinger (sì, intervistati entrambi), dal caschetto biondo o dalla Grande Bellezza, dalle censure democristiane o dall' icona gay, dal consenso delle casalinghe o da quello degli intellettuali, entrambi comunque plebiscitari? Ci sono vite che racchiudono tutte le vite, canzoni che sono la colonna sonora di infinite esistenze, immagini che diventano i ricordi di tutti. Difficile capire perché, ma succede. È una storia magari minima, ma è pur sempre storia. E così capita che sessant' anni abbondanti di identità italiana, di quello che siamo stati e che siamo, si ritrovino in vita e opere di Raffaella Maria Roberta Pelloni in arte Carrà, venuta al mondo il 18 giugno 1943 a Bologna, la leggenda narra durante un terribile bombardamento, e uscitane ieri a Roma. Famiglia non povera come da favola che si rispetti, ma disfunzionale, sì. Il matrimonio fra mamma e papà va male da subito, la coppia scoppia presto e lei cresce a Bellaria. La Romagna le dà l'imprinting che l'accompagnerà sempre: sorrisi e simpatia, ottimismo e voglia di vivere, ma anche volontà di ferro e passione per il lavoro, quello fatto bene. E una fede politica di sinistra. Nella bella stagione del boom, nella nostra età dell'innocenza, quando tutto in Italia sembra possibile, perfino facile, la ragazzina già tostissima decide che vuole ballare. A otto anni è a Roma ad alzarsi sulle punte, poi le dicono che ha le caviglie troppo piccole per il balletto e lei, da brava piccola rezdora che non si dà per vinta, dirotta sul cinema. Diploma al Centro sperimentale di cinematografia (ma aveva già debuttato nel '52, a otto anni, in un melodramma tremendo fin dal titolo, Tormento del passato), particine fra cinema, teatro e rivista, la grande occasione nientemeno che a Hollywood e nientemeno che con Frank Sinatra. Titolo del film: Il colonnello von Ryan. Ma la signorina Pelloni non ancora Carrà capisce che la sua strada è un'altra. La televisione è ancora un approdo di talenti, non il rifugio di chi non ne ha. Lei sa ballare, cantare, recitare, è istintivamente simpatica e sexy per quanto è possibile in un'Italia ancora democristiana ma già squassata dalle folate liberalizzatrici del Sessantotto. Non a caso, il primo successo arriva nel '69 con Io, Agata e tu. La consacrazione, l'anno seguente, con la Canzonissima griffata Falqui in coppia con Corrado dove lei, per la prima volta nella storia della Telepatria, mostra l'ombelico. I padri sognano, le figlie imitano, i gay giubilano, i moralisti protestano, tutti la guardano. Gli Anni Settanta sono una marcia trionfale. Nel '71, il Tuca tuca è una piccola rivoluzione sessuale, uno choc di costume, altro che il Benigni che sarà. Coreografia di Don Lurio, testo allusivo di Boncompagni («Mi piaci, ah, ah!»), le mani di Enzo Paolo Turchi che si muovono roventi come piadine sul corpo della soubrette più amata. Per i mitici «dirigenti» diccì è troppo e scatta la censura, ma poi arriva per un'ospitata Alberto Sordi al quale non si può dire di no, e infatti rituca sornione la Carrà. Ed è subito icona nazionale, a furor di popolo. Nel '74 c' è Milleluci, secondo molti il più bel varietà della tivù italiana, pimentato dalla rivalità vera o presunta con Mina. Presunta, secondo Raffa: «Ma no, dopo lo spettacolo giocavamo insieme a scopone scientifico». Lei riesce nella missione impossibile di rinnovarsi di continuo restando sempre sé stessa, il caschetto biondo inventatole dal parrucchiere Vergottini e tagliato in modo da tornare al suo posto dopo ogni scuotimento della testa sui due accordi dell'orchestra, i costumi di Luca Sabatelli e Corrado Colabucci che sono il trionfo del lustrino, tutto un kitsch consapevole e perfino ironico, già pronto per i Gay Pride prossimi venturi. E lei, intelligente come al solito: «Macché stilisti, io devo vestire da Carrà». Bilancio: tre Canzonissime, due Fantastico, un Sanremo, una Domenica in, cinque Carramba (nella doppia versione Carramba, che sorpresa e Carramba, che fortuna), dodici Telegatti. Ah, e anche 51 album pubblicati, 22 dischi di platino o d' oro, 60 milioni di copie venduti, molti in Spagna e in America latina dov' è una superstar. E infatti lancia pure Fiesta! Nell' 87, Nostra Signora della Rai cede alle lusinghe e ai milioni di Berlusconi e trasloca alla Fininvest, un altro segno dei tempi, ma l'esperienza non è felice. Il ritorno in Rai è una mutazione genetica: addio al sabato sera e alla soubrette volteggiante e sberluccicante, adesso Raffaella risponde al telefono a mezzogiorno accompagnando la cottura della pasta con quiz surreali sul numero dei fagioli contenuti in un vaso o massime di buon senso spicciolo per un pubblico bon enfant (quante solitudini alleviate o piccoli conforti quotidiani, però). Arriva la tivù delle lacrime e delle agnizioni prêt-à-pleurer e lei naturalmente c' è con le sue carrambate, il mélo più spudorato che però, fatto da lei, risulta stranamente sincero, una tivù tutto sommato onesta che non cerca di spacciare i suoi casi umani per spaccati sociologici o inchieste giornalistiche. Ormai è oltre la cronaca, «icona culturale», si sbilancia il Guardian, mentre il dj alla moda Bob Sinclair remixa A far l'amore comincia tu che diventa un successo planetario, finisce nella Grande bellezza di Paolo Sorrentino e vince un'Oscar (il film, certo, ma con la canzone dentro). Ma i suoi ritornelli sono già la colonna sonora di tutti i Gay Pride del mondo, senza che lei riesca a spiegarselo ma rendendola comunque felice. Figuriamoci i diretti interessati, che adorano senza se e senza ma. Saggia, superRaffaella capisce anche quando è il momento di sparire, salvo poi tornare puntualmente alla ribalta: «Ho più paura che la gente dica: ancora lei! piuttosto che: dov' è andata a finire?». E all' incauto soprascritto che, quando venne all' Auditorium Rai di Torino per Gran concerto condotto dal suo protegé Alessandro Greco, aveva retrodatato il suo debutto rispose ironica: «No, le sembrerà strano ma a quell' epoca io non c' ero ancora». Anche la vita privata racconta com' è cambiata l'Italia. Niente marito e niente figli (ma molto impegno in prima persona e come testimonial per le adozioni a distanza), qualche relazione stabile di cui due importantissime, di vita e di lavoro insieme: Gianni Boncompagni e Sergio Japino. Finite entrambe, continuarono poi a vivere tutti e tre nello stesso condominio. E le molestie? Raccontava di averne subito e di aver reagito con «la cura Carrà: lo smataflone» che, traduco per i non emiliani, è il ceffone e di quelli belli sonori. E poi l'amore per i nipoti, figli di un fratello morto giovane, la superstizione (alla Vigilia di Natale, sempre pasta con il tonno perché porta bene, gliel' aveva detto Mastroianni) e tutto sommato una grande riservatezza: ha dato centinaia di interviste, ma senza mai svelarsi completamente. È un'altra vita che se ne va portandosi via un pezzo della nostra. Come diceva Flaiano: coraggio, il meglio è passato.
Marinella Venegoni per "la Stampa" il 6 luglio 2021. Raffaella Carrà è stata la mamma della dance all' italiana quando la dance nemmeno esisteva; verrebbe anzi da dire che l' ha inventata lei, la dance, con un pop di sfrenata allegria che diventava tutt' uno con balli scatenati frutto di una disciplina severa. La sua tecnica, di canto e danza, la trasformò in seguito in un modello per le celebrities italo-americane che certo ne hanno tenuto d' occhio il lavoro musicale e fisico: Madonna e Lady Gaga hanno imparato da lei. Correva l'anno 1970, quando la ragazza solare si presentò nella sigla di Canzonissima con l'ombelico di fuori, suscitando vibrate proteste mentre cantava con accurata spensieratezza la sigla di apertura, Ma che musica maestro. Se la tv è stata il suo highlight, anche nel pop ha raccolto adesioni invidiabili, con almeno 60 milioni di dischi venduti ai quattro angoli del mondo, soprattutto nei Paesi di cultura ispanica, dalla Spagna fino al Sudamerica. Soltanto nel novembre scorso, il compassato quotidiano inglese The Guardian aveva titolato un articolo su di lei «The Italian pop-star who taught Europe the joy of sex»: ma se il suo personaggio ha avuto una rilevanza pure all' interno dell'Unione Europea, è stato proprio perché Raffaella sapeva cantare e ballare perfino il Tuca-Tuca senza un alone torbido, con la sensualità naturale delle donne emiliane e romagnole. La sua era una dance ante litteram, ai tortellini. Uno stile solare che invitava al ballo di gruppo, con testi per famiglie, privi di allusioni; non riuscì a scandalizzare nemmeno quel «Il mio corpo è una moquette dove tu ti addormenterai», verso contenuto nella hit Com' è bello far l'amore da Trieste in giù. Per quanto il repertorio si sia evoluto, pur rimanendo nel solco tracciato fin dai primi successi, la dance un po' casereccia della Carrà stava sempre in una comfort zone dove non c'era spazio per ammiccamenti, sguardi allusivi, costumi di scena osceni, com' è capitato da lei in avanti. La sua allure, asciutta e decisa, la fece amare dalla comunità gay ancora alla caccia dei propri diritti. Nel 2007 Tiziano Ferro le dedicò la sua canzone più felice e scatenata, nello stile dell'artista scomparsa, E Raffaella è mia: suonò a posteriori come prodromo di un percorso sofferto verso il coming out.
Da lastampa.it il 5 luglio 2021. Raffaella Carrà è morta questo pomeriggio. Aveva 78 anni. «Raffaella ci ha lasciati. È andata in un mondo migliore, dove la sua umanità, la sua inconfondibile risata e il suo straordinario talento risplenderanno per sempre» ha annunciato Sergio Japino, suo ex compagno e amico. Ma la notizia ha scosso l’Italia, dal mondo dello spettacolo a quello della politica, che hanno ricordato così Raffaella Carrà.
Gli omaggi al suo talento dal mondo dello spettacolo
«Non è possibile... Il mito di sempre è rinato in Cielo. Rip Raffaella» ha scritto Lorella Cuccarini. Laura Pausini, invece, le ha dedicato queste parole: «Sei stata, sei e sarai l'unica regina. Per me, per tutto il mondo».
«Ciao Raffaella ... sono senza parole». In modo semplice la saluta Patty Pravo su Twitter. Come Gianni Morandi, che ha scritto soltanto: «Che dolore! Non ci voglio credere...».
«La ricordo sorridente ed allegra, la ricordo che comunicava allegria, simpatia. I suoi spettacoli erano allegri, lei era sorridente, gioiosa e bella» ha detto il presidente della Siae Giulio Rapetti in arte Mogol.
Al coro di tristezza per la notizia si è aggiunta anche Francesca Michielin, che su Twitter ha ricordato l’ispirazione che le ha regalato: «Raffaella Carrà è e sarà sempre una stella che brilla di luce propria, una donna piena di energia, talento ed autoironia che ha saputo ispirare generazioni. Continuerà ad essere un esempio di grande professionalità e creatività per tutti noi. Grazie».
«Questa notizia mi ha tagliato le gambe, sono incredula, non me l'aspettavo. Sconvolgente. Se ne va l'icona della tv. Per sempre» ha ammesso Simona Ventura.
J-ax, che è stato giudice con lei a The Voice, ha ricordato così l’amica Raffaella: «Sei sempre stata una stella senza fare la diva. Ti ho conosciuta in diversi momenti della mia carriera - scrive - e mi sei sempre rimasta impressa perché anche quando non ero nessuno hai rispettato chi ero e la cultura che amavo, una cosa che negli anni '90 in Italia nessuno faceva. Ho capito perché sei stata un'icona per così tante generazioni e perché con la tua forza e le tue parole hai ispirato e salvato tanta gente».
Il ricordo di Pippo Baudo: «Dolore atroce, se n’è andata l’ultima grande soubrette»
«Sono immensamente scosso. È stata un'artista eccezionale, un'autodidatta straordinaria, io la conosco dagli inizi della sua carriera. Io non sono riuscito mai a fare un programma con lei, era l'unico rimprovero che le facevo sempre, è il mio grandissimo rimpianto».
È un Pippo Baudo estremamente scosso quello che, a caldo, commenta con l'Adnkronos la scomparsa improvvisa di Raffaella Carrà: «Aveva studiato ballo, era diventata anche una grande ballerina – ricorda Pippo a ruota libera, trattenendo le lacrime - Quando fece coppia con Mina, c'era un'asimmetria notevole tra le due, perché Mina è più alta di lei, eppure lei annullava questa asimmetria. E poi, è una delle poche soubrette italiane, forse l'unica, che ha avuto successo nei paesi ispanici».
Baudo ricorda un aneddoto a questo proposito: «Una volta in Spagna, a Plaza de Toros, c'era Raffaella Carrà da sola col suo gruppo, e ricordo intorno trentamila persone. Una cosa incredibile, un amore come per nessun'altra italiana».
Il motivo dell'enorme successo e dell'unicità di Raffaella stava, secondo il popolare conduttore, nella semplicità: «Era la bella “burdela” romagnola, la guappa, aveva una voce forte che faceva impazzire tutti. Il suo modo di essere faceva pensare ad ogni ragazza di poter diventare Raffaella Carrà, invece non era vero. Ci voleva solo il suo talento per essere Raffaella Carrà. E' stata l'ultima vera grande soubrette. Sono affranto», conclude Pippo.
Il cordoglio della politica
«Grande tristezza! Con Raffaella Carrà se ne va un pezzo della storia d'Italia» ha scritto su Facebook il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. Il segretario del Pd Enrico Letta gli fa eco su Twitter: «L'Italia perde una delle sue icone più intelligenti, gradevoli ed eleganti. La scomparsa di Raffaella #Carrà per quelli della mia generazione è davvero un pezzo di vita che se ne va. Profonda tristezza».
Per Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia, «Raffaella Carrà verrà ricordata come una delle più grandi stelle dello spettacolo. Conosciuta in tutto il mondo, ha rappresentato la cultura e i costumi dell'Italia. Il suo talento e la sua contagiosa risata resteranno per sempre scolpiti nella storia dello showbiz. Ci mancherà».
Anche Matteo Salvini ha ricordato la risata dell’icona della tv: «Buon viaggio Raffaella, il tuo splendido sorriso ci accompagnerà sempre!» ha scritto su Twitter.
«La mia carriera è stato un continuo sorprendermi e questo è il massimo: gioire di una piccola o grande cosa significa vivere''. Con questa frase ha detto tutto lei. Ci ha lasciato un'artista unica. Porteremo il suo sorriso con noi, come avrebbe voluto. Buon viaggio Raffaella». Lo scrive su Twitter Matteo Renzi.
«L'Italia perde una donna dallo straordinario talento artistico e dalla contagiosa simpatia. Ciao Raffaella, non ti dimenticheremo» ha scritto, invece, la presidente di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni.
Mentre Vladimir Luxuria ha ricordato come la Carrà fosse la colonna sonora del mondo Lgbt: «La morte di Raffaella Carrà mi coglie impreparata, sbigottita, addolorata. La colonna sonora delle nostre feste e dei nostri Pride, i suoi look imitati da mille drag queen in tutto il mondo, il suo sorriso... farai ballare gli angeli...».
Maurizio Costanzo per "la Stampa" il 6 luglio 2021. Ho conosciuto Raffaella Carrà quando lei aveva 16/17 anni. Fu la madre a chiedermi di aiutarla a scrivere il tema di ammissione al Centro Sperimentale di Cinematografia. Fu ammessa. Da allora ho seguito la Carrà nella sua storia, nella sua carriera, è stata ospite dei miei programmi. Non possiamo dimenticare cosa la Carrà abbia significato, vuoi con lo sdoganamento dell' ombelico, vuoi con Carramba che sorpresa che ha lanciato l' emozione finale, vuoi con il Tuca Tuca che ha ballato con Alberto Sordi in maniera divertentissima. È un pezzo della storia del varietà italiano. Sicuramente Raffaella Carrà essendo stata legata a Gianni Boncompagni per molti anni ha ancora di più accresciuto questa sua presenza. Ricordiamo il varietà con la regia di Antonello Falqui, ma ricordiamo una donna che aveva una forza d' animo assoluta. Non sapevo che era malata mi dispiace molto e so che il ricordo di Raffaella Carrà per gli italiani non svanirà. Vorrei anche abbracciare Sergio Iapino che le è stato accanto negli ultimi anni.
Da lastampa.it il 6 luglio 2021. «Il segno che Raffella Carrà ha lasciato sulla cultura nazional-popolare è testimoniato, tra le altre cose, dalla duratura fortuna del neologismo “carrambata” per indicare un incontro inatteso con una persona con cui si erano persi i contatti». Così la Treccani su Twitter ha ricordato l’impatto e l’influenza dell’icona della televisione italiana, scomparsa oggi a 78 anni, sulla società-pop italiana. Per l'Istituto, che cura la famosa Enciclopedia fondata da Giovanni Treccani, “carrambata” è «un sostantivo, scherzoso ma efficace» che nasce «dal grande successo della trasmissione televisiva “Carramba che sorpresa”, condotta appunto da Raffaella Carrà nella seconda metà degli anni Novanta, durante la quale si assisteva tipicamente al ricongiungimento tra parenti o amici». Il sostantivo femminile è stato registrato in tutti i principali dizionari della lingua italiana, con un significato ironico, è registrato da tutti i maggiori dizionari, dal Devoto-Oli allo Zingarelli.
Lucilla Quaglia per “ilmessaggero.it” il 5 luglio 2021. Tutti ad omaggiare il mito dell’eterna Raffa: ovvero Raffaella Maria Roberta Pelloni, in arte Carrà. L’inossidabile caschetto biondo adottato nei primi anni Settanta e quasi immutato troneggia nel corso del vernissage che AltaRoma dedica alla diva, nel tempio più adatto a lei: quello di Cinecittà. All’invito risponde, tra gli altri, la bella top model Giulia Gallo, divertita dagli storici abiti di scena. Curata da Fabiana Giacomotti, la rassegna viene celebrata come un vero e proprio party. E questo grazie alle sapienti selezioni musicali del dj Sergio Tavelli, impegnato nel far rivivere il ritmo della bionda e talentuosa showgirl. “La Carrà, come disse in un’intervista il regista Pedro Almodovar, non è una donna, è uno stile di vita - ricorda la curatrice - come non fare una mostra su di lei?”. “Iconoclasti. Lo stile di Raffaella Carrà nell’opera di costumisti e stilisti” mette in evidenza i segni e le simbologie più nascoste del fenomeno attraverso costumi, abiti, accessori, oggetti, video, foto, disegni preparatori e bozzetti. Tutto molto apprezzato da Fabiana Balestra, Lavinia Fuksas, Silvia e Ilaria Venturini Fendi. Più tardi si affacciano l’attrice Bianca Nappi e il designer Alessandro Enriquez. E il brindisi è glamour.
Da ilmessaggero.it il 5 luglio 2021. Una scena divertente: era il 19 ottobre del 1991, quando Raffaella Carrà fu presa alla sprovvista da Roberto Benigni nel corso del programma tv Fantastico. Il comico si presentò in scena simulando un amplesso, abbracciando e toccando la conduttrice mentre elencava i vari modi in cui si pronunciavano gli organi genitali femminili e maschili.
Fla. Sav. per "il Messaggero" il 6 luglio 2021. Fiori e lacrime per l'ultimo saluto a Raffaella Carrà. La notizia della sua scomparsa è arrivata ieri pomeriggio e già in serata in tanti sono passati a lasciare un ricordo all' amata artista sotto casa nel quartiere Vigna Clara. Un mazzo di fiori appoggiato all' ingresso della palazzina di via Nemea dove da tempo viveva Raffaella Carrà. «Volevo solo lasciare un pensiero alla famiglia», racconta Ludovica, una fan. «Io e mia sorella siamo cresciute guardando i suoi programmi e ascoltando le sue canzoni. È stata con noi per tanti pomeriggi durante la nostra infanzia, era doveroso lasciare un pensiero alla sua famiglia».
LA PROCESSIONE «Alcuni mazzi di fiori ce li hanno lasciati in portineria e li consegneremo direttamente alla famiglia quando torneranno», spiegano i custodi. Intanto, poco dopo dalle 20 una pattuglia della polizia ha presidiato l'ingresso del palazzo per motivi di sicurezza. Mentre alla spicciolata sono arrivati anche alcuni residenti del quartiere. A piedi, si sono fermati per qualche istante proprio davanti all' elegante palazzina di via Nemea. Una processione silenziosa e composta. «Sapevo che viveva qui perché in più di un'occasione l'avevo vista entrare o uscire dal palazzo», racconta Roberto Ludovici, 70enne pensionato e anche lui di Vigna Clara. Ieri è arrivato in via Nemea poco dopo le 21 fermandosi a una manciata di metri dal cancello: «Ho sempre seguito la Carrà dagli esordi in tv. La prima volta ancora lo ricordo, era nel programma Canzonissima insieme a Corrado. Poi l'ho seguita sempre e sempre l'ho apprezzata. Dispiace davvero che non ci sia più perché rappresentava un'eccellenza italiana nel mondo dello spettacolo. Era un'artista - commenta commosso Roberto- piena di talento». Poco dopo, su via Nemea si intrattiene anche Francesca Liberati che vive in via Nomentana, poco distante: «Non sapevo che stesse male, sono molto addolorata che non ci sia più. Pochi mesi fa - ricorda Francesca - l'ho vista in un interessante programma insieme a Maria De Filippi. Mi era sembrata in splendida forma, e invece forse stava già poco bene. Ho sempre saputo che viveva qui, nel quartiere in tanti l'hanno notata negli anni anche se è stata sempre molto discreta. Sono voluta passare davanti casa sua per dedicarle un pensiero e una preghiera. Ha condiviso con noi tanti pomeriggi, mi è sembrato un gesto doveroso».
I VICINI «Se dico che ero onorato di vivere nel suo stesso comprensorio, non esagero», commenta Ferdinando Righini, residente nello stesso complesso residenziale della regina della tv. «Siamo in due edifici differenti ma mi è capitato spesso di incrociarla. Sempre sorridente, affabile, elegantissima. Aveva una luce negli occhi che non dimenticherò mai - racconta ancora Ferdinando - Ma anche molto discreta e mai sopra le righe. Da diverse settimane non l'ho più incrociata ma non sapevo si fosse ammalata. La notizia della sua morte è stata uno choc e un'amara sorpresa anche per noi». Riservata dunque ma sempre gentile: «Avevo notato la sua assenza - dice Leonardo Fiore, un altro residente di via Nemea - ma qui tutti siamo molto riservati. Ho anche pensato che fosse fuori città per qualche impegno di lavoro. Poi la notizia della sua morte che, come tutti, davvero non mi aspettavo».
I. R. per "il Messaggero" il 6 luglio 2021. Renzo Arbore ha ideato Alto Gradimento, la trasmissione radiofonica, insieme a Gianni Boncompagni, che di Carrà fu autore, compagno e amico. «Per noi Raffaella era una compagna di giochi. Gianni la prendeva in giro, scherzavamo fra noi. Eravamo ragazzi, senza nessuna gelosia o concorrenza reciproca. E lei era lei. Una lavoratrice instancabile, una grande romagnola. Una gran donna, una innovatrice.
Come ha avuto la notizia?
«Stamattina parlavo di lei con Renato Zero, che si era allarmato per il fatto che Raffaella non fosse nella sua casetta all' Argentario. Mi ha detto: dammi notizie perché non riesco a trovarla. Ho chiamato Barbara Boncompagni, la figlia di Gianni. Le ho detto che eravamo preoccupati ma lei ci ha rassicurati. Probabilmente mentendo».
Lo sapeva che era malata?
«No. Quando mi è squillato il telefono, e mi hanno detto che non c' era più Raffaella, sono rimasto turbato e basito. Nessuno pensava né sapeva che non stesse bene. Credevamo che se ne stesse arroccata nella sua casa al mare, o magari a Roma a meditare su qualche nuova esperienza in tv. Era una donna curiosa. Una che non si arrendeva all' età».
Qual è stata l' ultima volta in cui l' ha vista?
«L' ultima volta nella piscina della vecchia casa di Gianni. Era truccata, piena di quella sua vitalità straordinaria. Non ci vedevamo molto, ma di recente ho fatto un filmato documentario sulla storia sua e di Gianni. Si conobbero sul set di uno spot».
E la prima volta?
«Sempre a casa di Gianni, in una cena da lui. Quella casa è poi diventata la sua. Gianni si era trasferito in un altro appartamento, nello stesso stabile».
Che tv era la tv di Carrà?
«Oggi si è chiuso il sipario della bella tv del tempo che fu. Carrà era un simbolo di quella tv, che allora aveva in mente non solo l' ascolto, ma soprattutto la qualità dei programmi. Antonello Falqui, Enzo Trapani (registi tv, ndr) cercavano l' arte. E l' arte poteva essere anche un balletto, una canzoncina o un' ospitata di Raffaella».
E l' ombelico? Il Tuca Tuca?
«Non offendevano mai il buon gusto: anche quando Raffaella faceva il Tuca Tuca, lo faceva con prudenza. L' ombelico lo ha esposto con grazia. Faceva una tv vera, popolare: si poteva anche sorridere di trasmissioni come Carramba, ma era un modo affettuoso per riunire famiglie e amori finiti, amici e parenti, e tutto con garbo. Raffaella conosceva il gusto della gente, imponeva mode, acconciature, stili e programmi. Il suo universo era quello di una tv che era la più bella del mondo. Una tv che non veniva snobbata dai ragazzini.Sa cosa mi auguro?».
Cosa?
«Spero che le Teche Rai conservino e restaurino tutto il materiale dei suoi programmi. Quella tv deve rimanere. Da vecchio della Rai non posso accettare che quei programmi cedano al logorio del tempo. Dovrebbero essere conservati su un piatto d' argento. Gli anni Ottanta erano la belle époque della tv italiana. Irripetibili. Indimenticabili».
Veronica Cursi per ilmessaggero.it il 6 luglio 2021. «Ho avuto due grandi storie d’amore note, con Boncompagni e con Iapino. E altre ignote che non rivelerò mai. Mia madre voleva io sposassi un medico o un architetto, ma che gli raccontavo? Con loro invece c’è stato lo stesso linguaggio». Parlava così Raffaella Carrà, la star della tv italiana morta ieri a 78 anni in seguito a una malattia devastante tenuta segreta fino all'ultimo. La Raffa nazionale ha sempre coniugato amore e lavoro. «Il babbo che cercavo l’ho trovato in Gianni Boncompagni, che aveva 9 anni più di me. Finalmente mi sono rilassata. Per tutta la giovinezza mi era mancata la spalla a cui appoggiarmi», aveva svelato. L'omaggio anche all'ultimo compagno della sua vita: Iapino. «Con Sergio c’è stato un rapporto diverso: lui è più giovane di me (dieci anni meno), capiva e amava le stesse cose mie. Del resto io da bambina volevo fare la coreografa, che è il suo mestiere. C’era un rapporto più giocoso, scherzoso, che poi è diventato amore, e poi per scelte diverse è finito. Ma siamo in ottimi rapporti perché il bene non muore mai».
Il matrimonio, i figli e quel rimpianto. «Non mi sono mai voluta sposare e mi ha sempre fatto arrabbiare non poter adottare figli senza l'obbligo di questo anello», dichiarò in una delle interviste più recenti. Con Boncompagni l'amore cominciò nel 1968, anno del loro primo incontro. Galeotta un'intervista. «Un giorno - ha raccontato in passato Raffaella - mi chiese un'intervista alle 5 del mattino in piazza di Spagna con due poltrone, un tavolino ed un abat-jour. Pensai “questo è matto” ma mi incuriosii e andai. Dopo un anno circa ci mettemmo insieme. Avevo bisogno di un uomo più grande che mi desse sicurezza, di una figura maschile capace di sostituire, nel mio immaginario, quella di mio padre, un vero playboy». Boncompagni è stato autore dei suoi maggiori successi musicali. E' grazie alla collaborazione con lui che prende vita Pronto, Raffaella?, trasmissione che le dà vera e propria consacrazione televisiva, di cui lui è autore e regista. Dopo la rottura, avvenuta undici anni dopo, i rapporti sono sempre rimasti sereni, tanto che Raffaella ha sempre mantenuto un legame con le figlie di lui, Claudia, Paola e Barbara Boncompagni, per cui è stata una figura fondamentale. "Per noi è stata un po’ una mamma, quella che ci era mancata - ha raccontato proprio Barbara - Io le stavo sempre alle costole. Seguivo le prove dei suoi spettacoli. Assistevo ammirata al suo trucco e parrucco, la tallonavo quando andava in tournée…casa nostra era un laboratorio di idee".
Il legame con Sergio Japino. Un altro amore nella vita di Raffaella è stato il coreografo e regista Sergio Japino. Sempre molto schivi e riservati, i due hanno preferito far parlare il loro sodalizio artistico vivendo l’amore al riparo dai riflettori. La conoscenza alla fine degli anni Ottanta, poi numerosi successi insieme: Raffaella Carrà Show, Carràmba che sorpresa, sino all'ultimo prodotto televisivo che li ha visti uniti, ovvero A raccontare comincia tu, del 2019. Anche nel caso di Japino, non ci sono stati rancori dopo la fine della storia d'amore. «Oggi sarei libera di amare chi voglio in tutta chiarezza perché da tempo Sergio Japino ed io abbiamo deciso di vivere le nostre strade pur rimanendo profondamente legati», dichiarò lei. «Raffaella e io siamo legati nell’anima. Siamo più che fratelli, abbiamo lo stesso sangue, non so come dire. Una normale storia d’amore è molto piccola rispetto a quella che viviamo noi». Tanto che è stato proprio lui ieri a comunicare la triste notizia: «Raffaella ci ha lasciati. È andata in un mondo migliore», ha scritto.
Quel flirt con Frank Sinatra. Tante, poi, le love story affibbiate ma presto smentite. Su tutte quelle con Frank Sinatra, con il quale divise il set del film Il colonnello Von Ryan. «Lui era anche simpatico - confessò in un'intervista al Messaggero - ma era sempre con brutta gente. Io ero l'unica donna nel cast e lui per fare il galante volle subito regalarmene una. Io non la volevo perché immaginavo la contropartita. L'addetta stampa, però, mi disse che non potevo rifiutare: si sarebbe offeso. E questo non poteva succedere. Nella camera d'albergo la misi dentro un posacenere e la lasciai lì per un giorno. Al mio rientro non c'era più». C'era del vero invece negli amori con il calciatore della Juventus Gino Stacchini, suo fidanzato di gioventù per otto anni, e con il cantante Little Tony.
Da “adnkronos.it” il 5 luglio 2021. L’impeccabile caschetto biondo adottato nei primi Anni '70 e quasi immutato da allora. L’ombelico scoperto in anni di censure televisive. Le eleganze maliziose e gli eccessi indossati con ironia. Il bianco, il nero, il rosso, l’oro come colori di riferimento. Una cascata di cristalli a rendere indimenticabile il sorriso innocente, un crêpe speciale per fasciare i movimenti sexy. Personaggio dello star system e simbolo di assertività femminile, amata e celebrata secondo logiche trasversali da mondi diversi come la televisione, la moda, i gay, le casalinghe, gli intellettuali, Raffaella Maria Roberta Pelloni, in arte Raffaella Carrà, 75 anni compiuti lo scorso 18 giugno di cui 66 spesi davanti alle telecamere del cinema e delle televisioni mondiali, è la dimostrazione di come si possa conquistare e mantenere il successo rimanendo fedeli a se stessi. Lo rivela la prima mostra che il mondo della moda le dedica, analizzando l’opera dei grandi creatori del cinema e della televisione che l’hanno caratterizzata e vestita fin dagli albori della sua carriera e delle firme storiche e nuove della moda che a lei si sono ispirati. 'Iconoclasti. Lo stile di Raffaella Carrà nell’opera di costumisti e stilisti' è l’esposizione che dal 29 giugno al 15 luglio accompagna la nuova edizione di Altaroma, organizzata per la prima volta negli Studi di Cinecittà, grazie alla collaborazione con Istituto Luce - Cinecittà. Curata presso il Teatro 1 con un allestimento di grande impatto da Fabiana Giacomotti, autrice e direttore scientifico del Master in Teoria e Strategie della Moda a La Sapienza, specialista di costume televisivo, coadiuvata da Annalisa Gnesini, giovane curatrice che ha collaborato a numerose mostre di moda e costume in Italia e all’estero, l’esposizione mette in evidenza i segni e le simbologie più nascoste del 'fenomeno-Carrà', attraverso costumi, abiti, accessori, oggetti, video, foto, i disegni preparatori e i bozzetti dei più grandi costumisti televisivi e cinematografici come Enrico Rufini, Corrado Colabucci, Luca Sabatelli, Gabriele Mayer, Gabriella Pera, e gli abiti degli stilisti che a questi segni si sono ispirati. Quaranta costumi, selezionati fra oltre 400, provenienti dall’archivio storico della Rai, di Annamode, della sartoria The One, e di Collezioni Carrà di Giovanni Gioia e Vincenzo Mola, di cui la maggior parte mai esposta fino ad oggi, permettono di identificare gli elementi, i tratti e le ricorrenze stilistiche di Raffaella Carrà in un continuo gioco di rimandi fra costume e moda che diventa evidente nella selezione di abiti firmati da nomi come Renato Balestra, Greta Boldini, Luigi Borbone, Mario Dice, Antonio Grimaldi, Giuseppe di Morabito, Guillermo Mariotto per Gattinoni, Leitmotiv, Fausto Puglisi, Marco Rambaldi, Francesco Scognamiglio, Daizy Shely. Attentissima la scelta delle fotografie, fra cui un inedito offerto da Niccolò Moschini, figlio del grande impresario Pino, a lungo collaboratore di Raffaella Carrà. Molto curata la costruzione dei video, selezionati fra le oltre 19mila referenze custodite in Rai Teche. Fra gli oltre cento bozzetti in mostra anche la straordinaria selezione preparatoria del "personaggio-Carrà", risalente ai primissimi Anni '70 e firmata da Colabucci, generoso prestito di Stefano Rianda. Specialissimo anche il catalogo-gadget a tiratura limitata per gli ospiti. Un "tributo a Raffaella Carrà" in versione "paper doll" su disegni di Cinzia Leone e comprensivo del cartamodello di una delle sue tute più famose, progettata da Simone Bruno dell’Accademia Koefia.
Leda Balzarotti per "iodonna.it" il 5 luglio 2021. «La mia ricetta è stata non aver mai vissuto un giorno vuoto» così si raccontava qualche anno fa Raffaella Carrà, e non si fa fatica a crederle visto la carica vitale che da sempre la contraddistingue e che non ha mai abbandonato la soubrette nata il 18 giugno del ‘43, quando uno dei più terribili bombardamenti della seconda guerra mondiale colpiva Bologna, la leggenda narra che trascorse le prime ore di vita in un rifugio antiaereo in braccio alla mamma. Passata la guerra Raffaella, al secolo Raffaella Maria Roberta Pelloni, già a quattro anni indossa scarpette e tutù e insegue il sogno di diventare una stella dello spettacolo, con a fianco sempre la nonna Andreina, «l’unica che approvava le mie scelte artistiche». Contrariamente a quello che tutti pensano, a tenere a battesimo nel mondo dello spettacolo la Raffa nazionale è il cinema, non la televisione, il debutto infatti è nel 1950 – a nove anni – nella pellicola Tormento del passato, diretta da Mario Bonnard. Poi gli studi al Centro Sperimentale di Cinematografia la portano al teatro e alla radio dove conduce la trasmissione Raffaella col microfono a tracolla e, nel 1962, alla televisione con il programma “Il paroliere questo sconosciuto” a fianco di Lelio Luttazzi. Nonostante l’esordio precoce, la scalata al successo non fu facile e per otto anni Raffaella cercò di trovare la sua strada nel mondo dello spettacolo, tra una pellicola con Mario Monicelli – I compagni -, una parte accanto a Frank Sinatra ne “Il colonnello Von Ryan”, e alcune trasmissioni televisive ormai dimenticate, accettò a malincuore – a dire il vero, tra le lacrime – il nuovo nome d’arte, quel Carrà inventato per lei dallo sceneggiatore televisivo Dante Guardamagna. La svolta per la futura primadonna del sabato sera, arrivò nel 1969 con la trasmissione “Io, Agata e tu”. «Quell’exploit l’ho ormai archiviato come la mia vittoria più bella – racconta a Gianni Melli del settimanale Oggi -. Con quella breve apparizione ho spazzato via otto anni di battaglie perdute, passando dal minimo al massimo in un baleno. Mi sentivo provinciale, con l’animo compresso da incredibili tabù, e subito mi sono sbloccata». Arriverà lontano la ragazza che al suo primo festival di Venezia era caduta ruzzolando giù dalle scale tra l’imbarazzo dei presenti. Lei che sul palcoscenico del Sistina rubò quasi la scena a Marcello Mastroianni, in “Ciao Rudy”, che dal teatro con Gino Cervi era passata alla rivista con Macario, che però l’aveva poco amata e ne snobbò il talento. Un infinito saliscendi, poi a Parigi, era il 1969, scoprì il musical “Hair”, e «rimasi come fulminata». Dopo “Io, Agata e tu”, l’eclettica Carrà approdò stabilmente in televisione, e fu la volta di “Canzonissima”, accanto a Corrado che s’incaponiva a darle del lei, e solo dopo molte insistenze era passato a darle del tu in diretta. L’affiatamento tra i due aveva convinto il pubblico e i dirigenti Rai. Grazie all’aria familiare, garbata e spiritosa la coppia Carrà-Corrado si aggiudicò anche la successiva edizione, spazzando via lo scandalo della pancia nuda della Carrà, che aveva diviso l’Italia e pure il Cda della Rai. Ma la showgirl al ritmo di “Tuca Tuca” aveva ormai conquistato l’affetto del pubblico. Il 1974 fu il suo anno d’oro: duettò con Mina nella fortunatissima trasmissione “Milleluci”, e aveva avuto carta bianca per “Canzonissima”. A metà degli anni Settanta, era partita alla conquista anche del Sudamerica, mentre le sue canzoni scalavano le classifiche internazionali. Per poi fare ritorno in Patria, e diventare padrona di casa del sabato sera targato Rai con “Fantastico”, sempre accanto a Corrado. Protagonista assoluta della televisione, non solo italiana, Raffaella Carrà è stata capace di rinnovarsi innumerevoli volte, mettendo a segno programmi tra i più indovinati del piccolo schermo tra cui “Pronto… Raffaella?” Che arriverà a registrare ascolti record, così come il format innovativo “Carràmba”!, con share che supereranno in alcune puntate, il 60%. Da sempre sembra avere il dono speciale di mettere a suo agio chiunque, come quando nella lunga diretta di “Domenica In”, Franca Rame confidò che voleva separarsi da Dario Fo. Ma non è sempre filato tutto liscio, nel’78 le sei puntate del programma “Ma che sera” si erano chiuse tra polemiche e critiche anche crudeli, e nei corridoi di viale Mazzini correva la voce che «la Carrà non piace più al pubblico. È finita per sempre». Mai parole sono state meno profetiche.
Addio Carrà, una vita da Raffaella. La regina della tv è morta a 78 anni. Una lunga carriera che ha rivoluzionato il varietà: la sua avventura era iniziata prestissimo come attrice. Poi il successo in tv con "Canzonissima" e "Milleluci" fino ai trionfi di "Pronto Raffaella?" e "Carramba che sorpresa". Silvia Fumarola su La Repubblica il 5 luglio 2021. Parlandole, capivi che dietro il successo c’era una forza di carattere rara. Raffaella Carrà era una donna fortissima. Vera. Si è spenta a 78 anni dopo una breve malattia. «Raffaella ci ha lasciati. È andata in un mondo migliore, dove la sua umanità, la sua inconfondibile risata e il suo straordinario talento risplenderanno per sempre»: così Sergio Japino, suo compagno per lunghissimo tempo, ha dato l’annuncio della morte unendosi al dolore degli adorati nipoti Federica e Matteo, di Barbara, Paola e Claudia Boncompagni, degli amici di una vita.
Raffaella Carrà, quell'ombelico che spaventò l'Italia. Star assoluta della televisione non solo nostra, di un tempo in cui la popolarità e il successo si guadagnavano con la bravura, l’impegno, la fatica, le rinunce, la Carrà, come la si chiamava, ha resistito nel cuore della gente per decenni, fino alla fine. Natalia Aspesi su La Repubblica il 5 luglio 2021. Ballo ballo, un film spagnolo (Explota explota, in inglese My heart goes boom, recente e stupidino-carino, l’ha appena celebrata con la colonna sonora tutta di sue celebri canzoni, cantate e ballate però da altri, e lei, la Raffaella di pochi mesi fa, alla fine sbuca dal fianco dello schermo, ridente come sempre, con la frangia bionda di sempre, vestita di rosso, che muove la mano per salutare: come se dicesse, "grazie" e "ciao a tutti, me ne vado".
Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 6 luglio 2021. (...) Star assoluta della tv non solo nostra, di un tempo in cui la popolarità e quindi il successo si guadagnavano con la bravura, l' impegno, la fatica, le rinunce, la Carrà, come la si chiamava, ha resistito nel cuore della gente per decenni, tuttora amata: cominciando a lavorare a 8 anni, attrice bambina in un film dal titolo terribile, Tormento del passato e poi lavorando tutta la vita, come non si fa più, perché è fatica ma anche perché non sei abbastanza bravo per durare più di un Sanremo o di un X Factor , e non basta la gonna di lamé per farti divo. L'anno scorso gli inglesi avevano frainteso la sua malizia per famiglie eleggendola "sex symbol europeo" e addirittura "icona culturale che ha insegnato all' Europa le gioie del sesso". Se aspettavamo lei, per dire, eravamo ancora qui a chiederci come si farà? Fraintendimento che in Italia si era verificato molti anni fa, quando in una Canzonissima del '69 cantando e ballando nella sigla Ma che musica maestro aveva osato apparire con un millimetro di ombelico esposto! E vescovi e buoni padri di famiglia che ritenevano e ritengono ancora le donne creature del diavolo, la giudicarono pericolosa (anche il suo Tuca tuca ). Una professionista, roba fuori moda. Più commovente oggi non perché non c' è più, ma perché le nostre attuali star non cantano, non ballano, si vestono fluido non per piacere, orrore, ma per fare inclusione cioè politica. Accusata di provocare, la davvero inimitabile star fu invece la più integerrima: canzoni vispe ma caste, vita personale mai esibita, il suo Japino fidanzato e poi fraterno amico, niente foto discinte o video sporcaccioni. Niente mariti, niente figli. Solo canzoni e lavoro, e denaro, tanto, giustamente. E a confermare la sua innocenza, la passione sfrenata per lei degli omosessuali, quelli che un tempo adoravano Wanda Osiris, e che hanno premiato più volte persino me.
Raffaella Carrà, l'amico Pippo Baudo: "Una primadonna con il talento della normalità".
Il ricordo del presentatore: "Lavorare con lei era il mio sogno. Era una donna speciale". Silvia Fumarola su La Repubblica il 5 luglio 2021. «La forza di Raffaella era la normalità» dice Pippo Baudo. «Era una donna normale che è riuscita a diventare una primadonna grazie a una forza di volontà eccezionale, un desiderio di farcela che non l’ha mai fatta fermare davanti alle difficoltà. Non sapevo che fosse malata, la notizia è stata un colpo al cuore». Lunga pausa.
Lo showman parla della sua amicizia con "Raffa": "Non è etichettabile, dicono che gli occhi siano lo specchio dell’anima e i suoi erano brillanti, pieni di voglia di fare". Silvia Fumarola su La Repubblica il 5 luglio 2021. «L’ho appena saputo: una fucilata mi avrebbe fatto meno male. Ma com'è possibile? Mi aveva chiamato Renato Zero per avere sue notizie, non l’aveva vista all’Argentario, come al solito. Era allarmato: “Perché Raffaella non è qui?”. Amava la sua casa al mare. Allora ho chiamato Barbara (Boncompagni, ndr) che mi ha rassicurato». Renzo Arbore non trattiene le lacrime.
Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 6 luglio 2021. «La forza di Raffaella era la normalità» dice Pippo Baudo. «Era una donna normale che è riuscita a diventare una primadonna grazie a una forza di volontà eccezionale, un desiderio di farcela che non l'ha mai fatta fermare davanti alle difficoltà. Non sapevo che fosse malata, la notizia è stata un colpo al cuore». Lunga pausa. «Aveva un sorriso bellissimo e uno sguardo sorridente. Io la voglio ricordare così».
Baudo, quando vi siete conosciuti?
«Una vita fa. Eravamo due provinciali sbarcati a Roma: io da Catania lei, da Bellaria. Era determinatissima».
In tv c' eravate lei, Mike, Corrado, Vianello, Tortora. E c' era Raffaella Carrà.
«Era una donna speciale, che in tv ha fatto tutto, ha avuto coraggio e ha anche rischiato. Diciamo la verità: quale donna avrebbe avuto il coraggio di fare coppia con Mina?
Era bellissima, cantava da Dio, era più alta di venti centimetri... Invece Raffaella fece Milleluci. Senza sfigurare. Anzi».
Il pubblico l'amava.
«La amò subito, anche perché era simpatica: sapeva comunicare. Nel varietà di Antonello Falqui si impose, cantava con Mina e cantava benissimo».
Il segreto del successo?
«Lo studio. Non lasciava niente al caso, era una perfezionista. Con una caratteristica in più, fondamentale: la normalità. Una normalità straordinaria, ma le donne si riconoscevano in lei.
Quando le ragazze la guardavano in tv pensavano che avrebbero potute essere anche loro le nuove Carrà».
Che poi non è così vero perché la forza di volontà della Carrà era rara.
«Verissimo. Però non era una creatura irraggiungibile, era una "diva casalinga", nel senso che era la diva della porta accanto anche se ha fatto cose pazzesche: era una soubrette completa. E ha sempre cantato, ha fatto le tournée in America Latina, ha avuto un successo pazzesco in Spagna.
Non potrò mai dimenticarlo: ero a Madrid, vedo un manifesto, Raffaella Carrà a Plaza de Toros.
Compro il biglietto, si esibiva lei da sola con il suo gruppo: c' erano ad applaudirla trentamila persone. Una cosa incredibile, un amore come per nessun' altra italiana».
Tutti ricordano che era una perfezionista. Oggi è cambiato tutto?
«Ma non parliamone nemmeno, ora pensano che basta apparire una volta, essere belle. Raffaella lo era perché studiava tanto. Ogni volta che affrontava un programma si preparava. Mai dato niente per scontato. Ma oggi chi lo fa? Si guardi in giro».
Non vede nessuno?
«Nessuno. Si guardi intorno: lei è rimasta l'ultima soubrette, il simbolo di una televisione bella, scritta, pensata».
Non avete mai lavorato insieme.
«Era il mio sogno. Ci siamo trovati tante volte insieme, ricordo la conferenza stampa clamorosa in cui passammo a Canale 5 con Silvio Berlusconi che ci presentava. Era felice di aver catturato due prede come noi... Ma non abbiamo fatto programmi insieme. Per me resta un grande rimpianto».
Se lo desiderava perché in tanti anni non siete mai riusciti a combinare?
«Perché lei era molto amica di Corrado, molto affezionata a lui. E non c' è mai stata l'occasione».
Quella di Raffaella Carrà è stata una carriera lunga, ha sempre saputo rinnovarsi.
«Amava il suo lavoro. Riflettevo sulla sua vita privata, so che aveva il rimpianto di non aver avuto figli, ma alla fine credo che sia stata felice. Ha fatto teatro, cinema con Frank Sinatra. Bucava lo schermo, ha combattuto per il successo e lo ha ottenuto».
Era modernissima: passava dai varietà alle canzoni, le sigle sono rimaste nella memoria.
«Avendo avuto come spalla e come compagno Gianni Boncompagni, che era eccezionale, ha sperimentato tanto. Era spiritosa e Gianni è stato il navigatore che l'ha portata in alto. Com' è bello far l'amore da Trieste in giù è un capolavoro».
Perché la cantava lei.
«Certo. Perché la cantava lei col suo stile, camminando su quell' Italia in miniatura di cui si impossessava. Geniale».
Non c' è un'erede di Raffaella Carrà?
«Ma per carità, viviamo in una mediocrità totale».
Raffaella Carrà, quelle sue canzoni che fecero girare la testa al mondo. Fu la prima italiana a entrare nella chart britannica, arrivando a vendere 60 milioni dischi. Amatissima nei paesi latini, le sue hit hanno fatto innamorare anche nomi insospettabili. Come Bob Sinclair, che con il remake di "A far l’amore comincia tu" ha conquistato i dancefloor odierni. Ernesto Assante su La Repubblica il 5 luglio 2021. Partiamo da un dato di fatto: la prima donna italiana ad essere entrata in classifica in Inghilterra è stata lei, nel 1978, nella top ten britannica con Do it do it again, versione inglese di A far l’amore comincia tu. E non si trattò di un errore, di un caso, ma del ragionevole punto d’approdo di una showgirl diversa da tutte le altre, in grado di essere italiana e internazionale al tempo stesso, familiare e sexy, popolare e trendy, pizza, pasta e disco music.
Raffaella Carrà: evoluzione dello stile di un'icona. Sarà ricordata come un simbolo di emancipazione, Raffaella Carrà, idolo della televisione italiana. In un articolo dedicato vi raccontiamo la sua storia dalla Riviera Romagnola alla Rai di Roma, tra programmi tivù, canzoni mitiche, uno stile che ha cambiato l'Italia con l'incorruttibile caschetto biondo. E in questa gallery celebriamo il suo stile: dal look marineretta all'ombelico rivoluzionario. La più amata dagli italiani ha resistito imperterrita alle mode, alle epoche, alle musiche, ai su e giù dei vertici Rai e al sali e scendi di veline&letterine. Storia di una donna che ha cambiato la società a colpi di paillettes. Modernissima anche nei suoi legami d'amore, come quelli storici con Gianni Boncompagni e Sergio Japino.
IL RICORDO. Addio Raffaella Carrà, resterai sempre la più amata dagli italiani. Beatrice Dondi su L'Espresso il 5 luglio 2021. La conduttrice scompare a 78 anni. La sua è stata una carriera irripetibile tra tv, musica e costume. Nel 1984 Giovanni Minoli lanciò un sondaggio durante Mixer chiedendo di votare il personaggio più amato d'Italia. I risultati, sorprendenti, finirono sulla copertina del Radio Corriere: Papa Woytila, Sandro Pertini e Raffaella Carrà. Ma non in quest'ordine. Il presidente partigiano arrivò terzo. Al secondo posto, dopo il Pontefice, Raffaella Maria Roberta Pelloni da Bologna. Che se ne è andata così, a 78 anni, senza un vero perché. Erano gli anni in cui Bettino Craxi tuonava con indignazione contro il suo compenso stellare, considerato «Una vergogna» (e si sa che all'epoca il dispendio di denaro non andava granché di moda) ma la signora dal caschetto firmato Vergottini, forte di un nome d'arte che citava ben due pittori, espose il suo titolo di più amata dagli italiani per raccontare il mondo accogliente delle cucine. Con le mani saldamente serrate sui fianchi, in quella posa che le apparteneva talmente tanto da essere immortalata in una statuina formato Oscar per celebrare i suoi primi trent'anni di carriera, Raffa si aggirava tra i mobiletti laccati con un tocco di lucidalabbra rosato e avvolta nei suoi abitini con le spalline fuori scala. Per raccontare al suo pubblico adorante la necessità di un mondo bello e solido, curato nei particolari e dotato di tutto. Difficile pensare a una corrispondenza maggiore tra spot e testimonial. Perché, per citare un suo celebre gioco telefonico su Rai Due nel lontano 1990, se Raffaella fosse un luogo sicuramente sarebbe una cucina. Quel posto familiare, dove alla fine, gira che si rigira, ci si ritrova sempre. Perché come diceva Tiziano Ferro, “E Raffaella canta a casa mia”. Nata emiliana, allevata romagnola, sessanta programmi televisivi, trenta film, nove sceneggiati e 21 dischi di platino, la regina dall'ombelico a tortellino nella sua vita professionale smisurata e poliglotta in cui ha reso plausibile un record di ascolti davanti a un barattolo di fagioli ha prodotto persino un libro di ricette. In cui dispensava consigli e prezzemoli dai titoli ego riferiti: Insalata Soca Dance, zuppa di Raffaella, strozzapreti alla Carrà. E così via. La sua risata generosa come un piatto di fettuccine, la sua dichiarata passione per la buona tavola e la golosità assoluta con cui chiunque la guardava e si sentiva sazio è diventata la regina dell'immaginario individuale. Perché collettivo è troppo facile. Ora di lei rimarrà un mondo intero al di là dei suoi programmi televisivi. Perché solo se nasci nei suoi abiti puoi permetterti di passare dal Principe Azzurro al divano bianco di Carramba e uscirne indenne, pulita, trionfante. Ci mancherai Raffa, senza di te sarà difficile cominciare a fare l'amore.
Addio a Raffaella Carrà, regina della tv. Aveva 78 anni. RaiNews.it il 5/7/2021. L'annuncio di Japino: "Il suo talento risplenderà per sempre". La grande artista televisiva si è spenta oggi dopo una malattia. 05 luglio 2021 È morta all'età di 78 anni Raffaella Carrà, definita la Regina della tv italiana. Showgirl, cantante, ballerina, attrice, conduttrice televisiva, radiofonica e autrice televisiva. "Raffaella ci ha lasciati. È andata in un mondo migliore, dove la sua umanità, la sua inconfondibile risata e il suo straordinario talento risplenderanno per sempre". Con queste parole Sergio Japino dà il triste annuncio unendosi al dolore degli adorati nipoti Federica e Matteo, di Barbara, Paola e Claudia Boncompagni, degli amici di una vita e dei collaboratori più stretti. Durante la sua lunga carriera, Raffaella Carrà è diventata un'icona della musica e della televisione italiana, riscontrando grandi consensi anche all'estero, soprattutto in Spagna. "Raffaella Carrà si è spenta alle ore 16.20 di oggi, dopo una malattia che da qualche tempo aveva attaccato quel suo corpo così minuto eppure così pieno di straripante energia", si legge nel comunicato di Japino diffuso dalle agenzie. "Una forza inarrestabile la sua, che l'ha imposta ai vertici dello star system mondiale, una volontà ferrea che fino all'ultimo non l'ha mai abbandonata, facendo si che nulla trapelasse della sua profonda sofferenza. L'ennesimo gesto d'amore verso il suo pubblico e verso coloro che ne hanno condiviso l'affetto, affinché il suo personale calvario non avesse a turbare il luminoso ricordo di lei". "Donna fuori dal comune eppure dotata di spiazzante semplicità, non aveva avuto figli ma di figli - diceva sempre lei - ne aveva a migliaia, come i 150 mila fatti adottare a distanza grazie ad "Amore", il programma che più di tutti le era rimasto nel cuore". Le esequie saranno definite a breve. "Nelle sue ultime disposizioni - si legge ancora nella nota - Raffaella ha chiesto una semplice bara di legno grezzo e un'urna per contenere le sue ceneri. Nell'ora più triste, sempre unica e inimitabile, come la sua travolgente risata. Ed è così che noi tutti vogliamo ricordarla. Ciao Raffaella", conclude il comunicato. Nata a Bologna il 18 giugno 1943 come Raffaella Maria Roberta Pelloni, la ballerina e cantante, dopo il debutto in televisione in "Tempo di danza" (1961), al fianco di Lelio Luttazzi, e nella commedia musicale "Scaramouche" (1965), nel 1970 approdò a Canzonissima, divenendo nota al grande pubblico. Fu così che la Carrà divenne la prima showgirl del piccolo schermo in bianco e nero. Notevole successo ottenne nel 1984 con "Pronto, Raffaella", che raggiunse ascolti straordinari per la fascia meridiana. Conduttrice di "Domenica in" (1986) sempre per la Rai, nel 1987 passò per un breve periodo a Canale 5, per poi tornare nel 1991 a Raiuno con la trasmissione "Fantastico 12". Dopo una parentesi di quattro anni a Madrid, dove portò il programma "Hola Raffaella" per la televisione spagnola, è rientrata in Italia nel 1995 riproponendosi con successo in "Carramba! Che sorpresa" (1995-97 e 2002), trasmissione ispirata al varietà britannico "Surprise, surprise". Ha quindi continuato a raccogliere consensi presentando "Carramba! Che fortuna" (1998-2000 e 2008) e "Segreti e … bugie" (1999), sempre su Raiuno. Nel 2001 ha condotto il Festival di Sanremo, nel 2004 il programma "Sogni", mentre dedicato alle adozioni a distanza è stato "Amore" del 2006. Nel 2007 è uscito "Raffica Carrà", raccolta videomusicale delle numerose sigle televisive che ha interpretato. Nel 2013 è tornata sul piccolo schermo su Raidue come coach del talentshow "The Voice of Italy" ed è uscito il suo ultimo album "Replay". Nel 2015 ha condotto su Raiuno il talent show "Forte forte forte" e ha interrotto la sua partecipazione a "The Voice of Italy", ripresa l'anno successivo. Del 2019 è il suo ultimo programma "A raccontare comincia tu" su Raitre.
Raffaella Carrà, Maria De Filippi: "Ti vedo sempre...". AdnKronos.com il 5 luglio 2021. "Non può morire perché tutti la conoscono, tutti conoscono i suoi occhi". "Mi è arrivato un whatsapp, ho aperto distrattamente così come si fa sempre, come fanno tutti. Stai facendo altro e parte il suono. Ho letto che Raffaella non c'era più. L'ho letto, riletto e ho pensato: 'Non è vero'. Ho pensato la cosa giusta, perché una come lei non muore mai. Non può morire perché tutti la conoscono, tutti conoscono i suoi occhi, il suo caschetto, la sua frangia, la sua risata e tutto quello che solo lei sapeva e sa fare". Così Maria De Filippi ricorda Raffaella Carrà, morta oggi all'età di 78 anni. "Raccontava storie e continuerà a farlo - aggiunge De Filippi - faceva emozionare e continuerà a farlo, sapeva cantare e continuerà a farlo, sapeva ballare e continuerà a farlo, sapeva intrattenere e continuerà a farlo. Lei è e sempre sarà la televisione con la T maiuscola, quella a cui tutti ambiscono. Un giorno mi ha detto: 'Quando vieni all'Argentario giochiamo a burraco, sono certa che ti batto'. Anche io ne ero certa e ne sono certa ancora. Quando è venuta ad Amici, era tutto pronto: canzoni, coreografie...Si è seduta sugli scalini e mi ha detto: "Fammi vedere cosa hai preparato". Ha visto e ha cambiato tutto come solo lei sapeva e sa fare. Le ho scritto per il suo compleanno e mi ha risposto con un semplice "Grazie". Anche in quella risposta c'è la dignità di chi vive eternamente. Non riesco a salutarti perché so che tanto ti vedo sempre. Maria".
"La malattia aveva attaccato il suo corpo". Valentina Dardari il 5 Luglio 2021 su Il Giornale. Un corpo minuto ma allo stesso tempo straripante di energia. Malata da tempo, non aveva voluto rendere pubblica la sua malattia. Sergio Iapino ha parlato della malattia che ha colpito Raffaella Carrà, morta alle 16.20 di oggi, lunedì 5 luglio, spiegando che “da qualche tempo aveva attaccato quel suo corpo così minuto eppure così pieno di straripante energia. Una forza inarrestabile la sua, che l’ha imposta ai vertici dello star system mondiale, una volontà ferrea che fino all’ultimo non l’ha mai abbandonata, facendo si che nulla trapelasse della sua profonda sofferenza. L’ennesimo gesto d’amore verso il suo pubblico e verso coloro che ne hanno condiviso l’affetto, affinché il suo personale calvario non avesse a turbare il luminoso ricordo di lei”.
Il triste annuncio di Iapino. Raffaella Carrà, all’anagrafe Raffaella Maria Roberta Pelloni, era nata a Bologna il 18 giugno del 1943. A soli 9 anni aveva iniziato la sua carriera nel mondo dello spettacolo, conquistando tutto il mondo, non solo l’Italia. È stato il regista, per molti anni suo compagno di vita e di lavoro, a dare all’Ansa il triste annuncio della sua scomparsa, all’età di 78 anni. “Raffaella ci ha lasciati. È andata in un mondo migliore, dove la sua umanità, la sua inconfondibile risata e il suo straordinario talento risplenderanno per sempre”, ha detto, “unendosi al dolore degli adorati nipoti Federica e Matteo, di Barbara, Paola e Claudia Boncompagni, degli amici di una vita e dei collaboratori più stretti”. Ancora non è stato reso noto dove verranno celebrati i funerali, ma sempre Iapino ha fatto sapere che nelle sue ultime disposizioni, l’artista ha chiesto una semplice bara di legno grezzo e un’urna per contenere le sue ceneri.
La malattia. Cantante, ballerina, presentatrice, attrice, si è spenta a causa di una malattia che da qualche tempo aveva attaccato il suo corpo, e che Raffaella non aveva mai voluto rendere pubblica. Se n’è andata con discrezione, senza clamore, cercando forse di salvaguardare tutte le persone che l’hanno amata e seguita in tanti anni di carriera. Una malattia, quella che l’ha strappata all’affetto dei suoi fan, che ha attaccato il suo corpo colmo di energia vitale, seppur minuto. In una delle ultime interviste aveva raccontato di aver passato un 2020 particolarmente duro e di aver avuto molta paura a causa del Covid. Aveva raccontato di non uscire di casa e di aver quindi considerato il 2020 come un anno sabbatico, sicura però che il 31 dicembre avrebbe spaccato tutto in privato, festeggiando sulla sua terrazza, anche a costo di chiamare un muratore per rimettere tutto a posto.
Il suo Tweet di ripartenza. Lo scorso 18 giugno, Raffaella Carrà aveva festeggiato il suo 78esimo compleanno ed era stata tempestata di auguri, tanto da portarla a ringraziare tutti con un Tweet con un inno alla ripartenza: "Grazie a tutti! Mi avete sommersa di auguri, il vostro affetto mi commuove, vi abbraccio e vi auguro un’estate con ritorno alla normalità". E ora questo messaggio è stato sommerso da messaggi di affetto e dolore.
Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.
"È andata in un mondo migliore": morta Raffaella Carrà. Francesca Galici il 5 Luglio 2021 su Il Giornale. Si è spenta Raffaella Carrà. A darne l'annuncio è stato il compagno storico Sergio Iapino. Morta Raffaella Carrà. "Raffaella ci ha lasciati. È andata in un mondo migliore dove la sua umanità, la sua inconfondibile risata e il suo straordinario talento risplenderanno per sempre", ha comunicato il compagno storico Sergio Iapino, unendosi al dolore degli adorati nipoti Federica e Matteo, di Barbara, Paola e Claudia Boncompagni. Lo scorso 18 giugno aveva compiuto 78 anni ed era stata festeggiata da tutti i più grandi nomi dello spettacolo e dal suo pubblico. Raffaella Carrà è morta alle 16.20 del 5 luglio a seguito di una lunga malattia che la donna non ha mai voluto rendere pubblica. Raffaella Carrà, nome d'arte di Raffaella Pelloni, è nata a Bologna il 18 giugno del 1943. Ha iniziato la sua carriera nel mondo dello spettacolo all'inizio degli anni Cinquanta. Aveva solo otto anni e debuttò come attrice nel film Tormento del passato di Mario Bonnard. Nel 1960 conseguì il diploma al Centro sperimentale di cinematografia e continuò la carriera come attrice per tutti gli anni Sessanta. Poco dopo il diploma le fu consigliato di cambiare cognome e fu Dante Guardamagna, regista, a suggerirle Carrà, in onore del pittore Carlo. La Carrà capì presto che la quella della recitazione non era la sua strada e così negli anni Settanta cambiò ambito, cercando successo in tv. E questo arrivò con lo spettacolo Io, Agata e tu con Nino Taranto e Nino Ferrer. Raffaella Carrà portò sullo schermo una nuova idea e concezione di showgirl. Era disinvolta, attiva, sorridente e partecipe allo spettacolo. Era il 1970 e solo pochi mesi dopo sconvolse il Paese portando per la prima volta in tv l'ombelico scoperto. Il programma era Canzonissima, condotto da Corrado. La showgirl nella sigla Ma che musica maestro! si mostrò con la pancia scoperta. Fu solo la prima di una delle tante rivoluzioni attuate da Raffaella Carrà nel corso della sua lunghissima carriera televisiva. Uno degli ultimi riconoscimenti che le sono stati assegnati è del 2020 ed è stato il prestigioso The Guardian a consacrarla come sex symbol europeo, definendola "l'icona culturale che ha insegnato all'Europa le gioie del sesso". Nella sua lunghissima carriera ha venduto più di 60milioni di dischi. Le sue canzoni sono icone di un'epoca che non tramonteranno mai, incise nella storia e nella tradizione del nostro Paese come pietre miliari. Nelle prossime ore verrà comunicata la data delle esequie e dell'eventuale camera ardente. Nelle sue ultime disposizioni la showgirl ha chiesto una semplice bara di legno grezzo e un'urna per contenere le sue ceneri.
Panico e lacrime in studio: "Non ce la faccio..." Francesca Galici il 5 Luglio 2021 su Il Giornale. Cristiano Malgioglio è un fiume in piena, non riesce a parlare e abbandona la diretta: la morte di Raffaella Carrà ha piegato il paroliere, suo amico. La notizia della morte di Raffaella Carrà ha colto tutti di sorpresa. Un fulmine a ciel sereno che ha squarciato la tranqillità di un sonnolento lunedì di inizio luglio. Tutti, famosi e meno famosi, stanno lasciando un loro ricordo di Raffaella Carrà sui social. La vita in diretta estate, unico programma attualmente in onda in diretta nelle ore pomeridiane, ha raccolto il ricordo di alcuni personaggi che l'hanno conosciuta bene, che con lei hanno condiviso esperienze televisive e di vita importanti. Ha pianto al telefono Cristiano Malgioglio nel ricordare la sua amica Raffaella. Le parole non riuscivano a uscire a Cristiano Malgioglio, distrutto dal dolore per la perdita di Raffaella Carrà, di cui non ha mai negato di essere un amico ma anche un fan e un sostenitore. "Sono addolorato e piango una amica meravigliosa. Artista meravigliosa . Oggi ho il cuore a pezzi. Riposa in pace e non ti dimenticherò mai... mia adorata #raffaellacarra. Che triste la vita...", ha scritto il paroliere prima di collegarsi telefonicamente con La vita in diretta estate. Al telefono non è riuscito a parlare, piegato dalla notizia troppo fresca, arrivata improvvisa. "Sono disperato", ha solo detto Cristiano Malgioglio prima di abbandonare la diretta. Impossibile per lui continuare, troppo forte il dolore. Come lui anche Enzo Paolo Turchi, compagno di tantissime coreografie, tra le quali il famosissimo e iconico Tuca tuca. Il coreografo l'avvea appena sentita telefonicamente ma nulla in lei aveva fatto trapelare il dolore e la malattia. "Con Raffaella la prima volta avevamo lei 18 anni e io 14, abbiamo girato tutto il mondo, girato cose belle, cose brutte. Scusate ma sono a pezzi. Era la numero uno, come persona, come donna. Mi sento veramente a pezzi. L’avevo sentita poco tempo fa, non mi ha detto niente. Perché lei era comunque una forza", ha detto Enzo Paolo Turchi. Il marito di Carmen Russo ha molti ricordi legati a Raffaella Carrà e na ha voltuto condividere uno estemporaneo con il pubblico: "Mi ricordo una volta che eravamo in Spagna per uno spettacolo, c’era un traffico incredibile in una piazza piena e noi eravamo bloccati in auto, lei ha fermato un signore con la Vespa e ha chiesto un passaggio per andare sul palco a esibirsi di fronte a diecimila persone". Poi sui social spazio al ricordo di Laura Pausini, Vasco, Jovanotti, Gianni Moranti e poi la politica e lo spettacolo tutto, che si sta stringendo in un abbraccio sofferto e addolorato attorno alla grandissima icona della tv italiana e internazionale.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Il ricordo della Carrà unisce l'Italia. Pippo Baudo: "Ultima vera grande soubrette". Raffaello Binelli il 5 Luglio 2021 su Il Giornale. Tutta l'Italia si commuove alla notizia della morte di Raffaellà Carrà. Amata non solo perché brava e simpatica ma anche per le sue incredibili doti umane. Il capo dello Stato Mattarella: "Artista popolare, amata e apprezzata da diverse e numerose generazioni di telespettatori in Italia e all'estero". La morte di Raffaella Carrà ha lasciato un profondo dolore negli italiani. Tutti la amavano non solo per le sue doti artistiche ma anche per la sua innata simpatia e profonda umanità. Che trapela nei ricordi di chi l'ha conosciuta, ammirata o semplicemente applaudita per i suoi lunghissimi anni di carriera nel mondo dello spettacolo. "Sono profondamente colpito dalla scomparsa di Raffaella Carrà - afferma in una nota il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella - un'artista popolare, amata e apprezzata da diverse e numerose generazioni di telespettatori in Italia e all'estero. Volto televisivo per eccellenza ha trasmesso, con la sua bravura e la sua simpatia, un messaggio di eleganza, gentilezza e ottimismo". "Raffaella Carrà è stata uno dei simboli della televisione italiana, forse il personaggio più amato", scrive su Facebook Silvio Berlusconi. "Con i suoi programmi ha saputo parlare a generazioni molto diverse, avendo la capacità di rimanere sempre al passo coi tempi e senza mai scadere in volgarità. Mancherà a milioni di telespettatori che l'hanno amata per il suo stile e a tutti quelli che - come me - hanno avuto l'opportunità di conoscerla e di lavorarci assieme. Io le ho voluto molto bene. Ciao Raffaella". Il presidente Rai Marcello Foa e l'amministratore delegato Fabrizio Salini ricordano "una donna che ha dato al mondo dello spettacolo e alla Rai, al cui ricordo l'Azienda resterà sempre legata, passione, entusiasmo, allegria, creatività e, insieme, un profondo rigore professionale, un amore per i dettagli, un'attenzione continua e un rispetto profondo per il pubblico. A lei va il grazie della Rai per aver scritto pagine fondamentali della storia del servizio pubblico. Raffaella è stata e continuerà a essere - proseguono - un modello al quale ispirarsi, anche per le giovani generazioni, per la sua capacità di parlare a tutti, di innovare e, in molti casi, di precorrere i tempi. Un'artista straordinaria, che resterà impressa nella storia della televisione e che continuerà a essere viva nella memoria collettiva di tutti gli italiani". "Sono immensamente scosso - dice Pippo Baudo -. È stata un'artista eccezionale, un'autodidatta straordinaria, io la conosco dagli inizi della sua carriera. Io non sono riuscito mai a fare un programma con lei, era l'unico rimprovero che le facevo sempre, è il mio grandissimo rimpianto. Aveva studiato ballo - ricorda Pippo trattenendo le lacrime - era diventata anche una grande ballerina. Quando fece coppia con Mina, c'era un'asimmetria notevole tra le due, perché Mina è più alta di lei, eppure lei annullava questa asimmetria. E poi, è una delle poche soubrette italiane, forse l'unica, che ha avuto successo nei paesi ispanici". Baudo ricorda poi un simpatico aneddoto sulla amica e collega legato alla Spagna: "Una volta a Plaza de Toros c'era Raffaella Carrà da sola col suo gruppo, e ricordo intorno trentamila persone. Una cosa incredibile, un amore come per nessun'altra italiana". Il motivo dell'enorme successo e dell'unicità di Raffaella stava, secondo il popolare conduttore, nella semplicità: "Era la bella 'burdela' romagnola, la guappa, aveva una voce forte che faceva impazzire tutti. Il suo modo di essere faceva pensare ad ogni ragazza di poter diventare Raffaella Carrà, invece non era vero. Ci voleva solo il suo talento per essere Raffaella Carrà. È stata l'ultima vera grande soubrette. Sono affranto", conclude Baudo.
"Ma che musica maestro… viva, viva, viva! (R.I.P. Raffaella Carrà)". Così su twitter il cardinale Gianfranco Ravasi ricorda l'artista tanto amata da tutti gli italiani.
"La ricordo sorridente ed allegra, la ricordo che comunicava allegria, simpatia", dice il presidente della Siae Giulio Rapetti, in arte Mogol, uno dei più grandi autori di testi di canzoni italiane. "I suoi spettacoli erano allegri, lei era sorridente, gioiosa e bella".
"5 luglio. Che dolore! Non ci voglio credere...". Con questa brevissima frase Gianni Morandi su Facebook commenta la scomparsa dell'amica Raffaella.
"Questa notizia mi ha tagliato le gambe - scrive su Twitter Simona Ventura - sono incredula, non me l'aspettavo. Sconvolgente. Se ne va l'icona della tv. Per sempre".
"Sei stata, sei e sarai l'unica regina. Per me, per tutto il mondo", scrive su Twitter Laura Pausini. "Ciao Raffaella... sono senza parole", la ricorda Patty Pravo sui social.
"Ciao Raffaella, sei sempre stata una stella senza fare la diva", scrive sui social il cantante J-Ax, che aveva condiviso con la Carrà l'esperienza di giudice nel programma "The Voice". Anche Piero Pelù l'ha conosciuta a The Voice, e la ricorda così: "Raffa, Raffina... ci hai lasciati a bocca aperta ancora una volta. Parlando con J-Ax ora ci siamo detti "com'è possibile, sembrava immortale..." ma pensandoci bene tu immortale lo sei davvero e rimarrai sempre con noi sorridente, solare, curiosa, attenta a tutto e a tutti, sincera, sexy, amorosa. Sei la nostra fata, la nostra Trilly, la nostra icona. Mi unisco al coro di chi ti ama e ti porterà sempre nel suo cuore"
"Ciao fantastica Raffaella Carrà", scrive su Twitter Jovanotti. Altrettanto stringata la frase di Vasco Rossi, sempre su Twitter: "La più bella e la più brava di sempre!! Ciao Raffaella".
"Non è possibile... Il mito di sempre è rinato in Cielo. Rip Raffaella", scrive su Twitter Lorella Cuccarini.
"Quando arriva la signora morte finisce quel senso di festa che c'è intorno", dice Al Bano a Lapresse. "Purtroppo non la vedevo da due anni. Tutti i nostri incontri - ricorda - sono sempre stati piacevoli, abbiamo sempre lavorato bene insieme. Negli anni '70 io lavoravo molto in Spagna, Boncompagni mi chiamò e mi chiese se potevo aiutarlo a farla entrare nel mercato spagnolo. Così con il mio impresario ci attivammo, lei arrivò in Spagna e anche lì ebbe il successo straordinario che tutti conosciamo, poi anche in Sudamerica".
"Con Raffaella Carrà, che avevo conosciuto prima, siamo diventati più amici quando lei era fidanzata con Gianni Boncompagni", ricorda Giancarlo Magalli. "Io abitavo nell'appartamento accanto e con Gianni eravamo molto amici. E quando io andai via da quella casa per un periodo, affittai l'appartamento a Raffaella che per diversi anni diventò mia inquilina. E poi le vendetti casa... Il rapporto di lavoro vero e proprio con Raffaella iniziò nel 1983 quando la Rai aprì la fascia del Mezzogiorno e diede a me e a Boncompagni l'incarico di organizzare un programma per quella fascia. Io e Boncompagni ci lavorammo, la nostra prima idea fu Gianni Morandi, che poi non si concluse. E alla fine Gianni Boncompagni propose Raffaella. Io di Gianni Boncompagni mi fidai. E nacque 'Pronto Raffaella?' e fu un grande successo per tutti".
Il ricordo del mondo della politica. "È stata la storia dello spettacolo nella televisione italiana", scrive in un tweet il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli. "Per professionalità fuori dal comune, educazione, garbo, simpatia. Addio, Raffaella Carrà".
"Una grande tristezza per la morte di Raffaella Carrà, regina della tv e icona di un modo tutto italiano di fare spettacolo", scrive Mara Carfagna, ministro per il Sud e la Coesione territoriale e deputata di Forza Italia. "Piaceva a tutti, cosa rara da noi: con lo spirito libero e solare delle sue canzoni ha unito davvero il Paese".
"La morte di Raffaella Carrà mi coglie impreparata, sbigottita, addolorata", twitta Vladimir Luxuria. "La colonna sonora delle nostre feste e dei nostri Pride, i suoi look imitati da mille drag queen in tutto il mondo, il suo sorriso... farai ballare gli angeli...".
"Ci ha fatto cantare, ballare, emozionare, sorridere - ricorda la senatrice Pd Roberta Pinotti -. Un'artista a tutto tondo con un talento straordinario e un'energia contagiosa. Addio Raffaella, Regina della televisione italiana".
Virginia Raggi, sindaco di Roma, ricorda così la Carrà: "Icona della tv italiana, con il suo sorriso e la sua eleganza è entrata nelle nostre case portando allegria e spensieratezza. Nessuno di noi dimenticherà il suo talento. Roma è vicina alla famiglia e a coloro che l'hanno amata. Ciao, Raffaella". E la collega sindaco di Torino, Chiara Appendino, dichiara: "La tua gioia, la tua energia, la tua forza sono sempre stata pura vita che è arrivata a ogni generazione che ti ha conosciuta. E sono certa che continuerà ad arrivare. Manchi già tantissimo. Ciao Raffaella Carrà".
"Buon viaggio Raffaella - scrive su Twitter il segretario leghista Matteo Salvini - il tuo splendido sorriso ci accompagnerà sempre".
"Verrà ricordata come una delle più grandi stelle dello spettacolo - dice Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia -. Conosciuta in tutto il mondo ha rappresentato la cultura e i costumi dell'Italia, il suo talento e la sua contagiosa risata resteranno per sempre scolpiti nella storia dello showbiz. Ci mancherà".
"L'Italia perde una delle sue icone più intelligenti, gradevoli ed eleganti - scrive su Twitter Enrico Letta, segretario Pd - . La scomparsa di Raffaella Carrà per quelli della mia generazione è davvero un pezzo di vita che se ne va. Profonda tristezza".
"Un'icona della tv italiana, una persona di famiglia per intere generazioni", scrive su Facebook il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. "La sua scomparsa lascia un grande vuoto e tanta, tanta tristezza. Mi stringo al dolore dei suoi cari. Addio Raffaella, resterai per sempre nei nostri cuori".
"L'Italia perde una donna dallo straordinario talento artistico e dalla contagiosa simpatia", scrive su Facebook la presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. "Ciao Raffaella, non ti dimenticheremo". Raffaello Binelli
Gli ultras del Ddl Zan usano la Carrà appena morta. Ignazio Stagno il 6 Luglio 2021 su Il Giornale. Già partita la petizione per cambiare nome al disegno di legge. Tra i fan della proposta anche nomi dello spettacolo. Il Ddl Zan sta accendendo la politica di casa nostra da parecchie settimane. Mentre sfuma l'intesa nella maggioranza e ci si avvia verso lo scontro finale in Senato il prossimo 13 luglio, gli ultras del ddl non si arrendono e arruolano pure Raffaella Carrà morta solo 24 ore fa. Già sul web e soprattutto sui social diversi profili hanno rilanciato messaggi e post per legare il nome della Carrà al disegno di legge sulla omotransfobia. Ma c'è anche chi si è spinto oltre usando la morte della conduttrice per dare un'accelerazione all'approvazione della norma. E così è nata l'idea sul web di cambiare nome al Ddl Zan tramutandolo in Ddl Carrà. La conduttrice non era mai entrata nel merito del provvedimento. Ma tant'è. Così lo sceneggiatore Enrico Cibelli ha deciso di lanciare online una vera e propria petizione per cambiare il nome della norma. Non ha usato giri di parole, come riporta l'Adnkronos: "Direi di chiamarlo Ddl Carrà, approvarlo e fine del discorso". E la proposta ha fatto il giro del web ed è stata retwittata anche da nomi dello spettacolo come ad esempio il cantante Ermal Meta che ha sentenziato: "Sono totalmente d'accordo". Insomma i tifosi del Ddl Zan sono disposti a tutto. Usano la morte di una delle conduttrici, showgirl e attrici più amate per portare acqua al mulino delle proprie battaglie ideologiche e politiche. Un vizio che soprattutto a sinistra sta diventando una sorta di moda. Per un intero giorno è stata usata la morte del giovane Seid, suicida ad appena 20 anni, per sponsorizzare lo Ius Soli. Solo l'intervento dei genitori ha riportato le cose al loro posto e ha zittito, in un momento di estremo dolore, i cori dei kompagni. Proprio in quell'occasione furono i genitori ad affermare che con la morte del ragazzo il razzismo aveva poco a che fare. La scena si è ripetuta con la morte di Orlando Merenda che si è tolto la vita qualche giorno fa. Anche in quel caso la morte è stata usata per tirare la volata al Ddl Zan. Ma niente da fare, puntuale è arrivata la frenata.
Gli stessi inquirenti e gli amici del ragazzo hanno affermato che il motivo del gesto potrebbe essere figlio di altri contesti e altri problemi che avevano reso la vita impossibile a questo ragazzo. Ora con la Carrà si è fatto il salto di qualità. Usare la morte di un vip per cavalcare le battaglie politiche. Forse il vero omaggio che merita la Carrà è quello di questa sera quando Spagna e Italia si riscalderanno sulle sue note. Infine ricordiamo le parole di Mogol che tenendosi alla larga dagli ultrà del ddl Zan ha proposto un gesto concreto per ricordare la Carrà, dedicarle l'Auditorium Rai del Foro Italico: "Non devo spendere troppe parole per raccontare cosa ha rappresentato Raffaella Carrà per la televisione nel nostro paese e in particolare per la Rai. Un'eccellenza assoluta che ha dato prestigio all'azienda e al nostro Paese nel mondo. Auspico che questa proposta, sostenuta dai centomila associati SIAE che rappresento, venga accolta con favore". Un gesto semplice che non ha il sapore dello sciacallaggio partito sui social.
Ignazio Stagno. Nato a Palermo nel 1985. Palermitano prima di tutto, a Milano da quasi 10 anni. Dal 2015 lavoro per il sito de ilGiornale.it. Due passioni: il Milan e le sigarette. Un solo vizio: la barba lunga.
La Signora del sabato sera e la Regina (televisiva) d'Italia. Tony Damascelli il 6 Luglio 2021 su Il Giornale. Era la Ferrari del piccolo schermo. Esplosiva, gioiosa e sensuale, coi suoi balli faceva girare la testa agli uomini ma non scadeva mai nel volgare. E riempiva i nostri sogni. Perché mai questa Carramba che sorpresa? Come il gesto suo di tirare su il capo, e così muovendo il casco di lisci e pettinati capelli, biondi e lucidi come il grano. Uguale a se stessa, sempre, da sempre. Perché, dunque, uscire di scena, improvvisamente, in punta di piedi come sapeva danzare mostrando il suo essere donna però mai volgare? Anche se l'ombelico era diventato il centro del mondo di mille e più mille uomini, acchiappati dalla Raffa nazionale, presente dovunque, anche a quell'ora imprevista e fuori registro, dico mezzogiorno e giù di lì con quel vaso di tot fagioli il cui numero rappresentava un quiz tormentone ma, al tempo stesso, l'occasione per inquadrare e sbirciare il sorriso aperto, vero della gente dell'Emilia che è fetta di terra differente dalla Romagna, qui al viandante viene offerto il vino, più in su si limitano a un bicchiere d'acqua. È stata diva pur non essendolo nel tono e nel significato con il quale il sostantivo è confezionato dal mondo dello spettacolo. Confezionato è il verbo ideale per Lei che indossava il lamé a prescindere, pure a colazione, luccicante come era la sua postura e il tuca tuca con Alberto Sordi ne fu la consacrazione. Era di famiglia anonima, suo padre gestore di un bar a Bellaria e la madre, Dellutri Angela Iris veniva dalla Sicilia, sole e mare ma pure silenzi acidi, il cognome Carrà nulla ha avuto a che fare con Carlo, pittore illustre, ma fu un'idea che venne al regista Dante Guardamagna che le suggerì di concedere soltanto all'anagrafe e ai contratti l'onomastica Raffaella Maria Roberta Pelloni e di puntare su qualcosa che fosse più immediato e artistico. Quando i genitori si separarono, uno scandalo per l'epoca, Raffaella traslocò i suoi giocattoli nella gelateria della nonna Andreina. E qui, narrano i carràlogi, già ballava e cantava pure, al punto che a otto anni si ritrova a Roma nell'accademia nazionale di danza, sotto la docenza di Jia Ruskaja. Qualcuno giura di avere intuito le sue doti, Raffaella provava anche a esibire la voce ma la pronuncia dava segni di fragilità e però a nove anni è già segnalata, nella parte di Graziella, figlia all'insaputa del lestofante Piero, sul set di Tormento del Passato diretto da Mario Bonnard, con attori e attrici di spessore, Luigi Pavese, Carla Del Poggio, Riccardo Garrone. Non si può nemmeno dire che sia stato l'inizio di una carriera colossale, compreso Hollywood dove intuì che l'aria fosse completamente diversa da quella nostrana. Abbandonata la Pelloni, la Raffaella Carrà capì di avere tutto per fare inginocchiare uomini di ogni tipo, fra questi si raccontò anche di Frank Sinatra che la ornava di collane come una madonna e forse per questo lei preferì tornarsene a casa, dove sarebbe diventata icona, di una sensualità gioiosa, fresca e comunque moderna, senza mai cadere e scadere nello sconcio, dotata di una energia vitale, immediata, esplosiva in una risata larga, anche quella poi iconica nelle mille imitazioni che le sono state cucite addosso come gli abiti che altre dive, queste sì, da Madonna a Lady Gaga hanno esibito con un copia e incolla non sfuggito a costumisti e madri e mogli, fidanzate e amanti di noi italiani. Raffaella è stata la Ferrari della televisione, vettura da Formula 1, sempre in pole position, ospite puntuale, desiderata, attesa, di tutti i sabato sera, anche bersaglio del giullare Benigni, c'era Mina e c'era Corrado, c'era Topo Gigio e Panelli e la Valori e Noschese, Chiambretti e Mike Bongiorno, ma c'era la Raffa, tanto bastava per riempire il teleschermo e, assieme, i sogni. La guapissima Carrà prese a occupare anche le giornate delle famiglie spagnole, En casa con Raffaella fu un successo che la portò a ricevere anche un contratto per tre programmi legati all'Eurovision Song Concert con il titolo di Salvemos Eurovisión. Ha conciliato la sua voglia di vivere con amori veri e forti, Boncompagni, Japino ma perché non ricordare Gino Stacchini, ala sinistra della Juventus, una relazione durata otto anni e mai cancellata nei ricordi? La sua bellezza non è stata mai grande eppure La grande bellezza di Sorrentino si apre proprio con la sua voce e quel Far l'amore rivisto da Bob Sinclair ci aveva restituito fantasie erotiche, mai in verità dimenticate. Gli anni ultimi erano trascorsi nelle mezze luci, i primi segnali di un male ambiguo le avevano fatto comprendere come il tempo stesse correndo veloce, più veloce dei suoi balli, del vento che passava sui suoi capelli mai però spettinandola, perché Maria Roberta Pelloni, in fondo, era rimasta la bambina della gelateria di nonna Andreina e, assieme, la guapa che ha cantato Rumore, «non mi sento sicura, sicura, sicura mai, io stasera vorrei tornare indietro con il tempo». Luci spente e la Regina (televisiva) d'Italia. Tony Damascelli
"Con lei si chiude la Belle Époque di una Rai mitica". Antonio Lodetti il 6 Luglio 2021 su Il Giornale. "Raffa era il volto di una tv educativa, istruttiva, semplice. E lei era popolare ma elegante". Anche il vulcanico Renzo Arbore ha perso la parola alla notizia della scomparsa di Raffaella e mormora incredulo: «Passavo tutti i giorni davanti alla casa di Gianni Boncompagni dove abitava Raffaella e mi ripromettevo sempre di andarla a trovare. L'avevo ricordata nel mio programma No, non è la BBC raccontando anche il primo incontro con Boncompagni e i tratti salienti della sua straordinaria carriera».
Cosa le viene in mente nominando Raffaella?
«Un sipario che si chiude sulla più bella stagione della tv italiana per quello che riguarda il varietà. Sono addoloratissimo, era un simbolo, il simbolo della bella televisione. Di quella che era la più bella televisione del mondo, quella della Rai. Una tv educativa, istruttiva, elegante, allegra, semplice ma musicale. Gli storici credo che con Raffaella parleranno della fine di quella che è stata la bella époque della televisione».
Com'era Raffaella?
«Lei era popolare ma allo stesso tempo elegante. I critici spesso cercavano i difetti nei suoi show ma lei era allegra, divertente, leggera. Non c'era ancora Mediaset ed era la tv di Bernabei e poi di Agnes... Era una tv artistica perché non c'era ancora l'ossessione dell'Auditel e Raffaella la interpretava alla perfezione».
Anche Carràmba! era un programma artistico?
«Fu una grande idea, ovvero quella di far diventare il pubblico protagonista della trasmissione: ripeto una tv popolare ma fatta con gusto. E lei ne aveva tanto. Era una grande artista come solo una regione come l'Emilia Romagna riesce a partorire; sincera, verace, innamorata del lavoro e versatile, non solo showgirl ma anche cantante ironica e sensuale, vi ricordate il brano Com'è bello far l'amore da Trieste in giù?».
Siete stati molto legati?
«Beh, era una persona amabilissima e generosa e poi era la compagna di vita del mio inseparabile partner Gianni Boncompagni. Lei però era determinata nel lavoro; non era una cialtrona come noi che improvvisavamo gag e sketch. Lei si preparava, studiava, faceva ginnastica e danza, era completamente votata allo spettacolo».
Come la ricorda?
«Ricordo i suoi balletti, il suo sorriso, la sua carica comunicativa e le sue interviste - o i suoi garbati ed eleganti duetti - con personaggi come Corrado, Alberto Sordi, Vittorio De Sica». Antonio Lodetti
Raffaella Carrà morta a 78 anni, la signora della tv era malata da tempo: il drammatico annuncio della famiglia. Claudio Brigliadori su Libero Quotidiano il 05 luglio 2021. Una tragedia per il mondo dello spettacolo italiano: è morta Raffaella Carrà, che ci lascia all'età di 78 anni. "Raffaella ci ha lasciati. E' andata in un mondo migliore, dove la sua umanità, la sua inconfondibile risata e il suo straordinario talento risplenderanno per sempre": queste le parole con cui l'ex compagno Sergio Japino ha dato il drammatico annuncio, unendosi al dolore degli adorati nipoti Federica e Matteo, di Barbara, Paola e Claudia Boncompagni, degli amici di una vita e dei collaboratori più stretti. Un fulmine a ciel sereno per le migliaia di fan e telespettatori, ma forse anche per il mondo della televisione italiana. L'amatissima Raffa si è spenta alle ore 16.20 di lunedì 5 maggio a causa di una malattia che aveva rivelato solo a pochissimi, la sua cerchia più ristretta. Per l'ultimo saluto, Raffaella ha chiesto una bara di legno grezzo e un'urna per contenere le ceneri. Pochi, pochissimi sapevano dunque delle sue reali condizioni di salute, anche a causa della sua proverbiale riservatezza con cui fin dagli anni 70 ha protetto la sua privacy. Nel novembre 2019 fu ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa, nel 2020 annunciò che causa pandemia di coronavirus la terza edizione del suo ultimo programma A raccontare comincia tu su Rai3 non sarebbe andata in onda. Non ha avuto il tempo e il modo per salutare gli italiani dal piccolo schermo, il suo regno. Praticamente infinito il suo curriculum, fatto di coreografie, conduzione modernissima (ha di fatto imposto un nuovo format di presentatrici donne alla tv italiana, importando uno stile da "tv privata" anche a viale Mazzini, da pioniera) e canzoni diventate da sigle dei programmi tv veri e propri tormentoni. Icona gay, messaggera di libertà sessuali fin dai tempi dell'Italia (e della Rai) più bacchettona, dominatrice anche in Spagna (non a caso, c'è chi chiede che Italia e Spagna giochino con il lutto al braccio martedì sera la semifinale di Euro 2020) e in America Latina, dove di fatto è diventata cittadina acquisita. Ha venduto 60 milioni di copie e vinto, parola sua, 22 dischi tra platino e oro e soli pochi mesi fa, nell'autunno 2020, il prestigioso quotidiano britannico The Guardian l'aveva definita "l'icona culturale che ha insegnato all'Europa le gioie del sesso". Raffaella Maria Roberta Pelloni, questo il suo nome all'anagrafe, nata a Bologna e cresciuta a Bellaria, sulla Riviera romagnola a pochi chilometri da Rimini, ha iniziato con la danza e il cinema, conquistando poi la tv con il nome d'arte di Carrà. Il botto arriva con Canzonissima a fianco di Corrado, il vestito che le lasciava l'ombelico scoperto destò scandalo. Gli italiani andavano pazzi per la sigla, Ma che musica maestro!, poi nel giro di pochi mesi arrivano classici come Chissà se va e Tuca tuca, che sfidava la censura per entrare nel mito senza chiedere permesso. Seguono 30 anni d'oro, con Il varietà del sabato sera di Rai1 Ma che sera (quello di Tanti auguri e del mitico ritornello "Com'è bello far l'amore da Trieste in giù"), la hit Pedro, Fantastico 3 (pietra miliare della tv italiana, con la sigla Ballo ballo), il Festival di Sanremo 1983 come superospite cantante, il cult Pronto, Raffaella a mezzogiorno dal 1983 al 1985. Storico il passaggio nel 1987 alla Fininvest di Silvio Berlusconi, con il Raffaella Carrà Show e Il principe azzurro. Nel 1990 il ritorno alla Rai e la spola con l'amata Spagna, fino al suo ultimo, grandissimo successo: lo show del 1995 Carràmba! Che sorpresa, in grado di farla entrare nell'immaginario anche di chi è nato dopo il 1980. Ma la Carrà non si è mai fermata, fino a pochi mesi fa, un vulcano di ospitate, interviste, collaborazioni e "contaminazioni". Come ha detto Pippo Baudo, con lei "se ne va l'ultima vera grande soubrette".
Raffaella Carrà morta, la verità sconvolgente sulla malattia: "Perché l'ha voluta tenerla segreta fino alla fine". Libero Quotidiano il 05 luglio 2021. Ha tenuto nascosto la malattia fino all'ultimo, Raffaella Carrà. La regina della tv italiana, protagonista assoluta dagli anni Sessanta a oggi con titoli di show e canzoni entrate nella storia non dello spettacolo ma del costume e della società italiani è morta a 78 anni. Da mesi lottava nel più assoluto riserbo, "una volontà ferrea - scrive l'agenzia Ansa - che fino all’ultimo non l’ha mai abbandonata, facendo si che nulla trapelasse della sua profonda sofferenza". Una protezione totale della privacy, atteggiamento discreto e sempre sobrio che l'ha contraddistinta dall'inizio della sua carriera (di lei non si ricordano scandali privati, eccessi, frasi o gesti sopra le righe né tantomeno telenovelas sentimentali) ma che tradisce, forse, anche un altro desiderio: quello di "non turbare il luminoso ricordo di lei" con le scene di un umanissimo calvario. Quasi, suggerisce sempre l'Ansa in modo molto azzeccato, un "ennesimo gesto d’amore verso il suo pubblico e verso coloro che ne hanno condiviso l’affetto". Anche l'addio, con semplice bara di regno e urna cineraria, rappresenta al meglio quello che è stata Raffaella. Da un lato la straripante, incontenibile Carrà davanti alle telecamere o un microfono, irresistibile, ironica e sensuale, in grado di travolgere steccati anche sessuali e rompere tabù (non a caso, ha saputo conquistare due Paesi di fondo conservatori come Italia e Spagna). Dall'altro la semplice Raffaella Maria Roberta Pelloni, questo il suo nome all'anagrafe, ragazza nata il 18 giugno 1943 a Bologna, cresciuta a Bellaria, a pochi chilometri da Rimini e arrivata fino a Roma col sudore della fronte ma capace di cancellare la parola "diva" dal suo vocabolario professionale.
Raffaella Carrà morta, dal 2020 l'incubo del coronavirus: "Molta paura", come ha vissuto gli ultimi mesi. Libero Quotidiano il 05 luglio 2021. "Quali sono le cose belle accadute nel 2020? Nessuna, nulla". Raffaella Carrà, a pochi giorni dal Capodanno, ammetteva al Corriere della Sera l'amarezza per un anno che umanamente e professionalmente le aveva portato solo ansia e angoscia, come a tutti gli italiani. La soubrette, ballerina, attrice, cantante e presentatrice, in una sola parola showgirl, è morta oggi lunedì 5 luglio a 78 anni, e da mesi lottava contro una malattia che ha tenuto segreta fino all'ultimo. La regina della tv italiana spiegava al Corsera che a causa della pandemia da Coronavirus aveva "molta paura. Non esco e così questo 2020 è diventato un anno sabbatico, anche perché io non sopporto l’idea di lavorare con le distanze o con le mascherine. Meglio non lavorare. Nella prime due edizioni del programma A raccontare comincia tu (il suo ultimo per la Rai, ndr) ho passeggiato e sono andata in tram con la Littizzetto; con Loretta Goggi ci siamo divertite come due matte sulla macchinetta del golf. Io gli incontri seduti tutti immobili non ce la faccio a farli". Lo show di Rai3 sarebbe dovuto ricominciare a febbraio 2020, ma le riprese saltarono proprio per l'emergenza sanitaria. "Avevamo già organizzato tutto per girare le quattro nuove puntate. Sarei dovuta andare a Milano a incontrare Achille Lauro: volevo scoprire la sua intimità, perché lui non è solo uno che si veste da matto, come del resto abbiamo fatto io o Renato Zero. Se vesti in modo così stravagante devi avere qualcosa dentro, devi avere coraggio e qualcosa da raccontare. Poi sarei dovuta andare in California per Mika e a Los Angeles per Tiziano Ferro, con cui ho un rapporto bellissimo. E infine Emma. Anzi Emma era la prima, stavamo per partire per Lecce". Inquietante la confessione di Raffaella: a bloccare tutto è stata lei, o meglio il suo sesto senso. "È stata una voce dentro, penso un angelo custode. Sul serio. Era la seconda metà di febbraio: sento qualcosa in televisione e avverto dentro una strana inquietudine. Chiamo Rai3 e dico: questo programma non si può fare, è troppo pericoloso. Non me la sento. Sono stata irremovibile. Ho detto a Sergio (Sergio Japino, regista e suo ex compagno, ndr): Sergio, non ce la faccio, se si ammala uno di noi è il disastro. Dopo una settimana è scoppiata la pandemia, poi si è chiusa l’Italia. Ho avuto fiuto. Mi dispiace che prima degli altri ho tolto lavoro a tante persone. Ma forse ho fatto del bene". Aveva vissuto male il lockdown: "Sono più ansiosa adesso di prima. Mi manca tanto la libertà. Ho vissuto i primi mesi a Porto Santo Stefano (Argentario), avevo il giardino, passeggiavo, facevo la spesa e vedevo il mare. Sono stata privilegiata". Poi si è trasferita a Roma, ma "soffro di più. Proprio giorni fa mi sono chiesta: quali sono le cose belle accadute nel 2020? Nessuna, nulla". Il suo ultimo Natale è stato triste, con gli amatissimi nipoti lontani. Rivelava: "Forse lo trascorrerò con Sergio, che sta a Roma. Le feste sono già malinconiche… Forse era meglio cancellarlo quest’anno. Il 31 dicembre bisogna spaccare tutto. Lo farò in privato nella mia terrazza, a costo di chiamare il muratore il giorno dopo".
Raffaella Carrà, i suoi uomini e gli amori segreti: "Mi sfiorò il seno con le dita". La confessione e lo scandalo. Libero Quotidiano il 05 luglio 2021. Dagospia ha raccolto un mix di dichiarazioni, nel corso della sua lunga carriera, di Raffaella Carrà. Ricordi, aneddoti, rivelazioni clamorose e qualche segreto svelato. Si parte con i successi professionali e il suo successo come showgirl. “Adoro il Tuca tuca e ha una storia incredibile. Lo ballai con Enzo Paolo Turci e fu considerato troppo trasgressivo così lo cancellarono dalla televisione. La Rai me lo censurò dopo una puntata, malgrado fosse in cima alle classifiche dei 45 giri. C’era Alberto Sordi che veniva da me e Gianni a giocare con il baracchino. Imitava se stesso, in incognito, e i radioamatori dicevano: “So’ mejo io a fa’ la voce de Sordi!”. Una sera a cena, e c’era pure la Zanicchi, lui mi fa: 'Vengo da te a Canzonissima, ma solo se possiamo ballare quella cosa'. Non potevano dire di no a Sordi. Fu memorabile: mi sfiorava i seni con la punta delle dita. Gli sussurrai, dopo: 'Albè, stavolta ce cacciano'". La Carrà ha spesso parlato dei suoi amori: "Ho avuto due grandi storie d’amore note, con Boncompagni e con Iapino. E altre ignote che non rivelerò mai. Mia madre voleva io sposassi un medico o un architetto, ma che gli raccontavo? Con loro invece c’è stato lo stesso linguaggio. Il babbo che cercavo l’ho trovato in Gianni Boncompagni, che aveva 11 anni più di me. Finalmente mi sono rilassata. Per tutta la giovinezza mi era mancata la spalla a cui appoggiarmi", aveva svelato la Raffa nazionale. L'omaggio anche all'ultimo compagno della sua vita: Iapino. "Con Sergio c’è stato un rapporto diverso: lui è più giovane di me (dieci anni meno), capiva e amava le stesse cose mie. Del resto io da bambina volevo fare la coreografa, che è il suo mestiere. C’era un rapporto più giocoso, scherzoso, che poi è diventato amore, e poi per scelte diverse è finito. Ma siamo in ottimi rapporti perché il bene non muore mai", rivela. Il rapporto con i fan: "Ho molte fan femmine che non so se siano femmine. Mai nessuna di loro però mi ha rivolto sguardi di un certo tipo…” La Carrà è considerata da sempre una icona gay: "L’ho chiesto a un amico gay, direttore di una rivista in lingua spagnola: “Que te gusta de mi persona?”. Lui mi ha guardato come se fossi una torta al cioccolato: “Todo". La verità è che morirò senza saperlo. Sulla tomba lascerò scritto: ‘Perché sono piaciuta tanto ai gay?’. Ai tempi di Canzonissima, molti ragazzi gay mi scrivevano non mi suicido solo perché ci sei tu. Non si sentivano accettati specialmente in famiglia. E mi sono chiesta: possibile che esista questo gap tra genitori e figli? Poi nel mondo dello spettacolo ci sono tante persone omosessuali. Ma niente nomi, perché qualcuno non ha mai fatto outing…". Infine il capitolo molestie: "C’è una cura Carrà per gli abusi: lo smataflone. Ovvero, detto in dialetto bolognese, un sonoro ceffone capace di smontare ogni ardore di sopraffazione sessuale. “Davanti a un bestione sudato in accappatoio ci vuole una come me. Io so come reagire, una come Asia Argento, che è una ragazza meravigliosa, non ce la fa, ha dentro un mondo di paure”.
Raffaella Carrà e Silvio Berlusconi, corteggiamento spietato: come si presentò il Cavaliere. Libero Quotidiano il 05 luglio 2021. "Nel 1982 facevo Pronto, Raffaella e il dottor Berlusconi mi propose di fare lo stesso programma a Canale 5, gli dissi: 'Fra tre anni sarò pronta'". Raffaella Carrà raccontava così il suo incontro con Silvio Berlusconi: "Tornai a casa e vidi un camion carico di azalee, e il mio portiere mi dissero che erano per me - diceva la conduttrice - erano accompagnate da un bigliettino, sul quale c'era scritto: spero non si dimentichi di me fino al prossimo incontro". Un corteggiamento professionale per portare la signora della tv italiana a Canale 5 che, come spesso è accaduto nella vita dell'ex premier, è andato in porto. Icona della televisione italiana Raffaella Carrà, infatti, non è stata protagonista solo dei canali Rai. Nel 1987, la cantante e presentatrice scomparsa oggi all'età di 78 anni, passò alla Fininvest, con un contratto miliardario della durata di due anni. La prima apparizione su Canale 5 è del 27 dicembre 1987: il 9 gennaio del 1988 prese al via il "Raffaella Carrà Show". Seguì poi, nella primavera 1989, "Il principe azzurro", il secondo e ultimo programma condotto da Carrà per Canale 5. Prima di passare alla Fininvest il contratto Rai della Carrà fu protagonista anche di uno scontro politico ad alto livello. Nel 1984 l’allora presidente del Consiglio prese posizione contro un contratto triennale che la Rai presieduta dal socialista Sergio Zavoli stava negoziando proprio con Raffaella Carrà. Zavoli fu persino convocato a Palazzo Chigi dall’allora sottosegretario Giuliano Amato per parlarne. E si presentò per difendere il contratto, non per rinunciarvi.
Raffaella Carrà atterrata e palpata da Roberto Benigni: "Passerottina, fammela vedere". Come andò veramente: clamoroso fuori programma piccante. Libero Quotidiano il 05 luglio 2021. Atterrata e palpata, senza pietà. Roberto Benigni e Raffaella Carrà scrissero, forse involontariamente, una pagina di esilarante e scandalosa tv italiana. Era il 19 ottobre 1991 e su Rai1 andava in onda Fantastico, programma dominatore del sabato sera. Entra in scena il comico toscano, allora "piccolo diavolo" indomabile e ancora lontano dall'afflato "salvifico" da Premio Oscar che gli garantì La vita è bella qualche anno dopo. Il suo monologo è pepato, prevede una raffica di nomignoli dal simpatico al volgare con cui gli uomini indicano gli organi sessuali delle donne. Ma l'entrata sul palco è forse troppo aggressiva, cerca di agguantare la Carrà padrona di casa, che indietreggiando inciampa e cade supina. A questo punto, tra le grida del pubblico sconcertato, Benigni anziché darle tregua e aiutarla a rialzarsi le si avvinghia, saltandole letteralmente addosso. Una scena che oggi potrebbe meritargli la cacciata dal mondo dello spettacolo in nome del #metoo. Ma nel 1991 si rideva e basta, compresa la Carrà che tra un sospiro e una mano passata tra i capelli sconvolti gli regge il gioco da padrona assoluta della tv. La grande Raffa, morta oggi a 78 anni, non fa una piega quando sente Benigni scandire le parole "proibite": "Gattina, passerottina, crepaccia, pucchiacca, sorca, gnacchera", a cui si aggiungono per par condicio "pistolino, randello, mazza, pesce, uccello, sventrapapere". "Cosa c'avete voi donne che attira l'uomo? - le chiede un ossessionato Benigni - In quella zona là... Un trattore, un treno, il traforo del Monte Bianco. Fammela vedere un secondo, non vorrei morire senza aver mai visto quella roba là. Piero Angela dov'è? Me lo vuole dire lei, che c'è stato. S'è fermato perché è zona pericolosa?". Zona pericolosa oltreppassata da Benigni e da Raffaella, con classe forse inimitabile.
