Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2021

 

LA SOCIETA’

 

PRIMA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

       

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

  

 

 

 

LA SOCIETA’

INDICE PRIMA PARTE

 

AUSPICI, RICORDI E GLI ANNIVERSARI.

Gli Auspici per il 2021.

Le profezie per il 2021.

2020. Un anno di Pandemia.

Cosa resta dell’anno passato. I Fatti.

Cosa resta dell’anno passato. Le Cazzate.

Cosa resta dell’anno passato. I Morti Illustri.

Perché febbraio ha 28 giorni ed è il mese più corto dell’anno?

109 anni dall’affondamento del Titanic.

84 anni dal Disastro dell’Hindenburg.

21 anni dalla fine del Concorde.

75 anni dalla nascita del Bikini.

75 anni dalla nascita della Vespa.

70 anni dalla nascita del Totocalcio.

60 anni dalla nascita di Diabolik.

200 anni dalla morte di Napoleone Bonaparte.

100 anni dalla morte di Enrico Caruso.

72 anni dalla morte del grande Torino.

66 anni dalla morte di James Dean.

61 anni dalla morte di Fred Buscaglione.

52 anni dalla morte di Rocky Marciano.

51 anni dalla morte di Jimi Hendrix.

50 anni dalla morte di Jim Morrison.

50 anni dalla morte di Fernadel.

50 anni dalla morte di Coco Chanel.

46 anni dalla morte di Joséphine Baker.

44 anni dalla morte di Charlie Chaplin.

44 anni dalla morte di Maria Callas.

44 anni dalla morte di Elvis Presley.

41 anni dall’uscita di “The Blues Brothers”.

40 anni dalla morte di Natalie Wood.

40 anni dalla morte di Rino Gaetano.

40 anni dalla morte di Alfredino Rampi.

39 anni dalla morte di Romy Schneider.

37 anni dalla morte di Truman Capote.

33 anni dalla morte di Christa Paffgen, in arte: Nico.

31 anni dalla morte di Sergio Corbucci.

31 anni dalla morte di Ugo Tognazzi. 

30 anni dalla morte di Pier Vittorio Tondelli.

30 anni dalla morte di Yves Montand.

30 anni dalla morte di Dino Viola.

30 anni dalla morte di Walter Chiari.

29 anni dalla morte di Astor Piazzolla.

28 anni dalla morte di Sun Ra.

28 anni dalla morte di Albert Sabin.

27 anni dalla morte di Ayrton Senna.

27 anni dalla morte di Moana Pozzi.

27 anni dalla morte di Giulietta Masina.

27 anni dalla morte di Massimo Troisi.

27 anni dalla morte di Domenico Modugno.

25 anni dalla morte di Marcello Mastroianni.

25 anni dalla morte di Dario Bellezza.

24 anni dalla morte di Ivan Graziani.

24 anni dalla morte di Gianni Versace.

24 anni dalla morte di Renzo Montagnani.

23 anni dalla morte di Frank Sinatra.

21 anni dalla morte di Nicola Arigliano.

20 anni dalla morte di Ferruccio Amendola.

17 anni dalla morte e 100 anni dalla nascita di Nino Manfredi. 

17 anni dalla morte di Michele Profeta.

15 anni dalla morte di Mario Merola.

15 anni dalla morte di James Brown.

15 anni dalla morte di Oriana Fallaci.

14 anni dalla morte di Ingmar Bergman.

14 anni dalla morte di Guido Nicheli.

13 anni dalla morte di Paul Newman.

13 anni dalla morte di Heath Ledger.

10 anni dalla morte di Giorgio Bocca.

10 anni dalla morte di Amy Winehouse.

9 anni dalla morte di Marie Colvin.

9 anni dalla morte di Lucio Dalla.

9 anni dalla morte di Donna Summer.

8 anni dalla morte di Little Tony.

8 anni dalla morte di Ottavio Missoni.

6 anni dalla morte e 100 anni dalla nascita d Mario Cervi.

6 anni dalla morte di Anita Ekberg.

6 anni dalla morte di Laura Antonelli.

5 anni dalla morte di Prince.

5 anni dalla morte di Silvana Pampanini.

4 anni dalla morte di Hugh Hefner.

4 anni dalla morte di Jake La Motta.

4 anni dalla morte di Pasquale Squitieri.

4 anni dalla morte di Paolo Villaggio.

3 anni dalla morte di Bernardo Bertolucci.

3 anni dalla morte di Fabrizio Frizzi.

3 anni dalla morte di Marina Ripa di Meana. 

3 anni dalla morte di Davide Astori.

2 anni dalla morte di Luciano De Crescenzo.

2 anni dalla morte di Jeffrey Epstein.

2 anni dalla morte di Mattia Torre.

1 anno dalla morte di Gigi Proietti.

1 anno dalla morte di Paolo Rossi.

1 anno dalla morte di Diego Maradona. 

1 anno dalla morte di Stefano D'Orazio.

1 anno dalla morte di Ezio Bosso.

1 anno dalla morte di Roberto Gervaso.

1 anno dalla morte di Ennio Morricone.   

1 anno dalla morte di Kobe Bryant.

Le Frecce Tricolori.

Chi erano Stanlio e Ollio.

I Queen.

I Beatles.

Gli ABBA.

Dire Straits.

Spice Girls.

La Notte di San Lorenzo.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI? (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Avvocato.

L’Operazione Stellantis.

John Elkann.

Lapo Elkann.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Famiglie Reali.

Lo stile dei reali inglesi.

Presagi nefasti.

La Regina Vittoria.

Elisabetta.

Filippo.

Carlo.

Diana.

William e Kate.

Harry e Meghan.

Andrea.

Sarah Ferguson.

 

INDICE TERZA PARTE

 

I MORTI FAMOSI.

L'Apocalisse.

La linea piatta del fine vita.

Sesto Senso: sentire i morti.

Coscioni ed il diritto a morire.

La razzia delle tombe.

La morte sociale: gli Eremiti.

La Successione.

Le morti “del cazzo”.

I Morti del 2021.

È morto l’attore James Michael Tyler.

E’ morto il rapper svedese Yasin.

Morto il grande direttore d'orchestra Bernard Haitink.

È morto il compositore Leslie Bricusse.

E’ morto il jazzista Franco Cerri.

E’ morto l'ex segretario di Stato Usa Colin Powell.

E’ morto il fumettista Robin Wood.

Morto Angelo Licheri, “l’uomo ragno” che si calò nel pozzo del Vermicino per salvare Alfredino Rampi.

È morto il pittore Achille Perilli.

E’ morto il giornalista Gianluigi Gualtieri.

E’ morto lo scienziato Abdul Qadeer Khan.

È morto l’attore Elio Pandolfi.

E’ morto il filosofo ultra comunista Salvatore Veca.

E’ morta l’attrice Luisa Mattioli.

Morto il rugbista Lucas Pierazzoli.

E’ morto il calciatore Daniel Leone.

Morto lo scrittore Antonio Debenedetti.

È morto Bernard Tapie.

E’ morto l’ex ministro Agostino Gambino.

Muore lo scrittore Takao Saito.

E’ morta la giornalista Marida Lombardo Pijola.

E’ morto l’attore Basil Hoffman.

Morto il pilota Nino Vaccarella.

E’ morto l’attore Robert Fyfe.

E’ morto il calciatore Romanino Fogli.

È morto l’attore Willie Garson.

E’ morto Carlo Vichi, il fondatore della Mivar.

Morto il compositore Sylvano Bussotti.

È morto l’inventore Clive Sinclair.

E’ morto l’ex presidente dell’Algeria Abdelaziz Bouteflika.

È morto l’editore Tullio Pironti.

Morto l’attore Art Metrano.

È morto il terrorista Abimael Guzmán.

E’ morto l’attore Carlo Alighiero. 

È morto l’attore Michael Constantine.

Morto l’attore Nino Castelnuovo.

Morto l’ex calciatore Jean-Pierre Adams.

E’ morto l’attore Michael K. Williams.

È morto l’attore Jean-Paul Belmondo.

È morta la cantante Sarah Harding.

E’ morta la giornalista Anna Cataldi.

Morto lo scrittore Daniele Del Giudice.

Morto il musicista Theodorakis. 

E' morto l’artista Paolo Ramundo.

E' morto l’ex calciatore Francesco Morini.

Morto il giornalista Gianfranco Giubilo.

Morto il cantante Lee “Scratch” Perry.

È morto l’attore Ed Asner.

E’ morto il giornalista sportivo  Mario Pennacchia.

E’ Morto Fritz McIntyre, tastierista dei Simply Red.

E’ Morto Charlie Watts, il batterista dei Rolling Stones.

E' morto il poeta rivoluzionario Jack Hirschman.

Morto Luca Silvestrin, storico pivot della Reyer Venezia.

È morta Nicoletta Orsomando, storica signorina buonasera.

È morto l'attore Nino D'Agata.

È morto l’atleta Albert Rienzo.

È morto l’atleta Giovanni Di Lauro.

È morto il senatore Paolo Saviane.

E’ morta la giornalista e scrittrice Gaia Servadio.

E’ morto l’avvocato Luca Petrucci.

E’ morto l’attore Sonny Chiba.

E’ morto il youtuber Omar Palermo.

E’ morto il calciatore Gerd Muller.

Morto il comico Gianfranco D'Angelo.

E’ morto il giornalista Ranieri Polese.

E’ morta l’attrice Piera Degli Esposti.

E’ morto Enzo Facciolo, il disegnatore di Diabolik.

E’ morto Gino Strada.

E’ morta Patricia Alma Hitchcock, figlia di Alfred.

E’ morto il doppiatore Giorgio Lopez.

È morto Nadir Tedeschi, ex esponente delle DC.

È morto il musicista Dennis "Dee Tee" Thomas, il leader di Kool & The Gang.

E’ morta l’editrice Laura Lepetit.

È morta «Mamma Ebe» Gigliola Giorgini.

È morto lo scrittore Antonio Pennacchi.

Morto il batterista Charles Connor.

È morta l’atleta cubana Alegna Osorio.

E’ morto Roberto Calasso, scrittore ed editore di Adelphi.

E’ morto il bassista degli ZZ top Dusty Hill.

E’ morto l’attore Jean-Francois Stevenin.

E’ Morto il cantante Gianni Nazzaro.

Morto Giuseppe De Donno, curò Covid con plasma iperimmune.

Morto l’attore Dieter Brummer.

Addio a Nicola Tranfaglia.  Storico, giornalista e politico.

E’ morta l’artista Sabrina Querci.

È morto il fisico Miguel Virasoro.

E’ morto lo scrittore Christian La Fauci.

E’ morta l’attrice Joyce MacKenzie: fu Jane in Tarzan.

È morto Kurt Westergaard, il fumettista danese della famosa vignetta su Charlie Hebdo.

E’ morto il sarto Mario Caraceni.

E’ morto il giornalista antimafia Peter de Vries.

E’ morto il fotoreporter Danish Siddiqui.

E’ morta l’ambientalista Joannah Stutchbury.

E’ morto l’attore Libero De Rienzo.

E’ morto l’ex presidente della Corte Costituzionale e dell’Antitrust Giuseppe Tesauro.

E' morto il pilota automobilistico Carlos Reutemann.

È morto il regista Richard Donner.  

Addio a Raffaella Carrà: la signora della tv.

E’ morto il regista Paolo Beldì.

È morto Donald Rumsfeld, ex segretario della Difesa USA.

E’ morto lo stilista Pino Cordella.

E’ morto il giornalista Giangavino Sulas.

E’ morto l’attore Antonio Salines.

E’ morto John McAfee, pioniere degli antivirus.

Morta la giornalista Diana De Feo, moglie di Emilio Fede.  

E’ morto l’editore Egidio Gavazzi.

E’ morto il pilota acrobatico Alex Harvill.

E' morto Paolo Armando, ex concorrente di MasterChef Italia.

E' morto Giampiero Boniperti.

Morta l’attrice Lisa Banes.

E’ morta la pornostar Dakota Skye.

E’ morto il fumettista Andrea Paggiaro in arte Tuono Pettinato.

Addio al giornalista Livio Caputo.

E’ morto l’attore Ned Beatty.

E’ morta l’atleta Paola Pigni.

E’ morto il politico e sindacalista Guglielmo Epifani.

E’ morto il cantante Michele Merlo.

E’ morto Angelo Piovano: l’uomo più tatuato d’Italia.

È morto Daniele Durante, della pizzica salentina.

E’ morto l’allenatore Loris Dominissini.

E’ morto il calciatore Seid Visin.

Morto il calciatore Silvio Francesconi.

Morto l’attore Robert Hogan.

E’ morto Amedeo Savoia d’Aosta.

È morto il regista Peter Del Monte.

E’ morto l’attore Joe Lara.

Morto l’attore Gavin MacLeod.

E’ morto l’attore Kevin Clark.

E’ morta Luciana Novaro, la più giovane étoile della Scala.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

I MORTI FAMOSI.

E’ morto l'attore Paolo Calissano.  

E’ morto l’attore Renato Scarpa.

E’ morto Franco Ziliani.

E’ morta Assunta Maresca, detta Pupetta.

È morto Desmond Tutu.

E’ morto il regista e produttore Jean-Marc Vallée.

E’ morta la scrittrice Joan Didion.

È morta l’avvocato abortista Sarah Weddington

Morto il meccanico della tv Emanuele Sabatino. 

E' morta Lina Wertmuller.

Addio al giornalista Rai Demetrio Volcic.

È morto il cantante Toni Santagata.

E’ morto l’attore aborigeno David Gulpilil.

E’ morto il manager di F1 Frank Williams.

E’ morta la scrittrice Almudena Grandes

E’ morto il direttore creativo di moda Virgil Abloh.

E’ morta l’attrice Arlene Dahl.

Addio alla contessa Olghina di Robilant. 

È morto il compositore Stephen Sondheim. 

E’ morto il banchiere Ennio Doris.

Addio al cantautore Paolo Pietrangeli.

È morto lo scrittore Wilbur Smith.

E’ morto il giornalista Giampiero Galeazzi.

E’ morto il fotografo ritrattista Dino Pedriali.

È morto l’imprenditore Glen de Vries.

E’ morto l’ex presidente e premio Nobel Frederik de Klerk.

Morto il tronista Riccardo Ravalli.

E’ morto l’attore Dean Stockwell.

E’ morto il giornalista Enrico Fierro. 

E’ morto l’industriale Gianfranco Castiglioni.

E’ morto lo 007 Paolo Samoggia. 

Morto l’architetto Carlo Melograni.

È morta l’attrice Joanna Cameron.

È morto il cantante Terence Wilson.

E’ morta la stilista Federica Cavenati.

E' morta la cofondatrice di Italia Nostra Desideria Pasolini.

Morto il pasticciere Ado Campeol.

E’ morto Rossano Rubicondi.

E’ morto lo chef Alessio Madeddu.

E’ morta la modella Ivy Nicholson.

E’ morta l’attrice e doppiatrice Ludovica Modugno.

E’ morto l’industriale Renzo Salvarani.

E’ morto il sarto Ciro Paone.

E’ morta Carla Fracci.

E’ morta l’attrice Isabella De Bernardi.

E’ morto il calciatore Tarcisio Burgnich.

Morto Max Mosley, ex "Re" della Formula 1.

E’ morto l’attore René Cardona III rip.

E’ morto il calciatore Filippo Viscido.

E’ morto il fantino del Palio Andrea Mari.

E’ morto il cantautore Franco Battiato.

E’ Morto Alessandro Talotti, campione del salto in alto.

E’ morto Neil Connery rip.

E’ morto il serial killer Michel Fourniret.

E’ morta Beryl Cunningham, l’attrice, modella e cantante giamaicana.

E' morto il modello e cantante britannico Nick Kamen.

E’ morta la giornalista Rita di Giovacchino.

È morta Olympia Dukakis, premio Oscar per "Stregata dalla luna".

E’ morto il compositore Shunsuke Kikuchi.

È morto Filippo Mondelli, campione del mondo di canottaggio.

E’ morto Giulio Biasin, l'ultimo corazziere del Re.

Addio a Michael Collins, fu uno dei tre astronauti dell’Apollo 11.

E’ morta Milva.

E’ morta la star di burlesque Annie Blanche Banks.

E’ morto il regista Monte Hellman.

E’ morto il ballerino Liam Scarlett.

E’ morto lo l’inventore del pdf Charles Geschke.

E’ morta l’attrice Helen McCrory.

E’ morto l’attore Lee Aaker di Rin-Tin-Tin.

E’ morto il finanziere Bernie Madoff.

E' morto il truccatore Giannetto De Rossi.

E' morto il cartellonista cinematografico Enzo Sciotti.

E’ morto l’attore-cantante Harold Bradley.

E’ morto il regista Richard Rush.

E’ morto il filosofo Ernesto Paolozzi.

E’ morto il rugbista Marco Bollesan.

E’ morto il rugbista Massimo Cuttitta.

E’ morto il rapper Earl Simmons.

E’ morta la stilista Fiorella Mancini.

È morto il campione di pallavolo Michele Pasinato.

È morto il teologo Hans Küng.

E’ morto il Nobel economista Robert Mundell.

È morto Roland Thoeni, ex campione di sci.

E’ morto Gabriele Nobile, giornalista sportivo.

E’ morto Luca Villoresi, giornalista.

È morto il giornalista Rocco Di Blasi.

E’ morto il cantante Patrick Juvet.

E’ morto l’autore tv Enrico Vaime.

E’ morto lo sceneggiatore Larry McMurtry, rip.

E’ morto il regista Bertrand Tavernier.

E' morto l'attore George Segal.

E’ morto Moraldo Rossi, amico di Fellini.

E’ morto il musicista Pasquale Terracciano.

E’ morta la pilota Sabine Schmitz.

E’ morta Elsa Peretti, designer.

E’ morto il giornalista Mario Sarzanini.

E’ morto James Levine, direttore d'orchestra.

Addio a Ombretta Fumagalli Carulli.

E’ morto Bruno Tinti.

E’ morto Marco Bogarelli.

E’ morto l’attore Yaphet Kotto.

E’ morto Marvin Hagler.

È morto Raul Casadei.

E’ morto il fotografo Giovanni Gastel.

E’ morto il regista Marco Sciaccaluga.

E’ morta va l’attrice Isela Vega.

E’ morto Lodewijk Frederik Ottens, delle musicassette.

E’ morto Carlo Tognoli, l’ ex sindaco di Milano e ministro.

E' morto Bunny Wailer, leggenda del reggae.

È morto il dj Claudio Coccoluto.

Si è ucciso Antonio Catricalà.

E’ morto Lawrence Ferlinghetti, poeta della Beat Generation.

E’ morto il sociologo Franco Cassano.

E’ morta la giornalista Fiammetta La Guidara.

E’ morto il regista Giancarlo Santi.

E’ morto Fausto Gresini.

E’ morto l’attore Sandro Dori.

E’ morto il paroliere Luigi Albertelli.

E’ morto Mauro Bellugi.

E' morto lo scultore Arturo Di Modica.

E’ morto Gianni Corsolini, uno dei padri fondatori del basket in Italia.

E’ morto l'attore e doppiatore Claudio Sorrentino.

E’ morto l’attore Reginald Bernie Lewis.

E’ morto Johnny Pacheco, il musicista.

Morto l'ex presidente dell'Argentina Carlos Menem.

E’ morto Erriquez, il frontman della Bandabardò.

E’ morto Marco Dimitri dei “Bambini di Satana”.

E’ morto Maurizio Liverani.

E’ morto il critico musicale Paolo Isotta.

È morto Chick Corea, leggenda del jazz.

E’ morto il re del porno Larry Flynt.

E’ morto il politico George Shultz.

E’ morto lo sceneggiatore Jean-Claude Carrière.

E’ morta la cantante Mary Wilson.

E’ morto l’ex presidente del Senato Franco Marini.

E’ morto Giuseppe Rotunno.

E’ morto Leon Spinks.

E’ morta l’attrice Haya Harareet.

Addio all’artista Felice Botta.

E’ morto l’attore Christopher Plummer.

È morta Tiana Tola, campionessa italiana di Judo.

E’ morta Nori Corbucci, moglie del grande regista Sergio.

E’ morto l’investigatore privato Jack Palladino.

E' morto l’attore Dustin Diamond.

E’ morta l’attrice Cicely Tyson.

E’ morta l’attrice Cloris Leachman.

Morto Francesco Cavallari.

E’ morto Michele Fusco.

E’ morto il produttore Alberto Grimaldi.

E’ morto Rémy Julienne. il più grande cascatore del mondo.

E’ morto Walter Bernstein, leggendario sceneggiatore americano.

È scomparso il re dei cristalli, Gernot Langes-Swarovski.

E' morto Larry King.

Morto l’attore Roberto Brivio dei “Gufi”.

E’ morta Francine Canovas, ossia: Nathalie Delon.

E’ morto l’alpinista Cesare Maestri.

Morto Emanuele Macaluso.

E’ morto lo storico produttore musicale Phil Spector.

E’ morto il ballerino di tango Juan Carlos Copes.

E’ morto il pianista/raider Adriano Urso.

È morto il senatore Romano Misserville.

E’ morto l’attore Antonio Sabato.

E’ morto il giornalista Giuseppe Turani.

E’ morto il sensitivo Paolo Bucinelli, in arte Solange.

E' morta l’attrice Tanya Roberts?

E’ morto Ernesto Gismondi.

 

 

 

 

 

 

LA SOCIETA’

PRIMA PARTE

 

AUSPICI, RICORDI E GLI ANNIVERSARI.

·        Gli Auspici per il 2021.

Valeria Arnaldi per "leggo.it" il 12 febbraio 2021. Nuovo anno al via. Oggi, secondo l’astrologia cinese, si apre l’anno del bufalo - o bue -  di metallo. Abbiamo chiesto a Valentina Cesari, docente presso la ScuolaTao - che da domani terrà il web-corso “Ba Zi e la carta dei quattro pilastri” - di guidarci nell’interpretazione astrale dei mesi che verranno.

Quali sono le caratteristiche del bue di metallo?

«Le parole chiave sono lavoro e disciplina. Il bue, come animale, è l’archetipo del lavoratore. Avanza piano, con attenzione, pianificando».

Come si tradurrà questo nel nuovo anno?

«L’anno scorso, quello del topo di metallo, ha dato inizio a un nuovo ciclo, all’interno di quello intero che dura sessant’anni. Ciò, come abbiamo visto, ha comportato un taglio netto con quanto c’era prima. Il bue di metallo continua quel movimento, che è ancora agli inizi. Sarà un periodo, diciamo, in cui seminare».

E i risultati?

«Il successo si potrà ottenere ma con lavoro e impegno. Sono sconsigliate speculazioni, meglio puntare su cose sicure, magari comprare una casa. Si possono aprire nuove attività, ma occorrerà pazienza per vedere gli esiti. Il bue però è determinato, raggiunge il suo obiettivo».

Come influirà il metallo?

«Ogni elemento caratterizza il modo in cui le caratteristiche dell’animale si manifestano. Il metallo, tagliente, crea uno spartiacque tra ciò che è da mantenere e ciò che è da buttare. Rende il bue più rigido e austero. Dovremo capire cosa è davvero importante per noi. Si guarderà all’essenziale, senza fronzoli».

Per la salute, che anno sarà?

«Salute e cura del corpo, a partire da ciò che mangiamo, rimarranno temi cardine anche quest’anno».

E l’amore?

«Il bue è legato ai valori tradizionali. Sarà un buon anno per matrimoni, nascite e tutto ciò che riguarda la famiglia».

Rimane la questione denaro.

«Questo animale è associato a una gestione oculata delle risorse. Non ci sarà sfarzo. Se ci si concederà un lusso sarà per ciò che per noi conta davvero».

L’anno del bue come inciderà sui vari segni?

«Ognuno, nell’astrologia cinese, ha quattro segni da indagare tra di loro e in relazione con l’animale dell’anno. In generale, segni come gallo, serpente e topo se la vedranno meglio di altri perché danno il massimo nelle difficoltà. Anche il cane andrà benissimo. La capra si troverà peggio di tutti. Drago, cavallo e tigre dovranno tenersi a freno. L’influenza del bue si farà sentire poco per coniglio e scimmia. Il maiale dovrà rinunciare al suo aspetto più festaiolo e socievole. Il bue non sarà spiazzato ma rischia di essere sarà ancora più “piantato”».

Questi mesi di lavoro potrebbero dare frutti già l’anno prossimo?

«Sì, sarà l’anno della tigre, che segna la primavera, la ripresa, la vita che si rinnova».

Bufali, draghi o cavalli: tutto scritto nelle stelle. In Oriente si pensa che gli animali dello zodiaco condizionino fortuna, carriera e relazioni. Laura Tuan, Domenica 14/02/2021 su Il Giornale. Piacerà agli animalisti sapere che tra le costellazioni abitano parecchi animali, per l'esattezza sette nel cielo occidentale, addirittura dodici in quello orientale del celeste impero. A dare alle stelle un'immagine e un nome furono, secondo leggenda, i primi dodici accorsi a salutare il Buddha morente che li ricompensò regalando a ciascuno il potere sul mondo per la durata di un anno, durante il quale avrebbero impresso le loro caratteristiche a qualsiasi cosa - creatura, istituzione, evento - fosse nato nel periodo del loro regno. In realtà l'interpretazione del cielo e dei suoi segni all'orientale è molto più antica, pare già risalente al terzo millennio a.C. Allora, però, a identificare i dodici segni dello zodiaco erano i riti celebrati giornalmente in onore dell'imperatore, sostituiti molto più tardi dai dodici animali giunti da lontano, sembra addirittura dalla Turchia o dalla Mongolia. Va però considerato che i calendari orientali non sono basati come il nostro sul ciclo annuale del Sole, ma su quelli mensili della Luna, dunque 13 lunazioni in un anno. A stabilire la data del capodanno tocca sempre alla Luna nuova e precisamente la seconda dopo il solstizio d'inverno, il 21 dicembre (per esempio il primo novilunio del 2021 è stato il 13 gennaio, il secondo cadrà l'11 (già 12 in Cina). Scoprire a quale anno cinese si appartiene è semplice, ricorrendo alle tabelle ormai diffuse in rete, ma per calcolarlo come spiegato sopra, basta un semplice calendario, tenendo però presente che chi è nato prima della data del capodanno cinese del proprio anno, non appartiene al segno indicato, bensì a quello dell'anno precedente (per esempio un bambino nato il 15 febbraio 2021 sarà Bufalo, ma se la sua nascita è avvenuta il 10 febbraio, prima del nuovo capodanno, il suo segno cinese sarà quello dell'anno scorso, il Topo). Naturalmente non finisce qui, l'astrologia cinese è molto più complessa, non si limita ad analizzare gli anni, ma scende in dettaglio anche nei mesi, nei giorni, nelle ore, tutti quanti legati a uno dei dodici animali e in più abbinati a uno dei cinque elementi dell'universo, Fuoco, Terra, Metallo, Acqua e Legno, ciascuno dei quali legati dalla magia e, dalla medicina orientale, anche agli organi del corpo, ai meridiani di agopuntura, alle stagioni, ai colori, ai sapori, agli alimenti e alle direzioni della bussola ma questa è un'altra storia. Il primo animale ad aprire la serie dello zodiaco cinese è il Topo. Sì, anche il simpatico topolino domestico, furbo, veloce e intelligente. Ma c'è posto anche per il Cavallo disinvolto, per la scimmietta opportunista e per vari animali della fattoria, come il Maiale, il Gallo, la Capra e il Bufalo, che con la sua laboriosità, la pazienza, la frugalità e la lentezza, grifferà questo 2021 (tra il 12 febbraio e il 31 gennaio 2022), ormai universalmente accettato come anno lento e faticoso, improntato al duro lavoro e al risparmio. Tutto al contrario della grinta e del fascino, garanti di successo, che rivestono invece animali esotici o fantastici come il Drago, il Serpente e la Tigre, protagonista il prossimo anno, che si spera più baldanzoso e brillante. In particolare ai quattro zampe di casa sono dedicati, nell'ordine, il quarto segno dello zodiaco, che corrisponde al Gatto, nome cinese Tu, descritto come un tipo dolce e carezzevole, ottimo osservatore ama il contatto e le coccole, ma solo finché gli va. Al decimo posto troviamo invece il Cane, nome cinese Gou, fedele e affettuosissimo, ma molto possessivo, attaccatissimo alle sue proprietà. Molto intelligente, ma spesso insoddisfatto e brontolone, guai a frugare nelle sue cose e «sottrargli l'osso», si arrabbia al punto da diventare aggressivo.

Mattarella, mai cosi tanti alla tv, oltre 15 milioni per il suo messaggio di fine anno: share del 60%. Concetto Vecchio su La Repubblica l'1 gennaio 2021. Le ragioni di un ascolto così elevato sono legate probabilmente alla particolarità del momento storico, all'attesa per il discorso sull'anno del Covid, e naturalmente al fatto che la zona rossa ha costretto gli italiani a starsene in casa. Un messaggio record. Quello di ieri sera dovrebbe essere, con tutta probabilità, il discorso di fine anno più visto da quando c'è l'auditel, ovvero dal 1986. Sergio Mattarella ha tenuto incollati davanti alla tv 15 milioni e 272 mila italiani, secondo i dati diffusi da Rai Quirinale, con uno share del 64 per cento. Nei quattordici minuti a reti unificate si sono ritrovati davanti alle quattro reti Rai (Rai Uno, Rai Due, Rai Tre, Rai News 24) 9 milioni 675mila, di cui sette milioni e mezzo solo su Rai Uno. A questi telespettatori vanno aggiunti i 3,5 milioni di Canale 5, i 499 mila di Rete 4, poco più di un milione de La 7, i 232mila di Sky. L'anno scorso, il 31 dicembre 2019, si erano ritrovati in 10 milioni davanti alla tv: insomma stavolta va segnalato un incremento di 5 milioni in più. Le ragioni di un ascolto così elevato sono legate probabilmente alla particolarità del momento storico, all'attesa per il discorso sull'anno del Covid, e naturalmente al fatto che la zona rossa ha costretto gli italiani a starsene in casa. A scorrere i dati storici questo quindi dovrebbe essere stato il discorso più seguito degli ultimi 35 anni, anche se bisogna tenere conto che fino al 2003 l'auditel non registrava le televisioni tematiche senza pubblicità. Secondo una classifica, che non tiene conto delle tv generaliste, che tuttavia incidono per non più di 300mila telespettatori, solo una volta nel 1993, con Oscar Luigi Scalfaro presidente, venne superata la soglia dei 15 milioni (15.015.000). Era l'anno di Tangentopoli. Segue l'ultimo discorso di Francesco Cossiga, nel 1991, un intervento da picconatore: 14 milioni 825mila. Mattarella aveva avuto finora sempre un audience intorno ai 10 milioni nei cinque discorsi di fine anno che ha tenuto durante il suo mandato. Quello di ieri rappresenta quindi il record assoluto del suo settennato.

 Il discorso integrale di fine anno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella:

Care concittadine e cari concittadini, avvicinandosi questo tradizionale appuntamento di fine anno, ho avvertito la difficoltà di trovare le parole adatte per esprimere a ciascuno di voi un pensiero augurale. Sono giorni, questi, in cui convivono angoscia e speranza. La pandemia che stiamo affrontando mette a rischio le nostre esistenze, ferisce il nostro modo di vivere. Vorremmo tornare a essere immersi in realtà e in esperienze che ci sono consuete. Ad avere ospedali non investiti dall'emergenza. Scuole e Università aperte, per i nostri bambini e i nostri giovani. Anziani non più isolati per necessità e precauzione. Fabbriche, teatri, ristoranti, negozi pienamente funzionanti. Trasporti regolari. Normali contatti con i Paesi a noi vicini e con i più lontani, con i quali abbiamo costruito relazioni in tutti questi anni. Aspiriamo a riappropriarci della nostra vita. Il virus, sconosciuto e imprevedibile, ci ha colpito prima di ogni altro Paese europeo. L'inizio del tunnel. Con la drammatica contabilità dei contagi, delle morti. Le immagini delle strade e delle piazze deserte. Le tante solitudini. Il pensiero straziante di chi moriva senza avere accanto i propri cari. L'arrivo dell'estate ha portato con sé l'illusione dello scampato pericolo, un diffuso rilassamento. Con il desiderio, comprensibile, di ricominciare a vivere come prima, di porre tra parentesi questo incubo. Poi, a settembre, la seconda offensiva del virus. Prima nei Paesi vicini a noi, e poi qui, in Italia. Ancora contagi - siamo oltre due milioni - ancora vittime, ancora dolore che si rinnova. Mentre continua l'impegno generoso di medici e operatori sanitari.

Il mondo è stato colpito duramente. Ovunque. Anche l'Italia ha pagato un prezzo molto alto. Rivolgendomi a voi parto proprio da qui: dalla necessità di dare insieme memoria di quello che abbiamo vissuto in questo anno. Senza chiudere gli occhi di fronte alla realtà. La pandemia ha scavato solchi profondi nelle nostre vite, nella nostra società. Ha acuito fragilità del passato. Ha aggravato vecchie diseguaglianze e ne ha generate di nuove. Tutto ciò ha prodotto pesanti conseguenze sociali ed economiche. Abbiamo perso posti di lavoro. Donne e giovani sono stati particolarmente penalizzati. Lo sono le persone con disabilità. Tante imprese temono per il loro futuro. Una larga fascia di lavoratori autonomi e di precari ha visto azzerare o bruscamente calare il proprio reddito. Nella comune difficoltà alcuni settori hanno sofferto più di altri. La pandemia ha seminato un senso di smarrimento: pone in discussione prospettive di vita. Basti pensare alla previsione di un calo ulteriore delle nascite, spia dell'incertezza che il virus ha insinuato nella nostra comunità. È questa la realtà, che bisogna riconoscere e affrontare. Nello stesso tempo sono emersi segnali importanti, che incoraggiano una speranza concreta. Perché non prevalga la paura e perché le preoccupazioni possano trasformarsi nell'energia necessaria per ricostruire, per ripartire. Nella prima fase, quando ancora erano pochi gli strumenti a disposizione per contrastare il virus, la reazione alla pandemia si è fondata anzitutto sul senso di comunità. Adesso stiamo mettendo in atto strategie più complesse, a partire dal piano di vaccinazione, iniziato nel medesimo giorno in tutta Europa. Inoltre, per fronteggiare le gravi conseguenze economiche sono in campo interventi europei innovativi e di straordinaria importanza. Mai un vaccino è stato realizzato in così poco tempo. Mai l'Unione europea si è assunta un compito così rilevante per i propri cittadini. Per il vaccino si è formata, anche con il contributo dei ricercatori italiani, un'alleanza mondiale della scienza e della ricerca, sorretta da un imponente sostegno politico e finanziario che ne ha moltiplicato la velocità di individuazione.  La scienza ci offre l'arma più forte, prevalendo su ignoranza e pregiudizi. Ora a tutti e ovunque, senza distinzioni, dovrà essere consentito di vaccinarsi gratuitamente: perché è giusto e perché necessario per la sicurezza comune. Vaccinarsi è una scelta di responsabilità, un dovere. Tanto più per chi opera a contatto con i malati e le persone più fragili. Di fronte a una malattia così fortemente contagiosa, che provoca tante morti, è necessario tutelare la propria salute ed è doveroso proteggere quella degli altri, familiari, amici, colleghi. Io mi vaccinerò appena possibile, dopo le categorie che, essendo a rischio maggiore, debbono avere la precedenza. Il vaccino e le iniziative dell'Unione Europea sono due vettori decisivi della nostra rinascita. L'Unione europea è stata capace di compiere un balzo in avanti. Ha prevalso l'Europa dei valori comuni e dei cittadini. Non era scontato. Alla crisi finanziaria di un decennio or sono l'Europa rispose senza solidarietà e senza una visione chiara del proprio futuro.  Gli interessi egoistici prevalsero. Vecchi canoni politici ed economici mostrarono tutta la loro inadeguatezza. Ora le scelte dell'Unione Europea poggiano su basi nuove. L'Italia è stata protagonista in questo cambiamento. Ci accingiamo - sul versante della salute e su quello economico - a un grande compito. Tutto questo richiama e sollecita ancor di più la responsabilità delle istituzioni anzitutto, delle forze economiche, dei corpi sociali, di ciascuno di noi. Serietà, collaborazione, e anche senso del dovere, sono necessari per proteggerci e per ripartire. Il piano europeo per la ripresa, e la sua declinazione nazionale - che deve essere concreta, efficace, rigorosa, senza disperdere risorse - possono permetterci di superare fragilità strutturali che hanno impedito all'Italia di crescere come avrebbe potuto. Cambiamo ciò che va cambiato, rimettendoci coraggiosamente in gioco. Lo dobbiamo a noi stessi, lo dobbiamo alle giovani generazioni. Ognuno faccia la propria parte. La pandemia ci ha fatto riscoprire e comprendere quanto siamo legati agli altri; quanto ciascuno di noi dipenda dagli altri. Come abbiamo veduto, la solidarietà è tornata a mostrarsi base necessaria della convivenza e della società. Solidarietà internazionale. Solidarietà in Europa. Solidarietà all'interno delle nostre comunità. Il 2021 deve essere l'anno della sconfitta del virus e il primo della ripresa. Un anno in cui ciascuno di noi è chiamato anche all'impegno di ricambiare quanto ricevuto con gesti gratuiti, spesso da sconosciuti. Da persone che hanno posto la stessa loro vita in gioco per la nostra, come è accaduto con tanti medici e operatori sanitari. Ci siamo ritrovati nei gesti concreti di molti. Hanno manifestato una fraternità che si nutre non di parole bensì di umanità, che prescinde dall'origine di ognuno di noi, dalla cultura di ognuno e dalla sua condizione sociale. È lo spirito autentico della Repubblica. La fiducia di cui abbiamo bisogno si costruisce così: tenendo connesse le responsabilità delle istituzioni con i sentimenti delle persone. La pandemia ha accentuato limiti e ritardi del nostro Paese. Ci sono stati certamente anche errori nel fronteggiare una realtà improvvisa e sconosciuta. Si poteva fare di più e meglio? Probabilmente sì, come sempre. Ma non va ignorato neppure quanto di positivo è stato realizzato e ha consentito la tenuta del Paese grazie all'impegno dispiegato da tante parti. Tra queste le Forze Armate e le Forze dell'Ordine che ringrazio. Abbiamo avuto la capacità di reagire. La società ha dovuto rallentare ma non si è fermata. Non siamo in balìa degli eventi. Ora dobbiamo preparare il futuro. Non viviamo in una parentesi della storia. Questo è tempo di costruttori. I prossimi mesi rappresentano un passaggio decisivo per uscire dall'emergenza e per porre le basi di una stagione nuova. Non sono ammesse distrazioni. Non si deve perdere tempo. Non vanno sprecate energie e opportunità per inseguire illusori vantaggi di parte. È questo quel che i cittadini si attendono. La sfida che è dinanzi a quanti rivestono ruoli dirigenziali nei vari ambiti, e davanti a tutti noi, richiama l'unità morale e civile degli italiani. Non si tratta di annullare le diversità di idee, di ruoli, di interessi ma di realizzare quella convergenza di fondo che ha permesso al nostro Paese di superare momenti storici di grande, talvolta drammatica, difficoltà. L'Italia ha le carte in regola per riuscire in questa impresa. Ho ricevuto in questi mesi attestazioni di apprezzamento e di fiducia nei confronti del nostro Paese da parte di tanti Capi di Stato di Paesi amici. Nel momento in cui, a livello mondiale, si sta riscrivendo l'agenda delle priorità, si modificano le strategie di sviluppo ed emergono nuove leadership, dobbiamo agire da protagonisti nella comunità internazionale. In questa prospettiva sarà molto importante, nel prossimo anno, il G20, che l'Italia presiede per la prima volta: un'occasione preziosa per affrontare le grandi sfide globali e un'opportunità per rafforzare il prestigio del nostro Paese. L'anno che si apre propone diverse ricorrenze importanti. Tappe della nostra storia, anniversari che raccontano il cammino che ci ha condotto ad una unità che non è soltanto di territorio. Ricorderemo il settimo centenario della morte di Dante. Celebreremo poi il centosessantesimo dell'Unità d'Italia, il centenario della collocazione del Milite Ignoto all'Altare della Patria. E ancora i settantacinque anni della Repubblica. Dal Risorgimento alla Liberazione: le radici della nostra Costituzione. Memoria e consapevolezza della nostra identità nazionale ci aiutano per costruire il futuro. Esprimo un ringraziamento a Papa Francesco per il suo magistero e per l'affetto che trasmette al popolo italiano, facendosi testimone di speranza e di giustizia. A lui rivolgo l'augurio più sincero per l'anno che inizia. Complimenti e auguri ai goriziani per la designazione di Gorizia e Nova Gorica, congiuntamente, a capitale europea della cultura per il 2025. Si tratta di un segnale che rende onore a Italia e Slovenia per avere sviluppato relazioni che vanno oltre la convivenza e il rispetto reciproco ed esprimono collaborazione e prospettive di futuro comune. Mi auguro che questo messaggio sia raccolto nelle zone di confine di tante parti del mondo, anche d' Europa, in cui vi sono scontri spesso aspri e talvolta guerre anziché la ricerca di incontro tra culture e tradizioni diverse. Vorrei infine dare atto a tutti voi - con un ringraziamento particolarmente intenso - dei sacrifici fatti in questi mesi con senso di responsabilità. E vorrei sottolineare l'importanza di mantenere le precauzioni raccomandate fintanto che la campagna vaccinale non avrà definitivamente sconfitto la pandemia. Care concittadine e cari concittadini, quello che inizia sarà il mio ultimo anno come Presidente della Repubblica. Coinciderà con il primo anno da dedicare alla ripresa della vita economica e sociale del nostro Paese. La ripartenza sarà al centro di quest'ultimo tratto del mio mandato. Sarà un anno di lavoro intenso. Abbiamo le risorse per farcela. Auguri di buon anno a tutti voi!

Le reazioni al discorso di Mattarella, Conte: "Restiamo coesi". Zingaretti: "Richiamo al senso di responsabilità". Consensi anche dal centrodestra. La Repubblica il 31 dicembre 2020.

Il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, sceglie di telefonare direttamente al presidente Mattarella per ringraziarlo. E sui social scrive: "Dal Presidente un grande messaggio che chiama tutti alla responsabilità, al senso di comunità e all'impegno per la rinascita italiana insieme a un'Europa che sta cambiando. È tempo di ricostruire".

Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte - che nel pomeriggio ha rivolto un messaggio agli italiani sui social -  loda così le parole del capo dello Stato: "È stata la solidarietà, nazionale e internazionale a portarci fin qui, alle porte della rinascita. Ora arriva il compito più difficile, quello di continuare a restare coesi e di utilizzare rapidamente e al meglio le risorse utili a sostenere le persone più colpite da questa crisi, nella consapevolezza - come ha detto Mattarella - che 'ora è il tempo dei costruttori'. Sono certo che ce la faremo".

Ma consensi arrivano anche dal fronte di centrodestra. Giorgia Meloni, che ha da poco annunciato una mozione di sfiducia nei confronti del governo, dice: "Ha ragione il Presidente Mattarella, quello che ci aspetta è tempo di costruttori. Per questo facciamo nostro il suo appello ad affrontare il piano europeo per la ripresa in modo concreto ed efficace, senza disperdere risorse come invece purtroppo è stato fatto negli ultimi mesi. Noi siamo pronti a fare la nostra parte e ci auguriamo che anche il governo faccia la sua: definisca subito il piano e lo sottoponga al Parlamento, alle Regioni e alle forze sociali. Se non è in grado tolga il disturbo e lasci che il 2021 sia anche l'anno in cui gli italiani possano tornare a scegliersi un governo all'altezza delle sfide che ci attendono".

Il leader leghista Matteo Salvini definisce "parole sante" quelle di Mattarella sul tempo dei costruttori: "Parole sante, l'anno non può cominciare con una politica che perde tempo a parlare di rimpasti, litigi, poltrone. Come fondamentale e non scontata è la richiesta di più attenzione e più aiuti concreti per i disabili, un popolo di 6 milioni di italiani che più di altri ha sofferto per il Covid".

E il numero di Forza Italia, Silvio Berlusconi, dice: "Mattarella ha saputo esprimere nel modo più alto il comune sentire degli italiani al termine di un anno difficile. Siamo in perfetta sintonia con ogni parola del Capo dello Stato, che ha saputo cogliere la sofferenza di tanti italiani, le difficoltà delle imprese, le angosce delle categorie meno tutelate. Credo in particolare sia molto importante che il Presidente della Repubblica abbia ribadito, in questa occasione solenne, l'appello ad un'unità sostanziale della nazione e della sua classe dirigente, unità che non cancella le distinzioni di parte ma che le supera in nome della comune responsabilità verso il futuro del Paese e verso le nuove generazioni. È lo spirito con il quale abbiamo lavorato in questi mesi difficili e nel quale continueremo ad operare nel 2021, che dovrà essere per l'Italia l'anno della ripartenza".

Messaggi anche dai presidenti delle due Camera. La presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati, dice che quello di Mattarella "è un monito sul piano sanitario, anche con la scelta di vaccinarsi. E dal punto di vista economico un impegno forte a superare interventi a pioggia di una finanza di emergenza con riforme strutturali, per non perdere il treno dell'Europa e garantire un futuro all'Italia". Per il presidente della Camera, Roberto Fico, le parole di Mattarella " indicano la rotta, un senso di comunità che deve ispirare il nostro agire come cittadini e istituzioni".

Per il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, "le parole del Presidente Mattarella, come sempre, indicano la via da percorrere. La scienza ci offre l'arma più forte in questo momento: il vaccino. Restiamo uniti". E il ministro della Salute, Roberto Speranza, loda le parole del capo dello Stato perché indicano "la solidarietà e la coesione come chiave per uscire definitivamente da questa stagione così difficile".

Stasera Italia della redazione di Video News su Rete 4 Mediaset puntata preserale del 31 dicembre 2020, ore 20.30 circa. Maria Giovanna Maglie, minuto 9: «Il Sono una persona irragionevole. Per questo tu mi inviti a serate come questa. Io da persone irragionevole, nel dovuto rispetto per il presidente della Repubblica, ti dico che io ho trovato questo discorso profondamente inadeguato; volutamente inadeguato. Ovvero, il Presidente della Repubblica Italiana si è rifugiato sapientemente dietro i limiti costituzionali de suo mandato per non dirci niente. Un pezzo di discorso richiamava quello di un primario di un buon ospedale; un altro pezzo di un vescovo pieno di coscienza; l’ultima parte un elenco di calendario. In mezzo c’era un richiamo all’Europa, naturalmente dovuto. Ma allora avrebbe dovuto anche dirci, che qui vengo all’antitesi rispetto alla tesi, e chiudo subito. Allora avrebbe dovuto anche dirci: come mai che questa Europa ha fatto firmare un accordo capestro sulla distribuzione dei vaccini e poi ci ha lasciato con una mano davanti e una dietro, perché la Germania ha fatto come gli pareva ecc.? Come mai questa mattina è stato firmato un accordo d’intesa tra l’Unione Europea e la Cina, in cui l’Italia non è stata nemmeno invitata?»

Ore Daniele Capezzone l’1 gennaio 2021 su La Verità. Sergio Mattarella prima della diretta di fine anno (Ansa) Quattordici lunghissimi minuti di tradizionale predica, resa ancora più retorica dal Coronavirus. Così, Sergio Mattarella, nel suo discorso di fine anno non ha risparmiato nulla di ciò che si poteva agevolmente immaginare. Intanto, il consueto repertorio eurolirico, omettendo di menzionare la fuga in avanti tedesca sui vaccini. Elogi sperticati a Bruxelles, capace di compiere un balzo in avanti, con l'Italia definita "protagonista in questo cambiamento" rispetto alle risposte inadeguate che l'Europa diede anni fa alla crisi finanziaria. Sul fronte interno invece un astuto tentativo di muoversi su due binari: Conte potrà ricavarne la sensazione di essere stato implicitamente puntellato dalla richiesta presidenziale di unità, ma Matteo Renzi e gli avversari del premier potranno obiettare che da parte del Capo dello Stato non sia giunta alcuna difesa esplicita del governo, anzi nemmeno una marginale menzione.

·        Le profezie per il 2021.

Mario Draghi e Nostradamus: le centurie avevano previsto tutto? Notizie.it il 13/02/2021. Nostradamus aveva davvero previsto l’arrivo di Mario Draghi, il Coronavirus e la guerra? Le centurie ci svelano dettagli sorprendenti. A distanza di secoli Nostradamus continua a far parlare di sé grazie alle innumerevoli profezie che ci raccontano gli eventi salienti che hanno sconvolto il mondo di oggi. Non solo il Coronavirus che ha lasciato nella nostra società un segno indelebile, ma anche la guerra e soprattutto l’avvento di Mario Draghi grazie ad una profezia relativa alla Madonna di Garabandal conosciuta come la Fatima spagnola. A riportare le centurie Matteo Ciuffreda che in un’esclusiva a MeteoWeb ha analizzato punto per punto le profezie relative a Draghi in questo senso. Nostradamus aveva davvero previsto il Coronavirus, la guerra e Mario Draghi? Cosa ci dice il noto profeta sull’avvento dell’ex presidente della BCE e nuovo premier italiano? Alcune centurie interpretate da Matteo Ciuffreda a MeteoWeb ci svelano diversi retroscena relativi ad alcuni dei più importanti eventi che hanno scosso il mondo negli ultimi anni. Non solo guerra e Coronavirus, ma persino alcune centurie farebbero “riferimenti all’attuale nomina del professor Draghi a Presidente del Consiglio dei Ministri“. In particolare Ciuffreda ha analizzato delle quartine relative alle apparizioni della Madonna di Garabandal avvenute tra il 1961 e il 1965. Tali profezie parlano di un evento che sarebbe durato per circa 600 giorni: “Garabandal è detta anche la Fatima spagnola, e collegata secondo mie ricerche a Medjugorjie. La mia attenzione durante questo mese è partita dall’analisi del termine “Dragon” in francese, e Draco in latino, lingua usata anche dal veggente provenzale Michel de Notredame”. L’esperto ha poi aggiunto: “Il Drago è presente in tantissimi racconti mitologici medievali, da Ladone in Grecia, il Dio serpente Maya Quetzalcoatl, Niohogge nella mitologia norrena, Drag-ayami nell’indiano antico. Lo troviamo anche come il Serpente Uroboro, dalla lingua copta “Ouro” uguale Re, e “Ob” uguale “Serpente/Drago”.

Valentina Mericio. Classe 1989, laureata in Lingue per il turismo e il commercio internazionale, gestisce il blog musicale "432 hertz" e collabora con diversi magazine.

Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 12 gennaio 2021. I Simpson hanno già previsto tutto: durante i suoi 32 anni di vita, la famiglia ideata da Matt Groening ha più volte azzeccato il futuro, tanto da costruirsi una certa reputazione in merito. Correva l'anno 1999: Mel Gibson, aiutato da Homer, parte all'assalto del Congresso riunito. Armato di un fucile semiautomatico, distrugge tutto e semina il panico a Capitol Hill. Durante l'attacco, presidente e speaker rimangono uccisi mentre un senatore viene assassinato dallo stesso Gibson (che lo infilza con una bandiera a stelle e strisce). L'intero Campidoglio viene infine distrutto dalle fiamme. Per fortuna, nella realtà, le cose sono andate un po' meglio. Dalla performance di Lady Gaga al Super Bowl (preannunciata ben otto anni prima) alla diffusione della pandemia d'Ebola (il virus non si sarebbe diffuso fino al 2014, 17 anni dopo la messa in onda della puntata Il sassofono di Lisa), le anticipazioni continuano a destare stupore. In una puntata del 2000, Bart legge il futuro. Lisa, sua sorella, diventerà presidente degli Stati Uniti. Prenderà il posto di, guarda caso, Donald Trump. Circa 16 anni dopo, Trump viene eletto. I Simpson sono come la Bibbia, che aveva previsto tutto? Nella Bibbia c'è il futuro: dal primo uomo sulla luna alla depressione economica del 1929, dalla rivoluzione americana a quella russa, dalle due guerre mondiali allo sterminio per mano di Hitler e ancora dall'omicidio di John Kennedy all'elezione di George Bush. Così la pensano i non pochi predicatori americani che nei loro sermoni televisivi sostengono che il Pentateuco svelava il futuro già migliaia di anni fa. Circolano video in cui ci sono i nomi e le date di personaggi famosi, già prefigurati nel testo sacro. La Bibbia avrebbe previsto anche gli Ufo. Una cosa è certa: i Simpson sono la nostra bibbia-pop. Dietro il paravento del cartone animato (prodotto rivolto in prevalenza ai più piccoli), i Simpson mettono in scena un ritratto intelligente e spietato della nostra società. La famiglia (Homer, Marge, Bart, Lisa e Maggie) è investita dalla politica, dal lavoro, dai rapporti di coppia, dal potere delle grandi industrie, dai media, dalla quotidianità. Ma anche tutti gli altri abitanti di Springfield sono tratteggiati con acume e profondità, tanto da costituire, nella loro complessità, uno specchio ustorio della nostra società, puntellato da osservazioni e battute memorabili. Qualcuno sostiene che, dopo le prime otto stagioni, è cominciata a farsi strada una certa stanchezza e che Homer, il profeta dell'inadeguatezza, si trascina ormai pigramente. Può darsi, tuttavia i Simpson restano fra le cose più intelligenti mai trasmesse dalla televisione (e l'inadeguatezza, intanto, ha preso il potere, almeno da noi). Come fanno a predire il futuro? Come possono scoprire il bosone di Higgs? Nella decima stagione, Lisa invita il padre a inventare qualcosa seguendo le orme di Thomas Edison. Mentre Homer scarabocchia sulla lavagna, riesce a scrivere una complicata equazione che nel 2013 il Cern scoprirà essere quasi identica a quella del bosone di Higgs. O come hanno potuto prevedere che un giorno qualcuno avrebbe chiesto di coprire le nudità del David di Michelangelo? Preveggenza, fortuna, gioco combinatorio? Come tutti gli appassionati dei Simpson sanno, il primo episodio della serie animata Roasting on an Open Fire (Un Natale da cani) è stato trasmesso il 17 dicembre 1989. Con un crescendo di successo nel corso degli anni, i Simpson sono diventati la più importante sitcom della tv americana, riflesso e parodia della società occidentale. Creata da Groening, con i produttori James L. Brooks e Sam Simon, la famiglia più famosa di Springfield si è trasformata in un vero e proprio fenomeno mediatico globale, inconfondibile per la sua irriverenza. Ma i Simpson sono stati e continuano a essere uno dei più grandi esempi di cultura pop. Più che proporsi come specchio deformante della realtà - dove mettere alla berlina la contraffazione sociale, lo sfascio ambientale, la menzogna politica - rappresentano un geniale gioco linguistico che usa, svela, distrugge tutti gli stereotipi attraverso cui i media raccontano il mondo. I Simpson creano un loro universo coerente e complesso, e allo stesso tempo citano la tv, il cinema, la letteratura e perfino se stessi. I frammenti s'incastrano gli uni negli gli altri e si rimandano all'infinito, illuminando di altri significati la vicenda raccontata. Ogni puntata è una riflessione non solo sulla tv ma sul proprio modo di fare tv. Difficile trovare una serie che abbia un grado così elevato di autocoscienza. Se cultura pop significa anche dare dignità estetica alla rappresentazione del banale e del quotidiano o servirsi di immagini e di oggetti già esistenti che, manipolati e presentati in vario modo, si caricano di una nuova espressività, ebbene i Simpson hanno svolto un lavoro linguistico di rara complessità. Hanno trasformato l'ibridazione tecnologica (la famosa convergenza dei media) in fiction; hanno convertito la citazione in appropriazione indebita sviando i significati (come suggerivano i situazionisti); hanno infine usato il metalinguaggio in funzione autoironica, togliendo alla parola cultura ogni boria, ogni pretesa, ogni bardatura elitaria o ideologica. È come se la cittadina di Springfield (ne esistono migliaia nel mondo) fosse davvero il centro dell'universo, l'ombelico del mondo mediale, il luogo dove tutto viene contaminato, dove l'universo è ridotto alle articolazioni di un cartoon, dove nulla è più ciò che dichiara di essere. Le profezie dei Simpson non sono altro che il frutto di questa grandiosa, intelligente ars combinatoria. Come aveva previsto Jorge Luis Borges: «La Biblioteca è totale, e i suoi scaffali registrano tutte le possibili combinazioni dei venticinque simboli ortografici (numero, anche se vastissimo, non infinito) cioè tutto ciò ch'è dato di esprimere, in tutte le lingue».

Nostradamus, "il peggio deve venire dopo il Covid". Cosa succederà nel 2021: sciagura impensabile. Libero Quotidiano il 07 gennaio 2021. Previsioni e profezie lasciano sempre il tempo che trovano, eppure piacciono sempre a tanta gente anche solo per avere un argomento assurdo di cui discutere. Ebbene, per il 2021 non potevano mancare le profezie di Nostradamus, l’astrologo francese che circa cinque secoli fa scrisse una serie di quartine in rima che, secondo i più affascinati da queste teorie, avrebbero predetto eventi catastrofici quali l’ascesa di Hitler, l’attacco alle Torri gemelle, lo sbarco sulla Luna. Ovviamente anche per il 2021 secondo Nostradamus l’umanità non potrà dormire sonni tranquilli: il peggio infatti secondo l’astrologo non sarebbe finito, con l’anno nuovo che si preannuncerebbe drammatico a partire da una carestia che si abbatterà sul mondo intero. Chissà che non possa essere una conseguenza della pandemia di coronavirus, che secondo l’Onu lascerà strascichi socio-economici devastanti, ma una carestia nel 2021 sembra un po’ azzardata anche per gli standard di Nostradamus. Non che le altre profezie siano meno improbabili quanto assurde: secondo l’astrologo dovremmo temere una tempesta solare, un terremoto in California, un asteroide che potrebbe colpire la terra. L’unica previsione positiva riguarda lo sbarco sulla Luna, con il 2021 che dovrebbe essere l’anno buono per colonializzarla e gettare le basi per un futuro turismo spaziale alla portata dell’uomo. 

Nostradamus: le otto previsioni apocalittiche per questo 2021. Notizie.it il 31/12/2020. Sono ben otto le previsioni che Nostradamus ha scritto per il 2021 appena iniziato: tra queste carestie, terremoti e persino un'invasione di zombie. Il 2020 è stato un anno molto pesante per tutto il mondo a causa della pandemia di coronavirus, ma a quanto parà secondo le previsioni di Nostradamus non dovremo aspettarci molto di meglio dal 2021 appena iniziato. L’astrologo francese aveva predetto una crisi economica che avrebbe colpito l’occidente, che sarebbe stata la conseguenza dell’insorgenza di alcune epidemie. Il farmacista dell’epoca medioevale è stato il più grande indovino di sempre e oltre cinque secoli fa è riuscito a predire eventi che nel corso degli anni sono realmente accaduti. Nostradamus ha fatto moltissime previsioni, come il bombardamento delle città giapponesi di Nagasaki e Hiroshima, l’attentato alle Torri Gemelle e l’elezione di Donald Trump. Ha fatto oltre 6000 profezie e i pareri su di lui sono molto contrastanti: c’è chi lo considera un perfetto indovino e chi pensa sia stato solo un cialtrone. La verità, però, è che su molte profezie non si era sbagliato. “A volte accade che il profeta porti la luce perfetta della profezia e che possa rendere manifeste cose sia umane che divine” aveva scritto in una lettera per il figlio Cesare. Anche per l’anno 2021, che arriverà tra poche ore, Nostradamus aveva predetto cose molto inquietanti. Il 2021 iniziato da pochissimo ma Nostradamus aveva fatto 8 previsioni spaventose per quest’anno. Ecco cosa dovranno aspettarsi le persone secondo l’indovino:

L’arrivo degli zombie: fino ad oggi li abbiamo visti solo nei film di fantascienza, ma Nostradamus ne parlava secoli fa. L’indovino ha predetto che si arriverà alla creazione di un’arma biologica ad opera di uno scienziato russo capace di trasformare gli esseri umani in zombie, per segnare l’estinzione del genere umano;

Carestie e malattie: secondo le previsioni la fame nel mondo è destinata a crescere in modo molto significativo. Per questi anni aveva previsto catastrofi naturali ed epidemie e, pensando al Coronavirus, pare non essersi sbagliato. Questa carestia sarà fatale per moltissimi abitanti del pianeta;

I musulmani saranno padroni del mondo: secondo il profeta i musulmani saranno sempre più numerosi in Europa e in questo decennio la conquisteranno con una guerra;

Tempeste solari: “Vedremo le acque salire e la terra crollare su di esse” ha scritto Nostradamus, parlando delle tempeste solari causate dal cambiamento climatico. A causa di queste catastrofi naturali ci saranno molte guerre per stabilire a chi spetteranno le ultime risorse umane rimaste;

Cometa in collisione con la Terra: l’indovino ha predetto una serie di terremoti causati dalla collisione tra una cometa e la Terra. Gli scienziati della Nasa hanno spiegato che uno dei grandi minerali citati da Nostradamus è passato vicino alla Terra il 16 agosto scorso e questo evento rende la profezia un po’ più reale;

Terremoto che distruggerà la California: secondo Nostradamus la California sarà colpita da un violentissimo terremoto. Ha addirittura svelato la data esatta in cui avverrà questa catastrofe, ovvero il 25 novembre 2021;

I soldati americani avranno un cervello impiantato: Nostradamus era convinto che molti uomini verranno sostituiti con dei robot, tramite l’impianto di cervelli dotati di intelligenza superiore;

Papa Francesco inviterà il mondo ad unirsi alla chiesa: secondo l’indovino, gli uomini saranno talmente provati da questi eventi che penseranno che la loro unica salvezza sarà la fede. Il Papa chiederà ai suoi fedeli di consolidare la loro fede cristiana.

·        2020. Un anno di Pandemia.

2020: un anno in ostaggio di Covid-19. Simone Valesini su La Repubblica il 30 dicembre 2020. Da Wuhan a Codogno. I mesi del lockdown. E oggi, i vaccini con la uce in fondo al tunnel. 12 mesi terribili, ma da non dimenticare. E chi se lo dimenticherà, questo 2020. Un anno strano, scandito da preoccupazioni, sacrifici, paure, distanze e nuove abitudini. Un anno di vita sospesa, che in molti vorremmo solamente lasciarci alle spalle e dimenticare al più presto. E che invece sarà importante ricordare, non solo per rispetto verso le tante vittime di questa pandemia, ma anche per assicurarci di aver imparato qualcosa dai successi e dagli errori fatti negli scorsi mesi. Così da farci trovare pronti quando il prossimo, maledetto, virus epidemico tornerà a colpire le nostre società. Per aiutare la memoria, ecco una timeline degli eventi più significativi in questo anno dominato da Covid-19.

31 dicembre 2019, prime avvisaglie. In questa data l’Oms comunica ufficialmente la comparsa dei primi casi di polmoniti anomale nella città di Wuhan, dopo che per giorni il governo cinese ha cercato di silenziare le voci di una possibile nuova malattia diffuse dall’oculista Li Wenliang (che a febbraio morirà proprio a causa di Covid). Si tratta di 41 infezioni riconducibili ad un mercato cittadino, uno dei cosiddetti wet market dove si vendono pesci e animali vivi, che diviene così l’epicentro del primo focolaio della nuova epidemia (anche se le ricerche successive hanno iniziato a mettere in dubbio la questione), e sarà chiuso dalle autorità il primo gennaio del 2020.

9 gennaio, il mondo riscopre i coronavirus. L’Oms annuncia che le autorità sanitarie cinesi hanno identificato il patogeno responsabile delle misteriose polmoniti di Wuhan: si tratta di un nuovo coronavirus ancora sconosciuto, battezzato inizialmente 2019 nCov (nuovo coronavirus del 2019). Il virus inizia subito a fare paura, perché appartiene alla stessa famiglia di Sars e Mers, due delle più pericolose malattie infettive diffusesi negli ultimi decenni. Ma in questa fase i timori sono contenuti, non ci sono ancora conferme che il virus possa trasmettersi da uomo a uomo e anzi, il 14 gennaio il governo cinese (con l’appoggio dell’Oms) annuncia che le indagini svolte sembrano negare il rischio. Il 10 gennaio viene pubblicata la sequenza genetica del virus, e nei giorni successivi in tutto il mondo iniziano gli sforzi per produrre kit diagnostici basati sulla Pcr (i famosi “tamponi”).

21 gennaio, si inizia a parlare di epidemia. Dopo aver smentito per settimane i rischi, il 21 gennaio il governo cinese ammette che il virus è trasmissibile tra esseri umani, e risulta anzi anche particolarmente infettivo. A questo punto ha già ucciso 4 persone e i casi confermati sono saliti a circa 200. Diversi casi sono ormai stati identificati anche fuori dal paese (in Thailandia, Giappone, Corea, Stati Uniti e Francia). Il 23 gennaio il governo cinese decide di agire, e sceglie la linea dura: arriva il primo lockdown, che chiude a casa oltre 18 milioni di cinesi a Wuhan e nelle città limitrofe.

30 gennaio, primi pazienti in Italia. Il presidente del Consiglio Conte e il ministro della Salute Speranza annunciano che sono stati identificati i primi pazienti anche in Italia. Si tratta di una coppia di coniugi cinesi in viaggio nel nostro paese, ricoverati il 29 gennaio in isolamento allo Spallanzani di Roma. Il ministro Speranza annuncia la chiusura del traffico aereo da e per la Cina. Il giorno seguente, 31 gennaio, l’Oms dichiara che la nuova malattia, ancora senza nome, è ora classificata come emergenza di sanità pubblica di interesse internazionale. Il Consiglio dei Ministri dichiara lo stato di emergenza sanitaria in Italia. 

10 febbraio, la malattia ha un nome. I decessi in Cina superano ufficialmente quelli provocati dalla Sars nel 2003, raggiungendo quota 908 (contro le 774 morti registrate durante la precedente epidemia). L’11 febbraio l’Oms annuncia che il nuovo virus, e la malattia che provoca, hanno finalmente un nome: sentiamo parlare per la prima volta di Covid 19 (Coronavirus disease 2019) e del suo agente eziologico, il virus Sars-Cov-2. Il 12 febbraio viene confermata l’infezione di 175 persone a bordo della nave da crociera Diamond Princess, attraccata nel porto di Yokohama, in Giappone. Nelle settimane seguenti 700 passeggeri isolati a bordo della nave verranno contagiati da Sars-Cov-2, e 14 moriranno a causa della malattia.

20 febbraio, inizia l’epidemia italiana. Il paziente italiano numero uno si presenta all’ospedale di Codogno il 17 febbraio con i sintomi di una leggera polmonite. Viene rimandato a casa con una prescrizione di antibiotici, perché in quel momento i criteri per sottoporre i pazienti ad un tampone richiedevano un contatto sospetto con qualcuno proveniente dalla Cina. Nei giorni seguenti le sue condizioni peggiorano, viene sottoposto a tampone molecolare nonostante le prescrizioni contrarie del Ministero e viene trovato positivo. Si iniziano a sottoporre a tampone altri casi sospetti, e il 20 vengono confermati 16 casi autoctoni di Covid 19, 14 in Lombardia e 2 in Veneto. Il 23 marzo arriva il primo decreto legge che impone l’isolamento nei comuni colpiti dall’epidemia: sono 10 nella provincia di Lodi e uno in provincia di Padova. Inizia ufficialmente la stagione dei dpcm: il 5 marzo viene sospesa la didattica nelle scuole e nelle università di tutta la penisola, l’8 marzo si estende la zona ad altre 26 province del Nord Italia, e il 9 marzo viene annunciato il primo lockdown nazionale, che andrà avanti fino al 3 maggio.

11 marzo, Covid è ufficialmente una pandemia. Dopo settimane di attesa e di critiche, l’11 marzo il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, annuncia che Covid 19 è stata dichiarata ufficialmente una pandemia. Dall’inizio dell’epidemia nel mondo sono già morte più di 4mila persone, e i casi registrati sono quasi 120mila.

18 marzo, il giorno peggiore. L’Italia finisce sulle prime pagine di tutto il mondo. A fare scalpore è la foto dei camion militari che sfilano per il centro di Bergamo, carichi di bare dirette verso i forni crematori di altre regioni perché la camera mortuaria cittadina non è più in grado da giorni di accogliere nuovi feretri. I morti nel nostro paese hanno quasi raggiunto quota 3mila. Per la fine del mese i morti italiani raggiungeranno la cifra record di 12mila, i casi totali saliranno a 105mila. Non a caso, il 23 luglio il governo decide di istituire la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’epidemia, da celebrare il 18 marzo di ogni anno.

2 aprile, il mondo è in ginocchio. In questa data viene superata ufficialmente la soglia del milione di contagi in tutto il mondo. I morti sono oltre 53mila, e il virus ha raggiunto ormai i quattro angoli del globo. Dal 27 marzo gli Usa hanno superato i 100mila casi, diventando il nuovo epicentro dell’epidemia: l’11 aprile i morti americani raggiungono quota 20mila, strappando al nostro paese il triste primato dei decessi legati a Covid 19, che detenevamo da metà marzo quando i morti italiani hanno superato quelli cinesi. Entro la fine del mese nel mondo si superano i 200mila morti per Covid 19.

29 aprile, il primo farmaco. Un trial dell’Nih suggerisce l’efficacia del remdesivir, farmaco che dai dati dell’agenzia americana velocizzerebbe del 31% i tempi di dimissione dei pazienti Covid. Il primo maggio il farmaco è il primo (e attualmente ancora l’unico) a ricevere l’approvazione di emergenza dell’Fda per il trattamento dell’infezione da Sars-Cov-2. L’Europa segue a stretto giro, e il farmaco viene approvato dall’Ema a luglio. Nonostante l’alto prezzo deciso dall’azienda produttrice (che in America supera i 3mila dollari per paziente) il medicinale non ha mostrato però benefici sulla sopravvivenza dei pazienti all’interno dello studio solidarity dell’Oms, e l’agenzia mondiale della sanità al momento non ne raccomanda l’utilizzo nei pazienti ospedalizzati.

4 maggio, finisce il lockdown. Con l’ennesimo dpcm il 4 maggio l’Italia esce dal lockdown. Il calo dei contagi permette finalmente di allentare le regole, anche se il ritorno alla normalità è lento, e progressivo. Inizialmente riaprono solamente le attività essenziali, e si torna a poter uscire di casa per incontrare parenti e amici, previo il rigido rispetto delle regole di distanziamento sociale. Il 18 riaprono negozi, musei, bar e ristoranti, e si tornano a celebrare le funzioni religiose. Il 25 è la volta dei centri sportivi, dal 3 giugno si torna a circolare tra regioni.

4 giugno, la ricerca traballa. Due delle principali riviste mediche del pianeta, Lancet e New England Journal of Medicine, annunciano il ritiro di due studi sull’efficacia dell’idrossiclorochina, il farmaco delle meraviglie sponsorizzato dallo stesso presidente Trump. Il problema riguarda i dati, forniti da un’azienda privata, la Surgisphere, che non è in grado di offrire garanzie sufficienti sulla loro accuratezza. È la prima avvisaglia dei problemi che funesteranno la ricerca scientifica su Covid19: conciliare rigore e velocità non è facile, e non è un caso se per la fine dell’anno le ricerche di peso ritirate sul tema dell’epidemia siano arrivati quasi a 40.

15 giugno, arriva Immuni. Voluta dal governo, e presentata come asset strategico per gestire la fase 2 dell’epidemia, il 15 giugno viene finalmente lanciata su tutto il territorio nazionale Immuni, la app per il contact tracing realizzata gratuitamente dalla società Bending Spoons. Nonostante la pubblicità la app stenta però a decollare: ad agosto sono appena 5 milioni gli utenti che l’hanno installata sul proprio smartphone.  A ottobre siamo a circa 7 milioni. Si scopre inoltre che le Asl non avevano l’obbligo di inserire i codici dei pazienti positivi nel database, rendendo di fatto inutile l’applicazione. Conte pone rimedio al problema il 18 ottobre, ma ormai la app si era rivelata un fallimento, almeno per prevenire l’arrivo della seconda ondata epidemica nel nostro Paese.

17 luglio, l’epidemia indiana. Dopo aver superato la prima ondata, iniziata a marzo, senza troppi danni, l’India ha visto risalire l’indice dei contagi durante il periodo estivo. Il 17 luglio i casi nel paese hanno superato quota un milione, con oltre 25mila decessi. Molte aree della nazione tornano in lockdown, e il mondo assiste impotente mentre l’epidemia fa il suo corso chiedendo un costo altissimo in vite umane: ad oggi l’India è il secondo paese più colpito al mondo, con oltre 10 milioni di casi confermati e più di 140mila decessi.

21 luglio, arriva il recovery fund. Dopo giorni di trattative tesissime, il 21 luglio i leader Ue hanno trovato l’accordo sul piano straordinario di aiuti per i paesi maggiormente colpiti dall’epidemia. Una vittoria per l’Italia, che si vede destinare oltre 200 miliardi sui 750 messi a disposizione dal piano.

22 agosto, nuovo record di morti. L’estate ha visto l’epidemia procedere a singhiozzo, con nazioni in cui la situazione è migliorata fino a spingere i più ottimisti a ritenerla storia passata (come in Italia) e altre in cui il virus non ha mai lasciato la presa. Il 22 agosto nel mondo si è superata la soglia degli 800mila morti, soprattutto sulla spinta dell’alto numero di decessi registrati in Usa, India, Sud Africa, Brasile e altre nazioni del Sud America.

28 settembre, un milione di morti. A 10 mesi dall’inizio della pandemia il mondo ha raggiunto il milione di morti per Covid 19. Una soglia psicologica importante: il nuovo coronavirus ha ucciso più persone di quante ne abbiano uccise influenza, Hiv, dissenteria, malaria e morbillo sommate assieme.

2 ottobre, si ammala anche Trump. Dopo aver annunciato che la first lady è risultata positiva a Sars-Cov-2, anche il presidente degli Stati Uniti si ammala e viene ricoverato. Viene dimesso dopo appena tre giorni, dopo aver ricevuto un cocktail di farmaci sperimentali tra cui spiccano gli anticorpi monoclonali della Regeneron (che in Usa hanno ricevuto l’approvazione emergenziale a metà novembre). Non è il primo né l’ultimo uomo politico colpito dalla malattia: prima di lui era capitato a Boris Johnson nel Regno Unito (finito anche in terapia intensiva) e al presidente brasiliano Bolsonaro, e nei mesi seguenti succederà anche a Emmanuel Macron in Francia.

8 ottobre, seconda ondata. Dopo un’estate tranquilla, molti paesi europei hanno visto tornare alla carica il virus con l’inizio dell’autunno. L’Italia inizialmente ha sembrato reggere meglio dei vicini, ma la curva epidemica ha iniziato a impennarsi verso i primi di ottobre. Dall’8 ottobre si corre ai ripari, imponendo l’utilizzo delle mascherine anche all’aperto sull’intero territorio nazionale. Non è sufficiente: la corsa del virus continua inarrestabile, e verso  primi di dicembre si arriva al nuovo record di decessi, con quasi mille morti al giorno.

3 novembre, l’Italia a zone. Per cercare di arginare la seconda ondata epidemica, il nuovo dpcm del 3 novembre stabilisce un sistema di semafori regionali che divide il paese in zone rosse, arancioni e gialle, in ordine decrescente di gravità dell’epidemia. In tutta la nazione viene instaurato un coprifuoco notturno tra le 22:00 e le 5:00 di mattina.

9 novembre, arrivano i dati sui vaccini. Finalmente, novembre riserva anche le prime buone notizie dell’anno. Pfizer annuncia infatti i risultati del trial di fase 3 per il suo vaccino anti covid. L’efficacia sembra aggirarsi attorno al 90%. Pochi giorni e arriva anche l’annuncio della rivale Moderna: vaccino efficace oltre il 95%. È quindi la volta di Astrazeneca, produttrice del vaccino realizzato in collaborazione con l’Università di Oxford su cui l’Europa (e l’Italia) puntano maggiormente per uscire dall’epidemia. In questo caso l’efficacia sembra minore, vicino al 70%, ma durante lo studio è emerso, grazie ad un errore, che un dosaggio minore del preparato potrebbe risultare ben più efficace di quella prevista, raggiungendo una protezione vicina al 90%. Un risultato promettente, che obbliga però a nuovi trial, e ritarda l’approvazione del vaccino.

8 dicembre, il Regno Unito si smarca. Bandendo gli indugi e le precauzioni seguite dal resto dei paesi europei, il Regno Unito decide di approvare il vaccino anticovid della Pfizer senza attendere il parere dell’Ema. Il 9 dicembre è la prima nazione occidentale a iniziare la campagna di vaccinazioni di massa contro Covid 19. Seguono gli Usa, che l’11 dicembre concedono l’approvazione emergenziale al vaccino di Pfizer, e danno inizio alle somministrazioni il 15 dicembre.

21 dicembre, arriva l’ok dell’Europa. A pochi giorni da Natale arriva finalmente l’annuncio della Commissione Europea: a seguito del parere positivo espresso dall’Ema il vaccino di Pfizer riceve l’autorizzazione (condizionale) per l’immissione in commercio nei paesi Ue. Le danze si aprono il 27 dicembre, con una grande giornata di vaccinazioni in tutta Europa. In Italia vengono effettuate le prime 9.700 iniezioni. Dal 29 dovrebbero iniziare ad arrivare le altre 459mila dosi previste per il nostro Paese dal contratto sottoscritto dall’Unione Europea con Pfizer. Il 4 gennaio 2021 si attende quindi l’approvazione del vaccino Moderna, e l’arrivo di nuove dosi e nuove vaccinazioni. La strada è ancora lunga, e se tutto andrà come sperato i vaccini dovrebbero arrivare a garantire l’immunità di gregge (e quindi la fine dell’epidemia) per il prossimo autunno. Ma se non altro, sembra che finalmente il vento stia cambiando.

2020, l’anno da dimenticare che non cancelleremo mai dalle nostre vite. Francesco Leone su Notizie.it il 26/12/2020. Dalla terza guerra mondiale alla pandemia: il 2020 è stato un anno difficile, da dimenticare ma il cui segno rimarrà indelebile sulla nostra pelle. Lo schiaffo del Papa nella notte di San Silvestro, l’uccisione nel raid statunitense a Bagdad del generale Qassem Soleimani e l’alba di una fantomatica terza guerra mondiale. Il 2020 iniziava così, non con il migliore dei presupposti, e avanzava nelle vite di tutto il mondo insinuando lentamente la minaccia di un’emergenza di cui ancora oggi stentiamo a definirne la natura, gli effetti e la capacità di intimorire intere popolazioni, governi ed economie. Era il tempo dell’elezioni regionali, quelle in cui la sfida era tra centrodestra e centrosinistra: una partita a scacchi nel nome delle nuove amministrazioni locali, quelle che ancora in un immaginario dal retaggio democristiano erano considerate come territori da conquistare in vista di instillare il declino del governo centrale. E chi se lo dimentica Salvini che citofona a Yaya nella periferia di Bologna. O ancora il cavaliere Berlusconi che rassicura gli elettori ai banchetti della Santelli a suon di “Lei in 26 anni che la conosco non me l’ha mai data”. Eppure quella corsa elettorale ci aveva fatto provare un non modesto interesse. Le sardine sono solo un esempio. Piccoli pesci in un mare di giovani vecchi che per la prima volta, o di nuovo, carpivano l’importanza del voto, quella che avrebbero successivamente perso più tardi: più precisamente nel referendum costituzionale di settembre quando a fare da padrona del seggio è stata la rabbia, sapientemente mixata nei pregiudizi populisti verso la casta parlamentare promossa da chi voleva aprire il parlamento come una scatoletta di tonno, ma che alla fine un po’ la figura del tonno l’ha fatta. Viaggiava come sempre tutto rapidamente. Il processo Gregoretti prendeva forma, l’Australia soccombeva al maltempo dopo i grandi incendi che ne avevano devastato gran parte del territorio, Kobe Bryant si spegneva insieme alla piccola Gianna Maria in un incidente in elicottero prima di una celebrazione sportiva provocando l’estremo cordoglio di tutto il mondo dello sport. Scorreva tutto così, rapidamente. Una sequela di vicende, cronaca, politica, lotta per i diritti e battaglie contro il cambiamento climatico. A fare da sottofondo moderato c’era ciò che stava accadendo in Cina: troppo lontano per impensierirci, troppo tardi per poterne comprendere il fenomeno in modo tale da non soccombervi. Così mentre da Wuhan, Nancino e Hong Kong ci arrivavano le immagini di una delle epidemie più bestiali di sempre, noi dichiaravamo lo stato d’emergenza, discriminavamo prima e poi difendevamo la comunità, la ristorazione e la cultura cinese. La verità è che eravamo troppo intenti a non perderci la faida sanremese di Morgan e Bugo e pensavamo (come Zingaretti) che in fondo fare un aperitivo a Milano non era poi un’idea così malvagia, nonostante nella gara alla sicurezza sanitaria, i primi casi e l’allerta del contagio fossero già in pole. L’Italia non si ferma, Milano non si ferma. Poi è stata la volta di Vo’ Euganeo e di Codogno, prima la zona rossa localizzata poi il lockdown generalizzato. Italia zona protetta. Mentre si consumava una strage silenziosa all’interno delle Rsa di tutto il paese, a Bergamo, Alzano Lombardo e Nembro i morti non si contavano più. L’esodo dei fuorisede viaggiava sulle rotaie delle ferrovie di stato, in barba ai commenti dei governatori del sud che mai come allora hanno desiderato la fuga dei cervelli indigeni. Dalle carceri di tutta Italia giungeva il primo presentimento della tolleranza zero nei confronti delle norme anti-covid. Col tempo abbiamo imparato (chi più, chi meno) a conoscere la schiettezza dei termini "assembramento", "quarantena", "restrizioni". Abbiamo assistito alla politica dei decreti del presidente del Consiglio dei Ministri mentre cercavamo in mascherine il lievito sugli scaffali dei supermercati a entrata contingentata. Abbiamo cantato sui balconi, scoperto lo smart working e le atrocità della pandemia di coronavirus. Ci eravamo fermati, e fermandoci abbiamo scoperto che la nostra non è una società che sopravvive in stasi. La quarantena passa così, tra un fuorionda di Mattarella, una gaffe di Fontana e Gallera e il dolce augurio di Vincenzo De Luca di una vampata di lanciafiamme durante qualche festa di laurea. Quello che è venuto dopo è stata la caccia in elicottero al rider occasionale, al passeggiatore di cani domenicale, al nostalgico dell’aperitivo. L’era dei “governatori sceriffo”. Di seguito la corsa alle terapie intensive, gli eroi in corsia, le storie dalla prima linea e la gara delle regioni al “chi contiene meglio vince e non può essere contestato”. I casi raggiungevano il picco della curva epidemiologica, le vite spezzate erano diventate numeri nel continuo aggiornamento del bollettino della Protezione Civile. La cassa integrazione, i posti di lavoro a rischio e intere categorie abbandonate prima e soccorse poi da provvedimenti in continuo emendamento. Il plateau, il tempo per ragionare sulla riapertura, sull’accesso al Mes per sostentare la crisi economica che veniva alimentata, erta sulle colonne rette dall’emergenza sanitaria vestita da Atlante. Quel 4 maggio sembrava che tutto fosse passato. Silvia Romano era stata liberata e riportata in Italia e con lei era tornata anche la polemica sterile all’italiana. Trascorsi i mesi più bui, la falsa partenza italiana si muoveva in un’estate di sana perdizione (a confronto col tenore di vita osservato in lockdown) giustificata dalle scelte del governo e alternata al caldo delle piazze italiane infervorate dalle proteste di innumerevoli categorie e rappresentanze dei lavoratori. Tra questi balenava in sordina anche il pensiero negazionista: un complottismo che altro non poteva che far scivolare la disperazione dei tanti nel calderone del fanatismo scellerato dei molti. Dall’altra parte del mondo intanto cresceva il movimento Black Lives Matter. Oltreatlantico dopo la morte dell’afroamericano George Floyd, avvenuta per mano di un agente di polizia, si mobilitavano attivisti per i diritti civili, folle che facevano scricchiolare la poltrona di Donald Trump prossimo alle nuove elezioni presidenziali. Un tema complesso quello dell’uguaglianza negli Stati Uniti, che vedeva dibattere le parti attorno a scogli generazionali che affondano ancora oggi le radici in differenze culturali appartenenti a epoche ormai abbandonate. Qualcosa di stupidamente difficile. In Italia invece, nella grande complessità situazionale della pandemia, la fase 2 era riuscita a rendere tutto più stupidamente semplice. Distanziamento a scuola? Bando del ministero per i banchi a rotelle. Distanziamento nei locali? Plexiglass, massimo 6 persone al tavolo ma nessuna mascherina indossata una volta seduti. Sostentamento alle partite iva? Assegno da 600 euro da corrispondere con qualche mese di ritardo. Nota bene: nessuna di queste è stata una soluzione, ma col senno di poi, in effetti, è troppo facile asserirlo (o forse no?). C’è chi aveva detto che il virus era morto, clinicamente s’intende. C’era anche chi aveva detto che ci sarebbe stata una seconda ondata nel periodo autunnale. Al tempo erano solo opinioni, voci stampate sulle pagine cartacee e digitali che si sfogliavano di tanto in tanto in vacanza. Settembre ha sancito il crocevia di quella che doveva essere la vera rinascita. Di fatto, mentre inorriditi ascoltavamo la storia di Willy, giovane ragazzo capoverdiano ucciso in una rissa a Colleferro, assistevamo alla volontà dell’elettorato sul taglio dei parlamentari, alla poco preparazione di alcune regioni nella campagna vaccinale e ai mancati controlli sui trasporti, lì dove brulicava il contagio. Distratti, magari dall’incredibile vittoria di Joe Biden e Kamala Harris alle presidenziali in Usa, passavamo i nostri giorni attorniati dall’ombra di un nuovo lockdown mentre i contagi continuavano a crescere a dismisura. Scontavamo le colpe di un’estate passata all’insegna di quella libertà che ci era stata limitata in primavera. Le regioni prendevano colore, le nuove restrizioni richiamavano gli appuntamenti dei dpcm alle luci della ribalta e le piazze delle città pativano il nuovo coprifuoco. L’incubo della Dad è tornato, così come la chiusura dei ristoranti e il timore di doversi ritrovare a contare ancora nuovi morti per covid in Italia. Così è stato. Di nuovo in prima linea, ancora una volta a rincorrere una curva epidemica che ormai c’era sfuggita dalle mani. Ci siamo fermati di nuovo. Abbiamo salutato due eterni campioni come Diego Armando Maradona e Paolo Rossi, ricordandoci che questo poco poetico 2020 ci ha portato via anche Ezio Bosso, Ennio Morricone, Franca Valeri e Gigi Proietti. Adesso tiriamo le somme e attendiamo di capire se almeno a Natale non dovremmo sentirci dei criminali mentre sediamo al tavolo del cenone con le nostre famiglie, nonostante vestiremo una mascherina e stringeremo in mano il referto di un tampone covid negativo.

C’è rimasta una speranza, quella del vaccino, che di certo non redimerà niente di quanto terribilmente inaccettabile sia accaduto in questo 2020. Però magari, stigmatizzando il passaggio di quest’anno nefasto, sorrideremo. E alla domanda che chiede se il 2021 potrà mai essere peggiore dell’anno che lasciamo alle nostre spalle, amaramente risponderemo “Dobbiamo dircelo chiaramente, questo rischio c’è“.