Raffaella Carrà, il saluto a luci rosse: sul giornale inglese questa roba. Libero Quotidiano il 06 luglio 2021. La notizia della morte di Raffaella Carrà ha fatto il giro del mondo. L'informazione straniera la ricorda come un’icona dello spettacolo e un simbolo dell’Italia. “Addio alla diva con i capelli dorati, gli incisivi separati, il taglio carré, quella dell’idillio con l’America Latina, quella che è diventata icona del gay pride, che si vantava di essere ‘rock’, non per la sua musica ma per il suo stile di vita dirompente”, scrive Clarìn, il più importante quotidiano argentino. E’ stata “la pop star italiana che ha insegnato all’Europa le gioie del sesso”, scrisse il Guardian nel novembre 2020 definendo la sua hit ‘Tanti auguri’ “un inno al sesso e alla sessualità”. “La grande diva non ha avuto figli, ma ha reso orfani milioni di telespettatori e una legione di fan che hanno trovato in lei l’icona di un’epoca”, scrive El Paìs, che la definisce “un simbolo di libertà”, e sottolinea come abbia mantenuto la naturalezza “che le ha permesso di avere successo in Spagna e in Italia”. El Mundo ricorda quando l’artista raggiunse la popolarità in Spagna e in America Latina nel 1976 dopo aver registrato per la televisione spagnola quattro programmi. “Le sue canzoni facili e accattivanti, i suoi testi provocatori e le sue danze impossibili non solo hanno fatto da colonna sonora alla grigia Spagna di quel tempo, ma sono sopravvissute nel nostro Paese generazione dopo generazione”, così il quotidiano catalano, la Vanguardia. Mentre Abc la descrive come “una donna insolita, dal sorriso unico e inimitabile, dalla straordinaria capacità comunicativa e dalla grande semplicità”. “È stata una delle artiste più versatili in Italia e una delle più amate in Spagna e America Latina per la sua carriera di attrice, ballerina, conduttrice televisiva e cantante”, scrive l’agenzia spagnola Efe, “le sue canzoni orecchiabili come ‘Fiesta’ hanno conquistato l’intero pianeta”. Come si vede soprattutto i paesi latini, ma la stessa Inghilterra, si sono lanciati in ricordi e elogi non del tutto scontati.
Raffaella Carrà, nodo-eredità: "Nipoti e grandi amori?", a chi finirà tutto il suo patrimonio. Libero Quotidiano il 06 luglio 2021. A chi andrà l’eredità di Raffaella Carrà? Per ora non si hanno notizie a riguardo, ma circolano diverse ipotesi. Non avendo avuto figli e non essendoci genitori ancora in vita, il patrimonio della regina italiana della televisione e del costume potrebbe andare ai due nipoti, Matteo e Federica. La Carrà si è infatti presa cura di loro dopo la morte del fratello Renzo, venuto a mancare nel 2001 all’età di 56 anni a causa di un tumore al cervello. “Ho due ragazzi quarantenni figli di mio fratello che ora non c’è più, mi danno un certo da fare - aveva dichiarato Raffaella in un’intervista - faccio da babbo invece che da mamma”. Come riporta il Messaggero, ai due nipoti dovrebbe andare una fetta dell’eredità, di sicuro almeno una quota della legittima, ovvero quella parte destinata per legge ai parenti più stretti. Un’altra parte potrebbe invece essere destinata a uno dei suoi grandi amori, ovvero al regista e coreografo Sergio Japino, al quale è toccato dare la notizia della morte della 78enne showgirl e conduttrice televisiva. “Raffaella ci ha lasciati - è stato il suo annuncio - è andata in un mondo migliore, dove la sua umanità, la sua inconfondibile risata e il suo straordinario talento risplenderanno per sempre”. La Carrà è venuta a mancare nel pomeriggio di ieri, lunedì 5 luglio, a causa di una malattia tenuta nascosta e che da qualche tempo aveva attaccato il suo corpo.
Raffaella Carrà, l'eredità e il mistero del testamento: "Ecco a chi possono finire i soldi", tesoro e indiscrezioni. Libero Quotidiano il 09 luglio 2021. A chi andrà l’eredità di Raffaella Carrà? Non si hanno notizie certe a riguardo, bisognerà attendere l’apertura del testamento: nel caso in cui non esistesse (difficile crederlo, dato che la regina della televisione sapeva di essere malata da tempo), allora si procederebbe alla divisione secondo quanto stabilito dal codice civile. Non avendo avuto figli, una parte importante del patrimonio della Carrà potrebbe andare ai due nipoti, Matteo e Federica. I quali sono praticamente due figli acquisiti, dato che Raffaella si è presa cura di loro dopo la morte del fratello Renzo, venuto a mancare nel 2001 all’età di 56 anni a causa di un tumore al cervello. Ai due nipoti dovrebbe quindi andare una fetta cospicua dell’eredità, o quantomeno una quota della legittima, ovvero quella parte destinata per legge ai parenti più stretti. Un’altra parte potrebbe essere destinata a Sergio Japino, con cui dopo la rottura è sempre rimasto in ottimi rapporti. Il regista e coreografo si può considerare uno dei grandi amori della Carrà, non a caso è stato proprio lui a dare il triste annuncio della morte a 78 anni della regina italiana di televisione e costume. A beneficiare del patrimonio di Raffaella potrebbero però essere anche i diversi bambini che ha adottato a distanza nel corso della sua vita.
Raffaella Carrà, l'ultima donazione enorme prima di morire: "Sembrava volesse nascondere qualcosa". Libero Quotidiano l'11 luglio 2021. Uno degli ultimi gesti di Raffaella Carrà, prima di essere portata via all’età di 78 anni da una malattia che aveva deciso di tenere nascosta, è stato estremamente nobile. D’altronde la regina della televisione italiana è sempre stata vicina a chi ne aveva più bisogno in maniera concreta: qualche settimana fa l’ultima scelta di cuore, quella di donare un edificio di 160 metri quadri situato a Porto Santo Stefano alla Misericordia. Fino a oggi non se ne era saputo nulla: lo ha svelato Roberto Cerulli, governatore della Misericordia, dopo aver deciso che fosse arrivato il momento di parlare, dato che la Carrà fin quando è stata in vita non aveva voluto pubblicizzare la cosa. “La incontrammo a Roma dal notaio - ha raccontato - e anche lì la sua presenza si caratterizzò dall’accoglienza, dalla disponibilità e dalla dolcezza. Intrattenne con noi tanti discorsi e come accennavamo a qualche tipo di ringraziamento sviava sempre il discorso”. “In quell’incontro ebbi però uno strano presentimento - ha ricordato Cerulli - nonostante la sua dinamicità di sempre rimase con gli occhiali scuri e la mascherina ben messa: sembrava volesse nascondere qualcosa. E forse, alla luce di questa tragedia, penso volesse tenere per sé il suo brutto segreto e non mostralo a nessuno”. Comunque la Carrà non si sottrasse alla foto ricordo: “Alla mia domanda: ‘Signora posso fare un piccolo comunicato per rendere pubblica questa donazione?’. ‘No Roberto, non è il momento’. E con il suo atteggiamento evasivo mi fece capire che avremmo dovuto aspettare un po’ a dirlo. Oggi riteniamo che quel momento sia arrivato”.
Raffaella Carrà, svelata la causa della morte: "Lo stesso tumore", una straziante coincidenza. Libero Quotidiano il 07 luglio 2021. Raffaella Carrà ha tenuto nascosta la sua malattia che l'ha portata alla morte il 5 luglio, a 78 anni, dopo aver fatto la storia dello spettacolo. Ad annunciarne la scomparsa è stato Sergio Japino che non ha specificato quali siano state le cause e soprattutto qual era il male di cui soffriva. Sembra che la Raffa nazionale sia deceduta per un tumore al polmone, un carcinoma, proprio come sua madre nel 1987. Raffaella Carrà era malata da qualche tempo e la scelta di non parlarne mai pubblicamente è stato "l’ennesimo gesto d’amore verso il suo pubblico, affinché il suo personale calvario non avesse a turbare il luminoso ricordo di lei", ha spiegato Japino. "La mamma di Raffaella Carrà è morta a 63 anni proprio per un tumore al polmone, quindi si tratta innanzitutto di una questione genetica. E poi se una persona fuma il destino è quasi inevitabile", ha spiegato Giacomo Mangiaracina, medico chirurgo, docente di Salute pubblica all’Università La Sapienza, Presidente dell’Agenzia Nazionale per la Prevenzione. "Purtroppo - ha aggiunto - il fumo ci ha portato via Raffaella con 10 anni d’anticipo. Abbiamo molti studi che dicono che il fumo accorcia la vita di 10-12 anni, questo vale per tutti. La dipendenza, come quella dal tabacco, ti porta nelle condizioni di non poter dire no. Il 90% dei tumori polmonari avvengono tra i fumatori. Se c’è una base genetica è chiaro che tutti i modelli di stile di vita influiscono su quella base genetica. Il polmone della donna è più piccolo rispetto a quella degli uomini, quindi anche gli effetti negativi sono triplicati, tant’è che il tumore al polmone è diventato la prima causa di morte tra le donne", ha concluso il professore.
Raffaella Carrà, "il tumore scritto nei geni": il precedente della madre, una drammatica verità dal luminare. Libero Quotidiano il 09 luglio 2021. Nel giorno dei funerali della mitica Raffaella Carrà, morta lo scorso 5 luglio a Roma, nel giorno in cui l'Italia intera si stringe attorno al mito della televisione, continuano ad emergere dettagli sui suoi ultimi mesi di vita. A portarla via, ha rivelato Dagospia, è stato un tumore ai polmoni. Su Dago si legge un resoconto approfondito del calvario della mitica Raffaella: "Prima di essere portata alla Clinica Villa del Rosario di Roma, dov’è morta, Raffaella Carrà era stata ricoverata anche al Policlinico Gemelli. La conduttrice era malata di tumore ai polmoni, e non voleva vedere nessuno, tranne i familiari, gli assistenti e le persone a lei più care, come Sergio Japino. A seguirla nella terapia era stato il professor Paolo Marchetti, uno degli oncologi romani più apprezzati", spiegava il sito diretto da D'Agostino. Poi, le parole di Giacomo Mangiaracina, luminare dell'Università La Sapienza di Roma, il quale interpellato su Radio Cusano Campus nella trasmissione Genetica Oggi ha confermato che si è trattato di un cancro ai polmoni. Aggiungendo come si è trattato dello stesso male che portò via la mamma alla conduttrice. "La mamma di Raffaella è morta a 63 anni proprio di tumore al polmone quindi si tratta prima di tutto di una questione genetica", ha confermato il docente di Salute pubblica. Insomma, un male scritto nei geni. Una malattia che Raffaella Carrà aveva deciso di tenere nascosta per non far soffrire i suoi milioni di fan e tutte le persone che le erano vicino.
Raffaella Carrà, la rivelazione-sospetto sulla malattia: "Potevamo intuire che qualcosa non andasse". Libero Quotidiano il 07 luglio 2021. Rompe il silenzio anche Milly Carlucci su Raffaella Carrà. La conduttrice di Ballando con le Stelle ha voluto ricordare la showgirl che ha segnato la storia. Ed è stata proprio lei a svelare un inedito sulla malattia che l'ha portata. "Abbiamo pensato 'sarà all’estero'', 'starà facendo altro', invece forse non voleva far sapere a nessuno cosa stava attraversando". Il riferimento della conduttrice in diretta al Tg1 è all'invito della Carlucci dello scorso gennaio alla Carrà, per averla tra gli ospiti della seconda edizione de Il Cantante Mascherato, e a cui non ha mai risposto. E ancora, scende nei dettagli: "Abbiamo iniziato un carteggio che però si è interrotto un mese fa, e potevamo intuire che qualcosa non andasse, perché lei era proprio anti diva, sempre puntualissima. Lei sapeva sempre cosa portare in tv, e al primo posto metteva sempre l’allegria e la serenità. Ho solo il rimpianto di non averla potuta avere come “ballerina per una notte” a Ballando con le stelle". Nessuno infatti era a conoscenza di quello che stava attraversando la cantante. Solo pochissimi intimi. Ad annunciarne la scomparsa è stato Sergio Japino che non ha specificato quali siano state le cause. La Carrà, sono state diverse indiscrezioni, sarebbe deceduta per un tumore al polmone, un carcinoma, proprio come sua madre nel 1987. Eppure la showgirl ha preferito tenere il segreto per sè in quello che Japino ha definito "l’ennesimo gesto d’amore verso il suo pubblico, affinché il suo personale calvario non avesse a turbare il luminoso ricordo di lei".
Raffaella Carrà e il tumore, la figlia di Gianni Boncompagni "adottata": "Fino agli ultimi giorni", sconvolgente conferma dalla cerchia più intima. Libero Quotidiano il 07 luglio 2021. Barbara Boncompagni, figlia di Gianni per anni ha vissuto con Raffaella Carrà fidanzata di suo padre, racconta come si conobbero i due personaggi famosi: "Alle 5 del mattino a piazza di Spagna. Papà le doveva fare un'intervista per uno spot delle Poste. E voleva la piazza deserta. Disse a Renzo Arbore: Domani intervisto una ragazza, carina, poi ti dico'. Raffaella dal canto suo mi raccontò che era incuriosita da questo tipo che si svegliava all'alba per uno spot. Dopo qualche mese si misero insieme. Una forza di donna, lui oltretutto aveva 10 anni di più". Speciale è stato poi il rapporto tra la Carrà e le tre figlie di Boncompagni: "Io delle tre figlie di Gianni ero la più legata a lei. Ci univa una speciale condizione, l'abbandono. Io avevo subito quello di mia madre e lei quello di suo padre. Più che due sopravvissute eravamo due combattenti, ci siamo sentite uguali", rivela in una intervista alla Stampa. "Raffaella, quando avevo 12 anni, decise di portarmi con lei in tournée. Io ero impazzita di gioia tanto che feci una tragedia al ritorno. Dormivamo insieme, viaggiavamo insieme, mi portava anche sul palco fra tantissimi ballerini. Ogni spettacolo per me ragazzina era una magia pura che si compiva. E, senza rendermene conto nell'immediato, imparavo a conoscerla in tutto il suo essere, privato e professionale. Educatissima con tutti. Mai visto un gesto di stizza, un fare maleducato, mai una punta di arroganza. Stando in giro con lei capivo quanto si dedicasse ai suoi fan e quanto per rispetto non si facesse vedere quando era stanca. Infatti non conduceva vita sociale e non parlo di feste che ha sempre detestato. Mai un cinema, una cena fuori, lo shopping. Si ritirava nei suoi spazi, era coerente", rivela. Una frecciata anche ad alcune presunte star di oggi: "Mi faceva sorridere leggere, pochi giorni fa, che una cantante come Madame che peraltro a me piace moltissimo, aveva mandato al diavolo una persona che le chiedeva l'autografo mentre lei stava mangiando, invitandolo, invece di disturbarla, a comprare i suoi dischi. Impensabile reazione per Raffaella. Le piaceva Stare al mare e giocare, era una grande appassionata di Burraco. Aveva avuto una vita da single ed essere dominata dalle carte la divertiva. E poi adorava viaggiare, le cene con pochi amici e cibo buono. Era appagata e non si è mai lamentata della vita privata, del non avere avuto figli, prima non li aveva cercati, poi non erano venuti. Ne aveva adottati a distanza e voleva un gran bene ai nipoti. Ogni volta che andavo a cena da lei mi chiedeva: 'vieni con i gioielli?' indicando i miei figli. La malattia? "Non si sapeva e non si sa nulla. Aveva preso la scelta di non far soffrire, il massimo della riservatezza. È andata via in punta di piedi come i grandi, come Ennio Morricone. Oltretutto lei detestava le celebrazioni, non era per il passato. Credeva di non smuovere l'aria così facendo, invece il dolore collettivo per questa figura luminosa ha preso il sopravvento pure su di lei", conclude.
Raffaella Carrà e il tumore ai polmoni, "morta con 10 anni d'anticipo". La devastante rivelazione del medico. Libero Quotidiano l'08 luglio 2021. Raffaella Carrà è venuta a mancare all’età di 78 anni: la sua morte è stata un fulmine a ciel sereno per il mondo intero, fatta eccezione per i suoi familiari e le persone a lei più chiare, che erano al corrente del fatto che la regina della televisione italiana fosse malata da tempo. In questi giorni stanno emergendo alcuni dettagli sulla scomparsa della Carrà, che era stata ricoverata anche al Policlinico Gemelli prima di essere portata alla Clinica Villa del Rosario di Roma, dove è poi deceduta. Dagospia ha inoltre svelato che a costare la vita alla Raffaella nazionale è stato un tumore ai polmoni: “Non voleva vedere nessuno, tranne i familiari, gli assistenti e le persone a lei più care, come Sergio Japino. A seguirla nella terapia era stato il professor Paolo Marchetti, uno degli oncologi romani più apprezzati”. Altri dettagli li ha forniti Giovanni Mangiaracina dell’Università La Sapienza: intervenuto in radio nella trasmissione Genetica Oggi, ha raccontato che “la mamma di Raffaella Carrà è morta a 63 anni proprio per tumore al polmone”. Quindi si tratterebbe “soprattutto di una possibile questione genetica. E poi se una persona fuma il destino è quasi inevitabile - ha sottolineato - purtroppo il fumo ci ha portato via Raffaella con 10 anni d’anticipo. Se c’è una base genetica è ovvio che tutti i modelli di stili di vita influiscono su quella base genetica. Il polmone della donna è più piccolo rispetto a quello degli uomini”.
Raffaella Carrà, la pesantissima verità di Magalli: "Ecco perché Fabio Fazio proprio non lo voleva". Libero Quotidiano l'08 luglio 2021. Giancarlo Magalli era uno degli amici di Raffaella Carrà, che è venuta a mancare all’età di 78 anni a causa di una malattia che pubblicamente aveva deciso di tenere nascosta. L’ormai ex conduttore de I Fatti Vostri è stato ospite su Rai1 negli studi di Estate in Diretta, dove ha raccontato diversi aneddoti riguardanti la regina della televisione italiana. D’altronde i due si conoscevano da tempo immemore: “Di Raffaella sono stato anche autore di un programma Pronto Raffaella in cui si inventò il ruolo di conduttrice in cui eccelse”. Proprio in questo programma sarebbero passate delle “nuove leve” che avrebbero destato dei sospetti nella Carrà: “Le portavo qualche artista e lei non si fidava mai, diceva sempre ‘chi è questo qua?’. Quelli che guardava con sospetto erano molti, come Fabio Fazio. Non lo voleva, lui faceva le imitazioni, faceva Pertini, portava i biscotti da Savona. Anche Bergonzoni lo guardava con sospetto. Poi si è scoperta talent scout più in là e scoprì Alessandro Greco”. Un altro aneddoto raccontato da Magalli riguarda invece un film girato a Cortina con Frank Sinatra: “Raffaella era giovanissima ma faceva una parte non proprio piccola, era bruna con i capelli corti, era una ragazzina. Io avevo capito che c’era qualcosa, un flirt, erano molto assieme, non gli avrei detto no neanche io a Sinatra. Quando facemmo Pronto Raffaella lei gli scrisse una lettera perché lo voleva invitare, ma lui non poteva venire”.
Mattia Marzi per “Il Messaggero” l'8 luglio 2021. La casa in via Nemea che le aveva affittato e della quale Raffaella si era innamorata così tanto da decidere di trascorrerci il resto della sua vita. Quelle cene insieme a Gianni Boncompagni. L'idea di Pronto, Raffaella?, che rilanciò la Carrà dopo il flop di Millemilioni, contro il parere dei dirigenti Rai dell'epoca per i quali la carriera dell'artista era praticamente finita, archiviati i varietà degli Anni 70. I fagioli che resero Raffaella la vicina preferita degli italiani. La malattia di Boncompagni e l'ultimo incontro. C'era anche Giancarlo Magalli, ieri, tra gli amici del mondo dello spettacolo che hanno salutato Raffaella Carrà davanti agli studi Rai di via Teulada al momento del passaggio del corteo funebre che ha accompagnato il feretro dell'artista fino al Campidoglio.
In quegli studi tra l'83 e l'85 lavoraste insieme a Pronto, Raffaella?, di cui lei era autore: come nacque il programma?
«Avrebbe dovuto condurlo Gianni Morandi, che poi ad un certo punto si tirò indietro. Fu Boncompagni a dire: proviamo a proporlo a Raffaella. Io ero titubante».
Perché?
«Non si era mai confrontata con un programma del genere, che andava in onda all'ora di pranzo e non prevedeva canzoni o balli, ma interviste. Gianni mi rassicurò: Vedrai che ti sorprenderà».
La sorprese?
«Eccome. Studiava ed arrivava alle puntate preparatissima. Nelle interviste faceva scoprire il lato umano dei grandi personaggi. Intervistò chiunque. Pure Madre Teresa di Calcutta. Fu un successo enorme. Gli uffici stampa mi chiamavano per propormi interviste: Ora siamo pieni. E quelli: Ma lei si rende conto di chi vi stiamo proponendo?. Io rispondevo: E voi vi rendete conto di chi c'è nella lista d'attesa?. E pensare che i dirigenti l'avevano messa in un angolo senza farla lavorare: dicevano che era finita. Veniva da Millemilioni, un varietà trasmesso dall'allora Rete 2 che non era andato particolarmente bene».
Fu un nuovo inizio?
«Sì. Pronto, Raffaella? le diede la possibilità di reinventarsi in una veste diversa da quella di ballerina e cantante. E le regalò altri quarant' anni di carriera».
L'intervista mai realizzata?
«Quella a Papa Giovanni Paolo II. Le dicevo: Raffa, toglitelo dalla testa. E lei: Ma se non ci provi, non sapremo mai se gli va di farsi intervistare oppure no. Alla fine un cardinale organizzò un'udienza con il Papa. Ci ricevette tutti, ma non si fece intervistare. A Raffaella regalò un rosario».
Di chi fu l'idea del gioco dei fagioli?
«Mia. Sapevamo di avere un pubblico composto da pensionate e casalinghe. Non potevamo pensare di fare giochi di cultura, per intellettuali: bisognava farle partecipare con giochi semplici e popolari. Fu un'intuizione magica».
Come la conobbe, Raffaella?
«Quando si fidanzò con lui, Boncompagni era mio vicino di casa. Abitavamo uno di fronte all'altro in via Nemea. Ed eravamo già amici. Poi io andai a vivere in centro. Affittai la casa proprio a Raffaella, che se ne era innamorata. Solo che pochi anni dopo io mi sposai e con mia moglie decidemmo di tornare in via Nemea. Ma come? Io volevo chiederti di vendermela: con Gianni vogliamo unire i due appartamenti e farne un'unica grande casa, mi disse. Raffaè, non fare storie: a me serve quella casa, le risposi io».
Come andò a finire?
«Acquistò l'appartamento al piano di sopra. Poi lo vendette a me in cambio del mio. Anni fa mi sono trasferito all'Olgiata. Ora lì vive mia figlia. Con Raffaella continuammo a frequentarci, soprattutto durante la malattia di Boncompagni. Per tirarlo su la figlia Barbara organizzava delle rimpatriate con me, Raffaella, l'autore Giovanni Benincasa».
Sapeva che stava male?
«Non ne sapevo niente, come tutti. L'ultima volta che la vidi fu proprio al funerale di Gianni, nel 2017».
Raffaella Carrà, "soltanto un ipocrita". Il vip nel mirino, la peggiore delle accuse: "Chi specula sulla sua morte". Giordano Tedoldi su Libero Quotidiano il 09 luglio 2021. Forse la grandezza di Raffaella Carrà sta anche nel profluvio di pettegolezzi, polemiche e insulti incrociati che sta cominciando a contaminare le acque profumate del vasto fiume di cordoglio ed elogi funebri. Ha cominciato Giancarlo Magalli a incrinare il santino, effettivamente un poco stucchevole, che ha ormai preso il posto della sua persona. Ma quale più amata dagli Italiani! - ha detto sostanzialmente il conduttore e autore televisivo, che conosceva molto bene Raffaella -, la Rai non la voleva, la considerava finita e io stesso non credevo più in lei. Salvo poi ricredersi entrambi, quando, in quella trasmissione collocata nell'infelice (allora) fascia del mezzogiorno, "Pronto, Raffaella?" con il famoso quiz sul numero dei fagioli nel barattolo di vetro, la Carrà riuscì in due anni, dal 1983 al 1985, a polverizzare ogni record di ascolto. Bene ha fatto Magalli a raccontare la sfiducia che in quegli anni la Rai, e lui stesso, avevano verso la Carrà, perché il dettaglio lungi dall'infangarne la fama, la umanizza, la sottrae alla dimensione un po' troppo rigida dell'icona per restituircela donna in carne e ossa. Ma ecco che un famoso press agent, Angelo Perrone, sentendo puzza di lesa maestà verso Raffa, interviene a sua difesa - forse equivocando le parole di Magalli - e dichiara: «Parlano persone che l'hanno conosciuta lontanamente o che non l'hanno conosciuta proprio. Non le farebbe piacere. E poi sento falsità. Come chi dice, come Giancarlo Magalli, che accettò "Pronto, Raffaella?" perché era in un momento di affanno della sua carriera: ma se veniva dal successo di "Fantastico 3"! E poi quello viene sempre ricordato come 'il programma dei fagioli', ma per lei segnò il passaggio dal sabato sera al mezzogiorno e la sua nuova veste di intervistatrice con ospiti importanti come Pertini e Madre Teresa di Calcutta. Credo le avrebbe fatto più piacere che lo citassero per questo».
POLEMICHE
Con chi schierarsi? Con Magalli o Perrone? Chissà, forse si potrebbe salomonicamente dire che hanno ragione entrambi, solo che ognuno vede le cose dal proprio punto di vista. Più interessante ci sembra registrare che di rado, quando muore una celebrità, ci si accapiglia con tanta passione, a meno che ci sia di mezzo un'eredità da spartirsi, si capisce, ma non ci sembra questo il caso. A tuffarsi nel mare non proprio limpido delle polemiche post-mortem è anche la sempre atletica Lorella Cuccarini, che della Carrà, per un certo periodo, è stata l'indubbia erede, anche se difficilmente potrà eguagliarne i fasti e la longevità artistica. Quelli che Balzac chiamava "gli osservatori", cioè i pettegoli in servizio effettivo permanente, sono andati a ripescare una frase postata sui social dalla Cuccarini, piuttosto aspra nei confronti della Carrà: «Non ci siamo incontrate per 30 anni Raffaella. Spero di non incontrarti nei prossimi 30. Umanamente sei stata un'amara delusione». Quando poi la stessa Cuccarini ha espresso il suo cordoglio e la sua ammirazione per la morte della star («Vorrei dirti tante cose. A casa nostra sei sempre stata un mito. Per me un punto di riferimento intoccabile, insieme a Carla Fracci. Sono cresciuta nel costante dilemma su chi tra voi due preferissi») è entrata in scivolata Heather Parisi, a sua volta erede della Carrà un po' prima della Cuccarini, che ha espresso tutto il suo malumore con un tweet sibillino: «È sorprendente, il potere che ha la morte umana di far rinsavire anche il più imperterrito degli ipocriti al punto da fargli ammettere financo la propria ipocrisia».
ANTIPATIE
Sibillino, ma non troppo, perché è fin troppo facile - e i balzacchiani "osservatori" ne converranno - metterlo in correlazione con le dichiarazioni della Cuccarini, prima di critica, poi di sperticato elogio. Ah, dimenticavamo che sempre Magalli ci ha svelato che la Carrà, effettivamente, era proprio un essere umano, e aveva le sue antipatie, e ad esempio vedeva "con sospetto" Fabio Fazio e le sue imitazioni, e non le stava troppo simpatico nemmeno il comico Alessandro Bergonzoni, benché suo concittadino. Ai lettori giudicare se in questo groviglio di rinfacci, pettegolezzi, ricordi contraddittori e sassolini tolti dalle scarpe ci sia ipocrisia, debolezza, frustrazione o che altro. Di certo, riprendendo il titolo di un suo successo, la dipartita della Carrà sta facendo rumore.
Addio a Raffaella Carrà: la signora della tv che risplenderà per sempre. La Presse.it il 6/7/2021. Raffaella Carrà non c’è più. Una frase che sembra impossibile da leggere, impossibile da scrivere. La regina della televisione italiana (e non solo) è scomparsa a 78 anni in un pomeriggio di inizio luglio. In punta di piedi, senza clamore, dopo una malattia che aveva tenuto nascosta a tutti, o quasi. Sono arrivate quelle parole che speravamo di non vedere mai: “Raffaella ci ha lasciati. E’ andata in un mondo migliore, dove la sua umanità, la sua inconfondibile risata e il suo straordinario talento risplenderanno per sempre”, è l’annuncio di Sergio Iapino, suo compagno per molti anni nella vita e nel lavoro. A lui si uniscono nel dolore i nipoti Federica e Matteo, e poi Barbara, Paola e Claudia Boncompagni. Le persone più vicine, gli amici di una vita, i collaboratori più stretti. Ma è tutta l’Italia a raccogliersi nel dolore. La gente comune, il mondo dello spettacolo, della musica, della politica. Perché ‘Raffa’ univa tutti con la sua sfrontatezza garbata, con le provocazioni delicate. Mostrava gambe e ombelico in televisione, quando ancora non era all’ordine del giorno. Ma allo stesso tempo accompagnava e rassicurava le famiglie italiane. Con lei neanche il ‘Tuca tuca’ sembrava così scandaloso. Conduttrice, ballerina, cantante: una showgirl come non ce ne sono più.
Cordoglio unanime. E forse per questo il cordoglio è così unanime. A partire dalla politica, dove il saluto commosso è bipartisan. Partendo dal presidente Mattarella, “profondamente colpito” dalla sua scomparsa e che ricorda il “messaggio di eleganza, gentilezza e ottimismo”. Da sinistra arriva l’addio di Franceschini che la considera la “Signora della televisione italiana” e quello di Enrico Letta per cui era una delle “icone più intelligenti, gradevoli ed eleganti”. Da destra, poi, la ricordano Salvini (“il tuo splendido sorriso ci accompagnerà sempre”), Meloni (“l’Italia perde una donna dallo straordinario talento artistico e dalla contagiosa simpatia”) e Berlusconi: “E’ stata uno dei simboli della televisione italiana, forse il personaggio più amato. Con i suoi programmi ha saputo parlare a generazioni molto diverse, avendo la capacità di rimanere sempre al passo coi tempi e senza mai scadere in volgarità”. Per finire con il presidente del Consiglio Mario Draghi, che sottolinea il suo “ruolo decisivo nel diffondere la cultura dello spettacolo in Italia. La sua risata e la sua generosità hanno accompagnato generazioni di italiani e portato il nome dell’Italia nel mondo”. Non si contano i commenti addolorati da parte del mondo dello spettacolo. A cominciare dalla Rai, con le parole del presidente Foa e dell’ad Salini che la ringraziano “per aver scritto pagine fondamentali della storia del servizio pubblico” e che la definiscono “un’artista straordinaria, che resterà impressa nella storia della televisione e che continuerà a essere viva nella memoria collettiva di tutti gli italiani”. E poi da chi ha lavorato con lei, come Giancarlo Magalli che a LaPresse racconta di come fosse “una grande professionista”, severa con se stessa e con gli altri. Da chi l’ha amata da fan e poi ha realizzato il sogno di collaborare con lei, come Tiziano Ferro che sta male al pensiero della “ultima volta che abbiamo riso come matti”. O ancora da chi ha, in qualche modo, ripercorso le sue orme come Lorella Cuccarini, che twitta: “Il mito di sempre è rinato in Cielo”. E Maria De Filippi: “Mi è arrivato un whatsapp, ho aperto distrattamente così come si fa sempre, come fanno tutti. Stai facendo altro e parte il suono. Ho letto che Raffaella non c’era più. L’ho letto, riletto e ho pensato: ‘Non è vero’. Ho pensato la cosa giusta, perché una come lei non muore mai”. E poi cantanti, ballerini, attori, conduttori. Tutti addolorati, attoniti, sconvolti dalla notizia così inaspettata, così impossibile da accettare. Perché, come dicono Elio e le storie tese: “Ciao Raffaella. Questo, da te, non ce lo saremmo mai aspettato”.
Lucrezia Clemente per "lapresse.it" il 6 luglio 2021. La notizia della morte di Raffaella Carrà, artista poliedrica e star della televisione, ha fatto il giro del mondo dalla Spagna alla sua amata America Latina. I principali siti di notizie e quotidiani la ricordano come un’icona dello spettacolo e un simbolo dell’Italia. Un’artista versatile, emblema di libertà. “Addio alla diva con i capelli dorati, gli incisivi separati, il taglio carré, quella dell’idillio con l’America Latina, quella che è diventata icona del gay pride, che si vantava di essere ‘rock’, non per la sua musica ma per il suo stile di vita dirompente”, scrive Clarìn, il più importante quotidiano argentino, ricordano la sua amicizia con il campione Diego Armando Maradona, e quella volta in cui generò “una piccola crisi tra la Rai e il Vaticano” mostrando il suo ombelico sul piccolo schermo. E’ stata “la pop star italiana che ha insegnato all’Europa le gioie del sesso”, scrisse il Guardian nel 2020 definendo la sua hit ‘Tanti auguri’ “un inno al sesso e alla sessualità”. “La grande diva non ha avuto figli, ma ha reso orfani milioni di telespettatori e una legione di fan che hanno trovato in lei l’icona di un’epoca”, scrive il quotidiano spagnolo El Paìs, che la definisce “un simbolo di libertà”, e sottolinea come abbia mantenuto la naturalezza “che le ha permesso di avere successo in Spagna e in Italia”. El Mundo ricorda quando l’artista raggiunse la popolarità in Spagna e in America Latina nel 1976 dopo aver registrato per la televisione spagnola quattro programmi dal titolo "La hora de". “Le sue canzoni facili e accattivanti, i suoi testi provocatori e le sue danze impossibili non solo hanno fatto da colonna sonora alla grigia Spagna di quel tempo, ma sono sopravvissute nel nostro Paese generazione dopo generazione”, commenta il quotidiano con sede a Barcellona, la Vanguardia. Mentre Abc la descrive come “una donna insolita, dal sorriso unico e inimitabile, dalla straordinaria capacità comunicativa e dalla grande semplicità”. “È stata una delle artiste più versatili in Italia e una delle più amate in Spagna e America Latina per la sua carriera di attrice, ballerina, conduttrice televisiva e cantante”, scrive l’agenzia spagnola Efe, “le sue canzoni orecchiabili come ‘Fiesta’ hanno conquistato l’intero pianeta”.
Addio a Raffaella Carrà, l’ultima imperatrice della televisione italiana. Sangue romagnolo e siciliano nelle vene – una miscela esplosiva, il quid. E questo era Raffaella Pelloni, in arte Carrà, una esplosione. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 5 luglio 2021. Sangue romagnolo e siciliano nelle vene – una miscela esplosiva, il quid. E questo era Raffaella Pelloni, in arte Carrà, una esplosione: un cambio di cognome che venne in mente a un regista che, dato che il nome richiamava Raffaello lo si poteva far seguire dal cognome mutuato dal pittore Carrà – una genialata che funzionò. The Guardian, recensendo l’anno scorso il film Explota Explota, una commedia musicale di produzione italo-spagnola ambientata alla fine del regime di Franco tutta intessuta dalle canzoni di Raffaella Carrà, titolò: “Raffaella Carrà: the Italian pop star who taught Europe the joy of sex”. Forse è per questo “insegnamento” che nel 2020 l’ambasciatore di Spagna le consegnò, a nome del re Felipe VII, l’onorificenza di Dama «al Orden del Mérito Civil». In un paese cattolicissimo come la Spagna, l’intrattenimento, lo spettacolo, le canzoni, i balletti dovevano “guerreggiare” per i centimetri delle lunghezze delle gonne o le profondità delle scollature, dove poi finiva per piazzarsi immancabilmente un fiore finto. Ma noi non eravamo castigati di meno, eh. L’ombelico di fuori – il primo ombelico! – era stato “disegnato” da un costumista Rai, e Raffaella lo indossò tranquillamente, le ragazze “fuori” andavano già in giro così. Apriti cielo! E quando ballò il “Tuca tuca” insieme a Enzo Paolo Turchi, la Rai sospese («indecente, troppo sexy, non adatta al pubblico del sabato sera»), poi ci ripensò. Ma lei e Turchi dovettero guardare dentro la telecamera per oltre metà del balletto, per non lasciar pensare che quelle mani che “toccavano” chissà cosa stessero combinando. Perciò, ripercorrere la storia di questa ragazza straordinaria, dalla professionalità fuori del comune, è ripercorrere la storia della televisione italiana, che è un po’ ripercorrere i costumi degli italiani, come si sono modificati dagli anni Sessanta in poi. Lei era andata in America, e per un mese, tutte le sere, andava a vedere Hair. Quando tornò in Italia aveva già pensato a un suo ruolo. Cantava, ballava, conduceva – una cosa che non s’era vista mai. E faceva tutto benissimo, lei che in realtà voleva fare l’attrice, e a Roma era venuta al Centro sperimentale di cinematografia, e aveva anche interpretato diverse piccole parti, qui e là, ma film importanti, con Monicelli, Florestano Vancini, persino una produzione internazionale con Frank Sinatra. Ma la sua strada era lo show. Nel 1974 diceva: «Non mi ispiro a nessuno: parlo ai bambini, ai papà che guardano lo sport, alle mogli, quindi agli italiani che guardano la TV. famiglie». E era così, eppure fu la prima icona pop e la prima icona sexy. The Guardian dice che dipendeva da un mix di sensualità e accessibilità. La cosa è che piaceva alle donne – e se conquisti il cuore delle casalinghe, da Trieste in giù, vuol dire proprio che sei il numero 1. l’Espresso riassunse così, negli anni Ottanta, la sua popolarità: «Più applaudita di Pertini, più costosa di Michel Platini, più miracolosa di Padre Pio». Era la Trinità che fonda lo spirito italiano. Lei, in più, era anche diventata una icona gay, forse per le mossette, forse per il caschetto – «I colpi della testa erano per mostrare la libertà dalle lacche» – forse per la sua tolleranza esibita: «Da ragazza uscivo solo con amici gay, non rischiavi che ti palpeggiassero al cinema». Eppure, era andata via dall’Italia – accadde nel 1979, dopo che durante i lunghi giorni del sequestro Moro lei voleva interrompere il suo show del sabato sera ma la Rai non voleva perdere i suoi trenta milioni di ascoltatori e non lo concesse – «Mi vergognavo così tanto che non sono tornata per molto tempo», raccontò anni dopo. Andò in Spagna, in Argentina. Ha venduto sessanta milioni di dischi nel mondo, ha ricevuto ventidue dischi d’oro e di platino – un successo planetario, anche nel mondo anglosassone. Quando tornò pian piano ritornò nelle nostre case – un programma all’ora di pranzo con il gioco dei fagioli che fece un successo strepitoso, e poi «Carramba», il cui format venne riprodotto nel mondo. Raffaella era nei nostri cuori – e da lì non s’era mai mossa. Ha affrontato la malattia improvvisa con estremo riserbo – quasi non volesse addolorarci. E le sue ultime disposizioni – una bara di legno grezzo, l’urna per le ceneri – dicono di una donna genuina, autentica. Ecco, forse era questo il suo ”segreto”: nel rutilante e spesso ipocrita mondo dello spettacolo aveva portato non soltanto la sua freschezza e il suo talento – ma una genuinità autentica. Ci mancherai.
La scomparsa dopo la malattia. È morta Raffaella Carrà: a 78 anni scompare la regina della televisione. Carmine Di Niro su Il Riformista il 5 Luglio 2021. “Raffaella ci ha lasciati. E’ andata in un mondo migliore, dove la sua umanità, la sua inconfondibile risata e il suo straordinario talento risplenderanno per sempre”. Con queste parole Sergio Iapino ha dato l’annuncio della scomparsa di Raffaella Carrà, icona della televisione e della musica, prima grande show girl italiana, morta oggi a 78 anni. Raffaella Carrà è morta oggi alle 16.20, dopo una malattia che da qualche tempo l’aveva colpita, ha reso noto l’ex compagno Iapino. Le esequie saranno definite a breve. Nelle sue ultime disposizioni, Raffaella ha chiesto una semplice bara di legno grezzo e un’urna per contenere le sue ceneri. Come ha ricordato Iapino nell’annunciarne la scomparsa, la sua era “una forza inarrestabile, che l’ha imposta ai vertici dello star system mondiale, una volontà ferrea che fino all’ultimo non l’ha mai abbandonata, facendo sì che nulla trapelasse della sua profonda sofferenza. L’ennesimo gesto d’amore verso il suo pubblico e verso coloro che ne hanno condiviso l’affetto, affinché il suo personale calvario non avesse a turbare il luminoso ricordo di lei”. La sua lunga carriera l’ha resa un’icona della televisione italiana ma anche della musica, riscontrando grandi consensi anche all’estero, soprattutto in Spagna. Nel corso della sua carriera ha venduto oltre 60 milioni di dischi, riuscendo ad ‘accumulare’, come raccontato da lei stessa durante una puntata di Domenica In condotta da Pippo Baudo in cui era ospite, ben 22 dischi tra platino e oro. Raffaella Carrà è stata legata per un lungo periodo con Gianni Boncompagni, autore televisivo e artefice anche dei suoi maggiori successi musicali, e per un altrettanto lungo periodo col coreografo e regista Sergio Iapino. Non ha mai avuto figli, ma nel corso della vita ha adottato vari bambini a distanza, in diverse parti del mondo: proprio il tema delle adozioni a distanza è stato al centro di un suo programma televisivo del 2006, ‘Amore’. Col programma la Carrà ha permesso l’adozione di 150mila bambini a distanza. Raffaella Carrà, il cui vero nome era Raffaella Maria Roberta Pelloni, era nata a Bologna il 18 giugno del 1943: lo scorso novembre il Guardian, celebre quotidiano inglese, l’aveva celebrata con un lungo articolo in cui la definiva “la pop star italiana che ha insegnato all’Europa la gioia del sesso”.
IL RICORDO DI PIPPO BAUDO – A ricordarla “immensamente scosso” è Pippo Baudo, che con la Carrà ha condiviso anni di carriera in tv. “È stata un’artista eccezionale, un’autodidatta straordinaria, io la conosco dagli inizi della sua carriera. Io non sono riuscito mai a fare un programma con lei, era l’unico rimprovero che le facevo sempre, è il mio grandissimo rimpianto”, ha spiegato il celebre conduttore all’AdnKronos. Ricordando il suo successo in Spagna, “l’unica tra le soubrette italiane”, Baudo racconta un aneddoto: “Una volta in Spagna, a Plaza de Toros, c’era Raffaella Carrà da sola col suo gruppo, e ricordo intorno trentamila persone. Una cosa incredibile, un amore come per nessun’altra italiana”. Dietro l’amore delle persone per Raffaella c’era la semplicità, secondo Pippo Baudo: “Era la bella ‘burdela’ romagnola, la guappa, aveva una voce forte che faceva impazzire tutti. Il suo modo di essere faceva pensare ad ogni ragazza di poter diventare Raffaella Carrà, invece non era vero. Ci voleva solo il suo talento per essere Raffaella Carrà. È stata l’ultima vera grande soubrette”.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
La showgirl soffriva da tempo di una grave malattia. Com’è morta Raffaella Carrà, un calvario che l’ha spenta lentamente lontano dai riflettori: “Ricordatela con il sorriso”. Rossella Grasso su Il Riformista il 5 Luglio 2021. Raffaella Carrà, nome d’arte di Raffaella Maria Roberta Pelloni, era nata a Bologna il 18 giugno del 1943. Si è spenta alle 16.20 del 5 luglio 2021, aveva 78 anni. Ha fatto la storia della musica e della tv italiana. Tutti la ricorderanno sempre per quel suo caschetto biondo, per l’ironia e l’allegria che la sua figura portava ovunque andasse. Che fosse un programma tv o una canzone, dove c’era Raffaella tornava subito il sorriso. Soffriva da tempo di una brutta malattia che aveva attanagliato il suo corpo. Nulla aveva fatto trapelare di quel male che se la stava portando via. “Raffaella ci ha lasciati. È andata in un mondo migliore, dove la sua umanità, la sua inconfondibile risata e il suo straordinario talento risplenderanno per sempre”. Con queste parole Sergio Iapino dà l’annuncio della scomparsa di Raffaella Carrà, unendosi al dolore degli adorati nipoti Federica e Matteo, di Barbara, Paola e Claudia Boncompagni, degli amici di una vita e dei collaboratori più stretti. La malattia “da qualche tempo aveva attaccato quel suo corpo così minuto eppure così pieno di straripante energia – ha detto Sergio Iapino, suo ex compagno di vita in una nota in cui ha annunciato la morte della show girl – Una forza inarrestabile la sua, che l’ha imposta ai vertici dello star system mondiale, una volontà ferrea che fino all’ultimo non l’ha mai abbandonata, facendo si che nulla trapelasse della sua profonda sofferenza. L’ennesimo gesto d’amore verso il suo pubblico e verso coloro che ne hanno condiviso l’affetto, affinché il suo personale calvario non avesse a turbare il luminoso ricordo di lei”.
Nella nota all’Ansa, Iapino descrive Raffaella Carrà come una “donna fuori dal comune eppure dotata di spiazzante semplicità, non aveva avuto figli ma di figli — diceva sempre lei — ne aveva a migliaia, come i 150mila fatti adottare a distanza grazie ad "Amore", il programma che più di tutti le era rimasto nel cuore”. Non è ancora noto quando, né dove, si svolgeranno i funerali. Si sa invece — ed è sempre Iapino a comunicarlo — che “nelle sue ultime disposizioni, Raffaella ha chiesto una semplice bara di legno grezzo e un’urna per contenere le sue ceneri. Nell’ora più triste, sempre unica e inimitabile, come la sua travolgente risata. Ed è così che noi tutti vogliamo ricordarla”. La morte di Raffaella Carrà ha scosso tutto il mondo dello spettacolo e delle istituzioni non solo in Italia. Raffaella era diventata un simbolo in tutto il Mondo. Non esiste nessuno che non abbia mai canticchiato uno dei suoi motivetti. Prima showgirl del piccolo schermo in bianco e nero, Raffaella Carrà si era guadagnata il titolo di “regina della televisione italiana” fin dai primi anni ’70 sull’onda del grande successo di “Canzonissima”. Ma era anche un’icona della musica leggera, riscontrando grandi consensi anche all’estero, soprattutto in Spagna e in America Latina, con oltre 60 milioni di dischi venduti. Nel 2020 il quotidiano britannico “The Guardian” ha incoronato Raffaella Carrà come sex symbol europeo, definendola “l’icona culturale che ha insegnato all’Europa le gioie del sesso”. Merito anche del “Tuca tuca”, il balletto con movenze sexy che ruppe un tabù nella Rai del 1971. E per le sue canzoni ironiche e lievemente trasgressive era da tempo anche un’icona del mondo gay.
Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.
La scomparsa di una icona. I grandi amori di Raffaella Carrà: Gianni Boncompagni e Sergio Japino, i due uomini della regina della tv. Fabio Calcagni su Il Riformista il 5 Luglio 2021. Una vita segnata da grandi successi e da grandi amori, quelli per i suoi storici compagni Sergio Iapino e Gianni Boncompagni. Raffaella Carrà, la straordinaria show girl, conduttrice e cantate che si è spenta oggi all’età di 78 anni, ha avuto un cuore che non è mai stato “vagabondo”, come cantava in sua canzone. Sergio e Gianni sono stati con Raffaella, scomparsa oggi pomeriggio dopo una dopo una malattia che da qualche tempo l’aveva colpita, artefici di decenni di grande televisione italiana.
L’AMORE CON BONCOMPAGNI – Con Gianni Boncompagni, celebre autore televisivo e artefice anche dei suoi maggiori successi musicali, la ‘love story’ è durata undici anni. I due si conobbero a Roma nel 168 grazie ad una intervista realizzata in piazza di Spagna, ma la relazione iniziò l’anno seguente, “con calma”, come rivelò Raffaella in una intervista del 2012, anche perché la madre di lei non vedeva di buon occhio Boncompagni, ‘reo’ di essere 9 anni più grande della showgirl e di essere già separato con tre figli.
Col rapporto con Boncompagni Raffaella era diventata di fatto "mamma” dei bambini dell’autore televisivo, Claudia, Paola e Barbara. Quest’ultima aveva raccontato al Corriere che “per noi è stata un po’ una mamma, quella che ci era mancata”. Il rapporto invece con Gianni era diventato più complicato a causa degli impegni lavorativi, anche perché gli anni Settanta sono stati quelli del primo ‘boom’ nella carriera di Raffaella: costanti viaggi in Sudamerica e Spagna, mesi trascorsi fuori casa e “un rapporto, in queste condizioni, fatalmente cambia”, aveva raccontato Raffaella. In effetti la relazione sentimentale tra i due termina nel 1980, ma non il sodalizio lavorativo che, al contrario, continuerà anche negli anni successi. Insieme infatti, grazie ad una profonda amicizia, firmeranno altri programmi di successo, in particolare ‘Pronto, Raffaella?’ dal 1983 al 1985, che permetterà alla Carrà di vincere titolo di Personaggio televisivo femminile a livello europeo consegnato dalla European TV Magazines Association nel 1984.
LA RELAZIONE DI 17 ANNI CON IAPINO – L’amore con Sergio Iapino nascerà nel 1981, quando il regista, autore televisivo e coreografo italiano era un semplice assistente coreografo di Gino Landi per la trasmissione “Millemilioni”. In una intervista concessa a TV Sorrisi e Canzoni raccontò il colpo di fulmine tra i due: “Facevo pure il ballerino ma un po’ meno, perché dovevo guardare gli altri e insegnare loro i movimenti. Facevo con lei un romantico passo a due per insegnarlo a un altro. Accadde lì: ci siamo guardati negli occhi ed è scattata la scintilla”. La storia tra i due terminò dopo 17 anni, nel 1997, alla vigilia della messa in onda del programma ‘Furore’ che i due avevano scritto insieme. A chiarire la fine del rapporto fu la stessa Raffaella dopo che Iapino venne paparazzato in compagnia di una corista del programma ‘Tira e molla’. “Oggi sarei libera di amare chi voglio in tutta chiarezza perché da tempo Sergio Japino ed io abbiamo deciso di dividere le nostre strade pur rimanendo profondamente legati”, scrisse in una lettera inviata al direttore di Novella2000, che aveva pubblicato le foto di Raffaella in compagnia di un dentista romano, storia subito smentita.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
L'annuncio della morte della showgirl, attrice, cantante e ballerina. Chi è Sergio Japino, il regista e coreografo ex compagno di Raffaella Carrà. Vito Califano su Il Riformista il 5 Luglio 2021. A dare la notizia della scomparsa di Raffaella Carrà è stato proprio lui, Sergio Japino. “Raffaella ci ha lasciati. È andata in un mondo migliore, dove la sua umanità, la sua inconfondibile risata e il suo straordinario talento risplenderanno per sempre”, ha fatto sapere il regista e autore televisivo e coreografo italiano che si è unito al dolore degli adorati nipoti Federica e Matteo, di Barbara, Paola e Claudia Boncompagni. Japino è stato per anni compagno della Carrà. Si era formato come ballerino alla scuola di Gino Landi. Ha cominciato la propria carriera in televisione negli anni Ottanta come coreografo per Fantastico 3 e per Pronto, Raffaella?. Solo l’inizio di un sodalizio che li porterà a collaborare alle produzioni tra le più riuscite della carriera della showgirl, anche quando alla fine degli anni Novanta la relazione sentimentale tra i due finì. È stato regista, coautore e coreografo di diverse trasmissioni come il Raffaella Carrà Show, Il Principe Azzurro, Ricomincio da due, Fantastico 12, Carràmba! Che sorpresa e Carràmba! Che fortuna, Salvemos Eurovision anche sulla TVE spagnola. È stato ospite di Benvenuta Raffaella e quindi regista del programma di interviste andato in onda in prima serata su Rai 3 A raccontare comincia tu, durato due edizioni. Ha una figlia di nome Jessica. Carrà è morta a causa di una malattia, a 78 anni, che “da qualche tempo aveva attaccato quel suo corpo così minuto eppure così pieno di straripante energia. Una forza inarrestabile la sua, che l’ha imposta ai vertici dello star system mondiale, una volontà ferrea che fino all’ultimo non l’ha mai abbandonata, facendo sì che nulla trapelasse della sua profonda sofferenza. L’ennesimo gesto d’amore verso il suo pubblico e verso coloro che ne hanno condiviso l’affetto, affinché il suo personale calvario non avesse a turbare il luminoso ricordo di lei”, ha concluso Japino. Non aveva avuto figli ma ne aveva a migliaia, 150mila quelli fatti adottare a distanza grazie ad “Amore”, il programma che più di tutti le era rimasta nel cuore. Le esequie saranno definite a breve. Le sue ultime disposizioni: una semplice bara di legno grezzo e un’urna per contenere le sue ceneri. Lascia i nipoti Federica e Matteo.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Sergio Japino, ex compagno Raffaella Carrà. L’ultimo gesto d’amore per lei. Anna Montesano il 09.07.2021 su Sussidiario. Sergio Japino, ex compagno di Raffaella Carrà, è stato uno dei pochi che la conduttrice ha voluto al suo fianco fino alla fine. Nonostante un amore che, probabilmente, non è mai finito quello di Sergio Japino per Raffaella Carrà. Insieme nel lavoro e nella vita per tanti anni, insieme fino alla fine anche nella camera ardente. Per Raffaella, Sergio ha voluto un cuore rosso, simbolo inequivocabile dei suoi sentimenti. Per lei è rimasto lì dall’inizio alla fine, salutando amici, colleghi e parenti della Carrà. Per lei ha versato nuove lacrime, poi, insieme a tutti loro. C’è allora chi ha cercato di consolarlo con un abbraccio o una parola. “Era davvero molto provato”, ha dichiarato Michele Cucuzza, che era lì ai funerali, in una recente intervista. Sono stati giorni difficili, di grande dolore per chi ha conosciuto Raffaella e, sicuramente, un po’ di più per Sergio Japino. (Aggiornamento di Anna Montesano)
Sergio Japino, commosso, ha accompagnato il feretro di Raffaella Carrà in chiesa. Dal giorno in cui ha annunciato la morte della regina della televisione italiana, Sergio Japino è sempre rimasto al suo fianco, esattamente come ha fatto per tutti gli anni vissuti l’uno accanto all’altra. Dopo averla accompagnata nel corteo funebre, ha accompagnato Raffaella anche durante il breve viaggio dalla camera ardente allestita in Campidoglio alla chiesa. Per omaggiare Raffaella e l’affetto che li ha sempre uniti e che non verrà mai meno, Sergio Japino ha scelto un mazzo di rose rosse sul quale troneggia semplicemente il nome “Sergio”. Un piccolo simbolo di quello che è stato un grande amore (aggiornamento di Stella Dibenedetto).
Sergio Japino ha accompagnato Raffaella Carrà, sua compagna per 17 anni, anche nel suo ultimo viaggio. Il coreografo e regista non solo ha annunciato la morte della showgirl, ma ha voluto sedere sul carro funebre che trasportava il feretro della conduttrice nel lungo corteo che si è tenuto mercoledì 7 luglio a Roma. Alla camera ardente al Campidoglio Japino, completamente vestito di nero, è apparso visibilmente commosso ma si è intrattenuto a parlare con molto volti della televisione, come Fiorello, Pippo Baudo e Renzo Arbore. Oggi, venerdì 9 luglio, palle 12 nella chiesa di Santa Maria in Ara Coeli, sempre su Piazza del Campidoglio, si terrà il funerale di Raffaella Carrà: Sergio Japino sarà sicuramente seduto in prima fila e non è escluso che possa leggere un ultimo saluto alla compagna e collega di una vita. (agg. Elisa Porcelluzzi)
Sono giorni di grande dolore per Sergio Japino. La morte di Raffaella Carrà è arrivata dura ma non inaspettata visto che, da tempo, la conduttrice era malata. Tumore ai polmoni ciò contro cui combatteva la Carrà, una battaglia che ha deciso di vivere in silenzio, lontana dal suo pubblico e con poche persone, quelle per lei più importanti. Tra queste c’è Sergio Japino, compagno per 17 anni ma, soprattutto, amico, collega, confidente, più di un semplice amore. Sergio è stata una delle poche persone che Raffaella ha voluto al suo fianco negli ultimi giorni della sua vita. Lo fa sapere Dagospia che scrive: “Non voleva vedere nessuno, tranne i familiari, gli assistenti e le persone a lei più care, come Sergio Japino. A seguirla nella terapia era stato il professor Paolo Marchetti, uno degli oncologi romani più apprezzati”.
Sergio Japino e l’ultimo saluto a Raffaella Carrà con un desiderio. Raffaella Carrà ha voluto solo Sergio Japino e pochi familiari al suo fianco nei giorni più duri che anticipavano la fine. Anche dopo la sua morte, Sergio ha continuato ad essere in prima fila per lei: così al corteo funebre, così alla camera ardente e così sarà anche oggi, venerdì 9 luglio, nel giorno dei suoi funerali. Proprio Japino, qualche giorno fa, ha lanciato un appello a tutti i fan di Raffaella per riunirli, anche virtualmente, in un ultimo, grande saluto. Un desiderio che, probabilmente, la stessa Carrà potrebbe aver avuto. Un appello che, certamente, sarà ben accolto e troverà la calorosa risposta dei tantissimi fan che Raffaella Carrà, in tutti questi anni, ha raccolto in tutto il mondo.
La storia tra Raffaella Carrà e Sergio Japino, insieme fino all'ultimo: "L'amore può cambiare, ma non muore". Un legame profondo, andato ben oltre quello sentimentale: “Siamo legati nell’anima, più che fratelli, abbiamo lo stesso sangue". L' HuffPost il 9 luglio 2021. “Raffaella ci ha lasciati. È andata in un mondo migliore, dove la sua umanità, la sua inconfondibile risata e il suo straordinario talento risplenderanno per sempre”. Con queste parole Sergio Japino, regista, autore tv e coreografo, ha dato l’annuncio della scomparsa di quella che è stata la sua compagna di vita per circa quarant’anni, prima come fidanzata e poi come amica. Loro due, insieme, fino all’ultimo. Dopo la fine della relazione con Gianni Boncompagni, la Carrà conobbe Japino, allora assistente coreografo di Gino Landi, sul set del programma Millemilioni (1981). In un’intervista di qualche anno fa a TV Sorrisi e Canzoni, lui raccontò: “Facevo con lei un romantico passo a due per insegnarlo a un altro. Accadde lì: ci siamo guardati negli occhi ed è scattata la scintilla”. Il fidanzamento tra la Carrà e Japino andò avanti per molti anni fino a quando, nel 1997, le fotografie pubblicate su alcuni giornali scandalistici che li ritraevano accanto ad altre persone fecero scattare il gossip. “Oggi sarei libera di amare chi voglio. Io e Sergio abbiamo deciso di dividere le nostre strade pur rimanendo profondamente legati”, replicò la ‘Raffa’ nazionale mettendo a tacere i pettegolezzi. Un legame profondo, che andò ben oltre quello sentimentale. “Siamo legati nell’anima, più che fratelli, abbiamo lo stesso sangue. Una normale storia d’amore è molto piccola rispetto a quella che viviamo noi”, disse Sergio Japino. Mentre in un’intervista al Corriere della Sera, la Carrà sintetizzò: “L’amore può cambiare, ma non muore”. Dall’amore tra i due, durato ben 17 anni, non nacquero figli. Ma nel cuore dell’artista c’è sempre stato un grande desiderio di maternità. “Sono andata dal ginecologo per un controllo e lì ho fatto l’amara scoperta: ormai era troppo tardi. Il medico mi ha detto: ‘Raffaella, ti devi rassegnare, il tuo fisico non ti permette più di affrontare una gravidanza’ È stato come sbattere la faccia contro un muro. Come se la vita, all’improvviso, mi avesse costretta a fare un bagno di realtà”, rivelò qualche anno fa la Carrà ad Ok Salute. Ma, come ha ricordato Japino dando l’annuncio della scomparsa, “di figli ne aveva migliaia, come i 150mila fatti adottare a distanza grazie ad Amore, il programma che più di tutti le era rimasto nel cuore. D’altronde era una donna fuori dal comune, eppure dotata di spiazzante semplicità”.
La vita di un idolo. Chi era Raffaella Carrà, nessun marito e più di mille figli adottati: “Icona, ha insegnato le gioie del sesso”. Rossella Grasso su Il Riformista il 5 Luglio 2021. Probabilmente non esiste qualcuno che almeno una volta non abbia canticchiato un motivetto delle sue canzoni o non abbia fatto ‘la mossa’ all’indietro. Raffaella Carrà ha lasciato un’eredità culturale, musicale e sociale che ha cambiato l’Italia. E probabilmente resterà impressa anche nell’immaginario delle generazioni future. Raffaella Carrà è morta il 5 luglio 2021 ma la sua figura resterà per sempre immortale, non solo per gli italiani. È stata definita la “Regina della televisione italiana”: presente costantemente in TV dalla fine degli anni ’60 fino agli ultimi giorni. Raffaella Carrà è stata anche un’icona della musica, celebre in Italia e Spagna soprattutto ma non solo. Ha venduto oltre 60 milioni di dischi e ha dichiarato di possedere 22 dischi tra platino e oro. Prima showgirl del piccolo schermo in bianco e nero, Raffaella Carrà era anche un‘icona della musica leggera, riscontrando grandi consensi anche all’estero, soprattutto in Spagna e in America Latina. Nel 2020 il quotidiano britannico “The Guardian” ha incoronato Raffaella Carrà come sex symbol europeo, definendola “l’icona culturale che ha insegnato all’Europa le gioie del sesso”. Merito anche del “Tuca tuca”, il balletto con movenze sexy che ruppe un tabù nella Rai del 1971. E per le sue canzoni ironiche e lievemente trasgressive era da tempo anche un‘icona del mondo gay.
Gli esordi di Raffaella Carrà. Nasce a Bologna da padre romagnolo e madre siciliana. Il suo nome all’anagrafe era Raffaella Maria Roberta Pelloni. Da bambina crebbe guardando e amando al TV, suo primo grande amore, con il Musichiere, imparando a memoria titoli, balletti e ritornelli delle canzoni. A soli otto anni lasciò la riviera romagnola per proseguire gli studi direttamente a Roma, prima presso l’Accademia Nazionale di Danza, fondata dalla ballerina russa Jia Ruskaja, poi al Centro sperimentale di cinematografia. Dopo poco la sua prima apparizione in TV in un film di Mario Bonnard Tormento del passato (1952).
Il cambio di nome in Carrà. Negli anni 60 il successo diventava sempre più travolgente e Raffaella decise di accettare il consiglio del regista Dante Guardamagna a crearsi un nome d’arte che risuonasse più semplice per il pubblico. Così Raffaella Maria Roberta Pelloni diventò semplicemente Raffaella Carrà. Fu il regista stesso a suggerirgliene uno: appassionato di pittura, associò il suo vero nome, Raffaella, che ricorda il pittore Raffaello Sanzio, al cognome del pittore Carlo Carrà.
Il successo televisivo negli anni ’70: lo scandalo dell’ombelico scoperto. Nella stagione 1969-1970 arrivò il successo televisivo, nello spettacolo Io, Agata e tu (con Nino Taranto e Nino Ferrer), in cui Carrà lanciava un nuovo stile di showgirl, scattante e moderna. Nell’autunno dello stesso anno fu al fianco di Corrado in Canzonissima, dove diede scandalo per l’ombelico scoperto mostrato nella sigla d’apertura Ma che musica maestro!, che raggiunse le vette delle classifiche, vendendo 200 000 copie. Forse grazie a quell’ombelico scoperto la trasmissione raggiunse il picco massimo di ascolti: diventò la stella della TV italiana.
La censura del Tuca Tuca. Nel 1971 Raffaella Carrà era ancora alla conduzione di Canzonissima. E tirò fuori un altro “scandalo” che fece infuriare i vertici Rai che la censurarono: il “Tuca Tuca” con tanto di balletto giudicato troppo audace e provocatorio. Solo dopo l’esibizione insieme con Alberto Sordi, il ballo superò le censure e le polemiche iniziali, diventando un autentico fenomeno popolare. Seguì poi, nel 1974, Milleluci, presentato al fianco di Mina che la consacrò definitivamente come volto della TV italiana. In quegli anni Raffaella iniziò anche a puntare sulla musica con quelli che poi sarebbero diventati i più grandi successi di sempre: A far l’amore comincia tu, Fiesta, Rumore, Ballo Ballo e Pedro.
I programmi televisivi di Raffaella Carrà. Poi vennero gli anni ’80 e i fortunati successi di programmi TV come Fantastico, Millemilioni, Pronto Raffaella. Dopo un brevissimo periodo, di due anni, in Fininvest, Raffaella torna a ‘casa’ in Rai negli anni Novanta dove raccoglie di nuovo successi straordinari con Carramba! Che sorpresa, inventato insieme a Sergio Japino e nel quale Raffaella coinvolgeva in diretta gli ospiti e il pubblico in sala in sorprese e incontri inaspettati con persone care che non vedevano da molto tempo, architettati insieme a un complice. Il tutto alternato a momenti di spettacolo e la presenza di grandi ospiti, italiani e internazionali. Poi ancora tanta televisione, non solo in Italia ma anche in Spagna, dove rimane per quattro anni diventando una delle donne più amate della televisione grazie, anche, al suo Hola Raffaella. Poi il ritorno in Italia nel 1995 riproponendosi con successo in Carramba! Che sorpresa (1995-97 e 2002), trasmissione ispirata al varietà britannico Surprise, surprise. Ha quindi continuato a raccogliere consensi presentando Carramba! Che fortuna (1998-2000 e 2008) e Segreti e bugie (1999), sempre su Raiuno. Una sola volta fu alla conduzione del Festival di Sanremo, nel 2001, affiancata da Piero Chiambretti, Enrico Papi, Megan Gale e Massimo Ceccherini. Nel 2004 il programma Sogni, mentre dedicato alle adozioni a distanza è stato Amore del 2006.
I grandi amori di Raffaella Carrà. Il suo cuore è stato “vagabondo”, come cantava in una sua canzone. Sono state due le storie d’amore più importanti: quello con Gianni Boncompagni e con Sergio Iapino che ha avuto il triste compito di annunciarne la morte. Con Gianni Boncompagni la love story durò 11 anni. Celebre autore televisivo e artefice anche dei suoi maggiori successi musicali, si conobbero a Roma nel 1968 grazie ad una intervista realizzata in piazza di Spagna, ma la relazione iniziò l’anno seguente, “con calma”, come rivelò Raffaella in una intervista del 2012, anche perché la madre di lei non vedeva di buon occhio Boncompagni, "reo" di essere 9 anni più grande della showgirl e di essere già separato con tre figli. Col rapporto con Boncompagni Raffaella era diventata di fatto "mamma" dei bambini dell’autore televisivo, Claudia, Paola e Barbara. Quest’ultima aveva raccontato al Corriere che “per noi è stata un po’ una mamma, quella che ci era mancata”. Il rapporto invece con Gianni era diventato più complicato a causa degli impegni lavorativi, anche perché gli anni Settanta sono stati quelli del primo ‘boom’ nella carriera di Raffaella: costanti viaggi in Sudamerica e Spagna, mesi trascorsi fuori casa e “un rapporto, in queste condizioni, fatalmente cambia”, aveva raccontato Raffaella. In effetti la relazione sentimentale tra i due termina nel 1980, ma non il sodalizio lavorativo che, al contrario, continuerà anche negli anni successi. Insieme infatti, grazie ad una profonda amicizia, firmeranno altri programmi di successo, in particolare ‘Pronto, Raffaella?’ dal 1983 al 1985, che permetterà alla Carrà di vincere titolo di Personaggio televisivo femminile a livello europeo consegnato dalla European TV Magazines Association nel 1984. La relazione con Sergio Iapino invece durò 17 anni. L’amore nascerà nel 1981, quando il regista, autore televisivo e coreografo italiano era un semplice assistente coreografo di Gino Landi per la trasmissione ‘Millemilioni’. In una intervista concessa a TV Sorrisi e Canzoni raccontò il colpo di fulmine tra i due: “Facevo pure il ballerino ma un po’ meno, perché dovevo guardare gli altri e insegnare loro i movimenti. Avevo con lei un romantico passo a due per insegnarlo a un altro. Accadde lì: ci siamo guardati negli occhi ed è scattata la scintilla”. La storia tra i due terminò dopo 17 anni, nel 1997, alla vigilia della messa in onda del programma ‘Furore’ che i due avevano scritto insieme. A chiarire la fine del rapporto fu la stessa Raffaella dopo che Iapino venne paparazzato in compagnia di una corista del programma ‘Tira e molla’. “Oggi sarei libera di amare chi voglio in tutta chiarezza perché da tempo Sergio Japino ed io abbiamo deciso di dividere le nostre strade pur rimanendo profondamente legati”, scrisse in una lettera inviata al direttore di Novella2000, che aveva pubblicato le foto di Raffaella in compagnia di un dentista romano, storia subito smentita. Raffaella Carrà non aveva avuto figli ma di figli – diceva sempre lei – ne aveva a migliaia, come i 150mila fatti adottare a distanza grazie ad ‘Amore’, il programma che più di tutti le era rimasto nel cuore.
Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.
Dal Teatro delle Vittorie alla casa a Vigna Clara. È morta Raffaella Carrà. Ecco il legame della regina della Tv con Roma. Serena Console su Il Riformista il 5 Luglio 2021. Raffaella Carrà è morta alle 16.20 di oggi, 5 luglio, all’età di 78 anni, dopo aver combattuto contro una malattia. “Raffaella ci ha lasciati. È andata in un mondo migliore, dove la sua umanità, la sua inconfondibile risata e il suo straordinario talento risplenderanno per sempre”. Con queste parole Sergio Japino dà il triste annuncio unendosi al dolore degli adorati nipoti Federica e Matteo, di Barbara, Paola e Claudia Boncompagni, degli amici di una vita e dei collaboratori più stretti. Sarà difficile dimenticare il suo caschetto biondo e la sua instancabile energia che hanno fatto innamorare migliaia di persone in Italia come all’estero.
I LEGAMI CON ROMA
Raffaella Roberta Pelloni (questo il suo nome all’anagrafe) è nata a Bologna il 18 giugno del 1943, ma ha sempre avuto un legame indissolubile con Roma. È arrivata nella Capitale quando aveva 8 anni, insieme alla famiglia, per frequentare l’Accademia Nazionale di Danza di Roma di Jia Ruskaia.
L’impegno e la dedizione nella danza di Raffaella non hanno conquistato l’insegnante di danza Ruskaia, che vedeva per la giovane ballerina solo un futuro da coreografa.
La delusione ha spinto la giovane Raffaella a tentare la via del cinema, tanto che decide di iscriversi al Centro sperimentale di cinematografia, dove ha conseguito nel 1960 il diploma. A Cinecittà il suo esordio sul grande schermo, nel ruolo di attrice-bambina in “Tormento del passato” di Mario Bonnard.
Dal 1960 al 1970, la giovane Raffaella ha recitato in diversi film, non riuscendo mai a ottenere il successo sperato. Fu la volta della tv: il suo nome d’arte, che gli è stato consigliato dal regista Dante Guardamagna, appassionato d’arte, è stato il trampolino di lancio che l’ha fatto conoscere in tutto il mondo.
I SUCCESSI TELEVISIVI: IL TEATRO DELLE VITTORIE
A Roma i primi successi televisivi. Già nello spettacolo “Io, Agata e tu”, con Nino Taranto e Nino Ferrer, la Carrà ha fatto innamorare i telespettatori, incantati dallo stile di showgirl, scattante e moderna.
Nell’autunno del 1970, dal Teatro Delle Vittorie di Roma va in onda la prima puntata di “Canzonissima”, trasmessa da Rai 1, condotta da Corrado e Raffaella Carrà. La giovane showgirl ha dato scandalo per l’ombelico scoperto mostrato nella sigla d’apertura “Ma che musica maestro!”, che ha venduto subito 200 000 copie.
Nella stagione televisiva 1985-1986 fu la conduttrice del supershow Buonasera Raffaella (versione di prima serata di Pronto, Raffaella?), le cui prime dieci puntate andarono in onda da Roma, mentre le restanti furono trasmesse da New York.
LA CASA A VIGNA CLARA
Immersa nel verde e nascosta dagli sguardi indiscreti di fotografi e fan, la casa in cui viveva Carrà è in una strada di Vigna Clara, a un passo da Ponte Milvio. La sua abitazione era vicina a quella di Gianni Boncompagni, il più grande innovatore della tv italiana e fedele compagno di vita e di lavoro di Raffaella Carrà: i due sono stati insieme per 11 anni, fino al 1980.
IL RAPPORTO CON I ROMANI
Raffaella ha avuto un forte legame con diversi romani, protagonisti della tv e della musica. Con il “Tuca tuca”, scritta da Boncompagni, Raffaella Carrà ha scandalizzato e sedotto l’Italia con una canzone ammiccante e trasgressiva per le regole della tv dell’epoca: nel 1971, durante una puntata di “Canzonissima” è stato necessario l’intervento del grande attore Alberto Sordi, che con la sua ironia ha sdrammatizzato quelle movenze sexy.
In Carramba che fortuna 2008, Carrà ha duettato con l’attrice Sabrina Ferilli, proponendo diversi brani dalla musica popolare romanesca: Tanto Pè Cantà, Roma Nun Fa La Stupida Stasera, Arrivederci Roma, La Società dei Magnaccioni.
I SALUTI ALL’ARTISTA
Numerosi i saluti per la regina della tv. Dal mondo della politica romana a quello della cultura e dello spettacoli tanti hanno voluto salutare la showgirl. La sindaca di Roma Virginia Raggi ha espresso affetto e vicinanza alla famiglia della showgirl. “Ci ha lasciati Raffaella Carrà, icona della tv italiana. Con il suo sorriso e la sua eleganza è entrata nelle nostre case portando allegria e spensieratezza. Nessuno di noi dimenticherà il suo talento. Roma è vicina alla famiglia e a coloro che l’hanno amata. Ciao, Raffaella”, così su Twitter la sindaca Raggi. Il Ministro della Cultura Dario Franceschini, dopo aver appreso della notizia della scomparsa di Raffaella Carrà, l’ha salutata così: “Con la scomparsa di Raffaella Carrà se ne va la Signora della televisione italiana. Una donna di grande talento, passione e umanità che ci ha accompagnato per tutta la vita. Addio Raffaella”. “Un’icona. Ha contribuito con il suo sorriso e le sue canzoni a far progredire la società e rendere le donne più libere, in anni in cui non era scontato”. Così in un tweet Carlo Calenda, leader di Azione e candidato a sindaco di Roma. Il candidato sindaco del Pd a Roma Roberto Gualtieri in un tweet ha scritto: “Come tante generazioni di italiani sono cresciuto con le trasmissioni di #RaffaellaCarrà. Una grandissima artista, una vera star dello spettacolo che con il suo talento e la sua simpatia era entrata nel cuore di tutti. La sua scomparsa lascia senza parole, non la dimenticheremo”. Anche Fabrizio Marrazzo, candidato sindaco di Roma e portavoce nazionale del Partito Gay per i Diritti Lgbt+, Solidale, Ambientalista e Liberale, ha salutato Carrà. “Esprimiamo cordoglio per la morte di Raffaella Carrà, una grande artista che è stata simbolo di libertà per la nostra comunità Lgbt+, tanto che nel 2017 fu definita Icona gay per il coraggio, l’energia e libertà. Ha sdoganato la libertà di amare e di essere se stessi in anni molto più difficili come negli anni ’60 e ’70. La sua musica da sempre è un cult dei Pride e dei locali Lgbt+ in Italia e non solo e continuerà ad esserlo anche dopo la sua scomparsa. In sua memoria si migliori la legge contro l’omotransfobia togliendo l’art. 4 che consente di definirci malati e l’art.7 che di fatto blocca ogni formazione nelle scuole e si approvi senza alcuna mediazione al ribasso con le destre. Ciao Raffaella!” Raffaella Carrà è stata “un’artista completa”. Lo ha detto all’AdnKronos Maurizio Costanzo ricordando Raffaella Carrà. “È stata una grande figura. Se si pensa al ‘Tuca Tucà a ‘Come è bello far l’amor da Trieste in giù’ e a ‘Carramba che sorpresà cioè un talk con l’emozione finale. Un mondo. Aveva 16 o 17 anni – racconta Costanzo – e la mamma mi chiese di aiutarla a fare il tema per l’ammissione al Centro sperimentale di cinematografia. Io l’ho fatto e da allora siamo rimasti amici tutta la vita”. Serena Console
Fulvio Abbate per "il Riformista" il 6 luglio 2021. Raffaella Carrà, anche adesso che ci ha lasciati, idealmente vive al centro dell’ideale lussureggiante diorama italiano, un diorama monumentale, assai simile al plastico del parco dell'"Italia in miniatura" di via Popilia a Rimini, strapaese, dove girò in notturna il suo video più eponimo, suo modo, come già accennato nella luce di una canzone che davvero è stata il suo inno, “Tanti auguri”, dove le parole vengono da sé: “…com’è bello far l’amore da Trieste in giù”. Al centro assoluto del diorama, un proverbiale, iconico, araldico caschetto biondo, visibile dall’alto, a volo d’uccello, appunto, sullo spettacolare paesaggio italiano. In grado di figurare, sempre idealmente, accanto alla Torre di Pisa, al Duomo di Milano; accennando invece al Colosseo è proprio lì davanti che si innalza il terrazzo della “Grande bellezza”, dove nel ballo orgiastico sfavilla campionato dall’imperatore dei dj Bob Sinclair, proprio quel suo canto trasfigurato in pop lisergico. Raffaella Carrà è stata molte cose: danza, ballo, festa e fiesta, conduttrice e soubrette, ha recitato perfino da ragazza, i capelli ancora castani, accanto a Frank Sinatra, ha addirittura mostrato all’Italia intera un magico osceno barattolo, chiedendo in cambio di chissà quanti dobloni d’oro, il numero esatto di fagioli in esso contenuto, ha introdotto nel lessico termini non meno osceni quali “gancio”, per intendere colui che metteva la sua redazione in contatto con chi avrebbe dovuto far vivere a un proprio caro l’emozione della “carrambata”, ha ancora ballato e cantato nell’albo d’oro della televisione italiana e non solo. Anni addietro, le teche Rai ci offrirono un mausoleo filmato del repertorio che la riguarda, così per onorare i suoi 70 anni. Immagini pronte a suscitare una riflessione sugli slittamenti progressivi del gusto televisivo al centro del Teatro delle Vittorie, la giraffa che viene giù a favore delle sue spaccate, delle sue labbra, del caschetto che svolazza come le piume dei bersaglieri. Esemplare in questo senso un frammento datato 1974 nel quale a lei si affiancano Mina e Alice ed Ellen Kessler in un quartetto vocale e gestuale da antologia, la perfezione del varietà, insomma, nella sua forma magica e sincopata. Era “Milleluci”. Tra le prime riflessioni sul culto della Carrà, fino a trascenderla, c’era l’abitudine pop di attribuire al suo ombelico un valore rivoluzionario nel costume addirittura politico e antropologico, quasi che la sua rivelazione, dopo decenni di censure, di calze coprenti imposte perfino alle ballerine di fila, abbia rappresentato l’ora X della liberazione sessuale in televisione. Bum! Se un ruolo quell’ombelico ha avuto si è trattato semmai di un dato riferibile all’ambito periferico della televisione dorotea di Ettore Bernabei. Non era insomma la Rosa Luxemburg della prima rete, di Raiuno. Anni addietro un gallerista romano ebbe modo di trovare in un cassonetto migliaia di lettere inviate alla redazione di “Pronto Raffaella?” Incredibilmente buttate via a produzione esaurita, proprio quella dell'osceno barattolo dei fagioli da indovinare. A sfogliare ogni singola missiva, foto, biglietto, supplica che si rivelava era un mondo di devozione a "Raffa", elevata a Madonna supplente, a Vergine di Loreto. Tra le foto inviate, sembrava che qualcuno fosse lì pronto a sperare in una grazia, forse un semplice cenno, questo per ribadire quanto il volto, di più, la veronica – ossia la vera-icona - della Carrà sia riuscita a penetrare nell’immaginario del Belpaese piccolo-borghese, già rurale e infine inurbato, le canzoni di Al Bano e Romina e Orietta Berti nel mangiadischi, e anche, ovvio, della Carrà. Accanto al suo caschetto biondo, la cornetta di un “bigrigio” Sip, come atto poetico dovuto. Dimenticavo: anni fa una ragazza lesbica mi raccontò il suo sogno d’essere adottata proprio dalla Carrà dei fagioli: “La guardavo e pensavo, lei è la mia vera mamma, è lei che voglio”. Forse, una parola in più per i diritti del popolo LGBT Raffaella avrebbe potuto spenderla, oltre le frasi dorotee di circostanza, no? Poi Roberto Benigni che dà l’assalto alla sua “topa” in prima serata? Nel pacco di lettere salvato dai cassonetti si evidenziava un tono degno delle suppliche al Bambinello dell’Aracoeli, se non a Padre Pio. I mittenti, facevano dono del proprio mondo, ed erano adulti vestiti da sceriffo, signori dai baffi finti, bambini con parrucche d’argento, volpi impagliate sul carrello dei liquori accanto al cestino di Natale, torroni e bottiglie di spumante, perfino ritratti apologetici ad olio della Carrà eseguiti dal telespettatore pronto a mostrarli all’obiettivo come segno e pegno di fedeltà, bambini assediati e forse perfino afflitti da una mandria di crudeli peluche; chi mostrava un autografo della destinataria ottenuto chissà dove in segno di eterna considerazione o piuttosto le foto delle proprie nozze d’oro. Perfino gli scatti eseguiti durante le riunioni di condominio, ed è come se lei, la conduttrice, attraverso le foto, entrasse in casa d’ogni mittente, e c'erano ancora: la spagnola che balla il flamenco, il travestito con l’adorato yorkshire in braccio, la sessantenne in mutande dorate sul trono africano di vimini; il signore che suonava il mandolino, un altro ancora che faceva intuire d’avere un lungo e solido pisello sotto il costume da bagno a stelle e strisce, c’era perfino quello, già cinquantenne, vestito da scolaro con tanto di fiocco. Poi una coppia di bambini vestiti rispettivamente da fante della prima guerra mondiale e vittoria alata con bandiera sabauda, ovvero l’Italia domestica rivestita di carte da parati damascate, infine c’era la bambina che tocca lo schermo mentre appare proprio Raffaella, e poi ancora cani, vecchi, ammalati, l’Italia intera. Si trattava della prima trasmissione televisiva con il numero di telefono in sovrimpressione, era il 1983. Per tutti quei mittenti, Carrà e Roma erano il medesimo luogo, dove magari sbarcare in treno o Fiat 127 per esistere finalmente, di più, guarire, resuscitare, camminare sulle acque di via Teulada, 66. Questo e molto altro se ne va insieme a lei, Raffaella Carrà, nata Pelloni, emiliana di Bologna, morta ieri a 78 anni, intatta nel suo mito, nella sua biondezza magica. Certamente, nei prossimi giorni, proprio nella portineria dello storico centro di produzione di via Teulada, accanto ai ritratti di Mike Bongiorno, Raimondo Vianello, Fabrizio Frizzi, giungerà anche la sua foto.
L'addio. Chi era Raffaella Carrà, icona pop che anticipò il ‘68 e ballando ha cambiato l’Italia. David Romoli su Il Riformista il 6 Luglio 2021. Raffaella Carrà è stata una rivoluzione. Il punto di svolta. Prima di lei c’è la tv bigotta e bacchettona che misurava la lunghezza delle gonne col centimetro e soppesava ogni battuta con un’attenzione ossessiva. La botta del ‘68 arrivò ma in ritardo di un paio d’anni. Dovendo assumere una forma nella quale incarnarsi scelse l’ombelico di Raffaella Pelloni, in arte Carrà. Quell’ombelico scoperto, spudoratamente ostentato nella sigla d’apertura di Canzonissima 1970, presentata in coppia con Corrado, mentre cantava Ma che musica maestro, una di quelle sue canzoni tanto orecchiabili che non te le toglievi più dalla mente per quanto poco potessero piacerti, tolse il fiato ai guardiani di Viale Mazzini. Pochi anni prima sarebbe stata un’ira di dio ma i tempi erano cambiati e il verdetto del pubblico fece il resto. La ragazza tirava. Gli indici di gradimento erano alle stelle, la canzonetta andava via come il pane. Si arresero. Raffaella corteggiava il successo già da un pezzo. La prima particina al cinema le era stata affidata a soli 8 anni, nel 1952, nel non indimenticabile Tormento del passato di Mario Bonnard. Poi aveva studiato danza, studiato al Centro sperimentale di cinematografia di Roma e fatto di tutto: parecchio cinema ma sempre in ruoli secondari, anche con Sinatra che le fece un bel po’ di corte, teatro, radio, sceneggiati tv, valletta di Lelio Luttazzi. Niente da fare. Il talento c’era. Era il mezzo adeguato a valorizzarlo che ancora latitava. Raffaella Carrà non era un’attrice e neppure una cantante, nonostante il successo poi ottenuto in tutta Europa e arrivare al nono posto delle classifiche inglesi con la versione english di A far l’amore comincia tu a metà anni 70 non era uno scherzo. Raffaella era una showgirl, una che si trovava nel suo elemento naturale quando doveva fare di tutto occupando sempre, in ogni veste, il palco. Non era la prima. C’era già stata la grandissima Delia Scala ma lei era troppo in anticipo sui tempi. Per scalare in pochi mesi ogni vetta in quella parte ci voleva l’egemonia della tv, che arrivò all’inizio dei 70, e ci voleva una rivoluzione culturale che permettesse di bruciare i vincoli censori come i reggiseni delle femministe americane, negli stessi anni. I tutori della morale ci provarono comunque, quando l’allusività diventò troppo scoperta con balletto sulle note del Tuca Tuca. Non che ci fosse niente di eccessivo ma insomma, con tutti quei palpeggiamenti si lasciava immaginare un seguito sconveniente. Raffaella aggirò il divieto chiedendo ad Alberto Sordi, un intoccabile, di ballarlo con lei. Finì che spopolò anche negli oratori, la censura di mamma Rai fu sbaragliata, Raffaella potè imporre per tutto il decennio il suo stile: l’esaltazione di una sessualità solare, priva di ogni aspetto torbido, forse non tanto erotica ma che per l’Italia dell’epoca fu il giro di boa. La stella continuò a brillare per quasi vent’anni: una macchina da successo. Nel 1974 presentò Milleluci insieme a Mina, per l’ultima volta mattatrice prima del ritiro, e fu quasi un passaggio di testimone, non per le doti canore ma perché anche Mina, nel decennio precedente, aveva rotto parecchi tabù e si era imposta oltre che come cantante come una delle poche presenze femminili egemoni in un’epoca ancora tutta al maschile. Poi una giostra di programmi, dischi di gran successo in Italia e all’estero, fino all’invenzione di un altro e nuovo stile televisivo con Pronto Raffaella, dal 1985 al 1987, il primo programma che riuscì con tanto pieno successo a coinvolgere direttamente il pubblico. Con l’immancabile scia in rosa scandalo: i rapporti sentimentali e professionali con Gianni Boncompagni e Sergio Japino, i troppi soldi spesi (e guadagnati) per il faraonico Buonasera Raffaella. L’astro si appannò quando Raffaella Carrà, nel 1987, passò a Finivest. Era una donna Rai come nessun’altra e fu un passo falso. Ma forse il vento sarebbe cambiato comunque. Il suo segno, però, Raffaella Pelloni lo aveva già lasciato. Indelebile. David Romoli
ADDIO RAFFAELLA CARRA’ ICONA DELLA TV. Il Corriere del Giorno il 5 Luglio 2021. La Carrà aveva scelto di tenere per sé il duro calvario che ha caratterizzato l’ultimo periodo della sua intensa vita, come ultimo gesto di riguardo per chi l’ha amata e seguita. Sembrerebbe che Raffaella Carrà nelle sue ultime disposizioni, abbia chiesto una semplice bara di legno grezzo e un’urna per contenere le sue ceneri. “Raffaella ci ha lasciati. E’ andata in un mondo migliore, dove la sua umanità, la sua inconfondibile risata e il suo straordinario talento risplenderanno per sempre”. Con queste parole è arrivato il triste annuncio di Sergio Iapino che si è unito al dolore degli adorati nipoti Federica e Matteo, di Barbara, Paola e Claudia Boncompagni, degli amici di una vita e dei collaboratori più stretti. Raffaella Carrà si è spenta alle ore 16.20 di oggi 5 luglio dopo una malattia che da tempo aveva attaccato il suo corpo ma che si era preoccupata di tenere nascosta al suo pubblico. Lo scorso 18 giugno, giorno del suo 78esimo compleanno, Raffaella Carrà il cui vero nome era Raffaella Maria Roberta Pelloni, aveva affidato ai social le sue ultime parole pubbliche: “Grazie a tutti, sono emozionata dall’affetto ricevuto da amici, colleghi, ma soprattutto dal pubblico: Mi avete sommersa di auguri, il vostro affetto mi commuove. Vi abbraccio e vi auguro un’estate con ritorno alla normalità”. La Carrà aveva scelto di tenere per sé il duro calvario che ha caratterizzato l’ultimo periodo della sua intensa vita, come ultimo gesto di riguardo per chi l’ha amata e seguita. Sembrerebbe che Raffaella Carrà nelle sue ultime disposizioni, abbia chiesto una semplice bara di legno grezzo e un’urna per contenere le sue ceneri. “Donna fuori dal comune eppure dotata di spiazzante semplicità, non aveva avuto figli ma di figli – diceva sempre lei, scrive Sergio Iapino – ne aveva a migliaia, come i 150mila fatti adottare a distanza grazie ad «Amore», il programma che più di tutti le era rimasto nel cuore“. Le esequie saranno definite a breve. Nell’ultima intervista rilasciata a “7”, il magazine del Corriere della Sera, aveva detto: “Certo le donne italiane hanno grande simpatia per me perché non sono una mangiauomini: si può avere sex appeal insieme a dolcezza e ironia, non bisogna per forza essere Rita Hayworth”. Nell’intervista, rilasciata lo scorso dicembre, Raffaella Carrà lasciava anche spazio al dolore per un anno — il 2020 — che per lei era stato particolarmente faticoso. “Ho avuto e ho molta paura. Non esco e così questo 2020 è diventato un anno sabbatico. Il 31 dicembre bisogna spaccare tutto. Lo farò in privato nella mia terrazza, a costo di chiamare il muratore il giorno dopo”. E così concludeva: “Nel giro di poco tempo mi sono vista due volte al telegiornale. Mi sono detta: oddio, che succede. Ho pure pensato: la terza volta diranno che sono morta. E ho toccato ferro”. Il dolore di Pippo Baudo estremamente scosso che, a caldo, commenta con l’Adnkronos la scomparsa improvvisa di Raffaella Carrà.”Sono immensamente scosso. È stata un’artista eccezionale, un’autodidatta straordinaria, io la conosco dagli inizi della sua carriera. Io non sono riuscito mai a fare un programma con lei, era l’unico rimprovero che le facevo sempre, è il mio grandissimo rimpianto”. “Aveva studiato ballo, era diventata anche una grande ballerina – ricorda Pippo a ruota libera, trattenendo le lacrime- Quando fece coppia con Mina, c’era un’asimmetria notevole tra le due, perché Mina è più alta di lei, eppure lei annullava questa asimmetria. E poi, è una delle poche soubrette italiane, forse l’unica, che ha avuto successo nei paesi ispanici”. Baudo ricorda un aneddoto a questo proposito: “Una volta in Spagna, a Plaza de Toros, c’era Raffaella Carrà da sola col suo gruppo, e ricordo intorno trentamila persone. Una cosa incredibile, un amore come per nessun’altra italiana”. Il motivo dell’enorme successo e dell’unicità di Raffaella stava, secondo il popolare conduttore, nella semplicità: “Era la bella ‘burdelà romagnola, la guappa, aveva una voce forte che faceva impazzire tutti. Il suo modo di essere faceva pensare ad ogni ragazza di poter diventare Raffaella Carrà, invece non era vero. Ci voleva solo il suo talento per essere Raffaella Carrà. È stata l’ultima vera grande soubrette. Sono affranto”, conclude Pippo.
Il cordoglio di Mattarella e Draghi. “Sono profondamente colpito dalla scomparsa di Raffaella Carrà, un’artista popolare, amata e apprezzata da diverse e numerose generazioni di telespettatori in Italia e all’estero. Volto televisivo per eccellenza ha trasmesso – con la sua bravura e la sua simpatia – un messaggio di eleganza, gentilezza e ottimismo”, sono le parole del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in una dichiarazione diffusa dal Quirinale. Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha appreso con profonda tristezza della scomparsa di Raffaella Carrà: “Con il suo talento e la sua professionalità ha avuto un ruolo decisivo nel diffondere la cultura dello spettacolo in Italia. La sua risata e la sua generosità hanno accompagnato generazioni di italiani e portato il nome dell’Italia nel mondo. Agli amici e ai nipoti vanno le più sentite condoglianze di tutto il governo”.
Il ricordo del mondo dello spettacolo. “Sono addoloratissimo, era un simbolo, il simbolo della bella televisione – dice Renzo Arbore – Di quella che era la più bella televisione del mondo, quella della Rai. Con lei su chiude il sipario su quel tipo di bella televisione educativa, istruttiva, elegante, allegra, semplice ma musicale. Gli storici credo che con Raffaella parleranno della fine di quella che è stata la bella epoquè della televisione” aggiungendo “C’è l’immenso dolore di aver perso una collega perché era di quella generazione che è stata decimata, e che io ho ricordato nel programma dedicato a Gianni Boncompagni “Non è la Bbc” dove lei, per la prima volta, ha parlato dell’amore per Gianni”, ricorda Arbore. L’artista pugliese dedica poi un momento ad un personale ricordo della grande soubrette, e di alcuni momenti vissuti insieme: “Ricordo Raffaella e le giornate passate in piscina da Gianni, con Marenco…le confidenze che mi faceva Boncompagni su di lei. Era il periodo più bello della tv, quella di Bernabei e di Agnes, la bella televisione. Un grandissimo dolore”. “Mi è arrivato un whatsapp, ho aperto distrattamente così come si fa sempre, come fanno tutti – racconta Maria De Filippi – Stai facendo altro e parte il suono. Ho letto che Raffaella non c’era più. L’ho letto, riletto e ho pensato: ‘Non è vero’. Ho pensato la cosa giusta, perché una come lei non muore mai. Non può morire perché tutti la conoscono, tutti conoscono i suoi occhi, il suo caschetto, la sua frangia, la sua risata e tutto quello che solo lei sapeva e sa fare”. Così la conduttrice Maria De Filippi ricorda Raffaella Carrà “Raccontava storie e continuerà a farlo faceva emozionare e continuerà a farlo, sapeva cantare e continuerà a farlo, sapeva ballare e continuerà a farlo, sapeva intrattenere e continuerà a farlo. Lei è e sempre sarà la televisione con la T maiuscola, quella a cui tutti ambiscono. Un giorno mi ha detto: ‘Quando vieni all’Argentario giochiamo a burraco, sono certa che ti batto’. Anche io ne ero certa e ne sono certa ancora. Quando è venuta ad Amici, era tutto pronto: canzoni, coreografie… Si è seduta sugli scalini e mi ha detto: ‘Fammi vedere cosa hai preparato‘. Ha visto e ha cambiato tutto come solo lei sapeva e sa fare. Le ho scritto per il suo compleanno e mi ha risposto con un semplice ‘Grazie‘. Anche in quella risposta c’è la dignità di chi vive eternamente. Non riesco a salutarti perché so che tanto ti vedo sempre. Maria”. “Non è possibile… Il mito di sempre è rinato in Cielo. Rip Raffaella”. scrive su Twitter Lorella Cuccarini. “Sei stata, sei e sarai l’unica regina. Per me, per tutto il mondo. Fuiste, Eres, siempre serßs la reina. Para mi, para el mundo entero. @raffaella #raffaellacarrà #rip #dep“, sono le parole di Laura Pausini. “Che dolore! Non ci voglio credere…”. Così su Instagram Gianni Morandi dà l’addio a Raffaella Carrà, pubblicando un video di ‘Il mio canto libero‘ in cui lui e Raffaella cantano insieme il grande successo di Lucio Battisti. “Che tristezza. Sono rimasta incredula. Credo che nessuno se l’aspettasse. Buon viaggio all’icona per antonomasia della tv e dello spettacolo. Sentite condoglianze ai suoi cari e a tutti quelli che da oggi restano orfani della loro regina. Fai buon viaggio, scrive su Facebook Loredana Bertè.
La celebrazione da parte del Guardian. Raffaella Carrà era famosissima non solo in Italia, ma anche in Spagna, “icona gay per le mie canzoni e la mia allegria”, come aveva raccontato a Massimo Gramellini — era stata celebrata lo scorso novembre da un lungo articolo del quotidiano britannico “Guardian“, che metteva in fila alcuni dei passaggi più noti del suo percorso artistico — dall’ombelico mostrato durante Canzonissima, a “A far l’amore comincia tu“, rimixato dal dj francese Bob Sinclair per fare da colonna sonora al film “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino, “Tanti auguri” al Tuca Tuca con Enzo Paolo Turchi, salvato dalla censura Rai da Alberto Sordi — e la incoronava la “pop star italiana che ha insegnato all’Europa la gioia del sesso“.
Giancarlo Dotto per corrieredellosport.it il 7 luglio 2021. Me la ricordo bene. Teneva questa targa sul tavolo del salotto di casa con la scritta propiziatoria: “Raffa, la favola continua”. Me la mostrava con l’orgoglio della donna di ferro che era, la Pelloni emiliana di nascita, sangue siciliano da parte di madre e romagnolo da parte di padre. Erano gli anni in cui i dirigenti di quella Rai avevano disastrosamente deciso che la Carrà era ormai un’icona sbiadita. Buona per la soffitta o i revival estivi in mancanza di meglio. Ora che la favola più non continuerà, ora che Raffaella non farà più rumore e poi ancora rumore, ti accorgi che è troppo grande e troppo assordante per raccontarla. Troppo grande il vuoto che lascia, troppe le cose da ricordare, troppi i nomi, troppi i volti. Puoi cavartela arrangiando su da wikipedia e dalle tue memorie personali un ritratto onesto che le renda giustizia o spargendo a caso le ceneri del suo incantevole modo di essere stata per tanti anni una star dello spettacolo e, allo stesso tempo, una di noi. Oggetto d’incrollabile divismo e zero diva nella vita di tutti i giorni. La Carrà e la Pelloni, la stessa persona. Quella che intervistava Kissinger o Madre Teresa in tailleur a scacchi arcobaleno, danzava scatenata con l’ombelico e le pietre Swarovski al vento e la sera, a casa, blindata con i suoi amici. Dov’eri ammesso solo avendo superato un certo numero di test, incluso quello di saper giocare a scopone scientifico e a tressette. Donna senza figli, ma grande madre con una capacità di adozione sterminata. Le ceneri del suo corpo raccolte per gli intimi in qualche urna, gli amici, gli adorati nipoti, le ceneri del suo mito a disposizione di chiunque abbia la sua Carrà nella testa, trasfigurata in tutte le direzioni possibili, Madonna aureolata o amica della porta accanto. «È andata in un mondo migliore...» ha detto con tutto l’amore di cui è capace il compagno storico, Sergio Japino. Chi lo sa se è vero, se esista o no questo mondo migliore. Ci avrebbe riso su con tutto il cinismo di cui è capace Gianni Boncompagni, l’altro uomo della vita di Raffaella, che se n’è andato quattro anni prima di lei, certo senza nessuna pretesa d’incontrare mondi migliori. Sappiamo, invece, di tanti cuori affranti e reazioni incredule. Ci sono morti più eclatanti delle altre. La morte di chi sembra galleggiare intatto, sempre uguale a se stesso, nella macina del tempo. Leggende non deperibili. Raffaella Carrà era una di loro. Virna Lisi era una di loro. Carla Fracci era uno di loro. «Lei è una credente», ci scherzava su Boncompagni. «Fa i programmi e ci crede» aggiungeva, fingendosi scandalizzato e un po’ lo era davvero. Come tanti della sua terra, Raffaella era una donna laica e credente. Credeva a quello che faceva. E credeva nella preghiera, quando si trattava di pregare per le persone care. L’ho incontrata, l’ultima volta, nella sua casa romana, lo stesso residence di Boncompagni e Japino a Vigna Clara. Era sempre un belvedere Raffaella. Completo jeans, la gamba sconfinata e snella, la zazzera iconica al platino di Cele Vergottini, le rughe portate come un trofeo. “Pronto Raffaella”, il primo, grande sfogatoio nazionale, quando gli italiani in massa intasavano le linee della Rai per indovinare quanti fagioli nel vaso e raccontare alla fata bionda i loro patemi. Raffaella unica. L’ ultima grande soubrette. Nulla era negato al suo grande talento. Ballare, cantare, recitare, intrattenere. Già famosa nella fascinazione maliarda del bianco e nero. Quando la televisione dei miti intangibili era un virus affabile che ti entrava nel sangue, ti penetrava le ossa con le sue insegne mitiche, i Walter Chiari, gli Alberto Lupo, i Corrado e i Mike Buongiorno, quando Raffaella si esibiva in coppia con Mina, senza sfigurare, o trascinava Alberto Sordi in una versione ombelico al vento del “Tuca tuca” in una Canzonissima del ‘71. Fino a diventare la regina assoluta del colore e della tivù della porta accanto, dell’intrattenimento familiare. La star di Carramba! Che sorpresa, sei stagioni, punte di quaranta per cento di share. Inutile cercare faccioni celebri alle sue pareti di casa. A parte re Juan Carlos, “El hombre que sabe reinar”, trovavi solo bambini esotici. I nove figli adottati a distanza. Raffaella non stava nella pelle quando parlava di loro. Erano i tempi di Amore, la trasmissione delle adozioni a distanza in cui Raffaella ha creduto più che in ogni altra. Dovendo scegliere tra mille? I suoi duetti con Roberto Benigni nella versione furetto provolone e quelli con Diego Armando Maradona, che aveva un debole per lei. Ebbe un debole per lei anche Frank Sinatra. Che le propose di sposarla, dopo averla assediata con tutti i pezzi forti del suo repertorio galante. «Ma io avevo 19 anni e non ero mai stata con un uomo. Lui era simpatico, ma odiavo la volgarità del suo clan. Dei veri teppisti. Nell’albergo di Cortina accendevano fiammiferi nelle scarpe della gente. Sinatra li lasciava fare». La Spagna fu la sua seconda patria e ora la piange. Re Juan in persona le consegnò la massima onorificenza dello spettacolo. “El Lazo de Dama”. Aveva una sola paura bestiale, Raffaella. Quella di soffrire. Speriamo non abbia sofferto troppo.
Il legame tra il campione e la showgirl. Quando Maradona finì in cella per Raffaella Carrà: il rocambolesco inizio di un’amicizia straordinaria. Antonio Lamorte su Il Riformista il 6 Luglio 2021. Diego Armando Maradona (Lanús, 30 ottobre 1960) è un allenatore di calcio, dirigente sportivo ed ex calciatore argentino, di ruolo centrocampista offensivo, tecnico dei Dorados. Capitano della nazionale argentina vincitrice del Mondiale 1986. Quella tra Raffaella Carrà e Diego Armando Maradona è una storia di amicizia cresciuta a “carrambate”, colpi di scena, notti in cella e serate indimenticabili. Se ne sono andati a pochi mesi di distanza. El Pibe de Oro, il 25 novembre scorso, all’improvviso, e in circostanze che hanno dato il via a un percorso giudiziario molto discusso e dibattuto. La “Regina della tv” italiana è invece morta ieri, a 78 anni, dopo una malattia che l’aveva colpita negli ultimi tempi. Erano uniti da un rapporto sincero e autentico. Il primo contato tra i due nel 1979. Raffaella Carrà cantava a Buenos Aires. Era sbarcata in Spagna nel 1976. Solo l’inizio di canzoni tradotte, serate, trasmissioni che l’avrebbero resa famosa e un simbolo di emancipazione e di libertà, in un Paese in transizione dal regime franquista, anche più che in Italia. Carrà divenne famosa in tutti i Paesi ispanofoni, e in Argentina in particolare. Quella grande arena di Baires però era piena, sold out, in ogni ordine di posti. Maradona allora era ancora un “cebollita”, giocava per l’Argentinos Juniors, appena all’inizio della carriera che lo avrebbe reso il calciatore più forte del mondo. Il suo nome però era già noto: lo stesso anno con la Nazionale juniores aveva vinto i Mondiali in Giappone. “L’arena era piena, non c’era più posto – ha raccontato la showgirl a Il Messaggero – ma lui tentò comunque di entrare per ascoltarmi. Disse ai poliziotti: ‘Non sapete chi sono io!’. Lessi questa storia il giorno dopo sul Clarín. Per colpa mia Diego aveva passato la notte in guardina”. Un incontro solo rimandato, a quando Maradona arrivò in Italia, nel 1984, al Napoli. Qualche anno dopo Carrà era a Madrid e per un evento voleva mettere all’asta una maglia di Maradona. El Pibe, che all’epoca giocava per il Siviglia, era il 1992, non gliela mandò ma si presentò, con la moglie Claudia e le figlie Dalma e Giannina, direttamente nella hall dell’Hotel per consegnare personalmente la maglia alla soubrette. Il calciatore partecipò alla trasmissione, Hola Raffaella, con la famiglia e da quella sera nacque una straordinaria amicizia. Maradona scelse poi Carrà per il suo ritorno in Italia, dopo la fuga del 1991 da Napoli, nel novembre 1998, quando 13 milioni di italiani seguirono Carràmba! Che sorpresa con il campione argentino in studio. La “carrambata” vera della conduttrice fu l’invito dei compagni di squadra dello Scudetto della stagione 1986/1987, il Primo del Napoli. La puntata andò in diretta su un maxischermo in collegamento da Piazza del Plebiscito, con centinaia di tifosi in piazza. Carrà quindi ricambio il favore, quando Maradona la invitò in Argentina, al suo programma, La Noche del Diez. “Non potevo dirgli di no. Era dopo Carràmba. Cantai Fiesta e ballammo insieme. Era forse il 2004, ma c’eravamo visti anche prima a Sanremo”. Carrà aveva infatti incontrato il campione che voleva condurre il Festival e cantare, ma la showgirl lo dissuase. “Lucidamente, gli dissi che non era il caso. Era il periodo in cui aveva problemi con l’Agenzia delle entrate italiane. ‘Ti portano via tutto, ti fai del male’, gli dissi per il suo bene e penso di averlo salvato da una pessima figura sulla stampa italiana”. Carrà vedeva in Maradona “un essere fantasioso, un artista in ogni aspetto della vita, un amico con il quale succedevano solo cose strane”. I due erano sempre rimasti in contatto. Lo scorso 25 novembre, dopo la notizia che sconvolse il mondo della morte del campione argentino, la soubrette pianse l’amico e dichiarò: “Caro, caro Amico mio soffro tanto e prego, ci hai lasciato troppo presto. Ti voglio bene”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Da gazzetta.it il 6 luglio 2021. Raffaella Carrà e Diego Armando Maradona erano uniti dalla stessa capacità di far sognare il pubblico. Forse anche per questo motivo le loro strade erano destinate a incrociarsi.