Nel 2020 i morti sono diventati solo un numero. Natale Cassano su Notizie.it il 28/12/2020. Le vite diventano cifre, senza indicazioni di storie, di nomi e cognomi, di situazioni; si trasformano in pura statistica per definire un incremento o decremento in quelle tabelle. Un numero. Fredde cifre che a volte fatichiamo a ricollegare a vite reali, affetti, sentimenti, problemi e gioie della vita quotidiana. Com’è cambiata l’idea della morte in questo difficile 2020, da quando la pandemia è entrata nella nostra vita? Finché la parola “Covid” era ancora estranea al nostro vocabolario, finché questa infezione misteriosa sembrava circoscritta a qualche lontana città d’oriente, la perdita di una vita è sempre stata vissuta in maniera empatica, anche quando la persona coinvolta non era strettamente legata a noi. Leggendo i giornali o navigando sui social network, era facile immedesimarsi nel dolore dei parenti e provare noi stessi quella sofferenza, sempre consapevoli del classico “poteva accadere a noi”. Eppure da quando a marzo la parola “pandemia” ha cominciato a entrare, silenziosa, nella nostra quotidianità, quel meccanismo si è lentamente spezzato. Con un risultato tragicamente noto: oggi, a quasi un anno di distanza, si nota una maggiore difficoltà nel provare empatia davanti a un decesso che non ci tocca direttamente. E questo è legato direttamente a come la gestione del Covid-19 ha trasformato la nostra percezione della morte. Sembrano infatti lontane anni luce quelle immagini strazianti della fila delle camionette dell’Esercito che attraversano Bergamo con all’interno le salme dei deceduti della prima ondata. Un’immagine che è stata riproposta ciclicamente da TG e giornali, anche per mantenere l’attenzione alta sulla pericolosità del virus, quando al termine della quarantena è scattato il “liberi tutti”. Improvvisamente il Covid non sembrava più un pericolo, bensì un dramma del passato da esorcizzare. Ma dopo i bagordi dell’estate la seconda ondata del virus ci ha investito come un tifone, obbligandoci a tornare a quelle restrizioni a cui così difficilmente ci eravamo abituati. Al contempo, però, diversamente da quello che si diceva (tutti ricordiamo il “ne usciremo migliori”, motto della prima fase, vero?), si è assistito a una deumanizzazione della morte, perché questa si è trasformata in un freddo numero. Lo vediamo ogni giorno nel bollettino, regionale e nazionale, che leggiamo sulla stampa. Le vite diventano cifre, senza indicazioni di storie, di nomi e cognomi, di situazioni; si trasformano in pura statistica per definire un incremento o decremento in quelle tabelle. E in questo marasma, l’unico elemento che ci preoccupa è il capire se la curva è in discesa o in risalita. Torniamo così a pensare a noi stessi e a non provare empatia. Un ragionamento che si ritrova anche nelle dichiarazioni pubbliche. Pensiamo alle parole di Domenico Guzzini, presidente di Confindustria Macerata, che davanti alle telecamere ha ricordato la necessità di aprire, perché “le persone sono un po’ stanche e vorrebbero venirne fuori, anche se qualcuno morirà, pazienza”. Ecco, in quel “pazienza” si rivede perfettamente il quadro della situazione: il bene della popolazione che supera quello del singolo; la morte giustificata come danno collaterale alla vita di altri.Una situazione che da molti viene accettata, anche a causa dell’effettiva sciatteria che si ritrova nei famosi bollettini della Protezione civile: i decessi direttamente legati al virus non vengono distinti da quelli legati anche ad altre patologie e finiscono nel calderone della statistica, facendo inevitabilmente crescere le fila dei negazionisti, che cercano continui appigli per confermare la confortante ipotesi del “virus che non esiste, è tutto un complotto“. E neppure il Natale ci ha reso, se non più buoni, almeno più empatici. Il gigantesco dibattito sulle aperture che ha preceduto le festività si lega a doppio filo a questo triste risultato: del rischio della morte (soprattutto degli altri) ci interessa poco, l’importante era (ed è) poter respirare un istante di normalità, almeno in un periodo che da sempre è sinonimo di felicità. Doveva essere un Merry Christmas, a tutti costi, in attesa di brindare a un (si spera) felice anno nuovo. E se questo comporta conseguenze per la salute degli altri? Il pensiero comune si riassume in quell’unica parola: “Pazienza”. E allora come si inverte la tendenza, in vista del 2021 ormai alle porte? Difficile dirlo, ma un buon punto di partenza sarebbe tornare a legare quei numeri dei morti a un viso, a una storia, a un particolare che possa nuovamente renderli umani. Qualcuno ci sta provando, ripercorrendo questo 2020 da dimenticare ma che mai cancelleremo dalla nostra memoria, raccontando quelle vite spezzate dalla malattia, nonostante i commenti poco empatici di chi continua imperterrito a sottolineare che “la persona era anziana” oppure che “soffriva di patologie pregresse”. Dimenticandosi che la perdita di un affetto fa male comunque, qualunque sia la causa che l’ha allontanato da noi per sempre.

Il contagio, la quarantena, la morte. E la speranza. Il racconto di un anno di pandemia. Tutto cominciò con una nave a Civitavecchia. E poi Codogno, Nembro, Bergamo, Jesolo, Milano. Nel diario di una cronista l’Italia in zona rossa. Ognuno con la sua linea di confine. Elena Testi su L'Espresso il 26 dicembre 2020.  Una madre guarda la nave da crociera. È ferma. In lontananza si vedono solo alcune persone che si muovono. «Sto cercando di contattare mio figlio», dice. Le telecamere puntano la flotta galleggiante, tutti riprendono il ponte in un’inquadratura a caccia di sensazioni. Dentro c’è un sospetto caso di Coronavirus. Arriva la chiamata del figlio. Raccontano di gente ammassata all’interno del grande ristorante, dell’altoparlante che chiede a tutti di isolarsi nelle proprie cabine. Arrivano informazioni sconnesse di tamponi, di reagenti, di 72 ore. Di risultato negativo e di altri virus che devono essere esclusi per poter dire che il Covid-19 non fluttua in una nave attraccata a Civitavecchia. È il...

Una madre guarda la nave da crociera. È ferma. In lontananza si vedono solo alcune persone che si muovono. «Sto cercando di contattare mio figlio», dice. Le telecamere puntano la flotta galleggiante, tutti riprendono il ponte in un’inquadratura a caccia di sensazioni. Dentro c’è un sospetto caso di Coronavirus. Arriva la chiamata del figlio. Raccontano di gente ammassata all’interno del grande ristorante, dell’altoparlante che chiede a tutti di isolarsi nelle proprie cabine. Arrivano informazioni sconnesse di tamponi, di reagenti, di 72 ore. Di risultato negativo e di altri virus che devono essere esclusi per poter dire che il Covid-19 non fluttua in una nave attraccata a Civitavecchia. È il 30 gennaio. Sono le 22.00 dello stesso giorno, di fronte all’hotel Palatino di Roma, due turisti cinesi vengono messi dentro a un’ambulanza e portati all’ospedale Spallanzani. Entriamo nella grande hall dell’albergo. Il direttore fa cenno con una mano che non può parlare. Un gruppo di inglesi entra e nascosti tra loro ci infiliamo nell’hotel. Tutto è normale, tutto è placido. La notizia del Covid -19 arrivato in Italia è un timido accenno che si disperde in una manciata di ore. C’è vita, c’è normalità, ci sono le persone ammassate per strada. C’è la crisi di Governo con un Matteo Renzi intento a scarnificare il ministero della Giustizia Alfonso Bonafede. C’è Matteo Salvini con i selfie. C’è la prescrizione. Ci sono i bambini che vanno a scuola. C’è una Wuhan lontana che mormora con gente affacciata ai balconi. C’è un mese. Nulla accade. I treni sono bloccati, la stazione di Bologna è persa in un vociare di persone che tentano di raggiungere Milano. A Casalpusterlengo un macchinista è risultato positivo al Covid-19, hanno deciso di bloccare quella tratta per precauzione. È il 24 febbraio, tre giorni fa un ragazzo di Codogno, paesino di 15mila abitanti è il primo positivo accertato. «La prego mi faccia salire», urla una ragazza a un controllore di Trenitalia, l’uomo fa cenno con la testa. Ci infiliamo tutti dentro l’unico treno pronto a partire per il nord. Non c’è spazio, non c’è aria. Alcuni sono seduti dove si impilano le valigie. È un’Italia schizofrenica. Quando il treno parte ci sentiamo vittoriosi. Passiamo per il Veneto, Casalpusterlengo è ancora chiusa, qualcuno si chiede se il virus non sia nell’aria, ma il pensiero da guerra batteriologica viene schizzato via dalla mente. Le forze dell’ordine in quei tre giorni si sono già piazzate. Nessuno deve uscire. C’è un fuori e un dentro. Un noi e un loro. Sono 47mila quelli in area rossa, l’area del lodigiano. Gli “infetti”, c’è chi li chiama così. Per raggiungere i check-point basta prendere Google maps. I segni rossi nella mappa sono il confine invalicabile. I militari non parlano, rimangono con il mitra a metà. I “quarantenati” si affacciano alla frontiera, una donna ferma l’auto, attende le provviste. Un altro gruppo di persone ha una ruspa, sulla pala viene caricato cibo per animali portato da un paesino vicino, libero dalle restrizioni. Ai check-point arriva di tutto: detersivi, sigarette, cibo. Viene lasciato a pochi metri e poi preso da chi è bloccato dentro. Un ragazzo si nasconde, esce fuori quando vede arrivare un’auto, è la fidanzata. Si scambiano un abbraccio. Lei piange, lui la bacia. Le ambulanze corrono dentro. Sono tante. Non sono ambulanze normali, dentro hanno tutti una tuta bianca che li copre. La gente muore mentre fuori si parla di banale influenza. Una bambina di 14 anni di Codogno rimane sola con la sorella di 12, i genitori sono in terapia intensiva. Ha paura degli assistenti sociali. C’è caos, rimangono sole per dieci giorni. Senza cibo. La protezione civile è sopraffatta, deve consegnare le mascherine che non ci sono, deve organizzare, trovare ossigeno per salvare chi ha crisi respiratorie. Dopo dieci giorni c’è chi si accorge di loro, mentre la vita scivola via. Sono denutrite ma si salvano. Un miracolo nella tragedia. Sembra un paese spezzato da verità diverse. Milano si sente intoccabile, il sindaco Beppe Sala invoca normalità. Arriva il segretario del Pd Nicola Zingaretti da Roma, lo accogliamo circondandolo, tutte le domande sono su Matteo Renzi e la tenuta del Governo. Il simbolo della normalità è uno Spritz, mentre la morte silenziosamente miete centinaia di lodigiani. Ci rendiamo conto che il virus è diffuso più di quanto non si voglia credere quando iniziamo a schivare quarantene. Parte la conta degli incontri. Le distanze e la diffidenza. Ad Alzano Lombardo e Nembro, comuni a pochi chilometri da Bergamo, un’ondata si porta via anime inconsapevoli. Si discute se fare una cinta di protezione per evitare che Bergamo diventi un focolaio. I giorni passano e nulla viene fatto, ancora è da capire il perché, visto che le forze dell’ordine sono già schierate per chiudere l’intera area. Camillo Bertocchi, sindaco di Alzano, ha uno schema nel suo ufficio. Su un cartellone di carta bianca ci sono le frecce che indicano cosa fare ogni volta che mancano le bombole d’ossigeno. Nell’unica agenzie di pompe funebri di Alzano, le urne sono una accanto all’altra. «Questi fogli – dice la proprietaria – dove c’è data di nascita, luogo e riferimenti, sono persone che noi conosciamo personalmente. Hanno avuto una vita e una storia». Le ceneri sono in barattoli ovali neri con sopra il nome di chi non c’è più. Sono stati messi nei forni crematori dentro un sacco nero. Nudi e con i segni della malattia cicatrizzati sui propri corpi, a cancellare quei segni sono le fiamme. Donne e uomini, giovani e anziani. Sono passati attraverso la malattia. Sono caduti, si sono rialzati, ma anime e corpi sono ancora prigionieri del virus. Le loro storie, gli incubi e le speranze. È il 7 marzo, un sabato, sono le 18. Trapelano notizie di una Lombardia quarantenata. Milano scopre di essere in mezzo a un focolaio. La gente corre verso la Stazione Centrale. È l’inizio del domani e la fine improvvisa dell’oggi. Dopo un giorno l’Italia intera viene dichiarata zona rossa. Alcuni giorni dopo la serrata generale sul Pirellone le luce accese delle finestre scrivono “Restate a casa”, mentre davanti al cimitero di Bergamo c’è la fila di carri funebri. Non ci sono parenti. Il cancello si apre, entrano dentro, lasciano la bara e ripartono. Quel giorno in un’ora ne arrivano dodici. Dodici corpi. In una chiesa non distante uomini con le tute di bio-contenimento disinfettano i feretri. Il sole si è già eclissato, i carri dell’esercito si fermano, i militari escono composti e silenziosi, prendono le bare. Non c’è più spazio nella piccola cappella, sono oltre sessanta. Nessuno in quel momento sa chi ci sia dentro, neanche le famiglie. Non hanno un nome i morti che lasciano la città. Si percorrono chilometri di autostrada senza incontrare nessuno. Le uniche vite che incroci guidano ambulanze o carri funebri. Sono così tanti da farti venire la nausea. Il covid in Lombardia si è infilato ovunque, anche a Milano. La gente alza il volume dei televisori, dello stereo. Ogni casa ha una colonna sonora per coprire il suono della paura. Tutto è avvenuto all’improvviso, senza preavviso. Un frangente che segna il prima e il dopo, ma ognuno ha il suo frangente. Per alcuni è la morte di un parente, per altri è la quarantena, per altri ancora la fine della libertà avvolta dal terrore del contagio. E quei contagi arrivano in corsia. Fuori dall’ospedale di Cremona ci sono dei tendoni bianchi. I malati scendono dalle ambulanze sopra una barella. Fissiamo i loro visi che spariscono nella zona sporca allestita all’aperto, prima di entrare nella tensostruttura riscaldata. Se rimani in silenzio senti la loro tosse e credi di morire con loro. Per istinto ti allontani. Una signora sui sessanta anni arriva, attende e fa cenno a un medico. Poco dopo un uomo con un sacchetto dell’immondizia in mano le si avvicina. «Finalmente», dice la donna all’uomo. Il marito è lì da un tempo infinito: quaranta giorni. «Lo riporto a casa», fa cenno con la mano e vanno via abbracciati. Non capiamo, difficile farlo. Sappiamo che l’ossigeno è finito. Conosciamo le procedure perché le vediamo. Le ambulanze arrivano impacchettano i malati dentro delle coperte termiche dorate. Un colore strano per il dolore, ti viene da pensare ogni volta che i soccorritori li portano via. Poi ci sono i vigili del fuoco che vanno a sfondare le porte delle persone morte da sole in casa. Sono tante e noi lo sappiamo perché vicino casa c’è una caserma dei vigili del fuoco. Stanno proprio davanti. Sulla finestra c’è scritto “FORZA GIACOMO” a lettere grandi e colorate. Dicono che è in terapia intensiva, ma che ce la farà. Dicono tante cose, ma sono terrorizzati negli occhi, nelle smorfie della bocca. Entrano nelle case vuote, avvertiti da qualche vicino. Entrano nei ricordi. La maggior parte sono sui loro letti. Intorno il vuoto. Le immagini delle vittime del Covid rimangono con noi. E compongono un’elegia, una preghiera.  Che chiede giustizia, memoria, vicinanza. I contagi sono iniziati a calare mentre il numero dei medici morti è salito. Giacomo Grisetti vive a Como, lui il Covid lo ha preso per visitare un paziente, parla dalla taverna dove è stato confinato. La moglie gli lascia un vassoio con il cibo. Ricorda l’amico, medico anche lui, prima di essere intubato ha spedito un messaggio nella chat whatsapp «Si mette male, saturo poco». Quando parla di lui la voce si strozza. A volte ti capita di tornare negli ospedali, di cercare alcuni medici per salutarli e di scoprire che non ci sono più. Hanno perso la loro battaglia con il Covid, ma prima ne hanno vinte tante altre salvando la vita dei loro pazienti. Abbiamo capito che la prima ondata se ne stava andando quando il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, è apparso a Lodi. Dopo, l’estate è passata senza che nessuno si fermasse. Non c’è stato un momento di silenzio per le perdite. Eppure ricordiamo quei medici mentre percorrono i corridoi bianchi. Il momento in cui riuscivano a staccarsi la mascherina dal viso, non avevano segni ma solchi. I vestiti zuppi di sudore per le tute. I turni infiniti. Tutto cancellato, coperto dal suono delle discoteche. Ma il covid è un virus subdolo. Cammina con noi. E lo abbiamo tenuto per mano fino a ottobre. Vicino al Michelangelo, il covid hotel della prima ondata, sulla ringhiera di una terrazza c’è un cartello, c’è scritto “andrà tutto bene”. È sbiadito, la luce dell’appartamento è sempre spenta. Abbassi lo sguardo e vedi le auto circolare. Le persone camminano per strada, ammassate in metro arrivano al lavoro. Per un attimo ricordi i corpi degli anziani portati fuori da una Rsa con un telo bianco sopra. La gente sui balconi. La protezione civile che con il megafono intima a stare in case, a indossare la mascherina. Tempi dimenticati. È metà ottobre quando fuori dall’ospedale Niguarda di Milano i pazienti covid-19 iniziano ad essere troppi. Il responsabile del Pronto Soccorso, Andrea Bellone, ha la faccia preoccupata: «Dobbiamo limitare gli spostamenti o non ce la faremo». Il responsabile della terapia intensiva Roberto Fumagalli si commuove pensando a quando avevano chiuso ai covid il suo reparto, perché non ce ne erano più. All’ospedale Sacco, sempre di Milano, Pietro Olivieri, direttore medico, ha già riconvertito metà struttura «e il peggio se continuiamo così, deve ancora arrivare». Il peggio alla fine è arrivato. All’ospedale di Magenta il reparto di terapia sub-intensiva, gestito dal primario Nicola Mumoli, è stracolmo, dentro ci sono 240 pazienti. Se la terapia intensiva è impressionante quello che accade dentro una sub-intensiva è agghiacciante. Il casco che li aiuta a respirare fa un rumore assordante, sono sempre coscienti. Stanno a pancia in giù nella speranza di far entrare più aria possibile nei polmoni. La sensazione è tentare di respirare con il getto della doccia sparato in bocca. Quando chiedi a un medico cosa provano i pazienti che dalla sub-intensiva passano all’intensiva, in molti ti rispondono: «Sollievo, così possono avere una tregua». I reparti si riempiono, i medici per alcuni diventano degli aguzzini, accusati di esagerare. «Tutta una montatura, il Covid non esiste». E così capita che qualche negazionista entri in una farmacia e dica a Cristina Longhini: «I carri dell’esercito non esistono», proprio a lei che ha visto il padre dentro un sacco e che ha saputo qualche mese dopo che quei carri avevano portato via il suo papà a Ferrara. È successo anche a Diego Federici che ha perso entrambi i genitori: «Coppia inseparabile». Soccorritori, volontari che sacrificano la propria vita, inseguiti e insultati perché accusati di creare allarmismo. Presidenti di Regione impegnati a farsi colorare la regione con una tinta che non metta a repentaglio la propria reputazione, il tutto mentre noi contiamo i morti della seconda ondata che superano quelli della prima. È successo in Lombardia, è successo in Veneto, nel Lazio. Nell’Italia intera che parla di vite “non indispensabili” per poi scusarsi. Non c’è solo il Covid, c’è la mancata prevenzioni, le persone morte d’infarto perché non vogliono andare in ospedale. È successo anche a Tonina, portiera a Milano. Sempre sull’attenti appena arrivava un estraneo nel palazzo. Il cuore le si è fermato, ma lei di andare in ospedale con questo covid non voleva proprio saperne. Di Tonina rimane il ricordo della pasta al forno appena sfornata e un cartello con su scritto compianta. L’emergenza covid travolge il Nordest: in provincia di Verona gli obitori sono pieni e le salme vengono spostate in celle frigorifere per merci nel cortile dell’ospedale pubblico. Dopo i camion militari di Bergamo, ecco le terribili immagini della seconda ondata: nella regione di Zaia record di contagi e vittime, medici e infermieri allo stremo. Non abbiamo atteso la fine della seconda ondata, siamo a dicembre, e in provincia di Verona montano i container per stipare le salme. Dentro la terapia intensiva dell’ospedale di Jesolo si sente una voce: «Urgente, terapia intensiva». Un medico entra con una barella. Con poche mosse la paziente viene intubata, mentre un’altra, la “numero 1”, forse non ce la farà, perché come spiega il direttore Fabio Tuffoletto: «Con il covid il 50% vive, l’altro muore. La verità è che ancora non si è capito bene il motivo». È come tirare una monetina per aria. Per quasi 70mila italiani quella monetina è caduta dalla parte sbagliata. Alle loro famiglie dimenticate dalle Istituzioni un felice anno nuovo. Seppur difficile.

I nostri morti non se ne sono mai andati. Le immagini delle vittime del Covid rimangono con noi. E compongono un’elegia, una preghiera.  Che chiede giustizia, memoria, vicinanza. Giuseppe Genna su L'Espresso il 22 dicembre 2020. L'immagine più grande è la morte spiegata a noi bambini. Sono i camion militari. Noi bambini (perché ora siamo bambini anche se siamo adulti) li vediamo dall’alto, sappiamo tutto di tutti e ancora non abbiamo disimparato a sorprenderci, ad angosciarci e piangere. Più in là col tempo, mesi e mesi di virus alle spalle, matureremo un’anestesia impensabile, non sentiremo più nulla perché saremo stanchi di tutto: dei conteggi, degli annunci vaccinali, dei dpcm, dei volti elucubranti dei virologi, della fine delle economie, dell’insistenza dei preti per le messe, perfino di chi sta accanto a noi gomito a gomito in casa. Nella notte tra il 18 e il 19 marzo, nell’anno di disgrazia 2020, siamo invece...

L’immagine più grande è la morte spiegata a noi bambini. Sono i camion militari. Noi bambini (perché ora siamo bambini anche se siamo adulti) li vediamo dall’alto, sappiamo tutto di tutti e ancora non abbiamo disimparato a sorprenderci, ad angosciarci e piangere. Più in là col tempo, mesi e mesi di virus alle spalle, matureremo un’anestesia impensabile, non sentiremo più nulla perché saremo stanchi di tutto: dei conteggi, degli annunci vaccinali, dei dpcm, dei volti elucubranti dei virologi, della fine delle economie, dell’insistenza dei preti per le messe, perfino di chi sta accanto a noi gomito a gomito in casa. Nella notte tra il 18 e il 19 marzo, nell’anno di disgrazia 2020, siamo invece resi inermi nei nostri appartamenti italiani. Noi non sappiamo come ma dobbiamo fare la penitenza, perché la storia che ci punisce si fa vivida e ci spaventa, mediante un’immagine più grande del tempo che abbiamo finora vissuto. Nelle strade esuberanti di buio e luce artificiale, nella città muta Bergamo, nel cuore della Lombardia, la regione con l’indice di mortalità per virus più alto al mondo, una fila di convogli militari trasporta le bare respinte dal forno crematorio, che non può più ricevere cadaveri e ci espone, finalmente, all’orrore della morte che non vediamo. Le immagini della morte per virus le abbiamo intercettate per qualche secondo nella televisione, si intuivano i corpi nudi dei pazienti pronati, l’azzurro elettrico dei tubi per la respirazione assistita. Quella maniera della luce di far tremare le cose, gli andirivieni, il pavimento stordito dallo stare male dentro il reparto Covid. Ma questo dolore no, questi camion con la tela mimetica e le oscure sagome alla guida, un collassare della materia tutta, accecarci mentre vediamo la scena – questo no, non ce lo aspettavamo. Non dimenticheremo il 2020: dodici mesi segnati dal contagio, dalla paura e dalla solitudine. Ma anche dalla consapevolezza che se cambiamo ripartiremo. «L’immagine dei mezzi militari che escono dal nostro cimitero è stata e continua ad essere più grande di me», dice il sindaco di Bergamo. È stata e continua a essere più grande di tutti noi e non soltanto di Giorgio Gori, un uomo che nelle prime settimane del virus è andato piagandosi e rovesciandosi per il dolore e ha trasformato nell’incrinatura umana l’astratta reazione che ebbe a inizio della pandemia. Quel sindaco, in qualche modo, ha fatto la storia, perché l’ha davvero subita in nome di tutti noi: noi che abbiamo continuato a vivere, noi i morti, noi che non eravamo fisicamente lì, ma c’eravamo, perché Bergamo era comunque dappertutto, era il rischio ubiquitario nel pianeta. I camion atterriscono il pianeta. Questa immagine ci annichilisce. Come è diversa dalle grandi immagini che l’hanno preceduta! Con le immagini istantanee abbiamo appreso a rapportarci con la storia. Quando è accaduto sul pianeta che tutti avvertissimo nello stesso istante lo stesso pericolo di morte? Noi annaspiamo nella storia. Fatichiamo a prendere respiro tra un’immagine e l’altra. Ogni cronaca infittisce il trionfo del dolore a cui abbiamo assistito da spettatori privilegiati. L’uomo che cade, geometrico e minuscolo, newyorkese, lanciatosi da una delle Torri Gemelle – ci ha riguardato e infatti lo abbiamo guardato e riguardato, più volte. Ma non era l’immagine che implicava il rischio per tutti. Era forse la fine di un’idea di occidente o di un capitalismo, il tabù infranto della guerra su suolo americano, una scena in qualche film. Ricaricavamo il video, l’uomo tornava a cadere. Potevamo godere oscenamente di questo spettacolo di morte, perché anzitutto era tale: c’era una dose di spettacolarità. Chi aveva ideato ed eseguito quell’attentato aveva pensato alla risonanza spettacolare. Il che non accade qui, a Bergamo, seconda metà di marzo, nella notte che sa di neve schiacciata nella mota dai pneumatici. Qui non c’è spettacolo. I camion militari non desiderano farsi vedere, agiscono in silenzio. Sono mimetici, perché non si deve essere notati. Le bare in legno chiaro vengono stipate senza pubblico preavviso. Questo sconvolgente corteo funebre impartisce un monito definitivo, perché conferma la nostra impotenza e dimostra le ragioni della nostra disperazione. Esiste qualcuno che abbia visto continui replay queste immagini? Le immagini più prossime ai camion militari a Bergamo sono piuttosto le foto delle ombre umane stampigliate su marciapiedi e muri di Hiroshima. Donne uomini bambini evaporati, una morte istantanea mai prima sperimentata, il potere sovrannaturale della radiazione, la letalità di una nuova era imposta da un dispositivo tecnologico. Morti non visti, cadaveri inesistenti ma eternati, identità sconosciute, anonimato e perentorità del tempo, rattrappitosi in un istante. Quel flash atomico faceva sentire chiunque a rischio nel pianeta. Inaugurava un’epoca diversa dalle precedenti, un’economia planetaria hi-tech, una storia di accelerazioni e di vita progressiva delle macchine, la biologia confusa con il metallo. La paura globale cominciava qui a manifestarsi con i caratteri della modernità. L’Espresso ha scelto come protagonisti del 2020 la vita e la morte. Quest’ultima è stata rimossa dalla cultura, ma l’anno della pandemia l’ha riportata al centro. Ma avere paura del morire significa sapere che c’è qualcosa che trascende la nostra esistenza individuale. Un Fine. E gli Eredi. La bomba ieri, come il virus oggi, diviene il soggetto della storia. I camion militari a Bergamo sono l’istantanea di questo passaggio d’epoca. Tutti gli istanti culminati in uno. È un’immagine di involucri che nascondono dentro di sé altri involucri. I corpi dei respinti al forno crematorio sono ora occultati nelle bare zincate male, sarcofaghi spogli dentro cui si nasconde ciò che non vogliamo vedere. E non vediamo nemmeno questi feretri: essi giacciono nei camion dell’esercito, i quali paiono grossi sarcofaghi. I mezzi militari fendono la città, diventata essa stessa un abnorme sarcofago, Bergamo in forma di sepolcro, la lombardità nella sua cifra più lugubre e gelida. E infine l’ultimo sarcofago: è tutta l’immagine in sé, che mostra nascondendo ogni cosa, il male silente, le salme radioattive per il virus, le anime dei monatti. Qui non c’è più spettacolo, la realtà, pur rivestita a strati per nascondere i corpi affilitti dal male, è nuda. E un’ultima idea: forse è un sarcofago anche chi guarda il sarcofago dell’immagine, dentro cui si muovono i sarcofaghi di camion che nascondono i sarcofaghi dei deceduti…Tutto ciò che è nascosto, sarà in evidenza. Tutto ciò che è in evidenza, viene occultato. I morti li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Ovunque nel mondo è questa immagine e regna lo sconforto, la paura. Prima che cada la tunica della dimenticanza. E poi si rovescia tutto: l’anno, la disperazione, la morte. I camion militari si arrestano, i nosocomi si svuotano, sono scordati tutti i crematori e l’aria nuova entra nei pertugi e loro, che sono morti, ritornano a noi restaurati. Sono viventi, sono ritornati viventi. Non se ne erano mai andati. Con parole di poesia possiamo abbracciare chi non c’è più perché ci sarà sempre.

Esclusivo - Troppi morti in Veneto. Si riempiono i container.

L'emergenza covid travolge il Nordest: in provincia di Verona gli obitori sono pieni e le salme vengono spostate in celle frigorifere per merci nel cortile dell'ospedale pubblico. Dopo i camion militari di Bergamo, ecco le terribili immagini della seconda ondata: nella regione di Zaia record di contagi e vittime, medici e infermieri allo stremo. Paolo Biondani e Andrea Tornago su L'Espresso il 17 dicembre 2020. Dopo il triste corteo dei camion militari in marzo a Bergamo, le foto choc della seconda ondata arrivano dalla provincia di Verona: un container frigorifero sistemato nel cortile di un ospedale, per accogliere le salme delle troppe vittime del covid. Succede a Legnago, la cittadina di 25 mila abitanti dove ha sede il secondo polo sanitario pubblico della provincia. L'ospedale non riesce più a gestire il record dei contagi, ricoveri e decessi: l’obitorio è pieno, per cui le bare vengono spostate nel contenitore d'acciaio collocato all'esterno. Verona è la provincia più colpita dal coronavirus, con più di 1.300 morti e quasi 20 mila persone attualmente positive. E gli ospedali scoppiano, come testimonia il il chirurgo Ivano Dal Dosso, segretario veronese del sindacato dei medici Anaao: «Siamo in una situazione di estremo stress, a Legnago l’altro giorno in pronto soccorso c’erano 49 pazienti, di cui 20 in attesa di un letto. Ormai si gestiscono i malati direttamente lì, con il casco Cpap, come se fosse una terapia semi-intensiva. E questi pazienti non risultano nemmeno censiti nei bollettini della Regione, perché tecnicamente non sono ricoverati». Non va meglio nelle altre province venete, come raccontano gli altri rappresentati degli operatori sanitari ormai stremati. Stefano Polato, medico dell’ospedale dell’Angelo di Mestre, registra una «situazione decisamente preoccupante: sia le terapie intensive che i reparti attualmente disponibili sono pieni, basta un soffio di vento perché tutto precipiti». Anche a Vicenza, conferma l’ematologo Enrico Di Bona, «il quadro è grave e se continua così si arriverà al collasso, perché tutti gli ospedali dovranno essere riconvertiti esclusivamente al covid». A Treviso il chirurgo ortopedico Pasquale Santoriello, dell’ospedale cittadino Ca’ Foncello, parla di «personale distrutto, sfinito dai turni di 12 ore nelle tute di plastica, e sempre più soggetto al contagio. Poco fa ho incrociato un amico infermiere che mi ha riferito di essere appena risultato positivo al test: stava scappando dall’ospedale passando per gli scantinati, per cercare di non contagiare nessuno». In Veneto si era registrata, il 21 febbraio, la prima vittima italiana della pandemia. Nei mesi successivi della prima ondata questa regione, grazie alla massiccia campagna di controlli con tamponi molecolari avviata dall'ospedale universitario di Padova, ha limitato i contagi e i decessi rispetto al resto del nord Italia. Le riaperture incontrollate di questi mesi in zona gialla, però, hanno fatto esplodere i contagi e i decessi nella seconda ondata. E anche oggi, come ormai da settimane, il Veneto registra il record nazionale di nuovi contagiati (oltre 4.400) e delle vittime: altri 92 morti in 24 ore. Il primo a lanciare l’allarme era stato il segretario regionale dell’Anaao, il dottor Adriano Benazzato, che aveva contestato i criteri utilizzati dalla Regione Veneto per conteggiare i posti disponibili nelle terapie intensive: «In realtà sono soltanto 639, per attivarne 500 in più bisognerebbe assumere almeno 400 anestesisti rianimatori e oltre 1200 infermieri dedicati e preparati, che in Veneto non ci sono». Gli fa eco il suo vice, Andrea Rossi, geriatra dell’ospedale Borgo Trento di Verona: «In Veneto iniziamo a raschiare il fondo del barile. Qui o la regione cambia colore, oppure rischiamo di trovarci in un'emergenza ancora peggiore. Tra poco il covid potrebbe sommarsi al picco dell’influenza. E se non si corre subito ai ripari, la nave andrà a picco come era successo a Brescia e a Bergamo nella prima ondata».

·        Cosa resta dell’anno passato. I Fatti.

2020, l’anno da dimenticare che non cancelleremo mai dalle nostre vite. Francesco Leone su Notizie.it il 17/12/2020. Dalla terza guerra mondiale alla pandemia: il 2020 è stato un anno difficile, da dimenticare ma il cui segno rimarrà indelebile sulla nostra pelle. Lo schiaffo del Papa nella notte di San Silvestro, l’uccisione nel raid statunitense a Bagdad del generale Qassem Soleimani e l’alba di una fantomatica terza guerra mondiale. Il 2020 iniziava così, non con il migliore dei presupposti, e avanzava nelle vite di tutto il mondo insinuando lentamente la minaccia di un’emergenza di cui ancora oggi stentiamo a definirne la natura, gli effetti e la capacità di intimorire intere popolazioni, governi ed economie. Era il tempo dell’elezioni regionali, quelle in cui la sfida era tra centrodestra e centrosinistra: una partita a scacchi nel nome delle nuove amministrazioni locali, quelle che ancora in un immaginario dal retaggio democristiano erano considerate come territori da conquistare in vista di instillare il declino del governo centrale. E chi se lo dimentica Salvini che citofona a Yaya nella periferia di Bologna. O ancora il cavaliere Berlusconi che rassicura gli elettori ai banchetti della Santelli a suon di “Lei in 26 anni che la conosco non me l’ha mai data”. Eppure quella corsa elettorale ci aveva fatto provare un non modesto interesse. Le sardine sono solo un esempio. Piccoli pesci in un mare di giovani vecchi che per la prima volta, o di nuovo, carpivano l’importanza del voto, quella che avrebbero successivamente perso più tardi: più precisamente nel referendum costituzionale di settembre quando a fare da padrona del seggio è stata la rabbia, sapientemente mixata nei pregiudizi populisti verso la casta parlamentare promossa da chi voleva aprire il parlamento come una scatoletta di tonno, ma che alla fine un po’ la figura del tonno l’ha fatta. Viaggiava come sempre tutto rapidamente. Il processo Gregoretti prendeva forma, l’Australia soccombeva al maltempo dopo i grandi incendi che ne avevano devastato gran parte del territorio, Kobe Bryant si spegneva insieme alla piccola Gianna Maria in un incidente in elicottero prima di una celebrazione sportiva provocando l’estremo cordoglio di tutto il mondo dello sport. Scorreva tutto così, rapidamente. Una sequela di vicende, cronaca, politica, lotta per i diritti e battaglie contro il cambiamento climatico. A fare da sottofondo moderato c’era ciò che stava accadendo in Cina: troppo lontano per impensierirci, troppo tardi per poterne comprendere il fenomeno in modo tale da non soccombervi. Così mentre da Wuhan, Nancino e Hong Kong ci arrivavano le immagini di una delle epidemie più bestiali di sempre, noi dichiaravamo lo stato d’emergenza, discriminavamo prima e poi difendevamo la comunità, la ristorazione e la cultura cinese. La verità è che eravamo troppo intenti a non perderci la faida sanremese di Morgan e Bugo e pensavamo (come Zingaretti) che in fondo fare un aperitivo a Milano non era poi un’idea così malvagia, nonostante nella gara alla sicurezza sanitaria, i primi casi e l’allerta del contagio fossero già in pole. L’Italia non si ferma, Milano non si ferma. Poi è stata la volta di Vo’ Euganeo e di Codogno, prima la zona rossa localizzata poi il lockdown generalizzato. Italia zona protetta. Mentre si consumava una strage silenziosa all’interno delle Rsa di tutto il paese, a Bergamo, Alzano Lombardo e Nembro i morti non si contavano più. L’esodo dei fuorisede viaggiava sulle rotaie delle ferrovie di stato, in barba ai commenti dei governatori del sud che mai come allora hanno desiderato la fuga dei cervelli indigeni. Dalle carceri di tutta Italia giungeva il primo presentimento della tolleranza zero nei confronti delle norme anti-covid. Col tempo abbiamo imparato (chi più, chi meno) a conoscere la schiettezza dei termini "assembramento", "quarantena", "restrizioni". Abbiamo assistito alla politica dei decreti del presidente del Consiglio dei Ministri mentre cercavamo in mascherine il lievito sugli scaffali dei supermercati a entrata contingentata. Abbiamo cantato sui balconi, scoperto lo smart working e le atrocità della pandemia di coronavirus. Ci eravamo fermati, e fermandoci abbiamo scoperto che la nostra non è una società che sopravvive in stasi. La quarantena passa così, tra un fuorionda di Mattarella, una gaffe di Fontana e Gallera e il dolce augurio di Vincenzo De Luca di una vampata di lanciafiamme durante qualche festa di laurea. Quello che è venuto dopo è stata la caccia in elicottero al rider occasionale, al passeggiatore di cani domenicale, al nostalgico dell’aperitivo. L’era dei “governatori sceriffo”. Di seguito la corsa alle terapie intensive, gli eroi in corsia, le storie dalla prima linea e la gara delle regioni al “chi contiene meglio vince e non può essere contestato”. I casi raggiungevano il picco della curva epidemiologica, le vite spezzate erano diventate numeri nel continuo aggiornamento del bollettino della Protezione Civile. La cassa integrazione, i posti di lavoro a rischio e intere categorie abbandonate prima e soccorse poi da provvedimenti in continuo emendamento. Il plateau, il tempo per ragionare sulla riapertura, sull’accesso al Mes per sostentare la crisi economica che veniva alimentata, erta sulle colonne rette dall’emergenza sanitaria vestita da Atlante. Quel 4 maggio sembrava che tutto fosse passato. Silvia Romano era stata liberata e riportata in Italia e con lei era tornata anche la polemica sterile all’italiana. Trascorsi i mesi più bui, la falsa partenza italiana si muoveva in un’estate di sana perdizione (a confronto col tenore di vita osservato in lockdown) giustificata dalle scelte del governo e alternata al caldo delle piazze italiane infervorate dalle proteste di innumerevoli categorie e rappresentanze dei lavoratori. Tra questi balenava in sordina anche il pensiero negazionista: un complottismo che altro non poteva che far scivolare la disperazione dei tanti nel calderone del fanatismo scellerato dei molti. Dall’altra parte del mondo intanto cresceva il movimento Black Lives Matter. Oltreatlantico dopo la morte dell’afroamericano George Floyd, avvenuta per mano di un agente di polizia, si mobilitavano attivisti per i diritti civili, folle che facevano scricchiolare la poltrona di Donald Trump prossimo alle nuove elezioni presidenziali. Un tema complesso quello dell’uguaglianza negli Stati Uniti, che vedeva dibattere le parti attorno a scogli generazionali che affondano ancora oggi le radici in differenze culturali appartenenti a epoche ormai abbandonate. Qualcosa di stupidamente difficile. In Italia invece, nella grande complessità situazionale della pandemia, la fase 2 era riuscita a rendere tutto più stupidamente semplice. Distanziamento a scuola? Bando del ministero per i banchi a rotelle. Distanziamento nei locali? Plexiglass, massimo 6 persone al tavolo ma nessuna mascherina indossata una volta seduti. Sostentamento alle partite iva? Assegno da 600 euro da corrispondere con qualche mese di ritardo. Nota bene: nessuna di queste è stata una soluzione, ma col senno di poi, in effetti, è troppo facile asserirlo (o forse no?). C’è chi aveva detto che il virus era morto, clinicamente s’intende. C’era anche chi aveva detto che ci sarebbe stata una seconda ondata nel periodo autunnale. Al tempo erano solo opinioni, voci stampate sulle pagine cartacee e digitali che si sfogliavano di tanto in tanto in vacanza. Settembre ha sancito il crocevia di quella che doveva essere la vera rinascita. Di fatto, mentre inorriditi ascoltavamo la storia di Willy, giovane ragazzo capoverdiano ucciso in una rissa a Colleferro, assistevamo alla volontà dell’elettorato sul taglio dei parlamentari, alla poco preparazione di alcune regioni nella campagna vaccinale e ai mancati controlli sui trasporti, lì dove brulicava il contagio. Distratti, magari dall’incredibile vittoria di Joe Biden e Kamala Harris alle presidenziali in Usa, passavamo i nostri giorni attorniati dall’ombra di un nuovo lockdown mentre i contagi continuavano a crescere a dismisura. Scontavamo le colpe di un’estate passata all’insegna di quella libertà che ci era stata limitata in primavera. Le regioni prendevano colore, le nuove restrizioni richiamavano gli appuntamenti dei dpcm alle luci della ribalta e le piazze delle città pativano il nuovo coprifuoco. L’incubo della Dad è tornato, così come la chiusura dei ristoranti e il timore di doversi ritrovare a contare ancora nuovi morti per covid in Italia. Così è stato. Di nuovo in prima linea, ancora una volta a rincorrere una curva epidemica che ormai c’era sfuggita dalle mani. Ci siamo fermati di nuovo. Abbiamo salutato due eterni campioni come Diego Armando Maradona e Paolo Rossi, ricordandoci che questo poco poetico 2020 ci ha portato via anche Ezio Bosso, Ennio Morricone, Franca Valeri e Gigi Proietti. Adesso tiriamo le somme e attendiamo di capire se almeno a Natale non dovremmo sentirci dei criminali mentre sediamo al tavolo del cenone con le nostre famiglie, nonostante vestiremo una mascherina e stringeremo in mano il referto di un tampone covid negativo. C’è rimasta una speranza, quella del vaccino, che di certo non redimerà niente di quanto terribilmente inaccettabile sia accaduto in questo 2020. Però magari, stigmatizzando il passaggio di quest’anno nefasto, sorrideremo. E alla domanda che chiede se il 2021 potrà mai essere peggiore dell’anno che lasciamo alle nostre spalle, amaramente risponderemo “Dobbiamo dircelo chiaramente, questo rischio c’è“.

·        Cosa resta dell’anno passato. Le Cazzate.

Alessandra Menzani per "Libero quotidiano" l'1 gennaio 2021. I dieci momenti peggiori della tv nell' anno peggiore che la contemporaneità ricordi. Una catastrofe.

10 - Bugo e Morgan. «Dov' è Bugo?». È stato il migliore dei momenti peggiori, ma anche - se vogliamo - un istante meraviglioso. Primo: perché non si era mai visto un duo, a Sanremo, che si mandava a quel paese in diretta dopo che uno dei due (Morgan) aveva cambiato le parole del testo a tradimento. Secondo: perché era febbraio, eravamo ancora sereni e inconsapevoli della pandemia che stava arrivando, era ancora un periodo felice in cui il problema dell' Italia era, appunto, Bugo e Morgan.

9 - Conte-show. Le conferenze stampa televisive di Giuseppe Conte. Brutte, tutte. Per i tempi: sempre in ritardo, sempre il sabato o la domenica, sempre con pochissimo preavviso rispetto alle misure di contenimento, sempre all' ora della cena. Per i modi: i Dpcm fatti quasi tutti alla carlona. Per la quantità: al limite dello stalking.

8 - Tutorial osè. Il tutorial della spesa sexy a Detto Fatto. Una ballerina di pole dance, con tacchi e minigonna, mostra nel pomeriggio su Raidue come dovrebbe fare una donna a cuccare al supermercato: mossette, look e piegamenti strategici. Davvero un siparietto svenevole ma ancora peggiori sono state le reazioni e le purghe che si sono scatenate in Rai su autori e responsabili. Si è salvata, giustamente, la conduttrice Bianca Guaccero.

7 - Corona e Berlinguer. Il divorzio di Mauro Corona e Bianca Berliguer. I due hanno sempre battibeccato, ma il 24 settembre scorso è finita malissimo: lo scrittore, interrotto dalla conduttrice di Cartabianca, la chiama "gallina" e le dice di stare zitta. Bianca lo perdona, il direttore di rete Franco di Mare no e continua a non volerlo in tv. «Ha dei gravi problemi di alcolismo»; «ha offeso tutte le donne», dice. Peccato, si rompe una strepitosa coppia mediatica, i Sandra e Raimondo di Raitre.

6 - La preghiera in tv. Barbara d' Urso e Matteo Salvini. Siamo a marzo, su Canale 5. Le ambulanze con le sirene sfrecciano a ogni ora, le bare con i morti di Covid sfilano a Bergamo, le terapie intensive sono al collasso. Barbara e Matteo, in diretta, recitano l'Eterno Riposo in omaggio alle vittime del virus. Entrambi sono molto religiosi, crediamo nella buona fede, ma nemmeno David Lynch avrebbe partorito un momento così surreale.

5 - Balotelli al gf. Mario Balotelli al Grande Fratello Vip di Canale 5 condotto da Alfonso Signorini. Interviene poiché fratello di Enock, uno dei concorrenti. Fa una battuta su una sua ex presente nella casa, Dayane Mello: «Mi vuole lì dentro poi dice "basta fa male"». Rozzo come sempre.

4 - Il poeta Razzi. Antonio Razzi nell' ultimo Ballando con le Stelle. Una presenza incomprensibile nell' altrettanto incomprensibile anti-giuria. Già eravamo depressi, poi ci si è messo lui con le sue poesie. Una per tutte, quella a Elisa Isordi. «Bella Elisa, al mio cuor tu dai le risa. Sei come la torre di Pisa che pende, che pende e mai crollerà. Tu sei bona, complimenti a mamma e papà». Preghiamo Forza Italia di riprenderselo.

 3 - Angela da Mondello. Angela Chianello dalla spiaggia di Mondello.  È la signora sobria dell' estate, quella della frase «Qui non ce n' è Coviddi» a Live non è la d' Urso. Una tragedia nella tragedia se pensiamo che costei è diventata un' influencer a sfregio di tanti morti e che la tv non ce la faccia proprio, nemmeno quest' anno, a non trasformare un caso umano in un fenomeno.

2 - Il conte trash. Il conte Filippo Nardi al Grande Fratello Vip. Il record del cattivo gusto lo raggiunge con una serie imbarazzante di battute trash. «Se Maria Teresa fosse l' ultima donna sulla terra, farei solo una sveltina. Solo la punta»; «facciamo un nuovo format, Chi vuole essere fecondata, dove mettiamo i nostri geni in un barattolo e fecondiamo le ragazze che dovranno partorire in diretta»; «Quanto mi date se le strofino alla Ruta? Dai facciamolo in due o tre, gliele appoggiamo in fronte»; «è tutta bagnata perché ha visto me (a Dayane Mello)». Il prossimo anno merita un cinepanettone.

1 - Finto pestaggio. L'omofobia è una brutta bestia. Inventarsi un pestaggio omofobo peggio ancora. Tale Iconize, professione influencer, ha simulato un' aggressione per far parlare di sè. La vicenda è "scoppiata" dentro la casa del Grande Fratello Vip quando Dayane Mello ha detto a Tommaso Zorzi che l' ex fidanzato si era inventato tutto. Pare che lui abbia usato un surgelato per ferirsi la faccia (la fantasia non gli manca). Il "genio" ammette tutto, promette di curarsi, e noi non possiamo non registrarlo come il fatto più triste di questo 2020.

STUPIDARIO DELL'ANNO. Le dichiarazioni peggiori del 2020: il re è Matteo Salvini ma è in buona compagnia. "Aprite tutto", Chiudete tutto", '"Scusi lei spaccia", "Ah non si può?"... E poi cinghialoni, lanciafiamme, monopattini assassini, congiuntivi perduti e altre meraviglie. Per ricordare e soprattutto non dimenticare il peggior anno di sempre. Wil Nonleggerlo il 21 dicembre 2020 su L'Espresso. Il settimanale americano Time lo ha certificato come “Peggior anno di sempre”, il 2020, l'anno del Covid: con una pandemia globale di simili proporzioni, cosa potevamo attenderci da gran parte della nostra classe dirigente?  Le abbiamo viste tutte: dagli “aperitivi zingarettiani” al “chiudete tutto!”, e viceversa, passando per teorie complottiste e sottovalutazioni, contraddizioni e inefficienze, informazioni distorte e persino pericolose. I nostri vertici istituzionali non si sono però limitati alla tematica virale, in questi 12 mesi il range è ampissimo: i veleni sulla liberazione di Silvia Romano, che qualcuno è arrivato a definire “neo-terrorista”; il disastro dei commissari in Calabria; lo scandalo “furbetti del bonus 600 euro”, con giustificazioni che meritano un'ultima rilettura. Mai come stavolta dobbiamo avvertirvi: mettetevi comodi e fate un bel respiro. Ecco il Peggio della politica italiana, con qualche ospite d'eccezione, anno di grazia 2020.

L'ANNO INIZIAVA COSÌ. “Ieri a Trento mi ha fermato una ragazza di 28 anni e mi ha detto: 'L’Italia dovete salvarla in tre: lei, Vittorio Feltri e Morgan'...” (Vittorio Sgarbi intervistato da Libero - 5 gennaio)

“SCUSI, LEI SPACCIA?”. (Matteo Salvini nella periferia bolognese: la sceneggiata in diretta Facebook, a favore di telecamere, citofonando ad una famiglia tunisina di “presunti pusher” che non lo erano. Ne seguirà un caso diplomatico con la Tunisia – 21 gennaio)

IMPRESSIONANTE. “Nei discorsi di Salvini c'è quella pulizia, spontaneità, quel convinto amore per le terre che visita che penso sia impossibile credere che riesca a fare del male...”; “È impressionante: dove passa Matteo, il paese cambia segno. Le appartenenze sono saltate. Tutti vanno a farsi la foto con lui, e si affrettano a postarla: ‘Matteo è amico mio, e io lo voto’” (Claudio Borghi, deputato della Lega – 18 e 25 gennaio)

PRONTISSIMI. “Contro il Coronavirus siamo prontissimi. L'Italia ha adottato misure cautelative all'avanguardia più innovative di quelle degli altri Paesi. Abbiamo adottato tutti i protocolli possibili e immaginabili” (Giuseppe Conte, premier – Otto e Mezzo, La7, 27 gennaio)

GOTHAM. “L'Italia sembrava Gotham City, cupa, buia. C'era un clima di cattiveria con episodi di omofobia, di violenza. C'era un clima negativo, di razzismo che è già profondamente cambiato nel Paese” (Dario Franceschini, ministro dei Beni Culturali, sul Conte bis – Di Martedì, La7, 7 gennaio)

SEMBRO PAZZA. “Il mio tragitto è limpido. Sembro schizofrenica, pazza. Invece sono savia. Il mio è un percorso di coerenza. Leghista al cento per cento. Mi ha fatto riflettere la lettura di un libro di Diego Fusaro, il filosofo di riferimento della Lega. È un pensatore di grande profondità” (Eleonora Cimbro, ex deputata Pd passata prima a Liberi e Uguali, poi alla Lega – Fatto Quotidiano, 16 gennaio)

CHE SUCCEDE? “Siamo nati per duettare insieme”, “prove fantastiche: grande intesa” (Bugo e Morgan, una settimana prima della clamorosa rottura sul palco di Sanremo – Tv Sorrisi e Canzoni e sui social, 1 febbraio)

ABBRACCIA UN CINESE "Lancio l'hashtag #ABBRACCIAUNCINESE" (Dario Nardella, sindaco dem di Firenze – 2 febbraio)

L’APERITIVO DI ZINGARETTI. Su La7, il 3 febbraio: “In questo momento nella nostra regione ci sono circa 85mila pazienti con l’influenza stagionale, quella sì che causa decessi, e due con il coronavirus: questo dà la dimensione di quanto l’allarmismo sia infondato”. Il 27 febbraio, su Instagram: “Un aperitivo a Milano: ho raccolto l’appello lanciato dal sindaco @beppesala dal Pd Milano. Non perdiamo le nostre abitudini, non possiamo fermare Milano e l’Italia”. 7 marzo, su Facebook: “I medici mi hanno detto che sono positivo al Covid-19. Sto bene ma dovrò rimanere a casa per i prossimi giorni” (Nicola Zingaretti, segretario Pd)

LA GRANDE BELLEZZA. “Noi di Italia Viva siamo chiamati a qualcosa di straordinariamente difficile, di straordinariamente complicato: restituire bellezza alla politica” (Matteo Renzi alla prima Assemblea nazionale del suo nuovo partito, Cinecittà – 3 febbraio)

CICCIOLINA. “Di Maio vendeva le bibite e ora è ministro, da 3.100 lordi che prendevo, mister 'genio' mi ha messo mille euro al mese... nel frattempo potevo anche morire di fame se non mi davo da fare. Prendo quanto danno a quelli che vengono dall'estero, i NERI neri neri, e io sono BIANCA bianca bianca...” (Ilona Staller, l'ex pornodiva, già parlamentare radicale, “incazzata nera” in Transatlantico – 11 febbraio)

LO DICEVA DA AMICO. “Maledetto coronavirus, per la prima volta in tanti anni non potrò andare in Corea del Nord alla festa di celebrazione dell'anniversario di Kim Il-sung. Al presidente cinese invece dico: caro Xi Jinping, protegga i cinesi non facendoli uscire e mandandoli a inquinare altre nazioni con il virus che dopo ci ritroveremmo come la peste nel XIV secolo. Soprattutto quelli di Wuhan, che sono decine di milioni. Che se vanno a spasso quelli, beh, inquinano tutto il mondo” (Antonio Razzi, ex senatore forzista – Il Tempo, 15 febbraio)

SALVINI A NAPOLI. “Ho fatto un giro al centro di Napoli, sembrava un bivacco: un campo rom, materassi, sporcizia, immondizia, gente che pisciava per strada alle tre del pomeriggio...” (Il leader della Lega dal teatro Augusteo – 17 febbraio)

ME LO SEGNO. “Dai microfoni di Radio Maria Padre Livio. L'Apocalisse è incominciata” (Radio Maria – 21 febbraio)

LI FULMINI. “Di Battista contro la "discriminazione virale": 'Influenza, fame, diarrea, cancro e fulmini hanno ucciso più del coronavirus'” (Il post dell'esponente M5S – HuffPost, 25 febbraio)

APRI TUTTO. "Riaprire, rilanciare fabbriche, negozi, musei, gallerie, palestre, discoteche, bar, ristoranti, centri commerciali: aprire, aprire, aprire!", "l'Italia è il Paese più bello del mondo, veniteci!" (Matteo Salvini tra la fase del "blindiamo tutto" iniziale ed il "chiudere tutto, vogliamo misure ancora più drastiche" di fine mese – 27 febbraio)

I TOPI CINESI. “L'igiene che ha il nostro popolo, veneti e italiani, ci porta a farci la doccia, lavarci spesso le mani e stare attenti alla pulizia e all'alimentazione. È un fatto culturale. La Cina ha pagato a caro prezzo quest'aspetto: in fondo li abbiamo visti tutti mangiare TOPI VIVI e altre robe del genere...” (Luca Zaia, governatore del Veneto, scatenando un caso diplomatico – Antenna Tre, 28 febbraio)

CONTE E IL MORBO. “La lotta è tra il Morbo e Io, e a vincere sarà il sottoscritto” (Parole del premier riportate da Mario Ajello – Il Messaggero, 28 febbraio)

“L'UNICO ANTIDOTO SONO IO”. “Non esiste alcuna epidemia! È una situazione grottesca! Il governo finge un'emergenza che non c'è! È tutta una grande finzione, una presa per il culo mondiale! Sembra che sia tornata la peste manzoniana: non è tornato un cazzo!” (Vittorio Sgarbi, parlamentare – Libero, 2 marzo)

I VERI PROBLEMI. “M5s, il deputato Iovino vuole il reddito da alopecia: "Aiuti per chi è pelato". Sì, va bene, il coronavirus. Ma la vera emergenza, secondo i Cinquestelle, è l'alopecia” (Luigi Iovino, parlamentare 5 Stelle, in una interrogazione a risposta scritta – Libero, 5 marzo)

QUESTIONE DI BIDET. “I francesi non fanno entrare gli italiani perché forse hanno il Coronavirus? Noi non faremo entrare i francesi perché sicuramente non si fanno il #BIDET” (Piernicola Pedicini, europarlamentare 5 Stelle – Twitter, 5 marzo)

PARLAMENTARI DELLA REPUBBLICA. “Il coronavirus è così potente che per morire attende solo che si alzino un po’ le temperature. Tu bevi un tè caldo, ed il virus muore. Ma quale peste! Questo è il virus del buco del culo! Ci deve essere qualche cosa dietro. E io dovrei ascoltare cosa dicono Conte e Casalino del virus? Capre! Capre! Capre! Questo è il capravirus, che ha preso i loro cervelli. Non ascoltateli in tv: siccome dovete stare a casa, guardatevi solo dei video porno, lesbo, trans, e fatevi delle gran seghe” (Vittorio Sgarbi in un video su Facebook – 9 marzo)

IL CORONAROVIRUS. “Voglio chiarire bene la situazione riguardante il CORONAROvirus", "non seguite le FUCKnews, che sono veramente ignobili", "non ci sono casi di SIEROpositivi nella nostra cittadina", "dobbiamo stare a casa: ecco l'unico modo per sconfiggere questo CORONAROvirus” (Il mitologico videomessaggio di Antonio Diplomatico, sindaco (e medico) di Boscoreale, Napoli – 12 marzo)

GAIA. “Nel 2008 mio padre realizzò un filmato sul futuro della politica, lo volle intitolare Gaia. In quel video prevedeva per il 2020 grandi sconvolgimenti”  (Davide Casaleggio su Facebook – 19 marzo)

IL LANCIAFIAMME. “Mi arrivano notizie secondo cui qualcuno vorrebbe organizzare la festa di laurea... vi mandiamo i carabinieri con il LANCIAFIAMME!” (Vincenzo De Luca, presidente dem della Campania, 20 marzo)

OMONIMA? Lucia Borgonzoni a Carta Bianca, su Rai3, il 14 gennaio, dodici giorni prima del voto: “Se dovessi perdere le elezioni in Emilia-Romagna rimarrei a capo dell’opposizione e mi dimetterei da senatrice”. Due mesi e mezzo dopo, @TgLa7, 27 marzo: “Lega, Lucia Borgonzoni rinuncia al seggio nel consiglio dell’Emilia-Romagna e sceglie di restare in Senato” (22 marzo)

IL CIUFFO PRESIDENZIALE. “Il ciuffo fuori posto? Eh, Giovanni, non vado dal barbiere neanche io, quindi...”; “Giovanni, per piacere però, scegli una posizione, perché se ti muovi io ti seguo e mi... mi... mi distraggo” (Il fuorionda del Presidente Sergio Mattarella: per un errore tecnico senza precedenti nella storia della Repubblica, il Quirinale pubblica un video non editato del discorso agli italiani – 27 marzo)

ETERNO RIPOSO. “Tv del dolore, Matteo Salvini e Barbara D'Urso sommersi di critiche sui social per l'Eterno riposo recitato in diretta”; “La preghiera di Salvini dalla D’Urso fa infuriare i credenti. Il suo entourage parla di "conversione mariana"” (La Repubblica, 31 marzo)

NON È UN PESCE D’APRILE: L’INPS, GLI HACKER, PORNHUB. Il premier Conte: “I problemi sul sito dell’Inps? Colpa degli hacker”. Anonymous Italia: “Vorremmo prenderci il merito di aver buttato giù il sito, ma la verità è che siete talmente incapaci che avete fatto tutto da soli, togliendoci il divertimento!”. Pornhub: “Inps, vorremmo offrirvi aiuto per potenziare il vostro sito grazie ai nostri server, contattateci” (1 aprile)

VUOI METTE ORBAN. “Quella su Orban è una grande fake news, segnalo sommessamente che in Ungheria c’è un parlamento eletto, c’è un primo ministro eletto e riconfermato con un consenso molto importante, che la costituzione ungherese prevede di dichiarare lo stato d’emergenza. Qui invece Conte sta gestendo l’emergenza a colpi di decreti, limitando le libertà fondamentali degli italiani, e a differenza di Orban non è nemmeno stato scelto dai cittadini!” (Giorgia Meloni, leader Fdi – Fuori dal Coro, Rete 4, 1 aprile)

I CAPIFAMIGLIA. “Si aprano le Chiese a Pasqua e si permetta di partecipare ai capifamiglia, in rappresentanza della propria società domestica. Il resto è cianciare di politici impauriti, di destra o di sinistra, senza virilità, senza speranza” (Lorenzo Gasperini, capogruppo della Lega a Cecina, su Facebook: post poi cancellato – 9 aprile)

BEEP-BEEP. “Eurogruppo, il flash mob della leghista Francesco Donato contro il Mes: 'Suoniamo tutti il clacson per protesta'. Bloccata dalla polizia in diretta social” (Fatto Quotidiano, 10 aprile)

SALVINI SU INSTAGRAM. “Leggiamo il messaggio di Alex: 'Matteo, quando si esce? Io devo accoppiarmi'. Alex, non lo so, un abbraccio affettuoso alla tua ragazza, visto che sei così delicatuccio, visto che sei un raffinato Alex, dici e non dici...” (Il senatore della Lega nella sua prima, indimenticabile live su Instagram, a notte inoltrata – 20 aprile)

AAAH... COME GOVERNA CONTE. “Se Matteo Salvini è 'Capitano', il presidente Giuseppe Conte è Totti, Del Piero, Baggio, Zoff, Antonioni, Rivera, e tutti i più grandi capitani nella storia del calcio” (Andrea Scanzi, giornalista del Fatto Quotidiano – Otto e Mezzo, La7, 13 aprile)

BELLA, CIAO “Polemica sul 25 aprile, Fratelli d'Italia: 'Ricordiamo i caduti di tutte le guerre e del Covid, la canzone del Piave al posto di Bella ciao'. La proposta lanciata da La Russa con Sylos Labini, Frassinetti, Rauti e Santanché” (Repubblica.it, 18 aprile)

COMPLOTTO “Qualcuno fa apposta a tenerci tutti in casa, per controllarci meglio” (Matteo Salvini live su Instagram – 24 aprile)

COLPI DI SOLE Lei non è il deputato che l’altro giorno è entrato nonostante la febbre a Montecitorio? “Sì, sono io. Però non avevo la febbre. Guardi che io sto benissimo. Ero solo accaldato, avevo fatto giardinaggio” (Giuseppe Basini, onorevole della Lega – Corriere della Sera, 30 aprile)

SCATENATE L'INFERNO Salvini ai suoi: “Al mio via, scatenate l’inferno!... Noi qui giorno e notte, non usciremo dalle Camere finché Conte non si arrende. Ce lo chiedono gli italiani!” (L'occupazione leghista è durata poco più di 24 ore – Il Messaggero, 1 maggio)

CINGHIALONI “Non pensate che vadano a correre solo belle ragazze toniche, come nelle pubblicità, con i fusò aderenti, quelle sono cose che ti riconciliano con la natura... ma io ho trovato vecchi cinghialoni della mia età che correvano senza mascherine, con la tuta alla caviglia, una seconda tuta alla zuava al ginocchio, i pantaloncini sopra... ecco, questi andrebbero arrestati a vista!, per oltraggio al pudore!" (Vincenzo De Luca live su Facebook– 1 maggio)

SFOGLIANDO “CHI” “C’è un qualcosa durante questa quarantena alla quale Matteo Salvini non riesce a rinunciare mai: andare a letto con un bicchierino di mirto sardo e un mini cornetto di gelato al cioccolato che Francesca Verdini gli fa trovare sul tavolo, ogni sera” (3 maggio)

CRETINI “Anche essere cretini è un diritto. Bene: io difendo il diritto di essere cretini!” (Matteo Salvini live su Instagram – 3 maggio)

CHIUDETE TUTTO. Andrea Scanzi su Facebook, 7 maggio: “Chiudete tutto. Terzo influencer in Italia (di tutta Italia). E di gran lunga primo su Facebook”. 16 maggio: “Pazzesco: questa analisi rivela che ad aprile sono stato il giornalista con più interazioni sui social. Aiuto!!! Ovviamente il merito è tutto vostro (!). Ad aprile sono stato con larghissimo distacco la figura più potente' sui social tra giornalismo e politica. E quinto assoluto in tutta Italia...”. 6 luglio: “Ho anche saputo che Giuseppe Conte, prima di andare a letto, per rilassarsi si guardava le mie dirette su Facebook”. 14 ottobre: “Da aprile sono il giornalista più 'potente' sui social. Lo certificano le classifiche di Sensemakers e Prima. C’è però un altro dato: in Italia sono al quinto (!) posto assoluto tra gli italiani più potenti e influenti sui social. Più di Conte, più di Salvini. Più di Vasco...”. 15 dicembre: “Anche a novembre, come accade ininterrottamente da aprile, sono risultato con ampio margine il giornalista più seguito in Italia sui social”

LEI È SCIENZIATO? “Se il virus perde forza probabilmente potrebbe essere un virus artificiale, è la mia personale opinione, ma non di scienziato. Se va via tanto velocemente, qualcosa di artificiale c'è di mezzo” (Luca Zaia, governatore veneto – 9 maggio)

ZECCHE ROSSE. “Il 25 aprile e il Primo maggio abbiamo visto cortei delle zecche rosse rimasti impuniti. Invece i quattro ragazzi che hanno portato i fiori a Sergio Ramelli sono stati multati” (Luca Toccalini, giovanissimo deputato della Lega, alla Camera – 7 maggio)

#ALDOMORO. “In un’epoca dove l’assenza di memoria è uno dei nemici peggiori di questo Paese, vale sempre la pena ricordare #AldoMoro e #PeppinoImpastato ammazzati dalla Mafia” (Le Sardine, fail storiografico twittato (e cancellato) nel Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo – 9 maggio)

SILVIA ROMANO, ACCOGLIENZA. “Se sono contento per la liberazione di Silvia Romano? Per niente. Ora avremo una musulmana in più e 4 milioni di euro in meno. Un affare proprio...” (Massimo Giorgetti, vicepresidente del Consiglio regionale del Veneto, su Facebook. Post poi modificato “per evitare la cancellazione”, e sostituito con una “vignetta” persino peggiore – 11 maggio)

SILVIA ROMANO, ACCOGLIENZA. “Ma con tutto il rispetto la avete guardata bene? Lei in realtà non voleva tornare, dove li trova altri uomini?” (Emilio Gianmaria Moretti, assessore di Sorrento con "delega ai rapporti internazionali", su Facebook – 12 maggio)

SILVIA ROMANO, ACCOGLIENZA. “Alessandro Pagano, il leghista siciliano ultracattolico che ha definito "NEO-TERRORISTA" Silvia Romano” (Sole 24 Ore, 13 maggio)

COME MICHELANGELO. “Come sarebbe possibile a Roma non far continuare il lavoro a Virginia Raggi, un sindaco che ha fatto bene? È un po' come se Giulio II, il Papa delle arti, avesse impedito improvvisamente a Michelangelo di terminare la decorazione della volta della Cappella Sistina” (Paolo Ferrara, consigliere capitolino M5S, su Facebook – 17 maggio)

“A PUTTANE GUANTATI”. “La mascherina è come il preservativo per l’AIDS, dove l’unica vera prevenzione è la fedeltà tra coniugi, non andare a puttane guantati” (Mario Adinolfi, leader del Popolo della Famiglia, su Twitter – 18 maggio)

Il PAPEETE. “Riaprirò, va là, riaprirò, perché Milano Marittima senza il Papeete proprio non me la posso immaginare. Certo che Salvini ci tornerà, quando riaprirò Matteo sarà l'uomo più felice al mondo” (Massimo Casanova, patron del Papeete ed eurodeputato padano – Corriere della Sera, 18 maggio)

‘MBUTO! “Lo studente non è un imbuto da riempire di conoscenze, è ben altro” (Lucia Azzolina, ministra dell’Istruzione, in videoconferenza – 19 maggio)

IL VERO VIRUS. “C’è un argomento che mi inquieta molto: con i ragazzi chiusi in casa per colpa del virus, sta dilagando la pornografia!” (Mario Adinolfi – La Zanzara, Radio 24, 19 maggio)

TIPO IL PIERCING. “Spero che la mascherina diventi la moda dell'estate, sarebbe un bel segnale: come una cravatta, un foulard, una collanina, un braccialetto, un piercing" (Nicola Zingaretti, presidente della regione Lazio e segretario Pd, in conferenza stampa – 20 maggio)

PER LA MASSAIA. L'indice di contagio “è allo 0,51, cosa vuole dire? Vuol dire che per infettare me bisogna trovare due persone nello stesso momento infette, e non è così semplice trovare due persone infette allo stesso momento per infettare me. Quando è a 1 vuol dire che basta che incontro una persona infetta che mi infetto anch'io”. “Ho voluto spiegarlo in maniera semplice, per la massaia...” (Giulio Gallera, assessore al Welfare di Regione Lombardia, in conferenza stampa e poi su Rete 4 – 23 maggio)

I DINOSAURI. “L'uomo è stato capace di distruggere i dinosauri, pensa un po’ se non è capace di sconfiggere questo piccolo verme, microbo, che si chiama coronavirus...” (Al Bano – Domenica In, Rai 1, 24 maggio)

NON RESPIRO. “'I can’t breathe'. Le parole di George Floyd siano anche il grido contro la mascherina obbligatoria sempre e comunque” (Diego Fusaro, turbo-filosofo, tweet poi cancellato – 29 maggio)

CLINICAMENTE MORTO...Il Covid-19 “dal punto di vista clinico non esiste più”. (Alberto Zangrillo, primario del San Raffaele di Milano – Mezz'ora in più, Rai 3, 30 maggio)

CERTO CHE PUÒ. “Il Covid-19 non esiste. È un’invenzione. Un bluff organizzato. Vogliono terrorizzarci, chiuderci in casa e instaurare un nuovo ordine mondiale”; “Dobbiamo cominciare a stamparci una nuova moneta. Pensi che pure Draghi mi ha detto che è d’accordo. Giuro. L’ho incontrato la scorsa estate a Città della Pieve. Lo vedo in un vicolo, gli vado incontro e gli chiedo: posso cominciare a far stampare una nuova moneta? Allora lui mi guarda serio, e mi risponde: 'Sì sì, certo che può'. Draghi ha capito che io non sono un politicante, ma un artista delle idee e della musica. Del resto: lei lo sa, vero?... No, dico: io sono uno dei più grandi musicisti del mondo. Le mie opere sono state eseguite in luoghi dove avevano accettato solo Mozart e Beethoven. In Vaticano sono considerato un genio illuminato da Dio. Anzi: le anticipo che la segreteria del Presidente Trump mi ha chiesto di comporre qualcosa in suo onore...” (Il generale Antonio Pappalardo, leader dei Gilet Arancioni – Corriere della Sera, 1 giugno)

FLAVIO BRIATORE. “Prendevo la TACHIPIRINHA, ma la febbre risaliva” (Cartabianca, Rai 3, 8 giugno)

AH NON POSSO?! Floris: “Lei è un leader, aspirante premier, ha un ruolo d'esempio. Guardi questa foto, durante la vostra manifestazione di Roma: lei si fa un selfie con il viso attaccato ad un'altra persona, ed è senza mascherina”. E Salvini: “Beh, mentre parlo con una signora posso o non posso abbassarmi la mascherina?”. Floris: “Eh, se non sta a un metro e mezzo, no!”. “Ah nooo?!...” (Matteo Salvini, 9 giugno)

LA TV DEI VESCOVI. “Tv2000, durante un film su Gesù appaiono in onda frasi fasciste: "Mussolini ha sempre ragione". La rete: ci dissociamo. Il canale religioso è stato hackerato?” (Fatto Quotidiano, 11 giugno)

OK. “Sono del Movimento 5 Stelle, non sono un cretino...” (Alessandro Di Battista – Mezz'ora in più, Rai 3, 14 giugno)

IL MIGLIORE. “Se uno fa il premier deve scegliere i collaboratori migliori, i più talentosi, i più bravi. Io allora ho scelto Rocco Casalino” (Giuseppe Conte intervistato da Peter Gomez per i 10 anni del Fattoquotidiano.it – 14 giugno)

LE CILIEGIE. Dopo aver dichiarato, in merito agli Stati Generali contiani, di essere contrario a “passerelle, picnic e stuzzichini”, conferenza stampa di Matteo Salvini in un'osteria. Titola Corriere.it: “Zaia parla dell’inchiesta sui neonati morti e Salvini divora le ciliegie: polemica a Verona” (16 giugno)

NEW DEAL. “Sto sviluppando un piano che si chiama Servizio Ambientale, l'ho copiato da Roosevelt” (Alessandro Di Battista – Dritto e Rovescio, Rete 4, 18 giugno)

QUEL FICO DI OBAMA. “Che tipo è Obama? Fichissimo... lui e Michelle sono pazzeschi, di più. Lei è meravigliosa. Eh, le discussioni con loro due e mia moglie alla Casa Bianca sulla Playstation...” (Matteo Renzi intervistato da Marco Montemagno – YouTube, 23 giugno)

FUORI DI PESO. Secondo l’Ansa Sgarbi avrebbe pronunciato parole come “vaffanculo, stronza, troia” ed altre espressioni incomprensibili nei confronti della deputata Giusi Bartolozzi (magistrato) e della vice presidente della Camera Mara Carfagna, entrambe di Forza Italia (L'onorevole Sgarbi è stato poi espulso e trascinato di peso fuori da Montecitorio – 25 giugno)

BASTA ALLARMISMI. “Ma perché dovrebbe esserci una seconda ondata di contagi? 'Sta roba che stanno dicendo, "attenzione!, attenzione!, e a ottobre, e a novembre": è inutile continuare a terrorizzare le persone!” (Matteo Salvini – Aria Pulita, 7 Gold, 25 giugno)

INVIDIOSI. Corriere: “Bertinotti, Dini, Cicciolina e gli altri: il fronte degli irriducibili che non vogliono rinunciare ai vitalizi”. Ed il leghista Francesco Speroni: “Non siamo noi ad essere privilegiati. Siete voi ad essere invidiosi” (27 giugno)

PERCENTUALI. “Se avesse chiamato il medico anche solo per un 37,5 PER CENTO di febbre...” (Giulio Gallera , 4 luglio)

IMMAGINA. “Imagine? Lo stesso Lennon disse che era una canzone di ispirazione marxista, e infatti le parole lo sono "Immagina un mondo senza religioni, senza confini e senza proprietà privata": qualcuno quel mondo l'ha realizzato: l’Unione Sovietica” (Susanna Ceccardi, candidata leghista in Toscana – In Onda, La7, 5 luglio)

APPARIZIONI. “In cella mi è apparso padre Pio. Sono molto affezionato al santo di Pietrelcina. Ero anche devoto alla Beata Vergine del Pilastrello. L’altra mia religione è Benito Mussolini” (Lele Mora – L'Arena, 19 luglio)

ALLEANZE. “Allearmi con la Lega? Pur di uscire dall'Unione Europa mi alleo pure con Marylin Manson” (Gianluigi Paragone, senatore e fondatore di “No Europa per l'Italia - Italexit con Paragone” – Radio Cusano Campus, 27 luglio)

MODE. Domanda: “Restiamo su questi 5,3 milioni di euro. Sono fondi gestiti fino al 2015 da due trust alle Bahamas e poi 'scudati'. Dove nascono questi soldi? Perché stavano all'estero?”. Risposta: “Anzitutto quello all'estero era un conto che avevano i miei genitori, una cosa purtroppo di moda a quei tempi...” (Attilio Fontana, presidente leghista di Regione Lombardia, dopo l'apertura dell'inchiesta per frode in pubbliche forniture – La Repubblica, 28 luglio)

YACHT. Era proprio opportuno postare quella foto della gita in barca a Ischia in un periodo in cui gli italiani se la passano così male? “Quanto alla mia visita a Ischia, sono arrivata in aliscafo e sono rimasta due giorni, trascorrendo qualche ora ospite di un amico parlamentare del Pd sulla sua barca. Non ho postato io la foto che ha suscitato tanti attacchi peraltro” (Maria Elena Boschi, senatrice di Italia Viva, intervistata dal Corriere – 29 luglio)

COME FALCONE E BORSELLINO. Open Arms, il Senato dice Sì al processo per Salvini. Roberto Calderoli: “Salvini pugnalato come Falcone e Borsellino” (Adnkronos, 30 luglio)

IL LIBANESE. “Manlio Di Stefano su Twitter: "Amici libici vi abbraccio". Ma l’esplosione è in Libano Tragedia Beirut, gaffe del sottosegretario M5S agli Affari esteri” (Corriere.it, 5 agosto)

QUANDO C’ERA LUI. “Berlusconi rimpiange Alfano: "Mi mancano le sue riflessioni. Angelino era uno dei più bravi che avevamo"...” (Il Foglio, 7 agosto)

GANDHIANI VERI. “Gandhi era sovranista come Salvini”, e “sì, io sono gandhiana. Mahatma Gandhi era un sovranista d'altri tempi, rivendicava la sovranità dell'India contro il colonialismo" (Susanna Ceccardi, eurodeputata della Lega, intervistata da Annalisa Chirico – Il Foglio, 7 agosto)

LA VITA. “Ho difeso l'Orgoglio, la Dignità, la Sicurezza e i Confini dell'Italia. Per quello mi pagavate, per quello ho dato la Vita” (Matteo Salvini sui propri canali social – 9 agosto)

I CONGIUNTIVI DEL PREMIER. “Non possiamo tollerare che ARRIVANO dei migranti addirittura positivi e VADINO in giro liberamente” (Giuseppe Conte ospite di un evento organizzato da Affaritaliani.it in provincia di Brindisi – 9 agosto)

INSAPUTE PADANE. “Bonus Inps a tre consiglieri leghisti veneti: 'Chiesto a nostra insaputa'”... “Gianluca Forcolin, vicepresidente del Veneto: "Sono stati i miei soci". Il trevigiano Riccardo Barbisan, vice capogruppo del Carroccio: "È stato il commercialista". Il veronese Alessandro Montagnoli, presidente della Prima commissione Affari istituzionali: "È stata mia moglie"..." (Il Messaggero, 11 agosto)

ESERCIZI. “La domanda è partita per errore. Io ho un'attività, la mia fidanzata è una consulente fiscale. Da sempre si occupa lei della mia contabilità e in quei giorni ha utilizzato sia la mia partita Iva sia la sua per ESERCITARSI nella richiesta di rimborsi...” (Diego Sarno, consigliere regionale del Pd in Piemonte intervistato da Repubblica sullo scandalo bonus – 12 agosto)

TOP. “Il mio tampone ha una carica virale da record, la conferma che resto il numero uno!” (Silvio Berlusconi, nei giorni del ricovero causa Covid, in collegamento telefonico con esponenti di Forza Italia – 8 settembre)

JOY. “Semplicemente adorabile! L'ho scoperta da poco, vi consiglio questa pagina Facebook: Le avventure di Joy barboncino toy. Buonanotte Amici, a voi e ai vostri pelosetti” (Matteo Salvini sui social, all'una di notte – 9 settembre)

MATTEO RENZI. “Io oggi sono talmente felice del risultato che non riesco a capacitarmi di come, col risultato impressionante di Italia Viva, non ci diciate bravi” (Il leader Iv e le Amministrative – L’Aria che tira, La7, 22 settembre)

GALLINA! “Senta Bianchina, se lei mi vuole qui tutta la stagione allora mi fa dire le cose, altrimenti la mando in malora e me ne vado! Io volev... ma stia zitta una buona volta, gallina! Mi faccia fin... da stasera la trasmissione se la conduce da sola, gallina!” (Mauro Corona rivolgendosi alla conduttrice Bianca Berlinguer – Cartabianca, Rai 3, 23 settembre)

NESSUNO COME LUI. “Ponte di Genova, lo sblocca-cantieri, il 40% in più di gare e opere pubbliche. Io credo di essere stato il ministro che ha fatto di più nella storia” (Il senatore 5 Stelle Danilo Toninelli intervistato dal Mattino di Napoli – 24 settembre) Danilo Toninelli

I 49 MILIONI. “I 49 milioni? Confesso direttore Giordano, li ho nascosti nel caminetto qui alle mie spalle. Ho finito un’oretta fa, prima di andare in diretta da voi... mi hanno dato una mano anche i vostri operatori, è stata lunga, abbiamo riempito il caminetto di milioni, di rubli, di taniche di benzina, di petrolio...” (Matteo Salvini a Fuori dal Coro, Rete 4 – 6 ottobre)

CHE FACCIO DURANTE IL LOCKDOWN? “Durante il lockdown mi sono chiesta quale fosse una cosa che avrei sempre voluto ma avevo paura di fare. E mi sono risposta che era un piccolo ritocco al seno. Sì, sono passata da una deliziosa prima ad una deliziosa seconda e mezza. Perché non una terza? La seconda e mezza è un seno che non è fatto per arrazzare gli uomini. Quando sono vestita non si percepisce nulla, ma in costume si vede” (Laura Ravetto, deputata di Forza Italia poi passata alla Lega – Un giorno da Pecora, Rai Radio 1, 7 ottobre)

IL DIBBA PASOLINIANO. “L’umiltà di Di Battista, prof. di giornalismo per un giorno: "Non sono Hemingway, ma un po’ pasoliniano"...” (L'ex parlamentare M5S alla sua prima lezione per la testata Tpi: costo, 185 euro – Il Riformista, 8 ottobre)

LA FALANGE DI SGARBI. “Io sono un rapace. Il mio metodo è identico a quello dei vecchi omosessuali che scopavano nei cinema e facevano pompini nei cessi. Non è amore. È sesso senza amore, rapinoso. Quello che importa nel rapporto con una donna è il punto di cedimento. Se vai a una festa e trovi quattro-cinque persone disponibili non puoi portarle tutte a letto, vai dietro un angolo, inserisci la falange del dito medio nell’organo sessuale di lei, e quella è registrata. La punta del dito che entra è già una conquista” (Il candidato sindaco di Roma a La Zanzara, Radio 24 – 14 ottobre)

IL PRIMATE DELLA CHIESA ORTODOSSA ITALIANA AUTOCEFALA ANTICO-ORIENTE. “Secondo me i monopattini hanno ucciso più persone del Covid” (Alessandro Meluzzi – 18 ottobre)

L'ETICA DEL VIANDANTE. “Io sono un uomo di centro e resto al centro. Una chiappa a destra e una a sinistra? Eh no! Se ti vogliono fottere a destra, tu vai a sinistra, se ti vogliono fottere a sinistra, tu vai a destra: è l’etica del viandante...” (Clemente Mastella, sindaco di Benevento, intervistato da Enrico Lucci sul taglio dei parlamentari – Cartabianca, Rai 3, 22 ottobre)

UN NATALE SERENO. “Con questo quadro di misure confidiamo di poter affrontare più distesamente il mese di dicembre. Vorremo arrivare al Natale con predisposizione d'animo serena” (Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte in conferenza stampa da Palazzo Chigi – 25 ottobre)

NON INDISPENSABILI. “Per quanto ci addolori ogni singola vittima del #Covid19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25 decessi della #Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate” (Giovanni Toti, presidente di Regione Liguria, su Twitter – 1 novembre)

IL FIDANZATO DELLA BOSCHI. “Maria Elena è una persona molto dolce, e mi ha colpito tantissimo la sua umanità. La prima sera in cui si è fermata a dormire da me mi ha chiesto di fare una preghiera per tutte le persone che in quel momento stavano soffrendo: me lo ha chiesto col cuore” (L’attore Giulio Berruti a Verissimo, su Canale 5 – 31 ottobre)

LA FICTIO. “Covid, Bertolaso su La7: 'Chiudiamo tutto per un mese e facciamo una bella soap opera quotidiana per sensibilizzare la gente sul virus'” (Fatto Quotidiano, 31 ottobre)

AGENTI PATOGENI. “Ma che vuol dire positivo? Positivo vuol dire contagioso, no? Anche nella vagina delle donne ci sono i batteri. Ma mica tutti sono patogeni...” (Claudio Lotito, presidente della Lazio – La Repubblica, 7 novembre)

TOCCAVA A ME? Dal Fatto Quotidiano: “Calabria, il commissario alla Sanità Saverio Cotticelli in tv: "Devo fare io il piano operativo Covid? Non lo sapevo". Conte lo sostituisce "con effetto immediato”. Un paio di giorni dopo, a Non è l’Arena, La7: “Non so in quel momento cosa mi sia successo. Sembrava la mia controfigura. Non mi riconosco, non connettevo. Il piano anti-Covid l’ho fatto io! Sto cercando di capire con un medico se ho avuto un malore o qualche altra cosa. Ero in uno stato confusionale, su cui sto indagando. Poi ho vomitato e passato una notte terribile. Voglio sapere che cosa mi è accaduto. Non lo so se mi hanno drogato...” (7 novembre)

LINGUA IN BOCCA. Cotticelli viene sostituito da Giuseppe Zuccatelli. Ma ecco cosa dichiarava a maggio il nuovo commissario per la Sanità in Calabria: “Ve lo dico in inglese stretto: le mascherine non servono a un cazzo! Sai cos'è che serve? La distanza. Perché per beccarti il virus se io fossi positivo tu sai cosa devi fare? Devi baciarmi per 15 minuti con la lingua in bocca” (27 maggio)

MIA MOGLIE. Rettore, ci spiega perché non vuole prendere in mano un comparto così importante e disastrato della Regione Calabria? “Motivi personali e familiari me lo impediscono. Mia moglie non ha intenzione di trasferirsi a Catanzaro. Non ho intenzione di aprire una crisi familiare” (Eugenio Gaudio, ex rettore della Sapienza, terzo tentativo – La Repubblica, 17 novembre)

CI PENSA LUI. “Adesso studio in che modo riformare davvero la giustizia” (Luca Palamara, ex presidente dell'Anm, da poco radiato dalla magistratura – Libero, 4 novembre)

LE FAMIGLIE SANE. “Sono contento, è nato il mio quinto figlio, Riccardo Maria. Ultracattolico anche lui. Se in futuro può diventare gay e di sinistra? Impossibile, nelle famiglie sane non diventi né comunista né frocio” (Fabio Tuiach, consigliere comunale triestino di estrema destra, ex Lega e Forza Nuova – La Zanzara, Radio 24, 6 novembre)

CHEERLEADER. “Elezioni Usa, Salvini finisce sull’Independent: "Cheerleader di Trump diffonde infondate teorie del complotto sul voto"” (Fatto Quotidiano, 6 novembre)

COS'HO FATTO NELLA MIA VITA?! “Cresciuto una figlia dai 16 anni, laureato, lavorato dai 18 anni in Sky, Ferrari, Confindustria, Interporto. Viceministro, Ministro e Amb. in UE. Presieduto consiglio commercio, G7 Innovazione e Energia. Eletto con 280k preferenze in UE, fondato un partito e scritto due saggi. E tu?” (Carlo Calenda, leader di Azione, rispondendo alla domanda provocatoria di un utente, su Twitter – 6 novembre)

SÌ. “Ho vinto io queste elezioni, e di molto!” (Il presidente Usa Donald Trump, a scrutinio in corso, su Twitter – 7 novembre)

NON CE N’È COVIDDI. “Angela da Mondello, diventata famosa per le sue frasi sul Covid dopo un'intervista in spiaggia realizzata da una delle inviate di Barbara d'Urso, si improvvisa pop star sulla spiaggia della borgata marinara di Palermo per girare un videoclip del suo prossimo singolo "Non ce n’è Coviddi". Stretta in un abito di pailettes dorate la casalinga palermitana, 172mila follower su Instagram, canta e balla al ritmo delle frasi tormentone che l'hanno resa 'celebre' sui social. "Non ce n'è, non ce n'è, non c'è niente" intona, mentre un gruppetto di ragazzi, tutti rigorosamente senza mascherine e stretti gli uni agli altri, le balla intorno” (Adnkronos, 9 novembre)

...“Corriere della Sera: "Ho perso il mio piccolo", l’urlo della madre". Hai perso il tuo piccolo, 6 mesi, perché lo hai buttato su un gommone con un centinaio e più di persone ammassate una sull’altra, in autunno inoltrato, con il freddo e il mare grosso” (Azzurra Noemi Barbuto, “giornalista di Libero, scrittrice e autrice tv”, su Twitter – 13 novembre)

LVI. “Mussolini in un mese avrebbe risolto questa cosa del Covid. Lui già nel 1932 lo aveva scritto nei suoi diari, che saremmo stati presi alla sprovvista da un virus stranissimo che avrebbe cambiato il mondo. Il Duce un veggente. Ci vorrebbe un altro Mussolini...” (Lele Mora – La Zanzara, Radio 24, 13 novembre)