NEL 1979. Maradona apprezzava moltissimo la Carrà. A tal punto da passare una notte in prigione, dopo aver cercato di forzare il cordone delle forze dell'ordine per assistere a un suo evento nel 1979 a Buenos Aires, quando il Pibe aveva solo 18 anni. Lo ha ricordato diverse volte la stessa Carrà. L'arena era strapiena, ma Diego tentò comunque di superare il cordone di sicurezza per ascoltarla. La situazione degenerò in pochi istanti e all'immancabile "Non sapete chi sono io" il pibe de oro si ritrovò a passare la notte in guardina. Venuta a conoscenza dell'episodio la Carrà chiese poi la sua maglietta per potergliela autografare. Qualche anno dopo, Raffaella Carrà era a Madrid. Ma non aveva dimenticato quel ragazzo che nel frattempo era diventato un campione. La Carrà, madrina di un evento, voleva mettere all'asta la maglia di Diego. E Maradona si presentò direttamente nella hall dell'Hotel per consegnargliela personalmente. Da quell'episodio nacque una straordinaria amicizia. E Diego con la famiglia presenziò al programma Hola Raffaella. Anche dopo l'addio di Diego Armando Maradona all'Italia, i due restarono in contatto. Sarebbe voluto tornare in Italia per cantare con lei a Sanremo, ma Raffaella glielo sconsigliò. Quando effettivamente rientrò nel nostro Paese per la prima volta, scelse sempre lei, Raffaella, in una memorabile puntata di Carramba che sorpresa (novembre 1998). La Carrà, ricambiò ballando "fiesta" con Diego alla "Noche del 10". E alla morte di Diego, Raffaella pubblicò un commovente messaggio di addio. "Caro, caro Amico mio soffro tanto e prego, ci hai lasciato troppo presto. Ti voglio bene".
Gabriella Mancini per "la Gazzetta dello Sport" il 6 luglio 2021. La fede juventina era una tradizione di famiglia, Raffaella Carrà aveva cominciato ad amare i colori bianconeri a 15 anni. Nata a Bologna, ma cresciuta in Romagna, nutriva una simpatia anche per il Cesena, ma è sempre stata la Juve la squadra del cuore, quella che l'ha fatta innamorare. In tutti i sensi. Da ragazza aveva un "filarino", come lo chiamava lei, con Gino Stacchini di San Mauro Pascoli, ala della Juve negli Anni 50-60, un amore che Raffaella ricordava con allegria. Si erano conosciuti da ragazzi, poi i sentieri della vita si erano divisi, ma era rimasto l'affetto. La showgirl, che aveva conosciuto Sivori e il suo genio, non si perdeva una partita della Juve e, nel tempo, ha mantenuto la passione. Nel 2011 si trovava alla Rai di Torino e in una pausa si fiondò a vedere lo stadio nuovo, commuovendosi nell' osservare le foto di Gianni e Umberto Agnelli. Aveva un debole per Giampiero Boniperti e per Alessandro Del Piero e due anni fa era anche andata a trovare la squadra. In maglia bianconera Intensa l'intervista a Bonucci per il programma A raccontare comincia tu , durante il quale il difensore aprì il suo cuore, parlando della vita in campo e in famiglia. E l'anno scorso, in occasione dello scudetto, la Carrà aveva scritto su Twitter: «Cara Juve, mi piaci ahah, mi piaci ahah, mi piaci tanto tanto ah, sembra incredibile ma sono pazza di te». Un Tuca-Tuca davvero speciale. Il club l'ha ricordata sui social in una foto con la maglia bianconera. Mentre Bonucci l'ha rammentata dal ritiro azzurro con queste parole: «Il tuo sorriso e la tua energia rimarranno per sempre». Del Piero, invece, l'ha celebrata su Facebook: «Un mito irraggiungibile che rimarrà per sempre nei nostri cuori, con il tuo modo elegante di intrattenere il pubblico ci hai fatto divertire per anni. Con te abbiamo sognato, cantato e ballato in Italia e nel mondo. E non dimenticherò mai quando a Carramba mi hai insegnato il Tuca-Tuca». Dopo tanti anni vissuti in Spagna - la Carrà è un'icona anche là - si era appassionata al calcio spagnolo e proprio oggi i Paesi che amava di più si affronteranno per la semifinale europea. Arabeschi del destino. La sua umanità, la sensibilità e la professionalità sono arrivate ovunque, così come la grinta, quel modo sanguigno di affrontare le cose, la risata diretta, la dizione impeccabile. Era molto amata in Sud America, i suoi concerti erano un must, e a Buenos Aires tra i suoi fan c'era anche Diego Armando Maradona. Raffaella aveva raccontato in un'intervista: «Lui era giovane, l'arena era piena, non c'era posto, ma tentò di entrare lo stesso. Disse ai poliziotti: "Non sapete chi sono io!" Lessi la storia sul Clarin il giorno dopo: per colpa mia aveva passato la notte in guardina». Bici e automobili Qualche anno dopo si ritrovarono in Spagna, nacque una profonda amicizia. Tant' è che nel '98 Diego fu ospite nel mitico programma Rai Carramba, che fortuna! , dove ritrovò molti compagni del Napoli. «Sono venuto per te», le disse Diego e palleggiarono tutti insieme, con Raffaella scatenata. Lo sport le ha fatto sempre compagnia. Amava la danza, ma anche il ciclismo e il Giro d' Italia, per via di uno zio Bartaliano. Tra tanti incontri con i campioni, spicca una foto in cui ballava il tango con Clay Regazzoni a Canzonissima e il video di uno spot con Niki Lauda nel 1975, quando il pilota austriaco era campione del mondo: lei si esibisce in un locale e tra il pubblico riconosce Niki, lo costringe a cantare poi sale in auto con lui. Scorci romantici di una televisione in bianco e nero, La Carrà l'ha attraversata fino ad oggi con leggiadria e carattere. Ci mancherà.
DA corrieredellosport.it il 6 luglio 2021. "Amava il calcio ed era una grande tifosa della Nazionale Raffaella Carrà, vera e propria regina della televisione italiana morta ieri all’età di 78 anni. Per omaggiarla, la FIGC ha chiesto e ottenuto dalla UEFA di inserire nella playlist utilizzata per il riscaldamento prima della semifinale dell’Europeo con la Spagna ‘A far l’amore comincia tu’, una delle sue canzoni più amate e ballate". In una nota apparsa sul proprio sito ufficiale, la Federazione Italiana Giuoco Calcio informa di aver ricevuto l'ok del massimo organo calcistico europeo per dedicare qualche minuto alla "regina della televisione italiana", scomparsa lunedì 5 luglio. “La scomparsa di un’icona come Raffaella Carrà – dichiara il presidente della FIGC Gabriele Gravina - donna innovativa e artista straordinaria, ha colpito tutti. Prima di Italia-Spagna, la sua partita, vogliamo ricordarla con allegria, ascoltando insieme la sua musica carica di energia”.
Raffaella Carrà, le dichiarazioni dei politici sulla morte della diva italiana. Notizie.it il 5 luglio 2021. I politici italiani hanno commentato la morte della diva italiana, Raffaella Carrà, deceduta dopo aver a lungo lottato contro una letale malattia. L’improvvisa morte di Raffaella Carrà ha sconvolto non solo l’ambiente dello spettacolo italiano e i fan dell’artista ma anche il mondo della politica: tanti, infatti, gli esponenti del Governo che hanno manifestato il proprio cordoglio per la prematura scomparsa di una delle più grandi icone della televisione nazionale. In seguito alla diffusione della notizia del decesso di Raffaella Carrà, molti membri della politica italiana hanno deciso di ricordare l’artista, considerata come uno dei più importanti personaggi dello spettacolo in Italia. La morte della showgirl, ad esempio, è stata commentata dal Presidente del Consiglio Mario Draghi che ha espresso enorme tristezza per il drammatico accaduto e ha dichiarato: “Raffaella Carrà, con il suo talento e la sua professionalità, ha avuto un ruolo decisivo nel diffondere la cultura dello spettacolo in Italia. La sua risata e la sua generosità hanno accompagnato generazioni di italiani e portato il nome dell’Italia nel mondo. Agli amici e ai nipoti vanno le più sentite condoglianze di tutto il governo”. Alle parole del Premier Mario Draghi, si sono affiancate le dichiarazioni del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, molto addolorato dalle circostanze, ha spiegato: “Sono profondamente colpito dalla scomparsa di Raffaella Carrà, un’artista popolare, amata e apprezzata da diverse e numerose generazioni di telespettatori in Italia e all’estero. Volto televisivo per eccellenza ha trasmesso – con la sua bravura e la sua simpatia – un messaggio di eleganza, gentilezza e ottimismo”. Raffaella Carrà è stata ricordata con affetto e dispiacere anche da alcuni membri del centrodestra, come il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi e il leader della Lega Matteo Salvini. A questo proposito, Silvio Berlusconi ha postato un post sul suo account Facebook ufficiale, ribadendo: “Raffaella Carrà è stata uno dei simboli della televisione italiana, forse il personaggio più amato. Con i suoi programmi ha saputo parlare a generazioni molto diverse, avendo la capacità di rimanere sempre al passo coi tempi e senza mai scadere in volgarità. Mancherà a milioni di telespettatori che l’hanno amata per il suo stile e a tutti quelli che – come me – hanno avuto l’opportunità di conoscerla e di lavorarci assieme. Io le ho voluto molto bene. Ciao Raffaella”. Infine, il leghista Matteo Salvini ha augurato alla donna: “Buon viaggio Raffaella, il tuo splendido sorriso ci accompagnerà sempre!”. Il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, invece, ha pubblicato un post su Facebook dedicato a Raffaella Carrà, scrivendo: “L’Italia perde una delle sue icone più intelligenti, gradevoli ed eleganti. La scomparsa di Raffaella Carrà per quelli della mia generazione è davvero un pezzo di vita che se ne va. Profonda tristezza.”
Raffaella Carrà, le ultime volontà: “Una bara in legno grezzo e un’urna per le ceneri”. Notizie.it il 5 luglio 2021. Poco prima di morire, Raffaella Carrà ha manifestato le sue ultime volontà e ha espresso precise disposizioni per l’organizzazione del suo funerale. La notizia dell’improvvisa scomparsa di Raffaella Carrà ha travolto l’Italia intera, generando un clima di incredulità tra i personaggi del mondo dello spettacolo e i fan della poliedrica artista. In un contesto così frastornato e addolorato, intanto, stanno trapelando indiscrezioni circa le ultime volontà lasciate per iscritto dalla diva della televisione italiana. Nel pomeriggio di lunedì 5 luglio, Raffaella Carrà è deceduta dopo aver lottato per mesi contro una malattia tenuta segreta, nel rispetto della propria privacy e della riservatezza che da sempre hanno contraddistinto la vita privata e professionale della donna. Il riserbo adottato in relazione alla malattia si pone in linea di continuità con le ultime volontà espresse dalla showgirl che, ancora una volta, è riuscita conservare la sua profonda umiltà e il suo essere incredibilmente unica. Le ultime disposizioni di Raffaella Carrà relative all’organizzazione dei suoi funerali sono state rese note dal regista nonché ex compagno della cantante, Sergio Japino, attraverso una nota ufficiale, diffusa per comunicare la drammatica dipartita dell’artista. A questo proposito, è stato rivelato che Raffaella Carrà ha chiesto di essere trasportata in chiesa per le sue esequie all’interno di una bara di legno grezzo, optando quindi per una soluzione estremamente semplice e minimalista. Inoltre, la showgirl ha anche espresso il desiderio che le sue ceneri vengano riposte in un’urna. Al momento, non è ancora stata fornita alcuna indicazione circa l’organizzazione della cerimonia funebre da celebrare in onore e in memoria di Raffaella Carrà: si attendono, di conseguenza, informazioni dettagliate nel corso delle prossime ore. In merito alle ultime volontà dell’artista, la nota diramata dal coreografo Sergio Japino riporta quanto segue: “Raffaella ha chiesto una semplice bara di legno grezzo e un’urna per contenere le sue ceneri”. La nota, poi, prosegue asserendo: “Una forza inarrestabile la sua, che l’ha imposta ai vertici dello star system mondiale, una volontà ferrea che fino all’ultimo non l’ha mai abbandonata, facendo si che nulla trapelasse della sua profondasofferenza. L’ennesimo gesto d’amore verso il suo pubblico e verso coloro che ne hanno condiviso l’affetto, affinché il suo personale calvario non avesse a turbare il luminoso ricordo di lei. Nell’ora più triste, sempre unica e inimitabile, come la sua travolgente risata. Ed è così che noi tutti vogliamo ricordarla”.
Da "Ansa" il 4 settembre 2021. L'urna con le ceneri di Raffaella Carrà è arrivata alle 11 in punto a San Giovanni Rotondo (Foggia), per una ultima visita a San Pio voluta dalla stessa artista. L'ha portata Sergio Japino, il coreografo e regista compagno di una vita di Raffaella, apparso visibilmente commosso. Ad accogliere l'urna, il direttore di Tele Radio Padre Pio, Stefano Campanella e Fra Francesco Di Leo, rettore del Santuario di San Giovanni Rotondo. "Ascoltate il mio silenzio", ha detto Japino subito dopo la cerimonia in cui è stata scoperta una lapide dedicata a Raffaella e posizionata davanti la sede di Tele Padre Pio, che la show girl inaugurò. "Vogliamo dire grazie a Raffaella per la grande donna che è stata e che noi abbiamo avuto modo di conoscere", ha detto il direttore Campanella, ricordando che "Raffaella nel 2001 ha inaugurato la sede di questa piccola emittente, da allora ha sempre avuto un legame molto forte con noi". "Vogliamo dire grazie a Raffaella in modo particolare, grazie per la sua umanità e la sua amicizia", ha aggiunto scoprendo la lapide in memoria.
Raffaella Carrà, la dedica di Bob Sinclar: “Ci sono belle persone che dovrebbero vivere per l’eternità”. Ilaria Minucci il 06/07/2021 su Notizie.it. Il disc jockey Bob Sinclar ha postato alcune stories su Instagram dedicate a Raffaella Carrà, poco dopo aver appreso della sua improvvisa scomparsa. Il disc jockey e produttore discografico francese, Bob Sinclar, ha postato su Instagram un messaggio e alcune stories per Raffaella Carrà, improvvisamente deceduta nel pomeriggio di lunedì 5 luglio. L’inattesa scomparsa di Raffaella Carrà ha profondamente addolorato l’Italia e non solo: poco dopo la diffusione della notizia relativa alla morte di una delle più importanti icone italiane, infatti, il disc jockey francese Bob Sinclar ha caricato sul suo account Instagram ufficiale una foto in cui appare in compagnia dell’artista italiana. Lo scatto è stato corredato da una didascalia che riporta il seguente messaggio di addio: “In my heart forever, Queen. Sono stato benissimo con te… il mio cuore è pieno di tristezza… Te amo”. Il post pubblicato su Instagram da Bob Sinclar, poi, è stato affiancato da alcune stories, attraverso le quali l’uomo ha voluto ribadire il dolore provato in seguito alla scoperta della morte di Raffaella Carrà. Nelle stories di Instagram, infatti, il produttore discografico ha ribadito la tristezza e la sofferenza causate dal lutto e appare in una breve clip in cui lo si intravede con gli occhi lucidi, poco dopo aver appreso l’atroce notizia. A una simile immagine, seguono altri quattro scatti che ritraggono Bob Sinclar sempre in compagnia di Raffaella Carrà. Ogni foto è stata corredata da una specifica didascalia. Il disc jockey, infatti, ha rivolto alla diva italiana le seguenti parole: “Sono stato benissimo con te… il mio cuore è pieno di tristezza. Ti amerò per sempre. Grazie per il tuo lavoro, la tua parola e la tua gentilezza per tutte le culture: sei nel nostro cuore per sempre – e ha aggiunto –. È come se avessi appena perso un membro della mia famiglia e molti italiani la pensano come me”. Infine, l’ultima della cinque stories postate da Bob Sinclair è composta da uno sfondo nero che riporta una frase scritta in bianco: “Ci sono belle persone che dovrebbero vivere per l’eternità”. Le strade di Bob Sinclar e Raffaella Carrà si erano incrociate nel 2011, quando il disc jockey aveva deciso di realizzare un remix della canzone A far l’amore comincia tu, lanciato dalla showgirl italiana circa 35 anni prima, nel 1976. Il brano, remixato sul cantato estrapolato dalla canzone originale della Carrà, riscosse immediatamente un clamoroso successo che portò alla riscoperta della sua versione originale.
Mattia Marzi per "il Messaggero" il 7 luglio 2021. C' è stato un momento in cui la voce di Raffaella Carrà è tornata in cima alle classifiche europee, a distanza di anni dalla sua ultima hit. Nel 2011 il dj francese Bob Sinclar, all' apice del successo, decise di celebrare il ciclone biondo rivisitando in chiave house una delle sue più grandi hit, A far l'amore comincia tu. Fu un boom ovunque. Drag queen, ragazzi gay mascherati da diavoli, calze a rete e tacchi a spillo, parrucche, indumenti fetish, balli di gruppo che somigliano a vere e proprie orge: il party osceno e scandaloso del videoclip - la Carrà non comparve, ma un ragazzo la omaggiò indossando una parrucca biondo platino - ispirò la scena della festa notturna all' inizio de La grande bellezza di Sorrentino, che volle nella colonna sonora del suo film, premiato con l'Oscar, quel remix. «Ci sono persone che dovrebbero vivere per l'eternità e Raffaella era una di questa: che Dio la benedica», dice dalla Francia Bob Sinclar (52 anni), ricordando quell' operazione.
Ieri il brano è stato suonato anche allo stadio di Wembley, a Londra, prima della semifinale degli Europei Italia-Spagna: merito suo se A far l'amore comincia tu ebbe una seconda popolarità, 35 anni dopo la versione originale?
«Sì, lo dico senza alcuna esitazione. Ne vado fiero. Ricordo ancora il momento esatto in cui proposi a Raffaella Carrà di realizzare il remix della canzone».
Racconti.
«Era il 2011. Chiesi al mio agente italiano di poterla incontrare per parlarle dell'idea. Cenammo insieme a Roma: scattò subito qualcosa che ci fece sentire complici. Raffaella mi disse: Senti, sono dieci anni ormai che io non faccio niente. Ma ho deciso di accettare la tua proposta. Mi piace la cultura che rappresenti, quella delle discoteche. Poche ore dopo eravamo in studio a chiudere il remix: fu un momento sospeso tra la nostalgia e la voglia di essere ancora sul pezzo».
Ma lei come la scoprì, A far l'amore comincia tu?
«Quando uscì, nel 1976, in Francia fu un grande successo. Io, però, all' epoca ero troppo piccolo: avevo 7 anni. Fu solamente crescendo che ne afferrai il potenziale, il significato: il 45 giri entrò dritto nella mia collezione italo-disco».
E qual era questo potenziale?
«Quella canzone era carica di erotismo, con quel botta e risposta fantastico: Ah ah ah ah-a far l'amore comincia tu. Una cosa mai sentita prima, nel pop. In quei 2 minuti e mezzo c'era tutta l'essenza di Raffaella Carrà: è stato un modello di libertà assoluta che ha infranto i codici, fatto riflettere sulla condizione femminile nella società dell'epoca e sui pregiudizi nei confronti della comunità gay».
Ha anticipato Donna Summer, Cher, Madonna?
«Sì, nella misura in cui ha sfruttato la sua grande popolarità per trasmettere messaggi potenti: è stata la prima a lottare per l'inclusione, in tutti i campi».
L' idea del remix come nacque?
«Partii dal ritornello, costruendo tutta la base intorno a quell' Ah ah ah ah - a far l'amore comincia tu. La suonai per la prima volta proprio in una discoteca in Italia e la gente impazzì. Ripetei l'esperimento in Spagna, poi ad Ibiza, in Francia. La reazione del pubblico era sconvolgente. Capii che era diventata un must nei miei dj set».
E Sorrentino?
«Mi fecero vedere la scena in anteprima, non credetti ai miei occhi: l'aveva trasformata in un inno del mondo della notte, facendola ballare a tutte quelle persone su un tetto del centro di Roma. Fu emozionante».
L' ultima volta che ha sentito Raffaella quando è stata?
«Il 18 giugno, per il suo compleanno. Sapevo che stava lavorando ad alcuni progetti. Non mi è apparsa triste o debole, aveva quell' energia e quella gioia di vivere di sempre. È un privilegio raccontare di aver collaborato con lei».
Da icona gay a simbolo del femminismo, Raffaella Carrà rappresentava quell’Italia che abbiamo dimenticato di essere. Flavia Piccinni il 06/07/2021 su Notizie.it. Non una donna né una santa: Raffaella Carrà era uno stile di approcciarsi all’esistenza, capace di mettere d’accordo casalinghe e drag queen. Ci aveva illuso di essere immortale, Raffaella Carrà. Ci aveva illuso – con il suo carrè platino sempre perfetto, quei grandi occhi scuri e quel fisico asciutto e bellicoso, la risata iconica – che non se ne sarebbe mai andata. Non adesso, non così. Aveva 78 anni, era malata, ma in ottemperanza alla sua storica riservatezza aveva scelto il silenzio, condividendo il dolore solo con quella cerchia di amici che formavano la sua famiglia. Lei – mai sposata, senza figli, compagna di vita di Gianni Boncompagni prima, di Sergio Japino poi – aveva vissuto con la convinzione che la famiglia non fosse quella che ti ritrovi, ma quella che con gli anni sai costruirti. E che l’amore vero diventa altro – amicizia e senso di fratellanza -, ma non svanisce mai. Di amore nel corso della sua lunghissima carriera fra l’Italia e la Spagna, ma dentro il mondo intero, ne ha conquistato molto. Da ieri una corrente di cordoglio sta attraversando “da Trieste in giù” il nostro Paese, con un florilegio di ricordi personalissimi, di profondo sgomento. Perché tutti – ma proprio tutti, non solo chi l’ha conosciuta, chi l’ha frequentata, chi ha avuto la fortuna di lavorarci – hanno un frammento di vita condiviso con lei. E spesso è un ricordo di liberazione (“sono un cuore vagabondo che di regole non ne ha”). Un ricordo che fa venire il sorriso (“tanti auguri, a chi tanti amanti ha”). Una domanda nazionale: ma quanti fagioli c’erano in quel maledetto barattolo? C’è mai stato qualcuno che per davvero avesse cognizione del numero preciso? Per tutti noi italiani, la Raffa nazionale non superava le quaranta primavere, eternamente abbigliata di paillettes, pelle e aderentissime tute. “Ognuno ha l’età che merita” ripeteva Coco Chanel, e lei di anni ne meritava pochissimi come tutte le donne che hanno unito a un’immagine pubblica perfetta (l’avete mai vista spettinata? L’avete mai vista con un abito che non fosse straordinariamente corrispondente alla sua personalità?) un’esistenza intimamente coerente, scandita da ribellioni (che adesso ci sembrano innocenti come mostrare l’ombelico al fianco di Corrado in Canzonissima), rivoluzioni sconvolgenti e un trascinante desiderio di cambiare. Rinnovarsi sempre. Rinnovarsi nonostante il parere degli altri, nonostante il giudizio degli altri. Compresa la DC. La sua vita non è mai stata banale, fin dalla nascita. Cresciuta da tre donne (“mia mamma fu una delle prime a separarsi nel dopoguerra”), approdò bambina a Roma dove prima studiò all’Accademia Nazionale di Danza, dunque al Centro sperimentale di cinematografia. Il primo debutto ufficiale lo fa bambina, a 18 anni approda a “Tempo di danza” (era il 1961) dunque nove anni dopo – a dimostrazione che la gavetta è un’emblema dell’anima, che forgia il cuore e seleziona solo le più resistenti e/o dotate – approda a Canzonissima e alla popolarità. La sua vita pubblica è costellata da una grande riservatezza, ma in televisione muore e rinasce più volte: chi non ha mai visto “Pronto, Raffaella”, ma anche la sua “Domenica In”, le variazioni di “Carramba!” – con quegli stupendi valletti che anticipano i tempi – o “The Voice of Italy”? Chi non è mai rimasto incantato – letteralmente incantato – dalle sue frasi fulminee, e da quella risata contagiosa che sono andate in onda per oltre cinquant’anni? A guardarla oggi, la storia di Raffaella Carrà sembra una corsa dirompente contro ogni cosa. Scandalizza l’Italia puritana, si scaglia come un proiettile contro discriminazioni, benpensanti e stereotipi. Dalla prima linea che sono i riflettori della TV ammiraglia sdogana atteggiamenti provocanti (per l’epoca) e porzioni di pelle nuda. Spiega che “il mondo non è fatto di gay e di etero, ma di creature”. Si batte in prima linea contro le costrinzioni. A cominciare dai capelli (“Ero libera. Anche i colpi di testa erano il segno della libertà dalla lacca”), per costruirsi nello spirito di cui Pedro Almodóvar fa una sintesi straordinaria: “Raffaella Carrà no es una mujer. Es un estilo de vida”. Insomma, non una donna né una santa: uno stile di approcciarsi all’esistenza. Un feticcio iconico, invidiatissimo e stimatissimo. Una donna che vende 60milioni di dischi, porta a casa 22 dischi d’oro e di platino, 13 telegatti. Una donna che è capace di attraversare il tempo con una grazia straordinaria, e sa mettere d’accordo casalinghe e drag queen. Con gli anni diventa un’icona gay mondiale (lei ci scherzava su: “Perché piaccio tanto ai gay? Morirò senza saperlo”), tanto da venire premiata nel 2017 – quattro anni fa, sembra passata un’epoca – al World Pride per il suo “coraggio, energia e libertà”. Tre parole che fanno una sintesi di questa supereroina del contemporaneo, il cui motto era “minima spesa, massima resa”. Una delle frasi preferite della Regina Raffaella era anche “puoi togliere tutti i fiori, ma non puoi togliere la primavera”. Forse aveva ragione. E allora, per quanto lei non ci sia più – adorata come poche altre, esempio di modernariato eterno, cristallizzato in un’immortalità pari solo al suo look iconico –, le sue canzoni e le sue straordinarie coreografie continueranno a essere una pietra miliare di quell’Italia che forse abbiamo dimenticato di essere, e che ci farà continuare a battere il cuore. Esattamente come ha sempre saputo fare lei.
La showgirl e il suo successo in terra iberica. Raffaella Carrà e il suo legame con la Spagna: “Icona mondiale prima di Madonna”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 5 Luglio 2021. Non è solo l’Italia a essere sconvolta per la notizia della morte, arrivata nel pomeriggio, all’improvviso di Raffaella Carrà. La showgirl, attrice, ballerina, cantante e conduttrice ha condotto trasmissioni e cantato canzoni tradotte nella lingua iberica che l’hanno resa una stella assoluta della televisione anche in Spagna. Un simbolo forse ancora più forte, in terra iberica, in un Paese da poco uscito da un regime. Un’icona che dall’estero si riesce a vedere ancora meglio nella sua vispa e pregnante portata internazionale. A rendere nota la sua morte, all’Ansa, il suo ex compagno e collaboratore di tante trasmissioni Sergio Japino. Carrà era stata colpita da una malattia. Raffaella Maria Roberta Pelloni, nata a Bologna nel 1943, era sbarcata in Spagna nel 1976. La data non è trascurabile: l’anno prima era morto Francisco Franco, il caudillo, il dittatore che dopo la Guerra Civile aveva guidato il Paese senza interruzioni. Una Spagna in piena transizione verso la democrazia. La soubrette italiana rappresentò, forse anche più che in Italia, un simbolo di emancipazione e di liberazione e di sensualità e di leggerezza. Il primo programma che le affidarono fu La Hora de Raffaella. Andava in onda dopo le partite di calcio. Un successo fin da subito. E fu solo il primo. Non solo Spagna, ma anche altri Paesi ispanofoni, dal Cile all’Argentina. I successi esplosi in Italia diventarono tormentoni anche in Spagna. Hay che venir al Sur era la versione in lingua castellana di Tanti Auguri, per esempio. Si dedicò a una parentesi di quattro anni in Spagna all’inizio degli anni ’90, partendo da Hola Raffaella per RTVE, seguita da milioni di spagnoli. Fu anche premiata: il Re Juan Carlos e il Principe Felipe la insignirono come Dama al Orden del Merito Civil. Onorificenze arrivate prima in Spagna che in Italia. El País ricorda i suoi esordi a 18 anni a Roma dopo essersi trasferita da Bologna, il suo stakanovismo, i 25 album in studio e gli oltre 60 milioni di dischi venduti, lo scandalo dell’ombelico scoperto e l’indignazione della Chiesa – “Il Vaticano restò muto”, disse in un’intervista dopo il Tuca tuca con Alberto Sordi – la sua allergia ai social network, le 16 Muratti al giorno che fumava. E quindi il suo essere simbolo anche della comunità LGBTQ+, “che sempre ha visto in lei una musa della libertà e della difesa dei diritti civili in un periodo nel quale appuntarsi a questa battaglia non era così facile come oggi. E molto prima, ovviamente, che lo facessero artisti come Madonna. E lei sorrideva divertita. ‘Morirò senza saperlo. Sulla mia lapide lascerò scritto: Perché piacevo così tanto agli omosessuali?’”. Anche El Mundo ripercorre la carriera in Spagna, la presentazione dei programmi Fiesta Mediterranea in Catalogna e Sevilla Sogna a Siviglia con Joaquin Prat prima dell’esplosione sul piccolo schermo, e quindi il termine “carrambata”: “Situazione che ricorda momenti tipici del programma televisivo Carràmba! che sorpresa, condotto da Raffaella Carrà dal 1995”, come scriveva la Treccani. La Vanguardia ricorda che il World Pride celebrato a Madrid nel 2017 la scelse come Icono Gay Mundial tra gli applausi. “Garantiva un audience immediato”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Estratto di un articolo di Manuel Vilas, traduzione di Fabio Galimberti per “la Repubblica” l'8 luglio 2021. Sono in Galizia e mi arriva la triste notizia della morte di Raffaella Carrà. La Spagna è in lutto perché è morta una delle sue artiste più amate. È morta Raffaella Carrà e la Spagna era innamorata di lei. Un innamoramento che cominciò negli anni 70. Ero un adolescente la prima volta che vidi Raffaella alla televisione spagnola. Quella donna era libera, diversa, piena di vitalità. Era bella senza ostentazione. […] Io mi innamorai di lei. Era sensuale, intelligente, amabile, era una regina. Ci innamorammo tutti di lei. Ci saremmo sposati tutti con lei: gli spagnoli si sarebbero sposati con lei, e le spagnole pure. Volevamo stare con lei, rendeva la vita migliore. Uscivamo dalla lunga, triste, orribile notte del franchismo e ci ritrovammo con Raffaella, che finì per simboleggiare la vita a colori della democrazia spagnola. La fine degli anni 70 ci portò la libertà politica e le canzoni di Raffaella Carrà. […] Milioni di spagnoli come me ti hanno voluto bene, Raffaella, perché ci hai regalato il tuo sorriso incommensurabile. Ti abbiamo voluto bene. Ci hai voluto bene. Raffaella Carrà, per sempre nel cuore della Spagna. Raffaella è stata la Spagna, è stata la libertà e la vita. Raffaella Carrà: la fidanzata di Spagna.
Sánchez: Raffaella Carrà ci ha riempito l'anima. Rainews il 5/7/2021. Addio a Raffaella. L'omaggio della Spagna all'artista scomparsa. "Raffaella Carrà è stata una donna che ha ispirato diverse generazioni con allegria, coraggio e impegno. La sua musica ha reso felici i nostri cuori, il suo spirito libero ha riempito le nostre anime. Riposa in pace, cara Raffaella Carrà". Lo ha scritto il premier spagnolo Pedro Sánchez su Twitter. Anche il ministro spagnolo della Cultura piange Raffaella Carrà. "Abbiamo perso una stella della televisione, una grande artista, una donna che ha fatto parte della vita quotidiana di generazioni di spagnoli. Io ero un bimbo quando debuttò in Tv. La ricorderemo sempre: la sua allegria, le sue canzoni, il suo bell'accento italiano", ha scritto su Twitter il ministro José Manuel Rodriguez Uribes.
L'omaggio dei media. Inoltre, molti sono gli omaggi e i messaggi di cordoglio del mondo dei media e dello spettacolo per la scomparsa di Raffaella Carrà che nel Paese iberico ha iniziato a avere successo a metà degli anni '70 ed è diventata un personaggio amatissimo, anche per le generazioni successive. "Se n'è andata una grande, ma rimarrà viva nella memoria collettiva", dice uno dei tweet pubblicati dal profilo di Rtve, l'azienda radiotelevisiva pubblica spagnola, per la quale la Carrà ha condotto diversi programmi. "Era la regina della televisione italiana", scrive El País. Alcune delle canzoni da lei interpretate, come “A far l'amore comincia tu” o “Caliente, caliente”, sono diventate molto popolari in Spagna dopo essere state lanciate in spagnolo, lingua che l'artista parlava bene e che le ha permesso di ottenere grande successo anche in America Latina. Spesso le sue canzoni risuonano ancora oggi giorno nelle discoteche spagnole. "E' stata e continuerà a essere l'anima di tutte le feste e i karaoke", è uno degli omaggi dedicatole sui social da Radio Nacional (la radio pubblica del Paese iberico).
"Parlano della Carrà ma non la conoscevano. Su di lei dette falsità". Roberta Damiata l'8 Luglio 2021 su Il Giornale. Le parole di Angelo Perrone, uno dei più grandi amici di Raffaella Carrà, a tutti quelli che hanno parlato di lei senza conoscerla. Rompe il silenzio Angelo Perrone il press agent grande amico di Raffaella Carrà, che dal giorno della sua scomparsa ha tenuto per sé i ricordi e il dolore per la perdita di una delle persone più importanti della sua vita. Ora, però, dopo che tutte le trasmissioni televisive hanno cambiato la programmazione per dedicare alla più grande showgirl di tutti i tempi un omaggio o un ricordo, le cose che ha visto e ha sentito lo hanno fatto rompere il silenzio. “L’ho incontrata per la prima volta aspettandola fuori da Via Teulada - racconta con la voce che tradisce l’emozione - avevo 18 anni e lei era ospite di un’intera puntata di Domenica In condotta da Pippo Baudo. Era reduce dal trionfo del Fantastico con Corrado, e io rimasi ad aspettarla fuori dagli studi come un fan. L’anno dopo convinsi il direttore di un mensile musicale a dedicarle un articolo sul suo nuovo disco, e come giornalista fu la prima volta che ci incontrammo privatamente”.
Le cose poi andarono avanti tra di voi...
“Durante Pronto Raffaella mi invitò più di una volta nella redazione del programma. Ero uno dei pochi insieme ad Alessandro Lo Cascio che è poi diventato il suo più stretto collaboratore, ad essere accreditato per assistere alle riunioni di redazioni che si svolgevano dopo la trasmissione. Proprio lì nacque il nostro rapporto speciale, fatto di grande affetto e complicità. Non saprei neanche come poter spiegare con le parole quello che ci legava. Per questo quello che ho visto in questi giorni mi ha fatto rimanere molto male, e conoscendola bene avrebbe fatto rimanere male anche Raffaella”.
Che cosa l’ha fatto arrabbiare?
“Stanno parlando di lei persone che non l’hanno minimamente conosciuta, solo per andare nei salotti televisivi. Vengono dette cose inesatte. Sotto suggerimento di Clemente J. Mimun, ora direttore del Tg5, Raffaella mi prese per farle da ufficio stampa per il Festival di Sanremo da lei condotto nel 2001. È stato detto che non fu un successo, ma nessuno sa invece che lei fu chiamata all’ultimo momento dalla Rai, e per dovere nei confronti dell’azienda accettò senza mettere bocca sul cast artistico né tantomeno sugli ospiti, perché era già stato tutto deciso e precotto. Ci rimase male quando il Sig. Pippo Baudo le fece il diktat dei 10 comandamenti da seguire a Sanremo. Come se lei fosse una principiante. Ho apprezzato ad esempio il silenzio di Loretta Goggi, ma anche lei all’epoca ci tenne a puntualizzare, correggendo i giornalisti, che la prima conduttrice donna a presentare il Festival fu lei e non la Carrà. Raffaella non replicava mai, non era nel suo stile. Diceva sempre: 'Falli parlare'".
Cosa ne pensa dell’idea di Milly Carlucci di intitolare a Raffaella Carrà il Foro Italico?
“No grazie. Ho apprezzato Milly Carlucci che ha reso omaggio al feretro, ma Raffaella merita, come proposto Cristiano Malgioglio, che le sia intitolata Via Teulada 66, perché è da lì che ha iniziato. Volevo anche rispondere a quello che Milly Carlucci ha detto rispetto all’invito fatto alla Carrà a fare il giudice al Cantante Mascherato. Non è vero che Raffaella non rispose perché stava male, lei rispose con un secco: "No grazie". Non avrebbe mai accettato un ruolo del genere. Non ha mai fatto il giudice, a The Voice lei era una coach. Anche Magalli, che è stato ospite in molte trasmissioni questi giorni, ha detto delle cose non completamente vere. Ho apprezzato che l’ha ossequiata a Via Teulada davanti al feretro, ma dire che quando ha fatto Pronto Raffaella arrivava durante un periodo di appanno lavorativo che non ha mai avuto, mi è sembra esagerato. Così come lo show dei fagioli, sono stato felice che lui abbia rettificato che la Carrà odiasse venire identificata con quel gioco. In quella trasmissione lei ha intervistato ospiti prestigiosi da Madre Teresa di Calcutta al presidente Pertini a Gorbaciov. Ha fatto bene a riprendersi il merito di averlo inventato, ma forse ha la memoria corta perché lui stesso ha ammesso in passato di averlo ripreso da una televisione privata laziale”.
Chi ha apprezzato invece?
“Ho trovato i più sinceri all’attesa del feretro Stefano Coletta direttore di Rai 1 e Fabrizio Salini amministratore delegato Rai, come anche i tanti spazi a lei dedicati dal programma L'Estate in Diretta”.
Come è stata Raffaella con lei?
“Voglio solo raccontare un episodio. Ho avuto un grave problema cardiaco e lei lo apprese durante la trasmissione Storie Italiane condotta da Eleonora Daniele. Fu sempre presente, prima, durante e dopo l’operazione. Tutto questo sapendo oggi che stava male, acquisisce un valore in più, a differenza di sue colleghe che anche per un mal di testa fanno interviste e vanno in tv. Questa era lei nei miei confronti”.
Nel privato che donna era?
“Una persona molto generosa, ma questa cosa non la sbandierava ai quattro venti. Mi ricordo quanto lei fosse contraria ad eventi e a feste mondane, ma mi fece il grande regalo quando firmai il contratto per la Miramax America di venire con Sergio Japino, a presenziare alla cena in mio onore. Fu il regalo più grande che potessi ricevere”.
Chi erano i suoi più cari amici oltre lei?
“In assoluto Sergio Japino, Alessandro Lo Cascio, Gianluca Bulzoni. Era molto amica di Renato Zero, di Cristiano Malgioglio e Antonello Venditi. Lei non amava molto circondarsi di gente del mondo dello spettacolo. Preferiva come amici la gente normale”.
L'insegnamento che le ha lasciato?
“La serietà e la lealtà. Lo diceva sempre: 'Nella vita bisogna sempre essere seri e leali. Sarò ai suoi funerali e ho saputo che in prima serata su Raiuno un nuovo inedito Techetechete per la durata di 2 ore dedicato a Raffaella curato da Salvo Quercio. Il mio appello al dirrettore Coletta ha funzionato, mi piace pensare così".
Roberta Damiata. Sono nata a Palermo ma Roma mi ha adottato da piccola. Ho iniziato a scrivere mentre andavo ancora al liceo perché adoravo la British Invasion. Mi sono poi trasferita a Londra e da lì ho scritto di musica per vari anni. Sono tornata in Italia per dirigere un teen magazine e un paio di testate gossip. Amo la cronaca nera, il gossip, raccontare i personaggi e guardare sempre oltre la notizia. Il mio motto è "treat people with kindness", ma le mie grandi passioni sono i gatti e scriver
"Cosa mi ha detto la Carrà nell'ultima telefonata". Novella Toloni l'8 Luglio 2021 su Il Giornale. All'AdnKronos il cantautore ha raccontato dell'ultima conversazione avuta con Raffaella Carrà un mese prima della sua morte. Parole che ora suonano come un addio. È troppo grande il dolore di Cristiano Malgioglio per la scomparsa di Raffaella Carrà. I due erano legati da un sentimento profondo di amicizia e stima e l'annuncio della morte della popolare conduttrice lo ha gettato nello sconforto. Un dolore che si riacutizza ripensando alle ultime parole che la Carrà gli ha rivolto, poche settimane fa, quando la malattia l'aveva portata alla fine. "Ogni volta che ci ripenso mi commuovo", ha confessato all'AdnKronos. Cristiano Malgioglio è stato uno dei primi a dire addio a Raffaella Carrà sui social network. La notizia della morte della conduttrice stava rimbalzando su tutti i siti di informazione, nazionali ed internazionali, e lui ha scelto Instagram per salutarla nello sconforto più totale: "Raffaella amore mio ...sono disperato. Non posso credere che ci hai lasciati. Sento che mi manca anche il cuore. Sei stata molto importante per me e adesso ho tante lacrime da versare. Non mi aspettavo di avere questo dolore. Ti amerò per sempre". La loro amicizia nata negli studi televisivi li ha tenuti legati per anni e oggi, superato lo choc iniziale per la morte, Cristiano Malgioglio racconta un episodio che lo ha segnato. L'ultima telefonata avuta con Raffaella Carrà, nella quale le parole della conduttrice sembrano evocare un addio. "Ci siamo sentiti al telefono appena un mese fa - ha racconta Malgioglio all'agenzia di stampa AdnKronos - non ricordo cosa le dissi, l'avevo salutata e lei aveva riso come sempre. A un certo punto aggiunse: ''Ti prego Cristiano, quando arrivi tu la televisione cambia colore, non cambiare mai'. Allora non capii cosa volesse dirmi, non mi aveva mai parlato così, ma ora penso che quello era un messaggio di amore, di addio per me. Ogni volta che ci ripenso mi commuovo". Un messaggio di addio che Cristiano Malgioglio vuole custodire come ultimo ricordo dell'amica scomparsa. Una showgirl vera che oggi tutto il mondo piange: "Raffaella era un'artista completa sapeva fare tutto: stare in scena, ballare, cantare, recitare donne. Un po' come Loretta Goggi e Rita Pavone. Era una donna forte che ha sacrificato la sua vita personale per il lavoro. Oggi non solo la stampa italiana ma anche quella estera parlano della scomparsa della Carrà e questo non è mai avvenuto per nessuno". Il feretro della conduttrice è in Campidoglio, nella sala della Protomoteca, dove è allestita la camera ardente che rimarrà aperta fino a venerdì mattina. I funerali si celebreranno venerdì alle ore 12 in Santa Maria in Aracoeli.
Maria Volpe per “Liberi Tutti - Corriere della Sera” il 5 luglio 2021. Raffaella Carrà ha una dote, quasi sovrannaturale: riesce a contenere gli opposti. È una donna libera, controcorrente, capace di dare scandalo col Tuca tuca e nel contempo di incarnare l' immagine rassicurante della casalinga della porta accanto; è un' icona gay, amata dagli omosessuali che lei accoglie e comprende, e nel contempo rappresenta la famiglia tradizionale italiana; non ha figli («è l' unico rimpianto della mia vita - disse una volta - , ho aspettato fino a 40 anni e poi la natura non mi ha più dato un bambino») ma è molto materna; ha sempre avuto una bellezza maliziosa e trasgressiva ma le donne non l' hanno mai vissuta come aggressiva e troppo sexy; ha un grande successo ma non è diva; è vicina alla gente ma si concede poco a interviste e ospitate; è romagnola sanguigna e diretta ma trova sempre il punto di equilibrio e la mediazione. Un elenco che potrebbe durare all' infinito. Raffaella Carrà ha 75 anni e li porta benissimo. Del resto ha un corpo allenato, un caschetto biondo che la pone di diritto fuori dal tempo che scorre, una vivacità mentale che le consente di restare giovane in eterno. Eppure non gioca a fare la giovane. Non veste come una ragazzina. Non lotta contro rughe e macchie della pelle, non insiste con il presenzialismo. Anzi, sparisce anche due o tre anni. Poi ricompare, come fosse mancata due o tre giorni. Lo ha fatto anche di recente. È ricomparsa con la sua ultima fatica: un doppio album - un cd natalizio e un cd con tutti i suoi grandi successi -, preparato con cura maniacale, come tutti i suoi lavori. Ogni volta che è Natale è un album allegro, pieno di vita e colori, che mette voglia di ballare e di fare festa. Proprio come lei.
Raffaella una donna controcorrente, libera, capace di rompere i tabù eppure così amata da tutti, quasi una persona di famiglia. Come riesce a far vivere queste due anime?
«La verità è che non lo so. So solo che mi lascio guidare dall' istinto e dal sentimento che mi hanno fatto attraversare la vita finora... anche con tanti difetti».
Nel videoclip di un brano del cd ha voluto ci fosse, tra le famiglie, anche una omosessuale.
«È vero, ho chiesto io di avere una famiglia omosessuale tra le varie famiglie del video, perché ormai è nelle cose, è la normalità ed è giusto che sia così».
Da sempre lei è un'icona gay. Come è nata questa storia?
«Ho cominciato a capire il mondo gay durante la prima Canzonissima . Ricevevo lettere da ragazzi gay che non si sentivano accettati specialmente in famiglia. E mi sono chiesta: possibile che esista questo gap tra genitori e figli? Poi nel mondo dello spettacolo ci sono tante persone omosessuali e così sono diventata icona gay mio malgrado. Da anni mi chiedevano di prendere parte alle sfilate per l'orgoglio gay e così l'anno scorso sono andata a Madrid alla giornata mondiale del Gay Pride e li ho beccati tutti in una volta».
La sua storia con Gianni Boncompagni è stata fondamentale. Come è nata, perché è finita e come siete riusciti a tenere viva l'amicizia?
«Ci siamo conosciuti perché mi chiese di fare un'intervista all' alba sulle scale di Piazza di Spagna... curioso, mi dissi. La facemmo e lo trovai un po' matto, ma simpatico. Ci siamo rivisti, ma solo dopo un anno ci siamo messi insieme. È stato un connubio fantastico e di successi musicali insperati. Ma la lontananza è stata fatale: per via dei concerti in molte parti del mondo siamo stati obbligati a stare distanti per lunghi periodi, e questo alla fine ha fatto sì che l'amore si trasformasse in un affetto fino all' ultimo giorno della sua vita».
Lo stesso con Sergio Japino?
«Con Sergio è stato diverso. Siamo sempre insieme perché l'amore può cambiare, ma non muore».
Metta in ordine di importanza: amore, amicizia, lavoro.
«Se mi permette metterei al primo posto la salute, poi l'amore, il lavoro e per ultima l'amicizia, perché è un "oggetto" molto raro».
Si è mai sentita sola? E se succede cosa fa per vincere la solitudine?
«Veramente sono sola quando voglio e lo faccio per radunare le idee. Per il resto non mi annoio mai, ho tante cose da fare... non esiste solo lo spettacolo, anzi...».
Si può essere madri senza avere figli e lei ne è la dimostrazione. Ci racconta il suo modo di vivere la maternità?
«Ho due nipoti verso i quali ho un sentimento paterno: ho perso prematuramente l'unico fratello che ho avuto e mi occupo di loro quotidianamente. Li adoro».
Che ricordi ha dei suoi Natali da bambina?
«I miei genitori erano separati, eravamo mia mamma, mio fratello, mia nonna ed io. Ma la mamma trovava sempre il modo di renderci felici. C' erano anche i nonni e i cugini. Facevamo un albero alto due metri e mezzo. Erano comunque bei Natali. Anche se io sono di Bologna e lì i regali arrivavano con la Befana. Poi, crescendo, quando stavo con Gianni (Boncompagni; ndr ) avevamo tre bimbe sue, più i miei due nipoti per i quali io sono un po' il papà. Facevamo un sacco di cose. Ancora adesso, anche se ognuno ha la propria vita, cerchiamo di riunirci durante le Feste. Oppure facciamo qualche viaggio insieme, oppure succede che ognuno vada per conto proprio, poi quando si torna, si fa insieme un Natale diverso».
Lei è credente?
«A modo mio. Sono sicuramente una persona molto spirituale e prego tanto».
Cosa le manca dell'infanzia?
«Mi manca l'infanzia. Ma non conosco la malinconia del Natale e delle Feste.
Certo mancano all' appello tante persone care, ma le sento ancora più vicine».
Le piace fare regali?
«Mi piace più farli, che riceverli. E adoro impacchettarli bene per le persone a cui voglio bene. Cosa amo ricevere? Basta che non sia un soprammobile inutile. Ma non succede perché i miei amici conoscono i miei gusti e sanno che preferisco le cose utili».
Una bolognese come lei che cosa mangia la sera di Natale?
«Sembra strano ma mangio spaghetti col tonno. Stavo lavorando con Mastroianni tanti anni fa e lui mi insegnò a fare gli spaghetti col tonno e mi disse che mangiati il 24 sera portano fortuna. Io che sono superstiziosa non ho più cambiato e quando sono a Roma li mangio sempre».
Nel cd ci sono i suoi maggior successi che hanno cantato e ballato tutti gli italiani. Quali sono i brani che le hanno regalato le maggiori soddisfazioni?
«Rumore in assoluto è la canzone che ho riconosciuto subito. Ho detto: quella è mia. Poi A far l'amore comincia tu: non l'ho capita subito, ma è quella che ha venduto di più in assoluto. Ha avuto un grande successo nella versione di Bob Sinclair: nel film La grande bellezza ci sono ben dieci minuti di quella canzone e quando il film ha vinto l'Oscar ero gonfia come un pavone. Era un po' come se lo avessi vinto anche io. E infine Fiesta, che è pazzesca, un inno».
Ha lasciato fuori il «Tuca tuca»...
«Adoro il Tuca tuca e ha una storia incredibile.
Lo ballai con Enzo Paolo Turchi e fu considerato troppo trasgressivo così lo cancellarono dalla televisione. Ci fu anche un articolo dell'Osservatore Romano e così lo tolsero anche dalla classifica. Dopo un po' di tempo una sera invitai a cena Alberto Sordi e gli feci riascoltare il Tuca tuca: fu lui a volerlo riportare in tv. E a lui non potevano dire di no».
Da un bel po' è lontana dalla televisione. Nostalgia?
«No, e non solo perché sto bene anche fuori dal piccolo schermo: ho tante cose da fare, non mi annoio mai, ho la mia famiglia, i viaggi; ma anche perché oggi in tv si fa tutto troppo velocemente: non puoi chiamare un ospite oggi per averlo stasera, devi lavorarci almeno due o tre giorni...».
A quali condizioni tornerebbe?
«Solo per curiosità, per la voglia di provare a fare una cosa nuova, per amore della sfida».
Per questo la chiamano «La signora del No».
«Vero, perché faccio solo le cose che mi vanno. Se non ho la spinta, lascio perdere».
Lei è sempre legatissima al programma Carramba , vero?
«Moltissimo e tra l'altro nel periodo natalizio abbiamo realizzato carrambate meravigliose. Abbiamo riunito famiglie che non si vedevano da 50 anni. Qualcuno ha tentato di mettere in giro la voce che era tutto falso, ma invece abbiamo sempre dimostrato che era tutto vero. E io ci tengo moltissimo ancora oggi a dire che quelle storie erano verissime, nulla di costruito».
Un augurio per il nuovo anno?
«Buttiamo nel cestino il verbo litigare perché la lite finisce nella violenza e a pagare nella maggioranza dei casi sono le donne. E dite no all' ultimo appuntamento: è il più pericoloso».
Il pubblico femminile l'ha sempre amata.
«Sì, mi segue con particolare attenzione perché sente che sono con loro, e quando posso lo dimostro».
Anche con gli uomini non le è andata male...
«Ho avuto fortuna con gli uomini e me la sono giocata».
Intervista di Massimo Gramellini del 30 giugno 2017 pubblicata da corriere.it
Raffaella Carrà, come si diventa madrina del World Pride 2017 e icona planetaria dei gay?
«L’ho chiesto a un amico gay, direttore di una rivista in lingua spagnola: “Que te gusta de mi persona?”. Lui mi ha guardato come se fossi una torta al cioccolato: “Todo”. La verità è che morirò senza saperlo. Sulla tomba lascerò scritto: “Perché sono piaciuta tanto ai gay?”».
Già, perché?
«Mi hanno cresciuto due donne. Tre, contando la nurse inglese: severissima. Mia mamma Angela Iris fu una delle prime a separarsi nel dopoguerra. Non si risposò più. Nonna Andreina era rimasta vedova di un poliziotto originario di Caltanissetta che si chiamava Dell’Utri. Per addormentarmi mi cantava le arie d’opera, piene di disgrazie. E io: “Nonna, cantami qualcosa di allegro, diobono...”».
Le mancava la figura maschile?
«Mi vergognavo di non averla. E nascondevo la verità. A scuola, quando mi chiedevano che cosa avevo fatto col babbo nel fine settimana, mi inventavo la qualunque».
Ma lui, il signor Pelloni, dov’era?
«Aveva un caseificio a Castelfranco. Con la mamma le cose erano andate male subito. La prima notte di nozze lei l’aveva passata su una poltrona. Ma io non mi arrendevo. Proposi un fioretto a mio fratello Enzo: se mamma e papà tornano insieme, non mangiamo più banane».
E vostra madre?
«“Se volete che torni con lui, lo faccio, ma sappiate che sarebbe il sacrificio più grande della mia vita”. Ci guardava coi suoi grandi occhi blu, che splendevano su quella pelle bianca da normanna su cui non aveva mai lasciato battere il sole. Fu una freccia al cuore. Non glielo chiesi più».
Con il papà vi vedevate?
«Ogni tanto ci veniva a prendere. Un uomo buono e gentile, ma inaffidabile. Non aveva alcun senso della famiglia. In casa il babbo era la nonna. D’inverno si occupava di commercio di stoffe e d’estate apriva un bar-concerto a Igea Marina, dove cantavano anche Morandi e Gianni Pettenati».
E lei dov’era?
«In un collegio spagnolo, a Bologna. Al pomeriggio frequentavo la scuola di danza con il sogno di diventare…».
…la Carrà.
«No. Una coreografa come Maurice Béjart».
Un fuoriclasse. E un gay.
«Amavo il lavoro dietro le quinte. Apparire non mi interessava. E neanche fidanzarmi. Al centro sperimentale di cinematografia uscivo solo con i gay. Quando in sala si faceva buio, loro non cercavano di tastarti…».
Era molto puritana?
«No, è che il babbo ogni tanto telefonava per chiedermi se ero ancora vergine, minacciando in caso contrario di togliermi da mia madre e dal centro sperimentale. Ero così terrorizzata da quella spada di Damocle che fino ai 18 anni non mi sono lasciata toccare con un dito…».
Ha anticipato la moda della ragazza con amico gay.
«Mi facevano così tenerezza che dicevo alla mamma: perché non me li lasci portare tutti a vivere a casa nostra?».
Sua madre credeva in lei?
«Quando esordii in “Io Agata e tu”, mi chiamò per dirmi: “Ma eri tu in tv? Non ti ho mai visto così potente”. In famiglia l’artista era lei: negli atteggiamenti, almeno, perché poi non ci hai mai provato. Io invece sono calma e pigra. Ma appena salgo sul palco un’energia si impossessa di me e mi trasformo in un uccello che prende il volo».
E quando torna al nido?
«Il babbo che cercavo l’ho trovato in Gianni Boncompagni, che aveva 11 anni più di me. Finalmente mi sono rilassata. Per tutta la giovinezza mi era mancata la spalla a cui appoggiarmi».
Erano gli anni di Canzonissima, la costruzione del mito.
«Ricevevo tante lettere di ragazzi gay. Scrivevano: “Non mi suicido solo perché ci sei tu”. Con loro diventavo io la spalla a cui appoggiarsi».
E che cosa rispondeva?
«Se nel tuo corpo ci sono dei geni più prepotenti nei confronti del tuo sesso, devi accettarti e devi risolverti».
Continuano a scrivere?
«Nei piccoli paesi la loro condizione è difficile ancora adesso. Ho ricevuto la lettera di uno steward di Trenitalia: non posso più vivere, tutti mi fanno la guerra. Ho risposto: “Non deprimerti, è la tua battaglia, devi vincerla”. Per me il mondo non è fatto di gay e di etero, ma di creature».
Le daranno della buonista.
«Non lo sono, ma amo la tenerezza. È la chiave dell’amore. Quello che resta quando finisce il fuoco del sesso».
Lei l’ha conosciuta?
«Ho avuto due grandi storie d’amore note, con Boncompagni e con Iapino. E altre ignote che non rivelerò mai…».
Se non in una futura autobiografia.
«Mi piacerebbe sciogliere alcuni luoghi comuni sul mio conto. Ma se penso che dovrei andare a promuoverla in giro, allora preferisco non scriverla proprio!».
È mai stata corteggiata da una lesbica?
«Ho molte “fan” femmine che non so se siano femmine. Mai nessuna di loro però mi ha rivolto sguardi di un certo tipo…».
In compenso ha avuto molti amici gay.
«Luca Sabatelli e Corrado Colabucci su tutti: i due stilisti che mi hanno vestito. Luca era così simpatico, colto, intelligente. Poi ce ne sono stati altri, ma niente nomi, perché qualcuno non ha mai fatto outing…».
Com’era il rapporto con loro?
«Tanto cazzeggio e nessun giudizio. Né pregiudizio. Ma ti pare che un transessuale con due lauree non trovi lavoro solo perché è nato in un corpo di maschio sentendosi donna?».
Qualcuno ne critica l’esibizionismo.
«Certo, tra loro ci sono degli esibizionisti. Anche dei ladri e dei delinquenti, se è per questo. Come tra gli etero».
Si parla di lobby gay.
«Mai conosciuta. Le uniche lobby sono in politica e negli affari».
A proposito di stilisti, certi abiti di scena hanno alimentato la sua fiamma presso l’universo gay.
«Ma i gay amano soprattutto mettersi la parrucca bionda, le mie canzoni e la mia allegria».
A proposito di bionde, ha sentito la Merkel? L’unico matrimonio è tra uomo e donna.
«Matrimonio civile mi sembra, per ora, la parola più giusta per certificare l’unione tra due persone che si amano».
È favorevole all’adozione per i gay?
«Sono combattuta. Credo che la natura delle cose arriverà a fiorire da sola. Intanto si sono già fatti passi avanti. Due persone che si amano possono prestarsi assistenza. Ricordo il povero Don Lurio disperato perché aveva un compagno molto malato e non poteva andare in ospedale a trovarlo».
E l’adozione per i single?
«Vorrei sapere perché io, cresciuta da una mamma single, non ho potuto avere un figlio in quanto single! Ho persino pensato di farmi spagnola».
In che senso?
«Prendere la cittadinanza. Lì avrei potuto adottare. Ma mi è mancato il coraggio. Gli italiani, gay e non gay, sono tutti scontenti. Su ogni proposta di cambiamento spira un vento contrario. Anche se sei di centrosinistra, non devi avere paura di passare per decisionista. Invece tutti si frazionano: Renzi, Prodi, D’Alema. E la gente è stanca. Dei politici e dei burocrati che hanno paura a prendere decisioni per timore di scoprirsi con i superiori. I soldi per i terremotati di Amatrice sono ancora fermi. Basta parole. Io sono pragmatica, da buona emiliana».
Ma vive a Roma.
«Roma ti ingurgita. La sindaca Raggi faccia qualcosa di concreto e di immediatamente visibile. Prenda 50 extracomunitari con tre giardinieri e pulisca il Tevere, facendolo diventare come il Tamigi o la Senna».
Mai emigrata. E mai sposata.
«Sono una che mantiene le promesse, perciò mi sono sempre rifiutata di farne una che non avrei avuto la certezza di mantenere. Giurare in pubblico che starai con qualcuno per tutta la vita… Il matrimonio infelice dei miei mi ha segnata».
Quando ha cominciato a desiderare un figlio?
«A 40 anni, quando sul lavoro ormai mi ero presa le mie soddisfazioni. Ci ho pensato, ma non è arrivato. La natura dice di sì quando vuole lei».
Esistono modi per agevolarla.
«Sono troppo fifona per sottopormi a certe operazioni. E comunque la vita ha i suoi disegni. Ho perso un fratello a 56 anni di tumore e gli ho promesso che avrei fatto da babbo ai suoi figlioli».
Come la nonna con lei.
«Le mamme abbassano la sottana davanti alle esigenze dei figli. Il babbo invece sa essere giusto. Ogni tanto battaglio col nipote maschio, Matteo. Tenera, ma rigorosa. Non puoi ridurti come quella professoressa che passava il compito al figlio. No, figlio mio, il compito te lo fai da solo: devi crescere, cazzarola…».
Anche Macron è un figlio che non vuole crescere?
«Non credo nella coppia dove l’uomo è molto più giovane. Le donne invecchiano prima. Però lui non è un toy boy, né lei una mamma. Più una compagna. La spalla a cui Macron si appoggia».
Oggi lei avrebbe dovuto essere a Madrid come ospite d’onore della sfilata.
«Mi avevano chiesto di cantare davanti a due milioni di persone. Ho detto di no per timidezza. Tanto ci sarò lo stesso, perché si metteranno la parrucca bionda e intoneranno in coro: “A far l’amore comincia tu…”. E poi “Fiesta”, “Luca”, persino “Rumore”, la più difficile…».
Il premio di madrina del World Pride però è andata a prenderlo.
«All’ambasciata d’Italia. Nel riceverlo ho detto: vivete questa settimana in allegria, ma le lotte non sono finite. C’è ancora “mucho camino” da compiere per abbattere i pregiudizi… Ci riusciremo. La mia frase preferita recita: “Puoi togliere tutti i fiori, ma non puoi togliere la primavera».
Andrea Scarpa per il Messaggero il 5 luglio 2021. Diceva spesso, Albertone, che non gli piaceva andare in tv. In quella famosissima puntata di Studio Uno, anno 1966, quella dello sketch con Mina e della battuta che oggi qualcuno potrebbe addirittura definire politicamente scorretta - «Mina, Minona, quanto sei bella, sei la più brava cantante del mondo. Sei grande, grande, sei na fagottata de roba, sei» - poco prima aveva raccontato il suo rapporto con il piccolo schermo. «Io non vado tanto volentieri in televisione perché ho iniziato con la radio e lì è tutto diverso. Chi ascolta segue in religioso silenzio, oggi quando guardano la tv le persone parlano al telefono, mangiano, litigano... Alberto Sordi? A me quello nun me fa ride.... Ao! Che ve siete ammattiti?». E giù a ridere tutto lo studio, con Mina piegata in due. In realtà ci andava poco, è vero, ma lo faceva sempre con piacere, calibrando giustamente le apparizioni per lasciare sempre il segno. Ovunque e con tutti: da Mina alle gemelle Kessler, a Raffaella Carrà. Con quest' ultima, nel 1971, scrisse addirittura una piccola grande pagina di storia del costume italiano. Che cominciò sul primo canale della Rai il 13 novembre di quell' anno, due settimane prima del suo intervento. A raccontarcelo è proprio lei, la Raffa nazionale, 77 anni.
Durante la sesta puntata di Canzonissima, la popolare gara canora legata alla Lotteria di Capodanno, che lei conduceva per il secondo anno consecutivo con Corrado, cosa fece?
«Presentai Tuca tuca, canzone e balletto, assieme a Enzo Paolo Turchi.
Le parole erano di Gianni Boncompagni, le musiche di Franco Pisano, le coreografie di Don Lurio. Scoppiò il finimondo».
Troppo sexy?
«Per l'Italia bacchettona di quegli anni, sì. I dirigenti Rai mi proibirono di ripresentarlo. In tv per il Tuca tuca non ci sarebbe mai più stato posto. Per loro era indecente e provocatorio. E poi erano arrivate lamentele anche dal Vaticano... Per mia fortuna, però, c' era Alberto Sordi».
Che intende dire?
«Prima dello scandalo aveva già accettato di venire in trasmissione come ospite, così lo invitai a cena a casa mia, gli raccontai tutto, e dopo aver mangiato misi su la canzone e gli feci vedere le mosse, esibendomi da sola per lui, per poi fargli la proposta: balleresti il Tuca tuca con me? Mi sarei aspettata una risposta tipo: Raffae', fammece pensa' un po'. E invece...».
E invece?
«Mi disse subito di si: Vengo al Delle Vittorie solo se ballo il Tuca tuca. Rimasi a bocca aperta dalla felicità: nessuno avrebbe detto no ad Alberto Sordi».
Come andò?
«La serata fu memorabile. Iniziai l'esibizione con Enzo Paolo Turchi e a metà del ballo entrò in scena Alberto. Mi sfiorò con le dita i seni e l'ombelico. In quel momento pensai che mi avrebbero sicuramente cacciata dalla Rai e non avrei mai più lavorato in tv. Invece fu un trionfo. Dopo lo sdoganamento di Sordi non ebbero più il coraggio di dire no al Tuca tuca, che era una trovata geniale, semplice e innocente. Lo ballavano pure le suore coi bambini negli asili. Un successo che va avanti da allora. Nel 2012 anche Madonna gli ha reso omaggio in un suo tour».
La prima cosa che le viene in mente del suo Sordi qual è?
«La battuta pronta. Era simpatico e gentile, Alberto.
E non si dava mai arie da divo. Anche se avrebbe potuto farlo: era il numero uno».
Quando vi siete incontrati la prima volta?
«Tantissimi anni fa in uno studio tv. Eravamo lì per ragioni diverse ma finimmo per mangiare insieme in mensa. Alla fine mi chiese una sigaretta e da quel giorno ogni volta che c' incontravamo me ne chiedeva una, per lui era diventato un gesto scaramantico, quasi un portafortuna».
Secondo lei è stato grande per quale motivo?
«Perché ha saputo raccontare gli italiani come nessun altro. Ha descritto la nostra natura in profondità utilizzando gli strumenti della simpatia, ma anche della viltà, del cinismo, del coraggio, della seduzione... Tutti quei sentimenti, vizi e virtù che ci appartengono, lui li ha messi nella sua arte in maniera tanto generosa ed efficace quanto implacabile».
Il suo film preferito qual è?
«Se devo citarne uno: La grande guerra di Mario Monicelli, un capolavoro».
Cosa resterà di lui?
«I suoi lavori, che non invecchieranno mai, e anche l' affetto e la stima di chi lo ha conosciuto. Quando è morto, di nascosto, andai di sera in Campidoglio a rendergli omaggio. Aiutata dalle guardie della sicurezza, gentilissime, pregai per lui, lo guardai a lungo, e poi lo salutai. Sono sicura che mi abbia sentito. Fu emozionante. Come sempre, con lui. Ciao Alberto, grazie di tutto».
Intervista di Malcom Pagani a Raffaella Carrà per Vanity Fair - febbraio 2019.
Caratteri: «Avrò avuto vent’anni, non ero nessuno e non avevo fatto ancora niente. Mi trovai in uno studio televisivo davanti a un dirigente loquace ed entusiasta: “Lei è fortunata. La vede quella scalinata? La scenderà ogni settimana con un abito meraviglioso e una benda sugli occhi. Nell’ultima puntata se la toglierà per annunciare i premi della Lotteria Italia”. Lo guardai e poi dissi la mia: “Grazie, ma odio le scale, in giro ci sono almeno ottomila ragazze più belle di me e questa cosa può farla chiunque. Lei forse non lo sa, ma io sono bravissima”».
Raffaella pensa che l’età aiuti ad addolcire le risposte: «Da ragazza ero tremenda, mi sono calmata» e il suo lusso resti la libertà di dire no: «Dei soldi e dell’ambizione non mi è mai importato niente, ma senza coraggio la mia vita sarebbe stata triste. Se a volte ho fatto delle cazzate, le ho fatte perché le avevo scelte io. Ho cercato di farle bene comunque e mi sono impegnata perché come diceva mia madre: “Se le cose non le fai bene, poi devi rifarle due e tre volte”. Non mi piace perdere tempo. I don’t want to loose time. Se però una cosa non la sento, la rifiuto. Perché non ho mai creduto nel rimmel o nel mio personaggio, ma nell’idea, nella creatività e nel destino. Sono rimasta sempre me stessa e o ho provato a non cambiare pelle. Timida, che quando ricevo un premio o un riconoscimento smetto quasi di parlare e a disagio, un disagio profondo, quando intorno a me c’è troppa gente. Divento un’altra e alle grandi feste non vado mai. Non saprei cosa dire e cosa fare e cercherei subito un modo per fuggire. Se mi fossi specchiata nel successo sarei stata insopportabile. Ho cercato di evitarlo, per me e per le persone che avevo intorno, ma non ho faticato perché è la mia natura. Oltre il balletto, le prove, le canzoni e tutto il resto, c’ero sempre io. Quella che dimessa e struccata va in vacanza a un’ora da Roma e d’inverno indossa il golf e la calzamaglia perché sente freddo. Amo il mio nido e le mie piccole certezze. Sono semplicissima da leggere. La Carrà mi è simpatica, ma con Raffaella Pelloni ci vivo tutti i giorni». Febbraio. Moka, sigarette e consapevolezze: «La vita è una partita a carte e a me piace avere il mazzo in mano».
Ha vinto?
«Me la sono giocata. A volte ho pagato un prezzo e altre mi è andata bene, ma non posso dire di non essermi divertita».
Chi crede di essere stata?
«Più che un’artista, un’ottimizzatrice. Dovunque sia andata, ho imparato delle cose. Ma sono nata sotto il segno dei Gemelli e quando scendo dalla giostra, ho bisogno di volare, viaggiare e andare via. Se ho tempo per me, mi alzo dalla sedia e faccio finalmente quello che mi pare».
Lo chiamiamo sano egoismo?
«La chiamiamo libertà. Io non mi annoio mai. E se faccio televisione, provo a non annoiare gli altri. Se da spettatore vai oltre il piccolo schermo, le luci e le paillettes, capisci una cosa. La stessa che intuisci se mi guardi negli occhi».
Che cosa?
«Che io ti coinvolgo e ti porto con me sulle nuvole: fuori dalle rogne quotidiane, dai problemi, dai conti che non tornano mai».
Natalia Aspesi diceva che lei era un po’ Ginger Rogers e un po’ Jessica Rabbit.
«Ma quando mai? Lei è gentile, ma non è vero. Non ho mai avuto quel seno né quel culetto. Ma, dia retta, negli occhi ho avuto sempre un’intenzione. Una passione. È quella che disegna la vita, non il contrario».
Da bambina sognava di fare la coreografa.
«A un certo punto mi sono dimenticata dei miei desideri e mi son detta: “Sai che anche questo non è male?”.
“Questo” è la storia della tv italiana.
«Guardi che se mi vuole fare il monumento mi alzo subito e me ne vado».
Non dobbiamo?
«E non dovete no. Sono semplicissima da leggere. Lei scrive per Vanity Fair, ma deve sapere che io somiglio a tutto tranne che alla fiera della vanità. Mi sono divertita a indossare gli abiti più pazzi del mondo, ma quel tempo non esiste più. Milleluci, Fantastico, Canzonissima. Sa perché piacciono tanti a chi li recupera in rete o guarda Techetecheté? Perché è la fotografia di un mondo che non c’è».
Qual era il segreto di quella tv?
«I dirigenti di allora avevano il prodotto in testa, nel senso più ampio della parola. Volevano fare bellissima figura anche quando Rai Uno era l’unico canale d’Italia o quasi. Ne andava della loro poltrona o della loro reputazione. Poi c’erano gli autori».
Oggi non ci sono più?
«Oggi, quando va bene, trovi persone che fanno tre o quattro programi contemporaneamente. I denari non sono più abbastanza. E se hai qualche fardello, oltre ad amare la tv devi amare anche la famiglia e portare lo stipendio a casa. Altrimenti poi tua moglie ti dice: “Antò, come pensi di pagarlo questo mese il mutuo?”».
Pippo Baudo teorizzava che la tv non andasse mai abbandonata e che un presentatore la dovesse occupare militarmente.
«Non ci ho mai creduto e con Pippo ne ho discusso tante volte. La mia teoria è opposta: ogni tanto, soprattutto se sei una donna, ti devi togliere dai piedi. Se sei sempre lì non ti rinnovi mai. Sempre la stessa faccia, la stessa espressione, lo stesso birignao. La tv, per farla bene, devi vederla anche da fuori. Devi capire dove vivi, chi c’è per strada, chi ha le mani sul telecomando e la sera sceglie proprio te. Se vai via per uno o due anni non succede niente».
E il rischio di essere dimenticati?
«Se si scordano di te significa che non sei stato poi così incisivo e che forse della tua presenza si poteva fare a meno».
Di lei, classe 1943, la Rai non ha intenzione di fare a meno.
«Non ho mai voluto fare a ogni costo la tv perché non ne ho mai sentito l’esigenza. Per convincermi mi devi incuriosire e poi forse, avendo affrontato molte sfide e molte curve ad alta velocità, col tempo, è cresciuta anche la paura di andare a sbattere contro un muro».
Prima di fare un programma lei ha paura?
«Una paura fottuta. Non ci dormo la notte. Ci devo fare i conti, la devo domare, devo farla passare. Prima di iniziare è sempre dura».
Tra poco, il 28 marzo, darà vita a un nuovo programma di interviste su Rai Tre ai grandi personaggi del nostro tempo.
«Stefano Coletta, il direttore, è venuto a propormi tre programmi. Mi ha telefonato: “Sono un tuo grande ammiratore” e bibum e bibam. Mi viene a trovare. Leggo quello che mi ha lasciato, aspetto poche ore e poi lo chiamo: “Non lo faccio, non lo sento, mi dispiace. Poi gli chiedo: “ma che ti frega di darmi un programma ad ogni costo?
Sto bene senza fare niente in tv”. Insiste. Mi porta un secondo programma. Con le parole più gentili che riesco a pescare, rifiuto anche quello. Passa qualche mese e mi ricontatta: “Stefano” gli dico: “Guarda che passerai dall’amore all’odio perché se non mi piace, non faccio neanche questo».
La chiamano la signora del “no”.
«Ma guardi, mi ha sempre guidato l’intuito. E mi sono sbagliata di poco. Infatti dico no anche al terzo tentativo di Coletta. Quando me lo ritrovo davanti mi scappa quasi da ridere: “Siamo rovinati, Stefano”. Gli faccio la parte della fidanzata che sta per lasciare il compagno: “Rimaniamo amici, lasciamoci così senza rancor”. Tra le dita stringe una cartellina. È il quarto programma. Me lo allunga sul tavolo senza quasi guardarmi negli occhi. Lo leggo e come dicono in Spagna, all’orecchio sento un gusanillo. Mi sento pizzicare dalla curiosità. Mi viene voglia saperne di più, di inventarmi qualcosa. Mi dico: “Stavolta pensaci bene”.
Ci ha pensato e il programma si farà. Di cosa ha paura? Del ritorno?
«La parola ritorno mi ripugna, mi fa pensare alle melanzane che ritornano su dopo una cena. Se proprio devo tornare, visto che il mio è un eterno ritorno, mi piacerebbe farlo in punta di piedi».
Cosa teme allora?
«Che il pubblico dopo un’ora e mezza in cui non mi vede cantare, ballare e cazzeggiare dica “che palle”. Un’ora e mezza è lunga. Io e l’intervistato possiamo anche divertirci, ma mi chiedo: “Cosa arriverà a casa? Quali sensazioni?”». Coletta Mi ha rassicurato: “Dello share non mi importa nulla, voglio soltanto che sia bello”. Io, Sergio japino e Giovannino Benincasa, gli autori, ci proveremo. Ci pare di aver trovato la chiave per creare un rapporto magico e fiduciario con l’intervistato. Trovare la chiave è il momento più bello e anche la cosa più importante. Più importante della messa in scena e dei mezzi che hai a disposizione. Carramba lo facevamo in un ufficetto di due metri per due. Ognuno dava un contributo, perché la tv è un gioco di squadra. Da solo non fai un passo».
Carramba che sorpresa, 1995 e il suo spin off, Carramba che fortuna del 2008, fecero epoca e grandi ascolti.
«Pensi che Sergio Japino me lo propose almeno due anni prima. Mi fece vedere la puntata di un format sui ricongiungimenti e rimasi fredda: “Ma stanno sempre a frignà, ma che me frega?” Non lo feci. Allora vivevo in Spagna, dove pensavo sarei rimasta almeno altri quattro anni. Da Roma, Brando Giordani, direttore di Rai Uno, mi telefonava a intervalli regolari: “Dai Raffaella, facciamo una prima serata”. “Eventualmente, Brando, dammi un programma piccolo, non di prima serata”. Non se ne faceva mai niente».
Poi cosa accadde?
«Ero in albergo a Madrid e dalla reception mi avvertono che c’è un pacco per me. Dentro la busta, un plico e una videocassetta. Accendo il Vhs, la inserisco e comincio a piangere come un agnello. Chiamo Sergio: “Ho trovato il mio programma”.
Come la prese?
«Si incazzò come una iena. “Non mi ascolti mai” diceva. Lo calmai con la dialettica: “Dai, mi avevi mostrato una sorpresa loffia”. Lavorare a Carramba fu emozionante, perché era tutto vero e le emozioni, quelle che non ho mai inseguito in nome della finzione, erano oneste».
Si potrebbe replicare?
«Oggi uno show così, uno show puro, non lo farei più, neanche per tre milioni di euro».
Come mai?
«Perché- anche se non me li porto poi tanto male- ho i miei anni e perché non mi va più di allenarmi, cantare o ballare. Lo posso fare per un progetto speciale, come il disco che ho fatto a Natale, ma non può diventare la mia condanna. C’è un tempo per ogni cosa».
Oggi che tempo è?
«Il tempo in cui spero che chi guarderà il mio nuovo programma non si chieda ogni trenta secondi “Ma quando canta? Quando balla? Quando parte lo spettacolo?”. Potrei mettere su 3 pezzi musicali da quattro minuti? Certo che potrei. Ma mi rendo conto che non ne ho più voglia. Lo spettacolo saranno le parole e in questo momento di omologazione anche televisiva, di show tutti uguali, di programmi fatti di nulla che portano in primo piano il niente e la superficialità, una trasmissione di parola, di scambio e di confessioni mi sembra una rivoluzione».
Sostengono spesso che lei, la rivoluzione del costume, l’abbia fatta.
«Lo dicono adesso, ma per decenni sono stata considerata quella dell’ombelico, del tuca tuca o dei fagioli. Adesso che ho 75 anni dicono che ho fatto la rivoluzione».
Troppo tardi?
«Le posso dire la verità? Non sempre sono stata raccontata bene e nello specifico ,quella storia dei fagioli mi ha fatto due palle così».
Anche l’ombelico?
«Allora, l’ombelico. 1970. Mi portano un disegno. Ho i pantaloni bianchi, un toppino e l’ombelico scoperto. Al mare, in vacanza, con un paio di short, io mi vestivo più o meno così. Dov’era lo scandalo? Dove la provocazione? Era tutto pulito, senza secondi fini e non ho mai pensato alla censura né nessuno mi ha detto”Non si può”. Come sia nata ‘sta leggenda non lo so».
Dipendeva da lei? Dal suo aspetto?
«Non credo proprio. Sono sempre andata dritta nella vita e se c’è una cosa che ho sempre detestato fare è proprio ammiccare. Le ragazze che mi guardavano in tv lo capivano perché si vestivano esattamente come me. Mia madre, che non aveva malizia, diceva che avevo l’ombelico come quello di un tortellino. E di sicuro non pensava ai doppi sensi. Oggi in tv vedo naufraghi con un filo nel sedere o con i seni rifatti da cui spunta un capezzolo. Non giudico perché non sono mai stata moralista, però che vogliano mostrare filo e capezzolo è evidente».
Lei non avrebbe potuto.
«E chi lo dice? Ne è sicuro? Forse me l’avrebbero fatto persino passare, ma il punto è che non piaceva a me. Oggi in tv c’è più libertà, ma è una libertà soprattutto di parola. Noi parolacce non le dicevamo, oggi basta mettere una qualunque trasmissione e se non dici vaffanculo ti guardano anche male».
Una sua dote?
«Ironia e autoironia. Guardi come mi avete vestito per questo servizio. Non sono alta due metri e non sono una modella. Ma mi sono divertita e presa in giro. Non sempre gli altri l’hanno capito. Nell’ambiente non dico mi considerino una zarina, ma sicuramente una donna a suo modo potente».
E non è vero?
«Ma non è vero no. E neanche che sia stata ambiziosa. Se ho avuto il passo da carabiniere e a qualcuno sono parsa aggressiva è perché in un mondo fondamentalmente maschile, ho dovuto difendermi e farmi valere. Ma poi, quando sei dentro il progetto, il talento è ammorbidirsi e diventare un’altra. Io ho saputo farlo, ma non sempre me l’hanno riconosciuto. È il mio destino e forse, è colpa mia che non ho saputo raccontarmi o spiegarmi bene. In Spagna sono Raffaella, qui sono la Carrà».
Cosa se ne deduce?
«Che io non sono né Raffaella né la Carrà. Sono Raffaella Carrà. Questa sono. E allora, che cazzo vuoi da me?. (Ride)».
Si è sentita invidiata a volte?
Come Gino Landi ha fatto incidere su una targa che mi ha regalato: “In Italia ti perdonano tutto meno il successo”. Vorrei un successino, così vivo tranquilla. L’invidia degli altri è dura da sopportare. C’è chi mi ama e chi devi criticarmi per farmi soffrire. Pazienza».
Cos’altro è duro?
«Una critica gratuita e cattiva. Un complimento lo dimentica, una critica feroce te la porti dietro per tutta la vita».
Ai tempi in cui si mise con Sergio Japino scrissero cose tremende, la più gentile della quali era “La bella incontra la bestia”.
«Furono cattivi, anzi mostruosi ed è inutile dire una balla: Sergio ne soffrì. Che poi posso dirle? E Con lui ho tantissime cose in comune e Sergio, tra l’altro, non è mai stato brutto. E ho con lui tantissime cose in comune, anche impensabile. Qualcuno ha mai fatto un appunto del genere su Costanzo a Maria De Filippi? Non credo».
Quante volte si è innamorata davvero?
«Lei mi è anche simpatico, ma questi sono cavolacci miei».
Cosa è importante nell’amore?
«Ridere e non farsi troppe domande. Può essere una storia di tre giorni o lunga tutta la vita, ma se inizi a chiederti quando durerà è gia finita».
Con Frank Sinatra non iniziò neanche.
«Ma senza attrazione fisica, cosa vuole che inizi? Lui era molto simpatico, ma non mi piaceva. Non volevo essere la pupa del gangster. Mi aveva fatto arrivare una collana. “Devi prenderla” mi dissero perentori. La misi dentro un portacenere».
Mi dica almeno se ai maschi si è approcciata con slancio o con diffidenza.
«Con enorme diffidenza. Mio padre aveva lasciato mia madre e non lo vedevo mai. Non mi fidavo di nessuno, soprattutto dei ragazzi giovani, di quelli della mia età. Infatti, il mio primo grande amore, Gianni Boncompagni, aveva 11 anni in più di me».
Le manca?
«Molto. Avrei voglia di parlargli, di andare da lui. Non si può più e allora, anche se non vado in chiesa, ci parlo lo stesso pregando. Prego tutti i giorni, non solo per lui.
Che rapporto ha con la malinconia?
«È un sentimento dolce, bello e rilassante. Per indole, indietro guardo poco. Cerco di stare nel mio tempo. Non sono mai state triste o depressa per il mio lavoro, ma per i dolori familiari o per i fatti dell avita. Saper che 40 migranti stanno male o che nessuno si mobilità per l’Africa, mi fa stare male».
Nel 2013 aveva detto di credere nella rivoluzione di Beppe Grillo. Oggi?
«Si sono resi conto anche loro che criticare è più facile che fare le cose. Ora abbiamo questa cosa gialloverde e io credo che tutti dovremmo augurarci che funzioni al meglio. Spero che abbattano la burocrazia e che si facciano sentire duramente in Europa. Non devono salire Di Maio e Salvini con i panini, ma tutto il Parlamento. E non per dire a Juncker che beve troppo, ma per far capire che di questa storia dei migranti devono occuparsene tutti».
Se ripensa agli inizi cosa le viene in mente?
«Una telefonata a mia madre. “Mi hanno invitato al Festival di Venezia per La lunga del notte del ‘43 di Florestano Vancini”. “Ti servirà un vestito”. Andammo a Rimini, in una casa di moda. Mi comprò un abito bianco e dei sandaletti sottili. Avevo i capelli ondulati e mi presentai in Laguna con un toupè altro otto metri. All’inizio della scalinata, rovino a terra e faccio un ruzzolone incredibile. Mi rialzò Gabriele Ferzetti. Iniziò tutto così».
Ha rimpianti?
«Smisi di danzare tropo presto. Quest’estate ho visto su Rai 5 la bayadère con Roberto Bolle e Zlatana Zhkharova. Mi sono commossa. Ho chiamato Sergio e gli ho detto: “Come ho potuto? Guarda questi che hanno fatto. E io?».
Lei ha cantato uno dei pezzi più venduti del mondo.
«Pensi che A far l’amore comincia tu non l’avevo neanche capita. A Bracardi dissi: “Ancora un’altra sambina?”».
A Roma c’è stata una mostra con alcuni suoi vestiti di Luca Sabatelli francamente incredibili.
«Non mi hanno avvertita, non ne sapevo niente. Un giorno ricevo una telefonata dalla curatrice che mi chiede se posso prestare un mantello pazzesco per l’allestimento».
Risposta?
«Trasecolo: “Non crede che avrebbe dovuto farmi una telefonata, almeno?”. “Ma siamo ancora in tempo, ci sono tutti i suoi vestiti dice lei”. E io: “Lei ha i miei vestiti, ma si è dimenticata la persona che era dentro a quei vestiti. Per questo non le do il mantello né voglio sapere niente della mostra”. Quella frasettina mi è venuta proprio bene. Mi è uscita bene. Mi è venuta dal cuore. (Qui Raffaella arrota l’accento emiliano nda)
Chi sente di poter diventare ancora?
«Una vecchiettina simpatica».
Cosa direbbe oggi Raffaella a Raffaella Carrà?
«Hai ballato, hai cantato e hai danzato. Adesso resta lì che io mi riposo».
Da ansa.it il 15 luglio 2021. La giunta comunale di Madrid ha approvato la proposta di dedicare una piazza della capitale spagnola a Raffaella Carrà. Lo riporta il sito del quotidiano El Diario. Tutti i partiti hanno votato a favore tranne Vox che si è astenuto. L'iniziativa era stata presentata da Más Madrid "per valorizzare la memoria di questa donna, cantante, compositrice, presentatrice, ballerina, coreografa e icona di riferimento per tutti i madrileni e le madrilene e in particolare per la comunità LGTBI +".
Da “la Repubblica” il 22 luglio 2021. Caro Merlo, ritengo che la Rai debba smetterla di "importunare" artisti, ahimè, scomparsi. Manda in onda, con disarmante neutralità d'animo, puntate di una trasmissione del 2019, con protagonista la compianta Raffaella Carrà. Un conto è il ricordo sull'emozione della morte, ma altra questione è "sfruttarne" la memoria per la messa in onda SETTIMANALE di "A raccontare comincia tu". Possibile che non ci sia altro da trasmettere? Il rispetto che fine ha fatto? Francesco Colella - Napoli
Risposta di Francesco Merlo
Nell'Italia della buonanima il nome "Carrà" è accompagnato dall'esclamazione "quanto ci manca!". E a furia di dirselo, la Rai ha finito col credere davvero che "Carrramba" e "Quant' è bello far l'amore da Trieste in giù" siano capolavori senza tempo. Perciò la Rai rimanda in onda Raffella trattandola da viva. Ma sono lapidi cimiteriali, pietre tombali che non rispettano la sua bravura e non rendono un bel servizio alla sua memoria. E finalmente tutti si accorgono che ingigantendola l'hanno nanificata.
Candida Morvillo per il "Corriere della Sera" il 29 settembre 2021. Lo spettacolo che Fabio Canino riporta in scena a distanza di vent' anni aveva divertito tantissimo Raffaella Carrà: «S' intitola Fiesta e vi s' immagina che tutti gli anni, il 18 di giugno, data di nascita di Carrà medesima, tre amici s' incontrino dando una festa perché per loro è come il Santo Natale da celebrare con tutti i crismi». Quando il 5 luglio scorso Raffaella è mancata senza preavviso, Fabio Canino aveva pensato di sospendere le recite previste dal 26 ottobre al 28 novembre alla Sala Umberto di Roma, con la regia di Piero Di Blasio. Alla fine, ha deciso di andare avanti «perché tutti fanno gli omaggi postumi, ma questo era un omaggio da viva e lei, dopo, ha sempre partecipato in qualche modo a tutto quello che ho fatto».
Come nasce la sua passione per Raffaella Carrà?
«Per me, è sempre stata la soubrette della porta accanto: da bambino, m' immaginavo che era la vicina che bussa alla porta, apri e c'è lei con le sue spalline che dice: ho finito il sale. La guardavo il sabato sera dopo Carosello. Non sapevo cosa volesse dire "fare spettacolo" ma la vedevo ballare, vedevo i costumi e quella strana cosa mi piaceva. Da lì, ho studiato recitazione, ho fatto teatro. E sempre, se la mattina mi sveglio triste o arrabbiato, canto le sue canzoni e mi cambia l'umore. Però, quando ho scritto Fiesta, non ci tenevo a conoscerla».
Perché mai?
«Il terrore, se hai un idolo, è che ti deluda. Insomma, andiamo in scena e, idealmente, la volevo invitare, ma temevo che a lei non piacesse lo spettacolo o che a me non piacesse più lei. Le avevo inviato una locandina e lei me l'aveva rimandata autografata, pensavo fosse il massimo possibile. Poi, una sera, ci manda le sue cugine. Dicono: buonasera. Con l'accento romagnolo, e portano i saluti di Raffaella. Dopodiché, una mattina, fuori dal teatro vedo un camion della Rai con la parabola. Il Colosseo, un piccolo teatro off, tutto tirato a lucido: con le piante, le maschere vestite da maschere anziché in jeans. Mah...Era tutto molto strano. Chiedo che ci fa la Rai lì fuori e dicono è per delle riprese di Capodanno. Salgo sul palco e si accendono luci che non erano le nostre, entrano delle telecamere e sento la voce di Raffaella che dice: Carràmba che sorpresa! Era lei in diretta. Mi sono sentito come se a Sergio Castellitto quando faceva Padre Pio apparisse Padre Pio in persona».
Dovevate stare in scena tre settimane e ci siete rimasti tre anni.
«E lei venne a vederci. Riservò tutto il teatro per sé e i suoi amici, c'erano Sergio Japino, Gianni Boncompagni, Marisa Laurito... E volle pagare i biglietti. In un punto in cui faccio la risata grossa come lei, mi sentivo in imbarazzo, invece la faccio e la sento rifare dalla platea: era lei, l'originale. Nacque un rapporto molto bello, all'inizio più leggero. L'anno dopo, fece Sanremo e volle me e gli altri due attori tutte le sere al Dopofestival. Mi fece avere il pass per assistere a tutte le blindatissime prove. Io in tv avevo fatto poco, non mi conosceva nessuno, ma lei ogni volta che provava qualcosa, mi guardava e chiedeva come andava. Poi scrissi con Roberto Mancinelli il RaffaBok , adesso ripubblicato da Mondadori. Lei mi disse che aveva comprato 40 copie da regalare agli amici. Dopo, volle venire ospite anche a Cronache Marziane: una cosa non facile: noi eravamo Mediaset, lei Rai».
Perché Raffaella è così iconica per il mondo Lgbtq?
«Non lo è solo per loro. È un'icona e basta. Perché metteva impegno in tutto. Perché è unica e inimitabile. Solo lei poteva mettere quelle spalline che usano giusto gli atleti del Superbowl».
Com' era fuori dalla tv?
«La incontravo a cena da Gianni o da Barbara Boncompagni, non eravamo mai più di cinque o sei: se c'era troppa gente, lei non usciva, e chiedeva sempre chi fossero gli ospiti. Cominciava a raccontare Gianni: ti ricordi quella volta all'ambasciata di Francia? O quando eravamo in Cile? Gianni era il mattatore e lei il contraltare, quella che diceva: ma no, questo non si può raccontare. C'era una storia su Gianni che, a una cena di gala, rispediva indietro tutti i piatti e Raffaella che cercava di evitargli le figuracce. In quelle serate, capivi quanto lei fosse amata in tutto il mondo: in Cile, a Viña del Mar, aveva cantato in uno stadio pieno come se ci fosse Madonna e la ressa era tale che avevano dovuto farla uscire nella cesta della biancheria. Un'altra volta, la portarono fuori con l'ambulanza. Gianni sosteneva che Frank Sinatra, quando aveva girato con lei Il colonnello von Ryan, si aspettava che fosse una preda facile, ma lei usciva dal set e se ne tornava a casa con la mamma».
Quando avete scattato la foto di questa pagina?
«Alla prima cena da Barbara. Mi vergognavo a chiederlo. A fine serata, Raffa mi guarda: dai, facciamoci questa foto».
Marco Giusti per Dagospia il 6 ottobre 2021. Nessuno conosce il corpo di Raffaella Carrà come Gabriele Mayer, che l’ha vestita, sia da sarto che da costumista, ininterrottamente per oltre cinquant’anni, diciamo da “Ciao Rudy” agli ultimi show televisivi, realizzando tutti i suoi vestiti per le varie edizioni di “Fantastico”, Canzonissima”, “Pronto, Raffaella?”, sia i suoi sia quelli ideati da Corrado Colabucci e Luca Sabatelli, due dei suoi costumisti storici. Perfino per l’omaggio che Penelope Cruz ha dedicato a Raffaella nel nuovo film di Emanuele Crialese, “L’immensità”, ambientato nella Roma degli anni ’70, è stato chiamato Gabriele Mayer per la realizzazione dei “nuovi” vestiti della Carrà disegnati da Massimo Cantini Parrini. Già assistente di Piero Gherardi fin dai tempi de “La dolce vita”, “Otto e mezzo”, “Giulietta degli spiriti”, “L’armata Brancaleone”, Gabriele Mayer, fin da giovanissimo, ha diretto la sartoria ereditata dal padre, trovandosi a realizzare centinaia di costumi per il cinema, il teatro, l’opera. Specializzandosi però nella vestizione delle star, Sophia Loren, che ha vestito fino all’ultimo film, Ursula Andress, incontrata ai tempi di “La decima vittima”, Claudia Cardinale, Mariangela Melato, per Gabriele è stato naturale l’incontro con le stelle delle tv come Renato Zero e Raffaella Carrà.
Da quanti anni vesti e segui Raffaella?
Io l’ho conosciuta durante lo spettacolo del Sistina “Ciao Rudy” nel 1965. Da lì comincio a vestirla come sarto. Lo specifico perché il mio lavoro è quello della sartoria. Direttore della sartoria. Poi ci siamo ritrovati in un film della serie di “Arsenio Lupin” con Georges Descrières del 1971, dove l’ho vestita come costumista reperendo i costumi anche da Tirelli.
E da lì cosa scatta?
Scatta una simpatia, una empatia che poi, ritrovandoci in televisione con il primo “Fantastico”, si è trasformata in un vero rapporto di stima, di fiducia da parte sua nei miei confronti, per cui, da allora in poi, la mia era l’unica sartoria che poteva realizzare i suoi costumi.
Sapevi quindi tutto del corpo e della mente di Raffaella?
La sua prerogativa, non la principale, perché ne ha avute tante altre, era di avere un team di persone delle quali potesse fidarsi. Quindi come me, c’erano anche il suo parrucchiere, il suo truccatore, il suo coreografo, tutte persone che le davano sicurezza nell’ottenere il top che voleva.
Le idee su come vestirsi, erano tue, dei suoi altri costumisti o anche sue?
Penso che su un corpo un costumista deve lavorare non per migliorare, ma per esaltare quel corpo. Questo è il lavoro che fa un costumista, soprattutto nei confronti di una star, di una soubrette, di una persona che sta in televisione e deve attirare l’attenzione del pubblico. Per cui va fatta attenzione nella ricerca delle cose che possono starle meglio, ripeto, non per modificare, ma per esaltare la persona. Evitando tutto quello che esteticamente possa darle fastidio.
Esempio?
Che ne so, cosa poteva avere Raffaella? Un po’ di spalla scesa, di spalla non proporzionata al suo corpo? In certi casi la moda ci ha aiutato, e abbiamo messo le spalline, ma forse erano eccessive e piano piano sono state diminuite. C’è stata sempre quell’attenzione al fatto che anche il minimo dubbio che lei potesse avere sul suo corpo dovesse essere aiutato.
Sulle gambe hai lavorato?
Una gamba è quella che è. Bisogna però cercare di allungarla, con una calza che arrotondi la gamba, faccia un’ombra, ci sono tanti piccoli accorgimenti…
I suoi punti forti quali erano rispetto ai costumi?
Ma sai, i suoi punti forti erano questi vestiti che potevano avere delle difficoltà a essere portati normalmente, e che lei invece portava come se fossero dei costumi da bagno. Nel senso che non dava peso all’importanza del costume. Veniva fuori una persona che poteva anche indossare un costume pesantissimo ma comunque saltava e ballava. E riusciva a farlo. Questo dava un senso di leggerezza a tutto quanto.
Negli anni poi sarà cambiata fisicamente…
Devo dire che durante gli anni che ci siamo conosciuti, da stagione a stagione, da anno a anno, quando si cambiavano i costumi ci chiedeva, proprio all’inizio: Come sono cambiata? E io constatavo che le sue misure invece erano sempre le stesse. Per cui sì c’è stato un periodo che sarà stata tre centimetri in più di vita. Da 64 a 67… non è che fosse un dramma. Poi, quando cominciava uno spettacolo, iniziava un mese prima con la dieta e la palestra. E ha sempre ballato, per cui le sue tre quattro ore di mattina a fare ballo c’erano. Ogni giorno. Era una stakanovista.
Hai detto che quando si vestiva era una specie di torero.
Beh, sì. Io l’ho sempre detto, si veste come un torero. La vestizione prima dello spettacolo, prima di andare in televisione, per lei era un rito. Prima doveva rilassarsi, un quarto d’ora di riposo mentale, in maniera che inquadrava la trasmissione, cercando tutti i suoi punti. Due minuti in bagno, arrivava vestita, la sua medaglietta sulla calza contenitrice, perché era molto religiosa. Si arrivava col vestito la lampo aperta, la lampo delle maniche aperte, in maniera che tutto fosse semplice da mettere e nel caso doveva capire anche come toglierselo, perché magari avrebbe dovuto cambiarlo di corsa durante la trasmissione. Già sapeva che quel vestito aveva delle situazioni particolari. E io ero con lei.
Era motivata?
Motivata e concentrata, tanto è vero che tutti noi eravamo nel silenzio più assoluto. Giusto dire sì, guarda ti sto mettendo la scarpa o dammi il piede, non c’era mai un’interruzione.
Quali erano i suoi colori, quelli che secondo lei o secondo voi le stavano meglio?
Lei ha sempre amato il rosso, il bianco, il nero. Ma amava anche il blu. C’è stato un periodo che ha amato anche il fucsia, magari il rosa shocking, alcune volte il giallo. Quello che non voleva era il viola, assolutamente no, un altro colore che evitava era il verde.
Per quanto riguarda le stoffe, i tessuti…
Noi costumisti consigliavamo assolutamente di adoperare delle stoffe morbide, leggere, che si adeguavano al corpo, che non ingombrassero. Questa è una cosa che un costumista fa normalmente. Cerca di alleggerire il corpo senza dare spessori oltre quelli che servono.
Rispetto ai suoi costumisti più celebri, Corrado Colabucci e Luca Sabatelli, oltre a te, che differenze trovavi?
Ognuno di questi costumisti, compreso me, ha avuto un carattere personale. Io adesso, dopo tanti anni, nel vedere i lavori fatti da l’uno piuttosto che dall’altro capisco meglio le diverse personalità, ma comunque, in fondo, esce sempre Raffaella… nel senso che quello che il costumista può aver variato è il tipo di gusto da applicare su quell’icona. Qualcuno l’ha fatta più signora. Sabatelli l’ha fatta più moda, fashion, ma era comunque sempre e solo lei.
Più sexy chi l’ha fatta?
Tutti quanti l’abbiamo fatta sexy, dal momento che c’era da fare un costume da balletto, più o meno siamo riusciti tutti a renderla sexy. Io feci per lei un balletto tutto su un treno, “Starlight Express”, dove era un po’ punk…
Quali sono gli abiti più iconici di Raffaella?
Uno di cui ci si ricorda bene è l’abito bianco con le maniche fatte a benda, a fasce. Quella era di Ruffini, mi pare. Ce n’è uno che non si vede tanto nei giornali, perché lei lo ha adoperato sia in Italia che all’estero… lo facemmo anche con Sabatelli in quegli spettacoli che faceva all’estero, in Spagna, in Brasile
Era un vestito che cambiava colore. Cominciava dal nero e poi si toglieva la gonna e diventava rosso, da rosso diventava bianco… Quello secondo me era un vestito abbastanza teatrale, da rivista, e per me era abbastanza inventato. Quello lo ha fatto una volta Sabatelli una volta l’ha rivisto Colabucci.
Famoso è quello di “Fiesta” di Sabatelli, quello rosso, quella della statutta di Raffaella.
Fra quelli tuoi, a quale sei più affezionato?
Io le feci un costume ispirato a quello di Bob Mackie, che faceva costumi strepitosi da spettacolo di rivista, c’era una calza a rete trasparente, un body quasi trasparente, ricamato di rosso con tutte fiamme. Poi ne feci un altro con delle lingue rosa, argento e nere con quel criterio lì, ma ad abito. Le lingue finivano come una gonna più o meno lunga.
Quando fa in tv Pronto, Raffaella?” nelle stagioni ’84-’85 e ’85-’86, tu la vesti tutti i giorni per quanto tempo?
Erano 180 giorni all’anno… Di base c’erano i cinque vestiti della settimana, poi aveva una due canzoni a settimana, da due a tre balletti. Quindi, diciamo dieci vestiti a settimane. Fate il conto per 180 giorni…
In tutto quante ne avrai realizzati?
Una quantità industriale. Tra i miei e quelli degli altri costumisti. Diciamo tutti.
Lei com’era, voleva sperimentare cose nuove o tendeva alla ripetizione?
Ogni tanto veniva fuori dicendoci di cambiare qualcosa. Di solito quello che ci veniva proposto era di dare un po’ un’impostazione, di trovare una formula. Soprattutto per gli abiti da balletto che seguivano sempre la cosa del body. Sabatelli, ad esempio, per “A far l’amore da Trieste in giù”, ha disegnato il maglione di Zizi Jean Marie, non perché la si volesse emulare, non c’era questa intenzione, era solo la necessità di variare.
E si fidava molto di voi?
Assolutamente. La fiducia ce l’ha data col fatto che ha sempre richiamato tutti. Sia Corrado Colabucci, che per un periodo non ha fatto più i suoi costumi. Sia Sabatelli, che per un po’ non ha fatto i costumi e poi lo ha richiamato. Io però sono sempre stato lì con lei.
Lei metteva bocca sui vostri abiti?
Alcune volte sì… L’abitudine di me sarto era anche quella di portare l’abito in prova, a quell’epoca si provavano i costumi, non come adesso, così mi portava avanti in modo che, anche a variarli al volo, se ce n’era bisogno, si faceva in fretta.
Tu hai vestito le più grande star del cinema, Sophia Loren, Ursula Andress, la Cardinale, Romy Schneider. Lei cosa aveva di diverso rispetto a loro?
Lei è sempre stata vestita in maniera che fosse Raffaella Carrà, mentre nel cinema ognuna di queste dive doveva vestire un personaggio. Lì entrava un’esigenza di soluzione del personaggio del film, del racconto. Anche quando c’era un balletto particolare, lei era sempre Raffaella. Mentre vestendo un’attrice, pensiamo a la Cardinale nella Ragazza di Bube, lei era quel personaggio là, con le sue esigenze. Ne Le fate era una zingara, vestita da Piero Gherardi.
Nel passaggio dal bianco e nero al colore in tv?
Nel cinema c’era un problema tecnico, che il bianco sparava e quindi invece del bianco si adoperava il grigio perla o il giallo, ma ti parlo degli anni 50 e 60. Allora non si adoperava proprio il nero perché era troppo fondo, non si vedevano i volumi quindi si adoperava il blu scuro. E il risultato era nero, ma col colore in televisione non c’è stato nessun cambiamento col tempo del bianco e nero.
Rispetto a Zero, che è un’altra grande star della tv che ha vestito e vesti tuttora, che differenza c’era? E’ più esigente?
Non posso parlare di esigenza. Mentre con Raffaella uno poteva mettere il suo stile, con Renato la cosa era diversa, perché si deve trovare un collegamento estetico con la sua immagine. Lui veniva da me, dicendomi: ho queste canzoni, però vorrei che fossi vestito con un frac, un tight, una tunica.., A quel punto, con queste indicazioni, io andavo e mi cercavo delle idee un po’ surrealiste, dove potevano essere prese e annotate delle cose che facevano subito la particolarità di quel determinato pezzo, di quella canzone. Questa è stata la mia ricerca su Renato.
Per cui non trovo tanta differenza. Forse perché sono abituato a trovare attorno a una persona le cose che gli stanno meglio. Se tu mi dovessi chiedere quale cosa mi sta meglio io dovrei trovare la formula per aiutarti a sentirti meglio. E’ un’abitudine che mi è venuta dal teatro, dallo spettacolo. Un attore deve sentirsi comodo nella vestizione per il personaggio che fa. Quando un attore mi dice: io in questo vestito non mi ci sento perché c’è una cosa che mi disturba, c’è qualcosa che contraddice quel che sto facendo, io devo aiutarlo. Magari prima dell’esibizione. Dopo devo solo migliorare il tiro.
Avendo cominciato nel 1965 e avendola vestita fino a una decina d’anni fa, negli anni era cambiato il rapporto che aveva con gli abiti?
E’ rimasto uguale. Quando incontri queste personalità, perché sono personalità precise e hanno un loro percorso, ti accorgi subito che non hanno dubbi. A volte, quando mi trovo con certe attrici del teatro o del cinema che hanno dei dubbi sui loro corpi, io mi meraviglio perché avendo lavorato sempre con delle personalità forti come Mariangela Melato o le Kessler… loro sanno quello che vogliono.
Se tu porti un bozzetto, loro sanno che entreranno in quel personaggio. Quando c’è un’attrice che non sa come vestirsi perché magari preferisce un certo tailleur ma non sa dire come è, c’è il vuoto… Invece lei era molto sicura. E anche Renato, anche le Kessler. Ricordo Romy Schneider. Io l’ho vestita una volta e mi è bastato. Era una che aveva dei dubbi per come potesse essere usata dal suo regista, ma non certo su come potesse essere vestita.
Hai vestito anche Mina…
Mina era Mina che si faceva vestire. In quel caso poi c’era Piero Gherardi dietro, come dire una fiducia bendata… non c’era nessun dubbio, E infatti i caroselli di Mina sono quelli di Gherardi. Gli altri non te li ricordi. Anche se è stata vestita da firme illustri. In quel caso era la moda applicata a lei. Con Gherardi invece lei era diventata moda, in un certo senso. Se li vedi oggi quei vestiti, ho delle fotografie bellissime, sono ancora di moda oggi…
Perché pensi sia diventata un’icona così duratura, oltre ogni aspettativa…
Sai, c’è stata una cosa che lei ha dato. Ha dato simpatia, senso dell’amore, e non è mai stata competitiva, semmai sono le altre che hanno voluto sentirsi in competizione con lei. Ma lei non è voluta mai entrata in competizione con nessuna di loro. E’ stata una che ha portato avanti un discorso di capacità, di bravura. Reputo il suo lavoro di talento, perché per arrivare a quella sua formula ci vuole un grande talento. Poi, dicono… non sa ballare… non sa cantare… Non è vero. Le ha fatte le cose, e anche bene. E anche in maniera spiritosa, la rivediamo adesso in tv. Penso che questi pseudo-colti l’abbiano giudicata anche troppo. Lei era lei.
Perché pensi sia stata così importante per la comunità gay?