GIUSTIFICAZIONI. “M5S, contributi da lobbisti, ora Giarrusso rischia l'espulsione: "Donazioni sopra i tremila euro vietate dal vademecum 5S? Mi era sfuggito"...” (Dino Giarrusso, eurodeputato 5 Stelle, ex Iena – Repubblica.it, 17 novembre)

COSE BUONE. “Mussolini ha avuto un consenso enorme, all’estero e anche in Italia, per le sue opere sociali. Parliamoci chiaro. Mussolini ha fatto la settimana di 40 ore, chi lo sa tra gli italiani? Nessuno. L’Inps l’ha inventata Mussolini. I contratti nazionali, anche quello giornalistico che pagava benissimo, inventati da Mussolini” (Bruno Vespa presentando la sua ultima fatica letteraria, “Perché l’Italia amò Mussolini” – Agorà, Rai 3, 17 novembre)

DOVE SI TROVA LA CASA BIANCA? “Eh... cazzo ne so... siete arrivati a questi livelli, vaffanculo!” (Danilo Toninelli interrogato dalle Iene sulle elezioni Usa – Italia 1, 18 novembre)

IN ORDINE ALFABETICO. “Emergency in Calabria? Siamo una delle regioni italiane e non vogliamo essere trattati come un Paese del terzo mondo. Siamo la terza regione in ordine alfabetico” (Antonino Spirlì, presidente facente funzioni della Regione Calabria (Lega) – Rai Radio 1, 18 novembre)

SU JOLE SANTELLI. “Tallini è stato il più votato nel collegio di Catanzaro. È la dimostrazione che ogni popolo ha la classe politica che si merita. Sarò politicamente scorretto: era noto a tutti che la presidente della Calabria, Santelli, fosse una GRAVE MALATA oncologica. Umanamente ho sempre rispettato la defunta Jole Santelli, ma politicamente c'era un abisso. Se però ai calabresi questo è piaciuto..." (Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia ( M5S) – Radio Capital, 19 novembre)

ORGOGLIO ETERO. “Il consigliere della Lega contro i gay: 'Ora la giornata del cattolico eterosessuale'. FIRENZE –  Discriminato perché 'i gay hanno più gusto'. Addirittura molestato 'con avance che spesso si sono tradotte in palpate, commenti ed altri tipi di aggressioni'. Lo mette tutto nero su bianco il consigliere comunale di Bagno a Ripoli Gregorio Martinelli Da Silva, della Lega, in un’interrogazione rivolta al sindaco Francesco Casini per chiedere una giornata in difesa del "cattolico eterosessuale"” (Agenzia Dire, 23 novembre)

VIVA DARWIN. “La frase choc di Niccolò Fraschini su Facebook, consigliere comunale a Pavia: "Per salvare pochi vecchietti si rovina vita ai giovani. Viva Darwin"...” (Open, 24 novembre)

MI BATTE IL CORAZON. Matteo Salvini, 25 novembre 2020, su Twitter: “Un genio unico, assoluto e irripetibile del calcio mondiale. Una preghiera. #Maradona”. E qualche anno prima, 21 ottobre 2013, su Facebook: “MARADONA che prende in giro gli italiani. FAZIO che lo abbraccia. Sulla Televisione Pubblica. Italia paese DI M...A. Basta Rai, Indipendenza”

“TUO, RENATO”. “Io, Brunetta Renato, ho una grande simpatia umana, e non solo, per Di Maio Luigi. Di Maio è giovane, intelligente, rispettoso, veloce, sa ascoltare. Non si discute, è un leader vero” (L’esponente di Forza Italia al Foglio e al Corriere – 28 novembre)

“SONO LA KAMALA BIANCA”. Il Foglio: “Nelle riunioni riservate la ministra dei Trasporti Paola De Micheli si paragona alla vice di Biden” (1 dicembre)

SCUSATE. “Proprio come Ulisse, Vittorio Sgarbi deve correre da Penelope, far fuori tutti i FROCI... ehm, scusate, i Proci" (Oscar Farinetti – Stasera Italia, Rete 4, 2 dicembre)

RINUNZIE. “Da quando ho scelto di fare politica ho rinunciato A TANTO e sono orgoglioso di averlo fatto” (Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, su Facebook – 3 dicembre)

BAMBOLE GONFIABILI. “Se un uomo può sposare un altro uomo, perché non dovrebbe sposarsi con una #bambola gonfiabile? Se tutto è famiglia, nulla più è famiglia” (Il tweet di Simone Pillon, senatore leghista, commentando la notizia di TgCom24 “Bodybuilder kazako sposa la sua bambola gonfiabile: 'È la donna perfetta per me'” – 5 dicembre)

“C’È ALMENO UNA STRADA CHE SI FA-SOVRAPPENSIERO” (Bluvertigo). “L'assessore Giulio Gallera fa jogging ed esce da Milano violando il Dpcm: "Ero sovrappensiero, non ho visto il cartello del confine comunale"” (Fatto Quotidiano, 8 dicembre)

ROMAGNA MIA. “"Romagna mia" dalle balere alle aule scolastiche? Ecco la proposta di legge della Lega per inserirla nei programmi di studio. Perplessa la famiglia Casadei” (TgCom24, 10 dicembre)

DISCESE IN CAMPO. “Votavo per il Partito Comunista quando c’era il comunismo, ero di sinistra. Ancora oggi continuo a essere dalla parte del popolo... Mi hanno chiesto mille volte di scendere in politica: prima o poi lo farò” (Barbara D'Urso al settimanale Oggi – 11 dicembre)

NON RICORDO. “Il ministro Toninelli e le due ore di smemoratezza. I decreti sicurezza? 'Ricordo il principio'. L'imbarazzante testimonianza dell'ex ministro dei Trasporti al processo Salvini. L'avvocato Bongiorno gli mostra decine di suoi post sui social e un decreto a sua firma. E lui: "Se ho firmato... ma non ricordo il contesto"” (Repubblica.it, 12 dicembre)

MEGLIO IL COVID. Un utente, su Twitter: “Non seguo il calcio, ma per il vaccino farei il tifo per qualsiasi squadra”. Ed il virologo Roberto Burioni, noto tifoso laziale: “No, meglio il Covid-19 della As Roma” (Cinguettio poi cancellato – 14 dicembre)

CREDEVO FOSSE SCIENTIFICO. “Gismondo e il raduno di estrema destra: "Sono stata ingenua, ho creduto fosse un convegno scientifico. Non conoscevo neanche il logo perché non capisco il tedesco". La virologa Maria Rita Gismondo a Non è l’Arena su La7, smentendo le accuse di negazionismo” (Corriere.it, 14 dicembre)

BACIONI DA BENGASI. “A chi lo cerca in queste ore, a chi gli chiede informazioni sulla missione di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio in Libia per 'liberare i pescatori di Mazara', Rocco Casalino risponde con un'immagine. O meglio con lo screenshot della sua geolocalizzazione a Bengasi, zona aeroporto. Casalino precisa di non aver inviato alcuna geolocalizzazione da Bengasi. Da quanto filtra la foto sarebbe frutto di un errore nel cellulare del portavoce del premier Conte” (Il Foglio, 17 dicembre)

UN LOMBARDO UN LOMBARDO VALE DI PIÙ. “La Lombardia, è un dato di fatto, è il motore di tutto il Paese. Quindi se si ammala un lombardo vale di più che se si ammala una persona di un'altra parte d'Italia” (Angelo Ciocca, europarlamentare pavese della Lega, ad Antenna 3 – 18 dicembre)

IL CUORE GRANDE DI SALVINI. “Se nei giorni di festa sarà vietato portare un pasto caldo ai meno fortunati, io lo farò lo stesso. Lo preannuncio. Lo farò lo stesso come sono abituato a farlo da anni. Porterò doni alla vigilia ai bambini meno fortunati, pranzerò a Natale coi clochard. Non potete chiudere in casa il cuore degli italiani” (Il leader della Lega durante una diretta Facebook – 18 dicembre)

·        Cosa resta dell’anno passato. I Morti Illustri.

Da Morricone a Maradona: i volti celebri che ci hanno lasciato nel 2020. Anche nel 2020 sono scomparse molte celebrità del mondo della cultura, dello spettacolo e dello sport: una carrellata di nomi impossibili da dimenticare. Elisabetta Esposito, Mercoledì 30/12/2020 su Il Giornale. Il 2020 è stato un anno orribile per moltissime ragioni. La prima è la pandemia di Covid-19 che ha colpito l’intero pianeta sotto diversi aspetti, da quello sanitario a quello economico. Ci sono stati incendi, che in Australia hanno devastato grandissime porzioni di verde, e ancora incidenti, fenomeni catastrofici naturali e si è temuto perfino per una meteora. Non sono mancate le perdite celebri, perché sono venuti a mancare tanti vip: il mondo della cultura, dello spettacolo e dello sport piangono molti esponenti illustri.

Giampaolo Pansa. Classe 1935, Pansa è scomparso il 12 gennaio. È stato giornalista e scrittore: un suo merito è stato quello di inserirsi all’interno della narrazione politicamente corretta sulla Seconda Guerra Mondiale e mostrare un diverso punto di vista narrativo-storiografico. Ha scritto numerosi saggi e romanzi: tra i più interessanti va ricordato “Il sangue dei vinti”, che fa parte di un ciclo storico-letterario.

Terry Jones. Era nato nel 1942 ed è morto il 21 gennaio. Attore e regista, Jones era noto per essere parte del gruppo di comici e creativi britannici Monty Python. Ha infatti scritto, diretto e interpretato film come “Monty Python e il Sacro Graal”, “Brian di Nazareth” e “Monty Python - Il senso della vita”.

Kobe Bryant. La morte di Bryant ha scosso il mondo dello sport e non solo. Nato nel 1978, è morto lo scorso 26 gennaio, a causa di un incidente aereo su un velivolo di sua proprietà sul quale si trovava con la figlia adolescente Gianna e altre persone. Bryant era un cestista e una personalità di spicco per la cultura afroamericana. Il suo profilo è incluso nel volume per l’infanzia “100 racconti per bambini coraggiosi”.

Kirk Douglas. Alla veneranda età di 103 anni, se n’è andato il 5 febbraio l’attore Kirk Douglas. L’artista annovera nella sua carriera decine e decine di pellicole, più alcune partecipazioni e serie e film tv. Tra i suoi film più importanti ci sono “Lo zoo di vetro”, “Orizzonti di gloria” e “Spartacus”.

Flavio Bucci. Classe 1947, l’attore italiano è venuto a mancare il 18 febbraio. Attivo al cinema e in teatro, dove si è cimentato con i grandi classici, è stato al tempo stesso un incredibile caratterista e protagonista. Le giovani generazioni conoscono Bucci soprattutto per la sua interpretazione del politico Dc Franco Evangelisti nel film “Il Divo” di Paolo Sorrentino.

Suor Germana. È scomparsa il 7 marzo all’età di 81 anni, la religiosa nota per aver scritto moltissimi libri di cucina. Il primo volume di ricette firmato da Suor Germana è del 1983 e si intitola “Quando cucinano gli angeli”.

Max von Sydow. Nato nel 1929, è venuto a mancare l’8 marzo. I ruoli che von Sydow interpretò restano iconici e hanno fatto la storia del cinema, da “Il settimo sigillo” e “Il posto delle fragole”, passando per “L’esorcista”, “Gran bollito”, “Dune”, “Hannah e le sue sorelle”, “Minority Report” e “Shutter Island”.

Lucia Bosè. Il 23 marzo è scomparsa l’attrice e modella nata nel 1931. Era la madre del cantante e attore Miguel Bosè e nel 1947 fu eletta Miss Italia.

Detto Mariano. Musicista e produttore, classe 1937, è morto lo scorso 25 marzo uno dei più grandi compositori italiani di colonne sonore. Mariano ha lavorato con Adriano Celentano, Mina, Al Bano e Lucio Battisti. Tra i film per cui ha scritto le colonne sonore originali ci sono “Il bisbetico domato”, “Mia moglie è una strega”, “Asso”, “Acapulco prima spiaggia a sinistra”, “Eccezziunale veramente” e lo stracult di Claudio Caligari “Amore tossico”.

Luis Sepulveda. Nato nel 1949, dopo aver contratto il Covid-19, Sepulveda è morto lo scorso 16 aprile. Lo scrittore cileno è noto per la sua opposizione al regime di Pinochet e naturalmente per le sue pubblicazioni, tra cui “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”, “Il mondo alla fine del mondo”, “Storia di una gabbanella e del gatto che le insegnò a volare”, “Diario di un killer sentimentale”.

Ezio Bosso. Il 15 maggio, a causa della malattia degenerativa che lo aveva colpito nel 2011, è scomparso il compositore e pianista italiano. La sua figura ha rappresentato un esempio di resilienza e la sua stessa esistenza era un inno alla vita pieno di musica.

Morto il pianista Ezio Bosso. Così ha commosso l'Italia.

Christo. Il 31 maggio è venuto a mancare l’artista, classe 1935, tra i principali esponenti della land art. Molte delle sue realizzazioni videro come scenario l’Italia, soprattutto Roma e Milano, oltre The Floating Pier, la passerella sul Lago d’Iseo.

Roberto Gervaso. Classe 1937, è scomparso il 2 giugno. Gervaso è stato scrittore, critico e giornalista: le sue opere sono state tradotte in tantissime lingue in giro per il mondo.

Ennio Morricone. Il 6 luglio è scomparso il Premio Oscar, nato nel 1928. Autore di moltissime colonne sonore, è considerato da sempre una delle eccellenze italiane nel mondo. Tra le colonne sonore composte, ci sono quelle utilizzate nei film “Per qualche dollaro in più”, “Uccellacci e uccellini”, “Il buono, il brutto, il cattivo”, “L’uccello dalle piume di cristallo”, “C’era una volta in America”, “La cosa” “Legami!” e “The Hateful Eight”.

Naya Rivera. Attrice in “Glee”, classe 1987, la morte dell’attrice lo scorso 8 luglio ha gettato nello sconforto i fan. Esistono solo delle ipotesi su come si sia svolto l’incidente che ha ucciso Rivera, che era andata a fare una gita al lago con il figlioletto fortunatamente incolume.

Kelly Preston. Se n’è andata a causa di un tumore il 12 luglio, l’attrice nata nel 1962 e moglie di John Travolta. Preston ha interpretato numerosi film: è infatti nel cast di “Christine - La macchina infernale”, “I gemelli” e “Jerry Maguire”.

Olivia de Havilland. All’età di 104 anni, è scomparsa il 26 luglio l’attrice ultima superstite del cast di “Via col vento”. Vincitrice di due Oscar, de Havilland è stata da sempre considerata una figura fondamentale di Hollywood agli esordi del cinema sonoro e a colori.

Franca Valeri. Pochi giorni dopo essere diventata centenaria, è scomparsa l’attrice italiana: era il 9 agosto. Valeri è stata attrice al cinema, in tv e in teatro, ma anche sceneggiatrice. Tra i suoi lavori più celebri “Il segno di Venere”, “Il bigamo”, “Il vedovo”, “Parigi o cara” e “Ultimo tango a Zagarol”.

Chadwick Boseman. Forse sarà ricordato ai Premi Oscar 2021, ma intanto Boseman, classe 1976, è mancato lo scorso 28 agosto. Ha preso parte a diversi film Marvel, nella serie degli “Avengers” e in “Black Panther”. I suoi due ultimi film sono stati “Da 5 Bloods” di Spike Lee e “Ma Rainey’s Black Bottom”, uscito postumo.

Philippe Daverio. Cultura ed eleganza erano il binomio indissolubile che lo caratterizzava: il critico d’arte, nato nel 1949, è scomparso il 2 settembre. La sua opera di divulgazione artistica è riuscita a giungere a ogni fascia di popolazione e ha vinto numerosi premi.

Quino. Il “papà” di Mafalda, il personaggio delle strisce a fumetti, è morto il 30 settembre: era nato nel 1932. Figlio di emigranti spagnoli, Quino è diventato uno degli artisti simbolo in Argentina e anche nel resto del mondo.

Eddie Van Halen. Il suo assolo di chitarra traumatizzava George McFly in “Ritorno al futuro”. Il frontman dei Van Halen si è spento lo scorso 6 ottobre a 65 anni, la maggior parte dei quali trascorsi a creare e suonare ottima musica.

Sean Connery. Sul grande schermo è stato James Bond, Guglielmo de Baskerville ma anche il padre di Indiana Jones. L’attore scozzese è morto a 90 anni lo scorso 31 ottobre, destando il cordoglio di tutto il mondo. Ha preso parte a 67 film con registi come Sidney Lumet, John Houston, Terry Gilliam, Jean-Jacques Annaud, Brian De Palma, Steven Spielberg e Gus Van Sant.

Gigi Proietti. Attore teatrale, televisivo e cinematografico, è scomparso a 80 anni, il giorno del suo compleanno, il 2 novembre. Ha lasciato ai fan un’eredità di “sorrisi magici” e sketch. Colto e affascinante, l’artista era in grado di interpretare personaggi drammatici e comici. Oltre all’indimenticabile e televisivo Maresciallo Rocca, vale la pena ricordare pellicole da lui interpretate come “Brancaleone alle crociate”, “La mortadella”, “Febbre da cavallo”, “Casotto”, “FF.SS. - Cioè: che mi hai portato a fare sopra Posillipo se non mi vuoi più bene” e l’ultima uscita quando era ancora in vita, “Pinocchio” di Matteo Garrone.

Stefano D’Orazio. Classe 1948, è morto il 6 novembre dopo aver contratto il coronavirus. È stato per oltre cinquanta anni il batterista e una delle quattro anime dei Pooh, senza disdegnare negli ultimi dieci anni un proprio progetto solista per cui ha inciso quattro album relativi ad altrettanti musical.

Diego Armando Maradona. Campione del mondo 1986 e soprannominato “el pibe de oro”, Maradona è scomparso il 25 novembre poco dopo aver compiuto 60 anni. Argentino, ha vissuto e giocato in Italia molto a lungo nelle file del Napoli: la città lo ricorda con molto affetto ed è stato dato il suo nome allo stadio partenopeo pochi giorni dopo la sua morte.

Daria Nicolodi. Settanta anni compiuti quest’anno, il 26 novembre è venuta a mancare Daria Nicolodi, attrice ed ex compagna di Dario Argento. Con lui ha girato molti horror e thriller, ma Nicolodi ha lavorato anche con altri registi di spicco del panorama italiano, da Carmelo Bene a Mario e Lamberto Bava, passando per Ettore Scola e Cristina Comencini, nonché la figlia Asia Argento.

Pamela Tiffin. Classe 1942, è venuta a mancare il 2 dicembre la modella e attrice statunitense che lavorò tantissimo in Italia, ultimo tassello ancora in vita del “triangolo folk” creato da Dino Risi in “Straziami ma di baci saziami” con Nino Manfredi e Ugo Tognazzi.

Paolo Rossi. Campione del mondo 1982, nato nel 1956, è scomparso il 9 dicembre. Ha giocato con varie squadre, dalla Juventus al Milan, concludendo la sua carriera nelle file del Verona.

John le Carré. Scrittore britannico autore di pregevoli romanzi a tema spionaggio, era nato nel 1931 ed è deceduto il 12 dicembre. Ha scritto 28 romanzi, da alcuni quali sono stati tratti film di successo.

Pierre Cardin. Classe 1922, è scomparso il 29 dicembre. Stilista italiano ma naturalizzato francese, ha rappresentato il trait d'union tra la moda delle due culture.

Tutti i morti del 2020, la lista dei personaggi famosi che ci hanno lasciato nell’anno del coronavirus. Redazione su Il Riformista il 31 Dicembre 2020. Nella foto Diego Armando Maradona, lo scrittore Luis Sepúlveda, il compositore Ennio Morricone e il generale iraniano Qasem Soleimani. La storia italiana ed internazionale nel corso dei secoli è stata segnata da anni bui e funesti, ma senza dubbio il 2020 sarà ricordato come uno degli anni più catastrofici per le perdite subite. Cominciato subito con una serie di morti illustri, dalla politica al mondo dello spettacolo, della cultura e dello sport, l’avvento del coronavirus non ha fatto altro che aumentare di mese in mese il conteggio del numero delle vittime. Di seguito, la lista dei personaggi famosi che ci hanno lasciato in questo 2020.

ITALIANI

Vito Molaro (1993 – 2 gennaio 2020) – Attore originario di Tufino, in provincia di Napoli, è venuto a mancare all’età di 26 anni, stroncato da una grave forma di fibrosi cistica.

Paolo Guerra (26 dicembre 1949 – 5 febbraio 2020) – Produttore teatrale e cinematografico, è scomparso all’età di 71 anni. Fondatore della casa di produzione Agidi, è celebre per essere stato l’ideatore dei film di Aldo, Giovanni e Giacomo.

Lucia Bosè (28 gennaio 1931 – 23 marzo 2020) – La celebre attrice è scomparsa all’età di 89 anni a seguito di complicanze derivate dal contagio da coronavirus. Divenne famosa nel 1947 quando, a soli 16 anni, vinse Miss Italia. Da lì partì la sua carriera di attrice. Nel 1955 sposò il torero Luis Miguel Dominguín da cui ebbe i suoi tre figli.

Lorenza Mazzetti ( 26 luglio 1927 – 4 gennaio 2020) – Scrittrice, pittrice e regista è scomparsa all’età di 93 anni. Negli anni ’50 ha fondato il movimento cinematografico inglese Free Cinema.

Italo Moretti (29 ottobre 1933 – 9 gennaio 2020) – Storico giornalista della Rai, è morto all’età di 86 anni. Nel 1968 inizia la sua esperienza professionale in America Latina: nel settembre del 1973 fu tra i primi giornalisti ad arrivare a Santiago dopo il golpe di Pinochet. Nel 1987 il passaggio, come vice direttore, al Tg3, testata di cui assunse la direzione nel 1995, per poi diventare dal 1996 al 1998 condirettore della Tgr.

Giampaolo Pansa (1 ottobre 1935 – 12 gennaio 2020) – Storica penna del giornalismo italiano, è morto all’età di 84 anni. Storico, autore di romanzi e saggi in gran parte incentrati sugli anni della guerra partigiana, è stato vicedirettore del quotidiano ‘La Repubblica’ e condirettore de "L’Espresso".

Emanuele Severino (26 febbraio 1929 – 17 gennaio 2020) – Celebre pensatore, è stato maestro di una generazione di filosofi italiani. Malato da tempo, è scomparso all’età di 90 anni.

Luciano Gaucci (28 dicembre 1938 – 23 gennaio 2020) – L’ex storico presidente del Perugia Calcio è morto all’età di 81 anni, dopo un lunga malattia, a Santo Domingo dove si era trasferito nel 2005. Fu proprietario anche di Viterbese, Catania e Sambenedettese e nel 2004 tentò di acquistare il Calcio Napoli, appena fallito, ma il Tribunale gli preferì l’attuale presidente Aurelio De Laurentiis.

Mirella Freni (27 febbraio 1935 – 9 febbraio 2020) – Soprano di fama internazionale, è scomparsa all’età di 85 anni dopo una lunga malattia. Coetanea e concittadina di Luciano Pavarotti, è considerata tra le cantanti d’opera per antonomasia del XX secolo.

Flavio Bucci (25 maggio 1947 – 18 febbraio 2020) – Il famoso attore è venuto a mancare all’età di 72 anni. Noto per il personaggio di Antonio Ligabue, è comparso in decine di film, come “Il Marchese del Grillo” con Alberto Sordi o “Il divo” di Paolo Sorrentino. Bucci ha recitato da protagonista anche in numerose pièce teatrali, da “Uno, nessuno e centomila” a  “Il fu Mattia Pascal” fino a “Chi ha paura di Virginia Woolf?”.

Suor Germana (3 luglio 1938  – 7 marzo 2020) – Nota soprattutto per i numerosi e popolari libri di cucina presenti nelle case di quasi tutti gli italiani, è morta a 81 anni. Il successo clamoroso dei libri la rese una figura pubblica e popolare anche in televisione, dove partecipò a “I Fatti Vostri”, “Uno Mattina”, “Domenica In” e persino il “Festival di Sanremo” nel 1999.

Elisabetta Imelio (22 novembre 1975 – 29 febbraio 2020) -Bassista e cantante dei Prozac+, che da anni lottava contro un brutto male, è scomparsa all’età di 44 anni. Negli ultimi anni Elisabetta Imelio lavorava anche come insegnante di nuoto alla Gymnasium di Pordenone e lascia anche un bambino di pochi anni.

Vittorio Gregotti (10 agosto 1927 – 15 marzo 2020) -Noto architetto, fra i migliori del Novecento, è scomparso all’età di 92 anni. Era ricoverato in ospedale per una polmonite da coronavirus, ma non ce l’ha fatta.

Gianni Mura (9 ottobre 1945 – 21 marzo 2020) – Giornalista e scrittore, firma storica di Repubblica, si è spento per un improvviso attacco cardiaco all’età di 74 anni. I suoi racconti, dal calcio al ciclismo al tennis, e le sue interviste, hanno segnato pagine memorabili dello sport italiano e non solo.

Alberto Arbasino (22 gennaio 1930 – 22 marzo 2020) – Scrittore e tra i protagonisti del cosiddetto “Gruppo 63” si è spento dopo una lunga malattia all’età di 90 anni. Per lui anche una breve esperienza politica: venne eletto infatti in Parlamento come indipendente per il Partito Repubblicano Italiano fra il 1983 e il 1987.

Franco Lauro (25 ottobre 1961 – 14 aprile 2020)- Volto noto della Rai e del giornalismo sportivo, il giornalista si è spento all’età di 59 anni a causa di un infarto.

Aldo Masullo (12 aprile 1923 – 24 aprile 2020) – Filosofo e politico è scomparso all’età di 97 anni. È stato insignito della medaglia d’oro del Ministero per la Pubblica Istruzione. Dal 1976 al 1979 e dal 1994 al 2001 è stato Senatore della Repubblica. L’8 giugno del 2018 Napoli gli ha conferito la cittadinanza onoraria.

Giulietto Chiesa (4 settembre 1940 – 26 aprile 2020) – Giornalista con alla spalle una lunga carriera all’Unità, La Stampa e Manifesto, è morto all’età di 79 anni. Per anni è stato uno dei più importanti osservatori del mondo sovietico e nel 2014 ha fondato la televisione online Pandora Tv.

Germano Celant (11 settembre 1940 – 29 aprile 2020) – Critico d’arte e direttore artistico italiano di numerose opere celebri è scomparso all’età di 80 anni.

Franco Cordero (6 agosto 1928 – 8 maggio 2020) – Giurista e scrittore italiano, è scomparso all’età di 92 anni. E’ stato autore di testi giuridici e saggi, ma anche di romanzi e pamphlet.

Ezio Bosso (13 settembre 1971 – 14 maggio 2020) -Il pianista e direttore d’orchestra,  è scomparso all’età di 48 anni. Dal 2011 conviveva con una malattia neurodegenerativa che gli fu diagnosticata dopo aver subito un intervento per un tumore al cervello.

Sandro Petrone (2 febbraio 1954 – 15 maggio 2020) –  Volto storico del Tg2, inviato di guerra e cantante, il giornalista napoletano è morto all’età di 66 anni  dopo aver lottato contro un tumore ai polmoni.

Gigi Simoni (22 gennaio 1939 – 22 maggio 2002) –  Ex allenatore di Inter e Napoli nonché dirigente sportivo ed ex centrocampista, tra le altre, di Juve, Torino e Brescia, è scomparso all’età di 81 anni.

Alberto Alesina (29 aprile 1957 – 23 maggio 2020) – Economista e accademico italiano, professore all’Università Harvard e visiting professor all’Università Bocconi, è scomparso all’età di 63 anni.

Tinin Mantegazza (20 febbraio 1931 – 1 giugno 2020) – Artista, autore televisivo e scenografo italiano, è scomparto all’età di a 89 anni. Era diventato famoso soprattutto per Dodò, il pupazzo protagonista per la trasmissione per bambini L’albero azzurro della Rai.

Roberto Gervaso (9 luglio 1937 – 2 giugno 2020) – Giornalista, scrittore, storico, autore di autobiografie è scomparso all’età di 82 anni. Ha scritto nella sua carriera oltre 60 titoli.

Giulio Giorello (14 maggio 1945 – 15 giugno 2020) – Il filosofo, studioso di filosofia della scienza e tra i maggiori epistemologi degli ultimi decenni è morto all’età di 75 anni. Il professore, positivo al coronavirus, era riuscito a superare l’infezione, ma la sua situazione è peggiorata fino alla morte.

Mario Corso (25 agosto 1941 – 20 giugno 2020) – Calciatore storico attaccante dell’Inter di Herrera è scomparso all’età di 78 anni in ospedale dopo alcuni giorni di ricovero. Aveva indossato la maglia nerazzurra dal 1957 al 1973 prima di passare al Genoa, dove aveva concluso la carriera nel 1975.

Pierino Prati (13 dicembre 1946 – 22 giugno 2020) – Calciatore ex attaccante, tra gli anni ’60 e ’70, di Milan, Roma e della nazionale italiana si è spento all’età di 73 anni.  Con la maglia rossonera vince 1 Scudetto, 2 coppe Italia, 2 Coppe dei Campioni, 1 Coppa delle Coppe e 1 Coppa Intercontinentale.

Ennio Morricone (10 novembre 1928 – 6 luglio 2020) – Musicista e compositore, il maestro è stato l’autore delle colonne sonore più belle e intense del cinema. Scomparso all’età di 92 anni in seguito alle conseguenze di una caduta che gli aveva provocato la rottura del femore, nel 2007 Morricone ha ricevuto il premio Oscar alla carriera dopo essere stato nominato per 5 volte.

Giulia Maria Crespi (6 giugno 1923 – 19 luglio 2020) – Imprenditrice e fondatrice del Fai, Fondo Ambiente Italiano, è venuta a mancare all’età di 97 anni. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti in tutta Italia, tra cui dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana.

Gianrico Tedeschi (20 aprile 1920 – 27 luglio 2020) – Noto attore e doppiatore è scomparso all’età di 100 anni. Nel corso della sua carriera, fra le altre esperienze, ha lavorato ai grandi sceneggiati della Rai e per registi del calibro di Roberto Rossellini, Mario Monicelli e molti altri.

Sergio Zavoli (21 settembre 1923 – 4 agosto 2020)-  Il giornalista si è spento a Roma a 96 anni. Per oltre 50 anni è stato la voce della Rai, in Tv e in Radio, diventando un vero maestro che ha fatto la storia del giornalismo italiano.

Franca Valeri (31 luglio 2020 – 9 agosto 2020) – La storica attrice è scomparsa all’età di 100 anni. Tantissimi i ruoli indimenticabili della grande artista: dalla sofisticata ‘Signorina Snob‘ alla ‘Sora Cecioni‘. Vasto il repertorio di personaggi teatrali, radiofonici, cinematrografici e poi televisivi.

Cesare Romiti (24 giugno 1923 – 18 agosto 2020) – Amministratore delegato e presidente per 25 anni in Fiat, è scomparso all’età di 97 anni dopo aver fatto la storia dell’economia italiana. Dal 2006 al 2013 è stato presidente dell’Accademia di Belle Arti di Roma.

Arrigo Levi (17 luglio 1926 – 24 agosto 2020) – Giornalista, scrittore e conduttore televisivo italiano è scomparso all’età di 94 anni. Fu il primo giornalista a condurre un telegiornale in Italia.

Philippe Daverio (17 ottobre 1949 – 2 settembre 2020) – Docente e saggista, ex assessore alla Cultura del Comune di Milano, lo storico dell’arte è venuto a mancare all’età di 71 anni dopo aver lottato contro un tumore. Direttore del periodico Art e Dossier, negli anni 2000 ha condotto la celebre serie Passepartout, programma d’arte e cultura.

Rossana Rossanda (23 aprile 1924 – 20 settembre 2020) – giornalista, scrittrice, traduttrice italiana, dirigente del PCI negli anni cinquanta e sessanta, la cofondatrice de il Manifesto è scomparsa all’età di 96 anni. Comunista mai pentita ma sempre critica, “la ragazza del secolo scorso” è tra le intellettuali più autorevoli del Paese.

Don Roberto Malgesini (14 agosto 1969 – 15 settembre 2020) – Considerato il prete degli ultimi, è stato ucciso all’età di 51 anni. Era noto per il suo impegno verso i più deboli ed emarginati e per la sua attività di volontariato.

Giovanni D’Alise (14 gennaio 1948 – 4 ottobre 2020) – Il vescovo di Caserta è morto all’età di 72 anni. Ricoverato dopo aver contratto il coronavirus, è stato il primo presule deceduto per il covid-19 in Italia.

Carla Nespolo (4 marzo 1943 – 4 ottobre 2020) – Presidente dell’Anpi e prima donna a capo dell’associazione nazionale partigiani d’Italia, è morta all’età di 77 anni. Per decenni esponente della sinistra, senatrice del Partito comunista e poi dei Ds, guidava l’Associazione dei partigiani dal 3 novembre 2017.

Gianfranco De Laurentiis (13 gennaio 1939 – 14 ottobre 2020) – Volto storico del giornalismo sportivo della Rai, è morto all’età di 81 anni. Per anni volto di trasmissioni popolari come Domenica Sprint e Dribbling.

Jole Santelli (28 dicembre 1968 – 15 ottobre 2020) – La presidente della Regione Calabria ed ex deputata esponente di Forza Italia è scomparsa all’età di 51 anni. Da tempo lottava contro il cancro. Nella sua lunga carriera politica è stata sottosegretaria al ministero della Giustizia dal 2001 al 2006 nei governi Berlusconi, oltre a sottosegretaria al ministero del Lavoro e delle politiche sociali da maggio a dicembre 2013 nel governo Letta.

Enzo Mari (27 aprile 1932 – 19 ottobre 2020) – Il grande designer e accademico italiano è morto all’età di 88 anni. Ha collaborato con diverse aziende per le quali ha progettato vari oggetti d’uso e di arredo, quali Danese, Zanotta, Alessi e Magis.

Giusi La Ganga (5 maggio 1948 – 23 ottobre 2020) –  Politico, per anni deputato e dirigente del Partito Socialista Italiano e successivamente passato al Partito Democratico, è scomparso all’età di 72 anni.

Germano Nicolini (26 novembre 1919 – 24 ottobre 2020)- Partigiano, conosciuto con il nome di Diavolo, è scomparso all’età di 101 anni. Fu tra i protagonisti della Resistenza in Emilia Romagna e divenne sindaco di Correggio dopo la seconda guerra mondiale.

Pino Scaccia (17 maggio 1946 – 28 ottobre 2020)- Giornalista, scrittore e blogger italiano è morto all’età di 74 anni a seguito di complicanze da covid-19. E’ stato storico inviato della Rai ed ex capo redattore dei servizi speciali del Tg1.

Gigi Proietti (2 novembre 1940 – 2 novembre 2020)- Uno dei più grandi attori e mattatore del teatro italiano è scomparso nel giorno in cui avrebbe compiuto 80 anni, a causa di problemi cardiaci. È stato comico, cabarettista, doppiatore, conduttore televisivo, regista, ma anche cantante e direttore artistico.

Stefano D’Orazio (12 dicembre 1948 – 6 novembre 2020)- Strumentista, autore, scrittore e batterista del celebre gruppo Pooh è scomparso all’età di 72. Ricoverato per una settimana dopo aver contratto il Covid-19, aveva una malattia del sistema immunitario aumentando la sua probabilità di non farcela.

Fernando Atzori (1 giugno 1942 – 9 novembre 2020)- Pugile italiano e medaglia d’oro nel 1964 alle Olimpiadi di Tokyo, è scomparso all’età di 78 anni. E’ stato campione europeo dei mosca dal 1967 al 1973.

Marco Santagata (28 aprile 1947 – 9 novembre 2020) – Scrittore, critico letterario e accademico italiano, si è spento all’età di 73 anni. Professore all’Università di Pisa, è stato vincitore del Premio Campiello nel 2003 e del Premio Stresa nel 2006.

Valentina Pedicini (6 aprile 1978 – 20 novembre 2020)- Regista e sceneggiatrice italiana, è scomparsa all’età di 42 anni a causa di un brutto male che combatteva da tempo.

Daria Nicolodi (19 giugno 1950 – 26 novembre 2020)- Attrice e sceneggiatrice italiana, si è spenta all’età di 70 anni. Era famosa per i ruoli nei film di genere thriller e horror girati negli anni del sodalizio sentimentale e artistico con il regista Dario Argento.

Giordano Zucchi (7 maggio 1928 – 30 novembre 2020)- Imprenditore del settore tessile e per 60 anni alla guida del famoso gruppo Zucchi/Bassetti, si è spento all’età di 93 anni.

Arturo Diaconale (8 settembre 1945 – 1 dicembre 2020)- Giornalista, politico e appassionato sportivo, è scomparso all’età di 75 anni.  Dal 2016 fino alla morte è stato responsabile della comunicazione della Società Sportiva Lazio e portavoce del presidente Claudio Lotito.

Lidia Menapace (3 aprile 1924 – 7 dicembre 2020) – L’ex staffetta partigiana e senatrice è morta all’età di 96 anni, dopo esser stata ricoverata risultando positiva al Coronavirus. È stata nel 1964 la prima donna eletta in consiglio provinciale a Bolzano e la prima donna in giunta provinciale.

Paolo Rossi (23 settembre 1956 – 9 dicembre 2020)-  L’ex calciatore ed opinionista tv è scomparso all’età di 64 anni dopo aver lottato contro una brutta malattia. ‘Pablito’ lo si ricorda soprattutto per i suoi gol ai mondiali disputati in Spagna nel 1982 che videro l’Italia laurearsi Campione del Mondo per la terza volta nella sua storia.

Enrico Ferri (17 febbraio 1942 – 17 dicembre 2020) – Ex ministro dei Lavori pubblici ed esponente del Partito socialdemocratico, si è spento all’età di 78 anni dopo una lunga malattia.

INTERNAZIONALI

Qassem Soleimani (11 marzo 1957 – 3 gennaio 2020)- Il generale iraniano, uno degli uomini più importanti del regime, è morto dopo un raid americano all’età di 63 anni. Soltanto nel 2019 era stato eletto secondo il Times come una delle personalità più potenti che avrebbero cambiato il 2020.

Kobe Bryant (23 agosto 1978 – 26 gennaio 2020)- Stella della pallacanestro Usa e simbolo dei Los Angeles Lakers, è morto in un incidente in elicottero all’età di 42 anni assieme alla figlia Gianna, di 13 anni.

Kirk Douglas (9 dicembre 1926 – 5 febbraio 2020)- L’attore premio Oscar ed una delle più grandi star di Hollywood è scomparso all’età di 103 anni. Decano degli attori hollywoodiani, il più anziano di tutti, rappresentava il capostipite di una dinastia.

Stanley Cohen (17 novembre 1922 – 5 febbraio 2020) – Biochimico statunitense Premio Nobel per la Medicina nel 1986 insieme a Rita Levi Montalcini e suo storico collaboratore, si è spento all’età di 97 anni.

Jens Nygaard Knudsen (25 gennaio 1942 – 25 febbraio 2020)- Il designer ed inventore degli omini dell’azienda danese Lego è scomparso all’età di 78 anni.

Hosni Mubarak (4 maggio 1928 – 25 febbraio 2020)- L’ex presidente egiziano, per 30 anni al guida del Paese (dal 1981 al 2011), è morto all’età di 91 anni. Era stato spodestato dal suo lungo potere trentennale nel gennaio 2011, con la rivoluzione che ha seguito i moti in Tunisia e altri paesi arabi.

Clive Cussler (15 luglio 1931 – 24 febbraio 2020)- Noto scrittore statunitense di romanzi d’avventura, è scomparso all’età di 89 anni.

Frank Uwe Laysiepen “Ulay” (30 novembre 1943 – 2 marzo 2020)- Artista, performer e fotografo è scomparso all’età di 76 anni a causa di un cancro. Famoso per la sua performance art e per il sodalizio artistico e sentimentale con l’artista Marina Abramovic.

Eduard Limonov (22 febbraio 1943 – 22 marzo 2020)- Scrittore e politico russo, è scomparso all’età di 77 anni. Fondatore e leader del partito L’altra Russia, era uno scrittore oltre che guerrigliero in Jugoslavia, agitatore culturale e sociale e poeta disadattato.

Joaquin Peirò (26 gennaio 1936 – 18 marzo 2020) – Calciatore e allenatore di calcio spagnolo, è scomparso all’età di 84 anni. Ha fatto parte della ‘Grande Inter’ di Herrera con cui conquistò 2 campionati, 1 Coppa dei Campioni e 2 coppe intercontinentali.

Michel Piccoli (27 dicembre 1925 – 12 maggio 2020) – Il celebre attore francese è scomparso all’età di 94 anni. Protagonista del cinema transalpino degli anni ’60 e ’70, in Italia ha raggiunto la notorietà grazie al film del 2011 “Habemus papam” del regista Nanni Moretti.

Albert Uderzo (25 aprile 1927 – 24 marzo 2020)- Il noto fumettista francese è scomparso all’età di 92 anni. Nella sua brillante carriera ha disegnato fumetti avventurosi ed umoristici, ma è soprattutto celebre per essere il disegnatore del personaggio di Asterix.

Radomir Antic (22 novembre 1948 – 6 aprile 2020) – Allenatore di calcio e calciatore serbo, è scomparso all’età di 71 anni a seguito  di una malattia. È noto per essere l’unico ad aver allenato Barcellona, Real Madrid e Atletico Madrid.

Stirling Moss (17 settembre 1929 – 12 aprile 2020) – Il famoso pilota automobilistico di Formula 1 è scomparso all’età di 90 anni dopo una lunga malattia. Nella storia della Formula 1 è il pilota che ha vinto il maggior numero di gran premi senza aver mai vinto il titolo mondiale.

Luis Sepulveda (4 ottobre 1949 – 16 aprile 2020)- Scrittore, sceneggiatore e regista cileno è scomparso all’età di 70 anni a causa di complicanze da coronavirus. Aveva lasciato il Cile a causa della repressione del regime del generale Augusto Pinochet, che lo aveva portato al carcere.

Jerry Stiller (8 giugno 1927 – 11 maggio 2020) – Attore, comico e produttore televisivo statunitense e papà dell’altrettanto noto attore Ben Stiller, è morto all’età di 92 anni.

Christo (13 giugno 1935 – 31 maggio 2002) – Il celebre artista è scomparso all’età di 84 anni per cause naturali. Nel 2016 aveva realizzato l’opera The Floating Piers nelle acque del Lago d’Iseo.

Pau Dones (11 ottobre 1966 – giugno 2020) – Il musicista e voce degli Jarabe de Palo, è morto all’età di 53 anni.  Dal 2015 lottava contro un tumore al colon. Pau Donés e gli Jarabe de Palo hanno trovato il successo nel nostro Paese grazie a hit come “Depende” e “La Flaca” e aveva collaborato con artisti italiani come Jovanotti, Modà e Niccolò Fabi.

Kelly Preston (13 ottobre 1962 – 12 luglio 2020) – L’attrice e moglie di John Travolta, è morta all’età di 57 anni dopo una battaglia contro un tumore al seno durata due anni.

Galyn Gorg (15 luglio 1964 – 14 luglio 2002)- Attrice, showgirl e cantante statunitense è scomparsa all’età di 56 anni. Molto nota anche in Italia aveva fatto parte del corpo di ballo della sesta edizione di Fantastico e del programma SandraRaimondo Show.

John Lewis (21 febbraio 1940 – 17 luglio 2020) – Deputato statunitense e uno dei principali esponenti del movimento dei diritti civili nella metà del Novecento, è morto all’età di 80 anni dopo aver lottato contro un tumore al pancreas.

Nick Cordero (17 settembre 1978 – 5 luglio 2020) – Attore attivo in campo televisivo, teatrale e cinematografico e noto come interprete di musical a Broadway, è morto all’età di 41 anni dopo aver contratto il coronavirus.

Zinzi Mandela –  Figlia dei leader anti-apartheid sudafricani Nelson e Winnie Mandela, è morta a 59 anni. E’ diventata famosa in tutto il mondo quando ha letto in mondovisione la lettera di rifiuto nei confronti del governo della minoranza bianca che si offrì di liberare il padre dalla prigione se lei avesse denunciato la violenza compiuta dal suo movimento.