Lei ha creato un simbolo di donna, bella, elegante, ricca come immagine, senza dare peso a una cosa o all’altra, non è mai stata contro qualcuno o qualcosa, non si è mai portato questi pesi sulle spalle. Un omosessuale cosa può vedere, amare in una persona così? La stravaganza, la libertà di esporsi. Perché non doveva essere amata? Lo era. Ma non solo dagli omosessuali. Dalle donne, dagli uomini, perfino dai bambini.
· E’ morto il regista Paolo Beldì.
Da huffingtonpost.it il 3 luglio 2021. E’ morto improvvisamente nella sua casa di montagna a Magognino vicino a Stresa il regista Paolo Beldì, 66 anni, anima di tante trasmissioni di Fabio Fazio, di cui aveva firmato programmi iconici da Quelli che il calcio ad Anima Mia e i Festival di Sanremo, ma anche di Adriano Celentano e di tantissimi altri. Novarese, figlio di un pubblicitario, Beldì aveva esordito come comico in radio per poi passare alla regia negli anni 80 nella neonata Fininvest per programmi di intrattenimento e sportivi da Banzai a Mai dire Mundial, lui super appassionato di calcio e tifoso sfegatato della Fiorentina. Nello stesso periodo firma come autore le musiche originali di Drive in per quattro anni con Roberto Negri ed esordisce nel varietà grazie ad Antonio Ricci che lo chiama a dirigere prima Lupo solitario e dopo Matrjoska. Negli anni Novanta passa alla Rai, regista tra gli altri di Mi manda Lubrano e poi di Svalutation con Celentano. Ed è proprio con una trasmissione Rai, Diritto di replica insieme a Fabio Fazio e Sandro Paternostro, che viene fuori quella che sarà sempre la sua firma: l’indugio sui dettagli, da un calzino abbassato a una scarpa, particolari che creano il caso come quando riprese uno spettatore addormentato nella platea di Sanremo. In trent’anni di carriera è dietro la macchina da presa di tantissimi programmi storici tante volte con Celentano che segue in Francamente me ne infischi (1999) Rockpolitic (2005) e La situazione di mia sorella non è buona (2007) . Sua la regia di tre Festival di Sanremo, i due condotti da Fazio e poi nel 2006 per Panariello. Ha scritto anche tre libri, il primo nel ’96 (“Perché inquadri i piedi?”) dedicato proprio alla sua scelta di curare i particolari, gli altri alla sua passione viola. Beldì è stato trovato senza vita nella sua casa di Magognino, una frazione di Stresa nel Verbano Cusio Ossola. A dare l’allarme è stata un’amica. Il regista era atteso al circolo di Levo per seguire la partita della nazionale italiana contro il Belgio al circolo di Levo, ma non si era fatto vedere. Nato nel 1954, avrebbe compiuto 67 anni il prossimo 11 luglio.
Paolo Beldì trovato morto in casa: mistero sulle cause. Addio allo storico regista di Fabio Fazio. Libero Quotidiano il 03 luglio 2021. Paolo Beldì, regista di tante trasmissioni televisive, è morto improvvisamente nella sua casa di montagna a Magognino vicino a Stresa. Aveva firmato programmi iconici di Fabio Fazio da Quelli che il calcio ad Anima Mia e i Festival di Sanremo, ma anche di Adriano Celentano e di tantissimi altri. Probabimente Beldì ha avuto un infarto. A trovarlo senza vita, ieri sera 2 luglio, è stata un'amica che era andata a cercarlo preoccupata perché il regista non si era presentato all'appuntamento per seguire la partita degli Europei Belgio-Italia. Nato a Novara, figlio di un pubblicitario, Beldì, riporta il sito dell'Ansa, aveva esordito come comico in radio per poi passare alla regia negli anni '80 nella neonata Fininvest per programmi di intrattenimento e sportivi da Banzai a Mai dire Mundial. Nello stesso periodo firma come autore le musiche originali di Drive in per quattro anni con Roberto Negri ed esordisce nel varietà grazie ad Antonio Ricci che lo chiama a dirigere prima Lupo solitario e dopo Matrjoska. Negli anni Novanta passa alla Rai, regista tra gli altri di Mi manda Lubrano e poi di Svalutation con Celentano. Con Diritto di replica insieme a Fabio Fazio e Sandro Paternostro emerge la sua passione per i dettagli, dal calzino abbassato a una scarpa, particolari che creano il caso come quando riprese uno spettatore addormentato nella platea di Sanremo. Con Celentano ha fatto anche Francamente me ne infischi (1999), Rockpolitic (2005) e La situazione di mia sorella non è buona (2007). Sua la regia di tre Festival di Sanremo, i due condotti da Fazio e poi nel 2006 per Panariello.
Fabio Fazio in lutto, il dramma e lo sfogo tutto personale: "Sempre al mio fianco, poi l'abbiamo visto meno". Libero Quotidiano il 03 luglio 2021. La morte Paolo Beldì, regista di note trasmissioni televisive, ha scosso anche Fabio Fazio che con lui ha lavorato fianco a fianco. Il regista è scomparso improvvisamente nella sua casa di montagna a Magognino vicino a Stresa. Aveva firmato programmi iconici di Fazio come Quelli che il calcio, Anima Mia e i Festival di Sanremo. "Abbiamo lavorato insieme dieci anni straordinari - ha spiegato il conduttore raggiunto dall'Adnkronos -. Avevamo raggiunto un'intesa pazzesca a "Quelli che il calcio", lui con le immagini partecipava al dialogo, commentava, interveniva. La sua regia parlava ad alta voce, quasi sempre ironizzando". A presentarlo fu Bruno Voglino, durante Diritto di replica su Rai3: "Lui - ha proseguito Fazio - inventò una cifra stilistica di racconto da grande appassionato di televisione, cresciuto alla scuola di Beppe Recchia, dove la regia aveva una funzione fondamentale nel racconto. Cifra che divenne fondamentale in Quelli che il calcio. Era un uomo molto ironico ma anche molto solitario. Grande appassionato di musica e suonatore di chitarra". La sua Bibbia? Ovviamente i Beatles, racconta chi come Fazio lo conosceva bene. E ancora: "Fu Paolo a dirmi ti vedrei benissimo in un programma con Claudio Baglioni". Così nacque Anima Mia: "Naturalmente quando feci i miei primi Sanremo, Paolo era al mio fianco. Poi quando lasciai Quelli che il calcio per dedicarmi al talk ci salutammo". La sua scomparsa all'età di 66 anni non può che causare profonda amarezza nel conduttore che ricorda come "la sua regia era fatta di grande qualità, una qualità che passava anche per le scene costose e per un numero di telecamere notevole e credo che anche per questo lo abbiamo visto sempre meno. Perché oggi è tutto all'insegna del taglio, del risparmio e del consumo istantaneo". Uno sfogo, questo, che sembra quasi una frecciata alla tv.
Lutto per Quelli che il calcio e Mai dire Banzai: morto Paolo Beldì. Novella Toloni il 3 Luglio 2021 su Il Giornale. Il regista di "Mai dire Banzai" e "Rockpolitik" doveva assistere alla partita Belgio - Italia insieme ad alcuni amici in un bar ma non si è mai presentato. I soccorritori lo hanno trovato morto in casa. È morto all'età di 66 anni Paolo Beldì. Il regista di trasmissioni Rai e Mediaset di grande successo è stato trovato morto nella sua casa vicino a Stresa. A trovarlo privo di vita sono stati i soccorritori, ma sulle cause del decesso c'è ancora il massimo riserbo. Secondo le prime indiscrezioni l'uomo potrebbe essere morto a causa di un arresto cardiaco. Ieri sera, venerdì 2 luglio, gli amici lo aspettavano al circolo di Levo per vedere la partita Belgio-Italia di Euro 2020. Ma il regista al locale non è mai arrivato. Preoccupati dalla strana assenza, gli amici hanno provato a contattarlo, ma non ricevendo alcuna risposta è scattato l'allarme. Come riporta la Stampa, i soccorritori hanno fatto irruzione nella sua casa di Magognino, piccola frazione di Stresa, dove Beldì è stato trovato morto. Sarà l'autopsia a stabilire le cause del decesso, ma per molti si sarebbe trattato di un infarto. Paolo Beldì avrebbe compiuto 67 anni il prossimo 11 luglio. Folgorante la sua carriera nel mondo della televisione. Negli anni '80 Beldì fu uno dei registi di punta di Fininvest curando la regia di programmi cult come "Mai dire Banzai" e "Mai dire mundial". L'incontro con Antonio Ricci gli aprì le porte per la direzione del programma "Lupo solitario" e successivamente "Matrjoska". Negli anni '90 passò in Rai occupandosi della regia di trasmissioni di punta come "Mi manda Lubrano" e "Svalutation" - che ideò insieme ad Adriano Celentano. Insieme al molleggiato lavorò ancora nel 1999 con "Francamente me ne infischio" e nel 2005 con "Rockpolitik". L'attenzione ai dettagli e le riprese sui particolari furono il suo marchio distintivo. Nel 1993 ideò e diresse "Quelli che il calcio" fino al 2009, vendendo passare i vari conduttori da Fabio Fazio a Simona Ventura. L'amicizia con Fazio lo portò a collaborare con il conduttore in nuovi progetti televisivi come "Anima mia" del 1997 e nel 1998 fu il regista di "Cocco di mamma" su Raiuno. Sua la regia di ben tre edizioni del Festival di Sanremo: nel 1999 e nel 2000 sempre con Fabio Fazio e nel 2006 con Giorgio Panariello. Da Gene Gnocchi in "La grande notte del lunedì sera" a Cochi e Renato con "Stiamo lavorando per noi" fino a "Grazie a tutti" nel 2009 con Gianni Morandi, sono decine i conduttori e gli artisti che sono stati diretti negli anni da Paolo Beldì. Varietà, spettacoli musicali e di intrattenimento, Beldì ha spaziato in tutti i campi con la sua direzione. Nel 2010 diresse lo show di Gigi D'Alessio su Rai 1 "Gigi questo sono io" e "Voglia d'aria fresca" con Carlo Conti. Mentre nel 2011 tornò a dirigere le riprese di "Quelli che il calcio" con Victoria Cabello fino al 2014. Nel 2015 entrò nella giuria di esperti del Festival di Sanremo grazie alla chiamata di Carlo Conti e diresse il talk show "Ballarò".
Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perché non c’è niente di più bello delle cose frivole e leggere che distolgono l’attenzione dai problemi
Il regista aveva 66 anni. È morto Paolo Beldì, regista di Sanremo e dei programmi iconici di Fazio e Celentano. Redazione su Il Riformista il 3 Luglio 2021. Paolo Beldì, regista celebre per essere stato l’anima di celebri trasmissioni come "Quelli che il calcio", "Anima mia", ma anche per aver guidato a tre edizioni del Festival di Sanremo, è morto oggi nella nella sua casa vicino Stresa. Beldì, 66 anni, è stato trovato privo di vita dai soccorritori: la causa più probabile è un arresto cardiaco. Negli anni Ottanta Beldì fu uno dei più attivi registi della neonata Fininvest, sia per programmi sportivi sia di intrattenimento, come ad esempio ‘Mai dire Banzai’ e ‘Mai dire mundial’. Nello stesso periodo firmò come autore le musiche originali di Drive in per quattro anni con Roberto Negri. Deve il suo esordio nel varietà ad Antonio Ricci che lo chiamò a dirigere prima Lupo solitario e dopo Matrjoska. In seguito passò alla Rai, dove dal 1990 è stato il regista di Mi manda Lubrano e di altre trasmissioni, firmando ‘Svalutation’ con Adriano Celentano e ‘Su la testa’ di Gino e Michele con Paolo Rossi. Con "Diritto di replica" insieme a Fabio Fazio e Sandro Paternostro si fece notare per l’indugio sui dettagli, scarpe comprese.
Dal 1993 al 2009 è stato l’ideatore e regista di "Quelli che il calcio", prima condotto da Fazio e in seguito da Simona Ventura. Sempre nel 1997 diresse "Anima mia", trasmissione musicale di Fabio Fazio e Claudio Baglioni. Nel 1998 scrisse e diresse "Qualcuno mi può giudicare" sulla biografia di Caterina Caselli. Nel 1998 è stato il regista di "Cocco di mamma", su Raiuno. Nel 1999 affianca di nuovo Celentano con "Francamente me ne infischio" ed ancora nel 2005 con ‘Rockpolitik’ e nel 2007 con "La situazione di mia sorella non è buona". Beldì ha avuto l’incarico di curare la regia anche per tre edizioni del Festival di Sanremo: nel 1999 (Fabio Fazio), nel 2000 (ancora Fazio) e nel 2006 (Giorgio Panariello). Per Raidue diresse anche Gene Gnocchi ne ‘La grande notte del lunedì sera’ e Artù. Con Cochi e Renato invece ‘Stiamo lavorando per noi’, con ospiti Enzo Jannacci e Renzo Arbore. Nel novembre 2009 è stato il regista di ‘Grazie a tutti’, show in onda per quattro domeniche in prima serata su Rai 1, condotto da Gianni Morandi. Nel 2010 diresse in marzo lo show di Gigi D’Alessio su Rai 1 dal titolo ‘Gigi questo sono io’ e poi dal 27 aprile, sempre su Rai 1, ‘Voglia d’aria fresca’ con Carlo Conti. Nel 2011 tornò a curare la regia della trasmissione ‘Quelli che il calcio’ condotta da Victoria Cabello e sempre per Rai 2 cura la ripresa del concerto di Zucchero Fornaciari da Reggio Emilia.L’8 e 9 ottobre 2012 diresse lo show di Adriano Celentano trasmesso in diretta su Canale 5 dall’Arena di Verona dal titolo ‘Rock Economy’.Nella stagione 2013-2014 Beldì è stato per la diciottesima volta al timone di ‘Quelli che il calcio’. Nel 2015 fa parte della giuria di esperti del Festival di Sanremo, condotto da Carlo Conti. Nello stesso anno tornò a svolgere il ruolo di regista per il talk show ‘Ballarò’, condotto da Massimo Giannini. Nato nel 1954, avrebbe compiuto 67 anni il prossimo 11 luglio.
Addio a Paolo Beldì, regista dei programmi televisivi di Fazio e Celentano. Il Quotidiano del Sud il 3 luglio 2021. È morto nella sua casa vicino Stresa il regista Paolo Beldì, 66 anni. Da quanto si apprende, il regista, anima di trasmissioni come “Quelli che il calcio”, “Anima mia”, e tre edizioni del Festival di Sanremo, è stato trovato morto dai soccorritori: la causa più probabile è un arresto cardiaco. L’allarme è stato dato da amici che ieri sera lo aspettavano per vedere Belgio-Italia e non l’avevano visto arrivare. Negli anni Ottanta Beldì fu uno dei più attivi registi della neonata Fininvest, sia per programmi sportivi sia di intrattenimento, come ad esempio “Mai dire Banzai” e “Mai dire mundial”. Nello stesso periodo firmò come autore le musiche originali di Drive in per quattro anni con Roberto Negri. Deve il suo esordio nel varietà ad Antonio Ricci che lo chiamò a dirigere prima “Lupo solitario” e dopo “Matrjoska”. In seguito passò alla Rai, dove dal 1990 è stato il regista di “Mi manda Lubrano” e di altre trasmissioni, firmando “Svalutation” con Adriano Celentano e “Su la testa” di Gino e Michele con Paolo Rossi. Con “Diritto di replica” insieme a Fabio Fazio e Sandro Paternostro si fece notare per l’indugio sui dettagli, scarpe comprese. Dal 1993 al 2009 è stato l’ideatore e regista di “Quelli che il calcio”, prima condotto da Fazio e in seguito da Simona Ventura. Sempre nel 1997 diresse “Anima mia”, trasmissione musicale di Fabio Fazio e Claudio Baglioni. Nel 1998 scrisse e dirisse “Qualcuno mi può giudicare” sulla biografia di Caterina Caselli. Nel 1998 è stato il regista di “Cocco di mamma”, su Raiuno. Nel 1999 affianca di nuovo Celentano con “Francamente me ne infischio” ed ancora nel 2005 con “Rockpolitik” e nel 2007 con “La situazione di mia sorella non è buona”. Beldì ha avuto l’incarico di curare la regia anche per tre edizioni del Festival di Sanremo: nel 1999 (Fabio Fazio), nel 2000 (ancora Fazio) e nel 2006 (Giorgio Panariello). Per Raidue dirisse anche Gene Gnocchi ne “La grande notte del lunedì sera” e “Artù”. Con Cochi e Renato invece “Stiamo lavorando per noi”, con ospiti Enzo Jannacci e Renzo Arbore. Nel novembre 2009 è stato il regista di “Grazie a tutti”, show in onda per quattro domeniche in prima serata su Rai 1, condotto da Gianni Morandi. Nel 2010 diresse in marzo lo show di Gigi D’Alessio su Rai 1 dal titolo “Gigi questo sono io” e poi dal 27 aprile, sempre su Rai 1, “Voglia d’aria fresca” con Carlo Conti. Nel 2011 tornò a curare la regia della trasmissione “Quelli che il calcio” condotta da Victoria Cabello e sempre per Rai 2 cura la ripresa del concerto di Zucchero Fornaciari da Reggio Emilia. L’8 e 9 ottobre 2012 diresse lo show di Adriano Celentano trasmesso in diretta su Canale 5 dall’Arena di Verona dal titolo “Rock Economy”. Nella stagione 2013-2014 Beldì è stato per la diciottesima volta al timone di “Quelli che il calcio”. Nel 2015 fa parte della giuria di esperti del Festival di Sanremo, condotto da Carlo Conti. Nello stesso anno tornò a svolgere il ruolo di regista per il talk show “Ballarò”, condotto da Massimo Giannini. Aveva scritto anche tre libri, uno dei quali dal titolo “Perchè inquadri i piedi?”, sulla sua caratteristica di inquadrare particolari a prima vista insignificanti. Gli altri due erano dedicati alla passione per la Fiorentina, la sua squadra del cuore.
È morto Paolo Beldì, regista di programmi cult da "Quelli che il calcio" a Sanremo. il 3 luglio 2021 su La Repubblica. La sua firma è sempre stata l'indugio sui dettagli, da un calzino abbassato a una scarpa. Fabio Fazio: "Fu lui a dirmi di fare un programma con Baglioni e nacque 'Anima Mia'". Con Celentano realizzo 'Svalutation', 'Francamente me ne infischio', 'Rockpolitic' e 'La situazione di mia sorella non è buona'. È morto improvvisamente nella sua casa di montagna a Magognino vicino a Stresa. Il regista Paolo Beldì, 66 anni, anima di tante trasmissioni di Fabio Fazio, di cui aveva firmato programmi iconici da Quelli che il calcio ad Anima Mia e i Festival di Sanremo, ma anche di Adriano Celentano e di tantissimi altri. A lanciare l'allarme è stata un'amica. Il regista era atteso al circolo di Levo per seguire la partita della nazionale italiana contro il Belgio, ma non si era fatto vedere. Nato nel 1954, avrebbe compiuto 67 anni il prossimo 11 luglio. Novarese, figlio di uno dei più importanti creativi di pubblicità negli anni del boom economico (suoi numerosi marchi tra cui il più celebre è quello dei "Pavesini"), Paolo Beldì ha cominciato la sua attività come comico nelle radio locali di Novara alla fine degli anni 70, per avvicinarsi al mondo televisivo collaborando con il regista Beppe Recchia, grazie al quale, nella gloriosa televisione privata Antenna 3 Lombardia ebbe nodo di dirigere programmi condotti da personaggi come Enzo Tortora e Walter Chiari. Negli anni 80 passò nella neonata Fininvest per programmi di intrattenimento e sportivi da Banzai a Mai dire Mundial, lui super appassionato di calcio e tifoso sfegatato della Fiorentina. Nello stesso periodo firmò come autore le musiche originali di Drive in per quattro anni con Roberto Negri ed esordì nel varietà grazie ad Antonio Ricci che lo chiamò a dirigere prima Lupo solitario e dopo Matrjoska. Negli anni Novanta entrò in Rai, regista tra gli altri di Mi manda Lubrano e poi di Svalutation con Celentano. Ed è proprio con una trasmissione Rai, Diritto di replica insieme a Fabio Fazio e Sandro Paternostro, che venne fuori quella che sarà sempre la sua firma: l'indugio sui dettagli, da un calzino abbassato a una scarpa, particolari che creano il caso come quando riprese uno spettatore addormentato nella platea di Sanremo. A proposito del Festival, Beldì ha avuto l'incarico di curare la regia della manifestazione per tre edizioni: nel 1999 (Fabio Fazio), nel 2000 (ancora Fazio) e nel 2006 (Giorgio Panariello). Per Raidue diresse anche Gene Gnocchi ne La grande notte del lunedì sera e Artù. Con Cochi e Renato invece Stiamo lavorando per noi, con ospiti Enzo Jannacci e Renzo Arbore. Nel novembre 2009 è stato il regista di Grazie a tutti, show in onda per quattro domeniche in prima serata su Rai 1, condotto da Gianni Morandi.
Nel 2010 diresse in marzo lo show di Gigi D'Alessio su Rai 1 dal titolo Gigi questo sono io e poi dal 27 aprile, sempre su Rai 1, Voglia d'aria fresca con Carlo Conti.
Nel 2011 tornò a curare la regia della trasmissione Quelli che il calcio condotta da Victoria Cabello e sempre per Rai 2 cura la ripresa del concerto di Zucchero Fornaciari da Reggio Emilia.
L'8 e 9 ottobre 2012 diresse lo show di Adriano Celentano trasmesso in diretta su Canale 5 dall'Arena di Verona dal titolo Rock Economy.
Nella stagione 2013-2014 Beldì è stato per la diciottesima volta al timone di Quelli che il calcio. Nel 2015 ha fatto parte della giuria di esperti del Festival di Sanremo, condotto da Carlo Conti. Nello stesso anno tornò a svolgere il ruolo di regista per il talk show Ballarò, condotto da Massimo Giannini.
Ha scritto anche tre libri, il primo nel '96 (Perché inquadri i piedi?) dedicato proprio alla sua scelta di curare i particolari, gli altri alla sua passione viola.
"Abbiamo lavorato insieme dieci anni straordinari. Avevamo raggiunto un'intesa pazzesca a Quelli che il calcio, lui con le immagini partecipava al dialogo, commentava, interveniva. La sua regia parlava ad alta voce, quasi sempre ironizzando". Lo ricorda così Fabio Fazio.
"Me lo presentò Bruno Voglino quando facevamo Diritto di replica su Rai3 e lui inventò una cifra stilistica di racconto da grande appassionato di televisione, cresciuto alla scuola di Beppe Recchia, dove la regia aveva una funzione fondamentale nel racconto. Cifra che divenne fondamentale in Quelli che il calcio. Era un uomo molto ironico ma anche molto solitario. Grande appassionato di musica e suonatore di chitarra: i Beatles in particolare erano la sua Bibbia e questo era un argomento che ci univa", racconta Fazio. Che svela: "Fu Paolo a dirmi ti vedrei benissimo in un programma con Claudio Baglioni". Da quell'input nacque il programma cult Anima Mia. "Naturalmente quando feci i miei primi Sanremo, Paolo era al mio fianco. Poi quando lasciai Quelli che il calcio per dedicarmi al talk ci salutammo", aggiunge Fazio. Che conclude amaro: "La sua regia era fatta di grande qualità, una qualità che passava anche per le scene costose e per un numero di telecamere notevole e credo che anche per questo lo abbiamo visto sempre meno. Perché oggi è tutto all'insegna del taglio, del risparmio e del consumo istantaneo". Molti stanno affidando ai social il loro addio al regista. "Caro Paolo Beldì, quante risate insieme! Mi hai accompagnato per mano nel mondo 'delle telecamere' con allegria e discrezione. Sarai per sempre un maestro. Mi mancherai", scrive su Twitter Nicola Savino. "Quando sono arrivata a 'Quelli che il calcio' nel 2001 ho pensato che, per mia fortuna, tu fossi rimasto. Sei stato guida preziosa, uno dei pochi registi che ha creato uno stile, una cifra tutta sua. Non ti dimenticherò mai, grazie Paolo...te l'ho detto troppo tardi", è il post di Simona Ventura.
· È morto Donald Rumsfeld, ex segretario della Difesa USA.
Aveva 88 anni. È morto Donald Rumsfeld, ex segretario della Difesa USA tra i promotori dell’invasione dell’Iraq. Antonio Lamorte su Il Riformista il 30 Giugno 2021. È morto a 88 anni l’ex segretario alla Difesa degli Stati Uniti Donald Rumsfeld. A farlo sapere la famiglia in una nota pubblicata sul profilo Twitter ufficiale dello stesso politico. “È con profonda tristezza che condividiamo la notizia della scomparsa di Donald Rumsfeld, statista americano e marito devoto, padre, nonno e bisnonno. A 88 anni, era circondato dalla famiglia nella sua amata Taos, nel New Mexico”, recita la nota. Rumsfeld avrebbe compiuto 89 anni il prossimo 9 luglio. Era nato a Chicago nel 1932 ed era cresciuto in una famiglia di origine tedesca. Si era laureato all’Università di Princeton. È stato pilota della Navy e istruttore di volo ed è entrato in politica nel 1957, a 25 anni, come assistente amministrativo di un rappresentante del Congresso. Non ne è più uscito. Pilota d’aereo e istruttore aeronavale, entrò a Capitol Hill nel 1962 alla Camera come Rappresentate dell’Illinois. Fu confermato nel 1964, nel 1966 e nel 1968. Fu soprannominato il “John Fitzgerald Kennedy repubblicano”. Fu quindi nominato nel 1975 13esimo segretario di Stato ed è stato il più giovane capo del Pentagono della storia americana. Fece parte delle amministrazioni guidate da Richard Nixon e Gerald Ford. Era a capo del Pentagono quando l’11 settembre 2001 furono attaccate le Torri Gemelle a New York e lo stesso Pentagono. Era quindi stato tra i principali artefici dell’invasione americana dell’Iraq nel 2003, durante la Presidenza di George W. Bush – invasione basata sull’accusa delle armi di distruzione di massa in possesso di Baghdad poi rivelatesi false. “Rummy” era considerato “l’uomo di ferro” di quell’amministrazione. Si dimise dopo la sconfitta alle elezioni di midterm del 2006. “La storia potrebbe ricordarlo per i suoi straordinari risultati in oltre sei decenni di servizio pubblico, ma per coloro che lo hanno conosciuto meglio, ricorderemo il suo amore incrollabile per sua moglie Joyce, la sua famiglia e i suoi amici, e l’integrità che ha portato in una vita dedicata al paese”, conclude la nota della famiglia. Il Presidente Ford ha tributato a Rumsfeld la Medaglia della Libertà. La sua figura è considerata comunque controversa: per molti era stato lui ad autorizzare le violenze nel carcere di Abu Ghraib a Guantanamo. Fu indicato da molti come il regista nella risposta al terrorismo. Negli annali la foto in cui stringe la mano al dittatore dell’Iraq Saddam Hussein.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Giuseppe Sarcina per il "Corriere della Sera" l'1 luglio 2021. Donald Rumsfeld, uno dei più rocciosi ministri della Difesa nella storia recente americana, è morto ieri a 88 anni, a Taos, la cittadina dove si era ritirato in New Mexico. È stato uno dei «mastini» di George W. Bush. Il supervisore militare dell'invasione in Iraq. Ha teorizzato, insieme con l'allora vice presidente Dick Cheney e i «neoconservatori», che gli Stati Uniti avessero il diritto di difendere i loro interessi ovunque nel mondo, anche con la «guerra preventiva». Rumsfeld ha ricoperto per due volte l'incarico di segretario alla Difesa, prima con Gerald Ford, tra il 1975 e il 1977 e poi con Bush figlio, dal 2001 al 2006. Nato a Chicago nel 1932, da una famiglia di origine tedesca, studi all' Università di Princeton, Donald comincia il suo percorso pubblico come pilota nella Marina militare. Nel 1958 entra nell' orbita del presidente, l'ex generale Dwight Eisenhower. Nel 1962, a trent' anni, è già deputato per i repubblicani. Si distingue per le critiche sulla gestione della guerra in Vietnam da parte delle amministrazioni democratiche. Più tardi lavora per Nixon, ma il suo momento arriva con la presidenza di Ford. Diventa prima capo dello staff e poi segretario alla Difesa. È in quegli anni che nasce il sodalizio con Cheney. Rumsfeld lo assume come giovane di bottega allo Studio Ovale, ma se lo porta dietro ovunque. Un episodio poco ricordato risale al 1974, quando i due si siedono in un ristorante di Washington con l'economista Arthur Laffer che per loro disegnò su un tovagliolo la curva che porta ancora il suo nome. Era uno dei teoremi base dei liberisti: tagliare le tasse non significa perdere gettito fiscale. Ma la vocazione di Rumsfeld (e anche di Cheney) era un'altra. Il mondo impara a conoscerlo dopo l' 11 settembre del 2001. Quel giorno, raccontò lui stesso, era talmente furioso che per qualche ora si precipitò ad aiutare i soccorritori, fuori dal Pentagono colpito da uno degli aerei dirottati. La reazione americana, con la guerra in Afghanistan e poi quella in Iraq, maturò in un circolo ristretto formato da Rumsfeld, il vice presidente Cheney, il segretario di Stato Colin Powell e la consigliera per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice. La decisione di invadere l'Iraq, in particolare, fu traumatica e lacerò l'Europa e l'Alleanza Atlantica. Risultò poi che Saddam Hussein non avesse «armi di distruzione di massa», come invece annunciò Powell in una celebre seduta del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Si scoprirono gli abusi sui prigionieri iracheni nelle carceri oscene di Abu Ghraib. Rumsfeld, in quell' occasione, si presentò nello Studio Ovale e offrì le dimissioni a George Bush. Respinte. Ma a distanza di anni, l'ex capo del Pentagono continuò a difendere il merito, le ragioni di fondo di quelle guerre. Nel suo libro di memorie, pubblicato nel 2011, Known and Unko wn (Ciò che conosciamo e ciò che non conosciamo) sostenne che il conflitto in Iraq aveva comunque «liberato il mondo da un dittatore brutale come Saddam, creando una situazione più stabile e più sicura». Non è andata proprio così, in realtà. Due anni dopo Rumsfeld accettò di metterci letteralmente la faccia, partecipando al film-documentario di Errol Morris: The Unkown Known . Un titolo vagamente socratico: ciò che pensiamo di non conoscere e invece conosciamo. Nella pellicola, presentata alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2013, Rumsfeld si produsse nell' ultima apologia di un'epoca ormai tramontata nei fatti. In Afghanistan spadroneggiavano i talebani; in Siria, e a breve in Iraq, si affacciava l'Isis. Alla Casa Bianca c' era Barack Obama; la dottrina dell'esportazione della democrazia era già finita in soffitta.
Usa, è morto Donald Rumsfeld. Fu artefice della guerra all'Iraq. Federico Rampini su La Repubblica il 30 giugno 2021. L'ex capo del Pentagono aveva 88 anni. Firmò un appello anti Trump. E’ morto all’età di 88 anni Donald Rumsfeld, che si ricorda soprattutto per il suo ruolo in un’avventura dissennata: come segretario alla Difesa di George W. Bush, fu lui a gestire nel 2003 l’invasione dell’Iraq. Quel disegno era maturato come una reazione all’attacco dell’11 settembre 2001, sulla scorta di una menzogna, l'accusa secondo cui Saddam Hussein era complice di Al Qaeda, e aveva armi di distruzione di massa, false tutt’e due. In quanto fu uno dei registi del “regime change”, il disegno di esportare democrazia con l’aggressione militare, e di rifare la geopolitica del Medio Oriente, venne impropriamente catalogato tra i “neoconservatori”. In realtà apparteneva a una scuola diversa, la vecchia destra tecnocratica, capitalista e imperialista, che con i veri “neocon” ebbe un’alleanza opportunista. Rumsfeld veniva da lontano, la sua carriera era stata gemella a quella del suo amico e alleato Dick Cheney, vicepresidente di Bush Junior: tutti e due avevano cominciato a militare nel partito repubblicano ai tempi di Richard Nixon, e a lavorare nell’Amministrazione di Ronald Reagan. In mezzo, Rumsfeld era stato il più giovane segretario alla Difesa di Gerald Ford; con Bush Junior sarebbe stato il più anziano, e anche l’unico a ricoprire due volte quell’incarico. Bush lo liquidò dopo tre anni e mezzo, quando la guerra in Iraq si era rivelata un pantano, non quella tranquilla passeggiata verso il trionfo che Rumsfeld aveva previsto. Di Rumsfeld si ricorda la creatività verbale. Fu lui a coniare l’espressione “vecchia Europa contro nuova Europa”, per distinguere tra gli anti-americani come Francia e Germania (contrarie all’invasione dell’Iraq) e i paesi dell’Europa dell’Est ammessi più di recente nella Nato, allineati con la politica estera di Washington. Rimangono memorabili le sue conferenze stampa durante la seconda guerra del Golfo, quando inventò frasi come “a volte la merda succede” (i migliori piani possono andare a rotoli) oppure “ci sono le incognite note, e le incognite incognite”. Da fautore di una strategia imperiale, non poteva riconoscersi nell’isolazionismo di Donald Trump e infatti il 4 gennaio 2021 firmò un appello anti-Trump con vari altri ex segretari alla Difesa, repubblicani e democratici, per denunciare la tentazione di Trump di usare le forze armate nella politica interna onde ribaltare la sua sconfitta elettorale. In quell’occasione Rumsfeld come gran parte della destra tradizionale si era schierato in difesa delle istituzioni contro un leader che era pronto a prenderle d’assalto pur di conservare il potere.
· E’ morto lo stilista Pino Cordella.
Lutto nel mondo della moda: è morto lo stilista Pino Cordella. Alice Coppa il 30/06/2021 su Notizie.it. Lo stilista Pino Cordella è scomparso a 82 anni. L'Italia perde uno dei suoi più celebri stilisti. Un terribile lutto ha colpito il mondo della moda: lo stilista pugliese Pino Cordella è scomparso a 82 anni nel suo amato Salento. A dare la notizia della scomparsa del Maestro sono stati i suoi cari che, nel suo adorato Salento, gli sono rimasti accanto fino alla fine. Al momento non sono chiare le cause che hanno condotto Cordella alla morte. Stilista pugliese che per anni ha contribuito alla nascita e allo sviluppo della moda Italiana e di un certo tipo d’eleganza, Pino Cordella è deceduto nella sua amata Lecce, circondato dall’affetto dei suoi cari (la moglie Anna Rita, i figli e gli altri familiari). Grazie al suo talento nel campo della moda Cordella si era guadagnato l’appellativo di “Maestro” e nel corso della sua carriera aveva avuto modo di vestire e collaborare con alcune importanti personalità del mondo dello spettacolo e della cultura (anche Papa Giovanni Paolo II era stato vestito da lui, così come l’attore Nino Frassica). Nel corso della sua carriera nel campo della moda Cordella si era impegnato nella valorizzazione del territorio attorno a cui era cresciuto e aveva inoltre fondato il prestigioso istituto Cordella Fashion School – Scuola di Moda, dove i suoi tre figli continueranno d’ora in avanti ad accogliere futuri stilisti, sarti ed altri esperti d’alta moda. Il Maestro si era diplomato ancora giovanissimo presso gli Istituti Marangoni e Secoli di Milano, e a seguire aveva preso in mani le redini della sartoria di famiglia, fondata nel 1783 da Leonardo Cordella. Con la sua scuola e la sartoria di famiglia aveva deciso di portare avanti la tradizione dell’eleganza italiana, fattore in cui aveva sempre creduto e su cui aveva incentrato la sua intera carriera nel mondo dell’alta moda. I funerali del famoso stilista Pugliese si svolgeranno mercoledì 30 giugno 2021 presso la Chiesa San Massimiliano Kolbe a Lecce. Il Maestro lascia la moglie Anna Rita e i tre figli Carol, Manuel e Christian, che hanno dato notizia della sua scomparsa con un comunicato ufficiale. Ai funerali sono attese moltissime persone e suoi fan.
· E’ morto il giornalista Giangavino Sulas.
Grave lutto a "Quarto Grado": è morto Giangavino Sulas. Francesca Galici il 25 Giugno 2021 su Il Giornale. Per lunghi anni Sulas è stato uno dei punti di riferimento per la cronaca italiana, ha raccontato i principali casi in televisione e sulla carta stampata. Si è spento Giangavino Sulas, storico giornalista del settimanale Oggi, che da anni presenziava nei programmi Mediaset come esperto di cronaca. A darne l'annuncio è stato Gianluigi Nuzzi, conduttore di Quarto grado, che per anni ha ospitato Sulas nel suo programma. "Caro Giangavino te ne sei andato in punta dei piedi, sempre secondo il tuo stile di uomo gentile, cronista di altri tempi, senza mai rinunciare a esprimere le tue idee, talvolta in solitudine", ha scritto Gianluigi Nuzzi. Il conduttore, quindi, ha concluso: "Questo nostro mestiere significa anche ironia, autoironia sulla commedia della vita e tu ne sei maestro. E per questo non uso il verbo al passato perché le tue lezioni rimarranno sempre. Grazie". Anche l'account Facebook del programma Quarto grado ha voluto ricordare Giangavino Sulas: "Al nostro Sulas piaceva questa foto. C’era tutto lui. La passione per il confronto. Le carte di un processo tra le mani. La notizia prima di tutto come atto di rispetto per i suoi lettori e per i telespettatori di #Quartogrado. Se n’è andato di venerdì. Ci mancherà tantissimo. Ciao caro amico. Ciao Giangavino". Le sue prime apparizioni recenti nei programmi Mediaset sono state a Pomeriggio5, il programma quotidiano condotto da Barbara d'Urso. Dal caso di Sarah Scazzi in poi. Giangavino Sulas ha fornito la sua preziosissima esperienza ai salotti televisivi, commentando con passione qualunque caso di cronaca. Una delle sue ultime inchieste giornalistiche televisive riguarda la nobiltà della contessa Parizia De Blanck. Proprio nei salotti di Barbara d'Urso, Giangavino Sulas ha ripercorso le vicende dell'ex concorrente del Grande fratello vip attraverso i documenti d'archivio del settimanale Oggi, del quale era una delle firme più autorevoli. Qualunque caso per lui ha avuto la massima importanza e lui vi ha dedicato tutte le attenzioni necessarie affinché il pubblico a casa potesse capire e appassionarsi alle vicende. Era passionale e appassionato del suo lavoro, nato in Sardegna nel 1943, Giangavino Sulas viveva da anni a Bergamo, città che lo aveva adottato e che amava. Oltre a partecipare ai programmi Mediaset, Sulas era spesso presente anche nelle trasmissioni di Telelombardia per approfondire i casi di cronaca nera più forti. Per oltre un anno ha combattuto contro un tumore ed è per questo motivo che negli ultimi giorni si trovava ricoverato all'istituto Humanitas Gavazzeni. È stata la malattia a convincerlo a diradare le sue apparizioni televisive e il lavoro giornalistico, che altrimenti non avrebbe mai lasciato.
Morto Giangavino Sulas, il giornalista aveva 78 anni. Gianluigi Nuzzi: “Te ne sei andato in punta di piedi”. Lutto nel mondo del giornalismo: è Morto Giangavino Sulas. Aveva 78 anni, era ricoverato in ospedale. Il ricordo di Gianluigi Nuzzi: "Te ne sei andato in punta di piedi". Il Fatto Quotidiano il 25 Giugno 2021. “Caro Giangavino te ne sei andato in punta dei piedi”. Con queste parole Gianluigi Nuzzi ha annunciato su Instagram la morte del giornalsita Giangavino Sulas, nella mattinata di oggi 25 giugno. Il conduttore di Rete 4 ha poi continuato: “Uomo gentile, cronista di altri tempi, senza mai rinunciare a esprimere le tue idee, talvolta in solitudine. Questo nostro mestiere significa anche ironia, autoironia sulla commedia della vita e tu ne sei maestro. E per questo non uso il verbo al passato perché le tue lezioni rimarranno sempre. Grazie”. Ospite di diverse trasmissioni televisive, in particolare proprio di Quarto Grado, Giangavino Sulas ha combattuto fino all’ultimo. Stando a quanto riportato da Il Giorno, infatti, il giornalista 78enne era ricoverato in ospedale già da giorni. Per tutta la vita ha svolto il mestiere di cronista con passione e dedizione e i telespettatori lo ricordano con affetto sui social: “Purtroppo si vedeva negli ultimi interventi che non stava bene! Nonostante ciò ha sempre detto la sua fino alla fine con grande passione ed ardore! Un gran dispiacere questa notizia”, si legge tra i tanti messaggi di cordoglio. E ancora: “Avevo capito che stava combattendo. Persona discreta e perbene”.
È morto il giornalista Giangavino Sulas. Nuzzi: "Te ne sei andato in punta di piedi". Presenza fissa di Quarto Grado, aveva 77 anni. HuffPost Il 25 Giugno 2021. Lutto nel mondo del giornalismo: è morto la notte scorsa a Bergamo Giangavino Sulas, inviato di punta del settimanale Oggi e spesso ospite in tv, soprattutto a “Quarto Grado” su Rete 4, per parlare di casi di cronaca nera. Di origine sarda, ma bergamasco d’adozione, aveva 77 anni e da alcuni giorni era ricoverato all’ospedale Humanitas di Bergamo per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Sempre sulla notizia, proprio in ospedale aveva scritto il suo ultimo articolo sul caso di Denise Pipitone. Lascia la moglie e i figli Roberta e Marco. Da un anno lottava contro un male che alla fine ha prevalso sulla sua enorme forza di volontà. Da cronista ha attraversato i fatti di cronaca nera di un’epoca, con puntiglio e curiosità: dal delitto di Perugia, fino al caso di Yara Gambirasio. Senza trascurare la passione per lo sport, per l’Atalanta in primis, spesso con posizioni controcorrente. A Bergamo Tv era spesso ospite di "TuttoAtalanta", mentre sui casi di cronaca nera, oltre a Quarto Grado, spesso interveniva anche nei programmi di Telelombardia. Gianluigi Nuzzi, giornalista e conduttore di Quarto Grado, ha salutato Sulas con un commosso post sui social: “Caro Giangavino te ne sei andato in punta dei piedi, sempre secondo il tuo stile di uomo gentile, cronista di altri tempi, senza mai rinunciare a esprimere le tue idee, talvolta in solitudine. Questo nostro mestiere significa anche ironia, autoironia sulla commedia della vita e tu ne sei maestro. E per questo non uso il verbo al passato perché le tue lezioni rimarranno sempre. Grazie”.
Morto il giornalista Giangavino Sulas, Gianluigi Nuzzi: “Te ne sei andato in punta di piedi”. Morto il giornalista esperto di cronaca nera, spesso ospite del programma di Rete 4 “Quarto Grado”, che ha dato notizia della sua scomparsa. Il conduttore Gianluigi Nuzzi lo ha salutato così: “Te ne sei andato in punta dei piedi, sempre secondo il tuo stile di uomo gentile, cronista di altri tempi, senza mai rinunciare a esprimere le tue idee, talvolta in solitudine. Questo nostro mestiere significa anche ironia, autoironia sulla commedia della vita e tu ne sei maestro”. Andrea Parrella su Fanpage.it - HuffPost il 25 giugno 2021. Morto il giornalista Giangavino Sulas. A darne notizia è il programma Quarto Grado, la trasmissione condotta da Gianluigi Nuzzi che spesso ospitava Sulas. Il ricordo del programma, attraverso le pagine social, dà notizia della scomparsa del giornalista con una foto che immortala un momento in cui Sulas è ospite della trasmissione. La foto è accompagnata da una didascalia in ricordo del giornalista: Al nostro Sulas piaceva questa foto. C’era tutto lui. La passione per il confronto. Le carte di un processo tra le mani. La notizia prima di tutto come atto di rispetto per i suoi lettori e per i telespettatori di #Quartogrado. Se n’è andato di venerdì. Ci mancherà tantissimo. Ciao caro amico. Ciao Giangavino.
Il ricordo di Gianluigi Nuzzi. È quindi seguito il ricordo di Nuzzi: "Caro Giangavino te ne sei andato in punta dei piedi, sempre secondo il tuo stile di uomo gentile, cronista di altri tempi, senza mai rinunciare a esprimere le tue idee, talvolta in solitudine. Questo nostro mestiere significa anche ironia, autoironia sulla commedia della vita e tu ne sei maestro. E per questo non uso il verbo al passato perché le tue lezioni rimarranno sempre. Grazie".
La carriera di Giangavino Sulas. Giangavino Sulas è un giornalista di origini sarde, di recente ha collaborato con il settimanale "Oggi" ed è stato spesso ospite di diversi programmi televisivi in veste di opinionista, da Pomeriggio 5 a Quarto Grado, appunto. Si è occupato per lo più di cronaca nera, approfondendo molto l’inchiesta sulla morte di Yara Gambirasio, tra i casi più discussi degli ultimi anni.
Era spesso ospite in Tv. Nei mesi scorsi si era fatto notare nel salotto di Barbara D'Urso per un dibattito sulle origini nobiliari di Patrizia De Blanck. Ospite in studio, Sulas aveva illustrato i risultati delle sue indaginie negli archivi del settimanale Oggi, che avevano fatto emergere novità di rilievo sul conto della contessa, che contessa non sarebbe, visto che il titolo nobiliare sarebbe senza riscontro: "è stata adottata. L'ha detto lei, l'ha messo per iscritto, c'è un nastro registrato. Lei dice che è figlia di Asvero Gravelli, un gerarca fascista molto importante, giornalista e scrittore, vicinissimo al Duce". E non è finita qui, perché "Gravelli è figlio di un tipografo di Predappio e di una donna bellissima, che il Duce avrebbe sedotto. Lei è nipote del Duce. A Roma lo sapevo tutti di chi era figlia. Usciranno delle puntate su questa roba qua".
Quarto Grado, l’omaggio a Giangavino Sulas: “Ci mancherai, caro Giangavino”. Fanpage.it il 25 giugno 2021. Gianluigi Nuzzi ha aperto la puntata di Quarto Grado del 25 giugno con un omaggio a Giangavino Sulas: "Oggi se n'è andato Giangavino Sulas che è un nostro amico, un grande cronista, uno della famiglia nostra di Quarto Grado".
Le parole di Gianluigi Nuzzi. Dopo un video d'apertura dedicato al giornalista scomparso, mentre passeggiava per le strade di Bergamo, Gianluigi Nuzzi spiega: Oggi se n'è andato Giangavino Sulas che è un nostro amico, un grande cronista, uno della famiglia nostra di Quarto Grado. Un uomo che non amava la retorica e non perderò parole inutili, amava i fatti, gli approfondimenti e l'inchiesta. Ciao Giangavino, ci mancherai tanto. Lui seguiva il patto che lega i giornalisti a voi: un patto che lega le notizie a voi, un patto che abbiamo sempre rispettato.
La morte del giornalista. La morte del giornalista Giangavino Sulas, 77 anni, è arrivata proprio tramite la pagina di Quarto Grado che ne ha dato notizia attraverso una foto: Al nostro Sulas piaceva questa foto. C’era tutto lui. La passione per il confronto. Le carte di un processo tra le mani. La notizia prima di tutto come atto di rispetto per i suoi lettori e per i telespettatori di #Quartogrado. Se n’è andato di venerdì. Ci mancherà tantissimo. Ciao caro amico. Ciao Giangavino. Nei mesi scorsi si era fatto notare nel salotto di Barbara D'Urso per un dibattito sulle origini nobiliari di Patrizia De Blanck. Ospite in studio, Sulas aveva illustrato i risultati delle sue indaginie negli archivi del settimanale Oggi, che avevano fatto emergere novità di rilievo sul conto della contessa, che contessa non sarebbe, visto che il titolo nobiliare sarebbe senza riscontro: "è stata adottata. L'ha detto lei, l'ha messo per iscritto, c'è un nastro registrato. Lei dice che è figlia di Asvero Gravelli, un gerarca fascista molto importante, giornalista e scrittore, vicinissimo al Duce".
· E’ morto l’attore Antonio Salines.
Marco Giusti per Dagospia il 23 giugno 2021. Se ne va, nella Roma ormai senza mascherine, in un trionfo di riaperture, premi, nuove produzioni di fiction, una stella della prima tv e del teatro italiano, Antonio Salines, 84 anni, che i telespettatori più anziani ricorderanno come celebre Smerdjakov, il fratellastro de “I fratelli Karamazov” nella versione diretta per la Rai da Sandro Bolchi, a fianco di Corrado Pani, Umberto Orsini e tanti giovani attori emergenti degli anni ’60. Nella sua lunga carriera Salines, oltre che stella irriverente della prima tv e del teatro, assieme a Carmelo Bene, Gian Maria Volonté, a Vittorio Gassman nella sua fase più giocosa e sperimentale, fu protagonista cattivo di un unico folle western ultrasadico, “Matalo” di Cesare Canevari, a fianco di Corrado Pani e Lou Castel, protagonista con il pazzo dottor Panizzi nel bellissimo film di Werner Schoeter “Liebeskonzil” a fianco di Magdalena Montezuma e Kurt Raab, attore impegnato nei primi film di Ansano Giannarelli, “Sierra maestra” e “Non ho tempo”, attor giovane da commedia sexy povera e feticista del curioso “La sculacciata” di Pasquale Festa Campanile, dove una coppia trovava l’armonia sessuale solo nell’atto dello sculacciare il culo di Sydney Rome. Per non palare della sua lunga militanza, assieme a Franco Branciaroli e Renzo Rinaldi, del clan di fedelissimi attori del cinema erotico di Tinto Brass, da “L’uomo che guarda” a “Monella”, da “Tra (sgre) dire” a Fallo!” fino a “Senso 45”. Ma gli spettatori più giovani lo ricorderanno addirittura in “Spectre”, 007 ufficiale con Daniel Craig, alla guida di una Fiat a Roma in mezzo a un complicatissimo inseguimento, o come protagonista da vecchio della seconda parte di “Lazzaro felice” di Alice Rohrwacher, il film che gli ha dato, proprio ottantenne una nuova piccola popolarità. E infatti sono ben tre i film segnalati in uscita di Salines in questo 2021. Tra questi “44 giorni” di Alessandro Tofanelli con Stefano Dionisi e “L’ombra del giorno” di Giuseppe Piccioni a fianco di Riccardo Scamarcio, Benedetta Porcaroli e Valeria Bilello. Nato a La Spezia nel 1936 lo troviamo già nei primi anni ’60 dividersi tra tv e teatro. In yv in sceneggiati di successo, “Alla ricerca della felicità”, “Il cane dell’ortolano”, “Vivere insieme”, “Quando una ragazza dice sì”, a teatro nel 1961 a Genova nel “Caligola” di Camus accanto a Carmelo Bene. Recita nel teatro Popolare di Vittorio Gassman in spettacoli importanti, “Adelchi”, “Orestiade”, “Un marziano a Roma”, che ridurrà molti anni dopo in una mai vista versione cinematografica a basso costo. Alla fine degli anni ’60 lo troviamo attore in tv nella serie “Sherlock Holmes”, ne “I fratelli Karamoazov” di Sandro Bolchi, ma anche attore al cinema in “Sierra maestra” di Ansano Giannarelli, “Matalo” di Cesare Canevari e protagonista in “La sculacciata” di Pasquale Festa Campanile, un film che portava al cinema proprio una commedia erotica. Nel 1972 dirige il Teatro Belli a Roma e darà vita, assieme al drammaturgo Roberto Lerici a una stagione quanto mai viva di spettacoli che alternano a grandi classici riletti, Ibsen, Bulgakov, Strindberg, nuovi testi scritti appositamente da Lerici. Anche se l’attività teatrale è quella maggiore, si ricordano anche un suo “Aspettando Godot” per Maurizio Scaparro, uno “Zio Vania” trasferito addirittura al cinema, lo troviamo di quando in quando in tv alle prese con sceneggiati ricchi e popolari, “Elisa di Rivombrosa”, “Puccini”, oltre che nei film erotici di Tinto Brass al quale arriva con la complictà di Roberto Lerici. Nella grande scena degli inseguimenti in auto per il centro di Roma di “Spectre” di Sam Mendes ci prese quasi un colpo vederlo alla guida di una Fiat come tranquillo borghese. Lui che era stato da sempre un rivoluzionario dello spettacolo, un attore coraggioso, irriverente e controcorrente.
· E’ morto John McAfee, pioniere degli antivirus.
Dagotraduzione dal Sun il 28 giugno 2021. Secondo l’Associated Press, che ha parlato con una fonte anonima, in tasca a John McAfee, morto suicida nel carcere di Barcellona, sarebbe stato trovato un bigliettino. L’avvocato spagnolo di McAfee, Javier Villalba, ha detto che la famiglia non era stata formalmente informata della nota dalle autorità. Intanto è in corso l’autopsia per stabilire le cause della morte, anche se la famiglia sta cercando di eseguirne una indipendente. Il 75enne inventore dell’omonimo antivirus è stato trovato morto mercoledì scorso nella sua cella nel penitenziario Brians 2 di Barcellona in Spagna. Poche ore prima, un giudice aveva approvato la sua estradizione negli Stati Uniti dove era accusato di aver evaso tasse per più di 4 milioni. La moglie di McAfee non è convinta del suicidio del marito. «Incolpo l’autorità statunitense per questa tragedia», ha detto, aggiungendo che l‘ultima volta che lo ha sentito le ha detto: «Ti amo e ti chiamo stasera». «Queste non sono le parole di un suicida» ha detto la donna.
Da corriere.it il 24 giugno 2021. Si trovava in un carcere di Barcellona da ottobre - era stato arrestato all’aeroporto, nel tentativo di prendere un aereo per la Turchia - e proprio oggi, 23 giugno, era arrivata l’approvazione del Tribunale spagnolo alla sua estradizione negli Stati Uniti. Qui lo aspettava un’accusa grave: evasione fiscale. John McAfee, 75 anni, è stato trovato morto nella sua cella. Secondo le prime indagini sembra trattarsi di suicidio. Inutili i soccorsi per tentare di rianimarlo. Si spegne così una delle menti più brillanti - ed eccentriche - dell’informatica moderna. Colui che ha ideato il sistema di antivirus omonimo, McAfee, da cui ha guadagnato ricchezza e fama. Ma anche una vita dissoluta, fatta di droga, armi e corruzione, nonché truffe tramite criptovalute. Negli Stati Uniti era accusato di aver evaso milioni di dollari in tasse. Un’evasione che di sicuro, secondo le indagini, è proseguita dal 2016 al 2018. Fitto il suo curriculum di rapporti con le forze dell’ordine. Nel 2012 viene ricercato come «persona d’interesse» per l’omicidio del suo vicino di casa, in Belize. Viene poi rintracciato in Guatemala dove chiede asilo politico. Poi rientra nel Paese illegalmente e viene arrestato. Nonostante non ci sia stata nessuna accusa nei suoi confronti. L’eccentrico milionario viene poi arrestato insieme alla moglie in Repubblica Dominicana perché sbarcati sull’isola con una barca carica di armi. Poi fugge in Lituania. Ha cercato anche di candidarsi per il Partito Libertario (si basa sulla filosofia del libertarianismo: capitalismo puro, diritti civili) alle scorse elezioni. E non era neanche la prima volta: ci aveva già provato nel 2016.
Trovato morto in carcere John McAfee, pioniere degli antivirus. Francesca Galici il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. Accusato di reati di natura fiscale, la Spagna aveva emesso la sentenza preliminare di estradizione in Usa per Jhon McAfee, che si è suicidato. John McAfee, il padre del famoso antivirus, è stato trovato morto in una prigione spagnola poche ore dopo che il tribunale ha emesso la sentenza preliminare per la sua estradizione negli Stati Uniti. L'informatico si sarebbe suicidato a 75 anni per non dover scontare in America la pena per evasione fiscale. Fu arrestato all'aeroporto di Barcellona lo scorso mese di ottobre e da lì portato in una prigione spagnola in attesa della decisione di estradizione. Fino a oggi, John McAfee era ricercato negli Usa e su di lui pendevano accuse penali di natura fiscale che comportano una pena detentiva fino a 30 anni. La conferma all'estradizione, però, non sarebbe stata ancora definitiva, perché McAfee avrebbe potuto impugnare la decisione e rimandare al governo spagnolo l'ultima parola per l'approvazione. I pubblici ministeri del Tennessee hanno accusato il 75enne McAfee di evasione fiscale per aver omesso di segnalare i proventi derivanti dalla promozione di criptovalute mentre svolgeva attività di consulenza, nonché i proventi derivanti da impegni linguistici e dalla vendita dei diritti sulla storia della sua vita per un documentario. I reati di cui viene accusato l'uomo si concentrano dal 2016 al 2018. In un'udienza tenutasi tramite videolink all'inizio di questo mese, McAfee ha sostenuto che le accuse contro di lui fossero motivate a livello politico e ha affermato che avrebbe trascorso il resto della sua vita in prigione se fosse tornato negli Stati Uniti. La sentenza preliminare è stata accolta da John McAfee come una sconfitta e per non passare il resto della sua vita in carcere avrebbe preferito togliersi la vita. Il personale di sicurezza del penitenziario di Sant Esteve de Sesrovires ha cercato di rianimarlo, ma il team medico del carcere ha certificato la sua morte, secondo una nota del governo catalano regionale. La polizia e gli inquirenti spagnoli stanno trattando il caso come suicidio. Il dipartimento di Giustizia assicura che "tutto fa pensare a un suicidio", ma le circostanze andranno comunque chiarite con l'autopsia. La notte del 21 novembre 2012 il cadavere del cinquantaduenne Gregory Faull viene ritrovato in una pozza di sangue nella sua casa di San Pedro, in Belize, dove si era trasferito dopo il divorzio. A ucciderlo era stato un proiettile da 9 mm il cui bossolo viene trovato vicino al corpo. Due giorni prima aveva avuto l'ultima di una serie di liti furibonde con il suo vicino, John McAfee, che nonostante l'età avanzata, trascorreva le sue giornate tra rumorosi party a base di droga e giovanissime prostitute. I poliziotti lo cercano per interrogarlo ma John McAfee era già lontano. Un mese dopo lo ritrovano in Guatemala, dove viene arrestato per immigrazione clandestina. Per evitare di essere deportato in Belize finge un attacco cardiaco. Ai giornalisti racconta di essere fuggito perchè temeva che il governo del Belize lo volesse morto.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
John McAfee, pratiche sessuali estreme e il vicino ammazzato: i segreti dell'uomo trovato morto in carcere. Lo hanno "suicidato"? Libero Quotidiano il 24 giugno 2021. Morto in carcere. Ufficialmente, suicidio. Si parla di John McAfee, 75 anni, il padre del celeberrimo antivirus. Un genio assoluto dell'informatica. Un personaggio estremamente controverso. Si trovava in cella da ottobre, a Barcellona, dove era stato arrestato mentre tentava di prendere un aereo verso la Turchia. Su di lui pendeva un mandato di cattura internazionale emesso dagli Stati Uniti, che lo cercavano per evasione fiscale. Dunque, McAfee muore in carcere, trovato senza vita in cella. Stando alle prime indagini come detto si tratterebbe di suicidio, inutili i tentativi di rianimarlo. Addio a una delle menti più brillanti, folli ed eccentriche della Silicon Valley. Dal sistema antivirus guadagnò una enorme ricchezza e celebrità. Dunque, una vita di eccessi, tra droga, armi e corruzione. Un documentario (su Netflix, Gringo: The dangerous life of John McAfee) racconta anche la sua "dolce vita" in Belize, tra prostitute, pratiche sessuali estreme e un vicino di casa morto ammazzato in circostanze misteriose. Dopo l'omicidio, McAfee era sparito, rintracciato in Guatemala dove chiese asilo politico. Salvo poi tornare in Belize e "ricucire" col governo locale elargendo generosissime donazioni nei confronti proprio delle forze dell'ordine. Negli Stati Uniti era accusato di aver evaso milioni di dollari in tasse. Un’evasione che di sicuro, secondo le indagini, è proseguita dal 2016 al 2018. Nel suo "curriculum", anche una fuga in Lituania e la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti col partito libertario, che difficilmente si schioda dall'1 per cento. McAfee sosteneva che contro di lui ci fosse un complotto, una persecuzione, proprio per quella candidatura.
Il suicidio arriva poco dopo l'ok della Spagna alla sua estradizione negli Stati Uniti. Un suicidio che, per ora, è avvolto in una coltre di mistero. Una scomparsa misteriosa: qualcuno voleva davvero farlo tecere?
“Si è impiccato”. Morto uno degli uomini più importanti e controversi del mondo. Caffemagazine.it il 24/6/2021. È morto con un cappio al collo John McAfee, il padre dell’antivirus. L’uomo era in carcere, in Spagna e rischiava 30 anni per evasione fiscale. Soltanto il giorno prima, il tribunale di Barcelona aveva concesso l’estradizione negli Stati Uniti. Le guardie del penitenziario Brians 2 hanno cercato di rianimare il 75enne ma senza successo. I medici non hanno potuto far altro che certificare la sua morte. L’mprenditore milionario era stato arrestato in ottobre in Spagna, su ordine di cattura partito dagli Usa, dov’è accusato in particolare per la mancata dichiarazione dei redditi realizzati con la promozione di criptovalute e con la vendita dei diritti sulla storia della sua vita per un documentario. Erano state le procure del Tennessee e di New York a muovere le prime accuse, secondo le quali John McAfee non ha pagato tasse su nessuno dei suoi redditi fra il 2014 e il 2018. John McAfee si era difeso e aveva contrattaccato, definendo le accuse di evasione motivate politicamente senza comunque entrare nel dettaglio. Pur da dietro le sbarre comunque il suo profilo Twitter era rimasto attivo, e continuava a cinguettare il suo apprezzamento per le criptovalute e una serie di attacchi contro le autorità che, a suo avviso, lo perseguitavano.
John McAfee, quella strana morte nel 2012. Il suicidio è l’epilogo di una vita complicata per il guru della tecnologia con il look e l’atteggiamento da rockstar. Il re degli antivirus nel 2012 era stato sospettato della morte di Gregory Faull, un americano come lui finito a colpi di arma da fuoco a San Pedro Town, nell’isola di Ambergris in Belize, lo stesso paradiso tropicale dove John McAfee si era trasferito dopo avere venduto per milioni di dollari quella che era allora la società leader della protezione informatica nel settore dei personal computer. Per sfuggire all’interrogatorio della polizia aveva attraversato illegalmente il confine e chiesto asilo in Guatemala: una richiesta non andata a buon fine, tanto da costringerlo a rientrare negli Stati Uniti. John McAfee venne successivamente scagionato dall’accusa.
Da Adnkronos.com, Business Insider e The Sun il 24 giugno 2021. John McAfee è stato trovato morto nel carcere di Barcellona dove il creatore dell'antivirus omonimo era in attesa di essere estradato negli Usa per un presunto reato fiscale. E se «tutto indica che potrebbe trattarsi di un suicidio» secondo l'autorità giudiziaria catalana, ecco che gli utenti di Twitter rilanciano un tweet datato 15 ottobre 2020 dello stesso McAfee che oggi, dopo la notizia del decesso, suona inquietante. «Sono contento qui dentro. Ho degli amici. Il cibo è buono. Tutto va bene. Sappiate che se mi impicco alla Epstein non sarà stata colpa mia», si legge. Un altro mistero è emerso 30 minuti dopo la sua morte, quando il suo account Instagram ha pubblicato la foto di una "Q". Il riferimento potrebbe essere a Qanon, il gruppo complottista al seguito di Donald Trump, convinto che il mondo sia dominato da un gruppo di pedofili il cui scopo è quello del traffico sessuale di bambini. Secondo la stampa, nel 2019 McAfee pubblicò una sua foto montata su un'immagine alterata di Epstein. A commento, la scritta: «Non ho mai detto che Jeffrey Epstein è stato assassinato. Ho detto che non si è suicidato. Non è lo stesso. Potrebbe essere vivo. Potrebbe non essere mai esistito. Forse assassinato. Non lo so. So solo che non si è suicidato». McAfee è stato anche sospettato di essere lo youtuber "Rusty Shackleford", che attraverso il suo canale diffuse i video con le riprese dei droni sopra a casa Epstein due giorni dopo la morte del miliardario: vi si vedeva l'Fbi perquisire la villa. Tra gli ultimi tweet, quello che McAfee ha scelto di fissare "in alto" e lasciare in evidenza, risalente al 16 giugno scorso, nel quale negava le accuse: «Gli Stati Uniti credono che io abbia nascosto le criptovalute. Vorrei averlo fatto, ma si sono dissolte in molte mani del Team McAfee, mentre le mie risorse rimanenti sono tutte sequestrate. I miei amici sono evaporati per paura di essere associati a me. Non ho niente - scriveva -. Eppure, non rimpiango nulla».
La tragica e travolgente vita di McAfee, morto suicida in una cella. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 24 giugno 2021. Gli investimenti geniali, le droghe, la politica i guai con il fisco Usa...il creatore del primo antivirus informatico muore in un carcere spagnolo a 75 anni. «Voglio una vita spericolata, una vita come John MacAfee!» avrebbe cantato oggi Vasco Rossi, perché ogni epoca ha gli antieroi che si merita. Sempre meno scanzonati e romantici, poco artisti e molto imprenditori, ma con quella vena “maledetta” e quel tragico destino che si portano dietro. Un narcisismo masochista che accompagna come un demone un’esistenza vissuta al limite. In questo caso tra gli Stati Uniti, l’Europa, il centroamerica tra business estremi, investimenti folli, droghe, pistole, richieste di diritto d’asilo e fughe vertiginose ai quattro angoli del pianeta. È morto in un carcere spagnolo a 75 anni il creatore del primo antivirus informatico: si è impiccato nella sua cella della prigione di Sant Esteve de Sesrovires, a pochi chilometri da Barcellona. Era terrorizzato dall’estradizione negli Stati Uniti concessa da un tribunale catalano poche ore prima del suicidio. Negli Usa era accusato dalle procure di New York e del Tennessee di frode fiscale; avrebbe nascosto allo Stato decine di milioni di dollari, ville lussuose e yacht, tutti beni provenienti dagli investimenti in criptovalute, l’ultima funesta passione di MacAfee. Lo hanno arrestato nell’aeroporto del capoluogo catalano lo scorso ottobre mentre stava prendendo un volo per la Turchia. Nove mesi di detenzione in condizioni molto provanti, aveva denunciato in lacrime la moglie Janice: «Stava molto male, era depresso e deperito ma non ha ricevuto alcuna cura medica». Nato in Gran Bretagna in un base militare statunitense da padre americano e madre inglese cresce in Virginia; adolescenza irrequieta innaffiata dall’alcool, le feste e la droga (viene arrestato ancora minorenne per possesso di marijuana). Laureato in matematica viene assumto da un college della Louisiana che lo sbatterà alla porta per la relazione con una sua studentessa. Comincia un cammino tortuoso, fatto di espedienti, lavoretti improvvisati ma anche di geniali intuizioni sulle opportunità che offre al mercato la nascente rivoluzione tecnologica, si specializza nella creazione di software e nella messa a punto di sistemi operativi. Il successo lo incrocia negli anni 80 con un lavoro di programmatore per la Nasa dove tutti notano il suo fiuto particolare per il businnes digitale, dopo qualche tempo passa al la Xerox e poi alla Lockheed. Investe migliaia di dollari in società informatiche e in residenze di prestigio alle Haway, in New Mexico, in Texas. La svolta però arriva con la creazione del programma antivirus che porta il suo nome e che ancora oggi è il più diffuso nel mondo. Fino alla crisi finanziaria del 2008 con l’esplosione della bolla dei mutui subprime Usa il suo patrimonio personale lievita ed stimato oltre i cento milioni di dollari. Due anni dopo decide di diversificare le sue attività e si tuffa nella ricerca farmaceutica finanziando un laboratorio per lo sviluppo di nuovi antibiotici. La polizia sospetta che sia una copertura per la produzione di droghe sintetiche e fa irruzione senza trovare nulla. Quel tipo eccentrico è da tempo nel mirino delle autorità. Nel 2012 è addirittura sospettato dell’omicidio di Greg Faull, un suo vicino di casa in Belize con il quale aveva avuto diverse dispute. Ma anche in questo caso le accuse decadono. Poi ancora un arresto in Tennesse per guida in stato d’ebrezza e porto abusivo d’armi. C’è anche spazio per la politica: nel 2016 si candida alla Casa Bianca con il suo partito Cyber: «Se non ci fossi io, Trump sarebbe il vincitore». La sua campagna è un prevedibile flop che però non spegne le velleità politiche: quattro anni dopo rispunta infatti tra le fila del partito libertario (conservatore in economia, progressista sui diritti civili) che lo sceglie come candidato alle presidenziali. La sua corsa però si interrompe prima del voto, lo scorso ottobre in Spagna dove nel frattempo aveva spostato la sua residenza ufficiale. Nove mesi dopo la drammatica scomparsa.
· Morta la giornalista Diana De Feo, moglie di Emilio Fede.
Morta la moglie di Emilio Fede: Diana De Feo aveva 84 anni. Francesca Galici il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. Diana De Feo si è spenta nella sua casa di Napoli a 84 anni. È stata a lungo corrispondente per la Rai e senatrice del Popolo della libertà. A 84 anni, nella sua casa napoletana, si è spenta Diana De Feo, giornalista, moglie di Emilio Fede. "Era la mia vita. I funerali saranno domani a Napoli", ha dichiarato il giornalista all'agenzia Italpress. Nella giornata di domani sarà anche il compleanno di Emilio Fede, che compirà 90 anni. De Feo e Fede si sposarono nel 1964 e da allora hanno vissuto una vita in simbiosi, tra salite e discese, senza mai allontanarsi. Diana De Feo nacque a Torino il 9 marzo 1937. Era figlia di Italo, anche lui giornalista, nonché storico. Diana De Feo ha avuto una lunghissima carriera come giornalista, il suo volto è stato uno dei più familiari per i telespettatori, perché oltre a essere stata tra le collaboratrici della rubrica quotidiana l'Almanacco del giorno dopo, è stata inviata speciale del Tg1 per l'arte e la cultura. A un certo punto la sua passione per il giornalismo ha incontrato quella per la politica, tanto che nel 2008 è stata eletta senatrice con il Popolo della libertà in Campania, su espressa richiesta del presidente Silvio Berlusconi che ha caldeggiato la candidatura. Diana De Feo ha seguito le orme di suo padre, capo dell'ufficio stampa del comitato di Liberazione nazionale. Nel 2013 scelse di non presentare nuovamente la sua candidatura. Emilio Fede e Diana De Feo hanno avuto due figlie. Si sono conosciuti in Rai, ai tempi in cui Emilio Fede era corrispondente da Torino e lei da Roma. Fu la città sabauda a fare da scenario al loro primo incontro, quando la De Feo era stata inviata per un servizio sul soccorso alpino. "Lui allora era un appassionato di scalate e grande amico di Walter Bonatti", dichiarò qualche tempo fa Diana De Deo al Corriere raccontando i retroscena del loro primo incontro.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Emilio Fede, morta la moglie Diana De Feo e l'intervento alle vertebre errato: "Sono quasi paralizzato". Libero Quotidiano il 24 giugno 2021. Addio a Diana De Feo, morta nel primo pomeriggio di ieri, mercoledì 23 giugno. La moglie di Emilio Fede, ex senatrice e giornalista, si è spenta a 84 anni dopo che a settembre aveva subito un delicato intervento: in questi mesi era ancora sottoposta a una lunga riabilitazione. Un dolorosissimo lutto, per l'ex direttore del Tg4, che interpellato dal Corriere della Sera, a caldo, ha commentato: "Ha lottato sino alla fine con un coraggio enorme". E ancora, ha aggiunto: "Non mi aspettavo che mancasse adesso: stavo per raggiungerla, da Milano a Napoli, per festeggiare con lei il mio novantesimo compleanno". Già, perché oggi, giovedì 24 maggio, Emilio Fede compie 90 anni. Ma lo fa da vedovo. I due erano sposati da 57 anni hanno avuto due figlie e cinque nipoti. Proprio in questi giorni l'ex direttore del Tg4 aveva deciso di intitolare alla De Feo una fondazione: "Ho destinato parte dei miei averi ad aiutare le famiglie dei malati che non hanno di che vivere. Dedicherò il resto della mia vita al ricordo di Diana", ha aggiunto sempre con il Corsera. E per Emilio Fede, la morte della moglie è l'ultimo capitolo di un momento orribile. Soltanto pochi giorni fa, infatti, in vista del suo novantesimo compleanno, raccontava: "È un momento terribile. Dopo che sono caduto per strada, un illustre chirurgo inglese, si fa per dire, mi ha operato alle vertebre e mi ha quasi paralizzato. Sto in carrozzina. Faccio la riabilitazione - ha svelato l'ex direttore -. E Diana, la mia Diana, sta come sta. Sempre col grande coraggio, la grande bontà che la contraddistinguono. Sta. Lotta e noi tutti siamo appesi alle notizie che la riguardano. Ha subìto un intervento delicato e ha ripreso a vivere con una forza incredibile. Ce la farà - si augurava Emilio Fede -. Legge i giornali e, se non riposa, parla al telefono. Siamo stati io un ospedale, lei in un altro ospedale. Non la vedo da un mese a mezzo. Io sto a Milano, lei a Napoli, spero che, essendo affidato ai servizi sociali, mi diano il permesso di andare da lei per il mio compleanno". Un permesso che gli era stato accordato, ma purtroppo Emilio non è riuscito a raggiungere la sua Diana.
Candida Morvillo per corriere.it il 23 giugno 2021. Diana De Feo è morta nel primo pomeriggio di oggi nella sua casa di Napoli. La giornalista, già senatrice della Repubblica, aveva 84 anni. A settembre, aveva subito un delicato intervento, e in questi mesi, si stava sottoponendo a una riabilitazione. «Ha lottato sino alla fine con un coraggio enorme», ha detto al Corriere il marito Emilio Fede, «non mi aspettavo che mancasse adesso: stavo per raggiungerla, da Milano a Napoli, per festeggiare con lei il mio novantesimo compleanno». Erano sposati da 57 anni, hanno avuto due figlie e cinque nipoti. Lei, nata a Torino, aveva cominciato in Rai nel 1976, collaborando alla rubrica Almanacco del giorno dopo del Tg1, del quale era poi diventata inviata speciale di arte e cultura. Donna brillante e acuta, in gioventù aveva rifiutato una proposta di matrimonio di Costantino di Grecia, ed era stata senatrice, chiamata da Silvio Berlusconi, dal 2008 al 2013. Figlia di Italo De Feo, che fu segretario di Togliatti e poi direttore e vicepresidente della Rai, Diana raccontava che aveva respirato giornalismo e politica fin da bambina: «Il migliore amico di papà era Saragat, per casa giravano Nenni e De Gasperi, la passione ce l’ho da allora». L’ex direttore del Tg4 aveva deciso proprio in questi giorni di intitolare alla moglie una fondazione: «Ho destinato parte dei miei averi ad aiutare le famiglie dei malati che non hanno di che vivere. Dedicherò il resto della mia vita al ricordo di Diana». Pochi giorni fa, sentito in previsione dei suoi 90 anni raccontava: «È un momento terribile. Dopo che sono caduto per strada, un illustre chirurgo inglese, si fa per dire, mi ha operato alle vertebre e mi ha quasi paralizzato. Sto in carrozzina. Faccio la riabilitazione. E Diana, la mia Diana, sta come sta. Sempre col grande coraggio, la grande bontà che la contraddistinguono. Sta. Lotta e noi tutti siamo appesi alle notizie che la riguardano. Ha subìto un intervento delicato e ha ripreso a vivere con una forza incredibile. Ce la farà. Legge i giornali e, se non riposa, parla al telefono. Siamo stati io un ospedale, lei in un altro ospedale. Non la vedo da un mese a mezzo. Io sto a Milano, lei a Napoli, spero che, essendo affidato ai servizi sociali, mi diano il permesso di andare da lei per il mio compleanno». L’anno scorso, per festeggiare l’89esimo compleanno, sempre sotto restrizioni per una condanna nel processo Ruby Bis, era andato a Napoli senza accorgersi che non era stata autorizzato ed era stato arrestato al ristorante con la moglie. Vicenda risolta in 24 ore. Con lui e lei finalmente mano nella mano, davanti alla torta. Lui che spiegava: «Vengo da dieci mesi di solitudine. Questo è il primo momento di commozione e serenità. Avrei fatto i domiciliari a Napoli da Diana, ma la casa è tutta scale, io ho una gamba inagile. La sera, vado a dormire a mezzanotte e 16 perché so che Diana spegne la luce dopo gli ultimi tg. Così, sogno di tenerla per mano». Lei assicurava di non aver mai contemplato la parola «divorzio». Diceva: «Io sono per la famiglia, la famiglia è una cosa bellissima». E Fede ricordava che Berlusconi gli diceva sempre: «Diana è la parte migliore della famiglia».
Dagospia l'11 ottobre 2011. «Quando ho cominciato a leggere quelle cose sui giornali», e cioè dell'incontro tra Emilio Fede e Ruby nel settembre del 2009 e del presunto reato di induzione alla prostituzione, «mi sono molto arrabbiata». Diana De Feo, senatrice eletta nelle liste del Pdl e moglie di Emilio Fede, parla in esclusiva con "A" in edicola il 12 ottobre. E aggiunge: «Ho pensato di andare dall'avvocato e chiedere la separazione. Poi ci ho ripensato e ho deciso di non chiedere la separazione ma piuttosto i danni per "lesione di immagine". Sono un senatore della repubblica, la mia immagine è legata al nome della storia dell'arte, della cultura, non voglio vederla appannata». Per la prima volta la senatrice parla delle tensioni di questi mesi: «Sono andata da lui a Milano e gli ho detto piuttosto bruscamente: "Da te voglio un sacco di soldi, voglio essere risarcita". Lui mi ha detto: "Diana lo sai, abbiamo tutti i conti in comune, quello che possediamo appartiene a entrambi, prenditi tutto quello che vuoi". E allora, mi sono resa conto che per me tutte queste cose hanno, in fondo, poca importanza rispetto al ricordo di tanti bei viaggi fatti insieme, abbiamo due figlie da seguire, i nipoti». Sull'esito del processo, la senatrice si dice sicura: «Io lo sapevo come stavano le cose. Emilio è un bravissimo cronista e ha fatto lui personalmente le ricerche e le indagini». E conclude: «Sono fiduciosa anche perché di carattere sono ottimista, mi aspetto che tutto si sviluppi in modo positivo». Ma alla domanda su quale telegiornale segue, la risposta è lapidaria: «Quando sono a Roma vedo La7, quando sono a Napoli, per ragioni di decoder, vedo il Tg1».
Candida Morvillo per il "Corriere della Sera" il 26 giugno 2020. Alla fine, Emilio Fede è riuscito a festeggiare il compleanno in famiglia e a spegnere le candeline con la moglie, meritevole da quasi 60 anni di avergliele perdonate tutte. 'O sole mio e tamburelli in sottofondo: non diresti che l'happy family esce da 48 ore da incubo, con lui accusato di evasione dai domiciliari, fuga da Milano a Napoli e, di nuovo, rievocazioni in cronaca di scandali per prostituzione ed escort.
La moglie arriva come se niente fosse: «Tempo buono, non caldissimo, è una bella serata». La figlia Sveva giustifica il papà con tenerezza: «Si era solo dimenticato di aspettare il permesso per partire: è andato in confusione per l'emozione di poterci finalmente incontrare. Viene anche mia sorella da Parigi». Si raccontano a cena al ristorante dell'Hotel Santa Lucia, dove l'ex direttore del Tg4 se n'è stato recluso dopo l'arresto e che ieri ha lasciato per scontare i domiciliari residui nella casa di Segrate. Addio affetti e addio camera vista mare e servizio cinque stelle lusso.
Fede: «Il proprietario mi fa uno sconto enorme: è un amico perché andiamo insieme in chiesa a pregare. Io ringrazio nel nome del padre del figlio e dello spirito santo per avermi dato la donna che più ho amato e amerò». La donna è Diana De Feo, giornalista, già senatrice berlusconiana, Napoli bene, figlia di un allora potentissimo dirigente Rai. Molti dei 56 anni di matrimonio li hanno passati lui al Nord, lei fra Roma e Napoli, ma sempre uniti. Lei: «Ci sentiamo dieci volte al giorno, abbiamo la stessa visione delle cose.
Se litighiamo è solo per il piacere di fare una piccola discussione». Lui: «I domiciliari li avrei fatti da lei, magari me l'avessero consentito, e però ho anche una gamba inagibile, ho operato le vertebre, sette ore di intervento, mi muovo col bastone e l'autista che mi trascina, e casa di Diana è piena di scale». Pausa. Voce tremula. «Vengo da dieci mesi di solitudine. Questo è il primo momento di commozione e serenità. A Segrate, cucino, lavo i piatti, ho una cameriera due ore al mattino, poi va via. Vado a dormire a mezzanotte e 16 perché so che Diana spegne la luce dopo gli ultimi tg. Così, sogno di tenerla per mano: non dormiamo insieme, ma il sogno ci unisce». Quando parlano l'uno dell'altro, tanto lui è lirico, tanto lei è spiccia. Lui: «È un amore nato romanticamente, ero molto suggestionato dalla sua bellezza: era la più bella di Roma. Aveva avuto la proposta di matrimonio da Costantino di Grecia. La corteggiavo, ci sedevamo a tavola e, in base al risultato del solitario, decidevamo dove cenare. Quando le ho chiesto perché ha rifiutato Costantino, mi ha risposto: perché con te mi diverto». Lei: «Non c'era solo Costantino. Potrei fare i nomi di altri sovrani, ma ormai sono una vecchia signora e tutto è solo lontano». Quanto ai solitari, furono complici della proposta di matrimonio, per niente romantica, a sentir lei: «Eravamo al Cervino, lui cadde, si slogò una caviglia, io continuai a sciare. Lui mi fa: vai pure, io ora faccio un solitario e, se riesce, vuol dire che ti chiedo di sposarmi e dici di sì. Torno, dice che il solitario è riuscito e io: se è destinato così, va bene». Lui si professa divorato dalla gelosia: «Ho avuto paura di perderla molte volte. La mia è una gelosia eterna, solenne. Cercavo di corrompere la cameriera. Chiedevo: chi viene a cena e che tipo è? Adesso, la gelosia è alimentata dal fatto che lei è bella e io sono avvizzito». Lei scrolla le spalle: «Io la gelosia non so che sia, non è una cosa che m' interessa. Quello che lui fa mi è indifferente». Tutto il carosello del Bunga Bunga, delle Olgettine promosse a meteorine o candidate in politica, lui lo nega («mai visto sesso e porcherie varie») e lei gli crede, o comunque non le importa. Dice: «I processi non li ho vissuti con difficoltà, ho fiducia in Emilio, so che è tutto falso, lo so proprio». Domanda: davvero non ha mai contemplato la parola «divorzio»?
Risposta: «Ma scherza? Io sono per la famiglia, la famiglia è una cosa bellissima. Uno ha delle discordie, ma abbiamo due figlie, cinque nipoti, la famiglia è sacra». Avrà pure avuto un momento di esasperazione, fra scandali per giochi d'azzardo e processi sulle cene eleganti? Ma no: «Ho sempre reagito con un'alzata di spalle. Solo una volta gli ho tirato le orecchie: rilasciò un'intervista sul Viagra, gli dissi che non erano interviste da fare». Lui (agitatissimo): «Dirò una cosa sulla quale io e Diana, dopo, litigheremo, ma voglio che lei lo ammetta adesso, a un giornale. Se no, mi alzo da tavola e me ne vado. La cosa è questa: lei ama figlie e nipoti in modo eccezionale perché, inconsciamente, riversa su di loro l'amore che ha per me». Diana (imperturbabile): «Non gli badi. La verità è che lui è un po' gelosetto delle figlie: ha bisogno di credere che io amo tanto loro perché, in realtà, amo molto lui».
· E’ morto l’editore Egidio Gavazzi.
Padova, editore milanese precipita con il suo ultraleggero dopo una manovra disperata per evitare un edificio. Enrico Ferro su La Repubblica il 19 giugno 2021. Dopo aver perso la traiettoria per l'atterraggio Egidio Gavazzi, fondatore di "Airone" ha tentato di riprendere quota per non schiantarsi contro le case, ma il velivolo ha urtato un albero ed è caduto prendendo fuoco. Tragedia all'aeroporto civile Gino Allegri di Padova, dove un pilota milanese ha perso il controllo del velivolo in fase di atterraggio. Egidio Gavazzi, 84 anni, editore di riviste come Airone e Acqua, nato a Erba ma residente a Milano, è morto tra i rottami infuocati. Una tragedia che poteva essere di proporzioni ben maggiori, visto che l'aereo si è schiantato poco distante da alcune abitazioni. Secondo quanto raccontato dagli addetti dell'aeroporto, testimoni dell'incidente, l'aereo sarebbe andato lungo in fase di atterraggio. Il pilota, nel momento in cui si è reso conto di aver perso la traiettoria, avrebbe tentato di riprendere il volo per evitare di schiantarsi contro gli edifici. La manovra ha generato peró una imbardata impossibile da controllare. Sollevandosi in maniera scomposta il Beechcraft Bonanza 35 monomotore ha colpito un albero e, a quel punto, la carcassa ha iniziato a carambolare. Quando il rottame si è fermato è scoppiato l'incendio, con il pilota ancora imprigionato all'interno. I vigili del fuoco arrivati con due autopompe, due autobotti e dodici operatori. Secondo quanto ricostruito dai carabinieri, sembra che il pilota fosse partito questa mattina da Milano. L'aeroporto civile di Padova, che è anche base di elisoccorso del 118, si trova nel bel mezzo di un quartiere residenziale. A poche decine di metri dal luogo dello schianto ci sono infatti numerosi condomini. "Esprimo cordoglio e vicinanza ai cari della persona che purtroppo è mancata e vicinanza anche ai residenti del quartiere che hanno vissuto momenti di grande paura e apprensione. Già così è una tragedia ma poteva essere un vero disastro se fossero state coinvolte abitazioni o se il velivolo fosse piombato nella strada che è molto trafficata", ha detto il sindaco di Padova Sergio Giordani.
Paolo Virtuani per il “Corriere della Sera” il 20 giugno 2021. Le grandi passioni di Egidio Gavazzi erano quattro: la fotografia naturalistica, l'editoria, il volo aereo e l'ambiente. Non necessariamente in quest' ordine. È morto ieri a 84 anni mentre era ai comandi del suo aereo da turismo, un Beechcraft Bonanza, precipitato all'aeroporto di Padova dove ad attenderlo c'era la nipote. Si è schiantato contro un pino al limite esterno della pista, forse aveva tentato una manovra estrema per evitare un condominio. Il velivolo ha preso subito fuoco e i soccorsi sono stati inutili. L' aereo è stato posto sotto sequestro e l'Agenzia nazionale per la sicurezza dei voli aprirà un'inchiesta per accertare le cause dell'incidente. «Esprimo cordoglio e vicinanza ai cari della persona che purtroppo è mancata e vicinanza anche ai residenti del quartiere che hanno vissuto momenti di grande paura», ha detto il sindaco di Padova, Sergio Giordani. «Poteva essere un disastro se fossero state coinvolte abitazioni o se il velivolo fosse piombato nella strada che è molto trafficata». Un testimone ha raccontato di aver visto l'aereo di Gavazzi planare in un piazzale che una volta era occupato da un distributore di benzina e virare per evitare di schiantarsi contro il palazzo. Gavazzi, discendente da una grande famiglia industriale lombarda, era nato a Erba, in provincia di Como, ma era da tempo residente a Milano. Aveva fondato riviste che hanno fatto la storia dell'ambientalismo italiano, tra cui Airone (ora di Cairo Editore), Aqua, Silva e Alisei. Pubblicazioni che coniugavano rigore scientifico con la divulgazione al grande pubblico, senza mai dimenticare il valore dell'immagine fotografica che Gavazzi voleva sempre di alto livello, proprio per il suo amore per la fotografia naturalistica. Aveva infatti dato vita anche alla Società italiana caccia fotografica, e aveva contribuito alla fondazione di Greenpeace Italia. Era anche appassionato di aerei, che aveva continuato a pilotare in tarda età. Sul tema aveva scritto anche un libro, Desiderio di volo. Un volume che è più di un'autobiografia e testimonia un amore sconfinato per gli aerei: «Coloro che da bambini provano desiderio di volare scelgono un uccello nel quale immaginarsi. Io scelsi il nibbio. Predatore, individualista e vagabondo», aveva scritto, ricordando anche la figura del padre, ufficiale pilota della Regia aeronautica. Egidio Gavazzi prese il brevetto di volo a vela a 17 anni nel 1954, quattro anni dopo quello per aerei, nel 1959 per elicottero. «Il volo è la metafora della vita. E come per la vita un viaggio ha da essere lungo e avventuroso». L'aereo che sentiva più vicino alla sua concezione del volo era il russo Yak 52, un velivolo che gli esperti definivano "brutto e bizzarro". «Non si entra in uno Yak, lo si indossa e il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce». Infine le lotte ambientaliste in prima persona: «La sezione di Greenpeace è nata in casa mia. Abbiamo lottato e ottenuto successi», ricordava.
E’ morto il pilota acrobatico Alex Harvill.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 19 giugno 2021. Alex Harvill è morto giovedì dopo un incidente mentre si preparava per un tentativo di salto in moto da record mondiale. Harvill era al Moses Lake Airshow di Washington, dove gli spettatori stavano registrando i suoi salti di prova prima del tentativo di record mondiale. iFIBER One ha raccontato che il salto di prova che gli è stato fatale era il primo della mattinata e misurava 46 metri. Nel video, Harvill può essere visto guidare la sua moto attraverso un campo prima di lanciarsi da una rampa. Durante il suo salto, tuttavia, Harvill non raggiunge la meta e si schianta contro un cumulo di terra. Harvill viene sbalzato in avanti dalla moto, con grande sorpresa delle persone che assistono al momento. KIMA-TV riferisce che i testimoni hanno visto il casco di Harvill volare via dalla sua testa dopo l'incidente. Nel video si sentono gli spettatori gemere. Il coroner della contea di Grant ha detto che Harvill, 28 anni, stava tentando un salto di prova quando si è verificato l'incidente. Secondo quanto riferito, Harvill è stato portato al Samaritan Hospital di Moses Lake dopo che i primi soccorritori hanno cercato di curarlo sulla scena. Venerdì è prevista l'autopsia per determinare la causa della morte di Harvill. «Le nostre più sentite condoglianze vanno alla famiglia, agli amici e alle persone care di Alex», ha detto su Facebook l'ufficio dello sceriffo della contea di Grant. Dopo l'incidente, l'airshow in cui si stava svolgendo il salto ha promesso su Facebook di donare i proventi del salto alle spese mediche per Harvill. Non hanno commentato pubblicamente l’incidente dopo che è stata confermata la morte di Harvill intorno alle 16:30. Il 12 maggio 2012, Harvill aveva stabilito un record mondiale al Toes Motocross Park di Royal City, Washington, con un salto a distanza dalla rampa allo sterrato, di 130 metri. Un anno dopo, ha conquistato il record mondiale di salto a distanza da terra a terra. Harvill ha saltato oltre 90 metri all'Horn Rapids Motorsports Complex a Richland, Washington, il 6 luglio 2013. Detiene ancora quel Guinness World Record. Ha anche gareggiato in numerosi sport, tra cui la Canadian MX National Series, l'AMA Motocross, l'AMA Supercross e l'Arenacross, oltre a fare spesso acrobazie. Un mese prima del suo fatale tentativo di record mondiale, aveva pubblicato sul suo sito web il suo obiettivo. «Cercherò un altro salto da record mondiale all'airshow di quest'anno qui a Moses Lake Washington. Questa volta sarà l'ufficiale del Guinness World Records per il tentativo di salto a distanza in moto "Ramp to Dirt"», aveva scritto Harvill. «L'attuale record del Guinness è detenuto da Robbie Maddison che ha coraggiosamente spinto lo sport in molti modi nel corso degli anni», ha continuato. Quel record è stato stabilito da Maddison più di 13 anni fa, nel marzo 2008. Solo un mese fa, Harvill ha annunciato su Instagram la nascita di Watson Robert Harvill, il suo secondo figlio.
· E' morto Paolo Armando, ex concorrente di MasterChef Italia.
Masterchef, morto l'ex concorrente Paolo Armando. Come l'hanno trovato in casa, a 49 anni: sconvolgente. Libero Quotidiano il 18 giugno 2021. E' morto Paolo Armando, ex concorrente di MasterChef Italia. La notizia ha sconvolto i fan più affezionati del programma in onda su Sky. L'uomo vi aveva partecipato nella quarta edizione, quella trasmessa tra dicembre 2014 e marzo 2015. Era soprannominato la "tigre" di MasterChef. E proprio così viene ricordato oggi dai tanti seguaci che stanno scrivendo messaggi di affetto e cordoglio per la sua scomparsa. Paolo Armando aveva 49 anni ed era un informatico, lavorava come dipendente nella Provincia di Cuneo. La cucina, però, è sempre stata una sua grande passione e lo ha dimostrato nel programma, conquistando il pubblico anche grazie alla sua simpatia. È stato uno dei concorrenti più divertenti di sempre. Ecco perché sui social c'è un enorme dispiacere per la sua morte. "Una grande perdita. Sia per noi sia per tutta la comunità provinciale che aveva imparato a conoscerlo e ad apprezzarne le grandi doti umane e professionali", ha dichiarato il presidente della Provincia di Cuneo, Federico Borgna, a La Stampa. L'ex concorrente di MasterChef lascia la moglie e tre figli di 15, 12 e 8 anni. Al momento, comunque, non si conoscono i motivi della morte. Pare sia stato ritrovato senza vita ieri sera nella sua abitazione e a nulla sono serviti i soccorsi del 118. Durante la sua partecipazione al famoso programma di cucina, Paolo si classificò al quarto posto. Il suo percorso viene ricordato dal pubblico anche per un taglio alla mano durante un Pressure Test che costrinse i giudici a fermare la prova.
· E' morto Giampiero Boniperti.
E' morto Giampiero Boniperti, una bandiera della Juventus. La Repubblica il 18/6/2021. E' morto nella notte a Torino per una insufficienza cardiaca Giampiero Boniperti, presidente onorario della Juventus, di cui è stato una bandiera prima come calciatore e poi come dirigente. Lo rende noto la famiglia. Boniperti, che negli ultimi anni si era ritirato a vita privata, avrebbe compiuto 93 anni il prossimo 4 luglio. I funerali si svolgeranno nei prossimi giorni in forma privata per volere della famiglia. Con la Maglia bianconera Boniperti ha giocato 444 partite. Eppure, quando era bambino si sarebbe accontentato - aveva raccontato qualche tempo fa - di portarla "una volta, per essere felice per sempre". Di vittorie e soddisfazioni alla Juventus ne ha avute tantissime, sul campo, ma soprattutto dietro la scrivania: cinque scudetti da giocatore, nel "Trio magico" con Charles e Sivori, tutti i trofei possibili, in Italia e nel mondo, nel suo ventennio da presidente. Nel club bianconero era arrivato a 17 anni, pagato 60mila lire fifty fifty tra la squadra del suo paese, Barengo (Novara), e il Momo che l'aveva tesserato. Ne è uscito 48 anni dopo, quando ha lasciato la presidenza effettiva della Juventus. E' stato presidente dal '71 al '90 e poi, quando fu richiamato dalla famiglia Agnelli, amministratore delegato dal '91 al '94. Dal 2006 era presidente onorario. "La Juve - è un'altra delle sue espressioni più amate - non è soltanto la squadra del mio cuore, è il mio cuore". Da presidente, lasciava lo stadio alla fine del primo tempo, e seguiva alla radio il secondo; tra le tante sfide quelle più sofferte erano le stracittadine con il Torino, anche se ai granata ha segnato più di ogni altro bianconero: 14 gol (13 in campionato, 1 in Coppa Italia). "Il derby - aveva spiegato, da dirigente - mi consuma, amo troppo la Juve e ho così rispetto della Juve che non può essere altrimenti". Con i giocatori aveva sempre il coltello dalla parte del manico, ma era lontano il tempo della predominanza dei procuratori. Dopo il Mundial vinto dall'Italia nell'82 in Spagna, aveva messo fuori rosa, perché avevano chiesto un aumento, nientemeno che Paolo Rossi, Tardelli e Gentile. Una settimana di stop, un'amichevole saltata, prima di essere nuovamente ricevuti da Boniperti, e di firmare il contratto, con la concessione di un piccolo ritocco. Dei tantissimi calciatori di grido che ha portato alla Juventus, due tra i più amati sono stati Scirea e Del Piero; alla Juve ha fatto venire, dal Milan, un giovane Giovanni Trapattoni con il quale ha condiviso dieci stagioni con i primi successi internazionali. Una scommessa vinta contro gli scettici: con il 'Trap' alla guida, la Juve vinse subito lo scudetto con il record a quota 51, quando le vittorie valevano ancora due punti. E' stato europarlamentare dal '94 al '99. Ma la sua grande, vera e unica passione è sempre stata la Juventus.
Addio a Giampiero Boniperti: una vita per la Juve. Francesco Curridori il 18 Giugno 2021 su Il Giornale. Giampiero Boniperti, campione bianconero dal ’47 al ’61, ha sempre vissuto da juventino, fino alla fine dei suoi giorni. “La Juve non è soltanto la squadra del mio cuore. È il mio cuore”. Giampiero Boniperti, campione bianconero dal ’47 al ’61, ha sempre vissuto da juventino, fino alla fine dei suoi giorni, arrivata oggi all’età di 92 anni.
Dagli esordi all'arrivo alla Juventus. Boniperti nasce nel 1928 a Barengo, in provincia di Novara. Anche suo fratello Gino inizia come calciatore ma, poi, diventa medico e, in seguito morirà di tumore. Giampiero, invece, prende il diploma da geometra ma la sua passione è il calcio. Milita prima nella squadra del suo paese natìo, Barengo, poi passa al Momo, squadra dilettantistica del novarese, dalla quale lo preleva la Juventus, su consiglio dell’amico medico Egidio Perone. “Le trattative furono brevi; io avevo firmato il cartellino per il Momo ma, sentimentalmente, il mio cuore era per la squadra del mio paese, il Barengo, e desideravo che, nel passaggio alla Juventus, anche quella società avesse qualche guadagno. Andò a finire così: prezzo di acquisto 60.000 lire; 30.000 furono per il Momo e 30.000 per il Barengo, in scarpe, maglie e reti, di cui avevano bisogno. Io, mi accontentai dell’onore. Furono gli amici a leggermi la Juve del quinquennio come se fosse un romanzo d’avventure”, racconterà parecchi anni dopo.
Le vittorie con la Juventus. Boniperti fa il suo esordio in serie A il 2 marzo 1947 in Juventus-Milan che termina 1-2 per i rossoneri. La prima stagione in bianconero termina con tanta panchina e 5 gol fatti in 6 gare nel girone di ritorno. Nel campionato successivo, quando non ha ancora compiuto 20 anni, con 27 reti, diventa capocannoniere della Serie A con due goal di vantaggio sull’allora capitano del ‘Grande Torino’, Valentino Mazzola. Un record infranto solo nel 2006 da Alessandro Del Piero. Con la Juve, in 15 stagioni, vince gli scudetti nel 1950, nel ’52, nel ’58, nel ’60 e nel ’61 e due volte la Coppa Italia (’59 e ’60). In 469 partite, tra Serie A, Coppa Italia e coppe europee segna 188 gol. Con la Nazionale italiana partecipa ai Mondiali del ‘50 in Brasile e del ‘54 in Svizzera, collezionando 38 presenze e 8 goal. Viene soprannominato Marisa perché in un’amichevole di precampionato Novara-Juve “si presentò anche Marisa, avvenente miss Piemonte, pure lei in calzoncini e maglietta bianconera”, disse Boniperti. “Mi porse un mazzo di fiori, ero il capitano, ci fu lo scambio di baci e il pubblico cominciò a urlare: Marisa, Marisa. Il coro poi cambiò destinatario e con cattiveria continuò; ogni volta che toccavo palla i tifosi (del Novara ndr) mi beccavano: Marisa, Marisa”.
I rapporti tra Boniperti e i compagni di squadra. Quando nel 1957 arrivano alla Juve l’inglese John Charles e l’argentino Omar Sivori, Boniperti gioca da mezz’ala e, insieme a loro, forma un trio d’attacco che porta alla vittoria di 3 scudetti in 4 anni. Mentre “John era un giocatore straordinario e andava d’accordo con tutti, era impossibile non volergli bene”, con Omar i rapporti erano tesi.“Sivori era tutto il contrario. Strafottente. Ti tirava i capelli, ti metteva le dita negli occhi”, ammise nel suo libro-intervista del 2003, poi, precisò:“Dicevano che non andassimo d’accordo ed è vero solo in parte. Eravamo molto diversi, questo sì, mi disturbavano certi suoi atteggiamenti provocatori e glielo dicevo. Non ci siamo taciuti nulla, ma insulti mai, litigate mai. Anzi, ci siamo divertiti insieme”. Ma il suo primo maestro resta Carlo Parola, detto ‘Nuccio’, che fu compagno di squadra di Giampiero nei primi anni ’50 e, poi, suo allenatore dal ’59 al ’61. “Parola -racconta nel suo libro - mi voleva bene ed io lo adoravo. Era grandissimo, non a caso con la sua rovesciata è stato per anni sulla copertina delle figurine Panini. Se penso cosa guadagnano adesso i giocatori con il diritto d’immagine e cosa non ha mai preso Parola per tutto il tempo in cui ha pubblicizzato l’album con quel gesto tecnico straordinario, divento matto”. “Ma – aggiunge - una soddisfazione e un bel ricordo ce li ho: perché io, quando non ero già più presidente della Juventus, ai dirigenti della Panini tutte queste cose le ho dette: ‘Quanto vi ha fatto guadagnare Parola senza avere una lira in cambio?’ E loro hanno capito. Alla famiglia Parola hanno versato cento milioni, come segno di riconoscenza”.
I successi da presidente della Juventus. Il 10 giugno 1961 disputa la sua ultima gara contro l’Inter che, per volontà dell’allora presidente Angelo Moratti, schiera i giovani della primavera, tra i quali vi era un esordiente Sandro Mazzola (figlio del compianto capitano del Torino, Valentino) e perde 9 a 1. “Sono per i tagli netti. Mi tolsi le scarpe e le diedi al magazziniere. Mai più messe. Odio le pantomime fra vecchie glorie”, racconterà. Dieci anni dopo, il 13 luglio del 1971, su espressa volontà del presidente Gianni Agnelli, Boniperti assume la presidenza della Juventus con il compito di farla ritornare ai fasto di un tempo. Obiettivo che raggiunge conquistando 9 scudetti (1972, 1973, 1975, 1977, 1978, 1980, 1981, 1984, 1986) e tutte le coppe europee: Campioni (1985, nella tragica notte dell’Heysel), Uefa (1977, 1993), delle Coppe (1984), Intercontinentale (1985), Supercoppa (1985). In ufficio aveva sempre le foto della squadra avversaria che aveva vinto l’ultimo scudetto o quella con cui la Juve aveva perso una partita decisiva così da scoraggiare i calciatori dal chiedere ingaggi troppo elevati.
Gli ultimi anni di vita. Rimane in carica fino al 1990, quando la “Triade” composta da Moggi, Girando e Bettega prende il suo posto e lui, nello stesso anno, viene nominato capo delegazione della nazionale al campionato del mondo 1990 dall’allora presidente della Federcalcio, Antonio Matarrese. L’anno successivo la famiglia Agnelli lo rivuole alla Juve come amministratore delegato con pieni poteri, incarico che mantiene fino al ’94 portando la squadra a vincere la sua terza Coppa Uefa. Nel ’94 viene eletto al Parlamento Europeo nelle liste di Forza Italia e nell’estate 2006, dopo lo scandalo Calciopoli, viene richiamato dalla Juve per assumere la carica di presidente onorario del club.
Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”.