Olivia de Havilland (1 luglio 1916 – 26 luglio 2020) – Tra le ultime star dell’età d’oro di Hollywood, è morta all’età di 104 anni. Era anche l’ultima sopravvissuta del cast di "Via col Vento", in cui interpretò Melania Hamilton.

Chadwick Boseman (29 novembre 1976 – 28 agosto 2020) – Attore statunitense e volto legato al personaggio Marvel Black Panther, è morto all’età di 42 anni. Da quattro, lottava contro un cancro al colon.

Juliette Greco (7 febbraio 1927 – 23 settembre 2020) – L’icona della canzone francese è morta all’età di 93 anni. Era chiamata “la toutoune”, il cagnolino buono, e divenne la musa degli esistenzialisti.

Quino (17 luglio 1932  -30 settembre 2020) – All’anagrafe Joaquín Salvador Lavado Tejón, è morto all’età di 88 anni. Il fumettista argentino era famoso soprattutto per aver disegnato il personaggio di Mafalda.

Ruth Bader Ginsburg (15 marzo 1933 – 18 settembre 2020) – Giurista, magistrata e accademica, è morta all’età di 87 anni a causa di un cancro di cui soffriva da sempre. E’ stata giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti dal 1993.

Kenzo Takada (27 febbraio 1939 – 4 ottobre 2020) – Il noto stilista giapponese è morto al’età di 81 anni dopo aver contratto il coronavirus. E’ stato il primo stilista giapponese a stabilirsi a Parigi, dove ha sviluppato tutta la sua carriera raggiungendo la fama internazionale.

Eddie Van Halen (26 gennaio 1955 – 6 ottobre 2020) – Chitarrista e musicista tra i più famosi del mondo, è scomparso all’età di 65 anni, stroncato da un cancro alla gola di cui era malato da tempo. Il punto più alto della carriera nel 1984 e il singolo Jump, indubbiamente la traccia più famosa della band.

Sean Connery (25 agosto 1930 – 31 ottobre 2020) – L’attore scozzese, indimenticabile James Bond, è morto all’età di 90 anni. Nella sua lunga carriera ha vinto un Oscar come miglior attore protagonista per Gli intoccabili, due premi Bafta e tre Golden Globe.

Saeb Erekat – Storico capo negoziatore palestinese e segretario generale dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), è morto all’età di 65 anni dopo un lungo ricovero per complicanze da coronavirus.

Henri Chenot (25 marzo 1943 – 1 dicembre 2020) – Il re delle diete delle celebrità è scomparso all’età di 77 anni. Era malato da tempo e si era trasferito in Svizzera da circa un anno. Fondatore della biontologia, i suoi metodi di cura e le sue diete hanno attirato tantissimi nomi illustri dello sport e del jet-set.

Diego Armando Maradona (30 ottobre 1960 – 25 novembre 2020) – Il ‘pibe de oro’ è deceduto in seguito ad un arresto cardiorespiratorio mentre si trovava nella sua casa di Tigres (provincia di Buenos Aires) all’età di 60 anni.

Valéry Giscard D’Estaing (2 febbraio 1926 – 2 dicembre 2020) – L’ex presidente della Repubblica è venuto a mancare all’età di 94 anni. Era risultato positivo al coronavirus. E’ stato presidente dal 1974 al 1981 ed è stato anche grande sostenitore del progetto europeo.

Kim Ki-Duk (20 dicembre 1960 – 11 dicembre 2020) – Il regista sudcoreano è morto  all’età di 60 anni in seguito a complicazioni legate al Covid-19.

John Le Carrè (19 ottobre 1931 – 12 dicembre 2020) –  Scrittore famoso in tutto il mondo per i suoi romanzi di spionaggio, è scomparso all’età di 89 anni a causa di una polmonite. Il successo planetario arriva con “La spia che venne dal freddo”, bestseller che negli Stati Uniti rimane in testa alla classifica di diffusione per 43 settimane consecutive.

Claude Brasseur (15 giugno 1936 – 22 dicembre 2020) – Il celebre attore francese è scomparso all’età di 84 anni. In  oltre 60 anni di carriera ha recitato in oltre 110 film, tra cui Il tempo delle mele come padre di una giovanissima Sophie Marceau.

Robert Hossein. Marco Giusti per Dagospia il 31 dicembre 2020. “La sola cosa che lascerò”, diceva Robert Hossein, leggenda del cinema e del teatro francese, scomparso oggi a 93 anni appena compiuti per complicazioni polmonari da Covid, “è la cicatrice di Joffrey de Peyrac di Angelica, marchesa degli angeli. Qualche volta, forse, una giovane ragazza verrà a posare una rosa sulla mia tomba, per ricordo.” Anche se il personaggio di Joffrey de Peyrac, l’amore dell’avventurosa Angelica di Michéle Mercier, è rimasto nei cuori del grande pubblico, ricordare Robert Hossein solo per quello, con 110 film all’attivo come attore, 24 regie, una serie di spettacoli teatrali monumentali e, soprattutto, una carriera che dalla fine degli anni ’40 a oggi non gli ha fatto mai perdere il successo del pubblico, è davvero un po’ riduttivo. Hossein, bello, duro, virile, è stato negli anni ’50 e ’60 protagonista del grande cinema popolare francese, dividendosi tra avventurosi e noir, mélo e perfino western, potendo vantare delle partner bellissime come la sua prima moglie Marina Vlady, Brigitte Bardot, Sophia Loren, Lea Massari, Annie Girardot, Catherine Deneuve, Marie France Pisier e, ovviamente, Michéle Mercier. Con quel fisico, con quella faccia, non può che incarnare personaggi forti e molto maschili, buoni o cattivi che siano, non lasciando tanto spazio a altri partner dello stesso sesso. Nato a Parigi nel 1927 come Abrahan Hosseinhoff, figlio del compositore e direttore d’orchestra André Hossein, di Samarcanda, e di madre ucraina di Kiev, entra molto presto nel Theatre Grand Guignol di Montmartre e alla fine degli anni ’40 inizia a lavorare nel cinema. Prima con piccoli ruoli, poi nel fondamentale noir “Rififi”, girato in Francia dall’esule americano Jules Dassin, dove lo troviamo a fianco di Jean Servais e Carl Mohner. Nello stesso anno dirige il suo primo film, “Gli assassini vanno all’inferno”, tratto da Fréderic Dard con Marina Vlady sua coprotagonista assieme a Serge Reggiani e Henri Vidal. Con Marina Vlady, bellissima, che sposerà nel 1955 e dalla quale divorzierà nel 1959 dopo la nascita di due figli,  darà vita a una lunga serie di successi in gran parte anche diretti da lui, come “I peccatori guardano il cielo” di Georges Lampin, “La liberté surveilée”, Nella notte cadde il velo”, “I vampiri del sesso”, “La sentenza”, “La notte delle spie”, “le canaglie”, “La notte delle spie”. Importante, negli anni ’50, è anche l’incontro con Roger Vadim, che lo vorrà protagonista di “Un colpo da due miliardi” con Françoise Arnoul, de “Il riposo del guerriero”, grande successo con Brigitte Bardot, “Il vizio e la virtù” con Annie Girardot e Catherine Deneuve. Legherà molto non solo con Vadim, ma anche con Christian Marquand, in versione regista, col quale girerà “Il baro” nei primi anni ’60. Molto attivo nelle coproduzioni è il protagonista maschile in Italia del polpettone prodotto da Carlo Ponti per Sophia Loren “Madame Sans Gene”, girato da Christian Jacque nei vecchi stabilimenti della Pisorno, appunto tra Pisa e Livorno, appena rilevati da Ponti. Girerà anche, da regista e protagonista, un primissimo proto-western sudamericano, “Febbre di rivolta” con Giovanna Ralli e Mario Adorf. Nel western tornerà anni dopo, in piena leonemania, con l’ottimo “Cimitero senza croci” con Michéle Mercier e l’amico fidato Serge Marquand, musicato dal padre André Hossein, dove lo stesso leone avrebbe dovuto interpretare un ruolo, il barista. Sembra che Leone abbia girato la scena, ma poi convinse Hossein a toglierla perché non si era piaciuto. In cambio del favore, Hossein avrebbe dovuto girare un ruolo in “C’era una volta il West”. Negli anni ’60 è molto attivo nel cinema popolare europeo. Lo troviamo negli spy della serie OS117 diretto da André Hunebelle, nel ricco “Marco Polo” di Denys de la Patéllier, che lo vorrà a fianco di Jean Gabin e Michéle Mercier in un grande successo come “Matrimonio alla francese”/”Le tonnere de Dieu”. Ma è la serie “Angélique marquise des anges”, diretta da Bernard Borderie, tratta dai romanzi di Anne e Serge Golon, che gli darà il successo internazionale. Popolarissimo, lo troviamo così in altri film in costume del tempo, come il divertente “Madamagelle de Maupin” di Mauro Bolognini con Catherine Spaak e Tomas Milian, mentre girerà con la sua partner Michéle Mercier film come “L’amante infedele” di Christian Jacque. Non mancano i noir e i film da duri, come “Pattuglia anti-gang” di Bernard Borderie con Raymond Pellegrin e Pierre Clementi, “Calibro 38” di Charles Gerard. Diventato un’icona popolare, riceve però le critiche migliori per il film più intellettuale che gira in quel periodo, “La musica”, scritto e diretto da Marguerite Duras con la divina Delphine Seyrig. La Duras lo strapazza, chiamandolo Don Juan da bazar, ma alla fine funziona benissimo. Gira di tutto alla fine degli anni ’60, dalla sua personale e curiosa versione di Rasputin, ribattezzato in Italia “Addio Lara” con Gert Frobe come monaco pazzo, Peter McEnery e Geraldine Chaplin, all’erotico “Lamiel” di Jean Aurel con Anna Karina e Pierre Clementi, da “Il ladro di crimini” di Nadine Trintignant a “Nell’anno del Signore” di Luigi Magni, grande successo del tempo in Italia, dove è uno dei due patrioti che verranno giustiziati dal potere papale, dal western comico-fumettistico di “All’ovest di Sacramento” di Jean Girault al ricco “Gli scassinatori” di Henri Verneuil con Jean-Paul Belmondo e Omar Sharif. Nel 1971 viene chiamato a dirigere il teatro pubblico di Reims. E’ una sfida, che però vince, portando a Reims grandi spettacoli e grandi star come Isabelle Adjani in “La casa di Bernarda Alba”, Isabelle Huppert, Anémone. La sua idea è quella di “un teatro come non lo vedete che al cinema”. Ammalato di gigantismo produttivo, anche quando lascia Reims nel 1976, non demorde con i grandi spettacoli teatrali. Nel 1980 va al Théâtre Mogador, dove mette in scena Sartre e Dostojevski. Ma porta a teatro perfino Jean-Paul Belmondo prima nel “Kean” da Dumas nel 1987 e poi in una grande versione di “Cyrano de Bergerac” di Rostand nel 1990. Si vanta di “essere nato povero col cervello da ricco” per giustificare le sue spese eccessive. mette in scena un “Je m’appelais Marie-Antoinette” al Palais des sports nel 1993. Ormai ottantenne, dopo una svolta cattolica, mette addirittura in scena grandi spettacoli di fede come “N’ayez pas peur ! Jean Paul II”, nel 2007 e “Une femme nommée Marie”, una sola rappresentazione messa in scena davanti a 25 mila spettatori e 1500 malati a Lourdes. Anche se si muove meglio nel teatro dai grandi numeri, non ha mai lasciato il cinema. Nel 1982 ha girato una riuscita e premiata versione di “Les miserables” con Lino Ventura. Con l’amico Vadim lo troviamo in “Un corpo da possedere” con la bellissima Gwen Welles. Da noi gira l’horror di Sergio Stivaletti messo in piedi da Dario Argento per Lucio Fulci “La maschera di cera”, con Alberto Bevilacqua lo vediamo nel tardo giallo-erotico “Giallo Parma”, alquanto risibile, purtroppo. Dopo il matrimonio con Marina Vlady, che gli aveva dato due figli, si è risposato altre due volte, con Caroline Eliacheff nel 1962, un figlio, e con Candice Patou, sposata nel 1976, un altro figlio, che lo accompagnerà fino alla fine.

Samuel Little: morto il peggior serial killer della storia USA. Notizie.it il 31/12/2020. Samuel Little è passato alla storia per essere il peggior serial killer degli USA: confessò 93 omicidi. L'autopsia chiarirà le cause della morte. È morto in carcere Samuel Little, aveva 80 anni. L’uomo è stato descritto dalla polizia federale come il peggior serial killer della storia degli Stati Uniti d’America. Confessò 93 omicidi. Il decesso è avvenuto lo scorso 30 dicembre. Ad annunciarlo l’amministrazione penitenziaria della California. Le cause della morte saranno accertate dall’autopsia che sarà svolta nella contea di Los Angeles, dove Little era stato incarcerato nel 2014. La maggior parte delle vittime dell’ex pugile erano donne. Samuel Little è passato alla storia come il peggior serial killer degli USA. La polizia ha confermato la responsabilità dell’80enne di almeno cinquanta delitti. Spesso le vittime di Little erano donne, perlopiù appartenenti a minoranze etniche. Little era solito uccidere le vittime prima colpendole in maniera violenta per poi strangolarle. Dal 2014 Samuel Little stava scontando l’ergastolo per l’omicidio di tre donne. Mentre scontava la sua pena, Samuel Little rivendicò una serie di omicidi da lui compiuti tra il 1970 e il 2005. I delitti sarebbero avvenuti in almeno 15 stati USA. Molti di questi passarono inosservati. Conosciuto anche come Samuel McDowell, il killer venne arrestato per la prima volta all’interno di un centro anziani nello stato del Kentucky, venendo poi trasferito in California in quanto implicato in un caso di droga.

Da tgcom24.mediaset.it il 31 dicembre 2020. L'uomo descritto dalla polizia federale degli Stati Uniti come il peggior serial killer nella storia degli Stati Uniti, Samuel Little, reo confesso di 93 omicidi, è morto in carcere all'età di 80 anni. Lo ha annunciato l'amministrazione penitenziaria della California. La causa del decesso deve ancora essere ufficialmente determinata con un'autopsia da eseguire nella contea di Los Angeles, dove era stato incarcerato a fine 2014. Ex pugile, Little avrebbe messo fuori combattimento le sue vittime prendendole a pugni prima di strangolarle, pertanto non c'erano sempre segni evidenti, come ferite da arma da fuoco, che si trattasse di un omicidio. Per questo, molti decessi sono stati erroneamente classificati come dovuti a una overdose o accidentali e non sono mai stati indagati. Alcuni corpi non sono mai stati trovati, ha detto l’FBI. Le confessioni di Little sono state ritenute "credibili" dagli analisti che hanno anche diffuso immagini delle vittime disegnate dallo stesso Little mentre era in prigione. Gli omicidi rivendicati vanno dal 1970 al 2005 e sono stati compiuti in circa 15 stati degli Stati Uniti, la maggior parte dei quali passati inosservati. Little, noto anche come Samuel McDowell, era stato arrestato per la prima volta nel 2012 in un centro per senzatetto del Kentucky. Era stato poi trasferito in California in relazione a un caso di droga. Una volta lì, tracce di DNA avevano permesso alle autorità di stabilire un collegamento con tre casi irrisolti e hanno portato alla sua condanna nel 2014 per l'omicidio di tre donne a Los Angeles tra il 1987 e il 1989. Tutte e tre le vittime furono picchiate e strangolate.

·        Perché febbraio ha 28 giorni ed è il mese più corto dell’anno?

«Di ventotto ce n’è uno»: perché febbraio è il mese più corto dell’anno? Eleonora Fraschini su Il Corriere della Sera l'1/2/2021. «Trenta giorni ha novembre con april, giugno e settembre, di ventotto ce n’è uno, tutti gli altri ne han trentuno». Grazie alla filastrocca che abbiamo imparato da bambini, è facile ricordare che il mese di febbraio è più breve degli altri, essendo l’unico a contare 28 giorni (che diventano 29 solo negli anni bisestili). Ma qual è il motivo di questa «anomalia»? La suddivisione dei mesi dell’anno risale all’antica Roma, e la durata di febbraio potrebbe dipendere da una disputa tra Giulio Cesare e Ottaviano Augusto.

I calendari romani delle origini. Una prima suddivisione dell’anno è attribuita a Romolo, il leggendario fondatore di Roma. I mesi erano solo dieci (si contava da marzo a dicembre) e i giorni 304: il periodo invernale — infatti — non veniva regolato, perché considerato poco rilevante sia dal punto di vista bellico che agricolo. I primi quattro mesi dell’anno erano dedicati alle divinità Marte, Afrodite, Maia e Giunone, mentre per gli altri valeva l’ordine che seguivano nel calendario. Nel 713 a.C. Numa Pompilio, uno dei sette re di Roma, aggiunse i mesi di Ianuarius (gennaio) e Februarius (febbraio) alla fine del calendario. Si decise quindi di dedicare l’ultimo mese dell’anno alla purificazione, in latino februare, e al dio etrusco Februus. Questa suddivisione era — però — imprecisa: per mantenere il calendario allineato con le stagioni, venne aggiunto ogni due anni un mese intercalare, il mercedonio.

Il calendario di Giulio Cesare. Nel 46 a.C. Giulio Cesare, in qualità di pontefice massino, emanò un nuovo calendario solare elaborato dall’astronomo egizio Sosigene di Alessandria. Si iniziò a contare gli anni dal primo gennaio (anziché dal primo marzo) e venne introdotto l’anno bisestile al posto nel mese intercalare. Una prima teoria sostiene che, nel calendario giuliano, febbraio contasse di norma 29 giorni (30 negli anni bisestili). Quando il senato decise di dedicare l’ottavo mese dell’anno a Ottaviano Augusto, qualcuno fece notare che quel mese contava solo 30 giorni, mentre luglio, dedicato a Giulio Cesare, ne contava 31. Per non fare torto al nuovo imperatore, si decise di togliere un giorno a febbraio per aggiungerlo ad agosto. Altri storici sostengono — invece — che fin dall’inizio febbraio avesse 28 giorni e che per questo fosse considerato sfortunato (secondo i romani, i numeri pari erano di cattivo auspicio).

Il calendario gregoriano (con qualche eccezione). Il calendario di Giulio Cesare è stato mantenuto fino al 1.582, quando papa Gregorio XIII introdusse quello che in suo onore fu chiamato Calendario gregoriano. Vennero apportate alcune modifiche, ma febbraio restò l’unico mese di 28 giorni. Ancora oggi nella maggior parte del mondo viene utilizzato questo calendario, anche se nel corso della storia si sono verificate alcune eccezioni. In Svezia, per esempio, il calendario del 1.712 segnò la data 30 febbraio: nel 1.699, re Carlo XII, aveva deciso di uniformarsi al calendario gregoriano, ma non era riuscito a mettere in atto il progetto. In Russia invece, con la rivoluzione di ottobre del 1917, si decise di cambiare anche il corso dei mesi. Venne, però, commesso qualche errore e così, negli anni 1930 e 1931, il mese di febbraio durò 30 giorni.

·        109 anni dall’affondamento del Titanic.

Quando Marconi salvò 700 passeggeri del Titanic. Riccardo Luna su La Repubblica il 14 aprile 2021. La notte del 14 aprile del 1912, 109 anni fa, il transatlantico britannico Titanic colpisce un iceberg e rapidamente affonda: muoiono subito circa 1500 dei 2224 passeggeri. Quattro giorni dopo il naufragio un altro transatlantico, il Carpathia, arriva nel porto di New York con oltre 700 sopravvissuti. Qualcuno dirà che che si erano salvati “solo grazie al genio di un uomo”: Guglielmo Marconi. Non era a bordo del Titanic, ma c’era una sua invenzione: il telegrafo senza fili. Qualche anno prima infatti Marconi aveva fondato a Londra una società per mettere sul mercato un'applicazione della sua intuizione, l’utilizzo delle onde radio per trasmettere messaggi. La "Wireless Telegraph and Signal Company" era stata costituita il 20 luglio 1897, dopo che l'ufficio brevetti inglese aveva riconosciuto l’invenzione della trasmissione senza fili. Fu un successo. Nel 1912 la maggior parte delle navi passeggeri avevano l’apparecchiatura venduta dalla società di Marconi e gli operatori iniziarono a chiamarsi “marconisti”. Marconi aveva anche stabilito un messaggio breve che nel linguaggio del codice Morse, sarebbe dovuto servire per dare l’allarme in caso di pericolo: il CQD. Ma all’epoca mandare messaggi era una pratica ancora non regolamentata: non c’era un canale dedicato e nemmeno un turno di orario continuo. Inoltre era offerto come servizio ai passeggeri di prima classe per comunicare con la terraferma. Il giorno prima del naufragio un guasto momentaneo aveva messo fuori uso l’apparecchiatura, si erano accumulati molti messaggi dei passeggeri e per questa ragione diverse segnalazioni di ghiaccio sulla rotta del Titanic non furono ricevute. Alle 23 e 40 l’impatto con l’iceberg. La fortuna nella tragedia fu che il marconista del Carpathia, che era a 60 miglia dal punto del naufragio, era ancora sveglio e ricevette la richiesta di soccorso. Era un messaggio con il codice stabilito da Marconi, il CQD, anche se da quattro anni il mondo aveva scelto un nuovo sistema di allarme universale, l’SOS. L’ultimo messaggio dal Titanic fu però un SOS. Il Carpathia arrivò che era quasi l’alba. A New York il direttore generale delle Poste accolse i sopravvissuti dicendo loro di ringraziare solo un uomo e la sua meravigliosa invenzione: Guglielmo Marconi. 

Gaia Cesare per "il Giornale" il 18 maggio 2021. La parola definitiva sulla sua autenticità si avrà probabilmente prima dell'estate. Nel frattempo la Francia si commuove comunque per la lettera nella bottiglia datata 13 aprile 1912 e firmata Mathilde Lefebvre. La data è quella della vigilia del più celebre naufragio della storia, l'inabissamento del Titanic partito da Belfast, Irlanda del Nord, destinazione New York, e affondato il 14 aprile nell'Oceano Atlantico, a circa 780 chilometri dall'isola di Terranova, quando mancavano poche migliaia di chilometri all' arrivo. E il messaggio è conciso e lapidario: «Lancio questa bottiglia in mare, dobbiamo arrivare fra qualche giorno a New York. Se qualcuno la trova, avvertite la famiglia Lefebvre a Liévin», si legge nella missiva scritta a mano e ritrovata in una spiaggia del Canada nel 2017, chissà se davvero lanciata dal ponte del Titanic. Mathilde è una ragazzina francese di 12 o 13 anni che si trovava a bordo del transatlantico e rimase vittima del naufragio come tanti altri passeggeri di terza classe. Ma davvero quella lettera è sua? Su questo si interrogano da quattro anni gli esperti. Ma i risultati parziali degli studi dell'Università del Québec (Uqar) non offrono ancora certezze sull'autenticità del documento. I dubbi sono ancora molti. E la lettera in bottiglia potrebbe essere frutto dell'iniziativa di qualcuno che ha voluto di proposito beffare i posteri. Secondo gli ultimi rilievi scientifici, la fabbricazione è compatibile con quella di inizio Novecento, come lo è la qualità e l'analisi chimica del vetro. Anche l'inchiostro sembra databile 1912. Eppure nulla esclude che un falsario possa essersi procurato vetro, tappo e carta dell'epoca e aver utilizzato un inchiostro contraffatto. Insomma c'è sempre il sospetto che si tratti di una bufala. Tanto più che la grafia della giovane sembra troppo evoluta per una ragazzina della sua età, con qualche tratto diverso (per esempio la lettera «b») rispetto a quelli dell'epoca. Anche in questo caso, tuttavia, non è da escludere che la giovane possa aver chiesto a qualche adulto di tradurre per lei in parole il suo messaggio, circostanza che ipotizzano alcuni grafologi e che spiegherebbe le differenze rispetto ai tratti tipici di una dodicenne di quel tempo. Ad attendere con impazienza, in Francia, i risultati definitivi degli studi, sono gli eredi della famiglia Lefebvre. Mathilde era infatti in viaggio con quattro dei suoi nove fratelli e con la madre. Il padre Franck viveva già Oltreoceano con i cinque figli maggiori e a fatica era riuscito a mettere da parte il denaro per pagare il biglietto al resto della famiglia, nella speranza che presto si sarebbero riuniti. Speranza letteralmente naufragata. Durante le ricerche per il ritrovamento dei suoi figli l'uomo fu persino catturato dal servizio immigrazione degli Stati Uniti ed espulso visto che era entrato sotto falso nome. È morto nel 1948, all'età di 77 anni, con il cruccio di recuperare tracce della sua famiglia.

Dagotraduzione per il Mailonline il 23 aprile 2021. Poco prima della mezzanotte del 14 aprile 1912, il Titanic, da poco salpato per il suo viaggio inaugurale da Southampton a News York, colpì un iceberg. Nel giro di tre ore la nave, definita «inaffondabile», scivolò nelle acque gelide dell'Oceano Atlantico, uccidendo più di 1.500 persone. Un nuovo documentario, in uscita su Netfix History Hit, sfata alcune convinzioni sui motivi dell'affondamento della nave. Tra queste: l'assenza di un binocolo, che secondo molti avrebbe impedito alle vedette di accorgersi dell'iceber; la velocità della nave, giudicata troppo elevata; la tenuta della nave, dai più etichetta come «mal costruita»; la morte atroce dei passeggeri di terza classe, i più poveri, secondo la rappresentazione comune rimasti bloccati sottocoperta. Vediamoli uno a uno insieme all'esperto mondiale Tim Maltin, protagonista del film e autore di tre libri sulla tragedia. La velocità della nave era elevata e il capitano Smith ubriaco. John Charles Bigham, il giudice che allora si occupò del processo sul disastro del Titanic, scrisse nel suo diario che la nave viaggiava a «velocità eccessiva» e che, nonostante le acque ghiacciate, non aveva rallentato. Eppure «tutti i capitani» ascoltati durante l'inchiesta hanno sostenuto che al posto del capitano Smith «avrebbero fatto la stessa cosa» perché la «notte in cui il Titanic affondò - spiega Maltin - il cielo era limpido e l'equipaggio concentrato ad osservare il mare. Sapevano di entrare in un tratto di acque ghiacchiate, ma credevano di riuscire ad avvistare gli iceberg per tempo». False anche le voci sul capitano Smith, sospettato di aver bevuto troppo ma soprattutto di risultare assente sul ponte al momento dell'impatto e subito dopo. Tim Maltin spiega: «tra le 19 e le 20, Smith era a cena con i passeggeri. Ma alle 23.40, momento dello scontro, era sul ponte: qui infatti si trovavano la sua suite, la sua stanza navigazione, la sua zona chaise e la camera da letto. Il capitano viveva sul ponte. E aveva lasciato istruzioni chiare: convocarlo immediatamente al primo problema». E così fu. Smith era un Commodoro della White Star Line e aveva comandato tutte le loro navi ammiraglie. Era molto amato dall'equipaggio, e quando si rese conto che non c'era niente da fare, scelse di aiutare donne e bambini a mettersi in salvo piuttosto che cercarsi una scialuppa e salvarsi. La nave era mal costruita. Secondo alcuni lo scafo del Titanic si squarciò in quel modo perché era tenuto insieme da rivetti di second'ordine. È la teoria, per esempio, di Richard Corfield, che fa risalire l'origine della tragedia ai difetti di fabbricazione. Non è d'accordo Tim Maltin: «era una delle migliori mai costruite nella storia. Era ben fatta. Ho avuto la fortuna di andare a vedere un enorme pezzo di 40 tonnellate del Titanic e solo la scala, le dimensioni e il peso sono assolutamente incredibili». La White Star Line, forte della sua esperienza, aveva definito la nave «inaffondabile». In effetti il natante avrebbe potuto essere «tagliato in tre pezzi e ognuno di questi pezzi era stato costruito per rimanere a galla». Non solo. «Era stata progettata per restare in superficie con i primi quattro compartimenti stagni allagati, o nel caso di collisione tra due compartimenti stagni». Ma, nel tentativo di evitare l'iceberg, la nave fu fatta virare e colpì il ghiaccio lateralmente, in un punto che toccava cinque compartimenti stagni, troppi per la sua tenuta. Che comunque fu buona: il Titanic impiegò due ore e mezza per inabissarsi, e lo fece a «chiglia piatta». «Il Titanic era più sicuro delle navi moderne. Pensate alla Costa Concordia, che è affondata in Italia molto più velocemente». L'equipaggio non aveva il binocolo. In effetti l'equipaggio non aveva il binocolo perché il secondo ufficiale David Blair, prima della partenza, era stato sostituito da Henry Wilde, che arrivò sul Titanic insieme al capitano Smith. Blair, nel lasciare la nave, si portò dietro le chiavi della cabina che custodiva il binocolo, lasciando l'equipaggio privo di lenti. Ma, a detta di Maltin, questo dettaglio è irrilevante: «il modo migliore per avvistare un iceberg di notte è a occhio nudo, perché a differenza del binocolo ha un ampio campo visivo che ci aiuta a rilevare gli oggetti. Il binocolo serve ad osservare qualcosa che si è già visto a occhio nudo». Anzi, la presenza di un binocolo li avrebbe indotti ad approfondire prima di lanciare l'allarme, invece le vedette non ci pensarono due volte e suonarono il campanello, a dire "iceberg in vista"». Il Titanic si ribaltò e affondò orizzontalmente. Nel film del 1997 di James Cameron, il Titanic si divide in due prima che la prua si inclini orizzontalmente. Secondo Maltin la nave non è affondata in questo modo: l'iceberg ha colpito la nave vicino alla parte anteriore sul lato di tribordo (a destra) e l'acqua è entrata fluire nella nave. La poppa si è quindi sollevata dall'acqua e poi si è staccata. I passeggeri che erano a poppa pensavano che «se la sarebbero cavata bene». Ma mentre affondava, la prua s'è tirata dietro anche la poppa. «Ha fatto così tanti danni tirando la chiglia che il danno alla poppa causato dalla prua è stato maggiore del danno causato dall'iceberg». Secondo Maltin la poppa in realtà «è affondata molto silenziosamente», consentendo ai passeggeri rimasti di nuotare al di sotto. I passeggeri di terza classe furono rinchiusi sottocoperta mentre gli altri fuggirono. Nel film di James Cameron del 1997, i passeggeri di terza classe sono rinchiusi sottocoperta dietro ad enormi cancelli metallici. I cancelli era obbligatori per legge e separavano le tre classi. Erano frutto di una norma igienica stabilita dalle autorità statunitensi per evitare la diffusione di malattie infettive. «Nessuna nave passeggeri poteva sbarcare in America con i cancelli aperti. Era consentito solo durante un'emergenza». Non appena è stato dichiarato lo stato di emergenza, 47 minuti dopo l'impatto con l'iceberg, «gli stewart si sono precipitati sottocoperta ad aprire i cancelli e a dare indicazioni su come muoversi per arrivare alle scialuppe di salvataggio». Nel 1912, i ragazzi di 13 anni erano già classificati come adulti. In terza classe viaggiavano numerose famiglie che in America cercavano un riscatto, e che sui figli puntavano tutto. Pochi erano disposti a separasi dai loro ragazzi, e rinunciarono a salire sulle scialuppe. Il Titanic non aveva abbastanza scialuppe di salvataggio.  Si è parlato molto del fatto che il Titanic avesse solo 20 scialuppe di salvataggio, sufficienti a trasportare poco più di 1.000 dei 2.208 passeggeri. Spiega Maltin: «Per avere abbastanza scialuppe di salvataggio, bisogna imbarcarne il doppio rispetto alla necessità». Durante un affondamento, infatti, metà delle scialuppe di salvataggio si inabissa con la nave. «Se il Titanic aveva bisogno di 30 scialuppe di salvataggio, doveva effettivamente trasportarne 60», ha detto. Poiché non era pratico, il Board of Trade optò per «navi costruite correttamente e adeguatamente suddivise». Il timone era troppo piccolo. È stato anche affermato che il timone del Titanic era troppo piccolo per manovrare efficacemente l'enorme nave. Ma il capitano dell'Olympic, nave gemella del Titanic che montava lo stesso timone e che rimase in servizio fino al 1935, raccontò che aveva la migliore manovrabilità di qualsiasi nave avesse mai comandato.

L'asta sull'ultima cartolina del marconista del Titanic riaccende la polemica: fu un eroe o il vero responsabile? Massimo Basile su La Repubblica il 14 aprile 2021. Jack Phillips, il capo telegrafista 25enne del transatlantico affondato il 15 aprile del 1912 con 1.500 vittime, la scrisse alla sorella: "Arriveremo a Southampton mercoledì". Non riportò al comandante l'allarme iceberg lanciato da altre navi che avrebbe potuto evitare la tragedia, ma salvò 705 persone restando fino all'ultimo a telegrafare l'Sos. “Con amore, Jack”. Una cartolina postale spedita prima della partenza dall’ufficiale radiotelegrafista del Titanic verrà battuta all’asta negli Stati Uniti, a Boston, Massachusetts. L’obiettivo è raccogliere almeno 15 mila dollari, ma intanto l’annuncio, a 109 anni da una delle più grandi tragedie del mare, serve a far uscire di nuovo dal dimenticatoio uno dei suoi controversi personaggi, su cui circolano due versioni opposte: alcuni lo considerano l’eroe che salvò centinaia di persone, altri una delle cause del disastro. La firma sulla cartolina è di Jack Phillips, 25 anni, capo telegrafista del transatlantico affondato il 15 aprile del 1912. La cartolina venne spedita il 7 marzo alla sorella Elsie, in Irlanda, cinque settimane prima della storica traversata inaugurale dell’Oceano, destinazione New York City, di quella che era stata definita come la “nave inaffondabile”. Phillips scriveva di “essere molto impegnato sul lavoro”. “Spero - aveva aggiunto - di partire lunedì e arrivare a Southampton mercoledì pomeriggio. Spero tu stia bene”. Probabilmente è stata l’ultima comunicazione alla famiglia da parte del giovane telegrafista inglese, prima che il Titanic finisse contro un iceberg. Quello è stato il momento in cui Phillips si trasformò in eroe, versione reale del Jack Dawson interpretato da Leonardo DiCaprio nel film “Titanic” del ’97. Mentre tutti i passeggeri e gran parte dell’equipaggio cercavano una via di fuga, il marconista decise di restare al suo posto. Dalla sala telegrafo Phillips inviò decine di messaggi di aiuto, con la speranza di raggiungere una delle navi che passavano nella zona. L’Sos venne raccolto dalla britannica Carpathia, in navigazione sulla rotta Liverpool-Boston. L’intervento si rivelò decisivo: delle oltre duemila persone a bordo del Titanic, si salvarono in 705. Le vittime furono tra le 1490 e le 1635. Un conto preciso non è stato mai possibile farlo. Secondo alcuni, il disastro poteva essere evitato e tra le cause venne indicato proprio Phillips. Alle prese con un super lavoro, durante la navigazione, aggravato da un’interruzione dei collegamenti, il marconista non avrebbe risposto a segnalazioni da parte di altre navi, che avevano indicato la pericolosa presenza di iceberg. L’avvertimento lanciato dal piroscafo Mesaba non venne riportato alla cabina di comando. Nell’autobiografia di uno degli ufficiali sopravvissuti, si racconta che il capo telegrafista aveva poggiato il foglio sotto il gomito, deciso a risolvere prima un problema tecnico. Poi si era dimenticato di portare l'avviso al comandante. Un altro messaggio, inviato dalla nave Californian, sarebbe stato ignorato. Philllips non si è potuto difendere dalle accuse. Dopo l’impatto, mentre il Titanic stava affondando, il telegrafista continuò a fare il suo lavoro, nonostante l’acqua gelida dell’oceano avesse invaso la sala. Poi, una volta raggiunti i soccorsi, Phillips aveva provato a salvarsi, salendo su una piccola scialuppa, ma morì congelato.

"Macchine indietro tutta". E l'inaffondabile Titanic si spezza in due. Davide Bartoccini il 18 Aprile 2021 su Il Giornale. Il naufragio più famoso del mondo ha cambiato le regole della sicurezza navale sulla vita di mille e cinquecento anime: e pensare che una sola ora avrebbe cambiato le sorti di questo tragico evento. Su una delle punte estreme del ghiacciaio di Jakobshavn, in Groenlandia, scricchiolii, discreti e malaugurati, si lasciano udire puntuali, giorno dopo giorno, nel lungo e mite inverno artico del 1912. L’intensità del sole, con l’appropinquarsi della stagione calda, ne moltiplica la frequenza, che poi d’un tratto, così all’improvviso, muta, e colma il silenzio assoluto in uno stridere di crepe. Allora il tonfo, sordo e pieno nell’acqua gelata. Una montagna di neve ghiacciata, accumulatasi nei millenni, si è staccata dalla calotta, e dopo aver trovato il suo equilibrio nel mare, è diventata a tutti gli effetti un iceberg: “Gelidi mostri tanto belli da guardare, quanto pericolosi da toccare”, li definiva un capitano in servizio sulle prestigiose compagnia di navigazione britanniche che facevano sponda a sponda nel Nord Atlantico nell’epoca dorata dei transatlantici. Quell’anno ce ne sarebbero stati più del solito, e si sarebbero spinti più a sud del solito, fino a lambire le rotte dei grandi bastimenti che collegavano il Vecchio e il Nuovo Mondo, l’Europa e l’America. Il risultato della presenza di quei mostri di ghiaccio, che svettano oltre la superficie dell’acqua solo di un ottavo del loro volume - mentre gli altri sette ottavi restano sommersi - era già evidente: le coste del Labrador e i grandi Banchi di Terranova erano disseminate di "pennoni, tavole di legno e barili e casse di carico" perdute da navi scomparse nel nulla, dopo essere entrate in collisione, probabilmente, con gli enormi blocchi di ghiaccio che avrebbero proseguito la loro rotta naturale, a una velocità di 25 miglia percorse ogni giorno, verso le rotte navali del Nord Atlantico. Dall’altra parte dell’oceano, a Southampton, il 10 aprile 1912, dall’ormeggio numero 44 si stacca alle 12 in punto, l’Rms Titanic (il prefisso Rms stava per Royal Mail Ship, quando essa esercitava tale funzione). Un transatlantico di proprietà della White Star Line, lungo 269 metri con oltre 60mila tonnellate di dislocamento. È il bastimento più imponente e lussuoso che abbia mai solcato il mare. Dicono sia inaffondabile, e incomparabile per prestazioni e sfarzo anche alle sue due navi “gemelle”, l'Rms Olympic e Hmhs Britannic. La sua destinazione è New York. Arrivo previsto di lì a una settimana, la mattina del 17 aprile. A bordo sono già 892, tra membri dell’equipaggio agli ordini del capitano Edward Smith e personale addetto alle più disparate mansioni: cuochi, istruttori di palestra e squash, addirittura un tipografo che pubblica ogni giorno un “quotidiano” pensato appositamente per chi viaggia sul transatlantico. Si aggiungeranno nelle due tappe, una lungo la costa francese e un’altra, l’ultima su quella irlandese, 1.308 passeggeri, la cui maggioranza alloggerà negli alloggi di terza classe, quella cantata da De Gregori, dove "non si viaggia male".

Nulla è davvero “perfetto”. Tutto è trionfale, gli annunci, la stampa, le foto; tutto sembra essere stato pianificato per rasentare la perfezione, che appartiene solo a Dio. Gli arredamenti più ricercati, le pietanze servite, tra le più raffinate, e poi i passeggeri della prima classe, con i loro titoli e cognomi altisonanti, sempre inguainati nell’abito migliore. Si è verificato solo un piccolo incidente alla partenza, roba da poco. Ha causando un’ora di ritardo sulla tabella di marcia: la potenza delle enormi eliche, propulse dal vapore sprigionato da ventinove caldaie che possono garantire un velocità fino a 29 nodi (48 km/h), rischiava di risucchiare una nave di piccolo cabotaggio, chiamata, scherzo della sorte, New York, proprio come la meta dell’immenso Titanic. Nessun danno. Una dimenticanza poi, anch'essa da poco: non è stata imbarcata la scatola con i binocoli di bordo. Né vi sono razzi di segnalazione del colore adeguato a segnalare un’emergenza in mare: i razzi rossi. Ma a cosa servono i razzi d'emergenza su un bastimento inaffondabile? La traversata procede come da programma. Il tempo è buono, le nuvole rade, il mare calmo. Forse anche troppo. Nessuno affacciandosi dai ponti arriverebbe mai a pensare di dover ricorrere alle poche scialuppe di salvataggio, solo 16 come il regolamento consentiva (più quattro lance "pieghevoli"), che a fare un rapido conto per capienza sarebbero state sufficienti a mettere in salvo solo 990 anime. Nessuno avrebbe creduto che allo scoccare della mezzanotte del quinto giorno di viaggio, quel potente bastimento di solido acciaio avrebbe incontrato nel bel mezzo dell'Atlantico la più spaventosa minaccia che poteva opporglisi: un poderoso iceberg abbandonato a se stesso, senza rotta e senza meta. Trascinato solo dalla corrente.

Il "rendez-vous" letale. Nonostante le numerose segnalazioni della presenza di iceberg, il Titanic procede spedito lungo al sua rotta nel buio della notte. La chiamano Outward Southern Track, ed è un “corridoio” seguito dai bastimenti proprio per evitare tratti di oceano che erano interessati dalla presenza di iceberg e fitti banchi di nebbia che li rendono impossibili da avvistare. L’oceano, manto maestoso e infinito colore del petrolio, è calmo. Il punto tracciato sulla rotta verso Terranova noto come “l’angolo", quello dove i piroscafi diretti a ovest erano soliti effettuare la loro virata, è stato oltrepassato. Appena un paio d’ore più tardi però, si ode distinto il suono della campana d’allarme, tre volte, poi in plancia gracchia il telefono. È la vedetta: “Iceberg dritto di prua”.

L’errore fatale. Il capitano Smith dorme. Al comando c’è l’ufficiale in seconda, l’esperto William Murdoch, che impartisce però ordini contrastanti, prima una virata a sinistra, con motori a tutta forza per evitare l’iceberg. Poi un ripensamento, e viene ordinata la virata a dritta, per salvare dall'urto la poppa. L’iceberg intanto si avvicina nell’oscurità. Viene impartito l’ultimo ordine per ridurre la forza dell’impatto che oramai appare inevitabile: “macchine indietro tutta”. Sarà errore fatale. È appena passata la mezzanotte del 15 aprile 1912, e il mastodontico blocco di ghiaccio si scontra sulla sotto la linea di galleggiamento dello scafo. Benché lo scafo del transatlantico sia suddiviso in 16 compartimenti stagni, ognuno dotato di speciali porte a ghigliottina, tali compartimenti “non attraversavano la completa altezza dello scafo, ma si fermavano al ponte E”, lasciando via libera all’acqua che si era fatta strada nel cuore della nave, entrando copiosa: 12 milioni di litri d’acqua l’ora, nonostante l’impiego delle pompe idrauliche. Il Titanic avrebbe potuto galleggiare con diverse combinazioni di compartimenti completamente allagati, è vero, ma non con 5 compartimenti di prua allagati. In plancia non c’è spazio per dubbi o speranze: la collisione è stata fatale, la nave affonderà nel nord dell’Atlantico dove l’acqua raggiunge a stento gli zero gradi centigradi di temperatura.