Da gazzetta.it il 18 giugno 2021. Un nuovo gravissimo lutto ha colpito questa mattina il mondo del calcio e della Juventus in particolare. È morto nella notte a Torino per una insufficienza cardiaca Giampiero Boniperti, presidente onorario della Juventus, di cui è stato una bandiera prima come calciatore e poi come dirigente. La notizia è stata data dalla famiglia. Boniperti, che negli ultimi anni si era ritirato a vita privata, avrebbe compiuto 93 anni il prossimo 4 luglio. Ha passato l’intera carriera in maglia bianconera con cui ha conquistato cinque scudetti tra il 1950 e il 1961 e due Coppe Italia. Con John Charles e Omar Sivori ha formato il cosiddetto Trio Magico, uno degli attacchi più noti e efficaci della storia del nostro campionato. Con la Nazionale ha collezionato 38 presenze e 8 reti. I funerali si svolgeranno nei prossimi giorni in forma privata per volere della famiglia
GIAMPIERO BONIPERTI. Da cinquantamila.it di Giorgio Dell'Arti. Giampiero Boniperti, nato a Barengo (Novara) il 4 luglio 1928 (91 anni). Dirigente sportivo. Presidente onorario (dal 2006, insieme a Franzo Grande Stevens), ex presidente (1971-1990) ed ex amministratore delegato (1991-1994) della Juventus. Ex calciatore, di ruolo attaccante. Giocatore-bandiera della Juventus (1946-1961), con cui vinse cinque campionati italiani (1949/1950, 1951/1952, 1957/1958, 1959/1960, 1960/1061) e due Coppe Italia (1958/1959, 1959/1960); militante anche nella Nazionale italiana (1947-1960). Politico. Ex europarlamentare (1994-1999), eletto tra le file di Forza Italia. «Vincere non è importante: è l’unica cosa che conta». «Famiglia di solidi mezzi economici» (Claudio Gorlier). «Papà Agabio, prima sindaco e poi podestà di Barengo. Mamma Camilla, maestra. Più che la guerra, mi impressionò il dopo. La Resistenza. Il paese spaccato. Partigiani, fascisti. Momenti terribili, anche dalle nostre parti» (a Roberto Beccantini). «All’oratorio di Barengo, e poi al collegio De Filippi di Arona, Boniperti capì di essere Boniperti. […] Già a tredici anni giocava in quel modo unico, testa alta e petto in fuori, e tiro formidabilissimo» (Maurizio Crosetti). «“Furono gli amici a ‘leggermi’ la Juve del Quinquennio come se fosse un romanzo d’avventure. Il fenomeno di casa, però, era Gino, mio fratello. Solo che fumava come un turco. Sarebbe diventato un fuoriclasse. Ha fatto il radiologo. Me l’ha portato via un tumore”. […] Se non avesse fatto il calciatore? “Avrei fatto l’agricoltore. Non ho mai rinnegato le mie radici contadine. […] Mi sono diplomato geometra e ho dato quattro esami di Economia e commercio. Poi, solo calcio”» (Beccantini). «S’impegnava al massimo. […] Era di struttura normotipica molto vicina alla brevilinea, che è l’ideale per il calcio. Scattava con prontezza e colpiva benissimo a volo con i due piedi. Per non avere mai fatto altro sport era un poco ipertrofico di cosce, e proprio da questo gli veniva notevole potenza nei tiri» (Gianni Brera). «Aveva capelli riccioluti e biondissimi. E il tritolo nei piedi. Assieme ai coetanei di Barengo era andato in giro a pubblicizzare il calcio nel Novarese. Lui aveva segnato 70 gol in 17 partite. Poi si fece vivo il Momo, la società del paese vicino. E, siccome nell’Italia della ricostruzione erano importanti pure le piccole storie di campanile, il Momo fece firmare il cartellino al baby bomber per battere l’Intra. Missione compiuta, appunto con 2 gol di Boniperti. Cominciò quel pomeriggio del ’46 il romanzo del biondino di Barengo. Firmò e si lasciò alle spalle i giorni spensierati della caccia con il papà e delle frequentazioni nelle risaie, quando portava i calzoni alla zuava e consumava con sguardi maliziosi le gambe delle mondine. Un amico (Voglino) lo presentò ad un altro amico (Perone), il quale ragguagliò Felice Borel, detto Farfallino» (Angelo Caroli). Fu lui, all’epoca giocatore e allenatore della Juventus, a scrutinarlo per i bianconeri. «Feci il provino in piazza d’Armi, dove si allenavano i ragazzi. Borel venne a vedermi. Poi, entrò in campo. Mi lanciava la palla. Di destro: pim; di sinistro: pim. Chiamò il dottor Egidio Perone, medico di Barengo e tifosissimo della Juventus, e gli disse: “Portamelo ancora domenica, così lo faccio giocare nelle riserve prima della partita con il Livorno”. La domenica, era il 22 maggio 1946, tornammo a Torino. Sulla Topolino del dottor Perone. L’appuntamento era allo Sporting, il tennis club, dove i giocatori mangiavano, prima di andare, a piedi, al Comunale. Vidi per la prima volta Sentimenti IV e Rava, Parola e Piola, Varglien II e Locatelli, Coscia e Depetrini, insomma conobbi la mia Juve. Poi andammo al campo: l’avversario era il Fossano e mi marcava un giocatore vero, anche se un po’ in là con gli anni. Era stato lo stopper del Torino. Vincemmo 7-0 ed io segnai sette goal. Carlìn, storico giornalista di Tuttosport, scrisse: “È nato un settimino”. La Juve, con Volpato che era il responsabile del settore giovanile, mi fece firmare il cartellino nel sottopassaggio che portava agli spogliatoi. […] Le trattative furono brevi; io avevo firmato il cartellino per il Momo ma, sentimentalmente, il mio cuore era per la squadra del mio paese, il Barengo, e desideravo che, nel passaggio alla Juventus, anche quella società avesse qualche guadagno. Andò a finire così: prezzo di acquisto 60.000 lire; 30.000 furono per il Momo e 30.000 per il Barengo, in scarpe, maglie e reti, di cui avevano bisogno Io, mi accontentai dell’onore». Secondo Angelo Caroli, invece, «Giampiero aveva 18 anni, però già fiutava gli affari come il più scafato dei mercanti. L’accordo fu raggiunto così: la Juve avrebbe dovuto versare 52.175 lire al Momo, al giovanotto ne toccavano 6.200. Il biondino puntò i piedi e fece correggere la scrittura (si può controllare nel documento): […] 7.200 a lui, 51.000 al Momo». «Nell’atleta ben fatto e coordinato, ogni mossa riesce elegante: e Gian Pier piaceva a chiunque capisse di calcio. Dopo Borel venne in panchina Renato Cesarini, che finalmente decise di lanciare Gian Pier in serie A, e ne fu così convinto Pozzo che non esitò a chiamarlo, diciottenne, in nazionale. (...) «Facilita i loro prodigi, ma non smette di segnare gol mai banali. La prima stella e tre scudetti in quattro anni, per il trio delle meraviglie che faceva impazzire le folle, e per quel capitano biondo che dirigeva, sorvegliava e proteggeva» (Targia). Poi, improvviso, il ritiro. «Sabato 10 giugno ’61, Juve-Inter 9-1. La prima partita di Sandro Mazzola, con la squadra ragazzi, schierata per protesta contro la decisione assunta dalla Caf di far ripetere la partita del 16 aprile, sospesa per invasione di campo sullo 0-0. L’ultima partita di Giampiero Boniperti. In tempi nei quali gli addii al calcio dei campioni diventano occasione di spettacolo tv, con mobilitazione di sponsor, nani e ballerine, quello del signor Juventus resta quantomeno singolare. Un perfetto contropiede. A 33 anni nemmeno compiuti, […] Boniperti finisce la partita con l’Inter e uscendo dal campo incrocia il magazziniere della Juve, Crova, e gli consegna le scarpe: “Queste sono per te: io ho finito qui. Ciao”. E se ne va, mentre Crova gli risponde: “Vai via, falabràc”. Non lo sa nessuno, a parte la moglie, Rosi, e il fratello, Gino, e non ci crede nessuno. Invece è tutto vero, anche se poi le scarpe sono tornate al mittente e finite nell’ufficio presidenziale. A crederci meno di tutti è Gianni Agnelli. Come ha raccontato lo stesso Boniperti nel bellissimo libro scritto insieme con Enrica Speroni (Una vita a testa alta), l’Avvocato lo chiama alla ripresa della preparazione, nell’estate ’61: “Vai ad allenarti, c’è da giocare la Coppa dei Campioni. È tutto pronto”. Boniperti non osa dire di no, ed è costretto a spiegarlo alla moglie: “Da domani si torna al riso in bianco e al filetto”. Ma questa volta la signora Rosi si permette di dissentire: “Fai come vuoi, ma cambi già idea?”. Il giorno dopo, quando suona la sveglia, Boniperti si gira dall’altra parte. Il bello è che da allora non ha più giocato: nemmeno le partitelle con gli amici. Chi ha disputato 444 partite ufficiali nella Juve, segnando 178 gol, chi ha vinto cinque scudetti, chi ha fatto prima il centravanti e poi mezz’ala (con Charles e Sivori di punta); chi è stato selezionato per Inghilterra-Resto d’Europa 4-4 (Londra, 21 ottobre ’53) non può divertirsi a giocare nel giardino di casa, nelle sfide che piacciono agli scapoli e agli ammogliati» (Fabio Monti). «Si era sposato e non vedeva nascere figli. Si dice abbia fatto il voto di non dare mai più un calcio alla palla, e di figli ne ebbe tre, molto belli» (Brera). «Dopo un decennio trascorso nei quadri dirigenziali, Boniperti il 13 luglio 1971 assume la presidenza della Juventus, e la squadra, dopo anni non troppo brillanti, torna a volare. Sotto la sua regia, infatti, la squadra bianconera tiranneggia l’Italia, l’Europa e il mondo: arrivano scudetti e soprattutto quelle coppe europee che in casa Juventus avevano sempre fatto soffrire. Quando la Juventus di Parola perse lo scudetto con il Torino, nel campionato 1975/76, Boniperti si presentò a Villar Perosa, per discutere dei contratti con i giocatori. Nella propria borsa, oltre ai contratti, aveva anche un ritaglio di giornale, con la formazione scesa in campo a Perugia l’ultima giornata di campionato: 16 maggio 1976, la Juventus perde per 1-0 e il Torino, pareggiando in casa contro il Cesena, può festeggiare il tricolore. Ai giocatori che, a mano a mano, entravano nella sua stanza, Boniperti diceva: “Tu c’eri a Perugia…”. Nessuno ebbe certo il coraggio di rilanciare sul reingaggio. Lui faceva l’interesse della società, ovviamente, ma stimolava i giocatori nell’orgoglio e nel portafoglio» (Bedeschi). «Dopo i cinque scudetti vinti da giocatore, […] e dopo i tre conquistati all’inizio della carriera dirigenziale, a lui si deve la scelta sorprendente di un giovane allenatore di scuola milanista, Giovanni Trapattoni: insieme formano un sodalizio che tra il ’76 e l’86 conquista 6 scudetti, Coppa dei Campioni, Coppa Uefa, Intercontinentale, Supercoppa europea e un paio di Coppe Italia. Intanto continua a dedicarsi con profitto alla sua azienda agricola» (Gorlier). «Gli Agnelli gli avevano affidato anche le tenute agricole, un capitale immenso da far fruttare. Lo chiamavo “il fattore”, non so quanto gli piacesse: volevo dire che era valvassore del Principe e che sapeva destreggiarsi nel migliore dei modi. […] Fu anche un asso nell’amministrargli i beni agricoli. Ma i giochi più belli fece in Juventus» (Brera). «Vince tutto anche dietro alla scrivania, prima di mettere a segno un altro contropiede. […] È il 5 febbraio ’90. Si dimette, e dice: “Poi vi spiegherò perché”. Ha fatto a tempo a tornare per il governo dei mille giorni (’91-’94) e per vincere una Coppa Uefa (’93). E […] quell’addio è ancora senza un perché. Un’altra giocata da Boniperti» (Monti). «L’ultimo atto è l’acquisto di un giovane che, di strada, ne farà parecchia: un certo Alessandro Del Piero, al quale è lui a imporre l’ingaggio» (Gorlier). «Acquistato dalla Juve nell’estate del 1993, Del Piero si allenò per una settimana con il procuratore Rizzato per discutere il contratto: “Se Boniperti ci propone questo, noi ribattiamo quest’altro; se invece ci offre quest’altro, noi chiediamo anche …”. Arrivati nell’ufficio, il presidente della Juve portò subito il futuro Pinturicchio nella sala delle coppe, e gli disse: “Per il contratto, non preoccuparti: la cifra, la scriviamo noi. Sarai contento. È tutto a posto, fìdati”. Del Piero firmò. Poi, uscito dalla stanza, si appoggiò desolato ad un muretto con il manager: “È una settimana che parliamo di contratto, e in cinque minuti Boniperti ci ha liquidati”» (Enrica Speroni). Eclissatosi dagli stadi ai tempi della gestione Bettega-Moggi-Giraudo, fu richiamato dalla famiglia Agnelli nel 2006, in seguito alla deflagrazione dello scandalo detto Calciopoli, per assumere, insieme a Franzo Grande Stevens, la carica di presidente onorario della società, a significarne la rifondazione a partire da uno dei suoi volti più rispettabili e vincenti. Ancora oggi, oltre a ricoprire tale carica, continua a curare l’azienda fondiaria di famiglia, «a due passi dal Parco del Valentino a Torino, dove Giampiero si presenta con puntualità elvetica ogni mattina. […] "Non manco mai. Faccio spesso attività fisica per quello che posso, cerco di mantenermi in forma, non fumo, sto attento a tavola e ogni tanto faccio arrabbiare la mia inseparabile segretaria. Sa perché? Perché arrivo al lavoro guidando l’auto…"» (Federico D’Ascoli). «Sto molto bene, le gambe non mi danno problemi, invece la memoria un poco sì. […] Invecchiare è solo una gran rottura di scatole, e io i compleanni non li conto più» «Il gol più bello che ha realizzato? “Non so se sia davvero il più bello in assoluto, ma sono affezionato a un rigore che calciai, e trasformai, al Filadelfia, contro il Toro. Non ha idea dell’atmosfera. La gente, lì, a pochi metri. Sentivo le fiamme che uscivano dai nasi granata. Tirai una lecca sotto la traversa. Parola mi diede dell’incosciente”» (Beccantini) «È diventata leggenda la storia dei premi che Gianni Agnelli gli dava per ogni rete segnata; gli veniva regalata una mucca, che lui andava a prendere direttamente nei poderi della famiglia Agnelli. Il fattore, a un certo punto, si lamentò, dicendo che Giampiero gli portava via le mucche più belle e, per giunta, gravide» (Bedeschi) Sposato, tre figli. «Niente avventure, lui con quel fisico da attore del cinema: un solido matrimonio con una donna intelligente e tutt’altro che subalterna, non certo la solita ragazza di copertina, pur nel suo fascino» (Gorlier) Numerose le ipotesi intorno all’origine del soprannome «Marisa», per lo più variamente riconducibili al suo aspetto curato e ai suoi modi distinti. Se l’ex collega Benito «Veleno» Lorenzi se ne è arrogata la paternità («Eravamo nello spogliatoio, Giampiero aveva appena vent’anni, era bellino, biondo, poco peloso, quasi efebico. “Che fisico da Marisetta”, gli dissi ridendo. Poi siamo diventati grandi amici»), lo stesso Boniperti l’ha spiegato talvolta ricordando una sua antica abitudine ritenuta vezzosa («Portavo un fazzoletto nella tasca dei pantaloncini: mi serviva per detergere il sudore»), talaltra citando la volta in cui, a Novara, prima di un’amichevole, fu omaggiato in campo da una miss Piemonte di nome Marisa («Mi porse un mazzo di fiori. Ero il capitano, ci fu lo scambio di baci e il pubblico cominciò a urlare: Marisa, Marisa. Il coro poi cambiò destinatario, e con cattiveria continuò; ogni volta che toccavo palla i tifosi mi beccavano: Marisa, Marisa»); altri ancora, come Gorlier, citano la sua correttezza in campo («Boniperti non era mite, ma il suo stile ripudiava ogni forma di gratuita brutalità. Ecco allora l’appellativo, fatto proprio soprattutto dai tifosi torinisti, di “Marisa”, che ancora lo irrita e che va inteso nel suo significato più reale, il rifiuto di venir meno, appunto, allo stile, alla misura: maschio non macho. Non saltava certo a gomiti larghi, né esplodeva mai in accessi d’ira») «Sapeva anche risparmiarsi e picchiare. Le sue caviglie garantivano di rischi sempre più gravi: a me contadino ricordavano quei rami di gelso potati troppe volte per non dilatarsi a orrendi bugnoni» (Brera). «Allora non c’era la tv. Tutti guardavano la palla, e in area, lontano dal pallone, volavano colpi spesso proibiti. Quante botte ho preso là in mezzo. […] Quello che mi ha picchiato di più è stato Parola, maestro e capobranco ma avversario duro quando gli giocavo contro nelle riserve della Juventus. Nella prima foto ufficiale con la maglia bianconera, ho un occhio nero per una gomitata di Nuccio in allenamento: modo sbrigativo per spiegarmi che il tunnel che gli avevo fatto non gli era piaciuto. Parola mi voleva bene ed io lo adoravo. Era grandissimo: non a caso con la sua rovesciata è stato per anni sulla copertina delle figurine Panini. Se penso cosa guadagnano adesso i giocatori con il diritto d’immagine e cosa non ha mai preso Parola per tutto il tempo in cui ha pubblicizzato l’album con quel gesto tecnico straordinario, divento matto. Ma una soddisfazione e un bel ricordo ce li ho: perché io, quando non ero già più presidente della Juventus, ai dirigenti della Panini tutte queste cose le ho dette: “Quanto vi ha fatto guadagnare Parola senza avere una lira in cambio?”. E loro hanno capito. Alla famiglia Parola hanno versato cento milioni, come segno di riconoscenza. E Nuccio, che è stato malato a lungo, ne aveva bisogno. Nella storia della Juventus, Parola occupa un posto importante: giocatore eccezionale, con Valentino Mazzola è in cima alla mia classifica ogni tempo, ha vinto tre scudetti anche da allenatore. Quando è morto, ho preso la cravatta della mia divisa bianconera e gliel’ho annodata al collo. L’ho fatto io, anche se nella Juventus non avevo più un ruolo operativo. Ma il vecchio Parola alla Juventus ha portato eleganza, signorilità e gloria: non poteva andarsene nudo» «Cattivi rapporti con Omar? Bisogna capire una cosa. Sivori era argentino. Non era né brasiliano, né John Charles. Il brasiliano, se può, ti dribbla e passa la palla, in silenzio. L’argentino ti dribbla dandoti un pugno in faccia e poi ti manda a fare in culo con un “Hijo de puta”. […] Ma che grande giocatore, Omar. Ti divertiva, in campo e fuori, era una fortuna averlo come compagno. […] Eravamo molto diversi, questo sì, mi disturbavano certi suoi atteggiamenti provocatori e glielo dicevo. Non ci siamo taciuti nulla, ma insulti mai, litigate mai. Anzi, ci siamo divertiti insieme» «In testa ai miei rimpianti metto Maradona. Lo avevo già preso, con Giuliano e Sivori: tutto okay, un milione di dollari. "Ciao, presidente", mi diceva Diego, strafelice. Fu Grondona, […] il presidente della federazione argentina, […] a bloccarlo prima dei Mondiali ’82. […] Dopo Maradona, Riva e Gullit. Riva, se non sbaglio, lo ha poi confessato: feci male a non accettare» «L’Heysel, la tragedia più immane. Ma la partita fu vera, i giocatori non sapevano. Fui io, che sapevo, a ridurre al minimo i giri di campo, le feste» «Giuro: ho sempre resistito alle tentazioni, non ho mai arrangiato partite. […] Non devo rendere nessuno scudetto. Anzi: ne meritavo il doppio» «Del Piero mi assomiglia nell’amore per la squadra, nella fedeltà, credo anche nella serietà. Anche se io ero molto più carogna di lui. Ma avevo un vantaggio: non c’era la televisione, e potevo menare come e quanto volevo. Però ne prendevo anche un sacco, devo dire» «Avrei voluto giocare io con il pallone di oggi e non con quella bestia dei miei tempi, quel pallone con la cucitura che ti spaccava la testa e il collo del piede, il mio poi numero trentotto…». «Avrei dato la metà del mio stipendio per giocare soltanto un tempo, magari i venti minuti finali come accade oggi. Non trascurate un fatto: vinsi la classifica dei cannonieri con ventisette reti in un periodo di grandissimi come Valentino Mazzola, che finì alle mie spalle. Il calcio contemporaneo è un’altra cosa» Parsimonioso. «Quando bisognava comprare, Gianni Agnelli mi diceva: mi fido di te, ma fai come se i soldi fossero i tuoi. E, quando mi “svegliava” anche alle quattro del pomeriggio, voleva dire che non eravamo primi in classifica» «Il mio piede, non per dire, di soddisfazioni me ne ha date tante, anche quando l’ho usato per prendere a calci nel sedere qualcuno» «Un supremo dilettante. Se si fosse battuto con furore, sarebbe stato il più grande calciatore del suo tempo» (Brera). «Boniperti come calciatore ha avuto la stessa grandezza di Bach» (Salvatore Accardo). «Aveva un enorme carisma, […] rappresentava in toto la Juventus, come essa era stata negli anni antichi e come continuava a essere anche con il suo esempio. Si può affermare che Boniperti capitano suggellasse passato e futuro; è nato con lui il calciatore come professionista, la stessa attività di calciatore assume contorni più precisi, una sua distinzione. Il calciatore forte e malizioso nella lotta, che non tira mai indietro il piede, e disponibile per utili consigli comportamentali, fuori, con i compagni» (Vladimiro Caminiti). «Sono stati in molti nel corso degli anni a chiedersi – e a chiedergli – se sia stato migliore come giocatore o come presidente. In realtà è una domanda oziosa, perché quel presidente è diretta emanazione del giocatore, e quel giocatore aveva in campo il piglio di chi sa gestire un gruppo come un presidente» (Targia) «Al tempo stesso perentoriamente assertivo e astutamente reticente» (Gorlier). «Uno che parla poco è esperto, uno che parla pochissimo è espertissimo» «Mi dà forza la fede nel Signore, che non mi abbandona mai, e la mia famiglia, che funziona un po’ come una squadra di calcio. Siamo uniti e compatti: mai una sbandata, mai un tradimento, mai una divisione, di nessun genere. Siamo affiatati, granitici: nipoti compresi. Ogni anno pretendo che ci facciamo una foto tutti insieme: è un po’ come la formazione della Juve schierata prima del fischio d’inizio, anno dopo anno» «Il calcio è bello sempre, anche quando sembra brutto». «Bisogna conoscere il calcio per godere di cosa belle ma spesso nascoste. Bisogna comunque avere buongusto, e tanto, per apprezzare l’insieme, deformità comprese» (a Gian Paolo Ormezzano) • «Mai avuto tentazioni? “Se per tentazioni intende qualche offerta, ebbene sì, ne ho avute. Inter, Milan, Roma, il Grande Torino. Era stato Valentino Mazzola a fare il mio nome a Ferruccio Novo. Il presidente mi ricevette nel suo ufficio: commendatore, gli dissi, sono della Juve, non posso”. […] Come si diventa Boniperti? “Parlando il meno possibile. Facendo il duro. E, nei ritagli di tempo, battendo come Dio comanda qualche calcio d’angolo”. […] C’è un altro Boniperti di cui vorrebbe parlare? “C’è stato quello che andava a caccia con Fausto Coppi, incantato dai suoi silenzi. C’è stato l’amministratore delle tenute di Umbertide e Veneria di Lignana, quest’ultima vicino a Vercelli, dove girarono Riso amaro. C’è il marito, il padre di tre figli, il nonno. […] Ho cercato, sempre, di essere all’altezza”» (Beccantini). «Lei è stato il braccio destro di Gianni Agnelli per decenni. Di lei l’Avvocato diceva "Boniperti se non vince sta male". Le manca? "Molto. Ma lui è sempre accanto a me, sul divano dello studio di casa mia. A un certo punto, molti anni fa, decidemmo di comune accordo di non andare più allo stadio e di guardare la Juve insieme. Non ci siamo mai lasciati davvero, anche se lui adesso è in un posto lontano…". La Juve resta la squadra più vincente, ma anche la più antipatica. Perché? "Non sono la persona più indicata. Per me è un amore senza confini: l’ho incontrata a 18 anni e non l’ho più lasciata. Antipatica, agli altri, lo sarà sempre: lo è adesso perché non lascia nulla agli avversari, lo era quando la dirigevo io, lo sarà in futuro. L’invidia per me rappresenta una medaglia al valore. E, comunque, se mezza Italia tifa bianconero significa che ha il suo fascino…"» (D’Ascoli). «La Juventus è stata tutta la mia vita. […] Gli scudetti li ho visti tutti, ne ho vinti 14 e di una cosa sono sicuro: la Juventus non finirà mai».
LA JUVENTUS ED IL CALCIO ITALIANO PIANGONO LA SCOMPARSA DI GIAMPIERO BONIPERTI. Il Corriere del Giorno il 18 Giugno 2021. Valentina Vezzali, Sottosegretario di Stato con delega allo Sport, attraverso un tweet ha voluto ricordare così l’ex calciatore e dirigente della Juve: “Addio a Giampiero Boniperti. Protagonista e testimone di un calcio che trainò la rinascita del nostro Paese nel dopoguerra. Grazie per quanto ha dato in campo per la maglia azzurra e per il grande contributo offerto allo sport italiano come dirigente. "I miti non muoiono mai". “Addio, presidentissimo”. Così la Juve ricorda Giampiero Boniperti che in questi ultimi anni è sempre stato vicino alla sua Signora. Il momento forse più toccante dell’inaugurazione dello Stadium è stato proprio quando, quell’ 8 settembre 2011, si è diretto verso una panchina al centro del campo, al fianco di un’altra leggenda bianconera, Del Piero, l’unico in grado di segnare di più di lui. Scelse di raccontarci, in quell’occasione, il suo primo incontro con la Juventus. Si emozionò. E ci fece emozionare tutti. “La commozione che in questo momento tutti noi stiamo provando non ci impedisce di pensare con forza a lui, a tutto ciò che il Presidentissimo è stato e sarà per sempre nella vita della Juventus. Una figura indelebile, che da oggi si consegna al ricordo, perché sui libri di storia del calcio ci è finita già da tempo. Perché quando esprimi un pensiero, e quel pensiero diventa parte del DNA della società a cui hai dedicato la vita, vuol dire che il tuo carattere ne è diventato identità e modo di essere. Per sempre” si legge sul sito ufficiale del club bianconero per la scomparsa di Boniperti. “La mia vita nella Juventus”, disse quel “settimino”, come era stato definito dopo aver segnato sette gol in amichevole ed essere stato subito messo sotto contratto dalla società bianconera, “è iniziata il 4 giugno 1946, e dopo 65 anni sono qui per abbracciarvi tutti, farvi i miei auguri e riportare ai giocatori la frase scritta su uno striscione, poco tempo fa. Vincere non è importante, ma è l’unica cosa che conta“. “Lassù“, scrive la Juventus sul suo sito ” ora, c’è un’altra stella nel firmamento bianconero che brilla a mostrarci la rotta: quella di Giampiero Boniperti, che ha speso una vita con la Juventus, per la Juventus, e che ha saputo sempre indicarle la via. Grazie di tutto. Buon viaggio, Presidentissimo”. “Se ne è andato un personaggio che ha scritto la storia non solo bianconera ma del calcio italiano”. Lo ha detto all’agenzia LaPresse Antonio Cabrini, ex difensore della Juventus negli anni 70′ e 80′. “È stato un grandissimo presidente, una persona di grande correttezza e un esempio da seguire. Ha creato un modo di vivere il mondo bianconero che lui aveva conosciuto da giocatore. Da presidente lo ha inculcato in tutti quelli che arrivavano” ricordando il suo primo impatto con Boniperti. “Fu molto forte, ti faceva immediatamente capire la filosofia della Juventus: se arrivi secondo non conta niente, era un anno fallimentare”. Anche Chiellini ha voluto ricordare così Boniperti: “Se un bambino mi chiedesse chi è Giampiero Boniperti, risponderei che semplicemente lui è stato e sarà sempre la Juventus. Grazie di tutto Presidentissimo”. Ma non è finita qui, perchè dal mondo bianconero arriva anche il messaggio di Leonardo Bonucci: “E ora insegna agli angeli che vincere non è importante, è l’unica cosa che conta: buon viaggio Presidentissimo”. Marco Tardelli, invece, ha commentato così la triste notizia: “È stato il mio grande presidente, sicuramente uno che mi ha insegnato molto nella vita, sono stati dieci anni fantastici. Era un vero uomo di calcio, un signore del calcio, nel senso buono della parole. Se non ce ne sono più adesso? Questo non lo so e non importa, lui lo era. Abbiamo avuto tante discussioni e anche tante idee diverse ma era sempre uno che sapeva sistemare le cose. C’era stima reciproca e rispetto”. “Oggi è davvero un giorno triste. Buon viaggio Presidentissimo”, l’omaggio di Gigi Buffon su Twitter, al quale segue Franco Causio su Instagram: “Grazie per tutto quello che mi hai insegnato mio unico presidente. Riposa in pace”. si uniscono anche Gravina e Dal Pino, presidenti rispettivamente della Figc e della Lega Serie A. “La scomparsa di Boniperti rappresenta un dolore immenso. Calciatore straordinario, dirigente impeccabile, ci lascia una delle figure più rappresentative del calcio italiano. La sua competenza, il suo stile e la sua determinazione ci hanno insegnato molto, non lo dimenticheremo mai”, commenta Gravina. “Boniperti è un’icona del calcio italiano – dice Dal Pino –, una figura nobile a cui ispirarsi per tutto quello che ha fatto per il nostro sport”. Valentina Vezzali, Sottosegretario di Stato con delega allo Sport, attraverso un tweet ha voluto ricordare così l’ex calciatore e dirigente della Juve: “Addio a Giampiero Boniperti. Protagonista e testimone di un calcio che trainò la rinascita del nostro Paese nel dopoguerra. Grazie per quanto ha dato in campo per la maglia azzurra e per il grande contributo offerto allo sport italiano come dirigente. ‘I miti non muoiono mai'”. “Ha incarnato i più alti valori del calcio, dentro e fuori dal campo. Pilastro della Juventus e della Nazionale, capace di vestire la maglia granata in onore al Grande Torino”. La sindaca Chiara Appendino ricorda così, su Twitter, Giampiero Boniperti. “Continuerà ad essere un modello. Ciao Presidente”. “Una leggenda del calcio italiano, dentro e fuori dal campo. RIP Presidente Boniperti”, scrive su Twitter il commissario tecnico della Nazionale, Roberto Mancini. All’ amico Alessandro Boniperti ed alla sua famiglia, le più sincere condoglianze da parte del nostro direttore Antonello de Gennaro, e di tutti noi che porteremo sempre nel cuore il ricordo di un grande sportivo, ma sopratutto di un grande uomo.
Morte Boniperti, Claudio Gentile: "Un grande presidente, anche quando ci faceva spiare". La Repubblica il 18 giugno 2021. Claudio Gentile, campione del mondo del 1982, è stato uno dei grandi protagonisti della Juventus di Giampiero Boniperti, morto a 93 anni: "Sapevo che non stava bene - le parole di Gentile a Rai Radio1 - ma lottava ancora per vivere. È stato un grande presidente, che ho conosciuto molto bene: sono arrivato alla Juventus a 20 anni, sono andato via a 31. Era molto attento con i giovani, ci diceva "Sposatevi", perché voleva che avessimo famiglia e stessimo tranquilli. Ci faceva la predica, ci faceva anche spiare". Quando arrivavi alla Juve, capivi che c'erano regole da seguire. Altrimenti ti mandavano via, anche se eri un buon giocatore.
Juventus, muore a 92 anni Giampiero Boniperti: una vita per i colori bianconeri. Quindici anni da calciatore, più di venti da presidente. I gol, le mucche e quello slogan rimasto nella storia su Il Quotidiano del Sud il 18 giugno 2021. È morto nella notte a Torino per una insufficienza cardiaca Giampiero Boniperti, presidente onorario della Juventus, di cui è stato una bandiera prima come calciatore e poi come dirigente. «Addio, Presidentissimo», si legge in un tweet del club bianconero. Boniperti, che negli ultimi anni si era ritirato a vita privata, avrebbe compiuto 93 anni il prossimo 4 luglio. I funerali si svolgeranno nei prossimi giorni in forma privata per volere della famiglia. «La commozione che in questo momento tutti noi stiamo provando – si legge sul sito della Juventus – non ci impedisce di pensare con forza a lui, a tutto ciò che il Presidentissimo è stato e sarà per sempre nella vita della Juventus. Una figura indelebile, che da oggi si consegna al ricordo, perché sui libri di storia del calcio ci è finita già da tempo». «Perché quando esprimi un pensiero, e quel pensiero diventa parte del Dna della società a cui hai dedicato la vita – aggiunge il club –, vuol dire che il tuo carattere ne è diventato identità e modo di essere. Per sempre». Nella squadra bianconera ha giocato dal 1946 al 1961 totalizzando 443 presenze in serie A e 178 reti. Con la Juventus ha vinto 5 scudetti e 2 Coppe Italia. Nel 2004 è stato inserito nella Fifa 100, la lista dei 125 migliori calciatori della storia e nel 2012 è entrato a far parte della Hall of Fame del calcio italiano. Subito dopo il ritiro dal campo è stato chiamato nella dirigenza della società bianconera di cui è diventato presidente dal 1971 al 1990. Tra il 1994 e il 1999 è stato europarlamentare. Dal 2006 ha ricoperto la carica di presidente onorario del club. «Vincere non è importante, ma è l’unica cosa che conta». Era la sua frase simbolo, ancora oggi slogan della società bianconera. Perché Boniperti fu nominato presidente, lo raccontò pubblicamente Gianni Agnelli in occasione di una festa all’Hotel Principe di Piemonte, a Torino: «Lui veniva dalla campagna (era di Barengo, provincia di Novara, dove era nato il 4 luglio 1928, ndr) e quando si affermò come attaccante e segnava molti gol, lo invitai a visitare una mia tenuta, a Volvera. Diede uno sguardo in giro con occhio competente e poi mi fece una richiesta a bruciapelo: perché non mi paga in mucche, per i miei gol ? Divertito dalla richiesta, acconsentii». «Divenne capocannoniere del campionato – raccontò l’Avvocato – e un giorno ricevetti la telefonata allarmata del mio fattore, che si lagnava perché il “geometra” stava depauperando il nostro patrimonio zootecnico. Gli dissi che era nei patti, di premiare i suoi gol con altrettante mucche. E il fattore ribattè: sì, ma lui le sceglie tutte gravide. Per questo l’ho scelto: per la sua astuzia da contadino».
Giampiero Boniperti nel racconto del super-esperto di Juventus Stefano Orofino. Stefano Orofino su Il Quotidiano del Sud il 18 giugno 2021. «Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta». Questa la famosa, mitica frase, simbolo della juventinità, attribuita al centravanti, poi capitano, poi consigliere, poi amministratore delegato, poi presidente, poi nuovamente amministratore delegato, infine presidente onorario della Juventus, il geometra Giampiero Boniperti da Barengo (Novara), dove il “presidentissimo” era nato il 4 luglio 1928. Una frase che ha sempre avuto per me ha sempre solo ed esclusivamente il seguente significato: la Juventus, quando entra in campo, non può accontentarsi di fare bella figura, o di ottenere un buon pareggio, ma deve giocare sempre per ottenere l’obiettivo massimo, la vittoria. In altri termini, non credo che queste parole possano essere assunte a motto del tifoso, per il quale conta solo se la sua squadra vince. Un’osservazione che mi permetto di fare anche in relazione alla stretta attualità, visti i risultati raggiunti quest’anno dalla Vecchia Signora. A tal proposito, voglio qui tenere presente un’altra frase pronunciata dallo stesso presidentissimo bianconero, ma molto meno famosa, pronunciata in un momento difficile per la squadra, all’epoca del suo ritorno come amministratore delegato, in un’intervista anch’essa pubblicata su “Hurrà Juventus”, nel gennaio 1993: «è troppo facile fare i tifosi solo quando si vince». Tuttavia, oggi a me piace soprattutto ricordare delle altre parole di Boniperti, scritte sempre su “Hurrà Juventus”, organo ufficiale della società, in un articolo da lui stesso firmato a conclusione della stagione 1962-63. Il capitano si era ritirato da campione d’Italia nel 1961, e nella stagione 1961-62 la Juventus si era piazzata dodicesima (!) il peggiore risultato in Serie A della storia bianconera. Nel 1962-63 la squadra si era subito ripresa, concludendo il girone d’andata in testa alla classifica, quindi da “campione d’inverno”, mentre nel girone di ritorno era stata poi scavalcata dall’Inter. Ecco, virgolettato, il commento del trentacinquenne Boniperti all’esito del campionato, nell’articolo summenzionato: «Ho constatato che tutto è sempre stato detto e pensato all’insegna del buon senso. Ci concedemmo, sì, il sogno, a metà campionato, quando fummo campioni d’inverno. Ma sapevamo che si trattava di un sogno. Il risveglio era scontato. Lo scudetto va all’Inter. La secca sconfitta dei nerazzurri a Roma non incide né sulla loro classifica né sul loro merito. Il nostro pareggio a Mantova ha dato ai nerazzurri anche la certezza matematica dello scudetto. Si perde senza veleni in corpo, senza reminiscenze dolorose. Si perde per la legge dello sport, la quale sancisce, alla fine di un torneo lungo e severo come il nostro, il giusto merito del migliore». Credo che queste parole facciano capire molto più di tante altre, soprattutto ai tifosi più giovani, che vivono nel mondo di uno sport urlato e – appunto – pieno di veleni in corpo, quello che si è sempre definito lo stile Juventus, che nel suo grande campione e presidente vede non solo una delle sue massime incarnazioni, ma anche uno dei suoi più grandi “costruttori”. Da calciatore Boniperti aveva vinto, in quindici anni di militanza in prima squadra, 5 scudetti e due Coppe Italia, giocando prima da centravanti, poi, con l’arrivo di Charles e Sivori, “retrocedendo” alla posizione di centrocampista. Ove bisogna chiarire che Boniperti non era stato un centravanti da poco, se si considera che aveva ottenuto il titolo di capocannoniere neppure ventenne, nella stagione 1947-48, unico campionato a 21 squadre della storia della serie A, e prima sua stagione da titolare con la maglia bianconera, oltre al fatto che, in un periodo in cui non esistevano le moderne coppe europee, il 21 ottobre 1953 giocò da titolare, a Wembley, in una partita che all’epoca era qualcosa di più di un’amichevole di lusso: Gran Bretagna-Resto d’Europa, incontro finito 4-4, con due reti, per il Resto d’Europa, del centravanti della Juventus e della nazionale. Con la maglia azzurra Boniperti conta solo 38 presenze, poiché le partite degli azzurri, nel secondo dopoguerra erano molto più rare rispetto ad oggi. Si è ricordato anche oggi che è tuttora l’unico giocatore ad aver segnato con la maglia dell’Italia nel corso di tre decenni diversi (ultima presenza e rete, tra l’altro, nel giorno dell’esordio in azzurro di Trapattoni, per le stranissime coincidenze della vita). Innumerevoli sono poi gli episodi curiosi che ricordano la sua carriera da calciatore, che ne dimostrano l’astuzia, ma che al tempo stesso attestano quanto sia davvero lontano il calcio dell’epoca da quello odierno. Sarebbe troppo lungo raccontare nel dettaglio gli episodi, ma qui ne elenco qualcuno, che i più giovani, se interessati, possono andare ad approfondire: la storia delle mucche gravide dell’Avvocato Agnelli, la “settimana corta” di Boniperti negli allenamenti (elemento che ha forse impedito che la sua carriera, visto il talento naturale, fosse ancora più fulgida), la scommessa nel derby col trio “Nizza”, la frase attribuita all’arbitro Jonni di Macerata: “Signor Boniperti, faccia arbitrare un po’ anche me”. Da presidente, notorio il fatto che, per la troppa ansia, lasciasse lo stadio alla fine dei primi tempi delle partite della sua Juventus. E da primo dirigente, nove scudetti, due coppe Italia, e tutte le Coppe Internazionali. Il 12 luglio 1988 ricevette per questo la targa UEFA, poiché appunto la Juve fu la prima squadra a vincere tutti i tornei allora organizzati dalla federazione calcistica europea. Sempre da presidente, viene ricordata certamente di più la squadra che giocò tre finali consecutive in Europa, quella dei campioni del mondo, di Platini e Boniek, il cui ciclo culminò nella conquista dell’Intercontinentale a Tokio l’8 dicembre 1985, col giovane Laudrup al posto del polacco, un ciclo che si concluse di lì a qualche mese con la rocambolesca conquista del ventiduesimo scudetto, l’ultimo targato Boniperti-Trapattoni (piccola annotazione personale: questa squadra resta tuttora quella cui sono più legato, sia per la sua forza, ma anche per il carattere di molti suoi giocatori, “forgiati” proprio dal loro presidente, oltre che certamente per il fatto – comune a moltissimi tifosi – che è la squadra della mia infanzia). Ciò nonostante, quella che certamente più incarnò lo spirito di Boniperti fu la primissima squadra del Trap, stagione, 1976-77, un undici di combattenti che riuscì a vincere lo scudetto con punteggio record di 51 punti (con due punti per la vittoria, campionato a 16 squadre) e la coppa Uefa, primo trofeo europeo moderno nella bacheca juventina. Senza dimenticare un’altra Coppa Uefa, quella 1992-93, dopo il ritorno di Boniperti quale amministratore delegato, e a Trapattoni da tecnico dopo il quinquennio all’Inter, nell’estate di trent’anni fa, a seguito del fallimento della “rivoluzione” della Juve Champagne targata Montezemolo-Maifredi. Una Juve della “ricostruzione”, che dopo il settimo posto dell’anno prima tornò (dopo molti anni) a lottare per lo scudetto, pur trovandosi di fronte il muro del Milan degli olandesi e del primo Capello. Dal 94 in poi Lippi e la triade ne raccolsero i frutti, ma anche grazie agli ultimi colpi di mercato di Boniperti, dal dilettante Torricelli al giovanissimo Alex Del Piero, il solo ad averne tuttora superato le marcature con la maglia della Juve. Infine, la carica di presidente onorario: assieme ai due proprietari, nonché suoi ex presidenti da calciatore, Gianni e Umberto Agnelli.
Addio al “Presidentissimo”. La storia e lo stile di Giampiero Boniperti, bomber, regista e presidente: “La Juve è il mio cuore”. Guido Barlozzetti su Il Riformista il 19 Giugno 2021. “Presidentissimo”, un’iperbole che adesso con cui tutti lo ricordano ha segnato la lunga avventura nel calcio di Giampiero Boniperti, morto a 93 anni, un legame indissolubile con la Juventus, al tempo in cui la carriera di un giocatore poteva diventare un’appartenenza totale e una fede. A Torino era arrivato a 17 anni, per giocare nella Gobba, con Benito Lorenzi che lo prendeva in giro per i boccoli biondi. Vince cinque scudetti, segna caterve di gol (178) ed entra nel mito del Trio Magico con Sivori e Charles, ormai centravanti che arretra al punto che Gianni Brera conia per lui il ruolo e il titolo di “centro-campista”. Fino al 1961, quando a 33 anni si ritira, e dopo un apprendistato dirigenziale diventa Presidente, all’ombra di Gianni Agnelli, per vent’anni, dal ‘71 al ’90, con una coda di altri quattro anni come amministratore delegato e una bacheca che si riempie di 9 scudetti, 2 Coppe Italia, una Coppa Intercontinentale, una Coppa dei Campioni, l’era del Trap e di Scirea, Cabrini, Gentile, Tardelli, Causio, Rossi… che nell’82 avrebbero innervato la Nazionale Mundial di Bearzot. Numeri e titoli che però da soli non bastano a dire chi sia stato Giampiero Boniperti, cosa abbia rappresentato non solo per la Juventus ma per il calcio italiano. Per capirlo bisogna tornare al mezzo secolo del Novecento in cui il Pallone passa da una sorta di professionismo artigianale a un’età proto-marketing che fa intravedere un business, almeno per gli happy few, globale. Boniperti comincia con le squadre padre-padrone dei cartellini, i campi spesso sterrati, la televisione che non c’era e poi avrebbe trasmesso solo un tempo la domenica sera, le maglie che erano solo il colore del tifo, non profanate dalla pubblicità. E conclude il cammino da artefice dell’organizzazione e dell’immagine della Juventus. Le dà una solidità, una continuità e uno stile che la consegna al futuro e, al tempo stesso, impersona un modello che per l’ultima volta tenta di mantenere un equilibrio tra mercato e valori, fra soldi e appartenenza, fra immagine e sostanza. Quell’equilibrio che il calcio avrebbe perso in questi anni Duemila, lanciato com’è sulle tangenti dei contratti ipermilionari, delle percentuali degli agenti e soprattutto del valore di scambio televisivo, in un circuito finanziario in cui l’analogico del gioco, se è ancora presidiato dai tifosi, rischia una deriva senza ritorno. “Stile”, abbiamo detto, Boniperti lo ha esibito sul campo di gioco e poi ne ha fatto un’insegna di comportamento e d’immagine per la Juventus. Ha respirato l’aria piemontese-sabauda e per il calcio ha rappresentato un mix tra Montessori e Cuore di De Amicis, pedagogia e un ferreo galateo della disciplina, capelli tagliati e pochi grilli per la testa, avendo alle spalle il Re, anche lui regale e immaginifico gestore di un parallelo tramonto, quello di un intero modello industriale. Uno stile che non valeva per se stesso, ma era considerato il presupposto essenziale per raggiungere l’obiettivo per cui si contende su un campo, vincere, “L’unica cosa che conta”, amava ripetere. Senza esitazioni, dubbi, trasgressioni o deviazioni dal binario di un’applicazione e dedizione feroce. Quella che la Juve oggi continua a esibire, forse con una voracità che a volte le fa rischiare la protervia. I giocatori lo ricordano con commosso rispetto e raccontano di un carattere freddo, determinato, prendere-o-lasciare, lo sguardo che guardava dentro, fino al cuore, già il cuore: “La Juve non è soltanto la squadra del mio cuore, è il mio cuore”. La retorica è sempre in agguato, ma è difficile pensare che per Boniperti quel codice fosse solo una messa in scena o un atteggiamento. Una volta, mi accadde di incontrarlo nel vecchio stadio Comunale di Torino, ne avvertii la gentile fermezza, l’amore per uno sport che si era identificato con una vita e che, semper fidelis, forse non riconosceva più. Guido Barlozzetti
Mario Sconcerti per il “Corriere della Sera” il 19 giugno 2021. Giampiero Boniperti si era un po' perso nella nebbia del tempo. Era stato il miglior giocatore degli anni Cinquanta ma erano stati anni duri. La Nazionale giocava tre partite l'anno, c'era poca comunicazione, nessuna televisione. Le cose accadevano solo per chi era sul posto. Per questo Boniperti è stato quasi soltanto un eroe juventino, quindici anni da giocatore e poi due lunghe gestioni da presidente. Ma ai suoi addendi manca il totale e quello dice che fu un grande centravanti. Era abbastanza alto per i tempi, 1.75, aveva un fisico compatto. Non spaventava i difensori, ma ne anticipava gli sbagli. Ha debuttato talmente giovane che quando si trovò contro la Triestina, Memo Trevisan, una pasta d' uomo ma burbero, gli gridò «cosa fai Puparìn nella mia area di rigore, torna nella tua». E il ragazzo Boniperti tornò nell' area della Juve. Dove trovò Parola che gli gridò ancora: «Va lassù falabrac (lazzarone)». Boniperti aveva stacco, tecnica, forza, ma anche tempo nella paura. Una volta, contro il Padova di Nereo Rocco, in piena area vide arrivare un pallone dalla destra che sembrava buono. Il problema era che si era già mosso su di lui Scagnellato, difensore duro. Boniperti vide la montagna arrivargli addosso e reagì d' istinto, non si mosse. Nel frattempo alle sue spalle si era messo in movimento anche Azzini in rovesciata per anticiparlo. Il risultato fu che Azzini finì con un calcio sulla faccia di Scagnellato e con la palla tra i piedi di Boniperti che non si era mosso. E fu gol. Sulla rovesciata c'è una storia bellissima che riguarda il suo grande amico Parola. Ricordate la figurina Panini diventata icona, quella in cui Parola vola compiendo un'incredibile rovesciata? Dopo anni di uso di quell' immagine, l'imprenditore che era dentro Boniperti aveva fatto i conti e non sopportava più l'insulto commerciale. Cercò l'editore Panini, lo trovò e gli chiese: «Si rende conto quanti soldi lei deve a Parola per lo sfruttamento di quella foto?». Panini ci pensò. Pochi mesi dopo alla famiglia Parola arrivò un assegno da cento milioni. Nella Juve giocò centravanti fino al 1957, da qualche tempo segnava meno, la Juve aveva deciso di rinnovarsi. Arrivarono Charles e Sivori. Charles era il giocatore più alto che la Juve avesse mai avuto. Quando arrivò fu portato a casa del capitano Boniperti per una prima conoscenza. Boniperti rimase stupito dal fisico di Charles. Lo guardò per qualche minuto poi gli disse: «Quando salti ricordati sempre di allargare i gomiti. Li butti tutti a terra come birilli». Con la Juve Boniperti ha vinto 14 campionati. Fu poi un presidente pignolo, intrigante, a volte ingombrante perché si occupava di tutto, anche degli spazi di gioco. A Trapattoni chiese perché Di Livio e Marocchi giocavano così vicini: non era meglio che ognuno tenesse il proprio spazio? Il Trap disse: «Presidente, stanno vicini perché così dal centro non passa nessuno, al massimo vanno sulla fascia e lì li prendiamo dieci metri dopo». Boniperti rimase colpito, capì che il calcio era cambiato. Il suo tempo svoltò con il Mondiale del 1982. Era abituato a risolvere l'aggiornamento dei contratti in un pomeriggio. La sua stanza di venti metri quadri sempre piena del fumo di sigarette e un contratto già compilato sulla scrivania dove mancava solo la firma del giocatore. Si entrava, si cercava di discutere, lui guardava, chiedeva, dava improvvisamente del lei: «Sa dove si trova? Con chi gioca? Firmi, grazie». E fuori dalla porta c'era il suo assistente Giuliano a ributtare dentro chi se ne andava arrabbiato. Nell' estate dell'82 la Juve aveva però due suoi campioni del mondo che si presentarono con l'agente. Era cominciato un altro calcio. Boniperti lo capì subito, ma non lo accettò mai.
Morta l’attrice Lisa Banes, era stata travolta da un pirata della strada. LaPresse.it il 16 giugno 2021. Lisa Banes, famosa attrice 65enne di Broadway, è morta in seguito ai traumi riportati dopo essere stata travolta da uno scooter mentre attraversava un incrocio a Manhattan. Lisa Banes non ce l’ha fatta. La famosa attrice è purtroppo venuta a mancare dopo 10 giorni di agonia. Lo scorso 4 giugno era infatti stata investita da uno scooter elettrico mentre camminava lungo l’Upper West Side a New York, all’incrocio fra Amsterdam Avenue e West 64th. Dopo il terribile impatto, le condizioni dell’attrice erano apparse subito gravi: aveva difatti riportato una lesione cerebrale traumatica. Lisa Banes è stata così ricoverata in condizioni critiche all’ospedale Mount Sinai Morningside, dove è deceduta senza mai riprendere conoscenza. Stando a quanto ricostruito dalla polizia, l’attrice doveva incontrare la moglie Kathryn Kranhold per una cena nell’Upper West Side quando, attraversando l’incrocio fra Amsterdam Avenue e West 64th, è stata investita da uno scooter che non ha rispettato il semaforo rosso e che si è subito dileguato, facendo perdere le proprie tracce. Kathryn Kranhold ha subito lanciato un appello per cercare di risalire all’identità del motociclista o avere almeno delle informazioni sull’incidente ma ad oggi non è stato eseguito alcun arresto. “Siamo addolorati per la tragica e insensata scomparsa di Lisa” ha riferito il portavoce dell’attrice. “Era una donna di grande spirito, intelligenza e generosità. Era dedita al suo lavoro, sia sul palcoscenico sia davanti a una telecamera e lo era ancora di più a sua moglie, alla sua famiglia e ai suoi amici. Siamo stati fortunati ad averla nelle nostre vite”. Originaria dell’Ohio, Lisa Banes si è diplomata in recitazione alla Juilliard School ed è apparsa più volte a Broadway. Al cinema il suo ruolo più celebre è stato quello di Marybeth Elliott, la madre di Rosamund Pike nel film “Gone Girl” di David Fincher, del 2014. L’attrice ha però interpretato anche diversi personaggi televisivi, facendo parte del cast di “I casi di Rosie O’Neill” e “Son of the Beach”, “The King of Queens”, “Six Feet Under”, “Una vita da vivere”, “Star Trek: Deep Space Nine”, “La signora in giallo”, “Desperate Housewives”.
· E’ morta la pornostar Dakota Skye.
Dagotraduzione dal New York Post il 14 giugno 2021. La pornostar Dakota Skye, che qualche settimana fa era stata fortemente criticata online per aver posato in topless davanti a un murales su George Floyd, è morta mercoledì scorso all’età di 27 anni. Dakote, vero nome Lauren Kaye Scott, viveva in California ed è stata trovata priva di vita dal marito nel suo camper di Los Angeles. L'ufficio del coroner deve ancora confermare le cause della morte. La donna, famosa anche con lo pseudonimo di “Kota Sky”, era stata duramente attaccata per aver postato sul suo profilo Instagram una foto, poi cancellata, in cui si mostrava in topless davanti al murale di George Floyd, l’uomo ucciso dalla polizia lo scorso anno. Ad accompagnare il post, il 4 maggio, la star di Pornhub aveva scritto: «Buona giornata di #GeorgeFloyd a #santabarbara <3 #dakotaskye uguaglianza e trattamento equo per tutti. Murale della droga». La star di "Blonde College Sluts" ha difeso la sua foto: «Nessun essere umano dovrebbe morire venendo arrestato», ha scritto Skye, che ha partecipato ad oltre 300 film da quando ha iniziato la sua carriera nel 2013, e nel 2015 è stata eletta Best New Starlet nel 2015 agli AVN Awards, gli "Oscar del porno". È rimasta semi-attiva come interprete fino all'anno scorso, secondo l'Internet Adult Film Database, che copre praticamente tutte le principali società di produzione. Secondo alcune fonti, la donna stava lottando con alcune dipendenze, alcol e fentanyl, e stava cercando di uscire da un ambiente familiare difficile. «Lauren era il prodotto di una famiglia altamente disfunzionale che coinvolgeva droghe, alcol, abusi fisici, emotivi, verbali e sessuali», ha detto al Sun la zia di Skye, Linda Arden, aggiungendo che sua nipote «è morta quasi esattamente due anni dopo la morte di sua madre - la mia della sorellina —, causata dalla dipendenza e dall'alcolismo». Non solo, ma secondo quanto riferito due dei nonni di Skye erano morti di COVID-19 nell'ultimo anno. Arden ha anche affermato che Skye era estranea a suo marito che l'aveva «amata teneramente». La famiglia e gli amici dell'intrattenitore per adulti hanno dichiarato di essere stati devastati dalla sua perdita. «Dakota era una cara amica e parte della nostra famiglia, e siamo rattristati dalla sua perdita», ha detto ad AVN Magazine il suo amico e insider dell'industria del porno James Bartholet. «Aveva ancora molto da dare al mondo e all'industria, e sono solo molto rattristato e senza parole». Bartholet ha concluso: «Auguriamo tutto il meglio alla sua famiglia e speriamo che le persone rispettino la loro privacy e la ricordino bene». Nel frattempo, la zia di Skye, Arden, trova conforto nel fatto che la sua «ragazza più dolce» «non deve più attraversare questo mondo dolorante».
· E’ morto il fumettista Andrea Paggiaro in arte Tuono Pettinato.
Lutto nel mondo del fumetto, è morto Andrea Paggiaro in arte Tuono Pettinato. Andrea Mazzotta su Il Quotidiano del Sud il 14 giugno 2021. L’autore di fumetti Andrea Paggiaro, noto con il nome d’arte di Tuono Pettinato, è morto all’età di 44 anni dopo una lunga malattia. Il nome d’arte di Paggiaro deriva dal titolo di un libro presente ne “La biblioteca di Babele”, uno dei più noti racconti dello scrittore argentino Jorge Luis Borges. Tuono Pettinato era da tempo entrato a far parte di quel ristretto gruppo di giovani maestri italiani dell’Arte sequenziale. Era nato a Pisa il 27 settembre 1976 e nel 2014 era stato premiato come “Miglior Autore Unico” a Lucca Comics & Games. Tuono Pettinato si era formato a Bologna al Dams e poi all’Accademia Drosselmeier per editor e librai. Ha firmato la serie “I Ricattacchiotti”, pubblicata settimanalmente da “Repubblica XL” e ha collaborato con le riviste “Animals” e “Linus”. Faceva parte del collettivo creativo dei SuperAmici (con Ratigher, Lrnz, Dottor Pira e Maicol & Mirco), con il quale ha creato la rivista a fumetti “Hobby Comics” e “PicNic”, primo free press italiano dedicato al mondo del fumetto. Per Rizzoli Lizard ha pubblicato “Garibaldi – Resoconto veritiero delle sue valorose imprese ad uso delle giovini menti” (2010), in coppia con Francesca Riccioni, “Enigma – La strana vita di Alan Turing” (2012), “We are the champions” (2016), con testo di Dario Moccia, “Non è mica la fine del mondo” (2017, ancora con Francesca Riccioni), “Big in Japan” (2018, con testo di Dario Moccia), “Chatwin. Gatto per forza, randagio per scelta” (2019). Ha illustrato per le edizioni Campanila una serie di libri per ragazzzi tra i quali la collana mitologica Antìkoi. Tra le sue pubblicazioni, oltre a quelle già citate, ricordiamo i “Apocalypso! Gli anni dozzinali” (Coniglio Editore, 2010). Il magnifico lavativo (TopiPittori, 2011), Corpicino (GRRRzetic 2013) e L’Odiario (,GRRRzetic 2016). Fra le illustrazioni di Tuono Pettinato, quelle per “Vita con Lloyd” di Simone Tempia (Rizzoli Lizard) e per “Qualcosa” di Chiara Gamberale (Tea). Tuono Pettinato, oltre che un maestro del fumetto, era un uomo e un autore dall’intelligenza brillante, acuta, pungente. Guardava il mondo con occhi capaci di coglierne i meccanismi più intimi, per poi raccontarli nelle pagine a fumetti che creava. Resta di lui, oltre che alcuni dei fumetti più coinvolgenti dell’ultimo decennio, come testimoniato dalle centinaia di messaggi di cordoglio presenti in rete, il ricordo di un uomo buono, disponibile fino all’inverosimile, gentile ed educato come solo un personaggio di una storia fumetti, scritta da un autore che sa immaginare un mondo più gentile, più ironico, più spiritoso di quello che Tuono Pettinato ha lasciato.
Il nome d'arte ispirato da un racconto di Jorge Luis Borges. Chi era “Tuono Pettinato”, il fumettista Andrea Paggiaro morto a 44 anni. Antonio Lamorte su Il Riformista il 14 Giugno 2021. È morto a 44 anni Tuono Pettinato. Uno dei più grandi fumettisti italiani di sempre. Il suo vero nome era Andrea Paggiaro, toscano, riconoscibile il suo tratto semplice e delicato. Nella sua carriera ha realizzato biografie di grandi personaggi, storie originali in strisce, graphic novel, vignette e illustrazioni. A dare la notizia la rivista Fumettologica, con la quale Paggiaro collaborava: “La redazione di Fumettologica si stringe al cordoglio della famiglia, dei cari e dei lettori. Andrea è stato per noi e per molti un amico, oltre che un grande autore. La sua è una grande perdita per il fumetto e per coloro che lo hanno conosciuto”. Paggiaro era nato a Pisa il 27 settembre 1976. Sarebbe morto in seguito a una lunga malattia. Si era formato al DAMS di Bologna e aveva fondato il collettivo di fumettisti conosciuto come “Superamici”, insieme a Ratigher, LRNZ, Dottor Pira e Maicol & Mirco. Aveva scelto il suo nome dal titolo di un libro che compariva in uno dei racconti più celebri dello scrittore argentino Jorge Luis Borges, La Biblioteca di Babele. Tuono Pettinato ha raccontato le storie di Garibaldi, Galileo Galilei, Alan Turing, Kurt Cobain e Freddy Mercury. Ha collaborato con le riviste Internazionale, XL, Animals e Linus. Uno dei suoi lavori più noti, Corpicino, del 2013, sul ruolo dei media nel racconto della tragedia. Ha illustrato anche libri per bambini. Tra i suoi ultimi lavori Non è mica la fine del mondo (Rizzoli Lizard), Chatwin, Gatto per forza, randagio per scelta (Rizzoli Lizard) e Neri e Scheggia in Galleria (Coconino Press). “Da stanotte soffriamo la scomparsa di un carissimo amico, Tuono Pettinato non è più con noi. Ci sono delle scomparse che ti segnano più di altre, e quella di Andrea colpisce in maniera enorme. Per la statura umana della persona, tra le più gentili, disponibili e umili dell’intero mondo artistico; per la genialità della sua opera, che in pochi anni l’ha portato dall’autoproduzione a vincere premi in tutti i più grandi festival; per la giovane età, che è un colpo sempre inappellabile della vita. Ma soprattutto perché non incontreremo più un amico dal sorriso indispensabile per tutto l’ambiente, da quando nei lontani inizi degli anni 2000 cominciavamo a intersecare i nostri percorsi artistici. Da allora Tuono/Andrea aveva spesso e costantemente collaborato con noi, dalla Futuro Anteriore del 2007, al Premio Nuove Strade del 2009, dalla partecipazione come Superamici, alla lunga collaborazione con XL, e poi con Rizzoli, le tante nomination per i suoi bellissimi libri, alle tante mostre organizzate con le sue tavole, e alle tantissime volte che abbiamo avuto l’onore di averlo come Ospite del nostro Salone. Ci mancherai Andrea, non sentiremo più il tuo Tuono gentile. E non è giusto”, il messaggio di cordoglio del Comicon. Per il settimanale La Lettura de Il Corriere della Sera, nel 2016, Tuono Pettinato aveva realizzato la graphic novel Come diventai fumettista, in cui ripercorreva le tappe della sua carriera, dalle caricature dei prof a scuola, fino alla fama, ai tour promozionali e a quello “sfruttamento postumo dei lavori di gioventù” su cui ironizzava. Paggiaro durante la sua carriera ha vinto diversi premi tra cui il Premio Nuove Strade a Napoli Comicon e nel 2014 il premio come Miglior autore unico a Lucca Comics & Games, che l’anno successivo gli dedicò una grande mostra a Palazzo Ducale.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
· Addio al giornalista Livio Caputo.
Addio a Livio Caputo. Francesco Curridori il 14 Giugno 2021 su Il Giornale. Livio Caputo, storico inviato del Giornale di cui era stato nominato direttore ad interim lo scorso 17 maggio, è deceduto oggi all'età di 87 anni. Livio Caputo, storico inviato del Giornale di cui era stato nominato direttore ad interim lo scorso 17 maggio, è deceduto oggi all'età di 87 anni. "Sono anche il vostro direttore, sono orgoglioso". Disse Caputo nel corso di un'importante e significativa telefonata alla redazione del sito del Giornale dove, fino al 2017, ha curato un blog molto seguito dai nostri lettori. Caputo se ne va nel giorno in cui è ufficiale l'insedimento di Augusto Minzolini come nuovo direttore del quotidiano di via Negri. Giornalista di razza, grande amico di Indro Montanelli e raffinato conoscitore della politica estera, era nato nel '33 a Vienna da padre piemontese e madre triestina, si è laureato in Giurisprudenza con una tesi di Diritto internazionale presso l'Università di Torino e ha cominciato la sua carriera giornalistica da giovanissimo. È stato corrispondente da Bonn per il Corriere dell'Informazione e il settimanale Gente, da Londra per il Resto del Carlino, La Nazione ed Epoca, mentre a New York ha lavorato come capo dell'ufficio dei periodici Mondadori. Rientrato in Italia nel 1970, è stato capo dei servizi speciali e, in seguito, direttore di Epoca dal 1970-76. Diventa inviato ed editorialista del Giornale e di Telemontecarlo (1976-78) e poi, dal 1979 dirige per sei anni il quotidiano la Notte. Dal 1986 al 1992 è capo dei servizi esteri del Corriere della Sera e, in questo periodo, vince il premio Hemingway per la gestione dei servizi sulla guerra del Golfo. Dal maggio 1992 Caputo ritorna al Giornale come vicedirettore. Due anni più tardi si candida al Senato tra le file di Forza Italia e viene eletto nel collegio di Bergamo. In Parlamento si fa portavoce degli ideali liberali che lo hanno sempre ispirato e diventa prima vice capogruppo vicario e poi sottosegretario agli Affari Esteri. Alle Politiche del 1996 non viene rieletto, ma dall'anno successivo prosegue la sua attività politica al Comune di Milano dove resta consigliere fino al 2006. La collaborazione col Giornale proseguirà con articoli di politica estera e con la rubrica quotidiana di risposte alle missive dei lettori "Dalla vostra parte". Livio Caputo, nella sua lunga carriera, ha intervistato molti leader mondiali, dal presidente americano Lyndon Johnson al cancelliere tedesco Willy Brandt, dal presidente francese Georges Pompidou al premier israeliano Yitzhak Rabin. Nella sua carriera ha scritto anche tre libri incentrati sulle vicende della politica italiana: "Un anno in trincea" (1980), "Cittadino, pover'uomo" (1982), "Con rabbia e con amore" (1984). Il 18 maggio scorso Caputo firma il suo primo editoriale da direttore ad interim."Cari lettori sono di nuovo con voi, sia pure per breve tempo. Dopo le dimissioni di Alessandro Sallusti si è venuto a creare al vertice del nostro Giornale un vuoto temporaneo che bisognava colmare nell'attesa dell'arrivo di un nuovo direttore. L'editore e i miei colleghi mi hanno chiesto di uscire temporaneamente dal mio ritiro forzato e di assolvere questo compito. Ne sono non solo onorato, ma anche commosso e spero di poter contribuire a un sollecito ritorno alla normalità", scrive lo storico giornalista."Quale ultimo dei mohicani, come qualcuno mi chiama, sono felice di rendere questo servizio al nostro Giornale, con cui mi sono identificato fin dalla sua nascita e a cui ho dedicato tanta parte della mia vita professionale. Con questo spirito, - conclude Caputo - vi invito a rimanere saldamente al nostro fianco come è tradizione da quasi 50 anni, nella certezza che noi continueremo a batterci per i valori per cui siamo nati. E, come sempre, buona lettura". Il presidente Silvio Berlusconi, dopo aver appreso"con profondo dolore la notizia della scomparsa di Livio Caputo, grande giornalista liberale e grande amico", ha ricordato: "Livio mi è stato vicino da sempre, ha aderito a Forza Italia dal primo giorno, ha partecipato da protagonista al nostro primo governo nel 1994 e poi per molti anni è stato la bandiera degli azzurri nel Consiglio Comunale di Milano. Al tempo stesso ha continuato la sua attività da editorialista di prestigio, combattendo le battaglie di libertà con la coerenza, il rigore e l’assoluta indipendenza di giudizio che lo hanno sempre caratterizzato". E ha aggiunto: "Schivo ed elegante, alieno dalla voglia di apparire, non mi ha mai fatto mancare in questi anni i suoi consigli preziosi, che nascevano dalla sua cultura profonda e non ostentata e dal suo autentico amore per la libertà. Con un ultimo gesto di generosità, nonostante le condizioni di salute non buone, aveva accettato nelle ultime settimane di firmare “Il Giornale” come direttore ad interim in una delicata fase di transizione. Anche per questo gli saremo per sempre grati. La libertà, la cultura, il giornalismo italiano hanno perso un autorevole protagonista".
Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono...
La notizia nel giorno dell'ufficialità della direzione affidata a Minzolini. È morto Livio Caputo, l’ex direttore ad interim de “Il Giornale” dopo le dimissioni di Sallusti. Antonio Lamorte su Il Riformista il 14 Giugno 2021. È morto Livio Caputo, giornalista, aveva appena ricoperto la carica di direttore ad interim del quotidiano Il Giornale. Proprio oggi era stata data la conferma della nuova direzione affidata ad Augusto Minzolini. A dare la notizia l’agenzia di stampa AdnKronos. Il giornalista aveva 87 anni. Classe 1933, Caputo lavorava dal 1992 lavora al Giornale, dove scriveva di esteri e teneva una rubrica di risposte alle missive dei lettori dal titolo “Dalla vostra parte”. Era nato a Vienna da padre piemontese di ascendenze napoletane e madre triestina. Si era laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Torino. La sua carriera nel mondo dell’informazione era iniziata come corrispondente da Bonn, in Germania, per il Corriere d’Informazione e il settimanale Gente. Quindi a Londra come inviato dei quotidiani Il Resto del Carlino e La Nazione e del settimanale Epoca. Nel 1965 a New York divenne capo della redazione dei periodici della Arnoldo Mondadori Editore, rientrando in Italia cinque anni dopo come inviato di Epoca, di cui diventa per un breve periodo direttore nel 1976. Quindi il primo approdo a Il Giornale guidato da Indro Montanelli, mentre nel 1979 passò al quotidiano La Notte di cui divenne direttore fino al 1984, quando il giornale fu ceduto al gruppo Rusconi. Caputo passò al Corriere della Sera dove divenne capo dei servizi esteri, quindi nel 1992 il ritorno a Il Giornale come vicedirettore, quotidiano per cui collabora ancora oggi. Per oltre 40 anni è stato tra gli esponenti più importante del movimento liberale italiano, prima nel PLI e poi in Forza Italia. Col partito di Berlusconi nel 1994 è stato eletto diventando capogruppo vicario e sottosegretario agli Affari Esteri. Nel 1997 è entrato nel Consiglio comunale di Milano dove è rimasto fino al 2006. Caputo aveva assunto la direzione ad interim dopo le dimissioni a sorpresa di Sallusti, a mettà maggio. Sallusti è diventato direttore di Libero tornando alla casa “che hai già abitato e che vent’anni fa hai contribuito ad arredare, al fianco dell’architetto Vittorio Feltri”, aveva scritto nel suo primo editoriale lo stesso Sallusti commentando una scelta “che fa un certo effetto, anche se da allora il mondo è cambiato assai più di quanto sia cambiato in questi travagliati anni lo spirito di Libero e del suo fondatore”. L’addio dopo 12 anni. A Libero Sallusti è affiancato dal condirettore Pietro Senaldi e il direttore editoriale Vittorio Feltri. “Starà a noi – ha scritto Sallusti nel primo editoriale sulle vicende interne alla destra italiana – raccontare il travaglio necessario per provare a partorire, dopo dieci e passa anni di gestazione, un nuovo e credibile governo alternativo alla sinistra in salsa grillina che già ha fallito al suo primo, recente, tentativo targato Conte due”. A Il Giornale invece la direzione è stata affidata ad Augusto Minzolini.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Il nostro maestro con la valigia aperta: cacciatore di notizie da Vienna agli Usa. Tony Damascelli il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. «C'è qualcuno interessato ai fagiani?». La domanda, gentile nel tono della voce con l'eleganza di quell'erre che gli apparteneva da sempre, coglieva d'improvviso noi redattori straniti e chini sulle macchine per scrivere, al piano quinto. Livio portava il trofeo della sua domenica di caccia, il sovrannumero delle sue esigenze veniva messo a disposizione di quella banda di pazzi che alimentavano il Giornale negli anni belli e oggi ancora più lontani. I fagiani erano riposti a frollare sul davanzale, nessun rischio di furti, al massimo di piccioni pirata. Livio Caputo è morto da direttore, in fondo un desiderio tenuto nascosto per tutta la carriera, scrivendo da ogni dove e con lo stesso stile che segnava i giornalisti e gli inviati di quell'epoca. La sua presenza significava o un giorno di riposo o il passaggio veloce per una nuova trasferta in giro per il mondo. Del resto la sua nascita faceva presagire un'esistenza itinerante, era nato a Vienna ma prese ad amare Torino e il Piemonte che era la terra d'origine del padre mentre sua madre veniva dalla Sicilia, dunque c'erano nebbia e sole anche nel suo carattere che non concedeva sconti, mai scadendo nell'arroganza o nella superbia ma sapeva difendersi con gli spigoli che gli furono utili come inviato in ogni parte del mondo, a intervistare capi di stato e a riferire di figure che la televisione non illustrava ancora, mentre, ovviamente, il computer apparteneva ai marziani. Livio si era laureato in giurisprudenza all'università di Torino, la facoltà di via Po era stata appena restaurata e il rettore, duro e acido come mai nessuno prima e dopo, epperò durante, si chiamava Mario Allara. Dividevamo, pur per epoche differenti, molte memorie di quelle aule e di quei docenti, tra tutti Giuseppe Grosso, professore di storia del diritto romano, poi eletto sindaco della città. L'amore per il giornalismo fu quasi naturale nel tempo in cui le gazzette, a parte i giornali radio, erano il solo appuntamento per leggere notizie e, assieme, gli approfondimenti. Il tragitto del dottore in legge non si fermò sotto la mole Antonelliana, prese a girare non soltanto le redazioni ma le stazioni ferroviarie e gli aeroporti, come era uso per chi avesse voglia di avventurarsi in un mestiere oggi ormai svanito, furono Bonn, Londra, New York, fogli quotidiani e riviste periodiche, la firma di Caputo era conosciuta, riconosciuta, riconoscibile. Arrivò a il Giornale Nuovo quando, con Indro Montanelli direttore, la macchina era guidata da Gian Galeazzo Biazzi Vergani. Era il giornalismo che seguiva i lanci dell'Ansa, l'inviato teneva la valigia pronta come il personale viaggiante e Livio non aveva domicilio fisso, amava scrivere e leggere, viveva da indipendente ma capace di trasmettere sensazioni e simpatie, le battute di caccia gli servivano per liberarsi dal quotidiano, prese ad amare lo sport, nell'ultimo sabato di questo maggio, Pierluigi Bonora, amico e collega illustre del settore motori del Giornale, si trovava a Firenze insieme con i lettori, a parlare e spiegare il nostro strambo lavoro e il mondo specifico delle automobili, quando ebbe l'idea di coinvolgere Livio per un saluto telefonico: «Con piacere, però chiamami prima che incominci la finale di Champions league». Si era appassionato al football, seguiva le partite, leggeva i resoconti, dialogava dell'Atalanta con Ariel Feltri che ha a cura la pagina dei lettori, un'altra tappa del viaggio di Caputo. Pierluigi avvicinò il telefonino al microfono e il Direttore ritrovò la voce dei giorni giusti, arrotando ancor di più la erre, con una serie di parole si dichiarò felice di salutare chi ancora crede nella nostra avventura e ci segue e ci legge. Era fiero di sentirsi e di sentire. La malattia lo affliggeva in ogni parte del corpo, i medici gli avevano prospettato l'ipotesi dell'amputazione di una gamba, da tempo gli era di conforto di sostegno Adele Perego, segretaria di mille cose e di mille nostri guai e fetta dolce di quel Giornale antico. Livio non aveva smarrito il carattere tosto di un viennese emigrato nel mondo, però, con il tempo feroce e il male aspro, si era arreso, il ricovero in ospedale è stato il suo esilio nel quale nessuno poteva entrare se non avvicinarsi con la voce. Infine aveva capito che non c'erano più domeniche per andare a caccia. Il davanzale di via Negri è vuoto di fiori e di fagiani.
Profondo dolore per un amico e grande liberale. Silvio Berlusconi il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. Ho appreso con profondo dolore la notizia della scomparsa di Livio Caputo, grande giornalista liberale e grande amico. Livio mi è stato vicino da sempre, ha aderito a Forza Italia dal primo giorno, ha partecipato da protagonista al nostro primo governo nel 1994 e poi per molti anni è stato la bandiera degli azzurri nel consiglio comunale di Milano. Al tempo stesso ha continuato la sua attività da editorialista di prestigio, combattendo le battaglie di libertà con la coerenza, il rigore e l'assoluta indipendenza di giudizio che lo hanno sempre caratterizzato. Schivo ed elegante, alieno dalla voglia di apparire, non mi ha mai fatto mancare in questi anni i suoi consigli preziosi, che nascevano dalla sua cultura profonda e non ostentata e dal suo autentico amore per la libertà. Con un ultimo gesto di generosità, nonostante le condizioni di salute non buone, aveva accettato nelle ultime settimane di firmare il Giornale come direttore ad interim in una delicata fase di transizione. Anche per questo gli saremo per sempre grati. La libertà, la cultura, il giornalismo italiano hanno perso un autorevole protagonista.
La passione per i viaggi e il feeling coi lettori. Un narratore esemplare. Angelo Allegri il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. Il primo scoop: un'intervista a Ingrid Bergman. L'impegno in politica e l'attenzione alla gente. Gli aneddoti, le storie, i racconti. E allo stesso tempo la sottile capacità di analisi, in grado di cogliere subito il punto essenziale di ogni questione. Come tutti (o quasi tutti) i grandi giornalisti Livio Caputo aveva una capacità affabulatoria affinata negli anni e trasformata in virtuosismo. Lui ci scherzava e diceva che la scuola più impegnativa non era stato il giornalismo ma la politica, e che la sua università era stata la campagna elettorale del 1994. Catapultato nel collegio di Bergamo come candidato al Senato di Forza Italia, aveva deciso di battere a tappeto la provincia parlando di fronte a ogni tipo di pubblico, ogni volta che ne aveva la possibilità. Dopo quella maratona oratoria, concludeva sorridendo, nulla più poteva spaventarlo. Di questa dote, a differenza di molti altri, Caputo non abusava mai. La sua cifra non era il gigionismo, ma la raffinatezza intellettuale. Ed era per questo che i lettori, e noi colleghi, non ci stancavamo mai di ascoltarlo durante i molti viaggi del Giornale che fino all'arrivo del Covid lo hanno visto protagonista. Non sempre si parlava di cose impegnative e «serie». Uno dei suoi aneddoti preferiti riguardava una lunga gita in barca al largo di un'isoletta svedese nei primi anni '50. Giovane praticante al settimanale Gente, ma già uomo di mondo, in grado di districarsi tra lingue e circostanze complicate, aveva ricevuto da Edilio Rusconi in persona un incarico delicato: andare a «scovare» la coppia clandestina del momento, Ingrid Bergman e Roberto Rossellini. I due erano partiti per una vacanza in Svezia, ma non si sapeva esattamente dove. Una volta sul posto Caputo aveva scoperto che gli innamorati si erano rifugiati su un'isola inaccessibile, poco più che uno scoglio lontano dalla costa. Da un pescatore si era fatto prestare una barca a remi, l'unica disponibile, e dopo una lunga vogata aveva raggiunto la riva del «buen ritiro» della Bergman, che divertita dalla sfrontatezza del ragazzo italiano, aveva finito per concordare un colloquio e qualche foto.
Missione giornalistica compiuta. E del resto il giornalismo Livio l'ha respirato in casa: suo padre Massimo era stato direttore della Gazzetta del Popolo di Torino e «principe» tra quei corrispondenti esteri, quasi dei diplomatici, che avevano fatto la grandezza del vecchio Corriere. Insieme al giornalismo Caputo ha respirato anche la capacità di trovarsi a proprio agio in ogni angolo del mondo. E non c'era angolo del mondo di cui lui non conoscesse vita morte e miracoli. Non più di 3 o 4 anni fa, in una Danzica post-moderna e dall'aspetto ormai quasi scandinavo aveva evocato per i lettori del Giornale, la città buia e grigia dei suoi resoconti degli anni Ottanta, assediata dalla polizia politica e paralizzata dagli scioperi di un sindacato illegale guidato da uno sconosciuto elettricista di nome Lech Walesa. In Vietnam, invece, aveva voluto rivedere l'albergo in cui aveva soggiornato ai tempi della guerra contro i Vietcong. Era stato, quel conflitto, uno dei terreni di rivalità tra Caputo e la già famosa Oriana Fallaci. Lui inviato di Epoca, lei dell'Europeo. Erano i più noti e prestigiosi settimanali di quegli anni, la gara era accanita e senza quartiere. Senza vanagloria e anzi con simpatia, l'aveva raccontato in prima persona l'interessato (lo si legge nell'articolo più in basso). Era il mondo la sua vera passione. Perfino negli angoli più dimenticati: parlava volentieri di Africa e in particolare di Sudafrica, a cui era legato in modo particolare visto che una figlia viveva nel paese da anni. Quando era stato nominato Sottosegretario agli Esteri, sembrò, per una volta, che la persona giusta fosse finita al posto giusto. Ma alla fine più che la politica ha potuto il giornalismo. E dopo una lunga militanza nel consiglio comunale di Milano, Caputo, senza rimpianti è tornato alla parola scritta. Senza abbandonare, (e sembra un gioco di parole) la politica vera, visto che agli ideali di un liberalismo classico, quasi anglosassone, quasi d'altri tempi, è rimasto sempre fedele. L'espressione, di altri tempi, è corretta e ugualmente infedele. Nonostante il suo amore per i vecchi racconti e gli episodi di un giornalismo lontano, Caputo non era uno di quelli che amano guardarsi indietro. La sua curiosità lo portava a immaginare il futuro. E ogni visita di un collega era l'occasione per fare domande. Naturalmente su qualche nuova storia da seguire e raccontare.
I ricordi di Caputo, maestro fuori dal coro. Fausto Biloslavo il 16 Giugno 2021 su Il Giornale. Dal Vietnam alla direzione di "Epoca". Da cui fu silurato per i khmer rossi. Nella giungla quando si salvò la pelle tirando due bombe a mano ai vietcong che gli sparavano addosso. Silurato dalla direzione di Epoca perché aveva osato pubblicare un reportage sui massacri dei khmer rossi. Quella volta che Oriana Fallaci non ce la faceva a scrivere il pezzo dal deserto della prima guerra del Golfo e lui la intervistò chiudendo la pagina in tempo. E le battaglie con il Giornale in difesa degli esuli istriani, fiumani e dalmati. Ricordi poco conosciuti e controcorrente di Livio Caputo, maestro di giornalismo e uomo di mondo che porterò sempre con me nel cuore e nei reportage in prima linea. Nel 2019 all’adunata dei lettori del Giornale ad Abano, in una sala gremita, Livio ha ricordato l’episodio del Vietnam, quando da inviato di Epoca aveva seguito una pattuglia dei marines. Un tenente italo americano lo aveva convinto che i vietcong non avrebbero tenuto conto che era un giornalista. E li consegnò due bombe a mano. “Siamo finiti in un’imboscata e mi sono trovato a pochi metri un paio di nord vietnamiti con il kalashnikov spianato - aveva raccontato Livio - Per fortuna c’era l’erba alta e mi sono buttato a terra per non farmi vedere. Sparavano all’impazzata ed i proiettili passavano sopra la testa. Avevo le bombe ananas degli americani. Ne andava della mia pelle e le ho lanciate tutte e due”. Da direttore di Epoca nel 1976 aveva osato pubblicare un servizio esclusivo di Paris Match sul genocidio in Cambogia ordinato da Pol Pot. “Fotografie drammatiche di esecuzioni senza pietà, le prime dei killing fields. Non ho avuto dubbi nel pubblicarlo e titolarlo “Un massacro per la rivoluzione”” raccontava Caputo. Il comitato di redazione era guidato da Carla Stampa, pasionaria di sinistra, che accusò il direttore di avere messo in piedi una “provocazione reazionaria”. La frase cardine della protesta del Cdr non lasciava dubbi: “Per la rivoluzione non si fanno massacri”. Nel 1976 si temeva il sorpasso del Pci sulla Dc e continuarono le contestazioni al direttore. “Un mese dopo la pubblicazione del servizio sulle atrocità dei khmer rossi – ricordava con amarezza Caputo – fui messo alla porta”. Livio l’ho conosciuto oltre trent’anni fa quando da capo degli esteri del Corriere della sera mi mandò, come giovane free lance, a Kabul per raccontare la ritirata dell’Armata rossa. Reduce da 7 mesi di galera nella capitale afgana dopo essere stato catturato durante un reportage con i mujaheddin avevo osato troppo. Dopo il primo (e ultimo) articolo sul Corriere un camion militare mi ha quasi mandato all’altro mondo. Il rapporto di odio-amore fra Caputo e Oriana Fallaci, fin dai tempi del Vietnam, è leggendario. Livio ha raccontato un episodio curioso quando scoppiò la prima guerra del Golfo: “Oriana venne al Corriere e convinse il direttore a mandarla in Kuwait a seguire il conflitto. Lei si illudeva che fosse ancora come il Vietnam. E sull’orlo di una crisi di nervi una sera mi telefonò dicendo che non ne poteva più e che non ce la faceva a scrivere l’articolo. Lei non cedette, io nemmeno, avevamo bisogno del pezzo e quindi la intervistai chiudendo la pagina”. Nel 1992, da vicedirettore del Giornale, lanciò una campagna contro “Osimo bis”, definitivo tradimento e abbandono di una fetta dell’Istria raccogliendo 300mila firme in difesa degli esuli e dei loro beni abbandonati davanti alle violenze di Tito alla fine della seconda guerra mondiale. E come sottosegretario agli Esteri del governo Berlusconi non dimenticò mai il dramma delle foibe. L’ultima volta l’ho sentito da direttore ad interim del Giornale per dirgli che era un grande. Livio con la voce piegata dai malanni rispose: “Se avessi dieci anni di meno….”. L'ultima volta l'ho sentito da direttore ad interim del Giornale per dirgli che era un grande. Con la voce piegata dai malanni rispose: «Avessi dieci anni di meno...».
Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982.
Il Caputo che a Milano fece da balia ai liberali. Alberto Giannoni il 16 Giugno 2021 su Il Giornale. Esperto di esteri, fu eletto a Palazzo Marino e guidò il gruppo in una città che rinasceva. Un grande viaggiatore, presente nei momenti decisivi. Aveva il rango del fuoriclasse Livio Caputo - scomparso due giorni fa a 87 anni - ma in lui conviveva con l'umiltà e l'apertura verso gli altri. E fu appunto per senso del dovere e per amore delle sue idee che questo giornalista prestigioso, questo raffinato conoscitore del mondo si fermò a Palazzo Marino col compito di allevare un vivaio di giovani liberali, eletti - molti per la prima volta - in una Forza Italia che nel 1997 aveva fatto il botto sfiorando il 30% e portando in Comune un gruppo nutrito e vivace. «Io ero un liberale coi pantaloncini corti - ricorda Fabrizio De Pasquale, oggi capogruppo di Fi - e Livio era l'unico che parlava, bene, delle politiche di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, che allora era obbligo denigrare. Lo avevamo conosciuto come grande firma, senatore e sottosegretario agli Esteri, lo abbiamo ritrovato capogruppo, chiamato a far da balia a un gruppo sterminato, in una situazione subito piuttosto delicata, in cui con la sua saggezza dovette mediare fra Consiglio e sindaco». «Era il primo mandato di Gabriele Albertini, c'erano Lupi, Casero, Scalpelli. Il suo principale interesse restava la politica estera, ma la dimensione internazionale di Milano lo intrigava. Ci insegnò molte cose». «Era un liberale impegnato in politica - ricorda Bruno Dapei, ex presidente del Consiglio provinciale - faceva vita di partito nel Pli ed ebbe rilevanti incarichi interni. Quando si candidò alle Europee con Fi alla fine non passò per una questione di resti e opzioni, eppure andò avanti e non fece mancare il suo apporto al movimento. Fu una dimostrazione di umiltà e grandezza. A un personaggio del suo spessore poteva andare stretto, ma si mise in gioco e andò a fare da chioccia a quel gruppo». «Era gruppo molto effervescente - racconta Giulio Gallera - che poi è stato capogruppo, assessore e infine eletto in Regione - Il presidente Berlusconi ci convocò e ci chiese di farci guidare da due personalità di esperienza, erano lui e Massimo De Carolis, che fu presidente del Consiglio. Livio fu acclamato capogruppo e lo restò per un mandato. Con un approccio davvero liberale ci consentiva di fare le nostre battaglie, poi ci guidava con saggezza nel momento delle decisioni importanti. Era autorevole e sobrio. Fece un po' da levatrice. E fu una spalla importante di Albertini. Da lì è nato un rapporto fra noi, che ha consolidato la nostra affinità. Non ha mai fatto pesare il suo spessore, ma ne aveva».
La storia politica di Caputo veniva da lontano. «Nelle prime elezioni interne al Pli a cui ho partecipato - ricorda Andrea Orsini, oggi deputato azzurro - ero candidato in una lista che aveva come capilista Enzo Tortora e Livio Caputo. E nel 1976 passavo le notti ad affiggere i suoi manifesti. Il Pli rischiava di scomparire allora e Livio sapeva benissimo che non sarebbe stato eletto. Ma lui non ha mai sgomitato per fare carriera, è sempre stato discreto. Era coltissimo, nato a Vienna perché il padre, giornalista, era inviato lì. Anche la sua passione era la politica internazionale, lui filoamericano e filoisraeliano, ma quando si trattò di impegnarsi a Milano, forse facendo perfino violenza a se stesso lo fece in modo convinto, occupandosi di problemi amministrativi e tuttavia con una visione molto ampia, volava sempre molto alto». «Livio conosceva come pochi la politica internazionale, e fra l'altro aveva anche fatto il giro del mondo in barca a vela - ricorda ancora De Pasquale - quindi parliamo di un personaggio davvero dinamico, pieno di risorse di ogni tipo. L'ultima volta che l'ho incontrato è in occasione della celebrazione del trentennale della caduta del Muro, che lui aveva vissuto sul campo da capo degli Esteri. Fece una rievocazione molto bella. Ma lo sentivo spesso, perché curando le lettere capitava che dovesse parlare di Milano, e con grande scrupolo voleva verificare, controllare, che si parlasse di viabilità o di scuole. Una cosa esemplare». «È un pezzo di storia che se ne va - riflette ancora Dapei - Livio era un totem, eppure quando lo chiamavo, lui veniva, partecipava. Negli ultimi tempi aveva questo problema di salute che lo teneva bloccato, usciva sempre meno, e quindi ci vedevamo quando lo andavo a trovare a casa. Un paio di anni fa, a 85 anni, aveva detto sì a un progetto a cui tenevo e tengo molto, una sorta di wikipedia liberale, in forma giornalistica. Abbiamo registrato la testata, io editore e lui direttore».
Addio direttore Caputo: anima del "Giornale" fino all'ultimo giorno. Francesco Maria Del Vigo e Marco Zucchetti il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. Lo storico inviato si è spento dopo il passaggio di consegne. La lezione: "Pensate sempre al lettore". Fare un giornale significa spesso mettere da parte le emozioni e sforzarsi di fornire ai lettori le notizie, le storie e le analisi che cercano sul loro quotidiano. È il nostro lavoro, la vostra lettura. Ma proprio perché Il Giornale è soprattutto vostro, oggi pensiamo che questo spazio debba essere riempito dal comune senso di dolore, gratitudine e immenso rispetto per Livio Caputo, che ieri ci ha lasciato. Cosa abbia rappresentato per questo quotidiano non sta certo a noi ricordarlo: dalle corrispondenze ai commenti, fino allo scoop della casa di Montecarlo, è stato un fuoriclasse del giornalismo, ma soprattutto un galantuomo come non se ne vedono più. Semplicemente, se ne va l'ultimo della generazione di campioni che hanno contribuito a far sorgere, e poi a rendere sempre più forte, la voce liberale e moderata dell'Italia produttiva, fieramente occidentale, geneticamente anti-comunista: questo Giornale. All'interno trovate i ricordi di chi lo ha conosciuto meglio di noi, troppo acerbi per aver condiviso con lui la vita di redazione, non per ammirarne l'innato stile, la visione internazionale, la grandezza di inviato, l'enorme amore per la sua testata. Ed è proprio questo suo senso di appartenenza che lo ha portato - già gravemente malato nel fisico ma ancora splendidamente lucido nella mente - ad accettare l'incarico di direttore responsabile ad interim del Giornale un mese fa: «Sono commosso che me lo abbiate chiesto: per me è l'ultimo onore», ci disse. In queste settimane, Livio è stata una presenza saggia che ci ha accompagnati e indirizzati al timone del Giornale. Lo scambio di opinioni con lui è stato un privilegio e - oltre alla riconoscenza per l'aiuto e il supporto - porteremo con noi una lezione: «Pensate sempre a quello che interessa davvero al lettore. Il Giornale non è solo un quotidiano, è una famiglia». Se n'è andato nel giorno in cui ha consegnato la guida del Giornale nelle mani del nuovo direttore Augusto Minzolini, che si insedierà oggi. Ci piace pensare che abbia stretto un patto con il destino affinché gli permettesse di portare a casa l'ultimo servizio. Come sempre, lo ha fatto da fuoriclasse. Grazie, direttore.
Francesco Maria Del Vigo. Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.
Per Livio Caputo. Penna brillante, uomo libero e coraggioso. Marco Valle il 16 giugno 2021 su Il Giornale. Con Livio abbiamo viaggiato molto. In Europa, in Africa, in Asia. Ma c’è un soggiorno, un itinerario in particolare che (ad ambedue) è restato piantato nel cuore, nell’anima: il Vietnam, 2014. Non a caso. Per la prima volta dopo il 1975 il Direttore tornava in uno dei Paesi che più aveva amato, nonostante la guerra e tutti gli orrori. Per anni aveva raccontato con penna sapiente il naufragio dell’esercito americano, l’avanzare inesorabile dei nord vietnamiti, il collasso del regime sudista, i massacri comunisti, le ipocrisie occidentali. Appena poteva, da vecchio granatiere, saliva in prima linea, accanto ai soldati, tra le bombe e le pallottole. E scriveva, fotografa, analizzava, capiva. E talvolta si divertiva. Piccolo anedotto: durante una pattuglia di marines a cui era aggregato si era dilettato a lanciare qualche granata sui viet. «Ero un conservatore molto armato», ammise sorridendo. Già, Livio mente libera e brillante ma soprattutto uomo di convinzioni profonde, uomo coraggioso e anticonformista. Lo saluto con l’incipit di un capitolo di un mio libro, dedicato proprio a Lui e all’Indocina di ieri e di oggi. Tutto iniziò a Saigon con una splendida cena nel “suo” albergo….«Dalla terrazza dell’Hotel Majestic vedo scorrere nella notte un corteo di motorette. Un fiume luminoso, assordante, inarrestabile. A Saigon — centomila più, centomila meno — sono circa cinque milioni. Livio Caputo innalza le folte sopracciglia e sorride: «è la stessa immensità umana di quarant’anni fa, ma allora si usavano biciclette e nel cielo ronzavano gli elicotteri americani, tutto cambia. Anche i rumori». Non è per caso che Livio — quarant’anni dopo il suo ultimo reportage nel Vietnam in fiamme — abbia voluto portarci qui, al Majestic, l’ultimo orgoglioso testimone di un tempo passato. Stesso ambiente belle époque, stesse musiche languide, stesso panorama sul fiume. Sullo sfondo, sfumate, occhieggiano le ombre di Graham Greene e Jean Laterguy…Presto il vecchio albergo — al tempo ritrovo dei corrispondenti stranieri — sarà abbattuto per far posto, nel cuore di ciò che resta dell’antico quartiere europeo, a un nuovo futuribile grattacielo in vetro e cemento, un altro scintillante mostro senz’anima. Meglio non pensarci e, in questa serata di primavera, godersi l’orchestrina filippina che, con scalcagnata dignità, suona motivi dei Sessanta e ascoltare i racconti di Caputo. Sulla guerra, sulla vita, sull’amore. Sulle meravigliose follie di Oriana, sui miraggi crudeli di Terzani, sulle comode viltà di Bocca e Biagi. Storie di ieri. Riflettiamo, mentre l’impomatato cantante intona per l’ennesima volta My Way, sulla quasi assenza al sud di memorie di trent’anni di guerra. Non vi è praticamente più traccia. Per ricordare quella lunga follia costata tre milioni di morti, i vincitori venuti dal nord hanno ribattezzato la città Ho Chi Minh City — un nome che qui nessuno usa, per tutti Saigon rimane Saigon — , eretto qualche monumento e aperto un museo visitato da scolaresche e turisti. Un brutto cubo zeppo di belle fotografie di Life e Times, qualche residuo bellico, manifesti di propaganda. Poca roba. Livio sorride e ricorda. Sotto di noi scorrono Dong Khoi, la via dell’Insurrezione, un tempo rue Catinat, il boulevard Charner, oggi Nguyen Hue, la rue Impérial, l’attuale Hai Ba Trung, su cui si affacciano l’Operà, la Posta centrale progettata da Gustave Eiffel, il municipio, la cattedrale neogotica di Notre Dame. Le architetture ricordano Nizza, Cannes, Parigi, il lungofiume è un frammento di Costa Azzurra. «I francesi, quando arrivarono nella metà dell’Ottocento, si convinsero di poter trasformare questo paese, così complesso e insondabile, in un dipartimento di Parigi», annuisce Caputo «certi di restare, per quasi un secolo, con logica cartesiana e ottimismo illuminista, continuarono ad investire, costruire, guadagnare, combattere. Senza requie, senza dubbi. Non compresero, o non vollero capire che la storia scorreva veloce e il loro tempo — il tempo dell’Europa coloniale — stava finendo. Si risvegliarono solo nell’inferno di Dien Bien Phu. Ma era troppo tardi». Già, Dien Bien Phu, la terribile trappola che sessant’anni fa inghiottì con voracità il Corp Expéditionnaire Française en Extreme Orient, il CFEO, il meglio dell’Armée. Dien Bien Phu, un nome — come le Termopili, Salamina, Waterloo, il Piave, El Alamein — che non cessa d’intrigarmi. Piccole manie di uno storico dilettante. Questa volta, però, mi ritrovo in buona compagnia. Domani Livio, Mara ed io partiamo verso il nord». (Da Confini & Conflitti, Eclettica 2015)
Quella volta che fui più bravo di Oriana...Livio Caputo il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. Ebbi per primo le foto a colori dell'allunaggio. Un'amica, ma non mi parlò per 6 mesi. Se dicessi di essere stato un intimo amico di Oriana Fallaci racconterei una bugia: abbiamo vissuto a lungo nella stessa città New York, ci vedevamo a cene e ricevimenti, abbiamo fatto molti servizi insieme; ma oltre a essere colleghi eravamo anche, e soprattutto, concorrenti. Negli ormai lontani anni Sessanta, la concorrenza tra giornali, e più ancora tra settimanali, era ancora forte, e tra Oriana, corrispondente dell'Europeo, e il sottoscritto, corrispondente di Epoca, c'era una intensa quanto sana rivalità. Praticamente ogni settimana, che fossimo in sede, a Cape Canaveral a seguire i progressi della conquista dello spazio, o in Vietnam a riferire sulla guerra, cercavamo di superarci a vicenda. Oriana era senza ombra di dubbio la più abile con la penna, e forse anche quella che aveva i migliori contatti, ma aveva un punto debole su cui io puntavo spesso per cercare di superare il mio handicap: era una mediocre organizzatrice, spesso dava l'impressione di non curarsi troppo delle esigenze del giornale in materia di tempi di consegna e di spedizione del materiale fotografico (in quegli anni non esisteva ancora la telefoto a colori, e bisognava fare arrivare il più rapidamente possibile le pellicole a Milano). Al centro dei suoi interessi c'era solo l'articolo e in certe occasioni questo mi ha consentito di darle qualche dispiacere. Vi racconterò la più clamorosa. Uno dei terreni principali della nostra competizione è stata la corsa alla luna, culminata il 20 luglio 1969 con lo sbarco sul satellite degli astronauti Armstrong e Aldrin, ma durata in realtà cinque anni. Durante tutto questo periodo bisognava cercare di intervistare i protagonisti (una cosa in cui Oriana era assolutamente insuperabile), e seguire e spiegare i problemi sorti durante i voli preparatori (e qui ho segnato io qualche punto). Ma, naturalmente, si trattava solo di una fase di avvicinamento al momento culminante dello sbarco, e al numero-clou, in cui avremmo mostrato ai lettori le prime foto a colori della luna, che la NASA avrebbe distribuito alla stampa tre o quattro giorni dopo il rientro dell'equipaggio di Apollo 11. Riuscire a pubblicare quelle foto per primi sarebbe stato lo scoop dell'anno, e sia Oriana, sia io, ci impegnammo a fondo nella corsa. Era, essenzialmente, un problema di aerei. La NASA aveva annunciato che ci avrebbe consegnato il materiale intorno alle 13.30, troppo tardi per prendere l'ultimo volo per New York in coincidenza con quelli in partenza la sera per l'Italia. Perciò, mentre con Oriana sostenevo che il problema era insolubile, mi sono segretamente accordato con i colleghi di Paris-Match e del Daily Mail per affittare un Falcon che ci avrebbe portato a New York giusto in tempo per ripartire subito per l'Europa. Per farcela, ho dovuto sfidare i limiti di velocità del Texas, una tempesta fuori stagione sulla Grande mela, e poiché al mio arrivo al Kennedy l'Alitalia per Malpensa era già partita, ripiegare su un volo per Zurigo dove è venuto a prendermi l'aereo della Mondadori. Risultato: Epoca è uscita con le famose foto un giorno prima dell'Europeo e Oriana non mi ha più rivolto la parola per sei mesi. In attesa dello sbarco sulla luna, siamo stati varie volte insieme in Vietnam, soprattutto tra il '67 e il '68, l'anno della famosa offensiva del Tet. Su quella guerra tanto discussa, Oriana ed io non eravamo d'accordo. Lei, che allora, prima di iniziare la sua crociata contro l'Islam, era piuttosto di sinistra, riteneva sostanzialmente che si trattasse di un conflitto post-coloniale inutile e un po' insensato. Io credevo invece nella teoria del domino di Dean Rusk (segretario di Stato di Kennedy e Johnson), secondo la quale se il Vietnam fosse caduto in mano ai comunisti, questi si sarebbero successivamente impadroniti di tutto il Sud-est asiatico. Sulla terrazza del Continental di Saigon, di ritorno dal fronte, abbiamo avuto in materia discussioni anche accese; con il senno di poi, devo riconoscere che aveva ragione lei, perché anche dopo il trionfo dei Vietcong nel 1972 non è accaduto nulla di quanto temuto. La guerra del Vietnam è stata l'unica della storia in cui alla stampa, di qualsiasi colore fosse, era concessa assoluta libertà di movimento: potevamo usare tutti i mezzi di trasporto, aggregarci ai reparti che volevamo, metterci elmetto e mimetica e andare in prima linea. Per le solite ragioni della concorrenza, eravamo soprattutto noi dei settimanali che ne approfittavamo e Oriana non si tirava certo indietro. Il suo coraggio nell'affrontare i pericoli era proverbiale; per sua fortuna, poi, quando tornava alla base trovava ad aspettarla uno dei suoi grandi amori, un collega francese molto simpatico. Fu anche, (ed è stato uno dei suoi scoop che tutti le invidiammo) capace di andare a Hanoi a intervistare il grande nemico degli americani, il generale Giap. Quando rientrai in Italia nel 1970 ci perdemmo un po' di vista, solo per ritrovarci in occasione di un'altra guerra, quella del Golfo del 1991. Io ero allora capo dei servizi esteri del Corriere della Sera, lei ormai la giornalista e scrittrice più famosa d'Italia. Forte di questo, chiese e ottenne dal direttore Ugo Stille di seguire il conflitto come inviata straordinaria. Conoscendo la sua dimestichezza con la guerra, ne fui ben felice, ma avevamo fatto i conti senza l'oste: gli americani, resisi conto in Vietnam che era troppo pericoloso lasciare briglia sciolta alla stampa, chiuse praticamente gli inviati in una sala a commentare comunicati, con la sola promessa di lasciarli liberi il giorno in cui Kuwait City venisse liberata. Poiché la guerra si prolungava Oriana, che contava di ripetere nel Golfo le sue imprese vietnamite, divenne presto isterica e si sfogava con me al telefono. Io cercavo di consolarla parlandole del meraviglioso articolo che avrebbe scritto in occasione della liberazione. Ma qui accadde l'imprevisto: il giorno X Oriana chiamò Stille e gli annunciò inopinatamente che non si sentiva di scrivere nulla. Panico in redazione (e anche in amministrazione). Alla fine risolvemmo il problema con una mia intervista a lei che, se ben ricordo, occupò due pagine di giornale. Voglio concludere con un episodio che dimostra come, nonostante la sua fama di dura, Oriana fosse una donna di grande umanità. Il giorno 3 marzo 1968, io di ritorno dall'assedio di Khe San e lei da non so dove, ci ritrovammo al posto-telex di Saigon quando io ricevetti un messaggio dal giornale: lettera dopo lettera, vidi uscire un messaggio del direttore Sampietro che mi comunicava la morte di mio padre. Il modo in cui Oriana mi fu vicina in quel momento e l'affetto che mi dimostrò non li dimenticherò mai. Livio Caputo
· E’ morto l’attore Ned Beatty.
Cinema: Ned Beatty morto a 83 anni. Attore infaticabile, da Weekend di paura a Superman. La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Giugno 2021. Ned Beatty, attore infaticabile di Hollywood più volte candidato all'Oscar e volto noto di 'Un tranquillo weekend di paura' e 'Superman', è morto all'età di 83 anni. Lo ha annunciato alla Cnn Deborah Miller, Talent Manager dello Shelter Entertainment Group. A consacrarlo alla fama proprio 'Deliverance', film del 1972 diretto da John Boorman in cui interpretava uno dei quattro amici della Georgia che partono per un viaggio in canoa che si rivela denso di pericoli. Nel 1976 recita in Quinto potere di Sidney Lumet conquistando una nomination per un Academy Award come miglior attore non protagonista. Nel 1978 è l'imbranato Otis in "Superman". Innumerevoli i suoi ruoli teatrali, televisivi e cinematografici. Nato e cresciuto in Kentucky, pescando e lavorando nelle fattorie, Beatty ha iniziato a lavorare come artista professionista all'età di dieci anni, cantando in cambio di pochi spiccioli in quartetti gospel e in un negozio di barbiere. Ha poi recitato a teatro ad Abingdon, in Virginia, a Washington D.C e a Broadway. Tra gli altri film in cui ha recitato, 'Tutti gli uomini del Presidente', 'The Big easy', 'Hear My Song' e, più recentemente, 'The Walker', 'La guerra di Charlie Wilson' e 'Shooter'. (ANSA).
Ned Beatty rip. Marco Giusti per Dagospia il 14 giugno 2021. Amato da registi e star come John Boorman, Robert Altman, John Huston, Burt Reynolds, Paul Newman, Steven Spielberg, Christopher Reeve non c’è stato un caratterista attivo e venerato a Hollywood come Ned Beatty, scomparso a 83 anni dopo una carriera cinematografica che vanta, dal 1971 a oggi, qualcosa come 166 titoli, tra film e serie tv, oltre alle tante apparizioni teatrali di successo in America e in Inghilterra. Non riuscì mai a vincere l’Oscar, anche se ci andò vicino con la candidatura per “Quinto potere” di Sidney Lumet. Grosso, coi capelli riccioli, sovrappeso, uomo del sud più profondo, Ned Beatty era però in grado di incarnare qualsiasi ruolo, comico o drammatico, bifolco o acculturato, buono o maligno con la stessa disinvoltura. Quando lo vedemmo nel fondamentale “Deliverance”/”Un tranquillo weekend di paura” di John Boorman, dove viene ferocemente violentato da un cacciatore che lo obbliga a imitare un maiale, pensammo che dopo un esordio simile, così umiliante e fastidioso anche per lo spettatore, non gli sarebbe stato facile proseguire nel cinema di Hollywood. Niente di più sbagliato. Proprio quella scena, così rivelatrice della violenza e dell’ambiguità dell’America profonda, lo portò a una serie di film di grande successo molto amati dal pubblico della New Hollywood degli anni ’70, al punto che “Variety” lo definirà l’attore più indaffarato di Hollywood” per le tante richieste di lavoro che riceveva. John Huston lo volle per “L’uomo dai sette capestri” a fianco di Paul Newman, Bud Yorkin per “Il ladro che venne a pranzo” insiene a Ryan O’Neal e a Warrne Oates, Burt Reynolds lo vorrà accanto a lui per ben sei film, da “McKlusky, metà uomo metà odio” a “Un uomo da buttare” a “Gator”, Robert Altman lo impose nel bellissimo “Nashville” e lo vorrò molti anni dopo in “Cookie’s Fortune”, Alan J. Pakula lo chiamò per “Tutti gli uomini del presidente” fra star come Robert Redford e Dustin Hoffman, Elaine May per “Mickey & Nicky”, dove divide la scena fra due mostri come Peter Falk e John Cassavetes, Steven Spielberg ne farà una sorta di buffo personaggio da cartoon della Warner in “1941”, mentre Richard Donner gli cucirà il personaggio di Otis, il braccio destro di Lex Luthor-Gene Hackman nei due giganteschi “Superman” diretti da Richard Donner. E, forse, quello di Otis è il personaggio che il pubblico più ricorda di Ned Beatty. Era nato a Louisville in Kentucky, cresciuto proprio in una fattoria del profondo sud. Inizia prestissimo a recitare in teatro, spostandosi a Abingdon, Virginia, poi in Pennsylvania, poi a Huston, Texas, infine alla più celebre Arena Stage Company di Washington e infine a Broadway dove si mette in luce come uno dei pochi bianchi in “The Great White Hope”. Ma a teatro, addirittura Los Angeles, porterà anche il testo del nostro Dario Fo, “Morte accidentale di un anarchico”. Col personaggio di Bobby Trippe in “Deliverance”, diretto da John Boorman a fianco di Burt Reynolds entra per sempre nel cinema nel 1971. E’ la svolta, visto che da lì in poi sarà davvero uno degli attori più richiesti degli anni’70, forte dei successi dei film che gira con Burt Reynolds, ma anche delle apparizioni in grandi film del tempo come “Nashvillle”, “Wagon-lits con omicidi”, “Superman”, “Tutti gli uomini del presidente”, “Quinto potere”, “L’esorcista II”, quello diretto da John Boorman con Richard Burton. Gira anche film fortemente impegnati, come “Alambrista!” di Roger Young, “La ballata di Gregorio Cortez” e kolossal per la tv come “Gli ultimi giorni di Pompei”. Negli anni ’80 gira ancora molti film, anche se non è più il caratterista dei successi di autori come Altman o Hustob. Lo troviamo in “The Big Easy”, in “Quarto protocollo”. Negli anni ’90 fa anche molta tv, ma le sue apparizioni, pensiamo nel tardo thriller con Sean Connery, “Just Cause”, o in “He Got Game” di Spike Lee fanno sempre piacere. All’inizio del 2000 torna a teatro nel West End di Londra con “La gatta sul tetto che scotta” di Tennesse Williams e ha un grande successo di pubblico e di critica. Lo ritroviamo così pochi anni dopo nel buon cinema dove si era formato, pensiamo al notevolissimo “The Walker” di Paul Schrader con Woody Harrelson, a “La guerra di Charlie Wilson” di Mike Nichols. Con Ned Beatty se ne va una parte della Hollywood che abbiamo tutti molto amato e seguito.