L’inabissamento. “D'improvviso un fiotto di luce dal castello di prua e un razzo s'innalzò sibilando verso il cielo […]. Salì sempre più in alto, mentre un mare di volti lo seguiva con lo sguardo […]. E con un sospiro affannoso una parola sfuggì dalle labbra della folla: 'Razzi!'. Tutti sanno cosa significa un razzo in mare. […] È inutile negare l'intensità drammatica della scena; separatela da tutti i terribili eventi che seguirono e immaginatevi la calma della notte […]. Ognuno seppe senza il bisogno di parole che chiedevamo aiuto a chiunque fosse abbastanza vicino da vederci”, testimonierà il passeggero Lawrence Beesley. Poco dopo l’ordine di indossare i salvagenti che verranno distribuiti lungo i ponti e nelle sale interne, dove si affollano i passeggeri preoccupati ma non ancora terrorizzati. Intanto nella sala telegrafo, i due operatori della Marconi Company, Phillips e Bride, lanciano messaggi di soccorso sperando che una nave in transito possa raggiungerli e soccorrerli in tempo. Phillips scherzando dirà al suo secondo: “Utilizza il nuovo segnale d’emergenza, Sos. Può darsi che non avrai altra possibilità di farlo”. Bride sopravvivrà, Phillips no. Morirà congelato nel tentativo di raggiugnere una scialuppa a nuoto. L’orchestra scelta dal violinista Wallace Hartley, rimasta iscritta nella leggenda, suona il suo repertorio per quietare gli animi, fino all’ultimo. L’ultimo brano pare sia stato "Lettres de noblesse" o "Nearer, My God, to Thee" prima che la nave sprofondasse per la sua intera metà nell’acqua silenziosa e gelida e la pressione la spezzasse in due tronconi, portando nelle profondità abissali prima la prua e poi la poppa (come ben racconta il colossal di James Cameron). Le scialuppe, insufficienti nel numero e messe in mare con un carico di “donne e bambini” sotto capienza, lasceranno più della metà dell’equipaggio e dei passeggeri al loro tragico destino: la morte per annegamento e ipotermia, che sopraggiungerà in pochi minuti. Quando sono trascorse da poco le 2 del mattino. La nave più vicina alle coordinate rilanciate dal Titanic che ha risposto all’Sos è la Rms Carpathia, è distante 58 miglia nautiche. Ci vorranno ore. Dal Californian invece, avvistato sulla sua rotta a sole 17 miglia nautiche di distanza, nessuna risposta. Alle prime luci dell'alba verranno tratti in salvo solo 706 superstiti. L'eco di quella tragedia, forse tra le più note della storia, si propagherà in tutto il mondo, portando rilevanti modifiche nei regolamenti riguardanti la sicurezza navale: dal numero regolamentare di scialuppe all'adesione del nuovo segnale universale di richiesta di soccorso, l'ormai noto l'Sos. Il relitto del Titanic, sulla cui vicenda aleggeranno per oltre un secolo le più disparate leggende e teorie del complotto - dall'incendio nascosto avvenuto a bordo prima della partenza, al libro profetico scritto nel 1898 dal titolo "Il naufragio del Titan", alla teoria della truffa assicurativa ideata dai proprietari della White Star Line (acquisita negli anni '30 dalla rivale e ancora attiva Cunard Line) - sarà individuato nel 1985 dal ricercatore Robert Ballard con i fondi del governo e della Cia, che lo aveva incaricato di trovare due sottomarini nucleari scomparsi nel bel mezzo della Guerra fredda, l'Uss Scorpion e l'Uss Thresher. Ma questa è un'altra storia. Se solo quel gigante di ghiaccio si fosse staccato un'ora prima, o il gigante d'acciaio si fosse staccato dalla banchina un’ora dopo, se soltanto una virata diversa forse stata ordinata una manciata di manciata si secondo prima, oppure dopo, se una qualsiasi fatalità differente - come l’incidente nel porto con la piccola New York - non avesse portato sulla stessa rotta l'iceberg, che vagabonderà negli oceani fino ai nostri giorni, e il più grande e raffinato bastimento che avesse mai solcato il mare, questa tragedia non si sarebbe mai consumata. Invece la tragica fatalità, lo scherzo del destino, volle portare sul fondo dell’oceano mille e cinquecento anime e una nave che tutti credevano veramente inaffondabile.

·        84 anni dal Disastro dell’Hindenburg.

Disastro dell’Hindenburg, la tragedia del più grande oggetto volante mai costruito. Roberta Caiano su Il Riformista il 4 Maggio 2021. Un dirigibile esploso in fiamme, 35 vittime, numerosi feriti e una tragedia rimasta nella storia. Il disastro di Hindenburg è considerato tra gli incidenti più simbolici in quanto ha portato alla fine dei progetti di dirigibili. A seguito del suo primo volo il 4 marzo del 1936, dopo appena 14 mesi il più grande oggetto volante mai costruito è stato distrutto da un incendio in fase di attracco. Il 6 maggio 1937 al termine della sua traversata dell’Oceano Atlantico mentre cercava di attraccare all’ormeggio della stazione aeronavale di Lakehurst, in New Jersey, l’Hindenburg esplose prendendo fuoco nel giro di mezzo minuto con conseguenze catastrofiche per le 97 persone, tra passeggeri ed equipaggio a bordo. Sebbene 22 membri dell’equipaggio e 13 passeggeri morirono sul colpo, l’enorme palla da fuoco causata dalla deflagrazione fu così violenta che anche i membri dell’equipaggio a terra riportano delle ustioni così gravi su tutto il resto del corpo da non riuscire a sopravvivere. L’impatto mediatico dell’evento fu così grande e tragico da portare una totale sfiducia nelle aeronavi, ricordando così l’Hindenburg come l’ultimo dirigibile. LA STORIA –Hindenburg deve l’origine del suo nome dal presidente della Repubblica di Weimar dal 1925 al 1934 Paul von Hindenburg, e fu realizzato dalla fondazione della Luftschiffbau Zeppelin GmbH, il cui ideatore era il conte Ferdinand von Zeppelin. I suoi, infatti, progetti prendevano in considerazione un sistema di trasporto che prevedesse il superamento dei livelli di autonomia dei primi aeroplani sulle lunghe distanze. Fu così che dai primi anni del Novecento in Germania iniziò a svilupparsi la costruzione dei dirigibili Zeppelin, in onore de suo inventore. Dal 1908, la Luftschiffbau Zeppelin GmbH si occupava di realizzare aeronavi soprattutto a scopo bellico per i bombardamenti durante la Prima Guerra Mondiale, tra cui l’Hindenburg, ma è stato proprio l’incidente in cui quest’ultimo è stato coinvolto ad accelerare la corsa verso la sua chiusura nel 1938 dopo ben 119 dirigibili creati. La struttura degli Zeppelin era pressoché uguale e innovativa, completamente in alluminio. I passeggeri, per motivi aerodinamici, venivano sopitati nella parte interna del dirigibile e la cabina di comando, definita gondola, era collocata all’esterno. Dopo cinque anni di duro lavoro, l’Hindenburg vide la luce nel 1935 e un anno dopo inaugurò il suo primo volo durato il tempo record di cinque giorni. Pensato per essere riempito con gas più leggeri dell’aria come l’elio, per permettere di alzarsi dal suolo e volare, quest’ultimo venne sostituito dall’idrogeno a seguito dell’embargo militare degli Stati Uniti che impediva di importare in Germania questo gas. In quanto elemento altamente infiammabile, l’utilizzo dell’idrogeno come sostituto destò preoccupazioni e scetticismi. Per questo, non mancarono tutte le misure di sicurezza del caso da parte degli ingeneri per contrastare la sua pericolosità, anche perché il suo uso portava il vantaggio di occupare meno spazio, in quanto dotato di una spinta maggiore, permettendo di far salire a bordo più passeggeri. Nonostante ciò, i primi voli furono condotti perfettamente e la gestione dei viaggi fu assunta dalla Deutsche Zeppelin Reederei GmbH, fondata dal gerarca nazista Hermann Göring nel 1935 allo scopo di permettere al regime di ottenere il controllo diretto delle attività legate ai trasporti con dirigibili. Infatti, le prime mete furono tedesche, soltanto dopo qualche mesi cominciarono le destinazioni transoceaniche come Stati Uniti e il Sudamerica contando in tutto 17 viaggi. Considerato il grande lavoro che la costruzione degli zeppelin richiedeva, il costo del volo era molto caro e per questo veniva spesso usato da personaggi illustri e ricchi che potevano permettere il lusso di acquistare il biglietto. IL DISASTRO – La base di partenza dei dirigibili era Francoforte, e lo fu anche nella giornata del 3 maggio 1937, quando l’Hindenburg partì e dopo tre giorni cambiò le sorti dei dirigibili dopo trent’anni. Il volo in realtà durò più di 48 ore a causa di un ritardo provocato da una tempesta nel New Jersey e quando ottenne l’autorizzazione per l’atterraggio, in pochi istanti la coda dello zeppelin andò a fuoco provocando un’esplosione fortissima. Le vittime, tuttavia, non erano solo da contare nelle persone a bordo dell’aeronave ma anche a chi in quel momento si trovava a terra e non riuscì a scansare la coda dell’Hindenburg. La perdita umana riportata fu solo una, ma le ustioni riportate dagli operatori feriti furono numerose e gravi. Com’è di consueto pensare in eventi così tragici, furono molte le illazioni sulle case dell’incidente. Solitamente, i viaggi finora fatti dai dirigibili, avevano tutti registrato un elevato record di sicurezza. Per questo, attorno al disastro dell’Hindenburg furono avanzate diverse teorie: la scintilla statica, un fulmine, un guasto al motore e il sabotaggio.  Quest’ultima ipotesi in particolare fu sostenuta dal presidente dell’azienda Zeppelin, Hugo Eckner, in quanto questi dirigibili erano considerati un simbolo della potenza nazista. In seguito, però, appoggiò una delle cause più sostenute, ovvero quella della scintilla statica. Secondo questa teoria, mentre il dirigibile viaggiava, passava attraverso un’elevata carica elettrica e umidità, scaturito da un accumulo di elettricità appunto statica tale da accendere l’idrogeno sulla parte esterna del dirigibile. Infatti, gli stessi ingegneri studiarono il caso e trassero come una delle papabili conclusioni che la copertura di tessuto infiammabile costituita da ossido di ferro, acetato butirrato di cellulosa e alluminio avesse preso fuoco a causa della statica atmosferica. L’ipotesi che vedeva anche il fulmine come probabile causa fu instillata soltanto in seguito, quando il ritardo dell’arrivo del dirigibile fu effettivamente collegato alle scarse condizioni metereologiche adatte per permettere di attraccare. Per ultima, dopo quasi 70 anni dall’accaduto, anche sulla base delle testimonianze dei passeggeri sopravvissuti prese piede l’idea di un guasto al motore. In ogni caso, dopo appena tre anni dalla tragedia le aviorimesse zeppelin furono abbattute decretando la fine dei dirigibili. Roberta Caiano

·        21 anni dalla fine del Concorde.

Le fiamme poi lo schianto: il pezzo di metallo buttò a terra il Concorde. Davide Bartoccini il 16 Maggio 2021 su Il Giornale. Nel luglio del 2000 un velivolo Concorde della Air France cadde avvolto nelle fiamme su un albergo nei pressi di Parigi. Morirono 113 persone per colpa di una sottile striscia di metallo smarrita sulla pista. Sarà l'inizio della fine per i voli di linea supersonici. Francia, aeroporto Parigi-Charles de Gaulle, 25 luglio del 2000. Un velivolo di linea supersonico Concorde, operato dalla compagnia di bandiera Air France, volo 4590, attende il suo slot di partenza sulla pista "26 destra". Mancano approssimativamente venti minuti alle 17 (ora locale) quando i controllori di volo concedono l'autorizzazione al decollo. Dalla cabina di pilotaggio che domina il muso puntuto e orientabile, il copilota conferma. Quando il comandante si rivolge all'equipaggio per domandare se tutto è pronto per il decollo: "Est-ce que tout le monde est prêt?", domanda in francese - riceve l'assenso del primo ufficiale e dell'ingegnere di volo. Afferra la manetta e procede al raggiungimento della spinta "V1". I motori sono tutti verdi, la spinta c'è. Una voce non identificata sprona il comandante a prendere il cielo. Lo chiama per nome, dice: "Vai Christian!". Potrebbe trattarsi di Jean Marcot, il primo ufficiale, o dell'ingegnere di volo Gilles Jardinaud. Il comandante è Christian Marty, veterano della compagnia Air France per cui vola dal 1969: lo stesso anno in cui quel velivolo futuristico, nato dalla collaborazione anglofrancese di British Aerospace e Aérospatiale, effettua il primo test in aria. Ma facciamo un passo indietro. Il Concorde, o più precisamente Aérospatiale - Bac Concorde, era un velivolo da trasporto supersonico sviluppato durante gli anni '60, per consentire alle compagnie di bandiera britannica e francese di portare a termine le principali rotte intercontinentali in tempi record. Questo velivolo, lungo e affusolato, dotato di ali a delta ogivale, muso ad assetto variabile e spinto da quattro motori Olympus 593 sviluppati in collaborazione da Rolls-Royce e Snecma (ispirati a quelli montati sul bombardiere strategico con capacità nucleari Avro Vulcan), misurava 62 metri e venne a lungo osteggiato dagli americani - che per la prima volta nella storia erano rimasti indietro nella tecnologia aeronautica. Il progetto era tanto "scomodo" da dare vita a quello che potremmo chiamare l'affaire Concorde: una curiosa diatriba che negli anni '60-'70 coinvolse la Cia in un'opera di scoraggiamento dei governi di Londra e Parigi che intendevano conseguire a tutti i costi l'avveniristico risultato, che li avrebbe portati per primi a far viaggiare passeggeri civili a due volte la velocità del suono. Secondo gli americani, quel progetto era "troppo pericoloso". Ma l'avvertimento non fermò il piano anglofrancese che invece andò a buon fine - almeno fino al tragico giorno. Quando il comandante Marty dà la massima spinta in cabina, lo attendono poco meno di quattro ore di volo per raggiungere la sua destinazione a velocità Mach 2 (oltre 2.000 chilometri orari). La destinazione è l'aeroporto internazionale Jfk di New York. A bordo del velivolo, che rappresentava il "massimo" dei voli commerciali nelle ultime battute di quell'epoca in cui viaggiare in aereo e attraversare l'oceano era ancora considerato un lusso - tanto più a velocità supersonica - ci sono 100 passeggeri. Praticamente tutti tedeschi, a eccezione di un austriaco, due danesi e un americano. Il Concorde inizia la sua corsa a 300 chilometri all'ora per staccarsi dalla pista, quando incontra sull'asfalto una striscia di metallo, titanio precisamente, lunga 50 centimetri, staccatasi dall'inversore di spinta del motore numero 3 di un Dc-10 della statunitense Continental Airlines, decollato pochi minuti prima sulla stessa pista. Il detrito perfora un ruotino del carrello. I rottami danneggiano il compartimento che alloggia i serbatoi, nella sezione posteriore sinistra, che prendono fuoco dal momento che il bocchettone che fornisce il carburante ai motori - circa 75 litri al secondo - viene danneggiato insieme ad alcuni cavi elettrici che produrranno la scintilla fatale. È passato appena un minuto dall'ok per il decollo, nel momento in cui la torre comunica via radio al velivolo che sta riscontrando una perdita di potenza ai motori 1 e 2, che c'è qualcosa che non va. "Concorde zero ... 4590, avete fiamme (incomprensibile), avete fiamme dietro di voi", gridano dalla torre. A bordo Marty e Marcot percepiscono la perdita di potenza che si concretizza in una perdita dell'assetto, che lì porta verso destra. Solo allora l'ingegnere di volo vede accendersi la spia che segnala un'avaria al motore numero 2. Viene avviata la procedura per la perdita di potenza al decollo, e attivata la procedura antincendio. Il carrello non rientra e non possono conoscere l'entità del danno. La torre comunica nuovamente la presenza di "fiamme" dietro al velivolo che ha riacquista una spinta del 75% dal motore numero 1. Il carrello non vuole saperne di rientrare, e il motore numero 2 viene spento dall'ingegnere di volo, che ritiene di poter isolare così un problema da valutare poi. La strumentazione di bordo riscontra problemi di velocità e altitudine che possono portare allo stallo, e il Ground Proximity Warning System inizia a ripetere con voce registrata e meccanica: "Whoop whoop pull up" - "Whoop whoop pull up". Ci sono dei problemi, e pochi istanti per decidere cosa fare. Oramai è "troppo tardi" per rientrare sulla pista come domanda la torre di controllo, che ha mobilitato la squadra antincendio. "Le Bourget, Le Bourget", dicono a bordo. Vogliono tentare di atterrare all'aeroporto Parigi-Le Bourget. Vogliono tentare ma non riusciranno. La scatola nera ferma qui il suo racconto. Non riporta più parole. Solo un ultimo istante di rumori di fondo, spie d'allarme e sforzo umano a tenere orizzontale il velivolo supersonico senza la spinta dei motori. Il Concorde F-Btsc si schianta contro un piccolo albergo nei pressi di Le Bourget, l'Hotel Hotelissimo, a 9,5 chilometri in linea d'aria dalla pista di decollo a Charles de Gaulle. Perderanno la vita i 100 passeggeri, 9 membri dell'equipaggio, e quattro clienti dell'albergo che viene completamente spazzato via. Altre sei persone, a terra, rimangono ferite. Secondo le indagini ufficiali, condotte dal Bureau d'Enquêtes et d'Analyses pour la sécurité de l'aviation civile (Bea), l'incidente fu provocato dalla succitata striscia metallica in titanio, persa da un Dc-10 decollato dalla stessa pista appena quattro minuti prima. Una seconda analisi, condotta indipendentemente, includerà altri fattori che avrebbero contribuito al verificarsi dell'incidente: il Concorde sarebbe risultato "leggermente sovraccaricato, con una distribuzione non bilanciata del combustibile nei serbatoi". L'incidente catastrofico segnerà l’inizio della fine per i Concorde, considerati al tempo "gli aerei più sicuri del mondo". L'intera flotta di velivoli supersonici verrà tenuta a terra fino al luglio del 2001, quando la British Airways farà riprendere il servizio per interromperlo definitivamente nel 2003. La causa è nei costi eccessivi che i velivoli supersonici avevano sempre dovuto sostenere, mentre le compagnie aeree iniziavano a confrontarsi con il crollo dei passeggeri nel post attentati dell'11 settembre, l'avvento delle compagnie low-cost, e la produzione di vettori con prestazione più sostenibili. L'era del Concorde era davvero finita.

·        75 anni dalla nascita del Bikini.

Il bikini compie 75 anni ed è sempre sulla cresta dell’onda. Un capo intramontabile che non teme la pensione. Un simbolo di liberazione femminile e femminista nato quasi per caso. Con la guerra le stoffe servivano per le uniformi miliari e nel 1943 il governo Usa decise di ridurre del 10% dei materiali usati per confezionare costumi femminili. Da qui l'idea di risparmiare "stoffa" e nello stesso tempo regalare bellezza al mondo. Antonella Amapanesu La Repubblica il 28 aprile 2021. Fra i bikini più gettonati sui social spicca quello super sexy di Gigi Hadid postato nel 2017: 1,4 milioni di like in 24 ore, lievitati dopo una settimana a 4 milioni. E dire che questo capo sta per compiere settantacinque anni il 5 luglio. Dovrebbe essere in pensione da un bel pezzo. Eppure regna ancora sovrano sulle spiagge e sulle barche, nelle piscine del mondo.

·        75 anni dalla nascita della Vespa.

Carlo Nordio per “Il Messaggero” il 21 aprile 2021. Nel momento in cui il Paese, grazie ai vaccini, sembra riaprirsi alla normalità e avviarsi a superare la pandemia, ci piace ricordare l'anniversario di un evento di 75 anni fa che ispirò altrettanto ottimismo: il 23 aprile del 1946 fu infatti brevettata la Vespa, che costituì il primo simbolo della ripresa dalle rovine del dopoguerra, come la 500 lo sarebbe stata, più tardi, del cosiddetto miracolo economico. Sei anni dopo tutto il mondo conobbe e invidiò questo piccolo gioiello meccanico, quando Gregory Peck lo cavalcò per le strade romane, agganciato da una impaurita - e innamorata - Audrey Hepburn. Non fu un successo effimero. La Vespa - sempre diversa ma sempre uguale, come la vita - continuò e continua ad esser prodotta e amata. L'ultimo modello, quello elettrico, è già sul mercato.

LA STORIA Le sue origini risalgono a un'idea di Corradino D'Ascanio, ingegnere aeronautico della Piaggio, che peraltro aveva una buona esperienza soltanto nella costruzione di aerei. Fu questa fabbrica a produrre l'unico bombardiere strategico da noi impiegato durante la seconda guerra mondiale, il P108. Era un bel quadrimotore, quasi all'altezza degli Halifax e Lancaster inglesi, e dei B17 e Liberator americani. Durante il collaudo di un prototipo perse la vita Bruno Mussolini, figlio del duce, che lo pilotava. Gli esemplari furono pochi, per carenza di materie prime, ma la nostra consueta fantasia sopperiva alle deficienze di un'industria paralizzata e obsoleta.

L'OLIO DELLA CATENA Fu proprio questa versatilità inventiva a ispirare a D'Ascanio, nel momento della riconversione produttiva postbellica, il progetto di una due ruote a costo contenuto diversa da tutte le altre. Pare che l'ingegnere detestasse due cose delle motociclette: doverci salire scavalcandole, come faticosamente si fa con la sella, e imbrattarsi i pantaloni con l'olio della catena di trasmissione. Così immaginò una scocca portante, priva di tunnel centrale, un telaio che coprisse il motore e il cambio collocato sul manubrio: con l'aiuto del disegnatore Mario D'Este creò quel modello che facilitava la guida, la rendeva possibile anche alle signorine in gonna, ed evitava ai maschietti il ridicolo risvolto sopra i calzini corti e il polpaccio nerboruto. La semplicità della soluzione fu inversamente proporzionale a quella della formula del brevetto, che suona come Motocicletta a complesso razionale di organi ed elementi con telaio combinato con parafanghi e cofano ricoprenti tutta la parte meccanica. Munito di questo viatico di tortuoso burocratese il mezzo entrò in commercio. Mancava il nome, che pare derivi da un'esclamazione di Enrico Piaggio che, osservando il prodotto dall'alto, lo paragonò alla silhouette del ronzante imenottero. Mai battuta fu più indovinata. Oggi la Vespa - nome e veicolo - è conosciuta in tutto il mondo, ed esposta in mostre e musei. Anche il MoMa di New York ne esibisce un modello. Quanto alla produzione, crebbe in modo quasi esponenziale: duemilacinquecento nell'anno del lancio, quasi undicimila l'anno seguente, ventimila nel 1948 e così via. Ad oggi ne sono stati fabbricati, negli stabilimenti sparsi in decine di Paesi, più o meno venti milioni di esemplari. Lo scooter è stato (ed è) protagonista di migliaia di raduni, di viaggi avventurosi e persino di giri del mondo. È apparso in numerosissimi film, guidato da attori e attrici internazionali. Nessuno ha più emulato l'allegra e sentimentale galoppata per le strade romane della coppia Peck - Hepburn; tuttavia l'immagine della Vespa è stata arricchita dalle caratteristiche delle differenti personalità che l'hanno guidata. Come quella della seducente Angie Dickinson, che colma il vuoto del telaio dell'ing. D'Ascanio con le gambe più belle di Hollywood.

L'UNIVERSALITÀ Da un punto di vista sociale, la Vespa fu una rivoluzione, paragonabile a quella della Volkswagen, la vettura del popolo, che per diffusione e durata può essere paragonata alla sua più economica sorellina italiana. Entrambe consentirono una maggiore libertà di movimento nel lavoro e nel tempo libero alle categorie meno abbienti, soprattutto operaie e impiegatizie, ma nello stesso tempo catturarono l'interesse, e successivamente la passione, dei giovani di tutte le classi sociali. Benché destinata, nelle intenzioni degli ideatori, ai percettori di redditi modesti, la sua eleganza, l'originalità e la praticità le conferirono un connotato universale, e talvolta persino snobistico. Come più tardi sarebbe avvenuto per la 500, la Vespa fu (ed è) usata dall'operaio per arrivare in fabbrica, dallo studente per accedere all'Università e dalla raffinata borghese nello shopping cittadino. Fu insomma uno dei primi tentativi di conciliazione interclassista.

SPIONAGGIO INDUSTRIALE Qualche mugugno arrivò, come al solito, dal Partito Comunista. Da un lato, la motorizzazione di una larghissima fascia di lavoratori smentiva quel progressivo impoverimento del proletariato che, secondo l'apocalittica marxista avrebbe condotto alla rivoluzione, e dall'altro dimostrava che, nei Paesi capitalisti, la classe operaia viveva meglio dei compagni protetti dalla cortina di ferro. Dopo la morte di Stalin, e con l'avvio del disgelo, Kruscev cercò di raggiungere e di superare l'Occidente nell'economia e nella tecnologia. Ci riuscì, provvisoriamente, nell'industria aerospaziale, ma per il resto si limitò a rubare progetti e produrre imitazioni. Così, nel settembre del 56, la stampa di regime pubblicò la trionfale notizia che una fabbrica a Kirov aveva lanciato lo scooter leggero Vjatka 150: una scandalosa copia del nostro gioiellino, frutto probabilmente dello spionaggio industriale, quello stesso che anni dopo avrebbe portato alla costruzione del Concordsky, brutta copia del Concorde, che però non ebbe seguito.

L'ANEDDOTO Al contrario, l'imitazione sovietica della Vespa fu un successo, tanto che qualche inguaribile apologeta insinuò che fosse meglio dell'originale, e che fosse disponibile a bassissimo prezzo per un larghissimo consumo. La smentita più beffarda arrivò dai Samizdat, la stampa clandestina del dissenso russo, che fece circolare una storiella che val la pena di raccontare. Un fedele militante scrive alla Pravda: Cari compagni, mi si dice che sulla Piazza Rossa ogni settimana regalano una Vjatka 150 agli operai più benemeriti. Mi rallegro e mi propongo. E il direttore risponde: Caro compagno, la notizia è sostanzialmente esatta, con alcune precisazioni marginali: non si tratta solo della Piazza Rossa, ma di tutto il Paese, e la frequenza non è settimanale, ma giornaliera; inoltre non si tratta di Vjatka, ma di biciclette; infine non è che le regalino, le rubano.

Vespa, i 75 anni della ragazza degli italiani. Simone Savoia il 23 Aprile 2021 su Il Giornale. Il presidente dei vespisti: "L'Italia s'è Vespa!". 23 aprile 1946, 75 anni fa. L’Italia è ancora ferita dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale. Non è più una Monarchia nella pienezza dei suoi poteri perché il 5 giugno 1944 Re Vittorio Emanuele III ha nominato il figlio Umberto II luogotenente generale del Regno. Non è ancora una Repubblica perché diventerà tale solo dopo il referendum del 2 giugno 1946. Solo da pochi mesi l’amministrazione dello Stato era rientrata in mani italiane, perché solo il 31 dicembre 1945 gli Alleati anglo-americani avrebbero ceduto i poteri esercitati in questo senso dal settembre 1943. Un Paese distrutto dai bombardamenti, povero, affamato, con pochi collegamenti ferroviari e stradali. Ma un’Italia vitale, geniale, laboriosa, piena d’idee e vogliosa di ripartire. Quel 23 aprile 1946 la Piaggio & C. di Enrico Piaggio da Pontedera deposita a Firenze il brevetto di un nuovo motociclo, la Vespa 98, numero riferito ai centimetri cubici. Il primo esemplare lo aveva visto lo stesso Piaggio. A mostrarglielo era stato il cervello tecnico dell’azienda: Corradino D’Ascanio. Ingegnere, aveva progettato il primo prototipo di elicottero moderno e si era formato in parte negli Stati Uniti. Odiava le motociclette, non gli piacevano nemmeno come oggetto ingegneristico. Fu proprio questa ripulsa che gli fece ideare un motociclo anzitutto comodo. Seduti come a casa, con il serbatoio per il carburante spostato sul retro, senza costringere il guidatore a tenerlo fra le gambe. Quando Enrico Piaggio lo vide esclamò “Sembra una vespa!”. Nasceva così uno dei miti dello stile italiano nel mondo. Da allora è stata un’esplosione fino a quasi 19 milioni di esemplari prodotti sino a oggi (di diversi modelli naturalmente). Lo scooter volante entrò trionfale nell’immaginario degli italiani soprattutto dopo che la Vespa diventò nel 1953 protagonista del film “Vacanze romane” con Audrey Hepburn e Gregory Peck: una vera diva di Hollywood. “Peccato solo che le restrizioni causate dal coronavirus non ci consentano di festeggiare il compleanno della nostra amata come avremmo voluto” dice Roberto Leardi, presidente dei Vespa Club d’Italia. Una rete italiana di 70mila appassionati distribuiti in 583 club disseminati lungo la Penisola. Quante Vespa possiede, Leardi? “Circa una ventina, ma ci sono collezionisti che mi superano e di parecchio. Attualmente ho la Vespa 300, Euro 3. Ma ho un 150-GS degli anni Sessanta, 4 marce e 100 chilometri orari. E sono particolarmente affezionato a una PX del 1977, prodotta in 3 milioni di esemplari”. Da dove nasce quest’amore per la Vespa? “Le rispondo con la prima pubblicità dell’amata, quella del 1946. C’è una donna in tailleur che guida la Vespa con una mano mentre saluta con l’altra mano. In quell’immagine ci sono molte chiavi di lettura del successo della Vespa. La facilità di guida col cambio direttamente sul manubrio, la comodità di non essere costretti a cavalcare il serbatoio, la possibilità di guidare per una donna vestita elegantemente, non da Amazzone, un motociclo pensato per un pubblico vasto e non solo per piloti esperti. Eravamo nel 1946, direi davvero in anticipo sui tempi!”. Il vespista da cosa si riconosce? “Intanto dalla carenatura! Ce l’ha solo la Vespa! E poi la Vespa consente un modo di viaggiare semplice, immediato, a contatto con i luoghi che attraversa. Pensi che nel 1953 nacque il primo Vespa Club d’Europa, diventato EuroVespa nel 1955. Negli anni i vespisti di tutto il Vecchio Continente si sarebbero ritrovati nei raduni salutandosi e stringendo amicizie, magari anche senza capirsi come lingua. La Vespa ha unito l’Europa prima della politica”. Ha fatto molti viaggi in Vespa? “Assolutamente sì. Ricordo, tra l’altro Salonicco, Lisbona, Belgio, Londra, Belfast. La mia fedele PX non mi ha mai tradito”. La Vespa è stata ed è uno dei miti dello stile italiano nel mondo. Viene citata in molte canzoni, da Vasco Rossi a Cesare Cremonini (“Vespa 50 Special” del 1999 è diventato un inno vespista). Compare in numerosi film, oltre “Vacanze romane”, “La dolce vita” di Federico Fellini (1960), “American Graffiti” (1973) di George Lucas, “Caro diario” di Nanni Moretti (quest’ultimo del 1993 un vero inno al vespista). Lo scrittore cremasco Giorgio Bettinelli (1955-2008) in Vespa ci ha girato il mondo, arrivando ad esempio in Terra del Fuoco dall’Alaska o da Roma a Saigon, nel Vietnam: i suoi diari di viaggio costituiscono un magnifico ritratto del vespismo come filosofia di vita. E poi le campagne pubblicitarie della Vespa hanno segnato un’epoca. Da quella del 1946 sull’emancipazione femminile (per la prima volta in Italia le donne esercitavano il diritto di voto) citata da Leardi, al motto dell’industrializzazione e dei consumi di massa “Vespizzatevi!” fino alla contestazione sessantottina con la mela, frutto del peccato e della Vespa, per arrivare al boom dello stile italiano nel mondo durante gli anni Ottanta con il mare, la giungla e gli spazi aperti naturali. Ma quale biglietto di auguri per questo intramontabile mito italiano? Non può che scriverlo il presidente dei vespisti italiani Leardi: “Queste due ruote, quella scocca inconfondibile, quel senso di libertà ci accompagneranno per molti anni ancora. E sarà sempre una nostra bandiera: l’Italia s’è Vespa, del resto!”. Buon compleanno, ragazza di 75 anni. Lanciata a tutta velocità verso la pietra miliare del secolo di vita.

Vespa, i 75 anni di un mito che ha conquistato il mondo. Giuseppe Calabrese su La Repubblica il 23 aprile 2021. 19 milioni di esemplari prodotti e la commercializzazione in 83 paesi: per festeggiare è stata realizzata una limited edition. Un’icona, un brand che è diventato un cult. Un mito su due ruote. La Vespa festeggia 75 anni e lo fa raggiungendo un grande traguardo: 19 milioni di esemplari prodotti in tutto il mondo, di cui quasi due milioni negli ultimi dieci anni. Un boom che non ha eguali e che, dalla primavera del 1946, ha segnato la vita di tantissimi ragazzi, entrando nella cultura del nostro paese. La Vespa che celebra i 19 milioni è una GTS 300, ma la special edition comprende anche – limitatamente al 2021 - una Vespa Primavera (nelle cilindrate 50, 125 e 150) e, oltre alla 300, anche una GTS 125. La scocca di Vespa 75th è giallo metallizzato, mentre sulle fiancate e sul parafango anteriore compare il numero 75 in una tonalità più accentuata. Vespa festeggia 75 anni e raggiunge lo straordinario traguardo dei 19 milioni di esemplari prodotti a partire dalla primavera del 1946. La Vespa che celebra i 19 milioni è una GTS 300 nella serie speciale 75th ed è stata assemblata nello stabilimento di Pontedera, dove Vespa è prodotta ininterrottamente dal 1946. 19 milioni di Vespa sono altrettante storie di ragazze e ragazzi che, in tutto il mondo, hanno conquistato la libertà in sella alla due ruote più amata. Vespa ne ha accompagnato le vite, incarnato i sentimenti e il desiderio di libertà. La Vespa è oggi uno di quei rari prodotti che fanno stabilmente parte del paesaggio della nostra vita quotidiana. Questo momento straordinario arriva mentre Vespa vive uno dei momenti più luminosi della sua storia, commercializzata in 83 paesi in tutti i continenti è oggi il veicolo a due ruote più famoso e amato al mondo. Da tempo Vespa ha largamente superato la sua funzione di mezzo per il commuting facile ed elegante per diventare un brand globale, un simbolo della tecnologia e dello stile italiani, capace di accomunare nel suo nome, milioni di appassionati. Una gamma in continua evoluzione e tecnologicamente sempre di avanguardia, uno stile unico, al di sopra di mode e tendenze che ha saputo rinnovarsi sempre rimanendo fedele ai suoi valori originali, sono tra i motivi di un successo che si misura in oltre un milione e 800mila veicoli prodotti negli ultimi dieci anni  Allo scoccare dei suoi 75 anni Vespa è più che mai un marchio globale, tra i più noti del made in Italy, una vera cittadina del mondo che è prodotta in tre siti produttivi: Pontedera, la cui produzione è destinata all’Europa, all’America e a tutti i mercati occidentali; Vinh Phuc, in Vietnam, che serve il mercato locale e i paesi del Far East e in India, nel modernissimo impianto di Baramati, aperto nel 2012, dal quale escono le Vespa per il mercato indiano e del Nepal. Per il suo 75° compleanno Vespa si presenta in una serie speciale Vespa 75th, disponibile per Vespa Primavera (nelle cilindrate 50, 125 e 150 cc) e per Vespa GTS (nelle cilindrate 125 e 300 cc), limitatamente al 2021.La scocca di Vespa 75th si colora dell’inedito metallizzato Giallo 75th che, studiato espressamente per questa serie, reinterpreta in chiave contemporanea cromie in auge negli anni Quaranta. Sulle fiancate e sul parafango anteriore compare il numero 75 in una tonalità più accentuata, a creare un elegante tono su tono, come anche nella vista frontale dove la tradizionale “cravatta” è rifinita in tinta opaca giallo pirite. Non più solo un mezzo di trasporto, dunque, ma un brand globale presente in 83 paesi del mondo e in tutti i continenti, la Vespa è stata capace di innovarsi e adattarsi ai tempi e alle diverse esigenze, senza mai snaturare i propri valori e la sua immagine giovane e contemporanea. Fin dal 23 aprile di quel lontano 1946, quando la Piaggio deposita il brevetto per “motocicletta a complesso razionale di organi ed elementi con telaio combinato con parafanghi e cofano ricoprenti tutta la parte meccanica. Lì nacque la Vespa, scooter motorizzato con un monocilindro due tempi da 98 cc, costruito nello stabilimento di Pontedera. Lì è nato un mito destinato a diventare simbolo del made in Italy e a conquistare intere generazioni. E che negli anni ha saputo coniugare praticità e tecnologia, design ed eleganza. Oggi la Vespa ha una carrozzeria portante interamente costruita in acciaio, è dotata di motorizzazioni ecologiche e soluzioni tecniche di supporto alla guida all’avanguardia. E la sua storia è fissata nelle date che hanno accompagnato la sua crescita. Nel 1948 viene introdotta la Vespa 125, due anni dopo inizia a produrre anche in Germania e poi anche in Inghilterra (1951). Nel 1953 viene immortalata nel film "Vacanze romane" con Gregory Peck e Audrey Hepburn. Nel 1964 nasce il Vespino, ossia la cilindrata 50 e nel 1968 la campagna "Chi Vespa mangia le mele" rivoluziona il mondo della pubblicità. Ricerca e avanguardia, la Vespa ET3 è il primo scooter ad accensione elettronica (1976), mentre nel 1984 la PK 125 è la prima con cambio automatico. La motorizzazione 4 tempi arriva nel 1996 con la ET4, nel 2000 si riapre il mercato Usa. Anche i 60 anni (2006) furono festeggiati con un'edizione speciale, mentre nel 2018 è nata la Vespa elettrica. Per finire con il 2021 e i 19 milioni di esemplari prodotti.

·        70 anni dalla nascita del Totocalcio.

Totocalcio, 70 anni fa nasceva il 13 alla schedina: la storia dietro al numero che ha fatto sognare gli italiani. Settant’anni fa nasceva il 13 al Totocalcio: la vera storia di un numero che ha fatto sognare. Fiorenzo Radogna su Il Corriere della Sera il 21/1/2021. Quando lo sport e i suoi derivati segnano la nostra cultura nazionalpopolare. Ne fissano (piccoli) punti di riferimento. Magari a partire dai modi dire; da un'espressione gergale. Per un cinquantennio e oltre, «fare 13 al Totocalcio» è stata molto più che una frase a indicare una vincita (più o meno cospicua): è diventata una metafora. Legata al nostro modo di esprimerci di italiani sempre in cerca di una scorciatoia, di un sogno. Per farci più ricchi, vincenti, protagonisti. E poco importa se, dopo settant'anni esatti, questa stessa frase diventa veramente comprensibile solo per ultracinquantenni a corto di «upgrade gergale». Il 21 gennaio 1951, una piccola modifica al concorso di pronostici calcistici non cambia solo il «gioco» — nato come «Sisal» nel 1946; ideato da Massimo Della Pergola, Fabio Jegher e Geo Molo; diventato «Totocalcio» solo nel 1948 col passaggio ai Monopoli di Stato — ma anche il nostro modo di parlare. Fino a quel giorno infatti erano dodici i risultati delle partite da indovinare sulla schedina. Ma da quella domenica calcistica il Totocalcio ne avrebbe aggiunta una in più: la tredicesima. Facendo del «13» il numero fortunato (solo nel calcio). La svolta nel concorso del Totocalcio numero 20 della stagione calcistica 1950-51. Fino alla giornata precedente per portarsi a casa il bottino intero sarebbe bastato un semplice «12», «en plein» di tutte le gare elencate su quel piccolo pezzo di carta (con matrice): una possibilità su 531.441. Poche? Non abbastanza, se è vero che quasi ogni domenica sera erano in tanti – questa volta decisamente troppi — a tenere in mano il mitico foglietto con tutti i risultati giusti.

Notte insonni (quasi) per nulla. Visto che per tanti vincitori, c'era una quota popolare da doversi calcolare e spartire. Così, a cinque anni dal varo della schedina, ecco che i funzionari dei Monopoli di Stato optarono per il colpo gobbo: si continuarono a pagare i «12», ma il bottino pieno si sarebbe ottenuto solo indovinando il 13esimo pronostico. Prima giornata di ritorno della serie A 50-51 – in classifica comanda l'Inter campione d'inverno con 32 punti, davanti al Milan 31, alla Juve 30; quarto il sorprendente Como a 24 — ed ecco la griglia dei tredici pronostici da imbroccare (con altre regole immutate): Roma-Bologna, Triestina-Como, Lucchese-Genoa, Inter-Lazio, Udinese-Milan, Fiorentina-Napoli, Samp-Novara... e via via tutte le altre. Le probabilità di ottenere la vincita massima «degradano» a 1 su 1.594.323, ma le quote destinate ai vincitori lievitano. Di più: s'impennano al punto che rischiano (e spesso ci riescono) a cambiare la vita dei fortunati (bravi, meno bravi e sistemisti vari). Un cambiamento che alla gente piace e che sarà seguito, a distanza di un anno, da un' altra importante novità sulla schedina: sarà introdotta la seconda colonna. Quella che darà al foglietto con matrice il suo aspetto storico. Costo minimo: 100 lire a colonna. Il numero dei giocatori crescerà vertiginosamente, sull'onda delle prime (celebratissime) vincite multimilionarie.

I primi a superare i 100 milioni di lire? Tali Renzo Rinferi di Prato e Luigi Piacenza di Savona: per ognuno, un «13» da 104 milioni. Il montepremi più alto registrato sarà di quasi 34 miliardi e mezzo di lire (34.470.967.370 lire) in occasione del concorso n. 17 del 5 dicembre 1993. Con modeste vincite distribuite ai 1.472 «tredici»: poco meno di 12 milioni di lire (circa 10mila euro di oggi). Un mese prima però sarebbe stata registrata la vincita più alta in assoluto della storia del Totocalcio: il 7 novembre di quell'anno, infatti, ai soli tre «13» sarebbero stati pagati circa cinque miliardi di lire ciascuno. In particolare: in una ricevitoria di Crema – la tabaccheria Bonelli - fu giocato un sistema che pagò 5.549.756.245 lire (circa 4milioni 600mila euro attuali). Sconosciuto il vincitore. Poi intorno alla fine degli anni 90, il declino. Inevitabile per le mode, i costumi e le esigenze di un mondo che si evolveva (o involveva?). Le leadership del Totocalcio cominciò a vacillare inizialmente per la comparsa di altri concorsi calcistici (Totogol, Totosei e Totobingol); poi per il colpo definitivo: la legalizzazione (dal 1998) delle scommesse sportive. E il mito del 13? Proverà a resistere, ogni giorno sempre più periferico nel convulso panorama delle puntate sportive, fino all'agosto del 2003 quando, su quella schedina che per decenni aveva titillato le nostre ambizioni di potenziali ricconi, comparve il «Tredicissimo» (il 14esimo risultato da indovinare). Una sorta di titolo di coda per un teatro dei sogni sul quale calava il sipario, lasciando in eredità solo un modo di dire: «Fare 13 al Totocalcio». Forse mai una stessa speranza, è stata così tanto condivisa dall'italiano-medio.

·        60 anni dalla nascita di Diabolik.

Diabolik compie 60 anni: storia della Jaguar che fa sognare da generazioni. Giacomo Casadio su Il Corriere della Sera il 10 novembre 2021. L’antieroe creato da Angela e Luciana Giussani, re del terrore e genio della meccanica, era capace di installare ogni sorta di marchingegno sulla sua auto. Eppure, all’inizio, la casa britannica non concesse l’uso del logo del giaguaro negli albi a fumetti

Diabolik compie 60 anni: storia della Jaguar che fa sognare da generazioni

Enzo Ferrari la definì «l’auto più bella mai realizzata». Non si riferiva a una Ferrari, ma a una Jaguar. E non a una Jaguar qualsiasi, ma alla E-Type, la Jaguar di Diabolik. Probabilmente il Drake esagerava. Era nel suo stile, specie se si trattava di vetture della concorrenza. Ma è altrettanto probabile che ne fosse davvero entusiasta: vuoi per l’eleganza, vuoi per il colore «nero come la notte», vuoi per la linea affusolata, ma decisamente sportiva. La Jaguar E-Type, del resto, ha stregato decine di migliaia di appassionati in tutto il mondo. 

Anti-eroe

Geniale, perfezionista, quasi epico e, al tempo stesso, spietato e crudele, per certi versi sadico, Diabolik è un antieroe - oggi lo chiameremmo villain - elevato al rango di eroe. Un personaggio, quello creato da Angela e Luciana Giussani nel 1962, decisamente fuori dagli schemi. Ladro di professione, Diabolik non esita a uccidere chi intralcia i suoi piani. Eppure è dotato di radicati principi etici, come l’onore, la tutela dei più deboli, il senso dell’amicizia e della riconoscenza. L’incontro fatale con Eva Kant, raccontato nel terzo numero della serie (L’arresto di Diabolik, uscito nel marzo del 1963), lo cambierà (cambierà entrambi) per sempre.