· E’ morta l’atleta Paola Pigni.
Pigni, l'addio choc della regina della fatica. Riccardo Signori il 12 Giugno 2021 su Il Giornale. Fu bronzo nei 1500 ai Giochi di Monaco del 1972: per lei come un oro. Un inchino e una stretta al cuore per salutare Paola Pigni che se n'è andata leggera, come in un soffio, quasi corresse ancora sulla nuvoletta che l'ha portata lontana sulle piste di atletica. Se n'è andata velocissima, quasi una irrisione alla lunga distanza che l'ha resa guerrigliera e rivoluzionaria tra gli anni '60 e '70, pioniera che sapeva abbellirsi con il cosmetico della fatica, trainante per un mondo che ancora non riusciva a sbocciare. Ha lasciato l'universo dell'atletica, il suo habitat naturale, appena conclusa una manifestazione sulla educazione alimentare nelle scuole, nella tenuta di Castel Porziano in presenza del presidente Mattarella. Uno svenimento, si è rianimata, poi via all'ospedale San Eugenio: il cuore non ce l'ha fatta più. Paola Pigni era nata a Milano, il 30 dicembre 1945, nel tempo è diventata romana di adozione. È stata la prima nostra signora della fatica, fin a inerpicarsi sulla via della maratona, impietosa prova d'esame della corsa lunga che altre donne avevano sfidato, carezzando voglia ed ebbrezza, senza ricevere credibilità. Nel dicembre '71 fu tra le prime a provarsi nella maratona romana di San Silvestro. Paoletta Pigni con quel viso allungato, lo sguardo che guardava verso l'alto, denti davanti che sporgevano un po' non ha smesso mai di correre verso il futuro. Cominciò come velocista rullando sui suoi 60 chili, poi i metri si fecero sempre di più: 400, 800. Ai giochi di Messico 1968 toccò le semifinali degli 800 m. A Milano, il 2 luglio di un anno dopo, esplorò la meravigliosa sensazione di un record del mondo durante la Notturna all'Arena, correndo i 1500 metri in 4'124. Il primato non durò molto. La sua storia diventa un brulicare di record, prestazioni, interpretazioni: il massimo con il bronzo olimpico dei 1500 ai Giochi di Monaco 1972, e un tempo ancora oggi di pregio in Italia. Lei correva con le sue forze. Le altre, tedesche e russe, non proprio. Quel bronzo le parve un oro, vedendo le storie che avrebbero accompagnato le avversarie. Vinse un bronzo europeo, due mondiali di cross. Amava le gare che per altre erano devastazioni. Le piacevano il fango, l'inferno delle strade, aveva conosciuto il problema del doversi arrangiare, si allenava alle 5 del mattino, correva con gli uomini per allenarsi meglio. Era figlia di artisti, ma quella era la sua arte. Nel 1973 conquistò il primato del miglio, mantenne tutti i primati nazionali dai 400 ai 10mila m. Trovò la sua quercia nel professor Bruno Cacchi, allenatore e poi marito: 15 anni di differenza. Traballarono i benpensanti. Lui insegnava educazione fisica nel milanese liceo Carducci, ci sapeva fare con i giovani: li attraeva all'atletica. Figuratevi con un tipo come la Pigni. Morì due anni fa. Portò Paola a grandi successi prima di diventare ct della nazionale. A suo modo indimenticabile Pigni, benché lei ne risultasse spesso sorpresa. Il suo limite? E'stata grande forse troppo presto. E troppo frettolosamente ha lasciato la vita, ma certo non uscirà mai dalla foto dei grandi della nostra atletica. Riccardo Signori
Valerio Piccioni per gazzetta.it l'11 giugno 2021. Paola Pigni ha “inventato” la corsa lunga in Italia ed è stata una grande rivoluzionaria dello sport. Lo affermiamo senza timore di smentita nel momento in cui arriva la notizia della sua scomparsa, annunciata poco fa dal presidente del Coni, Giovanni Malagò: “Un’atleta grandissima, apripista di tanta atletica. Andremo a Tokyo anche per ricordarla”. Paola è morta per un infarto questa mattina, aveva 75 anni. Nel suo curriculum c’è un bronzo europeo nel 1969, ma soprattutto quello olimpico del 1972 a Monaco nei 1500 metri, specialità in cui nella Notturna di Milano del 1969 porta a 4:12.4 il record mondiale dopo aver superato sul passo l’olandese Maria Gommers (4:15.0). Ma nel suo repertorio non va dimenticato il cross con i suoi due trionfi mondiali nel 1973 e nel 1974. Ma Paola è stata molto di più di questi risultati per lo sport italiano. Erano i tempi in cui correre era un verbo proibito per le donne, nel mondo e naturalmente in Italia. La Pigni, milanese poi trapiantata a Roma, entrò nella terra di nessuno con coraggio e personalità e diede un segnale che apri’ una strada oggi affollata dalle centinaia di migliaia di donne che corrono ogni giorno. Appena quattro anni dopo il mitico episodio dell’aggressione a Kathrin Switzer che aveva avuto il coraggio di correre a Boston occultando la sua identità femminile (si era iscritta soltanto con il cognome è solo l’iniziale del suo nome), la Pigni corse la Maratona di San Silvestro, la manifestazione più importante del panorama in Italia sulla distanza dei 42 chilometri e 195 metri, fino ad allora ristretta solo agli uomini. Era il 1971 e la Pigni sotto l’acqua portò a compimento il suo “esperimento”, solo per un soffio non abbatté il muro delle tre ore, ma la novità più dirompente. Era cominciata un’altra epoca. La Pigni apriva strada e duellava, molto spesso non ad armi pari (cominciava ad affacciarsi il ciclone Germania Est) in campo internazionale sfidando anche qualche infortunio. A Roma trovò anche l’amore è un compagno di viaggio della sua carriera, il professor Bruno Cacchi, un apprezzatissimo scienziato dell’allenamento. La sua storia è stata fatta anche di tante serate che hanno fatto storia all’Acqua Acetosa, lei a tirare gruppi affollatissimi di amatori, uomini e qualche volta donne, insegnando loro a correre. Poi si era impegnata a lungo nella promozione dello sport, lavorando per la Federazione Italiana Bocce. E intanto ricordava, raccontava, rievocava ma sempre con uno sguardo verso il futuro. Di lei ricordiamo anche una scena bellissima, l’abbraccio con Novella Calligaris il giorno della camera ardente per Pietro Mennea. Era come se non volessero mai staccarsi. Lo sport italiano nel ricordarla può cominciare solo con una parola: grazie.
· E’ morto il politico e sindacalista Guglielmo Epifani.
Lutto nel sindacato, morto l'ex leader della Cgil Guglielmo Epifani. Fu anche segretario del Pd. Il Quotidiano del Sud il 7 giugno 2021. E’ morto a 71 anni , a quanto si apprende, l’ex leader della Cgil e ex segretario del Pd Guglielmo Epifani. Attualmente deputato di Leu, si è spento dopo una breve malattia.
Il profilo. Un filosofo dedicato al sindacato. Guglielmo Epifani, classe 1953, era entrato nella Cgil subito dopo la laurea, ottenuta all’Università La Sapienza di Roma con una tesi su Anna Kuliscioff. Iscritto prima al Partito socialista italiano e, dopo la fine del Psi, al Pds, è stato eletto nel 2013 alla Camera dei Deputati come capolista della lista Pd, partito di cui è diventato segretario tra maggio e dicembre di quell’anno, in quella che lui stesso ha definito «una fase di transizione tra la segreteria di Bersani e quella di Renzi». E’ stato il primo socialista a guidare la Cgil dai tempi della sua ricostituzione nel 1944. Alla Cgil è arrivato molto giovane: prima ha diretto la Casa editrice della Confederazione, l’Esi, poi è approdato all’Ufficio sindacale, dove ha coordinato le politiche contrattuali delle categorie, e quindi all’Ufficio Industria della Confederazione. Nel 1979 ha iniziato la carriera di dirigente sindacale con l’incarico di segretario generale aggiunto della categoria dei lavoratori poligrafici e cartai. Nel 1990 è entrato nella segreteria confederale e nel 1993 è stato nominato segretario generale aggiunto da Bruno Trentin. Vice di Sergio Cofferati dal 1994 al 2002, è poi diventato Segretario generale, fino al 2010, quando è subentrata Susanna Camusso. Da maggio 2013 ha ricoperto l’incarico di Presidenza della X Commissione permanete della Camera dei Deputati – “Attività produttive, commercio e turismo” . Nei mesi alla guida del Pd, ha scritto lui stesso sul sito internet, “abbiamo affrontato molte elezioni amministrative vincendole tutte, preparata l’adesione al Partito Socialista Europeo, riportato in alto i sondaggi e favorito un clima di rispetto reciproco dentro il partito. Dopo l’involuzione del Partito Democratico con le sue politiche in tema di lavoro, scuola, riforma elettorale e Costituzionale, ho deciso con tanti altri di lasciare il Pd e di dare vita ad Articolo 1 – Movimento Democratico e Progressista e poi alla lista Liberi e Uguali con Pietro Grasso”. La frase che campeggia sul suo sito è “Uno sguardo critico sul futuro”, a indicare proprio la sua capacità di riflessione che tutto il mondo politico gli ha riconosciuto. Tra i suoi ultimi impegni, quello sulla vertenza Whirlpool, che gli stava a cuore anche come ex sindacalista: «Il Governo si impegni – chiedeva – bisogna lavorarci, mettere cuore e risorse. Non possiamo correre il rischio che con lo sblocco ci siano licenziamenti. Qualcuno spieghi qual è la differenza tra il 1 luglio e il 1 ottobre, in questo tempo magari facciamo una riforma degli ammortizzatori sociali. Il Governo si è mosso ma questo non basta, serve di più». Altri temi su cui si era battuto quest’anno, la legge sulla rappresentatività sindacale e la sicurezza sul lavoro. «A oggi – aveva sottolineato – l’Articolo 39 della Costituzione resta inattuato generando una difformità in tema di contrattazione. Dunque pensiamo sia opportuno un intervento legislativo per colmare questo vulnus che preveda l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative». In tema di sicurezza, Epifani chiedeva che rimanesse centrale anche dopo l’emergenza Covid: ci sono «”tre ordini di problemi sostanzialmente non risolti o risolti male” su cui si deve intervenire per uscire dalla retorica delle parole e del cordoglio che sempre segue episodi drammatici come quelli avvenuti nelle ultime ore a Prato e a Busto Arsizio: prevenzione, formazione e cambiare il meccanismo bonus/malus».
Guglielmo Epifani, morto a 71 anni: il deputato Leu era l'uomo del "milione in piazza" contro Berlusconi. Libero Quotidiano il 07 giugno 2021. Lutto nella politica italiana, è morto Guglielmo Epifani, deputato di Liberi e Uguali nonché ex segretario generale della Cgil e del Partito democratico, che ha guidato come reggente dal maggio al dicembre 2013, passando il testimone da Pierluigi Bersani a Matteo Renzi. A darne notizia per primo è stato il sito di Repubblica. Epifani, nato a Roma nel 1950, è stato il primo socialista (e non comunista di formazione) a guidare la Cgil dopo essere stato vice prima di Bruno Trentin e poi di Sergio Cofferati. Si era laureato in filosofia alla Sapienza di Roma con una tesi su Anna Kuliscioff. Dopo aver iniziato a lavorare nella casa editrice del sindacato "rosso" e poi alla federazione dei poligrafici, di cui è stato leader sindacale, nel 1990 entrò nella segreteria confederale e nel 2002 è diventato segretario generale prendendo il posto, come detto, di Cofferati. Uno dei suoi primi atti da segretario fu l'annuncio al congresso della Cgil di voler portare in piazza i lavoratori contro la riforma dell'articolo 18 voluta dal governo di Silvio Berlusconi. Una mossa che verrà ricordata negli anni successivi come il canto del cigno della guerra "politica" dei sindacati, con 1 milione di persone scese in strada, di fatto, per manifestare la loro opposizione al centrodestra in un momento in cui, politicamente, il centrosinistra parlamentare era ridotto ai minimi termini. Passato dall'altro lato della barricata, quello politico, proprio all'articolo 18 Epifani si guadagnò le critiche più aspre dal suo mondo, la sinistra, per aver votato a favore del Jobs Act, la riforma del lavoro del governo Renzi che molti ex colleghi di Epifani giudicavano come il colpo mortale a sindacati e garanzie dei lavoratori. Eletto nel 2013 alla circoscrizione Campania 1 come capolista del Pd, ha passato la sua prima legislatura alla Camera, come presidente della X Commissione permanente Attività produttive, Commercio e Turismo. Il 25 febbraio 2017 la rottura con Renzi e l'addio al Pd, per passare con gli scissionisti di "Articolo 1 - Movimento democratico e progessista", il poco fortunato Mdp di Bersani e Massimo D'Alema, che ebbe vita breve ma che contribuì poi ad affondare definitivamente Renzi al Nazareno e traghettò Epifani dentro LeU.
Deputato di Liberi e Uguali, aveva 71 anni. Morto Guglielmo Epifani, ex leader della Cgil e segretario del Pd. Redazione su Il Riformista il 7 Giugno 2021. E’ morto a 71 anni Guglielmo Epifani, parlamentare eletto con Liberi e Uguali nonché ex leader della Cgil ed ex segretario del Partito Democratico. Non sono al momento note le cause del decesso. Epifani era ricoverato in ospedale da diversi giorni. Secondo quanto riferisce l’Ansa, è morto dopo una breve malattia. Epifani è stato segretario generale della CGIL dal 2002 al 2010 e per un breve periodo, dall’11 maggio 2013 al 15 dicembre 2013, segretario del Partito Democratico. Epifani finì nel mirino di sindacati e media quando, in contrasto con le battaglie condotte da sindacalista in difesa dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ha votato a favore per la riforma del lavoro passata alla cronaca come Jobs Act (2016) durante il governo Renzi. Nato a Roma il 24 marzo del 1950 da genitori di origine campana, nel 1973 si laureò all’Università La Sapienza di Roma in filosofia con una tesi su Anna Kuliscioff. Iscritto alla Cgil, nel 1990 entra nella segreteria confederale e nel 1993 sarà nominato segretario generale aggiunto da Bruno Trentin. È stato iscritto prima al Partito Socialista Italiano e, dopo la fine del PSI, al partito dei Democratici di Sinistra. Vice di Sergio Cofferati dal 1994 al 2002, a seguito della conclusione del mandato di Cofferati, diviene segretario generale della CGIL fino al 2010. Eletto deputato del Pd nel 2013, è stato presidente della Commissione Attività produttive nella XVII legislatura. In seguito alle dimissioni di Pier Luigi Bersani, l’11 maggio 2013 è stato nominato segretario reggente del Pd. Il 15 dicembre seguente viene sostituito da Matteo Renzi, eletto segretario alle primarie. Il 25 febbraio 2017 prende parte alla scissione dell’ala sinistra del Partito Democratico, aderendo ad Articolo 1 – Movimento Democratico e Progressista. Alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 è candidato nella lista Liberi e Uguali e viene rieletto alla Camera.
LA SCOMPARSA DI GUGLIELMO EPIFANI, “SEGRETARIO-FILOSOFO” DI CGIL E PD. Il Corriere del Giorno l'8 Giugno 2021. Il primo socialista alla guida del principale sindacato italiano. Aveva 71 anni. Mattarella: “Un riformista senza settarismi”. Draghi: “Un esempio di impegno sociale”. Cordoglio bipartisan da tutte le forze politiche. Guglielmo Epifani 71 anni, ex segretario generale della Cgil e segretario del Pd, attuale parlamentare di Leu, è deceduto. Un filosofo dedicato al sindacato. Guglielmo Epifani, classe 1953, era entrato nella Cgil subito dopo la laurea, ottenuta all’Università La Sapienza di Roma con una tesi su Anna Kuliscioff. Iscritto prima al Partito socialista italiano e, dopo la fine del Psi, al Pds, è stato eletto nel 2013 alla Camera dei Deputati come capolista della lista Pd, partito di cui è diventato segretario tra maggio e dicembre di quell’anno, in quella che lui stesso ha definito “una fase di transizione tra la segreteria di Bersani e quella di Renzi”. Nei mesi alla guida del Pd, ha scritto lui stesso sul sito internet, “abbiamo affrontato molte elezioni amministrative vincendole tutte, preparata l’adesione al Partito Socialista Europeo, riportato in alto i sondaggi e favorito un clima di rispetto reciproco dentro il partito. Dopo l’involuzione del Partito Democratico con le sue politiche in tema di lavoro, scuola, riforma elettorale e Costituzionale, ho deciso con tanti altri di lasciare il Pd e di dare vita ad Articolo 1 – Movimento Democratico e Progressista e poi alla lista Liberi e Uguali con Pietro Grasso”. E’stato il primo socialista a guidare la Cgil dai tempi della sua ricostituzione nel 1944. Alla Cgil è arrivato molto giovane: prima ha diretto la Casa editrice della Confederazione, l’Esi, poi è approdato all’Ufficio sindacale, dove ha coordinato le politiche contrattuali delle categorie, e quindi all’Ufficio Industria della Confederazione. Nel 1979 ha iniziato la carriera di dirigente sindacale con l’incarico di segretario generale aggiunto della categoria dei lavoratori poligrafici e cartai. Nel 1990 è entrato nella segreteria confederale e nel 1993 è stato nominato segretario generale aggiunto da Bruno Trentin. Vice di Sergio Cofferati dal 1994 al 2002, è poi diventato Segretario generale, fino al 2010, quando è subentrata Susanna Camusso. Da maggio 2013 ha ricoperto l’incarico di Presidenza della X Commissione permanete della Camera dei Deputati “Attività produttive, commercio e turismo”.
IL CORDOGLIO DELLE ISTITUZIONI. Il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, lo ricorda così: “Il suo impegno ha recato un contributo alla storia del movimento sindacale italiano e della Cgil in particolare, dove ha avuto modo di esprimere la propria visione riformista e le proprie qualità di dirigente impegnato, sempre attento agli interessi dei lavoratori. In Parlamento ha recato la sua grande esperienza e un bagaglio di cultura che mai indulgeva al settarismo. Esprimo i miei sentimenti di vicinanza e solidarieta’ alla famiglia e a quanti hanno condiviso con lui l’attivita’ di questi decenni”. Per il Presidente del Consiglio Mario Draghi “la vita di Guglielmo Epifani è stata un esempio di partecipazione democratica e impegno sociale, sempre al servizio dei lavoratori e dei più deboli. La sua gentilezza, integrità e passione civile resteranno a lungo nei ricordi di tutti. Alla moglie Maria Giuseppina vanno le più sentite condoglianze mie e del governo”. La Presidente del Senato, Elisabetta Casellati, ricorda “lo straordinario spessore etico” di Epifani. Il Presidente della Camera, Roberto Fico, sottolinea: “Guglielmo Epifani era un signore. Un uomo di cultura e di grande spessore”. “La morte di Guglielmo Epifani “è una pessima notizia, per la Cgil è una mancanza molto grave. Guglielmo ha dato la sua vita alla Cgil e al sindacato”, ha commentato il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini. Mentre per il segretario Pd, Enrico Letta, “è stato leader sindacale e segretario del Partito democratico. Voglio esprimere profondo cordoglio e il ricordo di tutti noi democratici per il ruolo fondamentale che ebbe in momenti molto difficili della vita del nostro partito”.
Da lastampa.it il 7 giugno 2021. All’età di 71 anni è morto Guglielmo Epifani. Laurea in filosofia su Anna Kuliscioff, una delle grandi figure del socialismo italiano, Epifani era un romano classe 1950, con l'infanzia caratterizzata dall'impegno nel volontariato per i quartieri di periferia, una grande attenzione al sociale che porta sempre con sé. «Lascio con la speranza che le cose possano cambiare»: era il 16 ottobre 2010, in Piazza San Giovanni a Roma. Il comizio a una manifestazione delle tute blu della Fiom è stato l'ultimo da leader della Cgil per Guglielmo Epifani che ha guidato dal 2002 al 2010. In realtà resta nell'ambiente sindacale, come presidente dell'associazione Bruno Trentin, ma pian piano riscopre la tentazione per la politica alla quale prima non aveva mai ceduto. Un riformista, socialista. Epifani con il declino del Psi si iscrive ai Ds, dove Walter Veltroni gli offrì un ruolo nella macchina organizzativa del partito per sua esperienza nell'organizzazione del sindacato di Corso Italia. Dove preferì restare. Così come più volte ha rifiutato offerte di candidatura, dalle amministrative all'europarlamento, a quella per la corsa alla poltrona di sindaco di Napoli. Epifani arriva alla politica dopo una vita dedicata alla Cgil, da segretario generale aggiunto dei poligrafici e cartai fino a diventarne il leader, segretario generale dopo Sergio Cofferati di cui era stato il vice dal 1994 al 2002. Chi lo conosce bene, coglie l'essenza che più caratterizza Guglielmo Epifani in una grande propensione alla mediazione: una persona ''che non divide'', ma sa ricucire, riavvicinare, tenere insieme. Dote che lo ha distinto alla guida del primo sindacato italiano, e che è stata fondamentale per il ruolo di traghettatore del Pd verso la stagione congressuale che ha guidato dall'11 maggio 2013 al 15 dicembre 2013.
LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL’ARTI - Da cinquantamila.it.
Roma 24 marzo 1950. Sindacalista. Politico. Deputato. Segretario del Pd dall’11 maggio 2013 al 15 dicembre 2013. Ex segretario generale della Cgil (dal 2002 al 2010). «Prima di iscrivermi al Psi, mi consigliai con il mio sacerdote. Per fortuna non ho seguito il suo consiglio».
Vita Figlio di Giuseppe, funzionario di un ente previdenziale, primo sindaco di Cannara (sotto Assisi) nel dopoguerra: «Si era laureato in francese, casa nostra era piena di libri francesi, io ho cominciato a leggere da quelli. Aveva combattuto a Rodi. Un giorno andò a trovare certi parenti nel Salernitano e rimase lì tre mesi, bloccato dall’8 settembre con l’Italia divisa in due. Così conobbe mia madre Filomena, a Montecorvino, e dopo la guerra si sposarono».
A tre anni si trasferisce con la famiglia a Milano, torna a Roma per frequentare il liceo classico Orazio poi la laurea in Filosofia con una tesi su Anna Kuliscioff. «Facevo il ricercatore. Poi Piero Boni, che era l’aggiunto di Lama, mi chiese di raccogliere gli scritti di Bruno Buozzi. Pubblicammo un libro, mi proposero di occuparmi della casa editrice del sindacato. A 27 anni scelsi il sindacato di cui mi ero, se si può dire, innamorato. In quegli anni l’università tra l’altro era un disastro: alle lezioni di De Felice andavano in venti».
Primo incarico politico nel 1979, segretario generale aggiunto dei poligrafici, nell’83 ne diviene segretario generale. Dal 1991 nella segreteria confederale (chiamato da Bruno Trentin), l’anno successivo è eletto segretario generale aggiunto della Cgil (al posto di Ottaviano Del Turco). Nel 1994 diventa vicesegretario.
«Ci tiene a dire che nel Psi stava “con Antonio Giolitti” e “quando Craxi vinse, noi che eravamo vicini agli intellettuali di Mondoperaio perdemmo”. Ma qualche tempo dopo, a metà degli anni Ottanta, era difficile essere socialisti di prima linea senza essere craxiani. Nell’84, quando Bettino Craxi strappa con il famoso decreto di San Valentino (taglio di tre punti della scala mobile – ndr), la Cgil si spacca: il segretario comunista Lama da una parte, l’aggiunto socialista Del Turco dall’altra. Ricorda Giuliano Cazzola, allora in segreteria: “Dopo la rottura con i comunisti, Del Turco iniziò a ricucire con Lama per salvare la baracca della Cgil e in quella occasione Epifani fece una moderata fronda, in sintonia con chi nel Psi voleva che la rottura in Cgil si acuisse”. Racconta Del Turco: “Allora venne attribuita ad Epifani la tentazione di un rapporto privilegiato con Craxi per poter acquisire meriti in vista della mia successione, ma considero questa illazione priva di fondamento”. Epifani continua la sua ascesa in Cgil, guida il sindacato poligrafici, “l’aristocrazia operaia dei tipografi”, ed è durante questa esperienza in prima linea che sfoggia le sue virtù più apprezzate: equilibrio, capacità di mediazione. Paradossalmente smarrisce la proverbiale calma con un personaggio felpato come Gianni Letta: “Lui era amministratore delegato e insieme direttore del Tempo. Chiesi che si dimettesse, avevo dietro la delegazione operaia che faceva il tifo...”. In quegli anni Epifani fa bene, piace, al punto che gli arriva una proposta importante: gli chiedono di fare l’amministratore delegato in Rizzoli e lui dice “no”, perché “il primo valore di chi fa sindacato, è l’autonomia”. Lo stile Epifani piace, tanto è vero che quando il Psi si liquefa e lui si iscrive ai Ds (“un approdo naturale”), D’Alema gli propone di diventare responsabile dell’Organizzazione. Lui resta in Cgil e, dopo otto anni da vice, ne diventa il capo» (La Stampa).
Dal 1994 al 2002 è vicesegretario di Sergio Cofferati. Nel settembre 2002 eletto Segretario generale. Riconfermato nel marzo 2006.
«Nell’autunno del 2002 sull’uscio del suo studio a palazzo Chigi Silvio Berlusconi andò incontro al nuovo segretario della Cgil, protese la mano destra e disse: “Carissimo Epifani, finalmente tra socialisti ci intenderemo!”. Ed Epifani, sempre col sorriso sulle labbra: “Socialista sì, ma interista!”» (Fabio Martini) [Sta 11/5/2013].
Implacabile avversario di Berlusconi, fu ovviamente più morbido con Prodi. Ma si scontrò con il ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa sulla riforma delle pensioni: «Se si pensa di affrontare il tema della previdenza con la calcolatrice in mano non va bene». Poi ipercritico sul Partito democratico nell’ultimo congresso dei Ds (aprile 2007 a Firenze), accusò il governo Prodi di «malessere sociale e calo dei consensi». Non votò alle primarie. Assieme ai segretari di Cisl e Uil nel dicembre 2007 si oppose alla trattativa con Air France per la vendita di Alitalia. Nel settembre 2008, sollecitato da Veltroni, impedì al segretario confederale della Cgil Trasporti, Fabrizio Solari, di firmare l’accordo con Cai (vedi BERLUSCONI Silvio). Salvo ricredersi dopo pochi giorni, quando risultò chiaro che il fallimento di Alitalia sarebbe stato imputato soprattutto al sindacato e al Pd. È stato protagonista di frequenti contrasti con la Fiom, il sindacato dei metalmeccanici, per tradizione la categoria più a sinistra. Giorgio Cremaschi (segreteria Fiom) creò anche una corrente per fare opposizione nella confederazione alla sua linea, ritenuta moderata. Alla Conferenza di organizzazione del 1 giugno 2008 la linea di Epifani ottenne una maggioranza dell’80% sul documento conclusivo. L’opposizione, guidata da Gianni Rinaldini (Fiom), si astenne attestandosi intorno 17%. L’ala radicale di Giorgio Cremaschi (Rete 28 aprile) votò contro, raccogliendo poco più del 2%.
Il suo ultimo discorso da segretario della Cgil lo ha pronunciato il 16 ottobre 2010, in Piazza San Giovanni, a Roma, in occasione della manifestazione della Fiom. Dopo l’addio alla guida della Cgil è stato nominato presidente dell’associazione Bruno Trentin.
Eletto alla Camera con il Pd alle elezioni del febbraio 2013, è stato nominato presidente della commissione Attività produttive alla Camera per poi essere scelto come traghettatore del partito dopo le dimissioni di Pier Luigi Bersani e fino al congresso dell’ottobre 2013. Eletto segretario l’11 maggio con 458 sì, l’85,8% dei voti validi dell’Assemblea nazionale contro 59 schede nulle e 76 bianche. Solo 534 i voti validi e 593 i votanti, a un soffio dal numero legale rispetto ai mille aventi diritto. Critica «Una leadership sindacale che Giuliano Cazzola dipinge così: “Per otto anni la sua Cgil è stata ostile ai governi di centrodestra e ha traccheggiato con quelli di centrodestra. Da leader sindacale non ha mai preso una decisione difficile; figuriamoci se lo farà ora da pensionato”. In realtà, quando ha preso la guida della Cgil, Epifani è passato alla storia come un decisionista. Un ministro del governo Prodi ricorda una sequenza memorabile. Era il 2007, a palazzo Chigi, era in corso una serrata trattativa sul Welfare, gli altri sindacati erano d’accordo e “ad un certo punto Epifani si alzò, disse che non era d’accordo, se ne andò e per una intera notte, nessuno seppe più nulla, poi l’indomani la Cgil aderì all’accordo ma con una lettera”» (Fabio Martini) [Sta 11/5/2013].
«Grande calcolatore, attento a non sbagliare. Riflessivo. Poco coraggioso, secondo i suoi detrattori» (Roberto Mania) [Rep 11/5/2013].
«Da alcuni gli viene rimproverato di indulgere nelle relazioni. Quand’era capo dei poligrafici in cui confluirono poi anche i televisivi, fece in tempo a incrociare Berlusconi e subire – dicono i testimoni – il fascino del tychoon editoriale. In generale concorre a questo pregiudizio relazionale, una natura personale educata e socialmente disponibile. Chi lo conosce bene concorda su una riflessione sul suo futuro: come segretario del Pd, potrebbe essere che in lui prevalga la natura notarile e gli riuscirà naturale la mediazione. Oppure potrebbe accadere che a 63 anni sia tentato dalla prospettiva di giocare in prima persona». (Marco Ferrante) [Mess 12/5/2013].
È sposato con Giusi De Luca, medico (dirigente di secondo livello dell’INAIL), conosciuta sui banchi del liceo. Non ha figli, è molto legato a quelli del fratello.
Soprannomi: “l’Harrison Ford del sindacato”. Da ragazzo “il giovane Wherter”.
Religione «La fede se n’è andata nel passaggio tra il liceo e l’università. Del resto la scelta di iscrivermi alla facoltà di Filosofia era già il segno di una ricerca diversa. Oggi mi definisco agnostico, senza la visione del soprannaturale».
Tifo Interista. «Il tifoso interista è il più simpatico che c’è al mondo, perché è insieme sognatore e deluso, un po’ come succede nella vita. Si resta delusi ogni volta, e ogni volta si torna a sperare».
Vizi «Ama la musica classica (la sua opera preferita è Turandot), ascolta anche jazz e suona musica leggera. Malgrado inizi la giornata sfogliando un giornale sportivo, la vera passione di Epifani sono i libri di saggistica, la poesia (ama molto Mario Luzi), la pittura (ha la casa tappezzata di quadri di Ennio Calabria) e la Francia» (Agostino Gramigna e Vittorio Zincone).
Poesia preferita: La morte dei poveri (Baudelaire, I fiori del male).
Suona la chitarra.
Paolo Griseri per "la Stampa" l'8 giugno 2021. Aveva sorpreso soprattutto chi non lo conosceva bene. Il 6 marzo 2006, chiudendo il congresso della Cgil, Guglielmo Epifani era chiamato a rispondere all' offerta di alleanza di Romano Prodi. In quei giorni il Professore era andato a Rimini a chiedere il voto del maggiore sindacato italiano: «Il vostro programma è il mio programma». Baci, abbracci, strette di mano. Facile il parallelo con Parma, cinque anni prima: la ola dell'assemblea di Confindustria per Silvio Berlusconi candidato alla presidenza del Consiglio. Rimini sarebbe stata la Parma della sinistra? Si sarebbe ripetuto, aggiornato nelle sigle, il classico scenario all' italiana con i sindacati alleati dei partiti del centrosinistra e gli imprenditori come base elettorale del centrodestra? Dal palco Epifani aveva scandito uno scenario diverso: «Il programma di Prodi è di Prodi, quello della Cgil è della Cgil. Bisogna mantenere un profilo alto della nostra autonomia». L' autonomia del sindacato rispetto ai partiti può sembrare oggi poco più di una banalità. L' oggetto di un dibattito novecentesco ormai superato dalla semplice constatazione che i partiti si sono frantumati ben prima delle organizzazioni sindacali. Ma quella rivendicazione di autonomia anche nei confronti dell'unico esponente del centrosinistra in grado di sconfiggere Silvio Berlusconi, era un segnale importante di come stavano cambiando i rapporti tra mondo del lavoro e politica in Italia. Epifani, segretario generale della Cgil dal 2002 al 2010, è stato il traghettatore del maggiore sindacato italiano dall' età delle correnti a quella che gli piaceva chiamare «dell'indipendenza». Non era stato facile. I rapporti tra comunisti e socialisti nel sindacato erano diventati complicati dall' 84, quando l'unità della sinistra si era rotta sul referendum che proponeva di ridurre la scala mobile. Prima di una serie di rotture tra sinistra politica e sindacale che sarebbe culminata nello scontro con il Pd di Renzi sull' articolo 18 e il jobs act. Rapporti difficili tra le due correnti principali e non facili all' interno di quella socialista. Epifani faceva parte di quel gruppo di sindacalisti che rappresentavano l'area Psi ai vertici dell'organizzazione: Ottaviano Del Turco, Fausto Vigevani, Susanna Camusso, Giuliano Cazzola. Non sempre andavano d' amore e d' accordo. Cazzola annota, nella sua biografia di Epifani, che il futuro segretario generale della Cgil «era soprannominato il giovane Werther». Non solo, evidentemente, per la sua prestanza fisica ma anche per la tendenza a cogliere la complessità dei problemi, evitando di tagliare in due con un colpo di spada i nodi complessi del mondo del lavoro. Così, come il giovane protagonista di Goethe, anche Epifani era tormentato dai dolori. Ma è una caricatura: Del Turco aveva scelto proprio Epifani come suo successore, scartando l'ipotesi di Cazzola. Anche nelle biografie capita di togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Non era semplice il mestiere del sindacalista riformista nell' Italia degli anni Settanta e Ottanta. Occuparsi del sindacato dei poligrafici quando la P2 tentava l'assalto al Corriere della Sera. Non era facile inventare il sindacato post Novecentesco: «Ricordo una sua intervista del 2004 contro i rischi del Diciannovismo», raccontava ieri sera Susanna Camusso. Nel 2004 la politica della pancia, il grillismo da talk show, il vaffa eletto a metodo politico erano agli albori. Toccò a Epifani segnalare tra i primi che quella tendenza, sinistramente simile alle pulsioni prefasciste del 1919, poteva diventare un pericolo per la sinistra e per lo stesso sindacato. Non tutti, in quell' area se ne sarebbero accorti se ancora oggi c' è chi immagina un'alleanza organica tra la sinistra e i grillini. Sindacalista riformista, per questo considerato un moderato nella Cgil, aveva saputo sorprendere nel 2003 quando aveva appoggiato da segretario generale il referendum di Rifondazione che proponeva di estendere l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (quello che vietava i licenziamenti senza giusta causa) anche alle aziende con meno di 15 dipendenti. Una mossa che aveva schierato il maggiore sindacato italiano molto a sinistra, anche al di là delle posizioni di Sergio Cofferati che pure contro l'abolizione dell'articolo 18 voluta da Berlusconi aveva saputo radunare una folla immensa al Circo Massimo. La difesa dei diritti dei lavoratori è rimasta la cifra del suo impegno anche quando, lasciato il vertice della Cgil a Susanna Camusso, Epifani è entrato nel Pd. Anche qui fase travagliata. La segreteria di Bersani, in difficoltà per il fallimento delle trattative con i 5Stelle e per la fronda interna al partito nell' elezione del Presidente della Repubblica, cede il passo. Epifani deve provare a rimettere insieme i cocci del partito. Sapendo che la sua è una segreteria di transizione perché scalpita Matteo Renzi, suo successore, in autunno, alla segreteria del Pd. Compito non facile che il riformista educato, l'intellettuale dai modi gentili, è riuscito a svolgere con abilità. «È stato il primo segretario di una Cgil costretta a vivere in totale indipendenza dalla politica mantenendo la sua autorevolezza proprio grazie a quell' autonomia», racconta chi gli ha lavorato fianco a fianco per molti anni. Ma anche il riformismo gentile ha il suo limite, quello dei principi che, a ragione o a torto, ciascuno ritiene indispensabile mantenere nel corso della sua vita, una coerenza che in qualche modo, è elemento stesso dell'identità. Così quando la svolta renziana ha finito per cambiare radicalmente l'impostazione del partito in materia di lavoro, Guglielmo Epifani ha sentito che era venuto per lui il momento di cambiare strada: «Dopo l'involuzione del Partito Democratico con le sue politiche in tema di lavoro, scuola, riforma elettorale e Costituzionale, ho deciso con tanti altri di lasciare il Pd e di dare vita ad Articolo 1 - Movimento Democratico e Progressista e poi alla lista Liberi e Uguali con Pietro Grasso». Un altro addio. Nel 2017 non era facile per chi aveva speso tutte la sua vita di sindacalista a difendere i diritti del lavoro conquistati nel Novecento, accettare la nuova linea renziana del partito. Con Epifani era uscita tutta l'ala sinistra. In parlamento Guglielmo Epifani ha continuato a difendere le cause del lavoro, a seguire le centinaia di vertenze aperte nella Penisola, dove decine di migliaia di dipendenti rischiano di perdere il posto. L' ultima sua presenza pubblica, prima che la malattia lo costringesse in ospedale, è stata la manifestazione dei dipendenti della Whirlpool a rischio di licenziamento. C' è un filo che attraversa tutta questa lunga vicenda umana. È quello del socialismo riformista. Quello che aveva suggerito al giovane Epifani di preparare la tesi di laurea su Anna Kulishoff, rivoluzionaria, compagna di Andrea Costa e Filippo Turati. Un sindacalista intellettuale, come alcuni altri, che più di altri ha saputo far convivere la passione per la cultura con quella per la difesa dei diritti civili e con le battaglie sociali di modernizzazione del Paese. Quale fu la lezione del sindacalista Epifani? «La sua è la parabola di un riformista che amava la laicità del sindacato», dice Camusso. Un sindacato privo di vincoli politici proprio perché i partiti avevano ceduto il campo. Ma anche un sindacalista che ha sempre contrastato la tendenza dei nuovi movimenti politici a saltare la mediazione sindacale, a farsi direttamente popolo superando ogni idea di contrattazione. Un difetto con cui Cgil, Cisl e Uil hanno dovuto fare i conti sia fronteggiando i 5 Stelle sia avendo a che fare con il Pd di Renzi. L' idea di un sindacato che contratta a nome di tutti, indipendentemente dalla loro appartenenza politica, è stata una delle lezioni che Epifani ha imparato e ha saputo interpretare. Esito che sarebbe stato del tutto imprevisto quando, nella realtà rigida del Novecento, qualcuno avesse mai predetto che un socialista avrebbe potuto diventare segretario generale della Cgil.
Addio all'ex leader Cgil. Chi era Guglielmo Epifani, l’unico socialista non colpito dalla maledizione. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'8 Giugno 2021. Guglielmo Epifani ha increspato ieri sera il cielo della politica: nessuno aveva presagito il precipitare delle cose. Aveva 71 anni e pativa le conseguenze di una embolia polmonare l’ex leader Cgil che il sindacato aveva prestato alla politica. Socialista, nel 1979 incomincia la sua carriera di dirigente sindacale con l’incarico di segretario generale aggiunto della categoria dei lavoratori poligrafici e cartai. Nel 1990 entra nella segreteria confederale e nel 1993 sarà nominato segretario generale aggiunto da Bruno Trentin. È stato iscritto prima al Partito Socialista Italiani e, dopo la fine del Psi, ai Democratici di Sinistra. Il suo accordo con Massimo D’Alema – che ieri gli ha rivolto un addolorato saluto – è stato alla base di un rapporto a corrente alternata con le successive gestioni del Pd, partito del quale è stato anche commissario. L’ex leader dei Ds si è detto «profondamente colpito e addolorato per la prematura scomparsa di Guglielmo Epifani con il quale ho condiviso tanti anni di impegno, ammirando sempre la sua partecipazione intelligente e la correttezza con cui ha interpretato il suo ruolo nella politica e nel sindacato». Ed è proprio la nobile scuola della Camera del Lavoro ad averlo forgiato, lui tra i grandi nomi del sindacalismo riformista. Vice di Sergio Cofferati dal 1994 al 2002, a seguito della conclusione del mandato di Cofferati, diviene segretario generale della Cgil, primo socialista a guidarla dai tempi della sua ricostituzione nel 1944. Il 16 ottobre 2010 Guglielmo Epifani pronuncia il suo ultimo discorso da segretario Cgil in Piazza San Giovanni, a Roma, in occasione della manifestazione della Fiom. Il 3 novembre 2010 gli succede alla guida Susanna Camusso, prima donna segretaria della Cgil. E tutti sanno quale fu la spinta di Cofferati per aprire a quella storica successione. Viene eletto deputato come capolista del Pd nella diciassettesima legislatura, alle politiche del 2013 che videro Pier Luigi Bersani iniziare quella fase di aporia che lo ha poi portato ad abbandonare. Ed è lui che l’11 maggio 2013 è stato nominato, in seguito alle dimissioni di Bersani, Segretario reggente del Partito Democratico, ricevendo dall’assemblea del partito 458 voti, pari all’85,8% dei voti validi, su 534. Ed è durante la sua reggenza che afferma la sua leadership Matteo Renzi, eletto Segretario alle primarie. Epifani si trova a fare da paciere in più di una occasione, ma alla fine risolve il suo rapporto con il Pd e prende parte – nel febbraio 2017 – alla scissione dell’ala sinistra del Pd aderendo ad Articolo 1 – Movimento Democratico e Progressista. Alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 è candidato nella lista Liberi e Uguali e viene rieletto alla Camera dei Deputati nella circoscrizione Sicilia 2, entrando a far parte della XVIII legislatura. L’ultimo intervento alla Camera pochi giorni fa, il 15 maggio scorso, quando ha presentato una interrogazione al ministro del lavoro Andrea Orlando: «Sulle iniziative finalizzate a disciplinare la materia della rappresentatività sindacale», quasi a cercare la risposta ad una domanda non più solo essenziale, ma esistenziale. Ed è soprattutto come leader sindacale che lo ricorda Fausto Bertinotti: «La Cgil è una comunità, è stata una comunità molto forte che ha legato dirigenti e militanti in una relazione davvero originale che era fondata proprio sul voler rappresentare e organizzare il mondo del lavoro. E questo è il legame che resta per tutta la vita. Per Epifani vale la formula dell’abate “semel abbas, semper abbas”. Il lutto e dolore è per un compagno con cui abbiamo militato e nei confronti del quale i dissensi che ci sono stati nel percorso non hanno mai fatto venire meno questa solidarietà e vicinanza. Oggi perdiamo una presenza che per questa ragione impoverisce la vita pubblica italiana». Epifani non ha mai navigato mari tranquilli, da parlamentare: è stato tirato per la giacchetta da destra e da sinistra, dal suo stesso mondo sindacale e della stampa. L’ex Segretario Cgil, in totale contrasto con le battaglie condotte da sindacalista in difesa dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ha votato a favore per la riforma del lavoro passata alla cronaca come Jobs Act durante il governo Renzi. Il leader di Italia Viva è atterrito, alla notizia: «Con la morte di Guglielmo Epifani il sindacato e la politica italiana perdono un signore. Un signore che si dimostrava tale anche e soprattutto quando capitava di non essere d’accordo con lui. Un pensiero commosso alla moglie e a tutte le persone che gli hanno voluto bene». Il leader del Pd Enrico Letta e quello della Cgil, al momento della notizia, erano insieme: una bomba che ha interrotto la riunione al Nazareno, come riporta Maurizio Landini: «Abbiamo appreso la notizia durante la riunione, per la Cgil la morte di Epifani è una mancanza molto grave. Guglielmo era una persona che ha dato la sua vita alla Cgil e al sindacato. In questo momento siamo vicini alla sua famiglia e vedremo adesso come onorare nel modo migliore il suo ricordo», prosegue Landini. «Nello stesso tempo il suo impegno, la sua esperienza, la sua storia rimarrà sempre come esempio di quello che deve essere un leader sindacale», conclude il segretario generale Cgil. Ed ecco anche Enrico Letta: «Perdita gravissima, Epifani ha guidato il nostro partito in una fase difficile della nostra storia». Il merito più alto per un leader riformista, quello di essere nato socialista e aver saputo nel tempo tenere insieme comunità di centrosinistra dalle sensibilità più diverse.
Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.
Il dolore dell’ex leader della Cgil. Sergio Cofferati piange Guglielmo Epifani: “Avevamo la stessa idea di sindacato”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista l'8 Giugno 2021. «Un dolore grande, grande davvero. Perché Guglielmo era una persona dolcissima oltre che un grande sindacalista. Abbiamo lavorato insieme nella Cgil partendo dai gradini più bassi per arrivare alla segreteria nazionale. Quando fui eletto segretario nazionale, Guglielmo divenne il mio vice. Venivamo da storie politiche diverse ma abbiamo condiviso una idea di sindacato, della Cgil che aveva al suo centro un bene superiore: l’autonomia». Sergio Cofferati fa fatica a trattenere la commozione appena appreso della morte di Guglielmo Epifani. La sua è una testimonianza di un rapporto che ha abbracciato più sfere: quella sindacale, quella politica e la sfera dell’amicizia.
La scomparsa di Guglielmo Epifani. Quali ricordi affiorano?
Tantissimi. Ricordi che diventano struggenti adesso, mentre parliamo, pochi minuti dopo aver appreso la notizia della sua scomparsa. Abbiamo cominciato a frequentarci per ragioni politiche e professionali che eravamo tutti e due molto giovani. Lui era ai poligrafici e io ai chimici. E poi abbiamo fatto un percorso parallelo per qualche anno, fino a quando ci siamo incrociati nella segreteria confederale. Prima ci vedevamo nei direttivi e poi abbiamo cominciato a lavorare assieme più da vicino in Confederazione. Poi lui era diventato il vice di Trentin, sostituendo Del Turco. Io ero in segreteria, poi sono diventato segretario generale e Guglielmo era il mio vice. Devo dire che lui ha avuto una parte molto importante nella mia elezione a segretario generale. Non solo perché mi ha sostenuto ma perché, come capitava ormai da tempo, le cose più delicate e difficili di quegli anni le abbiamo condivise tutte insieme.
Quale è stato il tratto distintivo sul piano sindacale, politico ed umano di Guglielmo Epifani?
Vede, c’è una cosa che ci ha unito, partendo da versanti diversi. Guglielmo non ha mai fatto pesare la sua appartenenza politica. Non c’erano più le componenti, come venivano chiamate, perché erano state superate, sciolte. Era una delle battaglie che aveva fatto Bruno Trentin e che noi abbiamo assecondato. E senza perdere l’adesione alla rappresentanza politica che ognuno di noi due aveva, abbiamo provato, secondo me anche con qualche risultato interessante, a dare senso compiuto all’idea di autonomia. In un orizzonte esplicitamente di sinistra e riformista. Sul piano umano, era una persona dolcissima, molto affettuoso, non solo nei miei confronti ma in genere nei rapporti che aveva con le persone che lavoravano con lui o quelle con le quali interloquiva. Mai aggressivo, molto paziente anche nel cercare le ragioni di una convergenza che nel mestiere che abbiamo fatto è la cosa più importante, delicatissima. Ed è una dote che Guglielmo ha portato con sé anche quando ha ricoperto incarichi di primo piano nel Pd e successivamente nell’esperienza di LeU.
Si può dire, in conclusione, che Guglielmo Epifani è stato un grande sindacalista?
Assolutamente sì. Perché gli accordi più importanti di quegli anni, lui non solo li ha condivisi ma ha contribuito a realizzarli. Si pensi a quello del ’92-’93, prima con Trentin poi con me. Lui era lì. Con la sua tenacia e con la consapevolezza che un buon sindacalista è quello che sa porre al punto giusto l’asticella del compromesso. Che porta a casa accordi, e non testimonianza. Guglielmo è stato un riformista coerente. Fino alla fine.
Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.
L'addio all'ex leader Cgil. Guglielmo Epifani, chi era l’ultimo riformista di una sinistra senza idee. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 9 Giugno 2021. Deve aver pensato come un nativo americano in un vecchio film con Dustin Hoffman, che questo fosse il momento di morire, per un politico della sua grazia, specie ed eleganza. Povero Guglielmo Epifani, la malattia lo aveva scavato e la sua morte è come tutte le morti una tragedia, ma senza averlo di sicuro desiderato è morto come un eroe simbolico, di un mondo in avanzata via di estinzione. Quello della politica operata con compostezza geneticamente incompatibile col quaquaracquismo del Conte del Teleschermo. Interpretava la politica come politica e non come commedia di quartiere; faceva parte di un ceto intellettuale cresciuto nella cultura anche quando operava nel sindacato. E infatti era cresciuto nella lotta e nelle trattative dove esisteva il terreno di uno scontro comprensibile e dove adesso c’è invece il vuoto. Si potrebbe aggiungere che il suo ecosistema era la libertà e non la casermetta o le piattaforme dei terrapiattisti. E aveva una idea del socialismo perché era socialista. Anzi, era stato proprio craxiano. E si ritrovò segretario del Partito Democratico quando Bersani diede forfait. Giuliano Cazzola, un altro ex segretario socialista della Cgil disse che «sembrava una vendetta postuma di Bettino Craxi perché gli eredi dei suoi nemici implacabili, il Partito comunista e la sinistra democristiana, sono stati costretti a rivolgersi a un craxiano doc come Epifani, perché il tempo in fondo è galantuomo». La sua morte più che un vuoto politico lascia la memoria di che cosa fosse la politica e della contiguità politica di una grande area socialista in cui si consumavano attriti e persino violenze, ma era comunque un grande ecosistema. E in quell’ecosistema, in un tempo ormai remoto Bettino Craxi – che non aveva ancora capito cosa gli stesse per cadere sul collo – in uno dei suoi impeti garibaldini chiamò Walter Veltroni e Massimo D’Alema in un camper con la candida presunzione di rifondare insieme i destini dei socialisti e dei comunisti dopo il crollo dell’impero sovietico. E anche di progettare una sinistra europea in cui Craxi sponsorizzò e portò per mano proprio i suoi durissimi nemici comunisti. Ma, come dicono gli inglesi, “nessuna buona azione resterà impunita”, sicché alla fi ne accadde quel che sappiamo. Che era ancora politica a brutto muso, “merda e sangue” come diceva Rino Formica. Guglielmo Epifani veniva da quel mondo e soltanto quando il Partito socialista tirò le cuoia sotto i macigni della tempesta perfetta, accettò di andare a fare politica di partito dopo aver vissuto sempre nel sindacato per la Cgil. E provò a mettere le mani in questo partito democratico in cui sperava fosse ancora possibile la ricostruzione. Era dotato di questa naturale eleganza fi sica e oratoria, culturale e politica, una eleganza simile ai lineamenti del suo volto e del suo corpo e con gli attrezzi usuali della cultura e del ragionamento sperimentale dovette arrendersi alla triste evidenza: l’impossibilità della costruzione di una politica riformista capace di guidare e non di seguire le urlate follie dei nuovi matti arrivati sulle piazze con i campanelli cuciti sul berretto e le maschere da pagliaccio. Quando diventarono di moda, applauditissimi a sinistra, gli assalti alla nostra Capitol Hill e cioè i forconi e le minacce a Montecitorio, i girotondi dei girotondini e le altre sporcizie scaraventate sul Parlamento della Repubblica Guglielmo Epifani disse: «Sappiamo per certo che ogni qual volta si contrappone la piazza al Parlamento lì comincia la notte della democrazia. Guai a contrapporre una forma di democrazia all’altra». Epifani non aveva nulla dell’estremista, essendo, al contrario, del tutto ragionevole come dimostra il suo voto al Jobs Act per l’abolizione dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori che tarpava le ali dell’impresa ma al tempo stesso, non amava Matteo Renzi perché non gli sembrava un socialista riformista ma un giocatore spregiudicato quanto basta per impiccarsi con la sua stessa corda. La morte di Epifani serve almeno a questo: a riflettere sul fatto che la maggior disgrazia politica di questo paese è l’inconsistenza di una sinistra capace di progettare prima ancora di governare la modernità restando fermamente ancorata alla democrazia parlamentare senza i famosi se e ma. Sapeva benissimo che l’Italia stava franando oltre i limiti estremi della coesione e della decenza democratica e repubblicana. La sua assenza dal Pd e il suo rifugio in un piccolo gruppo di dissidenti era la prova del vuoto. E la conseguenza del vuoto è una delle cause della brulicante vivacità della destra italiana che per quanto divisa fra più liberali e meno liberali, dà tuttavia segni di elettroencefalogramma non piatto e persino capace di svolte a “U”. Nella camera ardente per Epifani gli uomini del Pd hanno l’occasione per chiedersi se e che cosa sia ancora vivo del socialismo, della politica, della cultura, delle libertà che vanno oltre la boria del non avere idee.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Riccardo Barenghi per "la Stampa" l'8 giugno 2021. «Il nostro è stato prima di tutto un rapporto di amicizia e di affetto. A me mancherà un amico e alla sinistra mancherà una persona che poteva aiutarla a rilanciarsi e alla quale oggi direbbe: fermate i licenziamenti». Così Sergio Cofferati comincia il suo ricordo di Guglielmo Epifani. Cofferati ha guidato la Cgil per otto anni, dal 1994 al 2002, e al suo fianco ha sempre avuto Epifani come vice segretario generale. Insieme hanno contrastato il primo governo Berlusconi (1994) e il secondo, dal 2001 al 2002 quando Cofferati lasciò il timone del sindacato a Epifani. E tra i due Berlusconi si trovarono nella difficile posizione di dover trattare, mediare e anche confliggere con i governi di centrosinistra, guidati da Prodi, D' Alema e Amato.
Lei e Epifani avevate due storie politiche e culturali diverse, lui era socialista e lei comunista, anche se all' epoca della vostra Cgil i due partiti non esistevano più. Quanto hanno pesato queste differenze?
«Magari non ci crede nessuno, però non hanno pesato per niente. Avevamo un lungo percorso sindacale comune, lui segretario dei poligrafici e io dei chimici, categorie che convergevano sulla linea politica. Quella riformista, diversa da altre che erano più radicali, a cominciare da quella dei metalmeccanici. Riformisti ma con al centro un'idea-forza: il sindacato autonomo dalla politica organizzata e strenuo difensore dei diritti collettivi e individuali».
Un esempio di autonomia dalla politica?
«Proprio quando si trattò di eleggere il successore di Bruno Trentin, Epifani si schierò con me. Rompendo lo schema delle appartenenze: una parte dell'area degli ex comunisti voleva Alfiero Grandi come leader della Cgil, invece fui eletto io anche grazie a Guglielmo. Che sapeva dirigere cercando sempre l'unità e creando un clima molto rilassato».
Ci racconti un episodio di questo clima...
«Quando eravamo nella segreteria di Trentin e Ottaviano Del Turco, io, lui e Angelo Airoldi eravamo considerati i giovani, e spesso dopo le riunioni mettevamo in mezzo Angelo, accusandolo di essere un estremista metalmeccanici. Non era vero ma ci divertivamo».
Il primo battesimo del fuoco della vostra leadership fu nel '94 contro la riforma delle pensioni di Lamberto Dini, che era il ministro del Tesoro di Berlusconi.
«Esatto, portammo in piazza centinaia di migliaia di pensionati e non solo. Diciamo che noi scuotemmo l'albero su cui era seduto Berlusconi, e poche settimane dopo Umberto Bossi lo fece cadere».
Poi arrivò il governo dell'Ulivo, con Romano Prodi premier: correste il rischio di collateralismo col governo amico?
«Non ci fu alcun collateralismo, noi tenemmo ferma la nostra linea che rivendicava il metodo della concertazione inaugurato anni prima con i governi di Amato e di Ciampi. Diciamo però che nel mondo del centrosinistra c'era qualcuno che voleva fare a meno di quel sistema di relazioni col sindacato».
Lei non lo nomina, ma non è difficile pensare che si riferisca a Massimo D' Alema, col quale vi siete scontrati anche duramente
«Lui ci accusava di essere vecchi e di pensare solo al "maschio adulto e garantito" che aveva il suo contratto in tasca. Noi invece difendevamo il contratto nazionale, pensavamo fosse quella la base per allargare le protezioni anche per chi non le aveva. Mentre D' Alema sosteneva che quel contratto non aveva più il valore di prima. Anche in quell' occasione, Epifani è stato solidale con me».
E così arriviamo al secondo governo Berlusconi e a quella oceanica manifestazione al Circo Massimo, tre milioni di persone. Epifani era d'accordo?
«Se non ricordo male fu lui ad annunciarla in segreteria che la approvò all' unanimità. Il governo voleva abolire l'articolo 18, che proteggeva i lavoratori dai licenziamenti senza giusta causa. Noi ci opponemmo. E quando dico noi, parlo di tutta la Cgil e ovviamente di Guglielmo che fu in prima linea. Aggiungo che pochi giorni prima le Brigate Rosse avevano ucciso Marco Biagi: noi decidemmo di confermare la manifestazione, nonostante molte pressioni esterne per rinviarla, mettendo al primo posto la lotta al terrorismo».
Poi lei lasciò la Cgil e il leader divenne Epifani: ha visto cambiamenti nella linea politica?
«Sinceramente no, direi che ha tenuto la barra dritta. Sempre con in testa la nostra idea che prima di tutto vengono i diritti delle persone».
Anni dopo Epifani, ormai non più leader della Cgil, diventò segretario del Pd in un momento di passaggio da Bersani a Renzi: fu un buon segretario secondo lei?
«La sua leadership durò pochi mesi, mesi difficili perché il Pd era in preda a scossoni violenti. Ed è stato proprio grazie alle sue doti di equilibrio e alla sua capacità di mediazione (doti che aveva imparato nel sindacato) che riuscì a evitare che il partito implodesse».
E di Renzi cosa pensava?
«Posso solo dire che non era d'accordo con il jobs act».
Negli ultimi anni Epifani decise di andare via dal Pd per partecipare alla nascita di Articolo uno con Bersani, D' Alema, Speranza. Pensa che abbia fatto una scelta giusta?
«Ha dimostrato una grande coerenza politica: un socialista riformista che si colloca alla sinistra del Pd. Nel nostro panorama politico, non sono in molti ad aver fatto un percorso così lineare».
· E’ morto il cantante Michele Merlo.
Fan e colleghi in apprensione. Chi è Michele Merlo, il cantante di "Amici" in gravi condizioni per emorragia cerebrale. Redazione su Il Riformista il 5 Giugno 2021. Sono ore di apprensione nel mondo dello spettacolo per le condizioni di Michele Merlo: il cantante, ex concorrente di X Factor e di Amici, è ricoverato in in gravi condizioni nel reparto rianimazione dell’Ospedale Maggiore di Bologna. Come fa sapere la sua famiglia ‘Mike Bird’, come è conosciuto dal pubblico, è stato sottoposto “ad intervento chirurgico d’urgenza nella notte tra giovedì e venerdì scorso a seguito di un’emorragia cerebrale scatenata da una leucemia fulminante improvvisa”. Gli account social dell’artista vicentino, che da poco ha compiuto 28 anni, sono stati ‘travolti’ dai messaggi di vicinanza e affetto da parte dei fan e dei colleghi. Due giorni fa Michele aveva pubblicato l’ultimo post su Instagram, la foto di un tramonto sul mare: “Vorrei un tramonto ma mi esplode la gola e la testa dal male. Rimedi?”. Tra i commenti anche quello di Federico Rossi, cantante del duo Benji & Fede, che ha risposto al post commentando: “Forza anima libera”. Michele aveva prima tentato il provino ad X Factor 10, non riuscendo però ad andare oltre i “bootcamp” e venendo scartato da Arisa. Quindi aveva provato con Amici, il talent show di Maria De Filippi. Nel 2020 è uscito il suo primo album in italiano e col suo vero nome, "Cuori Stupidi".
Il musicista è in coma farmacologico. Il cantante è stato colpito da leucemia fulminante. Come sta Michele Merlo, il padre: “È gravissimo, poche speranze”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 6 Giugno 2021. Michele Merlo è “gravissimo. Ora è tenuto in coma farmacologico, ma le speranze in una sua ripresa sono davvero ridotte al lumicino”. Il papà di Michele con queste parole ha parlato delle condizioni di salute di suo figlio a Tg Bassano. Le sue condizioni restano molto critiche. “Lotta tra la vita e la morte”, ha detto il papà. l cantante, ex concorrente di X Factor e di Amici, è ricoverato in in gravi condizioni nel reparto rianimazione dell’Ospedale Maggiore di Bologna. Come fa sapere la sua famiglia ‘Mike Bird’, come è conosciuto dal pubblico, è stato sottoposto “ad intervento chirurgico d’urgenza nella notte tra giovedì e venerdì scorso a seguito di un’emorragia cerebrale scatenata da una leucemia fulminante improvvisa”. Gli account social dell’artista vicentino, che da poco ha compiuto 28 anni, sono stati "travolti" dai messaggi di vicinanza e affetto da parte dei fan e dei colleghi. Due giorni fa Michele aveva pubblicato l’ultimo post su Instagram, la foto di un tramonto sul mare: “Vorrei un tramonto ma mi esplode la gola e la testa dal male. Rimedi?”. Il mondo della musica si è stretto attorno a lui, mandando molti messaggi di auguri e affetto. Nelle ultime ore si registrano anche testimonianze di vicinanza e sostegno al musicista. Tra quelli dei colleghi, c’è anche il tweet di Emma Marrone: “Forza amico mio! Non mollare! Ti voglio bene Michele!”, ha scritto la cantante.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Emma Marrone, la dedica per Michele Merlo: “Sei nel mio cuore”. Valentina Mericio il 07/06/2021 su Notizie.it. Emma Marrone nel concerto che si è tenuto all'Arena di Verona ha dedicato un pensiero a Michele Merlo: "Sei nel mio cuore". Un inizio di concerto molto triste per Emma Marrone che in apertura del concerto che si è tenuto presso la splendida cornice dell’Arena di Verona, ha voluto iniziare dedicando un dolce pensiero verso Michele Merlo che in queste ultime ore sta lottando tra la vita e la morte. “Forza Miky, forza”, sono le parole della cantante, mentre la madre del giovane artista ha risposto: “Sono sicura che Miki ti ha sentito. Grazie”. Nel frattempo in queste ore l’hashtag è diventato virale e sono moltissimi i fan che hanno voluto ricordare il giovane. “Tante persone sono nel mio cuore ma stasera c’è una persona particolare nel mio cuore ed è a lui che dedico tutto questo concerto, tutto il vostro calore e tutta la vostra energia: forza Miky, forza”, queste le parole della cantante Emma Marrone che ha dedicato un pensiero a Michele Merlo augurandogli la speranza che possa continuare a lottare e a riprendersi. Nel frattempo la madre di Michele ha commentato in risposta a Emma Marrone con grande sostegno e gratitudine scrivendo: “Sono sicura che Miki ti ha sentito. Grazie”. Ha dichiarato. Sempre sui social network la madre del cantante ha postato la foto di uno striscione che è stato esposto all’esterno dell’ospedale dove è attualmente ricoverato: “Forza Michele”. Intanto la famiglia del giovane, in una recente nota citata da ANSA ha parlato di come il giovane stesse male da giorni e di come il pronto soccorso di un ospedale di Bologna lo abbia rispedito a casa. “Michele si sentiva male da giorni e mercoledì si era recato presso il pronto soccorso di un altro ospedale del bolognese che, probabilmente, scambiando i sintomi descritti per una diversa, banale forma virale, lo aveva rispedito a casa. Anche durante l’intervento richiesto al pronto soccorso, nella serata di giovedì, pare che lì per lì non fosse subito chiara la gravità della situazione”. La famiglia del giovane ad ogni modo avrebbe reso noto come Michele non si sia vaccinato contro il covid. Sono tantissimi infine i messaggi di dedica da parte di fan e artisti che sperano che Merlo possa finalmente riprendersi. “Forza Michele”, ha scritto Ermal Meta sui social.
Michele Merlo, il messaggio di affetto dell'ex fidanzata Shady conosciuta proprio ad Amici. Libero Quotidiano il 06 giugno 2021. Ore di ansia per Michele Merlo, conosciuto anche con il nome d’arte di Mike Bird. Il ragazzo ha partecipato ad Amici nel 2017, nell’edizione vinta dal ballerino Andreas Muller. Il 28enne è ricoverato in gravissime condizioni a Bologna per un’emorragia cerebrale causata da leucemia fulminante. Il padre del cantante ha spiegato che suo figlio è stato sottoposto a un delicatissimo intervento chirurgico. Ora è in coma farmacologico, ma le speranze di una sua ripresa sono ridotte al lumicino. Tantissime le personalità del mondo dello spettacolo e della musica che hanno voluto esprimere un pensiero nei confronti di Michele Merlo. Da Maria De Filippi ad Emma Marrone, passando per Federico Rossi e Riki Marcuzzo. Non è mancato il gesto di Shady, l’ex fidanzata di Mike Bird. I due si sono conosciuti e innamorati proprio durante la partecipazione ad Amici. Una storia d’amore vissuta nel massimo riserbo che però si è bruscamente interrotta dopo la fine del programma di Canale 5. “Sending a prayer”, ha scritto la ragazza di origini marocchine sulle sue storie di Instagram. Ovvero: “Mando una preghiera”. Per il momento Shady ha preferito non aggiungere ulteriori dichiarazioni sulla vicenda. Michele Merlo è sempre stato molto riservato sugli affari di cuori. Per un periodo, dopo la liaison con Shady, si è parlato di un flirt – mai confermato – con la youtuber, attrice e conduttrice Mariasole Pollio. Mentre Shady continua a lavorare nel mondo della musica. Nel 2019 è entrata a far parte del gruppo di musica elettronica Shanguy. Il gruppo è molto seguito in Polonia, dove da tempo scala le classifiche musicali, ma pure in Repubblica Ceca, Danimarca e Ungheria.
Michele Merlo, "leucemia fulminante colpa del vaccino. Faceva lo spiritoso": l'orrore novax contro l'ex cantante di Amici. Libero Quotidiano il 05 giugno 2021. Neanche dinanzi alla sofferenza di un ragazzo di 28 anni che è stato colpito da una emorragia cerebrale scatenata da una leucemia fulminante improvvisa riesce a placare le follie complottiste dei no-vax. Michele Merlo, in arte Mike Bird, è un cantante che si è fatto conoscere al grande pubblico grazie alla partecipazione ad Amici, il talent show di Maria De Filippi che va in onda su Canale 5. La famiglia del ragazzo ha fatto sapere che adesso è ricoverato in gravi condizioni nel reparto di rianimazione dell’ospedale Maggiore di Bologna, dove è stato sottoposto a un intervento chirurgico d’urgenza. La notizia ha sconvolto tutti i fan del cantante e di Amici: si sono sprecati i messaggi, anche di altri protagonisti del talent show, di incoraggiamento a Michele Merlo. Il quale però è stato incredibilmente preso di mira dai no-vax, incapaci di rispettare un momento del genere: con la loro solita “perspicacia”, sono andati a ripescare video e post pubblicati da Merlo sui social in cui prende in giro tutte le più comuni teorie complottistiche sui vaccini. “Faceva anche lo spiritoso”, è uno dei commenti orrendi di un no-vax, secondo cui quanto accaduto al cantante è riconducibile al vaccino. Siamo ben oltre la follia, anche perché non è noto se il ragazzo sia stato realmente vaccinato o no: di certo c’era solo l’ironia che faceva contro chi pensa che l’inoculazione sia il male. L’ultimo post di Merlo era stato pubblicato su Instagram lo scorso 2 giugno: “Vorrei un tramonto ma mi esplode la gola e la testa dal male. Rimedi?”.
"Michele mandato via, intasava il pronto soccorso". Federico Garau il 6 Giugno 2021 su Il Giornale. "È andato al pronto soccorso di Vergato in piena autonomia. Lamentava dei sintomi che un medico accorto avrebbe colto", racconta il padre del cantante. Mike presentava dei sintomi che, se presi seriamente in considerazione, avrebbero dovuto fin da subito mettere in allerta il personale medico: questo quanto denunciato dai genitori dell'ex concorrente di Amici, ora ricoverato in gravi condizioni all'ospedale Maggiore di Bologna. Lo scorso mercoledì, prima ancora di raggiungere il nosocomio bolognese, Michele Merlo, conosciuto dai suoi fans come Mike Bird, si era infatti presentato al pronto soccorso dell'ospedale di Vergato (città metropolitana di Bologna), da cui era stato tuttavia dimesso. Se le sue condizioni fossero state prese seriamente in considerazione – questa la riflessione della famiglia dell'artista 28enne – forse il quadro clinico non si sarebbe aggravato.
La disperazione dei genitori. "È andato al pronto soccorso di Vergato in piena autonomia. Lamentava dei sintomi che un medico accorto avrebbe colto. Aveva una forte emicrania da giorni, dolori al collo e placche in gola, un segnale tipico della leucemia", racconta a Repubblica Domenico Merlo, il padre di Michele. Raggiunto fuori dal reparto di rianimazione, dove il giovane cantante lotta ancora fra la vita e la morte, l'uomo non si capacita di come il personale medico non abbia compreso la gravità delle condizioni del figlio. Sarebbe stato sufficiente un esame più approfondito. "Se l'avessero visitato avrebbero visto che aveva degli ematomi. Non abbiamo un referto medico ma un braccialetto col codice a barre che io ho a casa. E un audio che mio figlio ha mandato alla morosa: 'Sono incazzato, mi hanno detto che intaso il pronto soccorso per due placche in gola'. Invece lui era stanco", continua il signor Merlo. "Michele aveva due braccia così. Faceva sport, non beveva, non ha mai usato droghe, gli piaceva la bella vita, mangiare bene, le cose belle, ha girato l'Italia in lungo e in largo". Una superficialità, un errore di valutazione che, se accertati, risulterebbero imperdonabili. Dimesso dal nosocomio sito sull'appennino bolognese, il giorno successivo Michele è stato operato d'urgenza dal personale medico dell'ospedale Maggiore di Bologna, che nella notte fra giovedì e venerdì ha tentato di rimediare alla grave emorragia cerebrale provocata da quella che si è poi rivelata essere una leucemia fulminante. Mercoledì sera, ricorda il padre di Mike Bird, il 28enne si trovava a casa della fidanzata quando ha cominciato a stare male. Autonomo, abituato a cavarsela da solo dall'età di 18 anni, aveva deciso di recarsi in ospedale senza chiedere aiuto a nessuno. "Stai qua, vado al pronto soccorso perché non sto bene", aveva infatti detto alla compagna, come ricorda il papà. "Era un ragazzo che non voleva mai disturbare nessuno".
La terapia sbagliata. A quanto pare Michele non è stato trattato inizialmente con la terapia adeguata. "Non posso dire se ha riferito al medico di avere, oltre agli altri sintomi, sangue dal naso - come ha avuto - e giramenti di testa", spiega il padre. "A Vergato gli hanno dato degli antibiotici da prendere: quando l'hanno mandato a casa aveva 38,5-39 di febbre. Ma non fidandosi, il giorno dopo ha chiamato il suo medico di famiglia a Bassano, che invece gli ha consigliato un altro antibiotico. Senza vederlo, però. La terapia iniziale era sbagliata a prescindere". Un errore dietro l'altro, dunque, che ha portato al secondo malore, nella serata di giovedì, quando il 28enne è stato soccorso all'interno dell'abitazione di Marzabotto. All'arrivo del personale sanitario, il giovane era già in stato di incoscienza. "Il primo soccorso, nella serata in cui mio figlio è finito in ospedale, è stato condizionato da un medico non proprio professionale che non può fare quel tipo di interventi, non tiene la tensione quando è sotto stress", aggiunge ancora Domenico Merlo. "Non voglio puntare il dito contro nessuno. Mi interessa che certi errori non si debbano ripetere, se di errori si tratta. Che chi ha sbagliato così oggi non sbagli domani". Sul caso, naturalmente, è stata aperta un'indagine dalla Ausl. Intanto sono in molti a stringersi attorno alla famiglia di Mike, nella speranza che il giovane possa riprendersi.
Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger).
Michele Merlo, lo sfogo del papà: “Peggiora, mandato via dal pronto soccorso il giorno prima dell’operazione”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 6 Giugno 2021. Michele Merlo, a 28 anni lotta tra la vita e la morte. È grave e peggiora, già da qualche ora è in coma farmacologico “le speranze in una sua ripresa sono davvero ridotte al lumicino”, ha detto il suo papà intervistato da Tg Bassano. Michele, meglio conosciuto come Mike Bird, lotta in un letto dell’Ospedale Maggiore di Bologna. Ma con il passare delle ore monta anche la rabbia da parte dei familiari del musicista ex partecipante di Amici e X Factor, colpito da un’emorragia celebrale in seguito a una leucemia fulminante. “I medici ci hanno purtroppo comunicato che le condizioni di Michele stanno peggiorando di ora in ora”, si legge in una nota diffusa dai familiari di Merlo. “Michele si sentiva male da giorni”, raccontano, “e mercoledì si era recato presso il pronto soccorso di un altro ospedale del bolognese che, probabilmente, scambiando i sintomi descritti per una diversa banale forma virale lo aveva rispedito a casa. Anche durante l’intervento richiesto al pronto intervento nella serata di giovedì, pare che lì per lì, non fosse subito chiara la gravità della situazione”. La famiglia del ragazzo aspetta in apprensione fuori all’ospedale. “Lamentava dei sintomi che un medico accorto avrebbe colto – ha detto il papà a Repubblica in preda alla rabbia – Aveva una forte emicrania da giorni, dolori al collo e placche in gola, un segnale tipico della leucemia. Se l’avessero visitato avrebbero visto che aveva degli ematomi. Non abbiamo un referto medico ma un braccialetto col codice a barre che io ho a casa”. “E un audio che mio figlio ha mandato alla morosa – continua il padre di merlo – "Sono incazzato, mi hanno detto che intaso il pronto soccorso per due placche in gola". Invece lui era stanco. Michele aveva due braccia così. Faceva sport, non beveva, non ha mai usato droghe, gli piace la bella vita, mangiare bene, le cose belle, ha girato l’Italia in lungo e in largo”. Il giorno dopo, cioè la sera fra giovedì e venerdì, il giovane cantante è stato operato per un’emorragia cerebrale scatenata da una leucemia fulminante improvvisa.
Michele Merlo e la diagnosi sbagliata. Merlo è stato colto mercoledì sera da un’emorragia cerebrale, causata da una leucemia fulminante, mentre era a casa della fidanzata, a Bologna. “È stata chiamata l’ambulanza, ma le sue condizioni erano gravissime”. Nelle scorse ore la madre del cantante ha chiesto alle tante persone che sui social si sono commosse per il malore di Merlo di pregare per suo figlio. Il giovane musicista nei giorni scorsi aveva condiviso sui social un suo malessere, dicendo di provare un forte mal di testa al punto da chiedere consiglio per tornare a stare bene. Nei giorni in cui ha cominciato a soffrire si trovava in un paese vicino a Marzabotto a casa della fidanzata. “Si appoggiava qui perché stava registrando un nuovo disco a Modena. Viveva da solo, autonomo, da quando aveva 18 anni. Ha vissuto in Inghilterra, poi è rientrato, faceva musica, faceva tutto…”, continua il padre. Quando ha iniziato a stare peggio ha deciso di andare in ospedale, “ci è andato da solo perché è un ragazzo che non vuole mai dare fastidio a nessuno”, ha continuato il papà. “Non posso dire se ha riferito al medico di avere, oltre agli altri sintomi, sangue dal naso, come ha avuto, e giramenti di testa. Gli hanno dato degli antibiotici da prendere: quando l’hanno mandato a casa aveva 38,5-39 di febbre. Ma non fidandosi, il giorno dopo ha chiamato il suo medico di famiglia a Bassano, che invece gli ha consigliato un altro antibiotico. Senza vederlo, però. La terapia iniziale era sbagliata a prescindere”.
(ANSA il 7 giugno 2021) - E' morto nella tarda serata di ieri il cantante Michele Merlo, 28 anni, già concorrente di X Factor e di Amici. Era ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell'Ospedale Maggiore di Bologna dopo essere stato colpito, nella notte tra giovedì e venerdì, da un'emorragia celebrale scatenata da una leucemia fulminante e sottoposto a un delicato intervento chirurgico. Lo comunicano i consulenti della famiglia in una nota.
Estratto dell'articolo di Mattia Marzi per "il Messaggero" il 7 giugno 2021. […] il padre Domenico allude con le sue dichiarazioni ad un caso di malasanità, denunciando la negligenza dei medici che per primi avevano visitato il figlio quando lo scorso mercoledì si era recato in ospedale in seguito ad alcuni malori. È contro di loro che punta il dito, dichiarando: «Michele si sentiva male da giorni e mercoledì si era recato presso il pronto soccorso di un altro ospedale del bolognese che, probabilmente, scambiando i sintomi descritti per una banale forma virale lo aveva rispedito a casa. Anche durante l'intervento richiesto al pronto soccorso, nella serata di giovedì, pare che lì per lì non fosse subito chiara la gravità della situazione». Nelle ultime ore sui social alcuni complottisti no-vax hanno messo in correlazione la leucemia che ha colpito il cantante con una presunta adesione a una sperimentazione per un vaccino contro il Covid-19, partendo da un video ironico condiviso dallo stesso Merlo sui social negli scorsi giorni in cui il cantautore prendeva in giro gli stessi cospiratori: «Ci preme smentire categoricamente quanto alcuni disinformati scrivono sui social: Michele non è stato in nessun modo vaccinato contro il Covid. Michele è stato colpito da una severa forma di leucemia fulminante con successiva emorragia cerebrale». Ad allarmare i fan del 28enne cantautore, che dopo la partecipazione ad Amici cambiò nome in Cinemaboy e firmò un contratto con l'etichetta indipendente Maciste Dischi, prima di tornare a incidere con il suo vero nome nel 2019 con l'album Cuori stupidi, è stato il lungo silenzio che ha fatto seguito al suo ultimo post pubblicato su Instagram cinque giorni fa, la foto di un tramonto e poche parole: «Vorrei un tramonto ma mi esplode la gola e la testa dal male. Rimedi?». Dunque la notizia del ricovero di Michele Merlo, le cui condizioni sono apparsi gravi sin da subito: nella notte tra giovedì e venerdì il cantautore è stato sottoposto a un intervento chirurgico d' urgenza per limitare i danni dell'emorragia cerebrale scatenata dalla leucemia fulminante improvvisa. […]
Amici, è morto Michele Merlo: stroncato a 28 anni da una leucemia fulminante. Francesca Galici il 7 Giugno 2021 su Il Giornale. Non ce l'ha fatta Mike Bird: a 28 anni si è spento uno dei protagonisti di Amici di Maria De Filippi a causa di un'emorragia cerebrale. Michele Merlo non ce l'ha fatta. Il cantante dell'edizione numero 16 di Amici di Maria De Filippi si è spento, colpito da un'emorragia cerebrale causata dalla leucemia fulminante. Da quando sabato si è diffusa la notizia del suo malore, sono stati tantissimi i messaggi di solidarietà che si sono susseguiti sui social. Emma Marrone dal palco dell'Arena di Verona ha voluto salutare il giovane cantante dedicandogli il concerto ma poche ore dopo il cuore di Mike Bird, com'era conosciuto in televisione, ha smesso di battere. Le condizioni di Michele sono apparse immediatamente gravissime. Nella notte tra mercoledì e giovedì, il ragazzo ha accusato un grave malore mentre si trovava a casa della sua compagna, a Bologna. Immediata da parte sua la chiamata al 118 ma quando i sanitari sono arrivati sul posto hanno constatato le condizioni disperate del giovane. Giunto all'ospedale Maggiore di Bologna è stato operato d'urgenza ma è stato inutile. Le speranze di sopravvivenza di Mike Bird sono apparse da subito poche ed era stato lo stesso padre del ragazzo a raccontarlo a un giornalista del telegiornale di Bassano del Grappa. Ma i tanti fan e amici di Michele non si sono arresi e hanno continuato a sperare e a pregare per lui, proprio come chiesto dai suoi genitori. "I medici ci hanno detto che non c’è più nulla da fare per lui, che potrebbe lasciarci da un momento all’altro", hanno detto i genitori disperati nella serata di ieri. Dal palco dell'Arena di Verona, mentre da Bologna arrivavano notizie terribili, Emma Marrone cercava ancora di aggrapparsi alla speranza e lanciava un messaggio proprio a Mike Bird: "Tante persone sono nel mio cuore ma stasera c’è una persona particolare nel mio cuore ed è a lui che dedico tutto questo concerto, tutto il vostro calore e tutta la vostra energia: forza Miki". Nonostante lo stato d'animo, la madre di Michele Merlo ha voluto ringraziare la cantante, che è stata coach di Mike Bird ad Amici e ha sempre cercato di sostenerlo anche dopo la fine del programma. "Sono sicura che Miki ti ha sentito. Grazie". In queste ore si susseguono sui social i messaggi dei fan, dei simpatizzanti del programma e degli amici, ma anche di chi in queste ore si è affezionato a un giovanissimo artista in un momento terribile. Tantissima la rabbia per quanto accaduto nei giorni precedenti, quando Mike Bird si era recato in ospedale con forti mal di testa e mal di gola senza che venissero lui fatti esami più approfonditi. E ora sono in tanti a chiedere che ci siano delle attribuzioni di responsabilità. "Se l'avessero visitato avrebbero visto che aveva degli ematomi. Non abbiamo un referto medico ma un braccialetto col codice a barre che io ho a casa. E un audio che mio figlio ha mandato alla morosa: 'Sono incazzato, mi hanno detto che intaso il pronto soccorso per due placche in gola'. Invece lui era stanco", ha raccontato il padre ieri, prima che Mike Bird se ne andasse. Le leggerezze pare siano state tante nel trattamento di Michele Merlo: "Non posso dire se ha riferito al medico di avere, oltre agli altri sintomi, sangue dal naso - come ha avuto - e giramenti di testa. A Vergato gli hanno dato degli antibiotici da prendere: quando l'hanno mandato a casa aveva 38,5-39 di febbre. Ma non fidandosi, il giorno dopo ha chiamato il suo medico di famiglia a Bassano, che invece gli ha consigliato un altro antibiotico. Senza vederlo, però. La terapia iniziale era sbagliata a prescindere". All'arrivo all'ospedale di Bologna, Mike Bird era già incosciente: "Il primo soccorso, nella serata in cui mio figlio è finito in ospedale, è stato condizionato da un medico non proprio professionale che non può fare quel tipo di interventi, non tiene la tensione quando è sotto stress. Non voglio puntare il dito contro nessuno. Mi interessa che certi errori non si debbano ripetere, se di errori si tratta. Che chi ha sbagliato così oggi non sbagli domani".
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Michele Merlo, addio al piccolo grande cantautore di Amici. Novella Toloni il 7 Giugno 2021 su Il Giornale. Dalla passione per la musica e la scrittura all'esordio in tv a X Factor e Amici di Maria De Filippi. Il sogno di Michele morto a 28 anni per una leucemia fulminante. Michele Merlo aveva compiuto 28 anni il primo marzo scorso. Aveva grandi progetti per il futuro, come quelli di qualsiasi ragazzo della sua età. Una fidanzata, una famiglia che lo ha sempre appoggiato nelle sue scelte e la voglia di tornare a vivere dopo una lunga pausa dovuta alla pandemia. La leucemia fulminante, che gli ha provocato un'emorragia cerebrale che non gli ha dato scampo, invece se l'è portato via tre mesi dopo il suo compleanno. Tra lo sconforto e il dolore generale. La sua vita, seppur breve, è l'esempio però di come la passione possa guidarti. Nel 2016 Michele Merlo lascia Sorà, il paesino in provincia di Vicenza dove è nato e cresciuto, per cercare di sfondare nel mondo della musica. Il suo talento di cantautore e musicista lo porta a tentare la via dei talent ed è a X Factor che cerca la sua strada. Nel programma di Sky, Michele affronta le selezioni nella categoria Under Uomini, guidata da Arisa, ma nonostante la sua bravura non riesce a superare i Bootcamp. Michele però è determinato e un anno dopo vede in Amici di Maria De Filippi la sua possibilità. I professori credono in lui e nelle sue doti artistiche sin dai provini e la popolare scuola gli spalanca le porte. Nel settembre del 2017 Michele Merlo, con il nome d'arte Mike Bird, entra a far parte della classe di Amici 16. La sua bravura e i suoi brani inediti - Desire e Closer - lo fanno entrare nel cuore di telespettatori e fans. Al serale di Amici Michele entra nella squadra Bianca capitanata da Emma Marrone e Morgan e, pur non riuscendo a vincere l'edizione, arriva terzo tra i cantanti e vince il premio Fonzies. Fuori dalla scuola le classifiche discografiche lo premiano e per mesi i suoi brani musicali rimangono in vetta. La musica e il canto sono tutto il suo mondo e, forte del consenso del pubblico, Michele pubblica il suo album d’esordio "Cinemaboy" anticipato dal singolo "Tutto per me". Nel 2019 pubblica nuovi singoli come "Mare", "Aquiloni" e "Non mi manchi più" che anticipano l’uscita del secondo album "Cuori Stupidi". Sempre nel 2019, tra febbraio e marzo, Emma Marrone lo sceglie per aprire tre concerti del suo tour. Un sogno per Michele che su Instagram scriveva entusiasta: "Ragazzi sono felice di dirvi che aprirò 3 date del tour di Emma. Ci vediamo lì". Durante il lockdown Michele si dà alla scrittura e pubblica il suo primo romanzo "Cuori Stupidi", proprio come il suo album. Un libro intimo nel quale ha raccontato dell'ansia e della depressione che lo avevano colpito in passato. Degli attacchi di panico che aveva avuto per mesi e che aveva mostrato anche sui social. È attraverso i canali social, come Facebook e Instagram, che Michele Merlo ha stretto un rapporto di vicinanza con i suoi fan e seguaci. Sui social ha dato l'ultimo saluto a chi gli voleva bene, facendo sapere di non sentirsi bene, a poche ore dalla fatale emorragia. Sempre sui social, dove da ore si moltiplicano incessanti i messaggi di affetto e il cordoglio di tutti dopo l'annuncio della sua morte, sono arrivati i messaggi di tristezza e sconforto di chi, come Emma, Aka7even e tanti altri artisti lo hanno conosciuto, apprezzato e amato come artista, cantante ma soprattutto amico.
Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perché non c’è niente di più bello delle cose frivole e leggere che distolgono l’attenzione dai problemi...
Michele Merlo, aperta un'inchiesta: "Morte fulminante?", cosa proprio non torna e chi rischia. Libero Quotidiano il 07 giugno 2021. L'azienda sanitaria di Bologna ha aperto un'indagine sulla morte di Michele Merlo, venuto a mancare a soli 28 anni a causa di una leucemia fulminante. L'Ausl del capoluogo emiliano ha fatto sapere che è in corso un'indagine interna per fare piena luce sulle dinamiche del decesso dell'ex cantante di Amici e xFactor. Tutto è partito dalla denuncia dei genitori, che hanno fatto sapere che Michele era stato rimandato a casa dal pronto soccorso dell'ospedale di Vergato lo scorso mercoledì. L'ex concorrente dei talent show canori stava male da giorni ed è morto nella serata di domenica 7 giugno all'ospedale Maggiore di Bologna, dove non hanno potuto far nulla per salvargli la vita. Merlo era stato ricoverato in terapia intensiva dopo aver accusato una emorragia cerebrale scatenata da una leucemia rara quanto fulminante: era stato sottoposto a un delicato intervento chirurgico, che però non è bastato per evitare il decesso. "Michele si sentiva male da giorni - ha fatto sapere la famiglia e mercoledì sera si era recato presso il pronto soccorso di un altro ospedale del bolognese che, probabilmente, scambiando i sintomi descritti per una diversa, banale forma virale, lo aveva rispedito a casa". "Anche durante l'intervento richiesto al pronto soccorso - si legge nella nota a firma dei genitori di Michele - pare che lì per lì non fosse subito chiara la gravità della situazione". La morte di Merlo ha sconvolto l'opinione pubblica e soprattutto tutti gli artisti e le persone che avevano avuto modo di conoscerlo e lavorare con lui.
Morto Michele Merlo, l'ex cantante di Amici aveva 28 anni: "Intasi il pronto soccorso", il drammatico errore dietro al dramma. Libero Quotidiano il 07 giugno 2021. È morto "Mike Bird", Michele Merlo, l'ex concorrente di X-Factor e Amici ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell'Ospedale Maggiore. Dopo essere stato colpito tra giovedì e venerdì da un'emorragia cerebrale scatenata da una leucemia fulminante e dopo un delicatissimo intervento chirurgico, non ce l'ha fatta. La situazione era disperata, lo si era compreso nitidamente nelle ultime ore. Il cantante ci lascia così a 28 anni. Ma il caso è destinato a far discutere. Il padre infatti ha denunciato come Michele Merlo fosse stato rispedito a casa dall'ospedale di Vergato, sull'appennino bolognese, dove si era presentato a causa dei sintomi che lo tormentavano da qualche giorno. Al nosocomio i sintomi sono stati derubricati a "una banale forma virale". A denunciare l'accaduto, come detto, il padre, Domenico Merlo: "È andato al pronto soccorso di Vergato in piena autonomia". Fuori dal reparto di rianimazione dove aspetta di entrare, circondato dalla famiglia ha spiegato: "Lamentava dei sintomi che un medico accorto avrebbe colto. Aveva una forte emicrania da giorni, dolori al collo e placche in gola, un segnale tipico della leucemia - ha rimarcato il papà -. Se l'avessero visitato avrebbero visto che aveva degli ematomi. Non abbiamo un referto medico ma un braccialetto col codice a barre che io ho a casa. E un audio che mio figlio ha mandato alla morosa in cui dice sono inc***, mi hanno detto che intaso il pronto soccorso per due placche in gola. Invece lui era stanco. Michele aveva due braccia così. Faceva sport, non beveva, non ha mai usato droghe, gli piaceva la bella vita, mangiare bene, le cose belle, ha girato l'Italia in lungo e in largo". Su quanto denunciato da Domenico Merlo, l'Ausl sta già cercando di fare chiarezza con un'indagine interna.
Fabio Poletti per "la Stampa" l'8 giugno 2021. Nessuno viene fino a qui dove ha iniziato a morire Michele Merlo, Mike Bird, 28 anni, portato via da una leucemia fulminante diagnosticata quando era troppo tardi. Non ci sono fan, non ci sono fiori, solo il tran tran tranquillo di un ospedale di provincia, Vergato 40 chilometri da Bologna, distretto sanitario importante per questa parte di Appennino. A chiedere, non lo ricorda nessuno il pomeriggio di mercoledì della settimana scorsa, quando si era presentato con un paio di amici dicendo solo: «Ho un forte mal di gola, mi fa molto male». Una semplice infezione virale, la diagnosi del medico di continuità assistenziale, di questo Pronto Soccorso tutto verdolino che si affaccia sul fiume Reno. E invece era leucemia. Ancora quattro giorni e addio Mike Bird, volato via con le sue canzoni. A tornarci adesso all' ospedale Civile di Vergato, è tutta un'altra musica. Impossibile parlare con il primario, impossibile anche solo entrare in questa struttura ancora sotto stretto protocollo Cvid. Da qui, dall' ospedale di questo paesone di poco più di settemila abitanti, si rimbalza alla Direzione sanitaria dell'Ospedale Maggiore di Bologna, palazzina C di rossi mattoni, primo piano, altrettanto impenetrabile. In questo ospedale Mike Bird è morto domenica notte, senza mai essersi ripreso dopo essere entrato in coma giovedì sera. L' Azienda Usl di Bologna, dopo aver espresso vicinanza e cordoglio alla famiglia di Michele Merlo, sta ricostruendo quello che è successo nel Pronto Soccorso di Vergato, sotto loro diretto controllo: «La direzione ha dato mandato al Risk Manager aziendale di procedere ad attivare l'iter per un audit di rischio clinico». Traduzione, l'Ausl vuole capire bene il medico che ha avuto in cura Michele Merlo cosa ha scritto nella cartella clinica, se ha sottoposto ad esami specifici il paziente e se gli ha somministrato una qualsiasi terapia. Duecento metri più avanti la palazzina C’è la camera mortuaria dove riposa Michele Merlo. Ci sono ancora i suoi familiari. Non vogliono parlare, spezzati dal dolore. Quello che avevano da dire lo hanno detto l'altro giorno: «Michele si sentiva male da giorni e mercoledì si era presentato presso il Pronto Soccorso di un altro ospedale del bolognese che, probabilmente, scambiando i sintomi descritti per una diversa, banale forma virale, lo aveva rispedito a casa. Anche durante l'intervento richiesto al Pronto Soccorso di Bologna, nella serata di giovedì, pare che lì per lì non fosse subito chiara la gravità della situazione». Il padre di Michele Merlo aveva poi aggiunto che dal Pronto Soccorso dell'Ospedale Civile di Vergato, suo figlio era stato mandato via senza nemmeno una pur generica lettera di dimissioni. Tutti particolari che saranno verificati nell' audit disposto dalla Ausl di Bologna. Anche se qualche precisazione, off the records, viene già data. Impossibile che non ci sia la lettera di dimissioni, magari Michele Merlo non ne ha parlato con il padre. Possibilissimo che mercoledì pomeriggio non sia stata diagnosticata la leucemia fulminante che gli ha poi provocato l'emorragia cerebrale che lo ha ucciso. Il decorso della malattia è velocissimo, appunto fulminante. Difficile sottoporre ad esami specifici un paziente in una fase così iniziale. Adesso toccherà alla Ausl fare gli accertamenti. Ma per la Procura di Bologna non c' è un caso. I magistrati hanno deciso di non fare l'autopsia e non hanno intenzione di aprire un'inchiesta, sempre che i familiari del ragazzo non presentino formale denuncia.
“Poteva essere salvato”: la Ausl apre un’inchiesta sulla morte di Michele Merlo. Nextquotidiano l'8/6/2021.
Fatti. Il giovane cantante era stato colpito da una leucemia fulminante, ma nei giorni precedenti al ricovero era stato rimandato a casa dai medici che avevano etichettato i suoi sintomi come quelli di una “banale forma virale”. Il giorno dopo è quello del dolore e della rabbia. La morte di Michele Merlo, per le sue dinamiche, poteva essere evitata. Lo sostengono gli esperti che sottolineano come la leucemia fulminante (anche se questo aggettivo non è il più adatto per descrivere questa patologia) che ha colpito il giovane cantante, se individuata per tempo, poteva essere curata. Anche per questo motivo la Ausl di Bologna ha avviato un’indagine interna per capire i motivi che aveva spinto i medici dell’Ospedale di Vergato a rispedire il 28enne a casa etichettando quei sintomi come quelli di una “banale forma virale”.
Michele Merlo poteva essere salvato se i medici non lo avessero rimandato a casa. I genitori di Michele Merlo, all’uscita dell’Ospedale dopo il decesso del figlio, non hanno rilasciato alcun commento dopo la denuncia – a mezzo stampa – fatta nei giorni precedenti. Quella forma improvvisa di leucemia che ha colpito il 28enne non era stata individuata dai medici che, in prima istanza, lo avevano rimandato a casa con un antibiotico. Ma lui non stava bene e, nel giro di poche ore, le sue condizioni sono peggiorate. Poi il ricovero per emorragia cerebrale, il coma dopo l’operazione. Infine, purtroppo, la notizia del suo decesso arrivata intorno alle ore 11 di lunedì 7 giugno. Ora la Ausl dovrà effettuare approfondimenti sul lavoro compiuto dai medici in occasione della prima visita. Perché, come spiega l’ematologo Sergio Amatori in un’intervista a La Repubblica, l’emorragia cerebrale che ha colpito Michele Merlo è stata provocata da una leucemia che può essere di due tipi (e che, in passato, veniva etichettata con l’aggettivo “fulminante): quella mieloide acuta o quella acuta promielocitica. Si tratta di una patologia che, secondo l’esperto, è facilmente individuabile. Non tanto dal paziente, ma dal medico. “Se somministrate in tempo, le cure sono efficaci. Quando l’ematologo arriva alla diagnosi di leucemia acuta promielocitica, il paziente viene trattato immediatamente con trasfusioni di concentrati piastrinici per frenare il rischio di emorragie. Poi si inizia la terapia per la malattia vera e propria, con un farmaco cosiddetto intelligente che ha portato la sopravvivenza dal 15-20% di 35 anni fa al 95% di oggi. E senza chemioterapia”. Ora le indagini dovranno chiarire se ci sia una responsabilità dei medici del Pronto Soccorso dell’Ospedale di Vergato.
Parla la fidanzata di Michele Merlo, il dolore di Luna Shirin Rasia: “Vivrò a pieno per me e per te”. Valeria Morini l'8/6/2021 su Fanpage. Fino a poche ore fa non conoscevamo neppure il suo nome, visto il riserbo di Michele Merlo sulla sua vita privata. Ora ha rotto il silenzio la fidanzata del giovane cantante morto a soli 28 anni per una leucemia fulminante, che era stato lanciato nel 2017 da Amici con il nome di Mike Bird. Lei è Luna Shirin Rasia, studentessa lontana dal mondo dello spettacolo che aveva vissuto con Michele una tenera storia d'amore, interrotta prematuramente da un destino infausto. Ha voluto ricordare il compagno con una serie di dolcissimi messaggi e di immagini che raccontano il loro idillio troppo breve. Il messaggio di Luna per Michele Merlo: "Tu, noi. Grazie di tutto romantico ribelle", ha scritto su Instagram Stories, pubblicando una foto in cui intravediamo Mike al tramonto, seguita da un brevissimo video in cui il ragazzo accarezza il loro cagnolino Martino: "Per sempre così". Quindi, ha deciso di uscire allo scoperto a tutti gli effetti, con un post in cui svela la storia d'amore vissuta con Michele Merlo, dedicandogli un messaggio: Grazie, grazie di tutto, per sempre nel mio cuore. Il destino ci ha fatti incontrare e come per magia ci ha fatto vivere momenti di amore puro, di gioia immensa in piccoli momenti e gesti, quelli che tanto amavamo. Ti ringrazio infinitamente per avermi fatto credere in me stessa e nell’amore. Non so quando e se sarò pronta a rituffarmi in questo mondo, ma ci riuscirò, te lo prometto cuore mio, perché la forza che mi hai dato tu nessun altro mai riuscirà a darmela. Vivrò a pieno la vita per me e per te, sarai sempre in tutti i miei momenti e pensieri. Ora smetti di sognare e vola tra le stelle e tuffati dentro al mare.
Chi è Luna Shirin Rasia. Poco si sa di Luna Shirin Rasia, che non aveva mai parlato pubblicamente della storia con Michele prima di questo addio. In base alle informazioni social apprendiamo che è di origine venezuelana, di Caracas, e vive a Bologna, la città dove il cantante è morto a seguito dell'emorragia cerebrale provocata dalla leucemia. Studia Culture e pratiche della moda all'università bolognese, nella sede di Rimini. Dal suo profilo Instagram scopriamo che fa anche la modella per alcuni marchi di abbigliamento. Fino al maggio 2020 risultava fidanzata con un altro ragazzo, per cui la relazione con Michele Merlo sarebbe durata presumibilmente meno di un anno.
La morte di Michele Merlo. A quattro anni dalla popolarità raggiunta con Amici, poco aver pubblicato il suo ultimo album Cuori stupidi (uscito nel 2020 insieme al romanzo dallo stesso titolo), Michele Merlo si è ammalato improvvisamente. Dopo alcuni sintomi che, secondo quanto rivelato dal padre, non sarebbero stati riconosciuti nell'immediato (l'Ausl di Bologna ha aperto un'indagine), il cantante è stato ricoverato e operato d'urgenza per un'emorragia cerebrale dovuta alla leucemia fulminante. Le sue condizioni sono apparse subito gravissime e Michele Merlo è morto nella tarda serata del 6 giugno.
Michele Merlo, rimandati i funerali: "Richiesta l'autopsia", troppe ombre sulla leucemia fulminante. Libero Quotidiano l'08 giugno 2021. I funerali di Michele Merlo sono stati rimandati. A comunicarlo è stato suo padre, che a Il Resto del Carlino ha fatto sapere che prima bisognerà fare chiarezza sulla morte del figlio, venuto a mancare a soli 28 anni per una rara e fulminante leucemia che gli ha provocato un’emorragia cerebrale. I genitori dell’ex cantante di Amici e xFactor hanno infatti richiesto l’autopsia: “Poi potremo pensare al funerale e dargli l’ultimo saluto”. Come è giusto che sia, i genitori vogliono appurare prima di tutto se la morte del figlio si sarebbe potuta evitare in qualche modo. Il padre Domenico si è espresso in questi termini a fanpage.it: “Ci sono molte ombre in ciò che è accaduto a mio figlio. Lui si è presentato in ospedale, stava male ma l’hanno rimbalzato. Si è presentato perché il mal di gola persisteva, il sangue gli usciva dal naso, aveva mal di testa. Gli hanno risposto che non poteva intasare il pronto soccorso, e l’hanno mandato via prescrivendogli un antibiotico. Michele era il nostro unico figlio, io e mia moglie abbiamo bisogno di sapere se tutto questo dolore si poteva evitare”. Lo stesso Merlo si era risentito per la poca importanza che al pronto soccorso avevano prestato ai suoi sintomi: poi giovedì il malore e la corsa in ospedale, dove pare che non sia stata subito compresa la gravità della situazione. L’azienda sanitaria di Bologna ha aperto un’indagine interna: la famiglia aspetta piena chiarezza su questa morte che ha sconvolto tutti.
Michele Merlo di Amici, i genitori denunciano: s'indaga per omicidio colposo. Libero Quotidiano l'08 giugno 2021. Michele Merlo, i genitori annunciano battaglia: pronta la denuncia. Il decesso, ad appena 28 anni, del cantante, ex concorrente di “Amici", è destinato ad avere una coda giudiziaria. Il ragazzo è deceduto nella serata di domenica per una “leucemia fulminante". Ma la famiglia non si arrende e vuole vederci chiaro. Per questo chiede il sequestro della salma e delle cartelle cliniche. “Questa storia ha moltissime ombre. Sicuramente un'indagine la faremo partire noi. Abbiamo intenzione di sporgere denuncia", annuncia papà Domenico. I genitori di Michele non si capacitano di quanto accaduto qualche giorno prima del decesso, quando il ragazzo, nonostante si fosse recato in ospedale in presenza di sintomi quali febbre, placche, sangue al naso ed ematomi sul corpo, è stato rimandato a casa. Per poi subire il ricovero, questa volta fatale, nella serata di giovedì. La famiglia sospetta che “errori e omissioni" nel primo accesso all'ospedale di Vergato abbiano determinato la sorte del ragazzo.
Annalisa Grandi per "corriere.it" l'8 giugno 2021. Vogliono capire cosa sia davvero successo, vogliono che la magistratura indaghi, i genitori di Michele Merlo, il cantante di «Amici» stroncato da una emorragia cerebrale scatenata da una leucemia fulminante a soli 28 anni. Vogliono che i magistrati «verifichino se vi siano starti errori o omissioni» prima del ricovero all’ospedale Maggiore, che «abbiano determinato irreversibilmente la sorte del proprio figlio». E la Procura di Bologna ha aperto un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo. A comunicarlo il procuratore capo Giuseppe Amato che ha spiegato che si tratta di un passaggio necessario per far sì che venga effettuata l’autopsia e «che vengano svolte le attività investigative connesse». Insieme ai loro consulenti legali la madre e il padre di Michele hanno depositato una denuncia e chiesto il sequestro della salma e delle cartelle cliniche. Domenico Merlo, papà di Michele, ha raccontato che il figlio «si sentiva male da giorni» e che era già andato in ospedale, al pronto soccorso di Vergato, ma lì probabilmente i sintomi erano stati confusi con una semplice forma influenzale ed era stato rimandato a casa con la sola prescrizione dell’antibiotico. Proprio Michele in un messaggio alla fidanzata Luna si sarebbe lamentato del trattamento ricevuto: «Mi dicono che intaso il Pronto Soccorso per due placche in gola» le avrebbe scritto. La famiglia ora vuole capire se quella diagnosi sbagliata possa aver di fatto causato la morte dell’ex cantante di «Amici». Intanto è già stata aperta una indagine interna della Ausl. Intanto proprio mamma Katia affida ai social tutto il suo dolore per la morte del figlio: «Ciao amore mio grande. Saluta tutti lassù - scrive, per poi aggiungere - Però ricordati che qui sotto ci siamo noi e sarai tu che dovrai darci la forza per andare avanti, altrimenti non ce la possiamo fare». Resta intanto da definire la data dei funerali di Michele, che verranno celebrati solo dopo l’autopsia e dopo che la magistratura avrà valutato «quali azioni intraprendere» fanno sapere i legali della famiglia del 28enne.
"Accusato di far uso di droghe", "Ho fatto il possibile": scontro sulla morte di Merlo. Novella Toloni il 9 Giugno 2021 su Il Giornale. La Procura ha aperto un'inchiesta per omicidio colposo, i Nas hanno sequestrato la cartella clinica dell'ospedale di Vergato e ora il medico che visitò Michele per primo si difende. Sono trascorsi tre giorni dalla drammatica morte di Michele Merlo, il giovane cantante di Amici stroncato da una leucemia fulminante. E con il passare delle ore emergono nuovi particolari, dalla prima richiesta di aiuto di Michele all'ospedale di Vergato alle accuse pesanti di aver assunto droga, come riporta il Resto del Carlino. Il procuratore capo di Bologna, Giuseppe Amato, ha aperto un'inchiesta con l'ipotesi di omicidio colposo, al momento senza indagati, dopo la denuncia presentata dalla famiglia Merlo per cercare la verità su quanto accaduto a Michele. Gli investigatori sono già al lavoro per ricostruire i dettagli di un dramma che ha sconvolto tutti a partire proprio dall'ospedale di Vergate, dove il 28enne si è presentato nel tardo pomeriggio di mercoledì scorso. I carabinieri del Nas hanno sequestrato la cartella clinica dell’artista al Maggiore e la documentazione prodotta al pronto soccorso di Vergato. Gli inquirenti cercano di capire cosa sia realmente successo nei giorni e nelle ore precedenti al ricovero nella rianimazione del Maggiore e capire se ci siano stati errori e mancanze da parte del personale medico che ha incontrato Michele prima della morte. La richiesta di Katia e Domenico Merlo è sempre stata chiara: "Vogliamo capire se vi siano stati errori e/o omissioni che abbiano determinato irreversibilmente la sorte di Michele". Secondo quanto denunciato dal padre di Michele Merlo, il cantautore "è stato respinto dall'ospedale di Vergato e accusato di aver fatto uso di droghe". Accuse pesanti che dovranno essere verificate dagli inquirenti, ma che offrono un dettaglio sconcertante sulle ultime ore di Michele. Soprattutto su quanto successo mercoledì, il giorno in cui, per la prima volta, Michele si rivolgeva ai medici per cercare di curare il mal di gola e il mal di testa lancinanti. Secondo una delle ultime ricostruzioni, Michele non sarebbe entrato nel pronto soccorso dell'ospedale di Vergato, ma sarebbe stato indirizzato alla guardia medica, i cui ambulatori si trovano negli stessi locali. Qui gli sarebbe stata diagnosticata un’importante faringite, senza ulteriori accertamenti specifici né analisi del sangue. A casa Michele è tornato, dicono i genitori, con una semplice cura a base di antibiotici. Il medico di guardia, contattato dal Resto del Carlino, però si difende e parla di una regolare visita: "Ho fatto tutto quello che dovevo fare e tutto è stato relazionato ai miei superiori". Le condizioni di Michele però peggiorano e giovedì sera il 28enne perde conoscenza in casa della sua fidanzata Luna. L'intervento del 118 è definito "burrascoso" dai familiari di Michele e anche questo aspetto dovrà essere verificato dagli investigatori. La famiglia Merlo ora vuole solo la verità, per capire se qualcosa poteva essere fatto per salvare la vita del figlio. L'autopsia è attesa nelle prossime ore e potrebbe fornire ulteriori elementi per la procura. Intanto la morte di Michele Merlo ha riportato l'attenzione sulle condizioni dell'ospedale di Vergata. Il consigliere regionale di Fratelli d’Italia, Marco Lisei, ha presentato un’interrogazione per riportare all'attenzione della classe politica regionale lo stato del nosocomio: "Purtroppo l’ospedale di Vergato da anni è oggetto di un depotenziamento dei servizi sanitari offerti e nella disponibilità del personale medico e infermieristico che si trova a operare con sempre maggiore difficoltà, assumendosi rischi sempre maggiori". Spetta ora alla giunta regionale valutare se ci siano rischi per la popolazione.
Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perché non c’è niente di più bello delle cose frivole e leggere che distolgono l’attenzione dai problemi
L’inchiesta interna ha evidenziato “alcune criticità”. Michele Merlo, per la morte del cantante l’Ausl di Bologna "assolve" i medici. Redazione su Il Riformista il 9 Giugno 2021. Sulla more di Michele Merlo ci sono state “alcune criticità sotto il profilo organizzativo rispetto all’Ospedale di Vergato, ma non di particolare gravità, confermando invece, in tutti i momenti, l’adeguatezza dei processi clinici e assistenziali”. È il risultato dell’audit clinico disposto dall’Ausl di Bologna per ricostruire la vicenda del giovane cantante 28enne deceduto all’ospedale Maggiore per un’emorragia dovuta a una leucemia fulminante. LA RICOSTRUZIONE DELL’AUSL – Ricostruzione che ha riguardato diversi momenti: l’accesso all’Ospedale di Vergato nel pomeriggio del 2 giugno, il soccorso in emergenza, e il successivo ricovero presso la Rianimazione dell’Ospedale Maggiore, a partire dal 3 giugno. L’audit, condotto sulla base dei documenti disponibili e delle testimonianze dei professionisti coinvolti, ha evidenziato alcune criticità sotto il profilo organizzativo rispetto all’Ospedale di Vergato, ma non di particolare gravità, confermando invece, in tutti i momenti, l’adeguatezza dei processi clinici e assistenziali. Anche questa documentazione è a disposizione dell’autorità giudiziaria, nello spirito di collaborazione. Nel primo pomeriggio del 2 giugno Michele Merlo si presenta autonomamente all’Ospedale di Vergato, dove sono presenti le indicazioni di accesso al Pronto soccorso e alla sede della continuità assistenziale. Come per ogni giorno festivo la figura sanitaria incaricata del controllo della temperatura è l’infermiere che presta servizio in Pronto soccorso e la temperatura risultava regolare, secondo le normative anti Covid. L’infermiera sulla base di quanto riferito dal signor Merlo, a richiesta sui tempi di attesa, precisa che non era in grado di stimarli essendoci alcuni pazienti in carico al Pronto soccorso. L’informava inoltre della presenza, nella stessa sede, del medico di continuità assistenziale (ex guardia medica), al quale Merlo ha optato di rivolgersi. Alle ore 15.50 il medico di continuità assistenziale, effettuata l’anamnesi, visita il paziente riscontrando un quadro patologico dell’apparato faringeo, prescrivendo quindi un farmaco antibiotico. Il 3 giugno alle ore 21.52 la centrale operativa 118 riceve la chiamata di soccorso. Assegnato un codice rosso, la centrale invia immediatamente automedica e ambulanza, che giungono sul luogo del soccorso alle 22.09. Immediate le manovre di stabilizzazione delle condizioni vitali del paziente, condotte correttamente nonostante il contesto relazionale fosse in quel momento influenzato dalla drammaticità delle condizioni di Merlo. Alle 22.40 l’ambulanza, con il medico a bordo, riparte verso il Pronto soccorso dell’Ospedale Maggiore con codice di massima gravità, dove giunge alle 23.22. Sottoposto a indagini multiple urgenti, il paziente viene quindi ricoverato presso la Rianimazione dell’Ospedale Maggiore. I riscontri diagnostici e clinici evidenziavano una grave emorragia cerebrale spontanea e la necessità, pertanto, di un intervento neurochirurgico urgente, eseguito alle 2.22 del 4 giugno. Concluso l’intervento alle ore 4.03, il paziente è stato nuovamente ricoverato in Rianimazione. Il decorso post operatorio si presenta critico con rapido peggioramento progressivo del quadro clinico sino al decesso, avvenuto il 6 giugno alle 21.45.
L’INDAGINE DELLA PROCURA – Ovviamente l’ultima parola sull’operato dei medici spetterà alla magistratura ordinaria. I magistrati bolognesi hanno aperto un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo dopo la denuncia presentata da Domenico Merlo e Katia Ferrari, i genitori del cantante di X- Factor e Amici morto domenica sera all’ospedale Maggiore. Procura che ha anche disposto l’autopsia, mentre i Nas dei carabinieri hanno sequestrato cartella clinica e documenti, sia a Vergato che a Bologna.
Nicola Bianchi per "ilrestodelcarlino.it" il 9 giugno 2021. Fare piena luce sulle "troppe ombre" che avvolgono la morte di Michele Merlo, il cantante vicentino di 28 anni che si è spento domenica al Maggiore per una leucemia fulminante. E per farlo il procuratore capo Giuseppe Amato, dopo la presentazione dell’esposto dei genitori di ’Mike Bird’, già concorrente di X Factor e di Amici, ha aperto un’inchiesta con l’ipotesi di omicidio colposo, al momento senza indagati. E nelle prossime ore è atteso il conferimento dell’incarico al medico legale per l’autopsia. "Perché mio figlio – il grido di Domenico Merlo – è stato respinto dall’ospedale di Vergato e accusato di aver fatto uso di droghe". Una vicenda tutta da ricostruire, accaduta in un lampo e che ha lasciato sgomenti amici e parenti e dato vita a una ridda di polemiche.
Nas al lavoro. Il primo passo verso la verità l’hanno fatto Domenico e la moglie Katia ieri mattina depositando alla stazione Bertalia un corposo esposto dove "viene chiesto – spiega una nota della Procura – l’intervento dell’autorità giudiziaria". Al resto hanno pensato i carabinieri del Nas sequestrando la cartella clinica dell’artista al Maggiore e la documentazione prodotta al pronto soccorso di Vergato. "Vogliamo sapere – ribadisce il padre – quanto successo nei giorni e nelle ore precedenti al ricovero nella rianimazione del Maggiore. Verificare se vi siano stati errori e/o omissioni che abbiano determinato irreversibilmente la sorte di Michele".
Il calvario. "Vorrei un tramonto – scriveva lui il 2 giugno sul profilo Instagram – ma mi esplode la gola e la testa. Rimedi?". I sintomi peggiorano, finisce all’ospedale di Vergato, il più vicino dalla casa della fidanzata che vive a Luminasio di Marzabotto. Non accede al pronto soccorso perché qui, secondo quanto trapelato, viene indirizzato al medico di continuità assistenziale (la guardia medica), i cui ambulatori si trovano negli stessi locali. La prima diagnosi parla di un’importante faringite. Non vengono richieste analisi del sangue o altre visite, Michele – secondo il racconto dei genitori – viene mandato a casa con una prescrizione antibiotica.
Il medico. "Ho fatto tutto quello che dovevo fare – l’unico commento arrivato ieri dal medico di guardia contattato dal Carlino – e tutto è stato relazionato ai miei superiori". Giovedì sera le condizioni del 28enne peggiorano, il 118 lo trasporta all’ospedale in stato di incoscienza: viene operato d’urgenza ma tutto sarà inutile perché domenica il suo cuore smette di battere. L’Ausl apre immediatamente un Audit aziendale per "ricostruire puntualmente" l’accaduto, a partire dal "primo accesso a Vergato" e fino al "soccorso in emergenza avvenuto il giorno successivo". "A Vergato – tuona il padre – lo hanno liquidato dicendo che intasava il Pronto soccorso, hanno sottovalutato le sue condizioni".
Regione nel mirino. La tragedia ha portato con sè durissime reazioni politiche. Il consigliere regionale di Fratelli d’Italia, Marco Lisei, tramite un’interrogazione, ricorda come "purtroppo l’ospedale di Vergato da anni è oggetto di un depotenziamento dei servizi sanitari offerti e nella disponibilità del personale medico e infermieristico che si trova a operare con sempre maggiore difficoltà, assumendosi rischi sempre maggiori". Per questo ora chiede alla Giunta se "non ritenga che ciò non determini un pericolo per la popolazione".
"Cuore mio". Straziante il saluto su Instragram di Luna, fidanzata di Merlo: "Non so – uno dei passaggi – quando e se sarò pronta a rituffarmi in questo mondo, ma ci riuscirò, te lo prometto cuore mio, perché la forza che mi hai dato tu nessun altro mai riuscirà a darmela. Ora smetti di sognare e vola tra le stelle e tuffati dentro al mare. Lulu".
Michele Merlo, arriva la conferma dell’autopsia: “Emorragia cerebrale dovuta a una leucemia fulminante”. Valentina Mericio l'11/06/2021 su Notizie.it. L'autopsia di Michele Merlo ha confermato quanto sostenuto dall'Ospedale di Bologna ovvero emorragia cerebrale dovuta a leucemia fulminante. È arrivata l’ufficialità. L’autopsia disposta sul corpo del giovanissimo cantante Michele Merlo e disposta dalla Procura di Bologna è giunta ad una conclusione. Stando a quanto riportato da “Il Corriere della Sera” il cantante è morto a seguito di una grave emorragia cerebrale dovuta ad una leucemia fulminante. Tale verdetto espresso dalla procura bolognese va a confermare quanto sostenuto in tal senso dall’Ospedale Maggiore di Bologna. L’autopsia sul corpo del giovanissimo artista diventato famoso grazie ad “Amici di Maria De Filippi”, stando a quanto appreso è stata effettuata in presenza del Medico Legale Matteo Tudini e dall’ematologo Antonio Cuneo. Presente inoltre anche la dottoressa Anna Aprile proveniente dal dipartimento di medicina legale di Padova e nominata consulente della famiglia Merlo. Ad ogni modo stando a quanto scrive il Corriere della Sera i due genitori di Michele Katia a Domenico non avrebbero escluso che a questo punto possa essere incaricato un ematologo. La famiglia di Michele che desidererebbe avere un quadro chiaro sulla morte del figlio ha chiesto: “Se ci sono responsabilità per la morte di Michele, se tutto questo dolore si poteva evitare”. I genitori di Michele inoltre sono assistiti dall’avvocato Marco Dal Ben. La domanda ora che i genitori e i cari di Michele si sono chiesti è se Michele Merlo avrebbe potuto essere salvato. Prime indiscrezioni proprio in questo senso si sarebbero espresse in modo positivo affermando che la leucemia se opportunamente trattata avrebbe potuto essere trattata. Nel frattempo la Procura di Bologna ha avviato un’inchiesta per omicidio colposo ai danni di ignoti. “Risulta pervenuta alla Procura di Bologna la denuncia dei familiari di Michele Merlo con la quale in relazione al decesso del ragazzo viene chiesto l’intervento dell’autorità giudiziaria e l’effettuazione di una autopsia giudiziaria. Essendovi formale denuncia, la Procura di Bologna ha iscritto il fascicolo a modello 44, per il reato di cui all’articolo 589 del codice penale, per il necessario svolgimento dell’autopsia e per lo svolgimento delle attività investigative connesse”, ha dichiarato con una nota il Procuratore Capo Giuseppe Amato.
Michele Merlo di Amici e la leucemia fulminante, "nel 95% dei casi si guarisce". Pesantissimo atto d'accusa contro i medici. Francesco Fredella su Libero Quotidiano l'08 giugno 2021. Il day after è difficilissimo. La morte ad appena 28 anni di Michele Merlo, ex concorrente di Amici, ha lasciato un vuoto immenso ed un grande sgomento. Colpito da una forma fulminante di leucemia, il cantante ha lottato per alcuni giorni tra la vita e la morte in terapia intensiva. E la sua famiglia non si dà pace perché Michele, dopo i primi sintomi, era andato in ospedale. Suo padre Domenico a Il resto del Carlino affida tutta la propria rabbia e rancore dicendo che "si era recato all’ospedale di Vergato venendo rispedito a casa senza neppure un referto medico”. Infatti, all'ospedale di Bologna Merlo arriva in gravissime condizioni con un'emorragia cerebrale provocata dalla leucemia fulminante. Il ragazzo, nella notte tra giovedì e venerdì, viene operato d’urgenza. Ma domenica sera non ce la fa. Muore giovanissimo. La leucemia fulminante che ha stroncato Michele è una patologia grave ma dalla quale se presa in tempo si guarisce nel 95% dei casi. Michele/Mike Bird purtroppo è rientrato in quel 5% che non ce la fa, ed è da capire quanto abbia pesato la possibile negligenza dei medici del pronto soccorso. Adesso restano tanti dubbi. Troppi interrogativi. “Questa storia ha moltissime ombre, su cui vogliamo sia fatta luce”, dice papà Domenico. Intanto, da fonti giornalistiche s'apprende che l’Ausl avrebbe avviato un’indagine interna. Una notizia che sicuramente non cambia nulla: nessuno potrà restituire alla vita un ragazzo pieno di talento come Michele. E la sua famiglia annuncia battaglia. “Sicuramente un’indagine la faremo partire noi: mi sono già rivolto agli avvocati e abbiamo intenzione di sporgere denuncia. Ci sono moltissime ombre e noi vogliamo chiarezza", racconta a Il Resto del Carlino. Secondo la versione di Domenico Merlo si tratterebbe di malasanità (un'ipotesi, ovviamente, tutta da verificare nelle sedi opportune). “Mercoledì pomeriggio mio figlio è stato all’ospedale di Vergato e, come ci ha poi raccontato, c’era praticamente solo lui, di paziente. Eppure, il medico che lo ha accolto gli avrebbe intimato di ’non intasare gli ospedali per un mal di gola e due placche’. Invece mio figlio oltre a placche, febbre e mal di gola, aveva un terribile mal di testa, sangue al naso ed ematomi sul corpo", racconta Domenico. Michele, dopo la visita al Pronto soccorso, avrebbe raggiunto la sua fidanzata (che vive in una frazione di Marzabotto). "Le cose sono peggiorate, fino alla crisi di giovedì sera. E al burrascoso intervento del 118…”, spiega ancora Domenico. Che annuncia il ricorso ai legali. "L’equipe del dottor Carlo Coniglio e tutto il decimo piano del Maggiore sono stati favolosi. Si sono scusati per il trattamento che ci era stato riservato. Abbiamo già avuto due incontri con il direttore del reparto per fare il punto della situazione. Vogliamo capire se questo si poteva evitare. Perciò chiederemo anche che sia disposta l’autopsia sul corpo di Michele. Poi potremo pensare al funerale e a dargli l’ultimo saluto”, conclude il padre di Michele Merlo.
Leucemia fulminante: qual è la causa, come si manifesta, cosa si può fare. Alice Politi l'8/6/2021 su Vanityfair.it. Un forte mal di gola e un mal di testa lancinante: questi i sintomi descritti nel suo ultimo post su IG da Michele Merlo, il cantante 28enne originario di Marostica, in provincia di Vicenza, morto nella notte tra il 6 e il 7 giugno a causa di un’emorragia cerebrale determinata da una leucemia fulminante, il nome con cui viene più comunemente definita la Leucemia Acuta Promielocitica. Una malattia che, nel caso del giovane Merlo, si è manifestata in tutta la sua gravità nell’arco di pochissimi giorni, purtroppo senza lasciargli scampo. Ma come si diagnostica la Leucemia Fulminante, quali sono i sintomi più comuni e soprattutto: cosa si può fare? Ne abbiamo parlato con Matteo Della Porta, Professore Associato di Ematologia presso il Dipartimento di Scienze Biomediche, Humanitas University di Rozzano, Milano. «La prima cosa da sottolineare è che si tratta comunque di una forma molto rara di leucemia: tra tutte, la Leucemia Acuta Promielocitica rappresenta l’1 o il 2% dei casi», spiega Della Porta. «La sua caratteristica consiste nel fatto che le cellule leucemiche sono in grado di liberare nel sangue sostanze che determinano una condizione molto grave, definita coagulazione intravascolare disseminata. Questo processo di coagulazione rende facile la formazione di emorragie acute in organi vitali come appunto il cervello, cosa che nelle altre forme leucemiche non avviene». La Leucemia Acuta Promielocitica si compone pertanto di una fase iniziale molto critica che corrisponde all’insorgere della malattia e alla sua immediata manifestazione nella forma più acuta, nell’arco di pochi giorni, con il rischio di morte improvvisa nell’arco della prima settimana. «Il paradosso è che si tratta della forma di leucemia in assoluto più curabile. Se si passa la fase iniziale, la possibilità di sopravvivenza supera il 95%. Non solo: la malattia può essere curata semplicemente con farmaci mirati, senza l’impiego di chemioterapia», aggiunge l’ematologo. I sintomi più comuni? «Comprendono sanguinamento gengivale, stanchezza, febbriciattola. Si tratta di manifestazioni apparentemente comuni, ma se non sono associabili a una causa precisa è importante rivolgersi subito al proprio medico: per diagnosticare la leucemia fulminante basta infatti un classico esame del sangue». Tipica dell’adulto, la Leucemia Acuta Promielocitica non si riscontra nei bambini o negli adolescenti e non rientra nelle malattie dovute a una predisposizione genetica. «Al momento non si conoscono i fattori scatenanti di questa forma così acuta, non si può pertanto fare prevenzione. Semplicemente, è fondamentale prestare attenzione ai propri sintomi, allertando subito il medico nel caso persistano», suggerisce Dalla Porta.
Cos'è la leucemia fulminante, malattia che ha stroncato Michele Merlo. Maria Girardi il 7 Giugno 2021 su Il Giornale. Il giovane cantante Michele Merlo, in arte Mike Bird, si è spento a causa di un'emorragia cerebrale. A causarla, la leucemia promielocitica acuta o fulminante, uno dei tumori del sangue più pericolosi. Non ce l'ha fatta Michele Merlo, in arte Mike Bird, cantante della sedicesima edizione di "Amici" di Maria De Filippi e di "X Factor". Il giovane 28enne si è spento per un'emorragia cerebrale causata da una leucemia fulminante (scientificamente nota come leucemia promielocitica acuta) che, in soli cinque giorni, non gli ha lasciato scampo. Nella notte tra mercoledì e giovedì il ragazzo ha accusato un grave malore. All'arrivo dei sanitari del 118 le sue condizioni sono apparse subito disperate e a nulla è servito l'intervento chirurgico d'urgenza a cui è stato sottoposto presso l'Ospedale Maggiore di Bologna. Questa tragedia lascia tutti sgomenti e fa precipitare in un vuoto d'angoscia e di tristezza gli affetti più cari di Michele e il mondo artistico. Cos'è la leucemia fulminante che lo ha colpito e come si manifesta?
Cos'è la leucemia promielocitica acuta. La leucemia promielocitica acuta (LAP), un sottotipo della leucemia mieloide acuta, è la forma più aggressiva e grave dei tumori del sangue. Venne studiata per la prima volta dal medico norvegese Leif Hillestad nel 1957 e successivamente analizzata in maniera più dettagliata dall'ematologo francese Jean Bernard nel 1959. Le caratteristiche genetiche della stessa furono descritte nel 1977 dalla genetista Janet Rowley che identificò la causa della malattia nella traslocazione acquisita, non presente dunque dalla nascita, di materiale genetico tra i cromosomi 15 e 17. Fu poi nel 1991 che alcuni ricercatori italiani, guidati da Francesco Lo Coco e Giuseppe Pelicci, scoprirono i geni RAR alfa e PML coinvolti nella traslocazione. La leucemia promielocitica acuta, di cui ogni anno in Italia si registrano circa 150 casi, può manifestarsi a qualsiasi età, anche se è stato notato un picco di incidenza intorno ai 40 anni. Della stessa, che viene riscontrata più frequentemente tra i soggetti latino-ispanici, non sono purtroppo noti i fattori di rischio e la precisa motivazione della traslocazione genetica alla base della sua insorgenza. La gravità di questa forma leucemica consiste nei problemi di coagulazione che compaiono all'improvviso. Si viene così a instaurare una condizione nota come "coagulazione intravascolare disseminata". A causa dei globuli bianchi alterati, il sangue diventa denso in più punti, provocando così emorragie (soprattutto cerebrali) quasi sempre fatali.
Sintomi e diagnosi della leucemia promielocitica acuta. I sintomi della leucemia promielocitica acuta sono l'esito di una grave coagulopatia dovuta alla presenza di granuli all'interno delle cellule e sulla membrana di queste ultime. Tale anomalia si traduce in problemi di coagulazione e in emorragie che portano i pazienti al decesso nel giro di pochi giorni. Un individuo colpito dalla malattia può, dunque, accusare:
Emorragia cerebrale, quali sono i sintomi?
porpora;
epistassi;
emorragie gengivali;
sanguinamenti degli organi interni (sistema nervoso centrale, apparato digerente, apparato genito-urinario);
febbre;
stanchezza;
malessere generale.
La diagnosi si basa sull'esecuzione di un esame al microscopio dello striscio di sangue periferico e di un esame emocromocitometrico. Indispensabile, poi, l'esecuzione di un aspirato midollare, di uno screening coagulativo e di una valutazione citogenetica. Quest'ultima consente anche la modulazione della terapia da intraprendere dopo la remissione.
Leucemia promielocitica acuta, come si cura?
Negli anni appena successivi alla sua scoperta, una diagnosi di leucemia promielocitica acuta era quasi sempre una condanna a morte. La sopravvivenza, infatti, raramente superava il 40%. Con il tempo la medicina ha fatto passi da gigante e oggi, tempestività permettendo, si può sperare nell'efficacia di un approccio terapeutico basato sulla combinazione chemioterapica di triossido di arsenico con acido retinoico (un derivato della vitamina A). Il primo sollecita la morte (apoptosi) delle cellule cancerose. Il secondo, invece, presiede al percorso di differenziazione cellulare dei promielociti. I pazienti leucemici possono beneficiare, altresì, di trasfusioni di plasma fresco, emoderivati e concentrati piastrinici. Seppur in questo modo si giunga a una percentuale di guarigione che sfiora il 90%, non sono impossibili le recidive (20-25%). In questi casi, una volta ottenuta la seconda remissione, è opportuno valutare la possibilità di un trapianto di cellule staminali emopoietiche, autologo oppure allogenico.
Maria Girardi. Nasco a Bari nel 1991 e qui mi laureo in Lettere Moderne con una tesi su L'isola di Arturo di Elsa Morante. Come il giovane eroe morantiano, sono alla perenne ricerca della mia "Procida" e ad essa approdo mentre passeggio in mezzo al verde o quando vedo film drammatici preferibilmente in bianco e nero.Bibliofila fin dalla più tenera età, consento ai libri di leggermi e alla poesia di tracciare i confini della mia essenza...
Michele Merlo, lo sfogo del padre alla camera ardente: "Un taglio in faccia", sfregio di Stato al figlio morto. Libero Quotidiano il 16 giugno 2021. "Trovo gravissimo che nessuno, della Regione o del Comune, abbia espresso una sola parola di vicinanza o solidarietà nei confronti della mia famiglia": il papà di Michele Merlo, l'ex cantante di Amici morto per una leucemia fulminante, esprime tutto il suo dolore nel giorno della camera ardente, allestita oggi al Pantheon della Certosa a Bologna. La totale assenza da parte degli enti locali è stata definita dal padre dell'artista scomparso come un "taglio in faccia". La camera ardente si è subito riempita di amici e familiari del giovane 28enne, che hanno voluto rendere omaggio al ragazzo. Sul posto anche Emma Marrone, che era stata la coach del cantante ad Amici. In lacrime la sua fidanzata, consolata dagli amici. "La verità sulla morte di mio figlio - ha detto poi papà Domenico - la sapremo tra sessanta giorni, all’esito dell’autopsia. Intanto Michele non c’è più. Nessuno me lo restituirà". Sulla morte di Mike Bird, il suo nome d’arte, è stata aperta anche un’inchiesta per omicidio colposo. Gli inquirenti dovranno capire se ci sia stata qualche negligenza medica nei primi momenti in cui Michele si è sentito male. Il 2 giugno, infatti, quando si presentò al pronto soccorso di Vergato con mal di testa, sangue al naso, febbre e un grosso ematoma, venne mandato a casa con un antibiotico, stando al racconto della famiglia. Nei giorni successivi la corsa disperata in ospedale.
Michele Merlo, Matteo Salvini e Giorgia Meloni presenti ai funerali a sorpresa: straziati dal dolore. Libero Quotidiano il 19 giugno 2021. Per i funerali di Michele Merlo a Rosà sono arrivati anche Matteo Salvini (con la compagna Francesca Verdini) e Giorgia Meloni, a sorpresa. I leader di Lega e Fratelli d'Italia, con gli occhi lucidi, sono stati avvistati tra le migliaia di persone accorse allo stadio Toni Zen della cittadina in provincia di Vicenza dove è andato in scena l'ultimo saluto dell'ex cantante di Amici morto tragicamente a soli 28 anni per una leucemia fulminante, forse sottovalutata dai medici del pronto soccorso a cui si era rivolto il giovane artista, noto anche con il nome d'arte di Mike Bird, prima di venire stroncato da un'emorragia cerebrale. Alla vigilia della cerimonia, era montata una polemica per il rifiuto del parroco locale di celebrare la messa fuori dalla chiesa, anche per motivi di sicurezza. I genitori di Merlo sono stati così costretti a chiedere a un religioso bolognese, amico di famiglia, di celebrare la liturgia. Molti dei presenti, spiega Il Resto del Carlino, hanno dovuto seguire la cerimonia all'esterno dello stadio, attraverso gli altoparlanti, a causa dell'afflusso. Non c'era Emma Marrone, la popstar ed ex coach di Michele ad Amici, bloccata da impegni di lavoro ma presente, e in lacrime, alla camera ardente allestita nei giorni scorsi a Bologna. Momenti di commozione quando si sono esibiti Federico Baroni, ex compagno di squadra di Michele ad Amici, e Alberto Bertoli, figlio del grande cantautore Pierangelo Bertoli di cui Merlo aveva eseguito in tv la cover di A muso duro, scelta sorprendente e nient'affatto banale. "Ora, caro Michele - ha recitato durante l'omelia padre Carlo Maria Veronesi -, con la nostra fede e con la nostra preghiera apriamo le nostre mani e le eleviamo in alto così che tu, piccola ed ora forte rondine, possa senza paura raggiungere volando felice le mani di Dio pronte a custodirti nel suo immenso amore. Da lì accompagnaci tutti, perché possiamo far volare nel bene più bello e prezioso la nostra esistenza quaggiù. Senza paura e senza spegnere la bellezza di vivere, in tutti i suoi momenti, che tu ci hai insegnato".
Funerali di Michele Merlo, oltre mille persone allo stadio per dare l’ultimo saluto al cantante. Valentina Mericio il 18/06/2021 su Notizie.it. Oltre 1000 persone si sono recate allo stadio di Rosà ( Vicenza) per dare l'ultimo saluto a Michele. Tra la folla anche Salvini e Meloni. Oltre un migliaio di persone presenti e tanti palloncini bianchi per salutare Michele Merlo, i cui funerali si sono tenuti venerdì 18 giugno presso lo stadio di Rosà in provincia di Vicenza. A celebrare il funerale don Carlo Maria Veronesi che, davanti alla platea, ha tenuto un discorso pieno di affetto per il giovane artista morto a soli 28 anni a Bologna, eppure molto ispirato con un particolare occhio verso i giovani. Tra i presenti anche il figlio del cantautore Pierangelo Bertoli Alberto che in un momento molto commovente si è esibito cantando il celebre brano “A muso duro”, che fu interpretato in passato da Michele Merlo. Infine tra la folla erano presenti anche Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Molto commoventi e piene di emozione le parole dei genitori di Michele Merlo Domenico Merlo e Katia Ferrari che hanno voluto dedicare una preghiera non solo al figlio prematuramente scomparso a soli 28 anni a causa di una leucemia fulminante, ma anche a tutti i presenti: “Abbiamo, sino ad oggi, comunicato per lo più attraverso i nostri consulenti e legali. […] Ma oggi vogliamo parlare noi, vogliamo consegnare, io e Katia, mia moglie, una preghiera a tutti voi”, le parole del padre Domenico. Molto toccanti ed emozionanti anche le parole pronunciate dall’officiante del funerale don Carlo Maria Veronesi che durante l’omelia ha dedicato un pensiero ai giovani: “Riteniamo che la vita sia pensare a sé stessi, ai propri orticelli e ad essere come diceva Papa Francesco ai giovani, "seduti sul divano". Invece il nostro cammino per raggiungere la saggezza di Dio passa attraverso ogni nostro gesto verso gli […] caro Michele, con la nostra fede e con la nostra preghiera apriamo le nostre mani e le eleviamo in alto così che tu, piccola ed ora forte rondine, possa senza paura raggiungere volando felice le mani di Dio pronte a custodirti nel suo immenso amore”. Al termine della celebrazione si è esibito il figlio del cantautore di Pierangelo Bertoli che in un momento molto sentito ha cantato in memoria del giovane artista 28enne il brano “A muso duro”, infine il volo dei palloncini che sono stati liberati in aria, all’esterno dello stadio. Un gestito certo simbolico per ricordare che anche l’anima di Michele si è librata ormai in cielo.
Michele Merlo, il legame stretto tra Giorgia Meloni e il padre Domenico: "Perché è stata invitata al funerale". Libero Quotidiano il 19 giugno 2021. Grandi polemiche si sono scatenate sui leader di Lega e Fratelli d’Italia che erano presenti al funerale di Michele Merlo. Matteo Salvini si è presentato allo stadio di Rosà mano nella mano con la fidanzata Francesca Verdini, poco dopo è arrivata anche Giorgia Meloni: la loro presenza ha fatto storcere il naso a molti, ma non c’era nessuna intenzione di fare una passerella. I due politici sono infatti stati invitati dalla famiglia dell’ex cantante di Amici, morto a soli 28 anni a causa di un’emorragia cerebrale dipesa da una leucemia fulminante. In particolare la Meloni ha un rapporto stretto con Domenico Merlo, ex carabiniere e amministratore del Comune di Rosà, nonché scelto nel 2019 per guidare il circolo territoriale di Fratelli d’Italia: infatti il padre di Michele e Giorgia sono stati fotografati in un abbraccio molto intimo. È la famiglia che ha voluto sia la Meloni che Salvini al funerale e non il contrario, ma poco importa ai soliti odiatori dei social che si sono scagliati contro i leader del centrodestra. Oltre ai 300 invitati e agli amici più stretti fatti sistemare nelle 300 poltroncine davanti all’altare posto al centro dello stadio di Rosà, fuori c’erano centinaia di giovani che hanno voluto seguire il funerale attraverso gli altoparlanti collocati all’esterno, dove al termine della cerimonia sono stati fatti volare in cielo palloncini bianchi e farfalle per ricordare Michele.
Da “Libero quotidiano” il 20 giugno 2021. Selvaggia Lucarelli contro Giorgia Meloni e Matteo Salvini presenti ai funerali di Michele Merlo, il giovane cantante morto di leucemia. La verità è che la penna del Fatto ignora i rapporti di amicizia tra Francesca Verdini, fidanzata di Salvini, e lo sfortunato 28enne e non sa che il padre di Michele, Domenico, è stato scelto per guidare il circolo Fdi di Rosà. Francesca Verdini ha replicato duramente alla Lucarelli: «Meschina e vuota. Si vergogni».
FRANCESCA VERDINI METTE A POSTO LA SOLITA “SELVAGGIA” LUCARELLI, CENSORE DEL NULLA. Il Corriere del Giorno il 20 Giugno 2021. La presenza della Meloni e Salvini in realtà non è stata una passerella, essendo stati invitati dalla famiglia dell’ex cantante di Amici. In particolare Giorgia Meloni ha un rapporto stretto con Domenico Merlo, ex carabiniere scelto nel 2019 per guidare il circolo territoriale di Fratelli d’Italia. È la famiglia Merlo che ha invitato sia la Meloni che Salvini al funerale. La solita “Selvaggia” Lucarelli non sapendo cosa fare, in perfetto stile “Fango Quotidiano” ha criticato la presenza di Matteo Salvini e Giorgia Meloni al funerale del giovane cantante Michele Merlo accusandoli di aver fatto “passerella” scrivendo come sempre sul suo profilo social: “La presenza di Salvini, fidanzata di Salvini e la Meloni al funerale di un ex ragazzo di Amici morto di leucemia fulminante, perché?” scagliandosi contro i leader del centrodestra. La presenza della Meloni e Salvini in realtà non è stata una passerella, essendo stati invitati dalla famiglia dell’ex cantante di Amici. In particolare Giorgia Meloni ha un rapporto stretto con il papà del giovane cantante deceduto, Domenico Merlo, ex carabiniere e amministratore comunale del Comune di Rosà, nonché scelto nel 2019 per guidare il circolo territoriale di Fratelli d’Italia: infatti il padre di Michele Merlo e Giorgia sono stati fotografati in un abbraccio molto sentito. È la famiglia che ha voluto sia la Meloni che Salvini al funerale e non il contrario. La risposta non si è fatta attendere solo che non è arrivata dai leaders di Lega e Fratelli d’Italia, che l’hanno letteralmente ignorata, ma bensì da Francesca Verdini figlia di Denis ed attuale compagna di Matteo Salvini che attraverso un post pubblicato su Instagram le ha risposto definendola: “Giornalista meschina, violenta, inacidita da una vita che evidentemente non va come avrebbe sperato, giornalista vuota e arrabbiata”. “Ho pensato molto se scrivere o meno quello che sto pubblicando in questo momento – ha aggiunto Francesca Verdini – perché ho imparato da piccola che la stupidità va ignorata, altrimenti fa male. Ma a volte, anche se provi ad ignorarla fa male lo stesso. E per la prima volta in vita mia, sento il bisogno di rispondere: rispondo alla Signora Lucarelli”, aggiungendo: “La invito a vergognarsi. Si vergogni perché andare in giro a giudicare in modo meschino e triste come è solita fare. Deve avere un limite. Si vergogni e chieda scusa a chi legge, ai giornalisti perbene per essersi permessa di parlare di un momento così difficile solo perché non è in grado di sospettare che le persone si vogliono bene e si supportino a vicenda”. Ci chiediamo a questo punto: ma la Lucarelli ha una vita? Anche lei si sente un'”unta” del Signore come il suo nuovo direttore-protettore, il pluricondannato Marco Travaglio? In realtà potrebbe fare la protagonista di un nuovo serial “Casalinghe & Pennivendoli disperati”.
Michele Merlo, Selvaggia Lucarelli minaccia Francesca Verdini: "Nelle sedi opportune", la querela? Libero Quotidiano il 21 giugno 2021. Nonostante la palese gaffe Selvaggia Lucarelli non demorde e rincara la dose contro Francesca Verdini. Al centro della polemica sollevata dalla giornalista la partecipazione di Matteo Salvini e Giorgia Meloni ai funerali di Michele Merlo. Peccato però che l'ex cantante di Amici, morto per leucemia fulminante, fosse amico della fidanzata del leader leghista. Mentre il padre, Domenico Merlo, sia lo stesso amministratore del Comune di Rosà scelto nel 2019 per guidare il circolo territoriale di Fratelli d’Italia. Legami molto stretti che hanno scatenato la Verdini contro la Lucarelli, da lei definita "giornalista meschina, violenta, inacidita da una vita che evidentemente non va come avrebbe sperato, giornalista vuota e arrabbiata". La Verdini ha dunque invitato la Lucarelli "a vergognarsi, perché andare in giro a giudicare in modo meschino e triste come è solita fare, deve avere un limite". A pochi giorni di distanza, ecco che la giornalista replica alla Verdini. Anche senza mai citarla, il destinatario della sua invettiva è palese: "La mia risposta alla fidanzata del noto politico arriverà, ma nelle sedi opportune, sedi che la sua famiglia conosce bene". E ancora, su Instagram: "Per il resto, vedo che la signorina ha imparato bene dal fidanzato: lasciare i peggiori commenti, così il lavoro sporco lo fanno i seguaci. Affinità elettive". Prima invece la giornalista si era espressa così: "La presenza di Salvini, fidanzata di Salvini e la Meloni al funerale di un ex ragazzo di Amici morto per una leucemia fulminante, perché? Erano parenti? Amici? È un funerale in cui la presenza della politica dovrebbe significare qualcosa? No, solo passerella". Solo dopo che qualcuno le aveva fatto notare del legame tra la compagna di Salvini e il cantante era arrivata una parziale correzione: "P.s. L’unica amica di famiglia era Francesca Verdini, mi dicono. Quindi appunto, politica e cartoline c’entravano ancora meno". E infatti la Meloni era giusto il leader del partito che Domenico Merlo doveva guidare.
Michele Merlo di Amici, Maria De Filippi assente al funerale: motivo sconvolgente. Libero Quotidiano il 20 giugno 2021. Ai funerali di Michele Merlo non ha partecipato Maria De Filippi. L'ultimo saluto del 28enne ex cantante di Amici stroncato da una leucemia fulminante è stato organizzato nello stadio Tony Zen di Rosà, cittadina di Vicenza di cui era originaria la famiglia del giovane e sfortunato artista. L'assenza della sua mentore, la donna che ha puntato su di lui ancora sconosciuto consacrandolo nel talent di Canale 5, non è però una mancanza di rispetto. Tutt'altro. Secondo quanto riporta una indiscrezione di Fanpage.it, infatti, la De Filippi avrebbe preferito evitare passerelle pubbliche, che soprattutto nel suo caso avrebbero corso il rischio di oscurare mediaticamente un momento così intimo e straziante. Per questo motivo Maria avrebbe già deciso di fare un gesto privato, lontano da telecamere e obiettivi dei fotografi: si recherà nei prossimi giorni direttamente a casa di mamma e papà di Michele, per un saluto commosso. Già alla notizia della drammatica morte di Michele, che potrebbe aver pagato la leggerezza con cui i medici del pronto soccorso a cui si era rivolto per fortissimi mal di testa e mal di gola, potrebbero aver valutato i sintomi, scambiandoli per semplici "placche", la De Filippi aveva ricordato il suo ex allievo con affetto e dolore: "Eri un ragazzo speciale e lo avevamo capito tutti. Avevi un’intensità unica, una capacità di guardarti dentro fin troppo spiccata che a volte ti faceva arrovellare attorno agli umori e alle sensazioni". Michele, in arte Mike Bird, aveva partecipato alla sedicesima edizione dello show, nel 2017, arrivando fino in semifinale.
Michele Merlo, poco prima del funerale svelato il suo ultimo messaggio: "Per dire la verità ci voleva forza". Libero Quotidiano il 18 giugno 2021. I genitori di Michele Merlo, ex concorrente di Amici morto a causa di una leucemia fulminante, hanno voluto riportare il suo ultimo messaggio. E l'hanno fatto prima dei funerali che si terranno il 18 giugno alle 14 presso lo Stadio Comunale di Rosà, in provincia di Vicenza. I genitori Katia e Domenico hanno così pubblicato una lunga lettera e diffuso l'ultimo messaggio di Michele. "Buongiorno a tutti, abbiamo, sino ad oggi, comunicato per lo più attraverso i nostri consulenti e legali che continueranno a farlo di nuovo da domani, tranne qualche piccolo sfogo da genitori sofferenti e provati da un immenso dolore che sappiamo già non avrà mai fine. Ma oggi vogliamo parlare noi, vogliamo consegnare, io e Katia, mia moglie, una preghiera a tutti voi… Michele è nostro figlio ma è anche il vostro artista, l’artista molte volte incompreso e da alcuni dimenticato, l’artista con dentro un tormento di emozioni che ha saputo sfogare con le sue canzoni, perché solo così sentiva di essere Michele". E ancora, in una lettera toccante: "Per prima cosa vogliamo ringraziare tutti, senza tralasciare nessuno, in particolare voi che darete voce a Michele per sempre. Oggi, alle h.17, gli daremo tutti insieme l’ultimo saluto e chi lo vorrà potrà pubblicare questo video messaggio che lui ha dedicato prima di tutto a se stesso e che siamo sicuri sognasse di condividere anche con voi. Per chi vuole ci piacerebbe che lo pubblicaste e diffondeste proprio alle 17, così io e mia moglie ci sentiremo meno soli". Poi l'ultimo messaggio di Michele: 'Abbiamo il cuore stanco di chi la vita l’ha rincorsa… perché per dire la verità ci voleva forza… E ti ritrovi solo con i pugni nelle mani… e un giorno troveremo pure pace e sarà più semplice di quello che crediamo basterà accettare il buio… Viviamo, ricordiamo, soffriamo per sempre come rondini nel temporale…Grazie! Katia e Domenico". Uno strazio quello dei genitori del cantante 28enne, che non è stato reso più semplice neppure nel giorno dei funerali. Il parroco si è rifiutato di celebrare la Messa. Il motivo? Questioni di coronavirus e sicurezza.
Andrea Priante per il “Corriere della Sera” il 20 novembre 2021. Domenico, il papà di Michele Merlo, scuote la testa. «Sulla sua tomba i fan lasciano bigliettini, perfino regali. Tutto questo ci aiuta a sopportare il dolore, per carità. Ma non basta: ci serve la verità». I genitori di Mike Bird, nome d'arte dell'ex concorrente di X Factor e Amici, aspettano risposte dalla sera del 6 giugno, quando il cantautore morì all'ospedale Maggiore di Bologna per l'emorragia cerebrale provocata da una leucemia fulminante. La Procura felsinea ha aperto un'inchiesta per omicidio colposo, disposto l'autopsia e incaricato due periti - il professor Antonio Cuneo e il dottor Matteo Tudini - di stabilire se potevano esserci delle responsabilità. I dubbi li aveva denunciati la famiglia, perché il 28enne stava male da giorni e il 2 giugno si era presentato all'ospedale di Vergato (nel Bolognese) ma era stato rispedito a casa con la diagnosi di faringite e la prescrizione di un antibiotico. La sera successiva a casa della fidanzata erano iniziate le convulsioni. L'arrivo dell'ambulanza e il ricovero all'ospedale non erano bastati a salvarlo. Ora la Procura di Bologna sta per trasferire l'inchiesta - ancora senza indagati - ai magistrati di Vicenza. E questo, proprio per le conclusioni dei periti: quando Merlo si presentò a Vergato, anche se i medici avessero intuito i segnali della leucemia, per lui era già troppo tardi. Non si poteva salvare, e quindi la morte non è imputabile ai dottori bolognesi. I sospetti, si spostano altrove. «Il 26 maggio Michele stava già male - sostiene il padre - e si presentò al Pronto soccorso di Cittadella con dolori e uno strano ematoma alla gamba. Ma tre ore dopo il triage, era ancora in attesa. Così, scocciato, andò via». Da casa, spedì un'email allo studio del medico di famiglia di Rosà (in provincia di Vicenza, dove il giovane abitava) allegando la foto dell'ematoma. «Ma dallo studio associato lo richiamarono rimproverandolo per aver spedito l'immagine. Allora mio figlio si presentò di persona e fu ricevuto da qualcuno, quasi certamente non il suo medico, che si limitò a massaggiargli la gamba con una pomata». È proprio a Rosà e Cittadella che si concentreranno le indagini. Perché la perizia parla chiaro: se entro il 27 giugno Merlo fosse stato sottoposto a esami del sangue, sarebbero emersi i segnali di una emopatia acuta che avrebbe comportato il ricovero e l'inizio di una terapia adeguata. Fosse andata così, concludono gli esperti, le probabilità di sopravvivenza sarebbero state tra il 79 e l'87 per cento. «La speranza - dice il legale della famiglia, Marco Dal Ben - è che ora si arrivi rapidamente a individuare i responsabili». Papà Domenico allarga le braccia: «Sono deluso, comincio a perdere fiducia nella giustizia. Spero che i pm di Bologna indaghino comunque sul comportamento di due medici: quello di Vergato che non volle visitarlo e quello del 118 intervenuto a casa della fidanzata di Michele. Ero al telefono con lei, lo sentivo chiederle quanta droga avessero assunto. Pareva fuori controllo. E perse minuti preziosi».
Andrea Priante per corriere.it il 26 novembre 2021. Sono le 11.59 del 26 maggio, quando la richiesta d’aiuto di Michele Merlo viene rimbalzata una prima volta. In precedenza, l’ex concorrente di Amici e X Factor ha inviato un’email allo studio associato del suo medico di famiglia, a Rosà (Vicenza), allegando la foto dell’ematoma comparso sulla gamba sinistra. Ma chi la riceve non intuisce che quello è il sintomo della leucemia fulminante che appena undici giorni dopo l’avrebbe ucciso.
Emopatia acuta
E così, quando manca un minuto a mezzogiorno, sul telefonino dell’artista compare la risposta, firmata da un anonimo «assistente di studio», che non soltanto non invita il ragazzo a precipitarsi in ospedale ma sembra quasi rimproverarlo: «L’utilizzo della mail è unicamente per la richiesta di terapia cronica. Per qualsiasi altro motivo, chiamare in segreteria. Inoltre chiediamo di non inviare foto». Nient’altro. A quasi sei mesi dalla morte del 28enne vicentino, è possibile rileggere le sue ultime settimane di vita attraverso foto, e-mail e memorie finite nell’inchiesta per omicidio colposo aperta dalla procura di Bologna e di recente trasferita per competenza ai magistrati vicentini. Su tutto, pesa la perizia del professor Antonio Cuneo e del dottor Matteo Tudini, stando alla quale sarebbe stato sufficiente sottoporre Michele Merlo all’esame del sangue per far emergere un quadro di emopatia acuta che avrebbe comportato il suo immediato ricovero. «In tale contesto, con elevata probabilità, Merlo entro 24 ore avrebbe iniziato la terapia adeguata» scrivono. E così, «qualora la terapia fosse stata somministrata a partire dal 27-28 maggio (…) avrebbe avuto una probabilità di sopravvivenza compresa tra il 79 e l’87 per cento».
I giorni tragici
Stando alle ricostruzioni, per trovare i primi segnali del malessere occorre risalire al 7 maggio: quattro ecchimosi di circa 4 centimetri in corrispondenza del deltoide destro e di 2 centimetri all’avambraccio sinistro. Da lì è un lento precipitare verso l’inferno. Il 16 maggio ecco dei lividi estesi al braccio destro e alla coscia sinistra. È quest’ultima a preoccupare per le dimensioni, come conferma la foto inviata allo studio di medicina generale. Il 24 maggio Michele Merlo decide di rispettare gli impegni professionali e si reca con papà Domenico a Modena, dove sta registrando un disco. Si arriva così al 26 maggio. Ricevuta l’e-mail dell’assistente di studio - stando alla memoria predisposta dall’avvocato Marco Dal Ben, che assiste la famiglia Merlo - alle 14 il cantante «decide di andare al pronto soccorso dell’ospedale di Cittadella (Padova) per l’ematoma alla coscia sinistra che gli causava dolore». Ma lì, al triage, di nuovo nessuno sospetta la gravità della situazione e gli viene assegnato un codice bianco. «Dopo tre ore di attesa – ha spiegato Domenico Merlo al Corriere – mio figlio, scocciato, andò via».
La prima diagnosi
Più tardi Michele decide di presentarsi nello studio del medico di famiglia a Rosà, Vitaliano Pantaleo: «Per la diagnosi mi basai su quel che disse lui stesso: raccontò di aver preso alcune botte facendo un trasloco. Si stava curando con antinfiammatori e una pomata e gli raccomandai di tornare da me entro 3-5 giorni, ma non l’ho più rivisto. Mi sono fidato delle sue parole, francamente credo di aver fatto bene il mio lavoro ma non passa giorno che non pensi a lui…». Il 28 maggio compaiono «piccole ma ben visibili emorragie mucose al cavo orale» e da quel momento la situazione precipita velocemente. Il 30 maggio «accusa dolore alla testa» e sanguinamento dal naso; il 31 «riferisce di sentirsi stanco e lamenta mal di gola»; l’1 giugno per alleviare il fastidio alla cervicale si fa fare un massaggio da un fisioterapista ma la sera stessa «lamenta mal di gola, mal di testa e febbre a 38,5». Ma a quel punto, stando ai periti, per lui è già troppo tardi. Resta che ancora nessuno capisce la gravità della situazione. La mattina del 2 giugno Merlo «decide di recarsi all’ospedale di Vergato», nel Bolognese, dove nel frattempo il cantautore era andato per incontrare la fidanzata. Ma al Pronto soccorso nessuno lo visita e viene dirottato dal medico di continuità assistenziale: «Questi - prosegue la memoria - pone una diagnosi di tonsillite».
La leucemia fulminante
La notte tra il 2 e il 3 giugno Michele «dorme pochissimo per il mal di gola. La sera del 3 giugno inizia a vomitare, perde coscienza e sviluppa convulsioni». A chiamare il 118 è Luna, la fidanzata, che «segue le indicazioni di primo soccorso e nota nuove macchie sulla schiena». L’ambulanza trasporta il 28enne all’Ospedale Maggiore di Bologna. È già privo di coscienza e finalmente vengono ordinati gli esami ematici (ma i medici chiedono anche di ricercare sostanze stupefacenti nelle urine, che danno esito negativo). All’alba del 4 giugno viene eseguita una Tac alla testa e si rende subito necessario un intervento d’urgenza «a scopo decompressivo». Solo quel giorno si scopre che è affetto da leucemia fulminante. «Nel primo mattino del 4 giugno viene avviata una terapia trasfusionale con piastrine». Il 5 giugno «le condizioni restano critiche e Michele sedato». Il mattino successivo, un nuovo peggioramento. «Il decesso interviene alle sera del 6 giugno, verso le 21.45».
Da leggo.it l'8 dicembre 2021. «Hanno ucciso mio figlio, voglio tutta la verità», è lo sfogo del papà di Michele Merlo, l'ex cantante di "Amici" scomparso sei mesi fa a causa di una leucemia fulminante. Il papà, Domenico Merlo, ha rotto il silenzio dopo che l'inchiesta è passata da Bologna a Vicenza: «Bastava un emocromo per salvarlo. Perché un dirigente medico chiese scusa a nome suo e di tutta la categoria?» Il papà affida al "Resto del Carlino" il suo sfogo: «Gli venne prescritto un antibiotico, il giorno dopo il crollo. Ci fu un sanitario del 118 che diede a Michele del tossicodipendente». L'uomo, inoltre, non si capacita del passaggio dell'inchiesta: «Per me un colpo al cuore. Mi domando per quale motivo? Mi aspettavo che la Procura di Bologna andasse avanti, che i Nas accertassero eventuali responsabilità di quei sanitari che hanno visitato Michele». «Oggi - prosegue - mi si dice che una volta arrivato all’ospedale di Vergato tutto era già compromesso. Bene, allora perché un dirigente medico del decimo piano del Maggiore, davanti al sottoscritto e a tutti i miei parenti, chiese scusa a nome suo e di tutta la categoria? Di cosa si scusò se non è venne sbagliato niente? Io e la mia famiglia non cerchiamo vendette, nemmeno soldi, ma la verità sì. Se qualcuno ha sbagliato dovrà pagare e noi andremo fino in fondo». Il papà è convinto che Michele si poteva e si doveva salvare: «Questo dicono gli atti. Invece è stato rimbalzato da un posto all’altro quando bastava un emocromo per capirne il problema. È tutto un sistema sanitario che è sbagliato, questo va condannato».
L'inchiesta a Vicenza. Michele Merlo, primo indagato per la morte del cantante: sotto accusa i medici che lo hanno curato. Fabio Calcagni su Il Riformista il 10 Dicembre 2021. Per la morte di Michele Merlo, il cantautore 28enne morto stroncato da un’emorragia cerebrale scaturita una leucemia fulminante all’ospedale Maggiore di Bologna il 6 giugno scorso, c’è almeno un indagato.
A scriverlo oggi è il Corriere del Veneto dopo che il fascicolo di indagine è passato dal capoluogo dell’Emilia Romagna alla procura di Vicenza, competente per territorio. Il reato contestato nell’inchiesta assegnata al pm Barbara De Munari è quello di omicidio colposo in merito a condotte mediche.
L’ipotesi, dopo le verifiche condotte dai Nas e l’autopsia svolta sulla salma del cantante, è che le eventuali responsabilità vadano ricercate nella fase antecedente al ricovero dell’ex cantante di ‘Amici’ e ‘X Factor’ al ricovero presso l’ospedale Maggiore di Bologna o la visita al pronto soccorso di Vergato. Insomma, eventuali ‘colpe’ sarebbero del suo medico di famiglia di Rosà, dove Michele viveva con la famiglia, o del Pronto soccorso di Cittadella, in provincia di Padova. A carico dei medici bolognesi infatti, dopo mesi di accertamenti e verifiche, non erano emerse responsabilità.
‘Mike Bird’, come si faceva chiamare Michele, secondo quanto emerso dai periti che hanno svolto l’autopsia si era presentato al pronto soccorso di Vergato il 2 giugno con con placche, sangue dal naso, mal di gola e mal di testa ed è stato dimesso con diagnosi di faringite e prescrizione di un antibiotico. Per lui però era già troppo tardi: “Qualora la terapia fosse stata somministrata a partire dal 27-28 maggio (…) avrebbe avuto una probabilità di sopravvivenza compresa tra il 79 e l’87 per cento”, era stata la conclusione dei periti Antonio Cuneo e Matteo Tudini. Insomma, anche se i medici avessero intuito i ‘segnali’ della leucemia, Michele non si sarebbe potuto salvare.
Per questo il fascicolo di Bologna, senza indagati, è stato inoltrato a Vicenza. Il padre del cantante, Domenico, aveva denunciato che “il 26 maggio (Michele, ndr) si presentò presentò al Pronto soccorso di Cittadella con dolori e uno strano ematoma alla gamba. Ma tre ore dopo il triage (gli era stato assegnato un codice bianco ndr), era ancora in attesa. Così, scocciato, andò via”.
Non solo. Il 28enne aveva anche spedito una mail poche ore prima alla medicina di gruppo di Rosà allegando la foto di un ematoma alla gamba. Secca la risposta, quasi a redarguirlo: “L’utilizzo della mail è unicamente per la richiesta di terapia cronica. Per qualsiasi altro motivo, chiamare in segreteria. Inoltre chiediamo di non inviare foto”.
Nei giorni scorsi il medico di Rosà, Vitaliano Pantaleo, ha spiegato la sua posizione in una intervista in cui rivendica la bontà del suo operato: “Credo di aver fatto bene il mio lavoro ma non passa giorno che non pensi a lui…”. Quanto alle condizioni del 28enne, aveva spiegato il medico: “E’ venuto da me mostrandomi un grosso ematoma che aveva ad una gamba e dicendomi di esserselo procurato durante un trasloco. Ovviamente mi sono fidato, pensando ad una forte botta o ad uno strappo”.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Da leggo.it il 10 dicembre 2021. C'è il primo indagato per la morte di Michele Merlo. I genitori del ragazzo ex concorrente di Amici e X Factor da mesi si stanno battendo perché venga fatta chiarezza sulla sua morte avvenuta a causa di un’emorragia cerebrale scaturita da una leucemia fulminante. I familiari hanno dimostrato che prima di rivolgersi all'ospedale aveva chiesto ad altri medici per delle ecchimosi comparse sul corpo ma nessuno gli aveva dato peso. La morte di Michele, quindi, forse, poteva essere evitata? Sul caso si cerca di fare chiarezza e per ora c'è un indagato. Il reato contestato è quello di omicidio colposo in merito a condotte mediche, come riporta il Corriere del Veneto, dopo che il fascicolo d'inchiesta per omicidio colposo è stato trasferito nelle scorse settimane d Vicenza a Bologna. Stando agli accertamenti fatti svolgere dal pm emiliano Elena Caruso, in particolare all’esito dell’autopsia e alle verifiche dei carabinieri del Nas, non è emersa alcuna responsabilità in capo ai medici degli ospedali bolognesi, quindi probabilmente verranno ascoltati i dottori che lo hanno allontanato prima che lui si rivolgesse all'ospedale di Bologna. Quando Merlo è andato in ospedale le sue condizioni erano ormai troppo gravi e anche se avessero subito diagnosticato la leucemia non si sarebbe potuto salvare. Discorso diverso relativo alle richieste di aiuto di Michele fatte tra il 27-28 maggio, quando, secondo i periti, avrebbe avuto una probabilità di sopravvivenza compresa tra il 79% e l'89%.
· E’ morto Angelo Piovano: l’uomo più tatuato d’Italia.
Torino, morto a 85 anni Angelo Piovano: l’uomo più tatuato d’Italia. Ilaria Minucci il 05/06/2021 su Notizie.it. L’ex operaio Angelo Piovano, noto come l’uomo più tatuato d’Italia, è morto all’età di 85 anni nella sua casa situata in provincia di Torino. L’uomo più tatuato d’Italia, Angelo Piovano, è morto all’età di 85 anni nella sua casa situata in provincia di Torino. L’ex operaio torinese Angelo Piovano, noto per essersi conquistato il titolo di uomo più tatuato d’Italia, è deceduto a 85 anni nella sua città d’origine, nel corso della notte tra venerdì 4 e sabato 5 giugno. Angelo Piovano ha iniziato ad adornare il proprio corpo con tatuaggi da adulto, all’età di 56 anni, nel tentativo di escogitare un modo che gli consentisse di esorcizzare il dolore provato per alcuni atroci lutti. Il primo tatuaggio dell’ex operaio, infatti, apparve sul suo braccio sinistro e ritraeva il nome dell’adoratissima madre. Sul braccio destro, invece, si fece disegnare il volto della sua cagnolina Florinda. Da quel momento in poi, i tatuaggi si sono trasformati nel segno distintivo di Angelo Piovano che ha deciso di ricoprire d’inchiostro ogni parte del suo corpo, “parti intime comprese”, come lui stesso ribadiva sempre. Una simile decisione lo ha aiutato non solo a superare la sofferenza provata per le perdite personali ma lo ha anche avvicinato al mondo dello spettacolo donandogli una nuova vita. Angelo Piovano aveva lavorato “per trent’anni in fabbrica nell’anonimato e nella mediocrità” come operaio modello della Pirelli e, una volta ottenuta la propria liquidazione in seguito alla pensione, aveva deciso di investire i milioni ricevuti per imprimere colori e immagini al suo corpo. Il processo di trasformazione è durato circa un decennio ma, infine, l’uomo si è trasformato in un’immensa opera d’arte vivente. A questo proposito, durante un’intervista andata in onda su Rai 3, il defunto Piovano aveva raccontato: “Quando ho lasciato il lavoro, avevo voglia di cambiare vita e ho buttato alle ortiche la tuta blu e mi sono riappropriato della mia libertà. Perché quando uno lavora non è una persona libera, è legato alla produzione”. Nel corso degli anni ’90 del secolo scorso, l’ex operaio torinese ha partecipato a numerose trasmissioni televisive rilasciando, ad esempio, anche un’interessante intervista a Tempi moderni, talk show condotto da Daria Bignardi. Con il trascorrere del tempo, poi, Angelo Piovano si è trasformato in uno dei simboli di una Torino dinamica e in continua metamorfosi. L’improvvisa scomparsa dell’uomo più tatuato d’Italia è stata comunicata tramite la sua pagina Facebook ufficiale attraverso un breve e commovente post. Il messaggio, scritto e pubblicato dal nipote di Angelo Piovano, Marco Bruno, riporta le seguenti parole: “Angelo è mancato questa notte, adesso l’universo sarà più colorato”. L’ex operaio torinese è stato salutato da decine di utenti che hanno voluto rivolgergli un ultimo saluto e hanno espresso il proprio cordoglio alla famiglia. Tra i tanti messaggi, figura anche quello postato dalla sindaca di Torino Chiara Appendino che ha dichiarato: “Ciao Angelo, ci mancherai”.
· È morto Daniele Durante, della pizzica salentina.
Addio a Daniele Durante, genio della pizzica salentina: da tempo era malato di tumore. Giampiero Casoni il 06/06/2021 su Notizie.it. Addio a Daniele Durante, genio della pizzica salentina: brani memorabili e straordinarie collaborazioni per lasciare il segno nella cultura popolare. Addio al 66enne Daniele Durante, genio della Pizzica salentina e direttore artistico della Notte della Taranta: da tempo era malato di tumore, il maestro è deceduto nella sua casa di Lecce. La Fondazione della NDT ha comunicato che quella che ha colpito Daniele è stata una malattia “che ha affrontato con coraggio e nel più stretto riserbo”. E purtroppo il male che ha rubato Daniele alla musica lo ha colto proprio mentre era impegnato nella creazione di un innovativo Concerto digitale della Taranta. Daniele lascia la moglie Francesca e i figli Caterina, Ernesto Niceta, Mauro e Flavio. Durante era direttore artistico della Notte della Taranta dal 2016 ed “è stato l’energia e il ritmo innovatore di molte edizioni del Concertone a partire dal 1998 quando, opponendosi ai conservatori, affiancò Daniele Sepe nell’opera di rinnovamento della tradizione musicale salentina”. A casa sua ci erano venuti tutti coloro che avevano bisogno di essere toccati dal mistero della taranta, che non va capita, ma da cui ci si fa invadere: da Ludovico Einaudi ai maestri concertatori Carmen Consoli, Raphael Gualazzi, Fabio Mastrangelo, Andrea Mirò e Paolo Buonvino. Aveva anche collaborato agli album di Clementino e Enzo Avitabile. Poi, nel 2013, Durante incontrò a Melpignano Erri De Luca e musicò il testo “Solo Andata” dedicato ai migranti. Il lascito dei brani di Durante è straordinario, perché è lascito popolare e invasato, arrangiato e dionisiaco: Luna Otrantina, Alla Riva del Mare, Serenata, Pizzicarella, Suspiri. Durante è stato definito “l’uomo che ha trasformato il folklore salentino in un genere riconosciuto e apprezzato in ogni parte del mondo”. Come lo ha fatto? “Costruendo un leggendario percorso per la cultura popolare salentina fin dal 1975 quando, di ritorno da Londra insieme alla scrittrice Rina Durante, fondò il Canzoniere grecanico salentino”. E Durante ha musica anche lotte arcigne dei nostri giorni. Con la “Quistione Meridionale” e quando nel 2014 scrisse la canzone di lotta “No TAP” contro lo sfruttamento del paesaggio salentino e, nel 2015, “Xylella, il brano denuncia sulla morte degli ulivi”.
È morto Daniele Durante, il genio della pizzica salentina. Era malato da tempo. La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Giugno 2021. È morto Daniele Durante, il genio della Pizzica. Il Direttore artistico della Fondazione Notte della Taranta, che ha trasformato il folklore salentino in un genere riconosciuto in tutto il mondo, si è spento nella sua casa di Lecce. Daniele Durante, il genio della Pizzica, se ne è andato a 66 anni, nella sua casa di Lecce per un tumore che l’aveva colpito da tempo, una malattia che ha affrontato con coraggio e nel più stretto riserbo. Le sue condizioni si erano aggravate negli ultimi giorni mentre era impegnato nella creazione di un innovativo Concerto digitale della Taranta. Lascia la moglie Francesca e i figli Caterina, Ernesto Niceta, Mauro e Flavio. Il maggiore esperto di musica popolare del Salento, Direttore artistico della Fondazione La Notte della Taranta dal 2016, è stato l’energia e il ritmo innovatore di molte edizioni del Concertone a partire dal 1998 quando opponendosi ai conservatori affiancò Daniele Sepe nell’opera di rinnovamento della tradizione musicale salentina. Nel 2010 accolse nella sua casa Ludovico Einaudi e ancora i maestri concertatori Carmen Consoli, Raphael Gualazzi, Fabio Mastrangelo, Andrea Mirò e Paolo Buonvino. Negli ultimi anni ha collaborato agli album di Clementino e Enzo Avitabile. E nel 2013 ha deciso di musicare, dopo l’incontro a Melpignano con lo scrittore Erri De Luca, il testo Solo Andata dedicato ai migranti. Nella sua lunghissima carriera ha consegnato brani indimenticabili della tradizione popolare con i suoi inconfondibili arrangiamenti: Serenata, Luna Otrantina, Alla riva del mare, Pizzicarella, Suspiri. L’uomo che ha trasformato il folklore salentino in un genere riconosciuto e apprezzato in ogni parte del mondo, ha costruito un percorso leggendario per la cultura popolare salentina fin dal 1975 quando di ritorno da Londra insieme alla scrittrice Rina Durante fondò il Canzoniere grecanico salentino. Sue le note della celebre Quistione Meridionale, “manifesto, scrive Durante nella sua biografia contro gli intellettuali (compresi quelli di sinistra) che anziché affrontare e cercare di risolvere i problemi ne fa vessilli e si mette a capo di crociate per accrescere esclusivamente il proprio potere”. Spirito critico che non è mai venuto meno nella sua lunga carriera e che lo ha portato a scrivere nel 2014 la canzone di lotta No TAP contro lo sfruttamento del paesaggio salentino e nel 2015 Xylella, il brano denuncia sulla morte degli ulivi che inserirà nel CD Suspiri , una riflessione che anticipa il male oscuro che lo colpirà negli anni seguenti. “Suspiri e suspirando ieu m’affliu - Sospiri e sospirando io mi affliggo”.
· E’ morto l’allenatore Loris Dominissini.
Lutto nel mondo del calcio: morto per covid Loris Dominissini. Marco Gentile il 4 Giugno 2021 su Il Giornale. L'ex calciatore e allenatore Loris Dominissini è deceduto all'età di 59 anni per alcune complicanze legate al coronavirus. In panchina si ricorda la scalata dalla Serie C alla A con il Como. Non ce l'ha fatta Loris Dominissini: l'ex calciatore e allenatore dell'Udinese si è spento all'ospedale di San Vito al Tagliamento, all'età di 59 anni, per le conseguenze legate al coronavirus. Dominissini è deceduto quest'oggi dopo tre mesi di ricovero e dopo essere stato tenuto sotto osservazione per diverso tempo le sue condizioni sono diventate critiche i primi giorni di maggio e oggi, a distanza di un mese, la tragica notizia. Nonostante non fosse più positivo da tempo al Covid-19 era stato comunque trasferito in terapia intensiva presso l'ospedale di Udine.
La carriera da giocatore e da allenatore. Dominissini nasce a Udinese il 19 novembre del 1961 e inizia a giocare a calcio in tenera età nel settore giovanile dlell'Udinese. Con il club friulano vince il campionato primavera nel 1981 e fa il suo esordio in Serie A nel 1983 a quasi 22 anni. Nel corso della sua carriera ha poi vestito altre maglie: Triestina, Pordenone, Messina, Pistoiese, Reggiana, Sevegliano e Pro Gorizia. A Reggio Emilia, però, ha vissuto il suo periodo migliore in carriera con sette grandi stagioni consecutive con il doppio salto dalla Serie C alla categoria maggiore. Nel 1998-99 fa il suo esordio come allenatore tra le fila della Primavera ma il suo più grande orgoglio da allenatore resta la doppia promozione con il Como, portato dalla Serie C alla Serie A tra il 2000 e il 2002.. È stato poi allenatore di altri club come Ascoli, Spezia, Pro Patria, Reggiana e Visé (in Belgio). Nel 2014 era ripartito dal Lumignacco, in Eccellenza friulana, che è stata anche l’ultima esperienza in panchina. Da quasi sette anni si era allontanato dal mondo del calcio a distanza di anni.
Cordoglio social. Molti utenti hanno espresso su Twitter il loro dolore per la scomparsa prematura di Dominissini: "Occhi di ghiaccio, poche parole e mai banali, tanta competenza. E’ stato un piacere conoscere Loris Dominissini. Ora riposi in pace #lutto #tristezza", e ancora: "È morto a causa del COVID-19 Loris Dominissini. Ex giocatore del Messina e allenatore di diverse squadre. Condoglianze alla famiglia". Anche l'Udinese e altri suoi club, come lo Spezia ad esempio, hanno voluto rendergli omaggio con un semplice ma significativo post sui canali social: Lutto nel mondo del calcio: è morto Loris Dominissini a causa del Covid.
Marco Gentile. Sono nato l'8 maggio del 1985 a Saronno, ma sono di origine calabrese, di Corigliano Calabro, per la precisione. Nel 2011 mi sono laureato in comunicazione pubblica d'impresa presso la Statale di Milano. Ho redatto un elaborato finale sulla figura di José Mourinho, naturalmente in ambito della comunicazione. Sono appassionato di sport in generale ed in particolare di tennis e calcio. Amo la musica, leggere e viaggiare. Mi ritengo una persona genuina e non amo la falsità. Sono sposato con Graziana e ho una bambina favolosa di 2 anni e mezzo. Collaboro con ilgiornale.it dall'aprile del 2016.
· E’ morto il calciatore Seid Visin.
Ha militato anche nel Benevento. Calcio in lutto, morto Seid Visin: il 20enne adottato da una coppia campana aveva giocato con Donnarumma al Milan. Redazione su Il Riformista il 4 Giugno 2021. Seid Visin, calciatore che ha militato nelle giovanili di Milan e Benevento, ha perso la vita pochi mesi prima di compiere 21 anni. È stato trovato morto all’interno della sua abitazione a Nocera Inferiore, in provincia di Salerno. Giovane promessa del calcio etiope, si era trasferito in Italia da bambino, adottato da una famiglia campana, per poi trasferirsi a Milano per inseguire il grande sogno di giocare in Serie A. Prima della stagione 2016/17, l’ultima vissuta a livello agonistico, aveva avuto l’opportunità – durante l’avventura in rossonero – di conoscere Mino ed Enzo Raiola. In ritiro, in quel periodo, condivideva persino la stanza con il quasi coetaneo Donnarumma, compagno anche di origini essendo il portierone azzurro di Castellammare di Stabia. Ha detto addio al calcio dopo essere tornato per un breve periodo al Benevento. Si era unito a una squadra di calcio a cinque, l’Atletico Vitalica, che gioca le partite in casa a Sarno.
Il comunicato della squadra. “Con questo pensiero del nostro dirigente Antonio Francese salutiamo il nostro Seid. Il presidente Nello Gaito, i componenti della società, lo staff tecnico ed i calcettisti abbracciano la famiglia e dicono “ciao” al giovane talento: “Il tuo sorriso, il tuo indiscusso talento, la tua naturale e straordinaria predisposizione a dare del “tu” alla palla restano impressi nella nostra mente. Nel cuore porteremo per sempre la tua discrezione e la reffrattareità a vedere il calcio come fonte di guadagno. Decubertiano nell’animo, hai fatto della partecipazione l’unica vera vittoria ricercata e la compagnia l’unico compenso di cui avevi bisogno. Oggi vai via, come sei arrivato: lasciandoci attoniti, senza parole. Sei e resterai nella storia di ciascuno di noi, perché eterni sono i legami di chi vuol bene senza chieder nulla in cambio. La bandiera dell’Atletico Vitalica oggi, più che mai, è ammainata. Lanciamo idealmente un pallone al cielo, se non torna indietro, sappiamo chi ce lo avrà nascosto ancora una volta. A-DIO Seid, talento enorme dal cuore fragile”.
"Il razzismo non c'entra": gli sciacalli rossi zittiti dai genitori. Ignazio Stagno il 5 Giugno 2021 su Il Giornale. Dopo la morte del ragazzo di appena 20 anni che ha deciso di togliersi la vita, è scattata la strumentalizzazione da parte della sinistra per legare la tragedia al razzismo. Ma la realtà è un'altra...La morte di Seid Visin è un dramma delicato. Un ragazzo di 20 anni che si toglie la vita non può che lasciare senza fiato i suoi genitori, i suoi amici e tutti coloro che conoscevano questo giovane che amava il calcio. Eppure subito dopo la notizia della sua morte è scattato uno sciacallaggio subdolo per sfruttare una lettera scritta alla sua psicoterapeuta più di due anni fa per portare probabilmente acqua al mulino dello Ius Soli.
Sciacalli rossi. Di fatto la notizia questa mattina è stata presentata così da diverse testate (inclusa la nostra): il suicidio sarebbe scaturito da alcuni episodi di razzismo subiti dal ragazzo. E così è partita la strumentalizzazione, soprattutto a sinistra dell'accaduto. Una corsa sfrenata ad usare il dramma di una famiglia per fini politici. "Perdonaci, se puoi", ha scritto su Facebook Enrico Letta. Poi è arrivato il post di Saviano che si commenta da solo: "Provate a trattenere la rabbia, la voglia di spaccare tutto, di distruggere questo mondo di merda che abbiamo creato negli ultimi anni. E ora andate sulle pagine Facebook dei due più grandi pagliacci della nostra politica, Giorgia Meloni e Matteo Salvini, che ci fanno vergognare di condividere con loro la cittadinanza. Sì, pagliacci: nulla di quanto blaterano è vero, nessuna loro proposta è realizzabile, perlomeno in uno Stato di Diritto". A questo aggiungiamo anche le parole di Fratoianni di Sinistra Italiana: "Quando un ragazzo si toglie la vita, le battute imbecilli, i post cinici dei politici sui turisti dei gommoni e sul colore della pelle dimostrano tutta lo loro meschinità. Siate maledetti!".
"Il razzismo non c'entra". Insomma post e commenti che poco hanno a che vedere con il dramma vissuto dal povero Seid e dalla sua famiglia. Le vere ragioni di questo gesto così crudele le sa solo il ragazzo che ha deciso di togliersi la vita. Ma nel fiume di parole di questa giornata di dolore suonano perentorie le parole di un papà e di una mamma che mentre piangono il loro figlio devono chiarire qualcosa di importante per evitare che la morte del ragazzo diventi una bandiera politica: "Il gesto estremo di Seid non deriva da episodi di razzismo". I genitori "escludono con fermezza ogni correlazione tra il gesto e la pista razzista", e arrivano a parlare di "strumentalizzazione" delle parole di Seid. L'estremo gesto purtroppo sarebbe legato ad altre motivazioni che di certo i genitori conoscono meglio dei vari Saviano e Letta.
Scontro Salvini-Saviano. E su quanto accaduto è intervenuto anche il leader della Lega, Matteo Salvini che ha affermato: "Una preghiera per te, ragazzo, e un forte abbraccio alla tua famiglia. Gli Italiani sono da sempre generosi, laboriosi, accoglienti e solidali. Chi ancora distingue o disprezza un essere umano in base al colore della pelle, è un cretino. Punto. Chi porta rispetto, merita rispetto. P.S. Agli sciacalli alla Saviano che cercano di fare polemica politica anche su una tragedia come questa, smentiti dai genitori di Seid che fanno sapere che "il suo gesto estremo non deriva da episodi di razzismo". Forse in questi casi, quando una giovane vita decide di farla finita, una sola cosa è necessaria: il silenzio.
Ignazio Stagno. Nato a Palermo nel 1985. Palermitano prima di tutto, a Milano da quasi 10 anni. Dal 2015 lavoro per il sito de ilGiornale.it. Due passioni: il Milan e le sigarette. Un solo vizio: la barba lunga.
Il suicidio del calciatore vittima di discriminazioni. Seid Visin, il padre fa "marcia indietro" sul suicidio: “Razzismo c’era, porteremo la sua lettera nelle scuole”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 19 Luglio 2021. Seid Visin è morto anche per il razzismo di cui era stato vittima. A dirlo è il padre adottivo del 20enne che si è tolto la vita lo scorso 3 giugno a Nocera Inferiore, in Campania. Walter Visin e la moglie avevano adottato Seid quando era piccolo, a sette anni: nato in Etiopia, aveva subito mostrato un grande talento nel calcio, tanto da trascorrere alcune stagioni nelle giovanili del Milan, dividendo la stanza col portiere della Nazionale Gianluigi Donnarumma, passando poi al Benevento e finendo quindi per dire addio al calcio e tornare a casa a studiare. Il 3 giugno scorso quindi la morte di Seid, prima rilevata come un malore e poi come suicidio. Nelle ore successive infatti l’associazione “Mamme per la pelle” aveva diffuso su Facebook una lettera scritta dal ragazzo a gennaio 2019, in cui Seid raccontava di aver subito episodi di razzismo sin da piccolo: Ovunque io vada, ovunque io sia, sento sulle mie spalle come un macigno il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone”, era scritto nel testo. Una tesi questa smentita inizialmente dalla famiglia, che aveva negato che il razzismo c’entrasse qualcosa con la morte del figlio: “Era un ragazzo tormentato e con molti problemi. Quella lettera era uno sfogo superato”. Oggi però, in un colloquio col Corriere della Sera, Walter Visin torna sui suoi passi e ammette che il razzismo ha avuto un ruolo nella tragica decisione del figlio. Fondamentale in tal senso i contatti avuti con l’associazione “Mamme per la pelle” di Gabriella Nobile: “In quei giorni eravamo scioccati, confusi. Mia moglie lo ha trovato in quelle condizioni… una cosa devastante. Abbiamo alzato dei muri per difenderci dal dolore e per respingere un assalto mediatico che non ci aspettavamo. Non era tempo per ragionare su quello che ci era caduto addosso. Ora invece lo sappiamo: sì, il razzismo ha contato nella vita e nella morte di nostro figlio. Seid era un ragazzo che aveva dei cassetti segreti chiusi nella sua mente, c’erano dentro dispiaceri e abusi subiti in Etiopia da piccolo, contenevano tutte le sue fragilità. Questo ha certamente contato nella sua decisione di togliersi la vita. Ma in quella decisione c’è anche il razzismo che ha vissuto come ragazzo nero qui in Italia”. Episodi avvenuti a Milano come a Nocera: “Quand’era a Milano qualcuno aveva urlato “togliete quel nero di m…. dal campo”. A Nocera era più protetto, ci conoscono tutti. Eppure sono successe piccole cose anche qui, cose che ora vedo in una luce diversa perché le guardo con i suoi occhi. Una volta aveva provato a lavorare in un bar. Era tornato a casa e ha detto: “Mamma non voglio più andarci, perché un vecchio non ha voluto essere servito da me”. Quell’uomo era un analfabeta ignorante ma lui l’aveva vissuta male lo stesso. E poi quando mia moglie lo accompagnava in stazione a volte vedeva da lontano che la Polfer si avvicinava subito per controlli. Lei lo chiamava: “Seid, amore, allora vengo a prenderti io al ritorno”. E i poliziotti capivano e si allontanavano”. Walter Visin ricorda al Corriere il sorriso amaro del figlio Seid mentre qualcuno si rivolgeva nei suoi confronti con ‘battute’ tipo “adesso facciamo giocare questo sporco negro”. “Erano frasi dette per scherzo – sostiene il padre -da persone che gli volevano anche bene. Io gli dicevo sempre di non badarci, che erano solo battute, che doveva farsele scivolare addosso come l’olio… Ora so che ogni parola può aprire una ferita. Che erano ferite anche le parole di qualche nostro parente disoccupato che diceva "vengono qui e ci rubano il lavoro". Anch’io ho sbagliato a sdrammatizzare”. Per questo Walter e la moglie hanno deciso di dare voce al pensiero di Seid, portando avanti la sua lotta contro il razzismo e ogni tipo di discriminazione: “Lo faremo a partire dalla sua lettera. La leggeremo e la discuteremo nelle scuole, nei campi di calcio, nelle conferenze. Lo faremo per lui e per ogni Seid che si sente fuori posto per il colore della sua pelle”.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Vittorio Feltri e il caso di Seid, morto suicida: "Non siamo razzisti, accogliamo tutti". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 10 giugno 2021. La questione del razzismo sta diventando stucchevole. Muore suicida un giovane calciatore di colore e giù tutti a dire, a sinistra, che si è tolto la vita a causa del razzismo di cui si sentiva vittima. Non è vero. I genitori adottivi del ragazzo negano che il suo gesto estremo sia dipeso dalla presunta discriminazione, nonché emarginazione, provocata dal colore della sua pelle. Nessuno meglio di loro può sapere perché il figlio abbia deciso di farla finita. Ma non ignoriamo quanto sia difficile entrare nella testa di una persona e capire perché abbia preferito farsi fuori piuttosto che rimanere sulla terra. Si può tentare indovinare, tuttavia mai conosceremo con certezza cosa sia scattato nel cervello di un uomo che ha scelto di scomparire. Ciò che non si può fare è accusare i nostri compatrioti di essere razzisti poiché è falso. Se lo fossero, non permetterebbero a tutti gli stranieri, neri o bianchi, di sbarcare in Italia e di stabilizzarsi qui, facendosi mantenere dallo Stato. Leggo in proposito, su vari giornali, articoli di una stupidità senza eguali. In essi si affermano che non esistono le razze umane e che siamo tutti fratelli. Boiate. Se non sussistessero le razze non avrebbe senso parlare di razzismo. Che invece c'è negli Stati Uniti, però non dalle nostre parti, dove non si segnalano episodi di violenza contro gli africani, salvo alcune rare eccezioni, che notoriamente non costituiscono la regola. L'odio è un'altra faccenda, trattasi di un sentimento umano molto diffuso, ma che prescinde dalle etnie. Per esempio, la rabbia sociale non dipende che dall'invidia: i ricchi sono detestati da chi tale non è, quindi prova risentimento verso chi campa bene. I contrasti tra abbienti e indigenti sono vecchi come il mondo e determinano spesso conflitti sanguinosi. Pure gli scontri che avvengono normalmente nel nostro Paese tra bianchi e neri non sono prodotti dal razzismo ideologico, bensì da attriti relativi al desiderio dei primi di mantenere una supremazia economica sui secondi. Non è una novità che i poveri hanno in antipatia i signori. È così da sempre e sempre sarà così. I pigmenti non c'entrano per nulla. Per il discorso, ci corre l'obbligo di sottolineare un fenomeno peggiore del razzismo importato nella penisola islamici di fede ferrea. Mi riferisco al disprezzo che nutrono i musulmani (non tutti, per fortuna) nei confronti delle donne. Prendiamo l'ultimo caso in ordine cronologico, quello di Saman, di famiglia pachistana. La quale è stata strangolata dai parenti stretti soltanto perché, come era suo diritto sancito dalle nostre leggi, non voleva sposare un pachistano imposto a lei dai genitori. Ora mi domando: la comunità musulmana ha emesso una sentenza contro la fanciulla, probabilmente già defunta, nella quale ella viene condannata alla pena capitale in quanto ha disobbedito alle norme coraniche che in Italia valgono meno di zero? L'ingiustizia è palese. Eppure nessuno protesta, perfino le nostre femministe del piffero tacciono. È uno scandalo, l'ennesimo riguardante le donne sfortunatamente nate all'ombra della mezzaluna.
Da corriere.it il 9 giugno 2021. I genitori di Seid Visin, il calciatore 20enne di origine etiope che si è tolto la vita il 4 giugno 2021 hanno chiarito attraverso una intervista all’emittente locale Telenuova la vicenda del loro ragazzo. Hanno spiegato cosa secondo loro è accaduto a Seid, il perché del gesto estremo e la natura del disagio di cui da qualche tempo soffriva, disagio acuito dall’isolamento per il Covid. La lettera scritta da Seid nel 2019, la denuncia di una Italia razzista («Sento gli sguardi schifati per il colore della mia pelle» scriveva) non c’entra nulla invece, dicono la mamma e il papà. «Il razzismo non è la motivazione- spiega la signora Visin - Mio figlio aveva cancellato l’Etiopia, era felice qui. Era paladino della giustizia, lottava per i diritti di tutti. Poi ad un certo punto, complice l’isolamento dovuto al Covid, il passato è tornato e lo ha completamente stravolto. Era ossessionato dal suo passato e non è riuscito più a gestirlo»
In Italia si muore di razzismo così: il suicidio di Seid Visin. Seid Visin, il 20enne calciatore di origine etiope che aveva militato nelle giovanili del Milan e del Benevento, ha lasciato una lettera per spiegare le ragioni del suo gesto. Il Dubbio il 5 giugno 2021. Seid Visin era una promessa del calcio. Aveva giocato nelle giovanili del Milan con Gigio Donnarumma. Oggi il portiere è il numero uno della Nazionale per i prossimi Europei ed è conteso da tanti club, Seid Visin, invece, ha deciso di farla finita e si è tolto la vita a soli 20 anni. Non ha retto il peso del razzismo che nel nostro Paese causa ancora tragedie come questa. Il 20enne calciatore di origine etiope, adottato da bambino da una coppia di Nocera Inferiore in provincia di Salerno, che aveva militato nelle giovanili del Milan e del Benevento ha lasciato una lettera per spiegare le ragioni del suo gesto. La lettera è stata pubblicata sulla pagina Facebook dell’associazione “Mamme per la pelle”, fondata da Gabriella Nobile, per “urlare forte che se non ci uniamo in una vera lotta antirazzista, i nostri figli continueranno a soffrire”. Questa una sua lettera, di qualche mese fa, scrive “Mamme per la pelle” che “vogliamo condividere con voi non per cannibalizzare la notizia ma per urlare forte che se non ci uniamo in una vera lotta antirazzista, i nostri figli continueranno a soffrire”. “Dinanzi a questo scenario socio-politico particolare che aleggia in Italia, io, in quanto persona nera, inevitabilmente mi sento chiamato in questione. Io non sono un immigrato. Sono stato adottato quando ero piccolo. Prima di questo grande flusso migratorio ricordo con un po’ di arroganza che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, ovunque mi trovassi, tutti si rivolgevano a me con grande gioia, rispetto e curiosità. Adesso, invece, questa atmosfera di pace idilliaca sembra così lontana; sembra che misticamente si sia capovolto tutto, sembra ai miei occhi piombato l’inverno con estrema irruenza e veemenza, senza preavviso, durante una giornata serena di primavera. Adesso, ovunque io vada, ovunque io sia, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone. Qualche mese fa ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, prevalentemente anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non bastasse, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche la responsabilità del fatto che molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro. Dopo questa esperienza dentro di me é cambiato qualcosa: come se nella mia testa si fossero creati degli automatismi inconsci e per mezzo dei quali apparivo in pubblico, nella società diverso da quel che sono realmente; come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, che ero bianco. Il che, quando stavo con i miei amici, mi portava a fare battute di pessimo gusto sui neri e sugli immigrati, addirittura con un’aria troneggiante affermavo che ero razzista verso i neri, come a voler affermare, come a voler sottolineare che io non ero uno di quelli, che io non ero un immigrato. L’unica cosa di troneggiante però, l’unica cosa comprensibile nel mio modo di fare era la paura. La paura per l’odio che vedevo negli occhi della gente verso gli immigrati, la paura per il disprezzo che sentivo nella bocca della gente, persino dai miei parenti che invocavano costantemente con malinconia Mussolini e chiamavano “Capitano Salvini”. La delusione nel vedere alcuni amici (non so se posso più definirli tali) che quando mi vedono intonano all’unisono il coro “Casa Pound”. L’altro giorno, mi raccontava un amico, anch’egli adottato, che un po’ di tempo fa mentre giocava a calcio felice e spensierato con i suoi amici, delle signore si sono avvicinate a lui dicendogli: “goditi questo tuo tempo, perché tra un po’ verranno a prenderti per riportarti al tuo paese”. Con queste mie parole crude, amare, tristi, talvolta drammatiche, non voglio elemosinare commiserazione o pena, ma solo ricordare a me stesso che il disagio e la sofferenza che sto vivendo io sono una goccia d’acqua in confronto all’oceano di sofferenza che stanno vivendo quelle persone dalla spiccata e dalla vigorosa dignità, che preferiscono morire anziché condurre un’esistenza nella miseria e nell’inferno. Quelle persone che rischiano la vita, e tanti l’hanno già persa, solo per annusare, per assaporare, per assaggiare il sapore di quella che noi chiamiamo semplicemente “Vita”.
Ma i genitori negano legami: "Morte non dipende da razzismo". Seid Visin, la lettera del 20enne suicida: “Sguardi schifati per il colore della mia pelle”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 5 Giugno 2021. “Ovunque io vada, ovunque io sia, sento sulle mie spalle come un macigno il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone”. Sono le parole amare che aveva scritto in una lettera Seid Visin, 20 anni, nato in Etiopia ma cresciuto in Italia, dove era stato adottato da piccolo da una famiglia di Nocera Inferiore (Salerno). Seid è stato trovato morto nella sua stanza giovedì: il ragazzo era tornato a casa dopo un paio di stagioni passate a Milano, a giocare nelle giovanili del Milan con Gigio Donnarumma. Prima della stagione 2016/17, l’ultima vissuta a livello agonistico, aveva avuto l’opportunità – durante l’avventura in rossonero – di conoscere Mino ed Enzo Raiola. In ritiro, in quel periodo, condivideva persino la stanza con il quasi coetaneo Donnarumma, compagno anche di origini essendo il portierone azzurro di Castellammare di Stabia. Ha detto addio al calcio dopo essere tornato per un breve periodo al Benevento. Si era unito a una squadra di calcio a cinque, l’Atletico Vitalica, che gioca le partite in casa a Sarno. Ma assieme allo sport, agli amici, allo studio e alla famiglia, Seid viveva anche il dramma del razzismo. In una lettera mandata ad alcuni amici e alla sua psicoterapeuta Rita D’Antuono D’Ambrosio, datata gennaio 2019, pubblicata dalla stessa professionista e dall’associazione “Mamme per la Pelle”. c’è tutto il disagio di un giovane alle prese col disprezzo delle persone che incontrava in strada, nei negozi, col senso di vergogna per essere nero. Seid scriveva: “Io non sono un immigrato. Sono Sono stato adottato da piccolo (…). Ricordo che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, tutti si rivolgevano a me con gioia, rispetto e curiosità. Adesso sembra che si sia capovolto”. Un mondo capovolto che il 20enne racconta così: “Ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, specie anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche come responsabile perché molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro”. Col passare degli anni qualcosa dentro di lui “è cambiato, come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, bianco”. Seid si spinge più in là e ammette anche di aver fatto “battute di pessimo gusto su neri e immigrati (…) come a sottolineare che non ero uno di loro. Ma era paura. La paura per l’odio che vedevo negli occhi della gente verso gli immigrati”. Una lettera-testamento letta dagli stessi familiari di Seid nel corso del funerale tenuto oggi a Nocera, un testo letto integralmente stamane nella chiesa di San Giovanni Battista, accolto da un lungo applauso. Ma secondo i genitori del ragazzo non c’è alcuna correlazione tra il suo suicidio e gli episodi di razzismo che aveva descritto nel 2019. Sono stati loro stessi a spiegarlo alla testata locale salernitana Telenuova: “Il gesto estremo di Seid non deriva da episodi di razzismo”.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” il 5 giugno 2021. Una lettera straziante, lucida, potente. Così potente che puoi vederlo, Seid, mentre scrive «ovunque io vada, ovunque io sia, sento sulle mie spalle come un macigno il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone». Seid Visin aveva 20 anni. Era nato in Etiopia ed era stato adottato in Italia da piccolo, a Nocera Inferiore, dove l'altro giorno si è tolto la vita e dov' era tornato dopo un paio di stagioni passate a Milano a giocare nelle giovanili del Milan con Donnarumma. Aveva indossato anche la maglia del Benevento ma alla fine aveva scelto di studiare. Fine del calcio professionistico. Di recente si era impegnato per l'Atletico Vitalica, una squadra di calcio a cinque. Lo sport, lo studio, la famiglia. Ma Seid avrebbe voluto anche altro, e cioè vivere in un mondo senza razzismo. Lo sguardo di disprezzo, la donna che si tiene la borsetta se sali sull' autobus, la commessa che ti segue convinta che ruberai... ogni piccolo gesto è la lama di un coltello che ti tormenta. E Seid la sentiva ogni giorno di più, quella lama. Tempo fa aveva scritto sull'argomento una lettera mandata ad alcuni amici e alla sua psicoterapeuta. Parole drammatiche che oggi sono anche il suo testamento. Eccone alcuni stralci. «Io non sono un immigrato» scriveva. «Sono stato adottato da piccolo (...). Ricordo che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, tutti si rivolgevano a me con gioia, rispetto e curiosità. Adesso sembra che si sia capovolto tutto». (...) «Ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, specie anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche come responsabile perché molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro». E ancora: «Dentro di me è cambiato qualcosa», scriveva Seid. «Come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, bianco». Poi una sorta di confessione: «Facevo battute di pessimo gusto su neri e immigrati (...) come a sottolineare che non ero uno di loro. Ma era paura. La paura per l'odio che vedevo negli occhi della gente verso gli immigrati». Il finale chiarisce che «non voglio elemosinare commiserazione o pena, ma solo ricordare a me stesso che il disagio e la sofferenza che sto vivendo io sono una goccia d' acqua in confronto all' oceano di sofferenza che sta vivendo chi preferisce morire anziché condurre un'esistenza nella miseria e nell' inferno. Quelle persone che rischiano la vita, e tanti l'hanno già persa, solo per annusare, per assaggiare il sapore di quella che noi chiamiamo semplicemente "Vita"».
Vincenzo Ammaliato per “la Stampa” il 6 giugno 2021. «Seid è uno spirito libero». Walter Visin, è appena tornato dalla chiesa dove si sono celebrati i funerali del figlio e parla di lui ancora al presente. «Il mio dolore e quello della mamma - dice - non è spiegabile. E non è giusto sia strumentalizzato dalla politica italiana. No! Il nostro dolore merita rispetto».
Ma è lui ad aver espresso disagio per la condizione di emarginazione subita ...«Abbiamo trovato nostro figlio impiccato e nessun messaggio vicino il suo corpo. Nessuna ultima lettera. Quello era un post Facebook scritto quasi tre anni fa. Nostro figlio, come la sua famiglia, era a favore di qualsiasi essere vivente. In quel periodo c' era il blocco da parte del governo italiano degli immigrati in mezzo al mare. Questo provocava sofferenza in tutti noi»
Si sentiva accolto in Italia? «Assolutamente sì. Una singola volta, mentre faceva un lavoretto in un bar, un anziano analfabeta disse al titolare che non voleva essere servito da lui».
Come è stato il suo ultimo periodo di vita?
«Brillante. Era iscritto all' Università di Milano. Si era fidanzato con Sara, una bella ragazza finlandese. Insieme avevano deciso di vivere nella sua nazione dove il covid non era così minaccioso come da noi.. Poi da qualche mese era tornato a casa. Era tornato diverso. Ma queste sono storie private della nostra famiglia, dove nessuno in questo momento deve entrare. Perché stiamo soffrendo molto. E il nostro dolore non deve essere strumentalizzato, da nessuno».
Da “la Stampa” il 6 giugno 2021. Dinanzi a questo scenario socio-politico particolare che aleggia in Italia, io, in quanto persona nera, inevitabilmente mi sento chiamato in questione. Io non sono un immigrato. Sono stato adottato quando ero piccolo. Prima di questo grande flusso migratorio ricordo con un po' di arroganza che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, ovunque mi trovassi, tutti si rivolgevano a me con grande gioia, rispetto e curiosità. Adesso, invece, questa atmosfera di pace idilliaca sembra così lontana; sembra che misticamente si sia capovolto tutto, sembra ai miei occhi piombato l'inverno con estrema irruenza e veemenza, senza preavviso, durante una giornata serena di primavera. Adesso, ovunque io vada, ovunque io sia, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone. Qualche mese fa ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, prevalentemente anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non bastasse, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche la responsabilità del fatto che molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro. Dopo questa esperienza dentro di me è cambiato qualcosa: come se nella mia testa si fossero creati degli automatismi inconsci e per mezzo dei quali apparivo in pubblico, nella società diverso da quel che sono realmente; come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, che ero bianco. Il che, quando stavo con i miei amici, mi portava a fare battute di pessimo gusto sui neri e sugli immigrati, addirittura con un'aria troneggiante affermavo che ero razzista verso i neri, come a voler affermare, come a voler sottolineare che io non ero uno di quelli, che io non ero un immigrato. L' unica cosa di troneggiante però, l'unica cosa comprensibile nel mio modo di fare era la paura. La paura per l'odio che vedevo negli occhi della gente verso gli immigrati, la paura per il disprezzo che sentivo nella bocca della gente, persino dai miei parenti che invocavano costantemente con malinconia Mussolini e chiamavano "Capitano" Salvini. La delusione nel vedere alcuni amici (non so se posso più definirli tali) che quando mi vedono intonano all' unisono il coro "Casa Pound". L'altro giorno, mi raccontava un amico, anch' egli adottato, che un po' di tempo fa mentre giocava a calcio felice e spensierato con i suoi amici, delle signore si sono avvicinate a lui dicendogli: «Goditi questo tuo tempo, perché tra un po' verranno a prenderti per riportarti al tuo paese». Con queste mie parole crude, amare, tristi, talvolta drammatiche, non voglio elemosinare commiserazione o pena, ma solo ricordare a me stesso che il disagio e la sofferenza che sto vivendo io sono una goccia d' acqua in confronto all' oceano di sofferenza che stanno vivendo quelle persone dalla spiccata e dalla vigorosa dignità, che preferiscono morire anziché condurre un'esistenza nella miseria e nell' inferno. Quelle persone che rischiano la vita, e tanti l'hanno già persa, solo per annusare, per assaporare, per assaggiare il sapore di quella che noi chiamiamo semplicemente «Vita».
Mario Giordano per "la Verità" il 7 giugno 2021. C'è un papà che dice che il razzismo non c'entra niente. E chiede: «Non speculate su mio figlio». E ci sono giornali pieni di editoriali che speculano su quel ragazzo. Con Beppe Severgnini che pontifica, Karima Moual che tira in ballo di nuovo Salvini e Meloni come se fossero i mandanti dell'impiccagione, ed Enrico Letta che ne approfitta per chiedere, a cadavere caldo, un'accelerazione della legge sullo ius soli. Che schifo. Che schifo. Che schifo. Se è già abbastanza disgustoso usare la morte di un ragazzo per scopi di bieca polemica politica quando di lui non si sa nulla (come hanno fatto Saviano, Marchisio, la Boldrini e tanti altri nella giornata di sabato), è davvero insopportabile che lo si continui a fare anche quando invece si conosce la realtà, come hanno fatto i giornali domenica mattina. «Mi vergogno di essere nero: il grido inascoltato di Seid», hanno titolato a tutta pagina. Continuando, forse per coerenza, a non ascoltarlo. E perciò a calpestarlo. In effetti siamo arrivati alla regola aurea del giornalismo: i fatti separati dalle opinioni. Nel senso che alle opinioni dei fatti non interessa nulla. Vanno per la loro strada, seguendo il sentiero dei pregiudizi, della piccola polemica politica. Immagino le discussioni nelle redazioni d' Italia: «C' è un ragazzo nero che si è suicidato». «Perfetto: italiani razzisti». «Ma il padre dice che il razzismo non c' entra niente». «Ragazzo mio, perché ti ostini a rovinare una bella storia con la verità?». E così la notizia del padre è stata nascosta in un angoletto, un titolino, una riga del pezzo, uno sbuffo di occhiello subito seguita dall' avversativa «ma». Il padre dice così, ma. Per il padre il razzismo non c' entra, ma. Anche il suo allenatore che lo conosceva benissimo dice che il razzismo non c' entra. Ma. «Per favore non strumentalizzate la sua morte per questioni politiche», supplicano i familiari. Ma. Compaiono gli editoriali con le strumentalizzazioni. Dagli a Salvini. Dagli alla Meloni. I fatti separati dalle opinioni. Che importa conoscere quello che pensano i genitori: ciò che conta è quello che pensa Severgnini. Lui il ragazzo non l'ha mai conosciuto ma ci spiega che «la tragedia non arriva dal nulla» perché per l'appunto arriva dal razzismo. Severgnini ne sa di sicuro più del papà, no? «Seid, la pelle nera, la morte e la denuncia: quello schiaffo che brucia», è l'editoriale in prima pagina di Marina Corradi su Avvenire: evidentemente anche lei ha avuto modo di approfondire le ragioni del disagio di Seid personalmente più dei genitori. Mentre quel genio incompreso di Karima Moual, reginetta delle minchiate da talk show, dopo aver concesso generosamente il diritto di parola ai genitori («Fanno bene a dire che il razzismo non è l'unica ragione»), li percula considerando le loro parole come se contassero nulla. Infatti subito dopo si mette a parlare di razzismo, Salvini, Casapound e ovviamente del suo amato Pd. Senza vergogna. Repubblica fa ancor meglio: dedica al caso (allarme razzismo! Allarme razzismo!) ben due pagine che dovrebbero essere mandate nelle scuole di giornalismo per insegnare come piegare i fatti alle proprie opinioni. Le dichiarazioni del papà del ragazzo sono ridotte a un francobollo in fondo pagina, il titolo a tutta pagina è «Guardano con odio la mia pelle nere: la denuncia di Seid scuote l'Italia», e sulla destra in bella evidenza c' è lo scopo finale di tutto ciò: Letta che rilancia la legge sullo ius soli. Per la battaglia politica del segretario Pd si possono pure calpestare i morti? Evidentemente sì. Seid era iscritto all' Università, aveva una fidanzata finlandese, si è ucciso per motivi personali, come ha spiegato il padre. Ma tutti lo hanno ignorato. E hanno fatto passare un suo vecchio sfogo, di tre anni fa su Facebook, dove si trova tutto e il contrario di tutto, come se fosse il suo messaggio d' addio. «L' ultima lettera di Seid: sono nero e mi fanno vergognare», titolava in prima pagina La Stampa. Eppure sapevano benissimo che quella non è affatto l'ultima lettera di Seid. Al massimo l'ultima spiaggia dell'informazione.
Per Marchisio "facciamo tutti schifo". Si prepara a scendere in campo col Pd. Luca Beatrice il 7 Giugno 2021 su Il Giornale. La nuova esternazione buonista, questa volta sul caso di Seid. Con un enunciato che sarebbe stato troppo perfino per Guglielmo Giannini, l'inventore dell'uomo qualunque, Claudio Marchisio ha di nuovo esternato. Biondo, belloccio, abbronzato, non c'è giorno che l'ex centrocampista della Juventus non dica la sua su temi che avrà studiato nei lunghi ritiri o da quando è prepensionato: ambiente, migrazioni, diritti civili, parità di genere, razzismo. È sempre sul pezzo, televisioni, carta stampata e social lo interrogano volentieri non di tattica ma di politica, perché rappresenterebbe l'immagine di un calciatore finalmente non banale, che pensa e si fa un'idea giusta sulle cose del mondo. Solo che stavolta l'ha detta grossa e neppure si è preoccupato di fare marcia indietro, nonostante la famiglia del povero Seid Visin abbia più volte precisato che il gesto suicida del ragazzo non è assolutamente legato a questioni di razzismo. «Facciamo tutti schifo», Marchisio dixit, «l'Italia ha fallito» afferma il nuovo maître à penser torinese. Siamo di fronte a un'espressione di raro cinismo, al cui confronto le crociate dei soliti intellettuali fanno sorridere. Cinismo, perché Marchisio sta cercando, ormai da mesi, il proprio posizionamento per i prossimi anni. Settimane fa alcuni beninformati lo davano possibile candidato sindaco per il Pd a ottobre, ma le voci sono state smentite: nonostante l'attrazione per i vip, i democratici sono realisti e sanno che un ragazzino viziato in una città come Torino potrebbe rivelarsi un boomerang. Almeno una poltrona in consiglio comunale, un assessorato nel caso di vittoria, a Marchisio però non dovrebbe sfuggire e lui infatti sta effettuando le prove tecniche per un centrosinistra moderno ma sensibile, ricco ma buonista (disse che giustificava i ladri che gli svaligiarono la villa, sarà stato assicurato), come uno Scanzi meno polemico, altrettanto egocentrico, più piacente e sempre ragionevole. Senza coglierne l'ironia e il sarcasmo, avrà preso alla lettera quella canzone di Giorgio Gaber, Il potere dei più buoni, quando dice: «Ogni tragedia nazionale, è il mio terreno naturale. Perché dovunque c'è sofferenza, sento la voce della mia coscienza». Pur essendo graniticamente juventino e avendolo apprezzato davvero tanto sul campo, il nuovo Marchisio si sta rivelando ogni giorno sempre più insopportabile. Disposto a passare su qualsiasi cosa per affermare se stesso, dicendo che «facciamo tutti schifo» ha insultato quelle tante persone che hanno affrontato il dramma della depressione, giovani e adulti, sinistra e destra, che purtroppo non guarda in faccia nessuno: Marchisio ignora quanti danno la vita per una tragedia che ha banalizzato a proprio uso e consumo, alla stregua di un selfie su Instagram che poi è il suo mondo, non quello vero. Ora tacerà per qualche giorno e lo ritroveremo puntuale a dire la sua sulla Nazionale razzista che non ha giocatori di colore. A Torino siamo rassegnati: prima o poi (speriamo poi) ce lo ritroveremo in politica e la città non aspetta altro che le sue ricette per salvarci la faccia e diventare più buoni e giusti.
La sentenza della Murgia: siete tutti razzisti. Giuseppe De Lorenzo il 7 Giugno 2021 su Il Giornale. La scrittrice usa ancora il suicidio di Seid, che col razzismo non c'entra nulla. Non tutti i bianchi sono razzisti? "È una frase che nega la realtà". Avviso ai lettori: non importa chi voi siate, quale storia abbiate o quale vita conduciate. Siete razzisti. E se non proprio di quelli brutti, cattivi e leghisti, stile picchiatori da “Bangla Tour”, comunque vivete in un ambiente dove “il razzismo è sistemico e istituzionale”. Una sorta di America negli anni dello schiavismo, però in salsa italiana. Lo sostiene Michela Murgia, oracolo del femminismo, secondo cui dire che “non tutti i bianchi sono razzisti” è un’affermazione che “nega la realtà”. Dunque ci rende tutti più o meno xenofobi. Murgia prende spunto da tre recenti episodi, maneggiandoli con l’accetta di chi deve plasmarli per confermare la propria tesi. Il primo riguarda un medico dell’Inps aggredito a Chioggia. Brutta storia. Lui sostiene di essere stato attaccato per il colore della pelle (“negro di m…”), e non abbiamo motivo di dubitarne, ma certo avrà influito anche il fatto di aver pizzicato a spasso un lavoratore “malato” durante la visita fiscale. Di pestaggi ai danni di medici dell’Inps le cronache sono piene, sebbene facciano meno notizia. Lo scorso marzo, per dire, un dottore di Terni è stato aggredito da una donna di 62 anni, pure lei beccata fuori casa nonostante dovesse trovarsi malaticcia a letto. Il medico era bianco, ma le botte se le è prese lo stesso. Ancora più strumentali appaiono gli altri episodi citati dalla timorata-dalle-divise. Prendete il caso di Moussa Balde: il giovane ghanese era stato picchiato in strada e, dopo i fatti, rinchiuso in un Cpr perché irregolare. Le autorità ne avevano disposto l’espulsione, come richiesto dalla legge, e lui si è ammazzato. Murgia lo considera un episodio razzista, ma si scorda di spiegare che il questore ha già “escluso completamente” il movente razziale. In fondo di pestaggi gratuiti in strada se ne registrano a bizzeffe, contro neri, bianchi, gialli, rider, preti, suore, barboni. Pensate: a Milano un tizio di 19 anni (per caso di origine marocchina) se ne andava in giro per la città a picchiare a destra e a manca senza un motivo valido. Solo per il gusto di farlo. Che poi questo è nulla rispetto allo schifo di vedere sciacalli accatastarsi accanto al cadavere del povero Seid Visin. Se nei primi incerti giorni si poteva in parte capire la polemica politica, ora che si conosce la verità è insopportabile continuare a battere il chiodo del razzismo. Il padre di Seid sostiene infatti che il figlio non sia morto “perché si sentiva discriminato”, ma per colpa di altri demoni e fantasmi. E i giornali che fanno? Lo ignorano. Di più: lui diffida “chiunque dal sostenere questa fandonia” e loro se ne infischiano. Tirano dritti solo per attaccare Salvini o Meloni. Perché la lettera sarà pure vecchia di anni, ma per Murgia “dice cose ancora vere”, dunque fa buon gioco a chi deve sostenere lo Ius Soli di Letta. Che diavolo c’entri tutto questo con la morte di un ragazzo non è dato sapere. Ma in fondo è una vita che Murgia & Co ci frantumano l’esistenza con la stessa retorica e s’inventano un Paese in cui le minoranze vivono in una “condizione di insicurezza” permanente. Ogni episodio è buono per disegnare un'Italia sull’orlo della furia fascista, omofoba e xenofoba (anche se poi le vicende spesso si rivelano tutt'altro: ricordate il caso dell'atleta presa a uova in faccia?). Alla fine, agiamo in un contesto in cui le idee non allineate al credo progressista vengono bollate come discriminatorie. È razzista chiedere di impedire gli sbarchi ai clandestini. Lo è rimpatriare gli irregolari. E lo è addirittura firmare accordi con la Libia. Non vuoi lo ius soli? Sei razzista. Preferiresti concedere la cittadinanza solo dopo un ciclo di studi? Sei razzista, dice Murgia, perché lo ius culturae “subordina il diritto di essere riconosciuti al dovere di essere assimilati”. Chiedere agli immigrati di integrarsi: che orrore, eh. Questo sì che è odio "sistemico e istituzionale" con cui "tutti dobbiamo fare i conti". Ma fateci il piacere. E smettetela di speculare su un giovane suicida.
Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano...
Nicola Porro ridicolizza Michela Murgia: "Quattro negazioni per dire questa roba? Ha problemi con l'italiano". Libero Quotidiano il 07 giugno 2021. "Più che con il buonsenso, Michela Murgia ha dei problemi con l'italiano. Scrive quasi peggio del cuoco di questa zuppa". Così Nicola Porro nella sua rubrica quotidiana ha messo in evidenza quella che considera una pessima scrittura da parte della Murgia sul caso di Seid Visin, il 20enne che era cresciuto nelle giovanili del Milan e che è morto suicida. Il padre è dovuto intervenire pubblicamente per chiarire che il razzismo non c'entra nulla, invitando tutti a fermare le speculazioni. Eppure c'è chi, come Michela Murgia e Roberto Saviano, non ha mostrato alcun rispetto per un giovane che si è tolto la vita: la prima ha affermato che gli italiani sono tutti razzisti, il secondo che è colpa di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Sulla Murgia è arrivato l'attacco di Porro: "Oggi per dire che gli italiani sono maschilisti e razzisti e che dobbiamo farci schifo (Marchisio dixit) per il suicidio di Seid, utilizza quattro negazioni per fare un'affermazione così banale e superficiale". "Oggi è straordinaria la capacità di non avere buonsenso", ha affermato Porro, che ha ricordato le parole del padre di Seid, che ha escluso qualsiasi legame tra una lettera di tre anni fa in cui il ragazzo si lamentava del razzismo e il suicidio. "Murgia scrive peggio di me - ha ironizzato Porro - per dire che tutti gli uomini sono razzisti ha fatto quattro negazioni. Questa ha dei problemi seri, è una roba imbarazzante".
Seid, gli avvoltoi rossi e le balle sullo ius soli. Andrea Indini il 6 Giugno 2021 su Il Giornale. Il caso Seid fomentato dalla sinistra. Letta torna a chiedere lo ius soli: "Avanti tutta". Ma svendere la cittadinanza italiana non aiuta a integrare gli stranieri. Perché, nonostante la lettera (straziante) in cui Seid denunciava di essere guardato "con odio a causa" della sua "pelle scura" sia stata scritta nel 2019 (ben due anni fa!), la stampa progressista ha tirato all'inverosimile i titoli trasformando la sua terribile morte nell'ennesimo caso di intolleranza xenofoba? Perché, nonostante il padre abbia subito sgombrato il campo da ogni equivoco assicurando che "il razzismo non c'entra nulla" con il suicidio del figlio adottivo, Roberto Saviano è subito saltato alla gola di Matteo Salvini e Giorgia Meloni accusandoli di essere "due orgogliosi razzisti" che "praticano crudeltà e spietatezza"? Perché, nonostante il centrodestra abbia tenuto il triste fatto di cronaca fuori dal perimetro della politica, Enrico Letta ci si è fiondato sopra rilanciando (tanto per cambiare) lo ius soli come se svendere la cittadinanza italiani agli immigrati irregolari servisse a combattere il razzismo? Ancora una volta gli avvoltoi rossi hanno piegato la realtà all'ideologia. Ancora una volta il silenzio è stato colpestato dal livore che ha invaso con prepotenza le bacheche dei social network. Ancora una volta si è persa un'occasione per non buttare tutto in politica. Alla base di tutto c'è una lettera (scritta due anni fa) in cui Seid si sfogava di certi sguardi che lo facevano stare male. Ma quella lettera, fa giustamente notare il padre del ragazzo, Walter Visin, "era una cosa vecchia". "Era stato uno sfogo - spiega in una intervista a Repubblica - Seid era esasperato dal clima che si respirava all'epoca in tutto il Paese. Ma nessun legame con il suo suicidio, basta speculazioni". Le sue parole non sono bastate a fermare l'assalto dem. E la morte del ragazzo è stata subito brandita per sparare addosso alla destra. "Mi auguro che anche una 'certa' politica rifletta sulle conseguenze delle sue sprezzanti parole", ha scritto ieri pomeriggio Laura Boldrini su Facebook. Letta è andato oltre: oggi, in una chiacchierata con Repubblica, ha infatti ribadito la ferma volontà di premere l'acceleratore sulla riforma della cittadinanza italiana. "La legge sui nuovi giovani italiani puntiamo ad approvarla entro questa legislatura, sto lavorando perché ci sia un accordo politico tra i partiti".
"Il razzismo non c'entra": gli sciacalli rossi zittiti dai genitori. Ma davvero Letta crede che, se lo ius soli fosse già legge, non ci sarebbero più episodi di razzismo? Davvero è convinto che regalare la cittadinanza italiana, abbreviando un iter che già esiste e funziona, possa in qualche modo cambiare il percepito all'interno della nostra società? Non pensa piuttosto che certi episodi di razzismo e di intolleranza, tutti da condannare senza se e senza ma, siano frutto (oltre che dell'ignoranza) di politiche buoniste che hanno spalancato le porte del nostro Paese a decine di migliaia di disperati che sono andati ad ingrossare quell'esercito di clandestini che vive all'ombra dell'illegalità? Nei giorni scorsi, parlando di ius soli a Quante Storie su Rai 3, il segretario piddì spiegava che il tema centrale è "l'integrazione". Per integrare, però, bisogna innanzitutto far rispettare le regole. Senza queste prosperano degrado e insicurezza, paura e diffidenza. E non bastano una legge e un foglio di carta a cancellarli. Davanti a un altro straziante caso di cronaca, quello di Saman Abbas, viene da chiedersi perché Letta non si sia battuto allo stesso modo per capire cosa sia successo a questa giovane ragazza pachistana di Novellara che sognava di essere libera come le sue coetanee. Perché non ha speso una sola parola per condannare questo caso di mancata integrazione? Perché non ha denunciato quei musulmani che ancora oggi, nelle pieghe della nostra società, riescono a obbligare le proprie figlie a matrimoni combinati e a farle sparire nel nulla quando queste si ribellano? Lo ius soli non avrebbe salvato Saman, colmando la siderale distanza culturale che si era venuta a creare con i genitori e i parenti, come non avrebbe salvato Seid che, è bene sottolinearlo, essendo stato adottato, aveva già la cittadinanza italiana. Dire, dunque, il contrario è una forzatura che non aiuta nessuno. Un'integrazione basata sul rispetto del prossimo e delle regole, un'integrazione libera dall'ideologia progressista dell'accoglienza indiscriminata, è l'unica risposta che possiamo dare a tutto quest'odio. E comunque è un percorso (lungo) che non si compie a suon di proclami.
Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile.
Renato Farina, contro lo sfruttamento che la sinistra fa dell'ultima lettera di Seid Visin. Libero Quotidiano il Renato Farina su Libero Quotidiano il 06 giugno 2021. Seid Visin, 20 anni, si è ucciso. Le fotografie sul campo di calcio mostrano un volto dolcissimo su un fisico perfetto, di quelli che le ragazze ti rincorrono. Adesso è facile intravedere nella piega dei suoi occhi una premonizione, il presagio di una scelta di brutale dolore. E gli specialisti delle «cronaca di un delitto annunciato» hanno rintracciato con sicurezza scientifica il movente: il razzismo. Davvero volete chiuderlo nella bara per il comodo delle vostre analisi sociologiche sul popolo italiano forgiabile per tutti gli usi? Ieri comunità esemplare di cui essere orgogliosi nel mondo per la sua capacità solidale di resilienza alla pandemia. Oggi plebaglia infame che getta dalla rupe Tarpea i bravi ragazzi colpevoli di essere neri. È la riduzione a merce, da piazzare un tanto al chilo, di ciò che non dovrebbe rientrare nel catalogo della propaganda, perché attiene al mistero della libertà. Seid non era anzitutto un ragazzo nero, era un ragazzo. Quarantatré anni fa si suicidò a Milano un altro ventenne, era di Avanguardia operaia, tutti si accanirono a dare interpretazioni ideologiche. Il grande Giovanni Testori rispose dal fondo di quell'abisso con una domanda: «S. ha scelto la morte. Quale amore cercava?». Un enigma che nessuno può rinchiudere nel perimetro del già saputo. Invece su Seid Visin tutti credono di sapere tutto. Sono disposti a esibire le prove. Hanno identificato la mano assassina. Non qualcosa dentro Seid ma un mostro fuori di lui, e cioè l'odio razziale, e via con l'identificazione degli istigatori di questo suicidio, la pista porta a destra, al popolo che vede male i migranti, gli stranieri, e su su ai leader, alle politiche di chiusura dei porti eccetera. Seid chi era? Nato in Etiopia, adottato da una famiglia di Nocera Inferiore (Salerno) a sette anni, accolto dal puro amore di genitori splendidi. Bravissimo calciatore, una promessa autentica, selezionato per il Milan, in camera con Donnarumma nella squadra giovanile, il massimo. Rinuncia però al calcio professionistico, non è chiaro perché, ma vuole studiare. Cosa voleva di più? Cosa cercava? Ed ecco la lettera depositata nel suo cassetto due anni fa. Sensibile com' era percepì l'enorme differenza tra l'esperienza dell'amore appreso in casa e quella del gelo esterno. Lo ha descritto così: «Ovunque io vada, ovunque io sia, sento sulle mie spalle come un macigno il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone». La sua denuncia era sincera. Ba sta questo a chiudere il suo caso catalogandolo come delitto razziale? Chi lo ha amato di più lo nega. I genitori del ragazzo hanno dichiarato alla testata locale salernitana Tele nuova: «Il gesto estremo di Seid non deriva da episodi di razzismo». I genitori sono pazzi? Censurano il figlio? Coprono omertosamente i mandan ti? Impossibile. Hanno voluto che la lettera così amara di Seid fosse letta durante i funerali. Ma guai a consegnare il figlio ai cortei dell'ideologia. Semplicemente rifiutano l'autopsia dell'anima di Seid. Dinanzi al suicidio di questo ragazzo, in realtà, due risposte tremende sono in gara per il primato della meschinità. La prima è quella dell'indifferenza, la morte degli altri che scivola via. Non mi assolvo. Essa è la più comune, se siamo onesti sappiamo che pochi secondi, e poi si passa ad altro, avendo ciascuno di noi già i suoi guai. Ma questo menefreghismo urta così tanto contro la nostra umanità che, appena uno se ne accorge, si vergogna, e non osa cercare pulpiti per menarne vanto. La seconda risposta, che invece esalta sé stessa, consiste nel salire sulle spalle di quel dolore disperato per gridare: guardate Seid, il razzismo l'ha ucciso, se voi foste stati come me, sarebbe vivo e felice. Lo stanno facendo i mass media (Repubblica ha titolato: «Il suicidio di Seid Visin, vittima di razzismo»), Saviano che se la prende con Salvini e Meloni, i politici lestissimi a trasformare il togliersi la vita a vent' anni in una ghiotta occasione di marketing. Un punto in più nella partita a biliardo del consenso. In questo caso una morte così vale un filotto di birilli, uno strike al bowling. Ma neanche questa nostra polemica dev' essere il centro del caso di Seid. Sarebbe a sua volta meschinità, ideologia dell'anti-ideologia. In ginocchio. Ecco, mettersi un momento in ginocchio.
Meloni contro gli sciacalli della sinistra: “A loro di Seid non interessa nulla, speculano su un suicidio”. Guido Liberati domenica 6 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. Sul suicidio di Seid Verin, il giovane di origine etiope morto a Nocera Inferiore, la bufala del razzismo come “motivo del gesto” è durata poche ore. Tuttavia, non nessuno degli sciacalli che avevano cavalcato la sua morte per attaccare Giorgia Meloni e altri esponenti sovranisti ha ancora chiesto scusa. Eppure i fatti parlano chiaro. «Il padre di Seid, il giovane morto tragicamente suicida alla precoce età di 20 anni, ha dichiarato che il razzismo non c’entrava nulla con l’estremo gesto di suo figlio e che la lettera, letta durante il suo funerale, risaliva a tre anni fa». Lo scrive Giorgia Meloni su Facebook, commentando il suicidio del 20enne ex calciatore del Milan. «Ai soliti ridicoli esponenti della presunta intellighenzia di certa sinistra – continua la leader di FdI – che succhiano visibilità mistificando da sempre la realtà, però non interessa. Loro passano sopra a tutto: alla vita, alla morte e alla tragedia. Per loro tutto è funzionale per vendere un altro articolo, un altro libro, o di ottenere un’altra presenza in tv. Sciacalli che volteggiano sulla sofferenza delle persone, in attesa di un altro dramma del quale cibarsi. Squallidi, cinici, cattivi: persone che questa Nazione non merita. Solidarietà alla famiglia di Seid – conclude Meloni – che, mentre piange il proprio ragazzo, è costretta a subire questa schifosa strumentalizzazione». La bufala del suicidio di Seid a causa del razzismo era circolata a lungo sui Social, cavalcata a lungo dal solito carrozzone di sinistra. La verità, nuda e cruda, è che il giovane di origine africana aveva subito dei traumi gravissimi in Etiopia, dal quale era stato portato via a 7 anni. Per quei traumi era in terapia fin dall’infanzia. Come racconta Filippo Galli, ex calciatore del Milan e nello staff rossonero del settore giovanile, “Seid a 14 anni era seguito da uno psicologo. Aveva spesso crisi di pianto improvvise”. E proprio la sua fragilità emotiva, nonostante il talento, lo aveva costretto ad abbandonare il calcio professionistico. Walter Verin, padre adottivo di Seid, ai quotidiani ha ribadito lo stesso concetto: “La lettera che è uscita sui Social è datata gennaio 2019 e si riferisce agli sbarchi sulle coste italiane. Non ha nulla a che vedere con un suo disagio per il razzismo”. Il giovane è stato trovato impiccato nella sua stanza e non ha lasciato alcun biglietto d’addio.
Meloni: “Il suicidio di Seid lascia senza fiato ma basta con i vergognosi sciacallaggi”. Guido Liberati sabato 5 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. “Il suicidio di Seid è una tragedia che lascia senza fiato e di fronte alla quale ogni parola è superflua. Oggi è il giorno del silenzio, del dolore e del cordoglio. Il mio abbraccio va ai suoi genitori, ai suoi amici, alla comunità di Nocera Inferiore nella quale era cresciuto e a tutti coloro che hanno avuto il dono di conoscere e apprezzare un ragazzo meraviglioso come lui”. Lo scrive su Facebook Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia. “Sarebbe ancora più terribile – aggiunge – se la sua tragica scelta fosse stata mossa da schifosi episodi di razzismo nei suoi confronti. Anche se i suoi genitori lo escludono, è giusto tenere alta l’attenzione su ogni inaccettabile razzismo, ma anche non tollerare vergognose e interessate forme di sciacallaggio fatte sulla morte di un giovane ragazzo. Ciao Seid”. Seid Visin, 20enne di origini etiopi, era stato adottato da una famiglia di Nocera Inferiore nel 2014 e aveva lasciato la sua casa per trasferirsi a Milano come calciatore professionista. Aveva giocato nelle giovanili del Milan anche con Donnarumma. Il sogno del grande calcio era tramontato presto. Prima al Benevento, poi la rinuncia definitiva. Seid si era limitato a giocare in una squadra di calcio a 5 della provincia di Salerno. “Il gesto estremo di Seid non deriva da episodi di razzismo”. E’ la dichiarazione che i genitori del giovane hanno affidato a Telenuova, chiarendo in particolare che la lettera che in queste ore sta circolando su svariate testate giornalistiche è tratta da un post Facebook di quasi 3 anni fa. I genitori escludono con fermezza quindi ogni correlazione tra il gesto e la pista razzista, e arrivano a parlare di strumentalizzazione delle parole di Seid. “Il cuore dell’uomo è il mistero più grande”. Così, Don Andrea Annunziata durante i funerali che si sono svolti oggi, nella chiesa di San Giovanni Battista a Nocera Inferiore.
Giorgia Meloni querela Saviano: “Sciacallaggio disgustoso. Non sono disposta a tollerare”. Adriana De Conto venerdì 4 Dicembre 2021 su Il Secolo d'Italia. Giorgia Meloni querela Roberto Saviano. La leader di FdI ha accusato lo scrittore di “sciacallaggio disgustoso” e per questo ha deciso di adire le vie legali. Le parole miserabili uscite dall’autore di “Gomorra” durante “Piazza pulita” su La7 non sono ricevibili, sono indegne. “Non sono disposta a tollerare oltre, ho già dato mandato per procedere legalmente”, ha detto e scritto la Meloni dopo essere stata pesantemente insultata insieme a Matteo Salvini nel corso della trasmissione condotta su La7 da Corrado Formigli. “Bastardi” li aveva appellati Saviano. Due paroline anche al conduttore. Il quale era lì mentre si parlava di immigrazione e scorrevano le immagini con il delirio di Saviano a commento. “Vedendo queste immagini (morti in mare, ndr) vi sarà tornato alla mente tutto il ciarpame dei taxi del mare, delle crociere, tutte quelle parole spese su questa disperazione. Viene solo da dire bastardi i, come avete potuto. Meloni, Salvini: bastardi”. Un intervento raccapricciante. a cui è seguita la replica di Giorgia Meloni: “Sono stufa di assistere a questo disgustoso sciacallaggio da parte di Saviano. Per voi è normale che a questo odiatore seriale sia consentito diffamare (senza contraddittorio) chi non è in studio? Ora basta”. “E’ normale che un conduttore – scrive ancora sulla sua pagina Fb la leader di Fdi – non spenda una mezza parola per prendere le distanze da simili e inaccettabili esternazioni”?
Il dolore della mamma di Seid zittisce i buonisti. Giuseppe De Lorenzo l'8 Giugno 2021 su Il Giornale. La donna intervistata in tv smentisce il movente razzista: "Rassegnatevi, datevi pace. La triste fine di Seid non è dovuta a quello che state scrivendo". Fermatevi. Fermatevi. Fermatevi. Riponete i calamai, le penne, i pennelli. Chiudete i computer, smettetela di sbattere le dita sulla tastiera. E riflettete. Ascoltate per due minuti le parole della mamma di Seid Vesin, la giovane promessa della Milan morta suicida pochi giorni fa. Staccatevi dal vostro dipinto in cui rappresentate l'Italia xenofoba e fatevi martellare dal grido di quella donna, sfinita per le bugie createsi attorno al gesto estremo dell'amato figlio adottivo: “Chiudete, chiudete, rassegnatevi, datevi pace. La triste fine di Seid non è dovuta a quello che state scrivendo. Assolutamente no”. L'urlo è rivolto alle telecamere, ma guarda negli occhi i sapienti scrittori vip capaci di vedere discriminazioni anche dove non ce ne sono. È un appello tragico, inatteso, tutto sommato non scontato. Chi avrebbe mai potuto biasimare i genitori se avessero voluto collegare il suicidio a quella lettera del 2019? O se avessero voluto cavalcare l'indignazione dei predicatori della segregazione? Nessuno. L’avremmo compreso. Certo quello “sfogo” provocato dal “clima che si respirava in Italia” era vero, sincero, fonte di riflessione se vogliamo. Ma estraneo al suo suicidio. L’ha detto il papà (“mio figlio non si è ammazzato perché vittima di razzismo”), l’ha ripetuto ieri la mamma: il disagio è iniziato durante il lockdown, forse per colpa delle chiusure. Non perché discriminato. Ma in fondo chi lo sa? Chi può capire il mal di vivere di un suicida, soprattutto così giovane? Chi può capire le ombre che si saranno ammassate nella sua mente? “Seid ha iniziato a vivere un disagio nel momento in cui ha ricordato il suo passato, che cos'è la vita in Etiopia e in Africa, da cosa si scappa. Quel suo passato è diventato un’ossessione, si è ingigantito nella sua mente ogni giorno”. Ed è “arrivato a un punto in cui non è riuscito più a gestirlo”. Fine. Seid lottava contro le discriminazioni? Sì. Era un “paladino della giustizia"? Certo. Si era schierato a difesa delle adozioni delle coppie gay? Anche. Ma non vuol dire che tutto questo lo abbia portato a morire. Papà e mamma chiedono di smetterla con le “speculazioni”. Invitano tutti a rispettare le “questioni personali” che hanno condotto Seid nel buio più nero della morte. E invece alcuni continuano a battere imperterriti il chiodo delle discriminazioni. Lo ha fatto Michela Murgia, diverse ore dopo le smentite del babbo. Ed era solo l'ultima di una lunga lista. Il segretario del Pd, Enrico Letta, aveva chiesto “perdono” in due tweet troppo frettolosi per essere giustificati. Claudio Marchisio ci aveva già tutti marchiati come “un po’” schifosi ancor prima di conoscere i risvolti della vicenda. E Roberto Saviano aveva definito “pagliacci” gli “orgogliosi razzisti” Salvini e Meloni, in sostanza additati come “responsabili” del suicidio: “Farete i conti con la vostra coscienza”. Perché, perché, perché? Perché abbiamo bisogno ogni volta di trasformare in polemica anche fatti che dovrebbero restare nel dolore e nel ricordo di cari? Ascoltate quelle parole, cribbio: “Rassegnatevi, datevi pace. La triste fine di Seid non è dovuta a quello che state scrivendo”. Non vi basta? La morte non è dovuta al “razzismo sistemico” della Murgia. Non l'hanno provocata le politiche di Meloni e Salvini. Non sono il frutto di un Paese incapace di accogliere lo straniero. Ecco, allora facciamo così: i cantori della presunta segregazione analizzino l'intervista della donna. Ammettano l'errore. Magari facciano un passo indietro. E se possono, si vergognino un po’.
"L'Italia non è razzista". "Superare il patriarcato". Francesco Curridori il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. I casi di Seid Visin e Saman Abbas continuano a far discutere. Per la rubrica "il bianco e il nero" abbiamo interpellato l'ex presidente della Camera Laura Boldrini e l'ex deputata di origini marocchine Souad Sbai. I casi di Seid Visin e Saman Abbas continuano a far discutere l'opinione pubblica. Sul tema abbiamo interpellato l'ex presidente della Camera Laura Boldrini e l'ex deputata Souad Sbai, presidente dell'Associazione Donne Marocchine in Italia.
Secondo lei, le vicende di Seid e Saman sono state strumentalizzate dalla politica?
Boldrini: "C’è sempre chi con il consueto cinismo non riesce a non strumentalizzare anche le circostanze più dolorose. Sulla sorte di questi due giovani la politica ha il dovere di discutere e di interrogarsi seriamente su cosa vada fatto per sostenere il processo di integrazione per chi cresce a cavallo fra culture diverse".
Sbai: “No, anzi. Ben venga la strumentalizzazione della politica. L'importante è che se ne parli. Mi preoccupa di più quando c'è il silenzio totale. Non capisco chi pensa che non dobbiamo parlare perché sono temi che scottano e disturbano qualcuno. Secondo me, quella è omertà. Io, in quanto rappresentante di un'associazione, voglio che si parli di questi temi. Se qualcuno pensa che parlare delle donne immigrate uccise e segregate sia una strumentalizzazione è un problema suo”.
Esiste davvero un problema razzismo in Italia?
Boldrini: "I fatti di cronaca degli ultimi anni ci dicono che la nostra società è attraversata da sentimenti xenofobi - acuiti dalla crisi socio-economica e cavalcati da alcune forze politiche- che possono sfociare in fenomeni di violenza verbale e aggressione fisica; che si possono manifestare nelle più svariate forme di discriminazione e disprezzo verso chi è straniero oppure verso chi è italiano ma con un colore della pelle che non sia bianco. E nessun ambiente è immune. Il mondo del lavoro, dello sport, della politica, della scuola: in tutte le realtà sociali ci si può imbattere nel virus del razzismo. Ricordo, per tutti, il drammatico caso del 2018 a Macerata, nelle Marche, quando Luca Traini esplose ripetuti colpi di pistola dalla sua autovettura all’indirizzo di giovani neri, in quanto tali, ferendone sei. Una strage sfiorata. E ricordo come nel libro bianco pubblicato l’estate scorsa, l'associazione Lunaria fotografa gli ultimi 12 anni in Italia, dove ci sono stati 7.426 episodi di “ordinario” razzismo: il che significa, mediamente, oltre 50 casi al mese".
Sbai: “Io vivo in Italia da 40 anni. Se fosse stato un Paese razzista, non ci sarei rimasta. L'Italia è un Paese mediterraneo che dà tante possibilità a tutti. Il fatto è che molti non conoscono il tema 'razzismo', ma prendono comunque posizione. In tutti i Paesi si trovano dei pregiudizi razziali. Anche in Marocco basta che ci sia qualcuno un po' più nero nero e viene guardato male. Ribadisco, in Italia non vedo razzismo. Adesso basta che qualcuno prenda una penna nera anziché bianca ed è razzismo. Non esageriamo. In tutto il mondo ci sono le teste calde. Come si dice a Roma, dovremmo smetterla di buttarla in caciara e di considerare razzismo qualsiasi cosa qualcuno faccia. Dire che l'Italia è razzista, sì, è una strumentalizzazione”.
Lo ius soli basterebbe per favorire l'integrazione?
Boldrini: "L’integrazione è un’operazione complessa, composta da tanti aspetti, che comporta anche la consapevolezza che includere va a vantaggio della coesione sociale e della sicurezza di tutta la collettività. L’integrazione poggia su un rapporto bidirezionale di riconoscimento di diritti e doveri fra cittadino straniero e Stato. Servono programmi da parte delle istituzioni per l’insegnamento della lingua, il sostegno alla ricerca di lavoro e di un alloggio dignitoso e serve anche rinnovare il diritto alla cittadinanza perché, come diceva il professor Rodotà, questo rappresenta il diritto ad avere diritti. Ci sono migliaia di giovani nati e cresciuti da noi, che frequentano le nostre scuole e parlano la nostra lingua, che condividono la nostra cultura e si riconoscono nei nostri valori: sono italiani nel cuore e nella formazione, ma non nel passaporto, perché non riconoscere loro la cittadinanza, facendoli sentire così a pieno titolo parte della comunità in cui vivono?".
Sbai: "Sinceramente la prima proposta di legge sulla cittadinanza l'ho presentata io, non quelli di sinistra ed è ancora lì, alla Camera, non discussa. Credo sia giusto dare la cittadinanza a chi nasce nel nostro Paese e fa un processo scolastico e culturale convinto e vuole diventare italiano, dopo che ha compiuto 18 anni. Questo mi serve per far sì che le bambine che non vanno più a scuola per colpa dei genitori, ci vadano. Se uno nasce, studia, vuol rimanere nel nostro Paese, rispetta la legge italiana, condivide la Costituzione, per me ha diritto alla cittadinanza. Ora, invece, diamo la cittadinanza anche a persone che nemmeno parlano la lingua italiana. Almeno chi fa gli studi nel nostro Paese fino alla maturità conosce l'italiano in maniera eccellente. Il rischio è che qualcuno, a 18 anni, si renda conto di non essere italiano e questo non è giusto".
Seid e Saman sono le sue due facce di una stessa medaglia?
Boldrini: "Lei si riferisce all’integrazione immagino. Le rispondo dicendo che nel caso di Saman noi siamo di fronte ad una giovane donna che voleva integrarsi, rimasta vittima di una famiglia che al contrario non voleva farlo. Integrarsi significa infatti anche rispettare le leggi del paese in cui si decide di vivere e le nostre leggi sono chiare: in Italia i matrimoni forzati sono vietati. E la Costituzione è un faro. Allo stesso tempo, il femminicidio di questa giovane donna ci pone un problema: perché lo Stato e le istituzioni, a cui lei si era rivolta, non sono riuscite a difenderla come avrebbero dovuto fare? E questo è un vulnus che spesso determina le drammatiche storie di violenza di genere e femminicidio che si consumano nel nostro Paese. L’obiettivo per me resta sempre uno ed uno soltanto: superare la culturale patriarcale e maschilista, in qualsiasi forma si manifesti e qualsiasi origine abbia, sia quando è legata alla tradizione o a fondamentalismi o a desiderio di sopraffazione".
Sbai: "No, sono due casi totalmente diversi. Seid ha avuto una famiglia che l'ha cresciuto e che gli ha voluto bene. Non dimentichiamo che la depressione, se non presa in tempo, porta alla morte. Saman, invece, è stata uccisa da quegli stessi genitori che l'hanno partorita perché non ha accettato il matrimonio voluto da loro. Quello di Saman è un omicidio religioso come tanti altri che purtroppo ci sono già stati in Italia, mentre quello di Seid è un suicidio che ci deve far riflettere anche perché sono tanti i ragazzi italiani che vivono un malessere spaventoso. Saman è stata uccisa perché era libera e non voleva quel matrimonio. Non dimentichiamo che il 39% delle ragazze non frequenta la scuola, nessuno le cerca e, anzi, aspettiamo che ci scappi il morto. In nome del multiculturalismo lasciamo che chiunque venga in Italia possa lapidare, sgozzare o mettere interrata in giardino la malcapitata di turno. Per paura di passare per razzisti con gli immigrati musulmani, allora bisogna tacere. No, io vengo dal mondo musulmano e ritengo giusto criticare perché vorrei che cambiasse la mentalità. Non si possono avere i piedi in Italia e il cervello in Afghanistan o in Pakistan. L'integrazione non è un optional. È un dovere civile integrarsi altrimenti ci ritroviamo delle donne straniere che non sono niente, un mero numero".
I genitori di Seid hanno precisato che il loro figlio non si è suicidato per il razzismo. Non crede che Seid non sia davvero una vittima degli effetti collaterali causati dal Covid come le quarantene e le restrizioni?
Boldrini: "Le ragioni per cui si è tolto la vita le conosce solo Seid. I media hanno però ricordato, in occasione della sua morte, una lettera di denuncia che lui scrisse nel 2019, in cui appunto parlava del peso dello sguardo razzista che aveva dovuto, negli ultimi anni, sopportare, il suo dolore e il disagio che viveva. E questo, come è comprensibile, ci pone degli interrogativi e ci invita ad una riflessione su che società vogliamo essere e sull’importanza di contrastare, in ogni modo, il fenomeno terribile dell’intolleranza e del razzismo. Oscurare questo tema sarebbe sbagliato, auto assolutorio e miope. È solo prendendo atto di un problema che si può trovare la soluzione. E in questo ambito, prima si fa e meglio è per tutti".
Sbai: "Io credo alla famiglia di Seid che ha rigettato totalmente il problema razzista. Seid sicuramente ha vissuto un momento drammatico come succede a tanti altri ragazzi italiani. È stato separato dalla famiglia d'origine e adottato a sette anni e, quindi, sicuramente avrà vissuto con un malessere interiore di base. Ma che sia il razzismo degli italiani che ha portato il ragazzo a suicidarsi, mi sembra una bestemmia gratuita. È un fallimento per tutti quando un ragazzo bianco, nero o giallo che sia si suicida e dobbiamo ritenerci tutti colpevoli. Dopo il Covid tanti ragazzi hanno problemi psicologici o con la droga, la situazione è molto drammatica. Tanti amici, anche di destra, non mi hanno mai vista come straniera. Ci siamo scambiati delle battute, ma mai in malafede. Poi, se vogliamo per forza creare il caso e dire c'è razzismo si può anche fare, ma non corrisponde al vero".
Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia
Cannibalizzare Seid Visin per poter dire di avere ragione. Djarah Kan su La Repubblica il 14 giugno 2021. La lettera del ventenne suicida è stata sezionata e strumentalizzata per sentirsi assolti dall’accusa di essere xenofobi. Usata come una clava di denuncia per sfuggire alla complessità che rivela. Quando un ragazzo di vent’anni si toglie la vita, è impossibile lasciare andare quella vita. Bisogna trovare un colpevole. E allora si scava a fondo, in cerca di qualcosa o qualcuno che si possa punire, o per il quale sia possibile provare odio sufficiente a stare bene. Depressione è una parola impersonale e senza colore. Come genere umano siamo riusciti ad accumulare tonnellate e tonnellate di letteratura con al centro la personificazione di una morte scheletrica, arcigna e senza amore che arriva nella notte e falcidia tutti senza alcun rispetto per i legami e il tempo. Ma la depressione è incomunicabile, è inimmaginabile, e talmente oscura e insieme invisibile che risulta impossibile cristallizzarla in un solo simbolo del disprezzo. Nelle ore successive alla morte di Seid Visin, è la depressione la prima accusata ad essere trascinata sul banco degli imputati, ma questa non si presenta da sola. È seguita da parole che inizialmente vengono raccontate come i suoi ultimi pensieri di commiato e che poi si scopriranno essere parte di una lunga lettera di qualche anno prima in cui il ragazzo, appena diciottenne, analizza con una lucidità purissima e luminosa la sua condizione di giovane nero italiano e adottato, in contrapposizione a quella dei migranti di sbarco che, come dice Seid stesso, non godono della sua stessa fortuna. Tuttavia il popolo ha già decretato. Said è morto di razzismo. È colpa del razzismo. Ma non di un razzismo complesso di cui si conoscono tutte le parti di carne e di ossa. Il razzismo di cui si parla è un razzismo banale, che mantiene l’orrore della forma, ma dentro rimane vuoto. Come un guscio di orrori che contiene l’ignoranza dei bianchi che vogliono «salvare» i neri, condannandoli a essere neri per sempre. Ed è qui che Seid pone l’opinione pubblica davanti alla prima frattura di un immaginario razzista, quella dei migranti come corpo unico e indistinto, di cui nemmeno una parte della sinistra italiana riesce a disfarsi nel proprio ragionare. Tuttavia la differenza c’è, Seid la vede e prova anche a raccontarla, ma la gente all’indomani della sua morte lo ignora. Invocare il fantasma di un vuoto razzismo è più semplice dei pensieri che Seid condivide con gli amici e soprattutto sui social. Pensieri che ci raccontano di un ragazzo che sa di vivere in un mondo di bianchi che insieme possono decidere quanto è «integrato» e quanto può essere considerato un loro simile. Ma ancora una volta la pretesa di comprendere la condizione esistenziale dei neri solo perché si è bianchi e vagamente di sinistra oscura questo ennesimo punto, fondamentale, dichiarando che sì, è ancora colpa del razzismo. Infine Seid ci porta di fronte a un’altra frattura. Quella più intima e ignorata, che si apre e si dirama nei corpi razzializzati che non riescono a essere dei luoghi in cui potersi sentire amati e al sicuro. Il tuo corpo nero è motivo di scherno, scatena violenza, paura, reazioni spesso imprevedibili e scomposte. Il tuo corpo nero non è un posto in cui riesci sempre a stare a tuo agio come vorresti, ma comunque ti tocca. E con dolore ed impegno, quando ci riesci, impari a conviverci. E a non fargli del male. Anche questo sentire complesso, forse la frattura più grande mai ravvisata in tutta questa storia, viene eclissata dal tribunale contro il Razzismo. Ma è un processo dove non vince Seid. Non vinciamo noi. E non vince nemmeno la verità. La memoria di Seid Visin viene sezionata, sbrindellata e trasformata nell’ostia che i progressisti di questo Paese cercano di fare loro, in questa bizzarra Comunione dell’umanità futura, dove però sono tutti cannibali poiché vogliosi di assimilare e digerire un pezzo della storia di Seid, l’ennesimo ragazzo nero, tragicamente trasformato nel simbolo del moderno Corpo di Cristo di cui ognuno vuole una parte per sentirsi finalmente assolto dal peccato del razzismo. È questa la perversione del progressismo italiano, una perversione che Igiaba Scego riesce a fotografare perfettamente in un suo recente articolo nel quale parla di una vecchia sinistra e di noi, i giovani incompresi condannati alle semplificazioni che incarnano una realtà: «Troppo reale per un progressismo chiuso e autoreferenziale. Un progressismo che ti inserisce in uno schemino perché della tua complessità non sa che farne». Affermare che Seid Visin sia morto di razzismo è una risposta facile e comoda. Perché il razzismo vuotato della sua complessità sembra quasi il cugino di Golia che con un minimo sforzo da parte di tutti si può abbattere. Così come è facile e comodo dire che Seid Visin sia morto nell’unica versione al mondo di una depressione che non si nutre dei traumi e delle fratture provocate da un sistema che delegittima alla radice la vita dei neri. Si sono erette barricate ideologiche alte come le più vecchie montagne del mondo, montagne che vengono tirate su dalla voglia di avere ragione e di riaffermare il proprio credo. Anche quando è della vita di un ragazzo morto suicida che si sta parlando. Ma in questo Paese, la battaglia ideologica per negare o affermare l’esistenza del razzismo non conosce sonno, né fame. La memoria di Seid viene cannibalizzata sull’altare della politica dell’io penso, io mi batto, io sono dalla loro, io sono contro di loro e dei rimasugli di queste baruffe che si consumano sui nostri corpi, silenziati o interpellati, ma sempre con un altissimo grado di violenza e insensibilità, resta l’incapacità della sinistra di rispondere alle assurdità della destra, con un racconto multidimensionale e privo di padri putativi o madri spirituali, che lasci spazio e che riesca ad approdare sulle sponde di una riflessione per raccontare finalmente il razzismo come un fenomeno esistenziale che non riguarda soltanto i bianchi contro i neri, ma i meccanismi che ci portano a essere neri e bianchi. Oltre la banalità dei ci dispiace, perdonaci, che è la banalità del bene e del male.
L'ex compagno Donnarumma: "Non dimenticherò il suo sorriso". Seid Visin, lo sfogo di Claudio Marchisio: “Facciamo tutti un po’ schifo, il Paese ha fallito”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 5 Giugno 2021. “Io non posso neanche immaginare cosa abbia provato #SeidVisin, ma sono certo che un Paese che spinge un giovane ragazzo a fare un gesto così estremo è un Paese che ha fallito”. È lo sfogo durissimo, affidato ai social che l’ex giocatore di Juventus e Nazionale Claudio Marchisio compie nel commentare la tragica morte di Seid Visin, il 20enne di origini etiopi morto suicida giovedì a Nocera Inferiore (Salerno), schiacciato da un peso, quello dell’odio razzista, che aveva denunciato in una lettera scritta nel gennaio 2019 e consegnata ad amici e alla psicoterapeuta Rita D’Antuono D’Ambrosio. Una lettera letta dagli stessi familiari di Seid nel corso del funerale tenuto oggi a Nocera, un testo letto integralmente stamane nella chiesa di San Giovanni Battista, accolto da un lungo applauso. Marchisio, non nuovo a prese di posizioni pubbliche forti, è ancor più tirato in ballo dalla tragedia di Seid perché il 20enne morto giovedì era a sua volta un ex calciatore, con trascorsi giovanili nel Milan, dove era in stanza di collegio col portiere della Nazionale Gigio Donnarumma, e poi al Benevento. Scrive ancora Marchisio: “Pensateci quando fate le vostre battute da imbecilli, quando fate discorsi stupidi e cinici sui gommoni e sul colore della pelle, soprattutto sui social network. Facciamo un po’ schifo. Tutti. Di centro, di destra, di sinistra”. L’ex centrocampista della Juventus ricorda quindi come l’Italia sia “il Paese dell’integrazione quando sei un giovane talento o quando segni il gol decisivo in una partita importante, ma che si rifiuta di essere servito al ristorante da un ragazzo di colore. Siamo il Paese dell’integrazione quando l’atleta vince la medaglia alle Olimpiadi. Siamo il Paese dell’integrazione che cerca improbabili origini italiane quando l’attrice che ci fa emozionare vince il Premio Oscar, ma che quando in classe con i propri figli ci sono dei ragazzi di colore storce il naso”.
LE PAROLE DELL’EX COMPAGNO DONNARUMMA – Ma a parlare di Seid è anche Gianluigi Donnarumma, il portiere della Nazionale che all’Ansa ha deciso di condividere il dolore per la perdita dell’ex compagno: “Ho conosciuto Seid appena arrivato a Milano, vivevamo insieme in convitto, sono passati alcuni anni ma non posso e non voglio dimenticare quel suo sorriso incredibile, quella sua gioia di vivere. Era un ragazzo come me, un amico”.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
· Morto il calciatore Silvio Francesconi.
Morto Silvio Francesconi, ex calciatore dell’Udinese. Ilaria Minucci il 02/06/2021 su Notizie.it. L’ex calciatore dell’Udinese Silvio Francesconi è morto a causa di alcune complicanze sopraggiunte dopo aver contratto il coronavirus. L’ex calciatore dell’Udinese, Silvio Francesconi, è deceduto all’età di 68 anni a causa di alcune complicanze emerse dopo aver scoperto di aver contratto il coronavirus. Nella giornata di mercoledì 2 giugno, è stata comunicata l’improvvisa e tragica scomparsa dell’ex calciatore Silvio Francesconi: l’uomo era risultato positivo al SARS-CoV-2 nel corso del mese di aprile e, da allora, si trovava ricoverato presso l’ospedale di Massa. Sulla base delle informazioni sinora diffuse, pare che la morte del 68enne sia stata provocata dal sopraggiungere di graviconseguenze scaturite dal Covid. Nel pomeriggio di giovedì 3 giugno, alle ore 15:30, verranno celebrati i funerali di Silvio Francesconi presso la chiesa di Montignoso, comune di circa 10.000 anime situato in provincia di Massa-Carrara, in Toscana. La notizia è stata commentata dall’Udinese che ha espresso le proprie condoglianze alla famiglia del suo ex calciatore, unendosi alla sofferenza provata per la drammatica perdita. Il prematuro decesso di Silvio Francesconi ha sconvolto l’Udinese e il mondo del calcio che l’ex calciatore non aveva mai del tutto abbandonano, nonostante avesse concluso da tempo la sua carriera da professionista. In Friuli, Silvio Francesconi si trasferì in occasione del mercato autunnale del 1979, in prestito dalla Ternana. Il suo arrivo venne caldeggiato e pubblicizzato dal tecnico Corrado Orrico che aveva già allenato il calciatore per due stagioni in serie C mentre si trovava nella Carrarese. Nella stagione 1979-1980, quindi, Silvio Francesconi si trasformò nel regista dell’Udinese che rappresentò l’unica squadra con cui lo sportivo riuscì a competere in serie A contando, in totale, tre presenze nelle partite contro il Bologna, il Pescara e il Catanzaro. Una volta portata a termine la sua esperienza con l’Udinese, l’uomo fece ritorno alla Ternana, prendendo parte al campionato di serie C1 della stagione 1980-1981, durante il quale segnò 5 gol in 32 match disputati. Dopo aver abbandonato la carriera da professionista, poi, Silvio Francesconi ha deciso di vestire i panni dell’allenatore, dedicando il proprio tempo a formare i giocatori che militavano in diverse società della Toscana.
· Morto l’attore Robert Hogan.
Morto l’attore Robert Hogan, aveva recitato in Law&Order e General Hospital. Ilaria Costabile su Fanpage.it il 2 giugno 2021. Si è spento all’età di 87 anni l’attore Robert Hogan, protagonista di più di cento produzioni televisive americane, alcune delle quali arrivate anche in Italia, come “Law & Order”, “General Hospital” e anche “The Wire”. Da tempo soffriva del morbo di Alzheimer, infatti, negli ultimi tempi le sue condizioni stando a quanto riferito dalla famiglia alla stampa, erano notevolmente peggiorate. È morto all'età di 87 anni lo scorso 27 maggio, l'attore americano Robert Hogan, volto notissimo nella tv d'oltreoceano, nonché grande attore di teatro, che in Italia abbiamo visto in diverse produzioni americane distribuite anche nel nostro Paese, come Law & Order e General Hospital. Da anni Hogan era affetto dal morbo di Alzheimer, le cause della morte sono da ricondursi ad una polmonite che gli ha procurato alcune complicanze, come riportato dal New York Times, dove si legge l'annuncio fatto dalla sua famiglia. Tante le produzioni televisive alle quali aveva preso parte nel corso della sua carriera iniziata negli Anni Sessanta. Numerosi sceneggiati in cui era comparso sia in veste da protagonista che in ruoli secondari, tra i più famosi ricordiamo: "Hogan's Heroes", "The Donna Reed Show", "Ai confini della realtà", "I Dream of Jeannie", "Laverne & Shirley". A cavallo tra gli Anni Settanta e Ottanta, poi, aveva preso parte anche ad alcune produzioni cinematografiche come, ad esempio, The Memory of Eva Ryker oppure nel film Prince Jack dove interpretava il ruolo di John F. Kennedy. Dopo una prolifica attività sul piccolo schermo, ritornò alla sua prima passione, quella del teatro, che lo portò nuovamente sul palcoscenico di Broadway. Agli inizi del Duemila, poi, interpretò il ruolo di Louis Sobotka nella serie tv The Wire (2003), e quello di Judge Hugo Bright in Law & Order dove presenziò dal 2003 al 2006.
La vita privata. Robert Hogan si è spento nella sua casa nel Maine e, dopo 38 anni insieme, lascia sua moglie la scrittrice Mary Hoga e i suoi tre figli Chris, Stephen e Jud, avuti però dal suo primo matrimonio, quello con l'artista Shannon Hogan. Lo piangono anche i suoi nipoti, Susanna e Liam. La famiglia ha richiesto a tutti coloro che volessero ricordarlo, che vengano fatte donazioni alla DOROT di New York City o all'Alzheimer's Association, vista la malattia che dal 2013 lo aveva del tutto sfibrato.
· E’ morto Amedeo Savoia d’Aosta.
La morte di Amedeo: sfidò i cugini Savoia per il trono che non c’è. Laura Laurenzi su La Repubblica l'1 giugno 2021. Memorabili le liti con il rivale Vittorio Emanuele. Fu internato con la madre nel campo di Graz su ordine di Himmler. È morto Amedeo d’Aosta, il cugino presentabile di Vittorio Emanuele di Savoia, il nipote dell’Eroe dell’Amba Alagi, principe di sangue reale che giurò fedeltà alla Repubblica mentre faceva il servizio militare in Marina. Una fibra forte la sua, che gli consentì di sopravvivere agli orrori di Hirschegg, il campo di concentramento vicino a Graz in cui venne internato assieme alla madre Irene di Grecia su ordine di Himmler.
Anticipazione da Oggi il 9 giugno 2021. Il settimanale OGGI, in edicola da domani, pubblica una lettera inedita scritta il 25 gennaio 1960 dall’esilio di Cascais, in Portogallo, da Umberto di Savoia al figlio Vittorio Emanuele. In reazione alle scorribande del figlio e alla sua intenzione di sposare senza permesso la nipote del poeta francese Claudel, l’ex sovrano mise per iscritto un avvertimento chiarissimo. «Ciò porterebbe», scrisse Umberto a Vittorio Emanuele, «la tua esclusione da qualsiasi diritto di successione come capo della casa di Savoia e di pretenzione al regno d’Italia. Pertanto i tuoi titoli, il tuo rango saranno ridotti alla situazione di privato cittadino e tutti i diritti passerebbero inesorabilmente a mio nipote Amedeo duca d’Aosta». Vittorio Emanuele rientrò nei ranghi, ma ci rimase per poco, e insofferente dell’autorità paterna, nel 1969, davanti a un notaio di Ginevra detronizzò il genitore e si nominò erede al trono d’Italia. L’iniziativa non gli ha sicuramente giovato e il cugino Amedeo, suo malgrado, ha dovuto assumere il ruolo di capo di Casa Savoia. Onori e oneri ora cadranno sulle spalle di Aimone, figlio secondogenito, del duca.
Da "oggi.it" il 17 giugno 2021. Il settimanale OGGI in edicola da domani pubblica in esclusiva due lettere che dimostrano come Umberto di Savoia in esilio a Cascais, preoccupato per le intemperanze sentimentali del figlio, prima fidanzato con la francese Dominique Claudel e poi con Marina Doria, avesse pensato di escludere Vittorio Emanuele dalla successione, designando come erede di Casa Savoia il conte Amedeo d’Aosta, recentemente scomparso. «Rischi l’esclusione da qualsiasi diritto di successione come capo della casa di Savoia e di pretenzione al regno d’Italia», scriveva l’ex monarca. Emanuele Filiberto è intervenuto su Facebook in difesa del padre, definendo «stupidaggini» quanto rivelato da OGGI e dicendo che l’ammonizione del nonno era precedente al fidanzamento dei suoi genitori. Il settimanale in edicola pubblica però un’altra lettera di Umberto al figlio datata luglio 1963 in cui l’ex sovrano, dopo aver letto un’intervista a OGGI in cui Vittorio Emanuele diceva che avrebbe sposato Marina Doria, gli ribadiva il medesimo ammonimento.
Da "Oggi" il 23 giugno 2021. Due lettere inedite di Umberto II a Vittorio Emanuele, pubblicate su OGGI, hanno messo a rumore gli ambienti monarchici italiani e internazionali e spinto Emanuele Filiberto a scrivere una lunga e appassionata lettera al giornale, che la pubblica nel numero in edicola da domani. Negli scritti inediti, l’ex sovrano richiama il figlio al rispetto delle leggi di famiglia: se ti sposerai senza il mio consenso, gli dice in sostanza, decadrai da tutti i diritti dinastici, che passeranno al ramo Aosta. Emanuele Filiberto non ci sta e giudica le lettere «due normalissime lettere private, che fanno parte di una normalissima discussione tra un padre preoccupato e un figlio innamorato, lettere scritte quando c’è da chiarire qualcosa, rimproverare o mettere in riga qualcuno, con sincero affetto e amore che mai sono venuti meno tra loro…Il Re mio nonno non ha mai fatto seguito con altrettanti atti “ufficiali, Decreti Reali o comunicazioni alle Famiglie Reali”». Conclusione? «Re Umberto II riconobbe inequivocabilmente in mio padre Vittorio Emanuele il futuro Capo della Real Casa di Savoia, con mia madre al suo fianco». Un parere che non convince tutti i monarchici. Scrive per esempio, sempre a OGGI, Aldo Mola, Presidente della Consulta dei Senatori del Regno: «Emanuele Filiberto di Savoia qualifica «menti perverse e malate» quanti non riconoscono suo padre quale Capo della Real Casa di Savoia…A parlare, anzi a scrivere (scripta manent...), fu Re Umberto II, che richiamò il figlio ad attenersi alla vigente in Casa Savoia sulle nozze dei Principi Reali, identica nei secoli da 29 generazioni e rispettata da 43 Capi Famiglia: il Principe che contrae nozze senza l’assenso del Capo della Casa decade dal titolo e dal rango e si riduce a “privato cittadino”».
Savoia, morto il principe Amedeo Duca d'Aosta. Il Quotidiano del Sud l'1 giugno 2021. È morto Amedeo di Savoia, il duca di Aosta si è spento oggi a 78 anni nella sua casa di Arezzo. La notizia è stata diffusa tramite un comunicato dei familiari. «La Real Casa di Savoia annuncia: questa mattina si è spento, in Arezzo, S.A.R. il Principe Amedeo, Duca di Savoia e Duca d’Aosta». Il principe Amedeo Duca d’Aosta è deceduto nella notte all’ospedale San Donato di Arezzo. Era stato ricoverato il 27 maggio per un intervento chirurgico. La morte è avvenuta per arresto cardiaco. La salma è stata trasportata nell’abitazione di Castiglion Fibocchi, dove sarà allestita la camera ardente. Nel 2006 Amedeo rivendica per sé il ruolo di Capo della Real Casa. Per una parte dei monarchici sarebbe il legittimo pretendente al trono d’Italia , per altri sarebbe invece il cugino. Nel 2006, la Consulta dei Senatori del Regno, un’associazione privata creata nel 1955, attribuisce a lui il titolo dinastico. Nello stesso anno, Vittorio Emanuele e il figlio Emanuele Filiberto di Savoia vogliono registrare lo stemma di “principe ereditario d’Italia” come logo aziendale assieme ad altri simboli del patrimonio araldico di Casa Savoia, e impedirne l’uso ad Amedeo e Aimone di Savoia, cui viene ingiunto di utilizzare il cognome per esteso, ovvero “Savoia-Aosta”. Nel 2008, Amedeo viene così citato in giudizio e condannato nel 2010, assieme al figlio, dal tribunale di Arezzo, per l’uso del cognome “di Savoia” e al pagamento del risarcimento dei danni arrecati pari a un totale di 200 000 euro. Ma nel 2018 vince il processo in appello.
Principe Amedeo d'Aosta, morto a 77 anni il "nemico" di Vittorio Emanuele ed Emanuele Filiberto di Savoia: la beffa del destino. Libero Quotidiano l'01 giugno 2021. È morto il Principe Amedeo d'Aosta di Savoia. Aveva 77 anni ed era il "rivale" di Vittorio Emanuele di Savoia e suo figlio Emanuele Filiberto, rivendicando la linea dinastica che avrebbe dovuto incoronarlo Capo della Real Casa. Una clamorosa, significativa coincidenza temporale: la dipartita del monarchico è avvenuta a poche ore da quel 2 giugno, Festa della Repubblica italiana, che nel 1946 con un referendum (contestatissimo, ancorché accettato) decretò la vittoria della democrazia e la cacciata del Re. Ad annunciare la morte del Duca di Savoia e d'Aosta è un comunicato diffuso dai familiari: "La Real Casa di Savoia annuncia: questa mattina si è spento, in Arezzo, S.A.R. il Principe Amedeo, Duca di Savoia e Duca d'Aosta". Amedeo, figlio di Aimone di Savoia, era nato a Firenze il 27 settembre del 1943. pochi giorni dopo il subbuglio dell'armistizio che vide l'Italia schierarsi a franco degli alleati anglo-americani contro la Germania nazista. Nel 2006, come detto, Amedeo entrò in aspro conflitto con il cugino Vittorio Emanuele di Savoia per il ruolo puramente onorifico di Capo della Real Casa. Nel complesso intreccio dinastico delle Corone europee, il Duca d'Aosta in quanto discendente del re di Spagna Amedeo I era anche 41esimo in linea di successione al trono spagnolo.
Principe Amedeo d'Aosta, preso a pugni in faccia davanti al Re di Spagna: l'umiliazione subita da Vittorio Emanuele. Libero Quotidiano il 02 giugno 2021. "Non è mai corso buon sangue tra noi": Emanuele Filiberto di Savoia parla così di Amedeo d'Aosta, cugino di suo padre Vittorio Emanuele. Il duca è venuto a mancare il primo giugno all'età di 77 anni a causa di un arresto cardiaco. "Mi spiace dover dire che quando il casato aveva bisogno di coesione, Amedeo ha spesso diviso", ha detto Filiberto al Corriere della Sera. A proposito delle sue condizioni, una persona vicina alla famiglia ha raccontato che "non stava bene da tempo, aveva subito diversi interventi e nonostante avesse sempre reagito con forza incredibile il suo fisico adesso era troppo provato". Amedeo d'Aosta era nato poche settimane prima dell’armistizio del 1943, poi fu portato nel campo di Hirschegg dai tedeschi con la madre Irene di Grecia. E infine venne liberato dai francesi. La sua - come racconta il Corriere - è stata una vita fatta di avventura, sfide, viaggi e anche di lavoro nella tenuta del Borro (poi ceduta ai Ferragamo). I suoi grandi amori furono due, come spiegato dal cugino Carlo di Borbone: "Il primo per Claudia di Francia, figlia del pretendente al trono di Parigi, erano giovani e non durò: si incontrarono alle nozze di Juan Carlos di Spagna e Sofia di Grecia. Poi, nel 1987 le seconde nozze con Silvia Paternò: una passione matura". I rapporti col cugino Vittorio Emanuele, invece, non furono mai buoni. Tanto che i due arrivarono addirittura al contrasto fisico alle nozze di Felipe di Spagna. In quell'occasione Amedeo finì a terra travolto da un pugno sferratogli da Vittorio Emanuele, che aveva preso come una provocazione la pacca sulle spalle ricevuta. Nel 2006 Amedeo aveva rivendicato per sé il ruolo di Capo della Real Casa. Un ruolo che la storia aveva assegnato invece al cugino. Infine, come spiega il Corriere, ci fu una disputa sul cognome che arrivò in tribunale.
F.M. per “il Messaggero” il 2 giugno 2021. Aveva sedici tatuaggi e undici nipoti. Era un uomo di molteplici interessi, già presidente dell' Erbario di Palermo e della Riserva Naturale dell' Isola di Vivara. Anticonformista, ufficiale di Marina e viaggiatore senza sosta, Amedeo d' Aosta aveva una grande passione per l' isola di Pantelleria, la sua incantevole oasi familiare con vista sul Mar Mediterraneo. Il suo dammuso, nella zona di Scauri, era sempre aperto per il gruppo di amici che lo ricordano con affetto. Fra questi, Eleonora Brown, l' attrice classe '48 di origini italo-statunitensi che divenne celebre, a soli undici anni, interpretando Rosetta, ne La Ciociara. Fu scelta personalmente da Vittorio De Sica che la richiamò nel '61 anche per Il giudizio universale.
LE ESTATI «Siamo costernati dice al telefono mentre la voce si rompe per la commozione non stava bene ma nessuno si aspettava questo doloroso epilogo. Mi creda, ho perso più di un fratello, un uomo sensibile, colto, intelligente, un vero signore che sapeva sciogliersi in una risata e si mostrava sempre sincero, senza superbia». Il ricordo viaggia sulle ali del sentimento alle estati in comune, «ci conoscevamo da dieci anni, il suo dammuso è meraviglioso. Adorava aprirne le porte, mostrare il suo giardino e tutte le sue piante grasse, una ad una. Le ha raccolte in tutto il mondo, sono dei veri e propri monumenti, ne andava fiero e malgrado i pungiglioni, gli piaceva accarezzarle, prendersene cura. E un giorno, ricordo, accolse le socie del Garden Club di Roma per mostrarle. Fu un vero trionfo, il suo giardino è l' eden». E poi, il pensiero vola alla moglie - «Silvia è una donna meravigliosa gli è stata sempre vicina, la miglior moglie che un uomo possa desiderare» - e agli interessi in comune, su cui trionfano ancora la botanica e la lingua. «Gli piaceva parlarmi in inglese, con quell' accento da famiglia reale inglese, ricercato e fluido» e ancora, ritorna il legame fortissimo con l' isola: «Pantelleria è un' isola particolare, non tutti la capiscono. Amedeo era uno di noi, apriva il suo dammuso al nostro ristretto gruppo di amici in cui c' era sempre grande attenzione alla privacy. Questo era il nostro paradiso in terra e lui era vero signore». Nella ristretta cerchia di amicizie isolane c' è anche l' archistar milanese Gabriella Giuntoli che raggiunta al telefono, lo ricorda così: «Amedeo è stato un uomo sensibile e gentilissimo, senza ombra di dubbio la cosa più bella che ci abbia lasciato la monarchia italiana. Il suo dammuso prosegue Giuntoli non è monumentale ma curato nei minimi dettagli e quando festeggiava il compleanno, gli piaceva aprire le porte di casa agli amici, a coloro che davvero gli volevano bene per condividere una serata, la gioia di un sorriso, un ricordo felice». Ascoltando gli amici, traspare una figura antitetica rispetto ai ritratti e ai formalismi, lasciando affiorare «una straordinaria umanità, una generosità conclude l' architetto fatta di piccoli gesti. Era un uomo squisito, ci mancherà. E non è la solita frase fatta».
Il principe Amedeo Duca di Savoia e d’Aosta è morto: aveva 78 anni. Debora Faravelli l'01/06/2021 su Notizie.it. Il Principe Amedeo, duca di Savoia e d'Aosta e discendente del re di Spagna Amedeo I, è morto ad Arezzo nella notte all'età di 78 anni. Addio ad Amedeo di Savoia-Aosta, membro di Casa Savoia e imprenditore italiano anche conosciuto con i titoli di duca d’Aosta, principe della Cisterna e di Belriguardo, marchese di Voghera e conte di Ponderano: i familiari hanno comunicato che l’uomo è morto all’età di 78 anni. A dare l’annuncio della scomparsa è stata una nota della Real Casa di Savoia. “Questa mattina si è spento, in Arezzo, S.A.R. il Principe Amedeo, Duca di Savoia e Duca d’Aosta“, si legge nel comunicato. Classe 1943, figlio di Irene di Grecia e di Aimone di Savoia-Aosta, per un breve periodo re di Croazia, nel 2006 Amedeo aveva rivendicato per sé il titolo di duca di Savoia e il ruolo di Capo della Real Casa in disputa con Vittorio Emanuele di Savoia. Come discendente del re di Spagna Amedeo I era anche 41esimo in linea di successione al trono spagnolo. Il decesso è sopraggiunto nella notte tra lunedì 31 maggio e martedì 1 giugno all’ospedale di Arezzo dove si trovava ricoverato da giovedì 27 per un intervento chirurgico. Secondo le prime informazioni sarebbe morto per un arresto cardiaco. Oltre che per i suoi titoli, Amedeo era noto anche nel mondo dell’imprenditoria agricola (Vini Savoia-Aosta) e seguiva alcune società in veste di consulente, consigliere d’amministrazione e presidente. Nel 1996 era stato nominato rappresentante del comune di Palermo per la Fondazione Internazionale “Pro Herbario Mediterraneo”, e, dal 1997, ne è stato presidente. Nel 2003 il Governo Italiano lo aveva inoltre nominato presidente del comitato di gestione permanente della Riserva Naturale Statale Isola di Vivara. Quanto alla sua posizione nella linea di successione al trono, dal 2006 risulta controversa: parte dei monarchici sostiene che Amedeo fosse il Capo della Real Casa e quindi il legittimo pretendente al trono d’Italia, mentre altri ritengono che la posizione di Capo spetti a Vittorio Emanuele di Savoia e che Amedeo sia terzo in linea di successione dopo Emanuele Filiberto.
Vittorio Sabadin per “la Stampa” il 2 giugno 2021. Nel 75° anniversario della cacciata dei suoi parenti dal trono d' Italia è morto Amedeo di Savoia, duca d' Aosta. L' anniversario del 2 giugno lo aveva battezzato «Il giorno della nostra cassa integrazione»: lo seguiva sempre in tv, gli piacevano le parate militari. Amedeo era nato il 27 settembre 1943, tre settimane dopo l'armistizio dell'8 settembre. Era figlio di Aimone di Savoia Aosta, un ammiraglio che aveva servito in due guerre mondiali, e di Irene di Grecia, seconda figlia di re Costantino. La madre era a Villa Cisterna, la residenza di famiglia a Firenze, quando gli Alleati sganciarono alcune bombe. Mentre correvano tutti in cantina una contadina scivolò e la fece cadere dalle scale: Amedeo nacque prematuro, con un mese di anticipo. Quando, dopo un anno, pronunciò le prime parole, erano in francese. Hitler avrebbe voluto insediarlo subito come re della Repubblica di Salò per fare in modo che l'Italia avesse un re del Nord come lo aveva del Sud, dopo la fuga da Roma di Vittorio Emanuele III. Ma la principessa Irene si era opposta con tutte le sue forze: «Dovrete passare sul mio cadavere - fece sapere - prima che mio figlio diventi re. C' è già un re, ed è pure un nostro parente». La madre fece prendere le impronte digitali al bambino, per timore che lo rapissero. Amedeo le aveva conservate, ma non ha voluto mai controllare se corrispondessero alle sue. Avrebbe dovuto anche diventare re di Croazia succedendo al padre, messo sul trono dal Führer e da Mussolini. Aimone preferiva però la vita in mare e a Zagabria non andò mai. Meglio così: come successore, Amedeo avrebbe assunto per legge il buffo nome di Zvonimiro, e sai poi le prese in giro in Toscana. Aveva otto mesi quando, per ordine di Heinrich Himmler, venne trasferito con la madre e le cugine vicino al campo di concentramento di Hirshegg, in Austria. «Eravamo ostaggi - ha raccontato - Non ci trattarono male come tutti gli altri, ma non certamente bene. Vivevamo in una casa a 1400 metri di altitudine. Mangiavamo solo rape. Nevicava tutto l'inverno ed eravamo senza riscaldamento». C'era un ordine di fucilazione con i loro nomi, ma senza data. Quando aggiunsero la data, l'ufficio postale venne bombardato e l'ordine non giunse mai. Li salvarono poi i soldati di De Gaulle, arrivati con gli americani. Se nel 1946 gli italiani avessero scelto la monarchia e non la repubblica, Amedeo sarebbe diventato re. Vittorio Emanuele, figlio dell'ultimo sovrano, Umberto II, ha infatti sposato Marina Doria senza chiedere il permesso al padre, perdendo così, secondo molti esperti chiamati a dirimere la questione, il diritto al titolo e all' eredità. Ma Vittorio Emanuele non è d'accordo, e gli scontri con il cugino Amedeo hanno riempito per anni molte pagine dei settimanali. Al matrimonio di Felipe di Spagna con Letizia, nel 2004, si era fatto di tutto per tenerli separati. Ma al momento di aspettare le auto, Amedeo si era avvicinato tendendo la mano e il collerico Vittorio Emanuele aveva risposto sferrandogli a freddo un pugno sul naso. Vittorio lo aveva anche denunciato, intimandogli di non usare il cognome Savoia e minacciando di chiamare i suoi maiali Savoia-Aosta. Amedeo aveva sedici tatuaggi e progettava di farsene altri. Parlava a voce alta, roboante, da ufficiale di marina. Viveva in una casa di campagna nella tenuta del Borro, vicino ad Arezzo. Custodiva decine di ricordi: la spada di Vittorio Emanuele II, una bandiera regalata dal cugino re Juan Carlos, altre memorabilia di parenti come lo zar Nicola II, Cristiano IX di Danimarca, o la trisnonna Vittoria del Regno Unito. Era il capo riconosciuto di casa Savoia e si batteva da anni per riabilitarne la memoria: «Le leggi razziali - diceva - e la dichiarazione di guerra sono punti negativi. Ma il re era colpevole come la maggioranza degli italiani, e non era fascista. Nessuno ricorda mai che la famiglia reale ha avuto dieci prigionieri di guerra e due vittime: mio zio Amedeo e Mafalda di Savoia, morta nel campo di Buchenwald». Aveva fatto quasi il giro del mondo in continui viaggi da solo o con la seconda moglie, Silvia Paternò di Spedalotto: gli mancava solo il Polo Sud. Progettava di imbarcarsi su una nave di Greenpeace per contribuire ancora alla causa ecologista e difendere le balene. E' morto in ospedale per le complicazioni di un intervento a un rene che sembrava riuscito. Lascia tre figlie, una avuta da una relazione extraconiugale, e l'erede Aimone, nuovo duca di Savoia e nuovo Capo della Real Casa. Di tutti i parenti che aveva nei palazzi reali europei, apprezzava in modo particolare la regina Elisabetta, sua lontana cugina. A 10 anni era andato alla sua incoronazione ed era sempre invitato a nozze, funerali e ricevimenti dei Windsor. Raccontava di avere scritto spesso ai presidenti del Consiglio italiani e che nessuno aveva mai risposto. Elisabetta, invece, gli rispondeva sempre in 24 ore.
L'ultima intervista ad Amedeo di Savoia. Francesca Galici l'1 Giugno 2021 su Il Giornale. Intervistato dall'Adnkronos in vista del 2 giugno, pochi giorni prima di morire il principe Amedeo ha raccontato la festa della Repubblica dal suo punto di vista di erede monarchico. Oggi, 1 giugno, è morto Amedeo Savoia-Aosta. Aveva 77 anni e si è spento all'ospedale San Donato di Arezzo a seguito di un arresto cardiaco. Si trovava ricoverato da alcuni giorni per un'operazione ma il suo cuore non ha retto. Solo pochi giorni fa, sabato 29 maggio, l'Adnkronos (qui l'audio) aveva raggiunto il principe telefonicamente per un'intervista in occasione della festa della Repubblica, che si celebrerà domani, 2 giugno. Il giornalista ha chiesto al principe quale fosse il suo personalissimo modo di vivere la festa della Repubblica, una domanda certamente interessante se posta a uno degli eredi della famiglia reale italiana. "Non fu una cosa molto chiara, in famiglia se ne parlò con una certa critica, anche perché non era molto chiaro che fosse andato tutto esattamente come le regole prevedevano. E questo è quanto", ha risposto il principe Amedeo con estrema cortesia. Di "non chiaro", dal suo punto di vista e da quello della sua famiglia, c'era il risultato del referendum del 1946 con il quale gli italiani scelsero di diventare una repubblica. E infatti, lo stesso principe ha chiarito questo passaggio nel corso dell'intervista: "A un certo momento, non furono molto chiari e si parlò addirittura di truffa, c'è chi parlò di truffa". Un dubbio che quindi è rimasto insito nella famiglia, nonostante alla fine lo scarto nei voti, come per stessa ammissione del principe Amedeo, fu molto ampio, circa 2milioni di differenza su un totale di 23milioni di schede valide scrutinate. "Sì, su questo io non discuto. Solo che credo che comunque non è stato molto chiaro tutto. Il referendum è avvenuto in un modo molto anticipato, rispetto anche a quello che desiderava fare il Re", ha ribattuto il principe Amedeo al giornalista che lo stava intervistando. L'erede della casa sabauda ha ricordato che sempre il 2 giugno, ma del 1953, si trovava a Londra per assistere alla cerimonia di incoronazione della regina Elisabetta II. Aveva solo 10 anni ma fu mandato come rappresentante della Casa. Per lui, il concetto di monarchia non era così vintage come qualcuno sostiene, anzi, "in fondo è aperta a tutti, come principio di gestione di un Paese, sia la repubblica che l'eventuale monarchia. Credo invece che, in un certo senso, la Repubblica è un collante soprattutto per gruppi di persone che vogliono in tutte le maniere una separazione dal Paese: per esempio, quelli che vorrebbero essere nuovi Stati, come in Spagna con il caso della Catalogna". Inoltre, Amedeo di Savoia era un fervente sostenitore della monarchia come sistema democratico, "se la si prende per come vuole e deve essere". All'Adnkronos, quindi, il principe Amedeo dichiarava che per lui il 2 giugno non era un giorno di lutto: "No, no. Anche se c'è sempre una grande propaganda nei giorni immediatamente precedenti ai festeggiamenti della Repubblica, in cui si dice che è una cosa che è avvenuta in modo estremamente democratico e lì ci sono delle esagerazioni". Quest'anno, però, il suo 2 giugno sarebbe stato diverso rispetto agli altri anni: "Credo che starò ancora in ospedale, perché ho avuto qualche guaio a un polmone e a un rene. Ora mi scuso, non sono in condizioni eccellenti... Spero, quando tornerò in forma, di risentirci presto".
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Amedeo Savoia d’Aosta: «Ho 16 tatuaggi e 11 nipoti. Se fossi diventato re, non mi sarei divertito tanto». Così il duca — morto a 77 anni — si raccontava nel 2016: i cugini Juan Carlos ed Elisabetta, la prigionia, i tedeschi che lo volevano re di Salò. E i suoi obiettivi: imbarcarsi con Greenpeace, dimostrare che i Savoia cercarono di scaricare Hitler già nel 1942. Candida Morvillo l'1 giugno 2021 su Il Corriere della Sera. Riportiamo qui l’intervista a Amedeo Savoia duca d’Aosta, morto oggi a 77 anni ad Arezzo, uscita per la prima volta sulla Digital edition del Corriere della Sera l’11 settembre 2016. Se vivessimo ancora in monarchia, Amedeo Savoia duca d’Aosta sarebbe il re d’Italia. Almeno, stando alla Consulta del Regno investita da re Umberto II del compito di dirimere le questioni dinastiche e che, dieci anni fa, ha «incoronato» lui a scapito del cugino Vittorio Emanuele. Fosse nato e cresciuto sovrano, però, forse, Amedeo non porterebbe 16 tatuaggi, non avrebbe fatto quasi il giro del mondo, in parte pilotando personalmente un bimotore, né ora, a 73 anni, avrebbe fatto richiesta per andare in missione con Greenpeace. Non sarebbe andato a parlare di ecologia fra i no global, non sarebbe qui davanti a me, nel parco del suo dammuso di Pantelleria, che ripete alla moglie Silvia, per la terza volta, tutto eccitato: «Domani arriva il camion con le piante». La botanica è la sua passione. È presidente dell’Erbario di Palermo e della Riserva Naturale dell’Isola di Vivara, autore di libri sull’argomento, appassionato collezionista di succulente che mi mostra una a una. L’Agave Victoriae-Reginae, la Dracaena draco donata da Emilia de Orléans-Borbon… Sembra un re della foresta, ma quest’estate ha vergato anche quattro messaggi alla nazione. Uno sul sisma del Centro Italia, uno per il Nelson Mandela Day e via così, anche se il messaggio più importante è sempre quello del 31 dicembre, come per i re o i presidenti della Repubblica. Quando ci sediamo sotto il patio del dammuso in cui sta d’estate con la moglie Silvia Paternò di Spedalotto, dal libro Cifra reale, che ha scritto con Danila Satta (editore La Compagnia del Libro), spunta una specie di poster con la genealogia di famiglia. In cima, c’è Cristiano IX di Danimarca. «È il trisnonno di tutti noi», mi spiega.
«Noi chi?».
Lei e suo cugino Vittorio Emanuele?
«Suo no. Io sono più cugino di Juan Carlos di Spagna e Carlo d’Inghilterra. La regina Vittoria era la mia trisnonna».
Quindi che parentela ha con la regina Elisabetta?
«In Italia, saremmo cugini di ottavo grado. Ma, nella famiglia internazionale dei reali, lo siamo di secondo: suo marito Filippo è cugino primo di mia madre Irene di Grecia, in quanto nipote di re Costantino, mio nonno. Invece, in Italia si conta diversamente: si sale in su, si arriva a quattro, si moltiplica per due e fa otto. Capito?».
No.
«Vittorio Emanuele II ha un figlio che si chiama Amedeo e che fa il re di Spagna nel 1870. Amedeo ha un figlio che è Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, che è mio nonno, comandante della terza armata che libera Gorizia, nel 1918. Ha due figli: Amedeo, morto in Africa, eroe dell’Amba Alagi, e Aimone, mio padre».
Suo cugino Vittorio Emanuele le ha fatto causa perché non vuole che lei si firmi Savoia. E ha minacciato di chiamare Savoia Aosta i suoi maiali, se lei non la smette.
«Io sono Savoia Aosta all’anagrafe. Savoia è il cognome, Aosta il titolo. L’ho detto anche al giudice: è come se al regista Visconti fosse ordinato di chiamarsi Luchino di Modrone».
Però in primo grado, il Tribunale l’ha condannata a pagare 160 mila euro di danni a suo cugino.
«E 160 mila dovrebbe pagarli mio figlio Aimone, anche lui con la sospensiva. Da nove anni abbiamo i conti correnti bloccati nonostante l’appello ci abbia dato ragione. Aspettiamo la Cassazione».
L’astio di suo cugino segue la famosa pronuncia della Consulta che l’ha spodestato?
«Per essere spodestati ci vuole prima un trono».
Il diritto di successione sarebbe decaduto quando Vittorio sposò Marina Doria senza il consenso del re.
«La regola del consenso vale in tutte le famiglie reali e non solo se si sposa una borghese. Io stesso l’ho firmato a mio figlio che pure ha sposato una principessa, Olga di Grecia».
Vittorio e Marina, invece, si sposarono a Teheran, assenti i parenti.
«E re Umberto II vietò alla famiglia di presentarsi al ricevimento a Ginevra o di fare regali. Ma non sono stato io a rivendicare il titolo. Sarebbe stato inelegante. Ho solo pubblicato delle lettere di suo padre. Ai tempi, Vittorio aveva una lovestory con Dominique Claudel, nipote del poeta francese Paul Claudel. Umberto II gli ricordava che sposandosi senza il suo consenso avrebbe perso il titolo e l’eredità. Disse addirittura che titolo e posizione di capofamiglia sarebbero passati al nipote duca d’Aosta».
(Il passaporto di Amedeo Savoia Aosta: così è registrato all’anagrafe, ma il cugino Vittorio Emanuele gli fece causa perché non voleva usasse il cognome Savoia).
Cioè a lei.
«La regola è quella. E Vittorio si è dimenticato il consenso anche con Marina».
Risultato: lei e suo cugino v’incontrate a Madrid al matrimonio di Felipe di Spagna e lei si becca due cazzotti.
«Lo hanno scritto i giornali. Non sono io a dirlo». Chi la tirò su? «L’ex regina di Grecia».
Vi siete più visti?
«Mai».
A suo nipote Emanuele Filiberto, dopo anni di esilio suo e del padre, è riuscita un’impresa impossibile Il duca m’interrompe, sorridente.
«Cantare al Festival di Sanremo».
Anche vincere Ballando con le stelle, ma intendevo dire, in generale: riuscire simpatico agli italiani. Siamo passati dalle polemiche contro i Savoia in Italia al televoto pro Emanuele Filiberto. Lei che pensava, vedendo accadere tutto ciò?
«Che non era la cosa giusta da fare, ma che almeno lui ha trovato una sua vocazione. Noi Savoia non dovremmo essere degli ingessati nel museo delle cere, ma neanche personaggi di Cinecittà».
Come ha passato il 2 giugno scorso, 70esimo anniversario della Repubblica?
«Ho guardato in Tv la sfilata militare perché sono stato soldato. Ma non è stato un giorno felice».
E quando ha assistito ai festeggiamenti per i 60 anni di regno della Regina Elisabetta?
«Mi sono commosso perché, a 10 anni, ero stato alla sua incoronazione. La ricordo benissimo, quel giorno: bella, che camminava con cautela portando una corona da cinque chili. A Buckingham Palace, ero sul balcone, defilato, poi sono stato a colazione seduto vicino a Carlo e Anna. C’erano in tutto cinque o sei tavoli per grandi e piccoli».
Altre visite a Buckingham Palace?
«Al funerale della regina madre. Una cerimonia di un fasto, di una bellezza, di una coreografia… Compatibilmente con le circostanze, ovvio. God save the queen cantato da 500 persone: venivano giù i vetri della chiesa. Divise perfette, stupende, ambasciatori di tutti i Paesi, capi di Stato. Ero in seconda fila. Dopo, Elisabetta ci ha invitato a colazione a Buckingham Palace. Eravamo in 15 o 16 parenti. Ha detto: “Devo scusarmi con voi, a questo tavolo siamo tutti di famiglia, tutti intimi, ma c’è un politico. State attenti a quello che dite. C’è il primo ministro Bulgaro: Simeone”. Lui rideva. Dopo essere stato re, era stato eletto presidente del Consiglio l’anno prima, nel 2001».
Elisabetta è regina anche di sense of humor?
«È simpaticissima. Ma ha anche quattro cinque telefoni sul suo tavolo, lavora tanto, è molto in gamba».
Se fa il compleanno o c’è una ricorrenza, lei che fa? Manda un biglietto? Telefona?
«Le scrivo: risponde in 24 ore. Invece, i nostri politici non rispondono mai. Ho inviato per decenni felicitazioni ai nostri presidenti del Consiglio appena nominati ma niente».
Conosce Matteo Renzi?
«No. E neanche il presidente Sergio Mattarella. Mentre in passato sono stato sempre invitato al Quirinale, e ogni volta ho chiesto di poter vedere la stanza dove ho dormito da bambino».
Avvenne prima di lasciare l’Italia, caduta la monarchia. E dopo la prigionia in Austria.
«Ero bambino, infatti. Sono nato nel 1943 a Villa Cisterna, a Firenze, sotto le bombe. Papà al fronte. Poi, a nove mesi, con mia madre Irene di Grecia, fui prelevato dai tedeschi e portato nel campo di Hirschegg. Eravamo ostaggi, non prigionieri. Condannati a morte, con ordine firmato, ma senza data. Siamo stati liberati dai francesi fra il 5 e il 10 maggio 1945. E fu un sollievo perché, per pochi chilometri, potevano precederli i russi e mamma diceva: “Noi, parenti dello zar, saremmo comunque morti”. Era cugino anche lo zar, gli somigliamo sia io sia mio figlio».
Da lì, siete stati scortati in Svizzera.
«Mamma guidò per giorni. Berna le sembrò il paradiso, potè farsi lo shampoo, ma si guardò allo specchio per la prima volta dopo quasi un anno e le prese un coccolone perché aveva i capelli bianchi. Io conobbi mio padre nel maggio del 1945. Aveva saputo della mia nascita con due mesi di ritardo».
Erano i due mesi in cui sua madre, sola a Firenze, subiva pressioni dai tedeschi che la volevano re a Salò.
«Al colonnello Eugenio Dollman mia madre rispose: “Dovrete passare sul mio cadavere: in casa Savoia, si regna uno alla volta”. Appena nacqui, mi fece prendere le impronte digitali dal questore di Firenze, per timore che venissi rapito. Ce le ho, ma non le ho mai paragonate con le mie. Non vorrei brutte sorprese».
Si dice che, nel 1942, suo padre provò a trattare con inglesi e americani per capovolgere le alleanze.
«Io so per certo che mio padre, in tempi non sospetti ben prima della fine della guerra, è riuscito ad avere contatti con inglesi e americani, passando le linee nemiche, il filo spinato, e andando in Svizzera. Ebbe dei colloqui per affrancare l’Italia da Hitler: me l’ha detto un giornalista inglese che era nei servizi segreti, nell’M5, durante la guerra. Confido di avere presto le prove».
Vorrebbe cambiare i libri di storia? L’idea che i Savoia avessero assecondato Mussolini fino al 25 luglio del 1943, quando fu sostituito da Badoglio?
«È quello che voglio e sono sicuro di riuscirci. Conosco due storici che ci stanno lavorando. Mio padre non avrebbe fatto nulla del genere senza il mandato di Vittorio Emanuele III: sarebbe stato alto tradimento. E quando la vulgata dipinge la regina Maria José come antifascista e ribelle, come una birbona che voleva accelerare la fine della guerra, evidentemente racconta di una sovrana che lasciava trapelare cose risapute e condivise in famiglia».
Suo padre è morto quando lei aveva quattro anni. Non ha lasciato agende, diari?
«Sì, ma su questo non una parola. È ovvio che la sua fosse una missione segretissima».
È morto in Argentina, dov’era andato a cercare fortuna dopo la guerra. Ha ricordi di lui?
«Se ci penso, vedo un uomo alto, non sento la sua voce, non ne riconosco la gestualità».
Lei che bambino è stato?
«Non ho parlato sino alla fine della guerra. Poi, quando ci siamo rifugiati alla corte belga, ho iniziato di colpo a parlare fluentemente francese, quindi italiano… Per il resto, sono stato mirabilmente allevato da una donna che mi ha dato tutto l’affetto di una madre e la severità di un padre. A nove anni, mi ha messo in collegio in Inghilterra, che non era una punizione, ma un punto di arrivo. Impari l’appartenenza a qualcosa: è una sfida positiva, porti la giacca di quel collegio, sei in una squadra di cricket. In Italia, ho fatto il servizio militare anche se potevo essere esonerato, unico figlio di madre vedova. Ho votato, grazie al pronunciamento di un pretore perché non si era certi che ne avessi diritto».
Mi spieghi meglio perché era infelice guardando le autorità sul palco per i 70 anni della Repubblica.
«Perché la monarchia non era impopolare nel ‘48 quando la Repubblica ha vinto di misura il Referendum. La gente ancora ci ama, ma i giornali e i politici hanno sempre infierito. Le leggi razziali e la dichiarazione di guerra restano punti fermi negativi nella storia dei Savoia. Ma il re era colpevole come la maggioranza degli italiani, e non era fascista. Mi dispiace che nessuno ricordi mai che la famiglia reale abbia avuto dieci prigionieri di guerra e due morti: uno è mio zio Amedeo l’altra è Mafalda di Savoia, uccisa nel Campo di Buchenwald. O che abbiamo istituito i carabinieri, i bersaglieri… E che Umberto II prima di partire per l’esilio liberò le forze armate dal giuramento alla Corona assicurando continuità alla Repubblica».
Che altro non le piace?
«In altri Paesi, le ex monarchie non vengono ignorate, anzi. In Italia, sembra che prima della Repubblica non vi sia stato nulla. A me piacerebbe che noi Savoia potessimo ancora servire questo Paese, pur senza ambizioni politiche».
Come sono trattati in Europa altri re «virtuali»?
«Nel 1995, Duarte di Braganza voleva sposarsi a Sintra e il presidente del Portogallo ha voluto che lo facesse a Palazzo Reale. Michele di Romania abita a Palazzo Reale a Bucarest. Simeone di Bulgaria ha avuto le terre dissequestrate, le ha donate di nuovo allo Stato e abita in un’ala di palazzo reale. Alessandro di Jugoslavia abita anche lui in un’ala di palazzo reale. Io abito a Castiglion Fibocchi, nella campagna di Arezzo, in una casa colonica».
Perché ride?
«Perché ci ho fatto l’abitudine. Come ai gioielli della Corona. Il re li consegnò al governatore della Banca d’Italia Luigi Einaudi, dicendo: dalli a chi di diritto. E li ha tenuti la Repubblica. Bisognerebbe farli sbloccare: se li vuole Vittorio Emanuele è meglio, ma io darei il 70 per cento alla Croce Rossa, il 30 per cento lo terrei. Se può, scriva anche che al referendum Costituzionale voterò no. Dà troppo potere a un lato solo della politica».
In questi 70 anni, ha mai sentito che si potevano creare le condizioni per un ritorno della monarchia?
«C’è stato il timore che accadesse da parte del governo, ma non la speranza da parte nostra. Ai tempi del presidente Giovanni Gronchi e poi di Antonio Segni e del Piano Solo, c’era un clima torbido: la monarchia per alcuni era qualcosa a cui agganciarsi per ritrovare stabilità, ma qualunque apporto militare sarebbe stato respinto dalla famiglia reale italiana. Io avevo vent’anni ed ero seguito, spiato. Qualcuno pensava che fossi un pericolo».
Come se ne accorse?
«Mia madre è figlia di re, sorella di re: a casa, sappiamo come funzionano queste cose».
Di nuovo ride. Perché?
«Se solo ce ne fossimo accorti meglio!».
Lei ha tre figli, avuti dalla sua prima moglie, Carla d’Orléans, figlia di Enrico, pretendente al trono di Francia. E ha undici nipoti, che nonno è?
«Un nonno quasi padre».
Sarebbe?
«Sono severo, non li vizio. Ma li amo molto: pensi che l’ultimo tatuaggio l’ho copiato a mia nipote ventiseienne Viola: è bianco, un fiocco di neve».
Non sono troppi 16 tatuaggi per uno che in teoria sarebbe re?
«Tutt’altro. Il primo, un drago, l’ho copiato 50 anni fa al re Cristiano di Danimarca, me lo fece il suo tatuatore. Mia nonna, Elena d’Orléans, aveva una farfallina sul polpaccio. I tre fratelli di mia madre erano tutti re di Grecia e tutti tatuati».
Nessuno però è stato, come lei, presidente dei tatuatori.
«Mi era sembrato gentile accettare. Riuscimmo a far approvare una legge a tutela di chi si tatua. Ma quando mi vidi fotografato tra i palestrati col piercing ebbi un moto di dignità».
A Firenze, nel 2004, parlò fra i no global.
«Mi interessano l’ecologia, l’ambiente, l’energia rinnovabile, ma non sono un verde. Fu molto interessante, c’era anche un attivista francese del partito dei contadini che si fa sempre picchiare dalla polizia. Divertentissimo».
Come ha educato i suoi figli?
«Militarmente. In barca, d’estate, facevamo all’improvviso abbandono nave. In pochi secondi, erano tutti nelle scialuppe con derrate di emergenza. E, a inizio stagione, li spedivo in piscina vestiti: se si casca in acqua, bisogna spogliarsi appena possibile, se no non si nuota. Mafalda, Bianca e Aimone hanno avuto per istruttore di nuoto Umberto Panerai, portiere della Nazionale di pallanuoto: aveva le reti più imbattute di Zoff».
Perché tanto rigore?
«È l’educazione che ho ricevuto anch’io, con lezioni di sci, scherma, judo. Una volta, nel palazzo reale di Atene, col judo, Costantino mi ha dato un sacco di botte. Anche Sofia di Spagna è una fuoriclasse. Poi, ho volato tanto. Come mio padre, che fu pioniere. Io, più modestamente, sono riuscito ad avere un incidente con tre mesi di sedia a rotelle: finendo sui fili dell’alta tensione e ho messo al buio il paese del Borro. Nella vita, non mi sono annoiato».
Ha quasi fatto il giro del mondo.
«Mi manca solo il Polo Sud. Molti viaggi li ho fatti con Silvia, mia moglie. Ci conosciamo dal 1976, abbiamo girato l’Africa noi due soli su una Land Rover, siamo stati al Polo Nord, ci siamo fatti sequestrare i cani in Finlandia e siamo rimasti a piedi con la slitta. Silvia è meravigliosa. È medaglia al merito della Croce Crossa, ha soccorso i terremotati di Larino e i feriti in Iraq, nel pieno di una guerra vera. Ora sta scrivendo un libro sugli animali: in campagna abbiamo avuto capre, due lupi domestici e anche una cammella: ce la regalò Nando Orfei del circo».
Dieci anni fa, sua moglie le è stata accanto anche nella prova più difficile: lei ha avuto una bambina, Ginevra, dalla regista olandese Kyara van Ellinkhuizen. L’ha riconosciuta, e la piccola è nata Down. Come sta?
«Cammina bene, parla bene, per fortuna. Va a scuola in una classe normale, aiutata da una maestra di sostegno. I miei rapporti con la sua mamma sono abbastanza buoni».
Dall’album di famiglia, Aimone, figlio di Amedeo, il giorno delle nozze con Olga di Grecia, il 16 settembre 2008.
All’inizio, i giornali titolavano su un «Kramer contro Kramer», c’erano le carte bollate e la sua ex andava ospite nei talk nazionalpopolari. Si aspettava tanto trambusto?
«Ho sofferto molto, ho pagato duro. Mi dispiaceva non di essere la causa di una nuova vita, ma di fornire un’altra occasione per infierire sul nome della famiglia. Silvia ha saputo starmi accanto in maniera straordinaria».
Che progetti ha per i prossimi anni?
«Ristabilire la verità storica sugli anni della guerra. E ho chiesto a Greenpeace di prendermi nell’equipaggio di una delle sue navi. Mi interessano le missioni scientifiche, e contrastare la caccia alle balene. Forse sono anziano, ma spero che mi accettino».
· È morto il regista Peter Del Monte.
Monte, il regista che raccontava le donne. La Repubblica il 31 maggio 2021. Aveva 77 anni. Con i suoi film Valeria Golino (Piccoli fuochi), Asia Argento (Compagna di viaggio) e Kasia Smutniak (Nelle tue mani), sono state premiate per le loro interpretazioni. È morto stamattina, dopo una lunga malattia, nella clinica Antea, a Roma, il regista Peter Del Monte. Aveva 77 anni. Lo annunciano la compagna Marina e la figlia Emilia. Da tempo viveva a Santa Marinella. Giovedì mattina, 3 giugno, l'ultimo saluto nella stessa clinica. Sceneggiatore e regista, era di origine italoamericana nato a San Francisco nel 1943. Si era laureato in Lettere a Roma con una tesi sull'estetica cinematografica. Aveva poi frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia sotto la direzione di Roberto Rossellini. Nel 1975 l'esordio dietro la macchina da presa con Irene Irene, interpretato da Alain Cuny e Olimpia Carlisi: grazie al primo dei suoi tanti ritratti femminili, Del Monte ottenne la candidatura al Nastro d'Argento come miglior regista esordiente. Kim Rossi Stuart in 'La ballata del lavavetri' (ansa)Nel 1980 vinse il Premio speciale della giuria alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia con L'altra donna. Un anno dopo tornò al Lido con Piso pisello (1981), che gli valse il Premio Unicef. Nel 1982 fu in concorso al Festival di Cannes con Invito al viaggio. Con Piccoli fuochi (1985) aveva vinto il Nastro D'Argento per il miglior soggetto originale, del film era protagonista Valeria Golino alla quale è stato legato sentimentalmente fino al 1987. Con Golino ha girato anche Tracce di vita amorosa (1990) un film di quattordici piccole storie con un ricchissimo cast corale: Stefania Sandrelli, Massimo Dapporto, Laura Morante, Walter Chiari, Chiara Caselli. Nel 1987 realizzò Giulia e Giulia con un cast all star (Kathleen Turner, Gabriel Byrne, Sting), celebre per essere stato il primo film di fiction al mondo girato con la videocamera Sony Hdvs, un sistema analogico ad alta definizione, avvalendosi del contributo di Giuseppe Rotunno come direttore della fotografia. Kasia Smutniak e Marco Foschi nel film 'Nelle tue mani' (ansa)Compagna di viaggio (1996) vede Asia Argento e Michel Piccoli come strana coppia on the road, farà vincere il David di Donatello all'attrice ventiduenne e vinse la Grolla d'Oro per la miglior regia e il Globo d'Oro come miglior film dell'anno. Nel 1998 ricevette il Premio Sergio Leone al Festival di Annecy per La ballata dei lavavetri con Kim Rossi Stuart, dal romanzo di Edoardo Albinati Il polacco lavatore di vetri. Tornò a dirigere l'ex compagna e musa Golino in Controvento (2001), accanto a Margherita Buy. I suoi ultimi film sono stati Nelle tue mani con Kasia Smutniak (anche per lei un riconoscimento, il Nastro d'argento europeo) e Nessuno mi pettina bene come il vento (2014) girato proprio nella sua Santa Marinella con Laura Morante nei panni di una scrittrice.
Marco Giusti per Dagospia il 31 maggio 2021. Era considerato un regista importante Peter Del Monte, scomparso oggi a 77 anni dopo lunga malattia a Santa Marinella. Almeno negli anni ’80. Colto, intelligente, sensibile, bravissimo nel mettere in scena personaggi femminili complessi, come si diceva una volta. Aveva creato quasi dal nulla la carriera di attrici come Valeria Golino, che con lui girerà in un ruolo esplosivo “Piccoli fuochi”, poi “Tracce di vita amorosa” e “Controvento”, oltre a essere sua compagna a metà degli anni ’80. Aveva offerto a Olimpia Carlisi uno dei suoi ruoli migliori in “Irene, Irene”, aveva lavorato con attrici importanti come Kathleen Turner in “Giulia e Giulia”, complesso esperimento visivo che non funzionò come si sperava, o come Jennifer Connelly in “Etoile”, un film che abbiamo purtroppo dimenticato da tempo e ci piacerebbe rivedere. Più recentemente aveva rilanciato Kasia Smutniak sapendone cogliere le più intime sensibilità in “Nelle tue mani”, il film che le aprirà una nuova carriera nel cinema d’autore. Nato a San Francisco nel 1947, cresciuto a Roma, dopo essersi laureato alla Sapienza con una tesi in estetica cinematografica, si iscrisse al Centro Sperimentale di Cinematografia negli anni della direzione di Roberto Rossellini. Si muove nel cinema di fine anni ’60 - inizio anni ’70 secondo uno schema preciso da cinema d’autore. “Fuoricampo” nel 1968 era un mediometraggio legato alle professioni del cinema. Vennero poi i televisivi “Le parole a venire” e “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” con grandi attori come Sergio Tofano e Maria Michi. Il film che lo lanciò davvero e ne definì il percorso futuro fu “Irene, Irene” con Olimpia Carlisi e Alain Cuny, 1975. A questo seguì, ben cinque anni dopo, il complesso “L’altra donna” con Francesca De Sapio e Fantu Mangasha. Ricordo la prima a Venezia di “Piso, pisello”, scritto da Bernardino Zapponi. Lo stesso spirito ritroveremo nell’onirico “Piccoli fuochi” dove un bambino si confronta con l’altro sesso, Valeria Golino, e con una serie di sue fantasie. “Invito al viaggio” era il suo film francese, con Laurent Malel e Aurore Clement. “Giulia e Giulia”, con Kathleen Turner, Gabriel Byrne, Sting, Gabriele Ferzetti fu un film sperimentale di lunga lavorazione. Seguono poi “Etoile” con Jennifer Connelly, “Tracce di vita amorosa” con Walter Chiari, Valeria Golino, Laura Morante, tratto dai racconti di Giovanni Pascutto. “Compagna di viaggio”, costruito sull’incontro tra un già vecchio Michel Piccoli e una giovanissima Asia Argento, rimane di fatto la miglior interpretazione di Asia e uno dei film migliori di Del Monte. Più recenti “La ballata del lavavetri” con Kim Rossi Stuart, “Controvento” con Valeria Golino e Margherita Buy, “Nelle tue mani” con Kasia Smutniak, Marco Foschi e Alba Rohrwacher giovanissima. L’ultimo suo film è stato il poco fortunato “Nessuno come il vento mi pettina i capelli” con Laura Morante. Serio, preparato, di grande eleganza e rispetto per l’umanità dei personaggi che metteva in scena, Del Monte non era più adatto al cinema italiano facile, rapido e fracassone di questi ultimi anni. Era rimasto agli anni di “Irene, Irene”, a un cinema più sofferto e studiato. Da tempo si era allontanato da Roma e viveva a Santa Marinella.
Addio Joe Lara, è morto in un incidente aereo l'attore di "Tarzan - La grande avventura". L'attore aveva 58 anni. Viaggiava con la moglie e altre cinque persone. La Repubblica il 30 maggio 2021. Joe Lara, 58 anni, è morto il 29 maggio in un incidente aereo insieme a sua moglie e a altre cinque persone. L'attore e produttore era noto soprattutto per aver interpretato Tarzan in Tarzan - La grande avventura, serie televisiva andata in onda tra il 1996 e il 1997. Come scrive The Hollywood Reporter, Joe Lara ha perso la vita insieme alla moglie Gwen Shamblin in un incidente aereo vicino Nashville. Il jet privato Cessna C501, partito dal Smyrna Rutherford County Airport verso Palm Beach, è improvvisamente precipitato nelle acque del lago Percy Priest. L'amministrazione federale dell'aviazione non ha fornito ulteriori dettagli su quanto accaduto. Le squadre di soccorso della contea di Rutherford hanno lavorato per tutta la notte tra sabato e domenica ma non sono stati trovati sopravvissuti. "I nostri sforzi sono passati dall'iniziale speranza di salvataggio al recupero dei cadaveri", ha detto un portavoce che ha coordinato i soccorsi. A bordo c'era anche la moglie dell'attore, Gwen Shamblin Lara, 66 anni, autrice e guru della dieta di ispirazione cristiana The Weight Down Workshop e della Remnant Fellowship Church. La coppia si era sposata nel 2018 e viveva a Brentwood, nel Tennessee.
Nato a San Diego, in California, il 2 febbraio 1962, William Joseph Lara aveva iniziato la carriera come modello prima di ottenere, come debuttante, il ruolo principale nel film della Cbs del 1989 Tarzan a Manhattan, che vedeva in azione il re della giungla a New York. Ha poi interpretato il personaggio creato da Edgar Rice Burroughs nella serie tv Tarzan - La grande avventura. Lara è apparso anche in film d'azione come Bersaglio di mezzanotte (1992), Il guerriero di acciaio (1993), Final Equinox (1995), Il giorno del giudizio (2000) e in varie serie tv, tra cui Baywatch e Conan. L'attore lascia la figlia Liana.
Joe Lara, il Tarzan della tv morto a 58 anni insieme alla moglie: "Una strage", fine terrificante. Libero Quotidiano il 31 maggio 2021. Tragedia a Hollywood: è morto Joe Lara, 58 anni, attore diventato famoso negli anni 90 come protagonista della serie Tarzan - La grande avventura. Tragica la dinamica: Lara è deceduto insieme alla moglie Gwen Shamblin e ad altre 5 persone, in seguito all'incidente che ha coinvolto l'aereo privato guidato dalla stessa Shamblin. Il dramma è avvenuto nei cieli del Tennessee. lo scorso sabato 29 maggio. Il piccolo jet, un Cessna C501, ha perso quota all'altezza del lago Percy Priest vicino a Smyrna, dopo essere decollato dall’aeroporto della contea di Smyrna Rutherford intorno alle 11. Era diretto all’aeroporto internazionale di Palm Beach, in Florida. Lara, ex modello e cantante country, aveva interpretato l’eroe selvaggio e avventuroso di Edgar Rice Burroughs anche nel film tv del 1989 Tarzan a Manhattan oltre ad essere apparso anche in un episodio del famosissimo serial Baywatch. L’attore lascia la figlia Liana, avuta da Natasha Pavlovich. La moglie Gwen era invece una dietista e fondatrice di una Chiesa, la Remnant Fellowship Church. Aveva coniugato le due "vocazioni" creando una dieta fondata sui precetti cristiani, The Weigh Down Workshop. Sull'aereo viaggiavano anche il genero della donna e alcuni leader della Chiesa: anche per loro non c'è stato nulla da fare.
· Morto l’attore Gavin MacLeod.
Morto Gavin MacLeod, era il capitano Stubing di "Love boat". L'attore aveva 90 anni. La serie, trasmessa da Canale 5, era popolarissima anche in Italia. La Repubblica il 29 maggio 2021. La serie è stato negli anni Ottanta un grande successo di Canale 5 anche grazie a lui, il capitano della nave dell'amore con i suoi occhi azzurri. Gavin MacLeod, il famoso capitano Merril Stubing nel telefilm Love Boat, il comandante della nave da crociera, è morto. Aveva 90 anni ed era diventato popolarissimo anche per il Mary Tyler Moore Show. La notizia della scomparsa è stata pubblicata dal sito Tmz e anche su Variety. MacLeod è morto nella notte nella sua casa di Palm Desert, in California, l'annuncio della sua scomparsa è stato dato dal nipote, Mark See. Completo bianco, sempre sorridente, MacLeod aveva conquistato il grande pubblico col ruolo del comandante: Love Boat era un telefilm molto seguito, una commedia romantica ambientata su una nave da crociera durata dieci anni, dal 1977 al 1987. In Italia il tema iniziale è stato sostituito dalla canzone The Love Boat (Profumo di mare) cantata da Little Tony che divenne un successo. Al cinema non aveva interpretato molti ruoli ma era stato diretto da Blake Edwards tre volte, per Operazione sottoveste (1959), In due è un'altra cosa (1960) e Hollywood Party (1968). Dopo aver abbandonato il cinema nel 1970 per dedicarsi alla carriera televisiva, era tornato solo negli ultimi anni sul set per un paio di progetti di cinema di ispirazione religiosa, in seguito alla sua conversione alla Cristianità durante gli anni Ottanta.
· E’ morto l’attore Kevin Clark.
Da ilmessaggero.it il 27 maggio 2021. È scomparso a soli 32 anni l’attore Kevin Clark, il batterista dell’iconico film “School of Rock”. A ucciderlo un incidente stradale: il giovane è stato ucciso ieri mentre andava in bicicletta a Chicago, investito da un’auto. Clark aveva interpretato il personaggio di Freddy Jones nel film del 2003 con protagonista un superlativo Jack Black, ed aveva preso parte a due attesissime reunion, nel 2013 e nel 2018. Il sito TMZ ha ricostruito l’accaduto: l’ex attore stava percorrendo in bicicletta una strada della Northwest Side di Chicago, all’1,20 del mattino, diretto verso casa, ed è stato investito da una Hyundai Sonata guidata da una ragazza, quando ha passato un semaforo rosso. Il ragazzo è stato soccorso da un'ambulanza, ma è morto mezz’ora dopo il terrificante incidente. La ventenne alla guida è stata denunciata. Clark aveva appena formato una band, Jess Bess and the Intentions, che si era esibita in un concerto per la prima volta sabato scorso. Sua madre Allison ha commentato con dolore che Kevin aveva detto il giorno prima ai suoi compagni di avventura: «Questa è la vita che voglio vivere, siete la mia famiglia musicale, e ce la faremo».
Il ricordo degli amici. Jack Black è stato uno dei primi a ricordare l’amico, sulla sua pagina Instagram: Notizia devastante. Kevin non c’è più. Era veramente troppo presto. Era una bellissima anima. Quanti ricordi. Cuore spezzato. I miei pensieri e il mio amore alla sua famiglia e a tutta la comunità di School of Rock». Un’altra attrice di quel film, Miranda Cosgrove, che interpretata il ruolo della manager della band Summer Hathaway, ha scritto sui social: “Sono scioccata e rattristata dalle notizie di oggi. Il mondo ha perso un’anima meravigliosa. Ricorderò sempre il tuo entusiasmo e come sei stato gentile con me. Ci mancherai sempre Kevin”. Rivkah Reyes, che interpretava la bassista Katie, ha scritto: “Non scorderò mai i tuoi abbracci, le tue risate e la pura gioia sul tuo volto, quando ci incontravamo per caso a Chicago”.
· E’ morta Luciana Novaro, la più giovane étoile della Scala.
Addio a Luciana Novaro, la più giovane étoile della Scala: scoprì Carla Fracci. Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 27 maggio 2021. Francesco Fredella è nato nel 1984. Pugliese d'origine, ma romano d'adozione. Laureato in Lettere e filosofia a pieni voti, è giornalista professionista. Si occupa di gossip da sempre diventando un punto di riferimento nel jet-set televisivo. Collabora con Libero, Il Tempo, Nuovo (Cairo editore). E' uno degli speaker della famiglia RTL102.5, dove conduce un programma di gossip sul digital space. E' opinionista fisso di Raiuno e Pomeriggio5. È andata via in punta di piedi, come se danzasse. L’ha fatto per tutta la vita, Luciana Novaro che è morta a 98 anni dopo una lunga malattia. Un’icona della danza, anzi un mito assoluto. Talentuosa, elegante, leggiadra e con un grande senso dell’arte. Forse innato. Luciana è stata una delle più giovani étoile della Scala di Milano, apprezzata in tutto il mondo per le sue grandi e inconfondibili qualità. Ha lavorato con i più grandi: da Antonino Votto a Luchino Visconti. Di lei hanno parlato spesso le più importanti riviste nel corso degli anni perché ha anche diretto il Corpo di Ballo della Scala (intorno al 1968). Nella vita ha avuto tutto: successo e soddisfazioni, senza montarsi mai la testa. E’ stata la maestra di danza per antonomasia, che con un grande fiuto ha scoperto il talento di Carla Fracci nella sua scuola di danza a Palazzo Serbelloni a Milano. Luciana Novaro ha sposato Nino Nutrizio, giornalista di spessore, ed è nata Cristina: figlia d’arte, autrice di tutti i programmi di successo di Barbara d’Urso. Cristina, un orgoglio per Luciana e papà Nino, è stata al capezzale di sua madre fino all’ultimo minuto. Luciana era malata da tempo ed non ha mai abbandonato, neppure nei momenti più difficili degli ultimi tempi quel suo inconfondibile aplomb. Era una donna elegante, di spessore, come poche. Ma che tutti ricorderanno.