Anche Eva Kant ha una E-Type

Come Diabolik, anche Eva Kant ha una sua personale E-Type (ovviamente bianca). Ma le Jaguar nere del re del terrore non hanno eguali.Diabolik le elabora personalmente dotandole dei trucchi più ingegnosi, indispensabili nelle fughe spesso rocambolesche. Tutte (o quasi) le auto sono blindate e gli pneumatici sono di gomma piena. I proiettili sparati dalla polizia e dagli investigatori rimbalzano sulla carrozzeria. Ginko - il detective la cui missione di vita è arrestare Diabolik (un po’ come l’ispettore Zenigata con Lupin III) - l’ha imparato a proprie spese, il vecchio sistema dei chiodi sulla strada non ha alcun effetto.

Jaguar non voleva

Come può un’auto vecchia, datata 1961, competere e vincere (sempre) contro modelli più nuovi, veloci e recenti? Risposta scontata: Diabolik è un genio, capace di installare ogni sorta di marchingegno sulla sua Jaguar, modificandone il motore e le sospensioni così da avere sempre la meglio sulle vetture più moderne. E pensare che, negli anni ’60, vista la natura criminale del personaggio e temendo una pubblicità negativa, Jaguar aveva diffidato Astorina dall’utilizzo del logo del giaguaro nei fumetti. Salvo poi chiedere alla stessa casa editrice milanese di inserire alcune immagini tratte dal fumetto nel libro celebrativo dei 50 anni del modello.

Una vettura all’avanguardia

La Jaguar E-Type è entrata talmente nell’immaginario collettivo che, negli anni, molte aziende hanno cercato di costruire repliche (più o meno fedeli) dell’esemplare disegnato da Malcom Sayer nel 1961 e presentato al Salone di Ginevra. Quella inglese, prodotta in 72mila esemplari fino al 1975, è stata la prima vettura stradale sportiva a impiegare freni a disco su tutte le ruote e sospensioni posteriori indipendenti.Già all’epoca, la E-Type era un’auto all’avanguardia, bellissima e aerodinamica, capace di raggiungere i 240 kmh. Il motore, un 6 cilindri con cilindrata da 3.800 cc, era in grado di sprigionare 265 cv. Per celebrarla degnamente, nel marzo scorso - in occasione del 60esimo anniversario - Jaguar ha lanciato le E-type 60 Collection. I 12 modelli realizzati, venduti rigorosamente in coppia (una E-type 60 Edition coupé e una E-type 60 Edition roadster), sono rifiniti con le esclusive colorazioni Flat Out Grey e Drop Everything Green, ispirate ai colori originali del 1961. 

La mostra

Diabolik, invece, spegnerà 60 candeline nel 2022, ma i festeggiamenti sono già iniziati. Fino al 14 novembre, alla Cartoomics-Milan Games Week, resterà allestita la mostra Diabolik - 900 albi 1962-2022, in cui, oltre a tutti gli albi usciti dal 1962 a oggi, sarà esposta l’anteprima della copertina del numero 900, in edicola a febbraio. Una graphic novel a colori e una novelization (entrambe edite da Mondadori) affiancheranno l’uscita nelle sale, il 16 dicembre, del film dei Manetti Bros, con Luca Marinelli nella parte di Diabolik e Miriam Leone in quella di Eva Kant. Contemporaneamente, a Torino, si alzerà il sipario su due mostre (al Museo del cinema e al Mauto) imperniate sul rapporto tra il re del terrore, il cinema e la sua auto.

I 60 anni di Diabolik tra mostre, film e fumetti. La Repubblica l'11 novembre 2021. Sono sessant'anni che Diabolik fa la storia del fumetto seriale, accompagnando con le sue avventure generazioni di italiani (e non solo). Per festeggiare questo compleanno del Re del Terrore creato dalle sorelle Giussani, che arriverà nel 2022 e perciò tra pochi mesi, la casa editrice Astorina ha pensato a un lungo programma di uscite ed eventi, anche in contemporanea con l'arrivo del film dei Manetti bros.

Le mostre

Si parte subito da domani 12 novembre con una mostra a Cartoomics/Milan Games Week (fino al 14 alla Fiera Milano Rho). Sono stati radunati per l'occasione tutti gli albi usciti dal 1962 a oggi e verrà mostrata in anteprima la copertina del numero 900, che uscirà in edicola solo da febbraio 2022.

L'albo d'esordio, uscito il primo novembre del 1962, scritto dalle sorelle Angela e Luciana Giussani. La prima edizione fu disegnata dal misterioso Zarcone  

Sono poi previste altre due monografiche a Torino, al Museo dell’Automobile, dove sarà protagonista l'iconica Jaguar E-Type con un modello esposto dal vivo e numerose gigantografie che la vedono nella storia del fumetto. E al Museo del Cinema, dove tutto verterà sul rapporto tra Diabolik e il grande schermo, a partire dal film di Mario Bava del '68. Entrambe verranno inaugurate il 16 dicembre, in occasione dell'uscita dell'adattamento cinematografico dei Manetti bros, ma saranno visitabili dal giorno seguente.

I numeri speciali e le raccolte

Ginko e Diabolik tornano in edicola a dicembre nel sesto volume Magnum dedicato alla loro eterna lotta: si intitola Nemici, sempre. Il settimo Magnum sarà invece rivolto ai primi cento albi della saga e sarà pronto per giugno del prossimo anno, in tempo per il centenario della nascita di angela Giussani.

A gennaio 2022, invece, per la serie regolare, Il marchio dell'assassino vedrà l'ultimo lavoro del maestro Enzo Facciolo, colonna della serie dal '63 e scomparso lo scorso agosto. A febbraio, ormai in pieno anno del sessantenario, sarà la volta del numero 900: Novecento minuti di furore (con testi di Mario Gomboli, Andrea Pasini e Rosalia Finocchiaro, disegni di Sandro Giordano, Jacopo Brandi e Giuseppe Palumbo). Da ricordare, poi, l'appena uscito Diabolik sottosopra, la reinterpretazione in chiave comica di Silvia Ziche, con Tito Faraci e Mario Gomboli, per Feltrinelli Comics.

Le uscite in occasione del film

Il 16 dicembre arriva nelle sale l'adattamento dei Manetti bros, accolto bene alla Festa del cinema di Roma, con la commozione in primis dei due fratelli. Il film è liberamente tratto dall'incontro tra Eva e Diabolik raccontato nel terzo episodio della saga uscito nel '63. Proprio perché in effetti quella che andrà sul grande schermo è una storia tutta nuova, avrà il suo graphic novel, Diabolik il Film, dal 7 dicembre per Astroina/Mondadori (testi Michelangelo La Neve, Mario Gomboli e Rosalia Finocchiaro, disegni di  Salvatore Cuffari e Giulio Giordano, colori di Bianca Burzotta e copertina del maestro Claudio Villa). Sempre nella collana Oscar ci sarà anche la versione libro, curata dal giallista Andrea Carlo Cappi, con copertina e illustrazioni d'autore. Questo in libreria, mentre in edicola con l'albo Come per magia i lettori troveranno in omaggio un fascicolo sul film.

Sempre dal 7 dicembre Mondadori ha in serbo altri due romanzi, ripresi però dai fumetti regolari: Ciak si ruba e Scacco a Diabolik. Ciascuno raccoglie tre storie e qualche sorpresa.

Diabolik in altre salse

Nella varia, la casa editrice ha previsto il lancio di un gioco da tavolo con Pendragon, Diabolik Storie - La Lama della Vendetta, in cui bisognerà portare a termine un colpo. Ma Astorina ha anche in serbo una collaborazione con alcuni marchi di vestiti - Liu Jo, Intimissimi, Piazza Italia, Alcott, Zuiki - per realizzare a tema Re del Terrore o Eva. E infine c'è il Kalendario: quello 2022 avrà tredici illustrazioni inedite e una versione variant. Verrà distribuito con il numero di Diabolik questo mese in edicola. Sarà presentato proprio a Cartoomics in edizione limitata. Dulcis in fundo, nel 2023 il Kalendario sarà invece dedicato a Eva Kant (pure lei va verso i sessanta).

·        200 anni dalla morte di Napoleone Bonaparte.

L'anniversario. Napoleone Bonaparte, il grande condottiero e statista francese moriva 200 anni fa. Alessandra Necci su Il Riformista il 5 Maggio 2021. …. La procellosa e trepida/ Gioia d’un gran disegno, / L’ansia d’un cor che indocile/ Serve pensando al regno;/ E il giunge, e tiene un premio/ Ch’era follia sperar;/ Tutto ei provò: la gloria/ Maggior dopo il periglio, La fuga e la vittoria, / La reggia e il tristo esiglio;/ Due volte nella polvere/ Due volte sull’altar…Quando si parla di Napoleone e del 5 maggio 1821, giorno della sua morte a Sant’Elena, esattamente 200 anni fa, a molti vengono in mente le parole della poesia di Alessandro Manzoni. E non solo quel lapidario “Ei fu”, bensì i versi successivi, capaci di tratteggiare mirabilmente “il gran disegno”, l’ascesa folgorante, la caduta, il colpo d’ala e il crollo definitivo. Nonché l’annuncio della morte, che lascia la terra “attonita”. La sua avventura umana, militare, politica non conosce eguali. Si possono fare, certo, i nomi di grandi condottieri come Annibale e Cesare (prediletti dal Corso); di un conquistatore come Alessandro Magno, ma nessuno è riuscito a esprimere i propri talenti in così tanti campi. Ancora oggi, rileggendo le tappe della sua vicenda, si prova un senso di incredulità. Luis Borges ha commentato: «Il destino degli eroi di Victor Hugo abusa dell’inverosimile, ma il destino del luogotenente d’artiglieria Bonaparte è altrettanto inverosimile». Di Napoleone è stato detto e scritto tutto e di tutto. Lo storico Jean Tulard ha affermato che sono più i libri usciti su di lui che i giorni trascorsi dalla sua dipartita. Moltissimi sono i collezionisti che nel mondo si disputano a cifre stellari i suoi cimeli: un esemplare del celebre bicorno (non l’unico da lui utilizzato) è stato venduto all’asta a Fontainebleau per un milione e mezzo di euro. Nessuno ha avuto prima di lui una simile capacità di usare la propaganda, di fare di sé stesso un oggetto di culto, interprete perfetto (insieme alla famiglia Bonaparte, ai marescialli e ai soldati) dell’epopea. Il merchandising, il marketing dell’età moderna sono nati con l’imperatore. Figlio, continuatore e censore della Rivoluzione; espressione dell’Armata aperta al merito; interprete dell’idea alta che la Francia ha sempre avuto di sé e del proprio ruolo in Europa, Napoleone ha affascinato generazioni intere. Friedrich Hegel lo ha chiamato «lo spirito del mondo a cavallo»; René de Chateaubriand (che pure non lo amava) lo ha definito «il più potente soffio di vita che abbia mai animato l’argilla umana». Lo stesso uomo, tuttavia, può suscitare odi e antipatie. C’è chi lo considera un tiranno, un guerrafondaio e chi lo paragona ai peggiori dittatori. Negli ultimi mesi, in nome di quel memory cancel, quel “tribunale del presente” allineato al “politicamente corretto” che va tanto di moda e sembra incapace di collocare i grandi personaggi nel loro contesto storico, è stato bollato come misogino e schiavista. Nulla è più pericoloso, tuttavia, che arrogarsi la facoltà di giudicare in nome di parametri attuali e teorici. La vicenda di colui che veniva chiamato dai suoi soldati le petit caporal deve essere studiata innanzitutto alla luce dell’epoca in cui è vissuto. Anche se poi egli saprà innalzarsi ben al di sopra di essa. Nato in Corsica il 15 agosto 1769 – quella Corsica che sino all’anno prima apparteneva a Genova – da una famiglia modesta di piccola nobiltà; legatissimo al proprio clan, alla madre, ai fratelli e alle sorelle (il padre morì presto); molto vicino all’Italia per vincoli familiari, culturali e linguistici, Napoleone era stato mandato ancora bambino a studiare in Francia, all’accademia militare. Aveva quindi assistito alla Rivoluzione e, pur condannando gli eccessi giacobini, aveva aderito agli ideali di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza.

Solo la fine dell’Ancien Régime, dell’antico ordine di origine feudale, poteva del resto aprire la strada al merito, spazzando via privilegi obsoleti. Si era quindi messo in luce alla fine del 1793 con la riconquista di Tolone, divenendo generale di brigata. Da lì, era stato un crescendo. Sposatosi con la fascinosa Giuseppina de Beauharnais, aveva comandato l’esercito nella Campagna d’Italia iniziata nel marzo 1796, dove aveva conosciuto trionfi sino allora inimmaginabili e gettato nella penisola i semi di una parte dei futuri ideali risorgimentali. Lo stesso Ludwig Beethoven, folgorato, gli dedicò L’Eroica, anche se straccerà la dedica quando Bonaparte si farà nominare imperatore. Impadronitosi del potere con il colpo di Stato del 18 Brumaio, ovvero il 9 novembre 1799, Napoleone diviene quindi Primo console e padrone della Francia. Ė “un uomo nuovo”, erede ideale del Principe di Machiavelli. Gli anni del Consolato sono i più straordinari, quelli in cui il genio di Bonaparte si esprime in modo più proficuo. Gli anni delle battaglie vinte, certo, ma anche quelli della pacificazione. Alessandra Necci

Ma chi sei, Napoleone? Ha cambiato la storia e oggi, a duecento anni dalla morte, la sua figura non smette di alimentare polemiche. Con Corrado Augias, Daria Galateria, Anais Ginori, Francesco Merlo e un'intervista ad Alessandro Barbero di Simonetta Fiori, il nostro supplemento (in edicola da sabato 1° maggio con Repubblica) indaga sul generale che volle farsi imperatore. La Repubblica il 29 aprile 2021. Due secoli fa moriva in solitudine a Sant’Elena Napoleone Bonaparte. In meno di vent’anni, tra il 1796 e il 1815, aveva cambiato il volto dell’Europa. Cosa resta della sua figura? Perché la Francia si interroga, tra le polemiche, su come celebrare il suo bicentenario? E perché ancora oggi “credersi Napoleone” è sinonimo di follia, megalomania, sopravvalutazione dei propri mezzi? Sulla copertina di Robinson di questa settimana, in edicola da sabato 1 maggio con Repubblica (e tutta la settimana a 50 centesimi) e intitolata Ma chi sei Napoleone? è Corrado Augias a tracciare il profilo – storico ma anche caratteriale – del generale che volle farsi imperatore, disegnandone i tratti di grandezza e gli errori fatali. Da Parigi, invece, la nostra corrispondente Anais Ginori racconta come la mostra-biopic sull’imperatore dei francesi, costata 5 milioni di euro e in stand-by per via della pandemia, accenda le polemiche ancor prima dell’apertura: bisogna celebrare Bonaparte o esecrarlo per via della sua legge che avallava la schiavitù? Oltre al profilo pubblico, vi raccontiamo - con Daria Galateria - il Napoleone privato, quello delle celebri lettere d’amore (e sesso) all’amata e poi ripudiata Joséphine de Beauharnais, mentre Francesco Merlo indaga sul perché Napoleone, simbolo di chi perde la testa immaginando di essere lui e protagonista di infinite barzellette, è però allo stesso tempo al centro delle pagine dei grandi artisti, da Hugo a Stendhal fino a Lacan. Infine, a colloquio con Simonetta Fiori, Alessandro Barbero riflette sull’eredità napoleonica nella modernità. Con un’avvertenza per chi vorrebbe semplicemente cancellare il passato: “uno storico non deve giudicare l’animuccia personale di Napoleone, piuttosto deve capire perché la gente fosse disposta a farsi scannare per lui. E non in nome dello sterminio, come sarebbe accaduto nella Germania hitleriana. Ma in nome della libertà, dell’eguaglianza e del progresso”. Nelle pagine seguenti, come sempre, ampio spazio alle critiche: a recensire per i lettori di Robinson alcune tra le più interessanti novità in libreria sono, tra gli altri, Giancarlo De Cataldo – che ci guida alla riscoperta dell’inglese Jane Gardam – e Michele Smargiassi, che in occasione della pubblicazione italiana di L’immagine fantasma ripercorre la traiettoria del francese Hervé Guibert, critico, fotografo e romanziere francese scomparso nel 1991. Altro autore da riscoprire è Dante Arfelli, protagonista questa settimana del nostro spazio “A grande richiesta”: Maurizio Di Fazio ripercorre la traiettoria dello scrittore de I superflui, che dopo il successo di quel solo romanzo finì per vivere grazie alla legge Bacchelli. Nelle pagine dell’Arte questa settimana vi raccontiamo la riscoperta di Regina Cassolo Bracchi, futurista e maestra dell’avanguardia novecentesca. È Christine Macel, direttrice della Biennale d’arte di Venezia del 2017, e “conservatrice en cheffe” al Centre Pompidou di Parigi, a raccontarci la mostra dedicata a Regina dalla Gamec di Bergamo. E ancora: un’intervista di Ilaria Zaffino a Elizabeth Acevedo, autrice young adult e campionessa di slam poetry, nelle pagine dedicate ai libri per giovani lettori; un colloquio di Luca Valtorta, nello spazio Fumetti, con lo scozzese Mark Millar, vulcanico creatore di personaggi complessi che dalla carta trovano altre vite (ad esempio, nella serie Netflix Jupiter’s Legacy); lo Straparlando di Antonio Gnoli con critico e scrittore Mario Fortunato. E per concludere il nostro torneo letterario: si fa sempre più serrata la sfida tra i classici americani. Per scoprire chi si avvicina alla finale, basta sfogliare Robinson…

Da “Anteprima. La spremuta di giornali di Giorgio Dell’Arti” il 5 maggio 2021. L'abate Vignali gli segò il pene che nel 1999 fu messo all'asta e aggiudicato per quattromila dollari al dottor John E Lattimer, della Columbia University. La figlia di costui lo avrebbe a sua volta messo all'incanto per centomila dollari.

Francesco Merlo per "Robinson - la Repubblica" il 5 maggio 2021. Unità di misura della pazzia, voglia d' onnipotenza dell' impotente, Napoleone ha fatto ammattire Goethe, che lo paragonava alla "Apocalisse di San Giovanni", Hegel, che a Jena lo vide per fortuna una sola volta a cavallo ma gli bastò per immaginare l' Assoluto, e ovviamente quelli che lunatici lo erano già di natura, come Nietzsche che, ricoverato in manicomio a Jena (rieccola), diceva di essere l' imperatore, e come Dostoevskij, che spaccò in due l' umanità: i "Napoleone", ai quali tutto è permesso, e "i pidocchi" che tutto devono subire. Ed è naturale che Napoleone sia l' imperatore pure delle barzellette: «è a lei che devo la mia guarigione» scrive al suo medico il rinsavito firmandosi però "Napoleone", e il medico, allibito per quella pazza firma di un rinsavito, volendosi grattare la sapiente testa si toglie il petit chapeau di feltro nero e infila la mano nel gilet sotto la giubba grigia. Le barzellette che, come la filosofia, stanano le verità nascoste e spesso scomode, raccontano che c' è un Napoleone che sonnecchia in ciascuno di noi, insomma un' identità in crisi, direbbero gli studiosi che sono ammattiti studiando i matti. Tutti gli psichiatri e gli psicanalisti si sono esercitati sull' uomo qualunque che si sente Napoleone, ed è famoso l' aforisma di Lacan: «Un pazzo che pensa di essere Napoleone è evidentemente un pazzo, ma è ancora più pazzo un re che crede di essere un re». E sembra, lo so, un pirandellismo o un pirandelleggiare, un perdere se stesso nel territorio del vuoto. Perciò è bello e istruttivo rileggere L' Imperatore inesistente (Sellerio), tre saggi ottocenteschi, matte "stanzette letterarie" del negazionismo, messe insieme da Salvatore Silvano Nigro, che "provano" che il generale Bonaparte è un essere immaginario, un' allegoria, un quiproquo, una mitologia, un errore collettivo: non è mai esistito. Ecco, appunto: roba da matti. All' opposto dei negazionisti, matti sono pure gli iperrealisti, vale a dire i feticisti storici che collezionano cimeli napoleonici sempre e solo "autentici" sino alla polvere da sparo e alla giberna da granata: «credesi Napoleone I, - classificava Cesare Lombroso pensando d' essere "un Cicerone al serraglio" - crede cioè di essere un gran talento, di essere un eroe, e vuol sempre aver ragione, ha il brutto vizio di menar le mani». Con più poesia, «Napoleone era fatto così: se diceva di no, non diceva di sì» spiegava Sergio Endrigo. Ma non esistono Napoleoni illegittimi, tutti hanno diritto di diventare Napoleone, anche Wellington, the Duke, l' elegante gradasso asserragliato nella fattoria di Hougoumont, vincitore perché raccontato come un altro Napoleone, e pure il prussiano in fuga era Napoleone, e si può andare avanti così, sino a comprendere il mito ottocentesco dell' eroe romantico e il superman moderno, che vince anche quando perde, come lo immaginava il malinconico Renato Rascel: «Guarda che bel generalon / Bonaparte Napoleon / Se Bonaparte è questa qua / l' altra parte quale sarà?/ Napoleon, Napoleon, Napoleon / nel caffellatte io ci metto tre cannon». E c'è pure l'idea, ovviamente pazza, che tutte le pazzie della storia siano napoleoniche. E difatti gli archivi dei manicomi, specie francesi, raccontano le mille metamorfosi del mito di Napoleone nella testa di incendiari, erotomani, omicidi, ossessi, deliranti, schizoidi, come l' insigne studioso di Napoleone, il prof Sokolov, che nel novembre del 2019, vestito da Napoleone, ha squartato con una sega la sua studentessa, vestita da Joséphine tutti esiliati da se stessi come Napoleone che a Sant' Elena diceva: «vedo l' infinito in me». E pochissimi storici resistono alla tentazione di usare Napoleone per misurare le follie di Hitler e di Stalin, come se i due sanguinari dittatori non bastassero a se stessi. Andreotti, umilmente, lo usò così: «Ci sono pazzi che credono di essere Napoleone e pazzi che credono di poter risanare le ferrovie dello Stato». Anche l' aggettivo napoleonico è impazzito diventando, via via, napoleonesco, napoleoniano, napoleonotto, napoleonista aggettivi psicologici che comprendono tutte, ma proprio tutte le varianti della grandiosità. Del resto Napoleone è stato pure moneta, gioco d' azzardo, una speciale intensità del colore rosso E forse siamo un po' pazzi anche noi che cerchiamo logiche napoleoniche negli svenimenti e nei deliqui di Alessandro Manzoni e, Napoleoni del citazionismo, classifichiamo, tra i sani che Napoleone fece un po' ammattire, Stefan Zweig con il suo momento fatale, e Victor Hugo con il suo enigma di Dio e soprattutto con l' idea pazzamente francese che a Waterloo non vinse Napoleone, ma Cambronne. Si sa come andò. Quando il nemico inglese gli chiese di arrendersi, Cambronne rispose "merda" e condannò i suoi uomini alla morte per massacro. E però Victor Hugo scrisse: «Dire quella parola e poi morire, cosa c' è di più grande?». E ancora: «Chi ha vinto a Waterloo è Cambronne!». Di nuovo: roba da matti. Al contrario, per gli inglesi l' epica di Waterloo è ancora quella di Walter Scott, per i tedeschi il testo sacro è von Klausewitz, e poi ci sono ovviamente Stendhal e Joseph Roth. Secondo un sondaggio già vecchio il 54 per cento dei giovani inglesi da 18 a 24 anni non sa che Waterloo è la battaglia dove fu sconfitto Napoleone. Per loro non è neppure una metafora: «è nient' altro che una stazione di Londra». Nel 2015 andai a Waterloo e nel campo che fu di battaglia, nella periferia ricca di Bruxelles, 40 ettari di terra grassa, vidi la ricostruzione della più gloriosa delle disfatte insieme a 200mila spettatori che avevano comprato il biglietto. E ogni sera e per tre sere la carnevalata storica diventava industria, nel fumo e nelle fiamme dei più assordanti fuochi d' artificio, bum bum bum alla napoletana ma con la pompa magna di Napoleone. E dunque incontrai il più vero dei finti Napoleone che da vent' anni recita il suo ruolo di Imperatore in tutti i campi di battaglia ricostruiti: a Jena, a Austerliz e appunto a Waterloo. È un avvocato di Orleans con studio a Parigi, piccolo calvo e con gli occhi blu e rotondi. Sincero sino all' identificazione, mi disse: «Ahimè, misuro un metro e settantadue, tre lunghissimi centimetri in più». Ma raggiunse la perfezione quando diede l' ordine di attacco piegandosi leggermente su se stesso per simulare le imperiali emorroidi che in quel 18 giugno, secondo la storiografia del dettaglio, tormentarono Napoleone e forse gli impedirono di vincere.

Napoleone, rivelazione più che imbarazzante: "Poco dotato, gli hanno segato via il pene dopo la morte". Quanto misurava. Libero Quotidiano il 05 maggio 2021. Duecento anni fa, il 5 maggio 1821, moriva all'isola di Sant'Elena Napoleone Bonaparte. Il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, celebrerà il 200esimo anniversario della sua morte con un discorso in cui affronterà l'eredità lasciata dall'imperatore, personaggio al tempo stesso ammirato e controverso della storia di Francia. Le celebrazioni napoleoniche in Francia hanno suscitato polemiche ma il presidente Macron ha assicurato la sua presenza nel giorno della ricorrenza del 5 maggio e dall'Eliseo si fa notare che il capo dello Stato non mancherà di mettere in luce anche le ombre della carriera dell'imperatore. Su Napoleone circolano numerose leggende. Una di queste vuole che il povero Napoleone fosse poco dotato. Il suo pene misurava 4,5 centimetri a riposo e 6,1 in erezione, riporta blitzquotidiano. A misurarlo cu ha pensato John K. Lattimer urologo della Columbia University, che nel 1972 disse di aver acquistato il pene dell’imperatore per 4 mila dollari. Sempre secondo il mito il primo a possedere la reliquia sarebbe stato l’abate Vignali, suo cappellano a Sant’Elena. Ma ad oggi non si hanno notizie certe sulla presunta evirazione post mortem dell’imperatore. Anche riguardo alla sua altezza pare che Napoleone non fosse così bassetto. Gli storici concordano sul fatto che fosse alto circa 168 centimetri, ben tre in più della media dei francesi della sua epoca e tre in più dell’ex presidente francese Nicolas Sarkozy. Pare che fossero stati gli inglesi, per sminuirne la sua fama, a mettere in giro questa maldicenza. Infine, la questione della Gioconda. Nonostante gli italiani lo ricordino soprattutto per i numerosi capolavori sottratti durante la Campagna d’Italia, in nome di un grande sogno, quello napoleonico del Museo Universale del Louvre, non fu lui a rubare la Monna Lisa. Fonti storiche infatti rivelano che il dipinto sia stato portato in in Francia nel 1517, dallo stesso autore, Leonardo Da Vinci.

Daria Galateria per "Robinson - la Repubblica" il 3 magio 2021. «Un bacio più in basso, più in basso del seno. Sai che non dimentico le piccole visite». Quando gli capitò, inopinatamente, di innamorarsi, Bonaparte condusse la conquista della vedova Beauharnais con l'abituale energia. «Mi sveglio pieno di te. Il tuo ritratto e il ricordo dell'inebriante serata di ieri non hanno lasciato riposo ai miei sensi», le scrive, alle 7 del mattino; è l'incontro a rue Chantereine, la casa che a Bonaparte sembra l'epitome della squisitezza. E del lusso; ride Barras, l'uomo forte del Direttorio: è lui, l'amante storico, a sovvenzionare quell' eleganza che fa della Beauharnais una delle dame alla moda nella stagione delle garze neoclassiche, trasparenti, da cui tralucono giarrettiere di diamanti («i diamanti della corona», si commenta; la rivoluzione ha sei anni e il re è stato ghigliottinato da tre). Joséphine è incerta, «è curioso, questo Bonaparte», dice, mostrando le lettere ardenti che lui le scrive: vuole dominare tutto; «sono innamorata? ma no»; però, se lo sposa, Barras lo metterà a capo dell'esercito d' Italia. Bonaparte ricusa sdegnato questa "protezione", quasi un dono di nozze. - Il 9 marzo 1796 sono sposati, due giorni dopo Bonaparte parte per l'Italia. «Non ho passato un giorno senza amarti, non una notte senza stringerti tra le braccia e tu! Dal 23 al 26, sono quattro giorni, che hai fatto, invece di scrivere a tuo marito? L' Inferno non ha supplizi. Se avessi un cuore così vile da amare senza esser ricambiato, me lo strapperei con i denti». Le vittorie del nuovo Alessandro compaiono sullo sfondo: «Junot porta a Parigi 24 bandiere; tu devi tornare con lui, mi hai sentito?» (sarà il bel Murat a consegnare a Joséphine le arance d' Italia, e forse anche qualche altro, personale, omaggio). A Sant' Elena Napoleone ricorderà il languore creolo e la grazia che Joséphine metteva in ogni gesto, sempre - si racconta che la sua voce era così carezzevole e spossata che i servitori, al palazzo Imperiale delle Tuileries, si fermavano a ascoltarla dalle pareti. Joséphine si rifiuta di seguire Napoleone in Egitto, e mentre arreda, a costi stravaganti, la loro Malmaison, Bonaparte nel deserto si lega a una Pauline, modista, che i soldati chiamano Cleopatra. Le lettere d' amore di Bonaparte a Joséphine rimangono un modello del genere. Ad averne il tempo, Napoleone sarebbe stato - osservarono, a fine secolo, critici e politici - scrittore tra i più grandi. A Sant' Elena ebbe l'agio di dettare due opere magnifiche, Il Memoriale e Le guerre di Cesare, confronto, in una splendida ripresa dello stile cesariano, tra la conquista delle Gallie e la Campagna d' Italia (nasce solo allora il termine "cesarismo", dittatura rivoluzionaria). Ma già nel 1795 col breve racconto Clisson et Eugénie Bonaparte aveva sottoposto le grazie preromantiche a una violenta economia di mezzi. «Clisson era nato con un una decisa passione per la guerra»; due sorelle, con «la levità e lo slancio dei sedici anni», lo distraggono. Bonaparte traspone un primo, vero amoretto. Tutto, per lui, deve ancora succedere; Letizia, la venerabile futura Madame Mère, è ancora la bellissima donna di Corsica ammirata (consistentemente) dal maturo governatore francese conte di Marbeuf. Ma quando clan filo- inglesi le mettono fuoco alla casa, Letizia fugge per le montagne con Elisa e Paolina (Carolina e Geronimo sono dallo zio il cardinale Fesch), e è Napoleone che torna in barca per metterli al riparo a Marsiglia. Sono mesi di grande povertà; ma li aiutano i vicini Clary, agiati commercianti con due giovani figlie: le ragazze di Clisson e Eugénie. Giuseppe Bonaparte, il primogenito, sposa la maggiore; Napoleone esita sulla seconda, Désirée - sono nozze convenienti per lui? - e sperimenta per lettera, a freddo, la scala delle temperature sentimentali («fammi leggere nel tuo cuore»: l'ho sverginata, dirà poi crudamente a Sant' Elena). Poi, col nuovo secolo, sarà l'epoca imperiale, e gli incontri distratti che il valletto Constant gli procura con tutte le dame giovani della corte; un fedele mamelucco spesso sorvegliava da una tenda. Ci sarà però Maria Walewska, la dolce amante polacca; gliel' ha " procurata" nel 1807 Talleyrand, raccontava, ancora grato; e scriveva a un fratello: «credo di essere un ottimo amante, ora come ora». La Walewska era incinta di tre mesi (Corvisart, il medico, era venuto da Parigi a confermarlo) che, felice di non essere sterile, l'Imperatore avviò il divorzio da Joséphine. Il matrimonio con Maria Luisa, figlia d' imperatore dallo «sguardo calmucco», in realtà «lo ha perduto». Da sempre, mescolando familismo còrso con sogni dinastici, tentava di organizzare per le sorelle matrimoni vantaggiosi, ma loro perseguivano, di nascosto, connubi «frutto di amoretti» - si leggano i capitoli Famiglia e Donne nel preziosissimo Napoleone in venti parole di Ernesto Ferrero: la misoginia che diventa per la donna, nel Codice Civile, dipendenza. Diceva Bonaparte al generale Rey: «La donna è un bastone sporco, non la si può toccare senza impiastricciarsi». Eppure la prima esperienza con una piccola prostituta al Palais Royal, nel 1787, la aveva raccontata in una pagina sensibile: «Passeggiavo a gran passi, agitato dai sentimenti vigorosi che mi caratterizzano», quando la " timidezza" di una ragazzina pallida, sottile, debole, lo " incoraggia" a parlare - «io che mi sento infangato da un solo sguardo delle donne del mestiere».

Napoleone (ri)esiliato dopo due secoli. Dalla "cancel culture". Giuseppe Conte l'1 Maggio 2021 su Il Giornale. In una società che ha dimenticato il concetto di gloria, Bonaparte subisce attacchi antistorici. Il 5 maggio di due secoli fa si spegneva a Sant'Elena, uno scoglio sperduto nell'Atlantico dell'emisfero australe, Napoleone Bonaparte, l'ufficiale di artiglieria uscito dalla piccola nobiltà corsa che aveva sposato la Rivoluzione, il generale che aveva sbaragliato gli eserciti delle maggiori potenze europee, che aveva portato gli ideali e il sapere dei Lumi per tutto il continente sino all'Egitto, l'imperatore che aveva fatto della Francia la più grande potenza continentale. Caduto una prima volta a Lipsia, risorto dopo l'esilio all'Elba e sconfitto definitivamente a Waterloo, si era consegnato agli Inglesi, i suoi maggiori nemici, quelli che non aveva mai potuto sconfiggere. Nell'isola sperduta, l'ordine era quello di guardarlo a vista, e così fece il governatore sir Hudson Lowe, che di suo aggiunse severità e odiose angherie per rendergli ancora più duro l'esilio. Morì per un probabile cancro allo stomaco. Le sue ultime parole furono: «Testa esercito». Fino alla fine, ricordò di essere stato uno stratega supremo e un militare che aveva un senso poetico della gloria. L'ultimo sgarbo di Hudson Lowe fu quello di impedire che sulla pietra tombale fosse inciso il termine «Imperatore». Così sulla tomba si lesse soltanto: «Qui giace». Non so se Alessandro Manzoni fosse al corrente di questo particolare: ma il celeberrimo attacco della sua poesia intitolata Il 5 maggio potrebbe farlo pensare: «Ei fu». Non c'è bisogno del soggetto, tanto il soggetto è immenso e noto al mondo intero. Per noi italiani, la morte di Napoleone ha il ritmo sdrucciolo e tambureggiante dell'inno del Manzoni. Era la poesia che tutti studiavamo a memoria a scuola, e così famosa che non mancarono di fiorirne parodie dissacranti. In realtà, l'autore dei Promessi sposi qui vola alto: scrive ispirato, si dice in tre giorni, mentre la moglie Enrichetta alimenta suonando al pianoforte la sua vena. Manzoni è davvero colpito dalla notizia, che arriva a Milano il 19 luglio. E vede colpita, attonita, la terra intera. Non aveva mai dedicato una riga di lode al Napoleone vittorioso, né una riga di insulti a quello sconfitto: «vergin di servo encomio/ e di codardo oltraggio», soltanto ora potrà sciogliere un canto alla tomba di questo «uomo fatale». L'epopea napoleonica trova in Manzoni un cantore appassionato: in mirabile, lampeggiante sintesi ce ne mostra la geografia («Dall'Alpi alle Piramidi»), la psicologia («la procellosa e trepida/ gioia di un gran disegno/ l'ansia di un cuor che indocile/ serve, pensando al regno»), la storia («la fuga e la vittoria/ la reggia e il tristo esilio»). E di Napoleone in esilio «in sì breve sponda», oggetto di inestinguibile odio e di indomato amore, riesce a immaginare in maniera magistrale il cumulo di memorie che lo assale («il lampo dei manipoli/ e l'onda dei cavalli»). Sinché una mano dal cielo non gli porta il conforto della Fede. La conclusione dell'inno del Manzoni ha per protagonista la Provvidenza divina, e un tono biblico: «il Dio che atterra e suscita/ che affanna e che consola». Il Dio la cui gloria è l'unica che non tramonta. Ma quella di Napoleone, «fu vera gloria?». La domanda manzoniana è destinata a rimanere senza risposta. Ugo Foscolo salutò Bonaparte come liberatore, ma poi dovette ricredersi dopo il trattato di Campoformio, che vendeva Venezia all'Austria. Questo doppio aspetto dell'azione di Napoleone, per un verso rivoluzionaria, per l'altro soggetta a una logica slegata dalla morale e alla volontà di potenza, fu dunque chiara anche ai contemporanei. Dopo due secoli, in una società che ha dimenticato completamente il concetto di gloria, e anzi tende a colpevolizzare qualunque azione alta e ideale, Napoleone subisce attacchi ben più feroci. Ha fatto scalpore quello della studiosa di origine haitiana Marlene L. Daut che sul New York Times ha definito Napoleone «il più grande tiranno, una icona della supremazia bianca». Finirà dunque anche lui sotto la scure della cancel culture? In effetti, la cultura della cancellazione può diventare la cancellazione della cultura, se non è fermata in tempo. Definire Napoleone «tiranno» è una semplificazione ignorante. Definirlo «icona della supremazia bianca» una giravolta antistorica e suo malgrado razzista. Con questo criterio, tutto ciò che è bianco, tutto l'Occidente, da Dante a Goethe, da Colombo a Garibaldi, andrebbe spazzato via. A qualcuno forse farebbe comodo? Napoleone aveva un sogno imperiale, non imperialista: voleva una Europa unita dallo spirito dei Lumi e, pur essendo versato nella matematica, che mise a servizio di un utilizzo innovativo della artiglieria, aveva una passione letteraria fortissima, e si sentiva un Prometeo che aveva rubato il fuoco al cielo e lo aveva dato alla Francia: questa grande nazione in cui non finì mai, lui corso di origini genovesi e toscane, di sentirsi straniero, ma a cui tributò il massimo dell'amore sino a dire, come stabilendone un destino: «La parola impossibile in francese non esiste». Dominique de Villepin, in uno dei suoi libri dedicati a Napoleone, lo definisce «figlio di Ossian e discepolo di Machiavelli». Dunque il più grande condottiero dei tempi moderni ha radici tutte nella cultura italiana: perché i Canti di Ossian, la saga celtica e preromantica di James Macpherson, li lesse e li tenne sempre con sé nella traduzione di Melchiorre Cesarotti. E dal segretario fiorentino imparò la autonomia della politica dalla morale. Ma non fu machiavellico per condurre in porto qualche contorto traffico di potere, lo fu per inseguire un incredibile sogno di grandezza. Finito sugli scogli di Sant'Elena. Chissà se davvero avvertì il Dio di cui parla Manzoni sul suo letto di morte. Ma è certo che volle morire nella fede in cui era nato. Il piccolo nobile corso che avrebbe potuto passare la vita tra gli orti e gli uliveti della sua terra, e invece cambiò la storia del mondo.

Antonio Carioti per il "Corriere della Sera" il 28 gennaio 2021. Ad Austerlitz, nell' attuale Repubblica Ceca, l' imperatore Napoleone Bonaparte colse la sua vittoria più nota e luminosa il 2 dicembre 1805, sul territorio dell' Impero asburgico, annientando con la Grande Armée le più numerose forze austro-russe. Non stupisce quindi che il documento nel quale il condottiero corso, ormai sconfitto ed esiliato, descrisse l' andamento della battaglia sia andato all' asta per un milione di euro ieri a Parigi. Il manoscritto di 74 pagine venne dettato da Napoleone al fedelissimo Henri-Gatien Bertrand, un generale francese che lo aveva seguito in esilio sull' isola di Sant' Elena, possedimento britannico nell' Oceano Atlantico meridionale, dopo la definitiva sconfitta dell' imperatore a Waterloo nel giugno 1815. Si può pensare che Bonaparte abbia voluto rievocare nella mestizia il momento più alto della sua parabola. Nel documento, reperito dal gallerista e collezionista di cimeli imperiali Jean-Emmanuel Raux tra le carte conservate dagli eredi di Bertrand, vi sono anche undici annotazioni vergate da Napoleone di suo pugno in una grafia minuscola. Inoltre il testo è accompagnato da una mappa del piano di battaglia su carta da lucido, disegnata dal generale che assisteva l' ex sovrano. Si tratta di un manoscritto prezioso per gli storici e gli appassionati, che rimarrà esposto fino alla fine del mese presso la galleria parigina Arts et Autographes in questo anno che segna il bicentenario della morte di Bonaparte, scomparso a Sant' Elena il 5 maggio 1821. La battaglia di Austerlitz, raccontata anche dal grande scrittore russo Lev Tolstoj nel romanzo Guerra e pace , è tuttora studiata nelle accademie militari per la manovra tattica brillante messa in atto dal comandante francese, che disorientò i nemici e li colse di sorpresa. Passata alla storia come «battaglia dei tre imperatori», perché oltre a Napoleone erano presenti l' austriaco Francesco II d' Asburgo e lo zar russo Alessandro I, Austerlitz decise la guerra della Terza coalizione. Il conflitto vedeva la Francia contrapporsi all' alleanza che si era costituita nei primi mesi del 1805 tra Gran Bretagna, Austria, Russia, Regno di Napoli e Svezia, dopo che Bonaparte, già in guerra con gli inglesi dal 1803, si era incoronato imperatore a Notre-Dame il 2 dicembre 1804, esattamente un anno prima della giornata trionfale di Austerlitz. Napoleone passò il Reno nel settembre 1805 e si diresse a marce forzate verso l' Europa centrale, sconfiggendo gli austriaci a Ulma in ottobre. Il 13 novembre i suoi soldati entrarono a Vienna, ma la campagna non era affatto terminata, perché l' esercito francese si andava logorando, mentre una possente armata russa, al comando del generale Michail Kutuzov, si era unita alle truppe asburgiche. Bonaparte aveva quindi bisogno di attaccare battaglia in tempi brevi e per farlo simulò di essere più debole di quanto non fosse, traendo in inganno i suoi nemici. Lo scontro si svolse in Moravia, non lontano da Brno. Nel manoscritto Napoleone racconta che ad Austerlitz, località che oggi in ceco si chiama Slavkov u Brna, tutti i militari ai suoi ordini, dai generali ai semplici fanti, erano «decisi a vincere o morire». Forse esagerava con la retorica, ma sta di fatto che dopo nove ore di combattimenti circa 73 mila francesi ebbero la meglio su oltre 85 mila austro-russi, le cui perdite furono, tra morti, feriti e prigionieri, di circa 27 mila uomini, molti annegati in un lago tra le lastre di ghiaccio. Bonaparte perse meno di 8 mila soldati e ufficiali. La Terza coalizione andò a pezzi e Napoleone assunse il controllo di gran parte della Germania (allora divisa in molti Stati). Ma altre coalizioni sarebbero sorte contro di lui (in tutto furono sette) e infine l' audace corso si sarebbe ritrovato senza corona, in un' isola sperduta, a rievocare la gloria di Austerlitz.

Se Napoleone combatte le battaglie di Giulio Cesare. L'Imperatore in esilio a Sant'Elena studiava il dittatore romano. Nei motivi della sconfitta del suo predecessore cercava uno specchio per capire la sua. Matteo Sacchi, Mercoledì 13/01/2021 su Il Giornale. Un grande generale che parla di un altro grande generale. Due uomini che hanno sfidato il destino e, pur vincendo infinite volte, hanno scoperto che il destino è invincibile e, a un certo punto, prende il sopravvento. Perché c'è sempre un tiro di dadi che gira storto. Ma solo il secondo può riflettere sulla sconfitta finale di tutti e due. Due potenti della terra vissuti a secoli di distanza ma a tratti simili, anche perché il secondo ha voluto emulare il primo e spera, mentre è rinchiuso in un oceanico esilio, di riuscire a lasciare la stessa traccia nella Storia. Questa a grandissime linee - davvero è un testo pieno di infinite suggestioni - è il succo de Le guerre di Cesare scritte da Napoleone Bonaparte (1769 - 1821) durante il suo esilio a Sant'Elena e ora ripubblicate dall'editore Salerno (pagg.192, euro 15, con introduzione e postfazione di Luciano Canfora). A pubblicare per la prima volta il testo, nel 1835, fu Louis-Joseph Narcise Marchand, il valletto dell'Imperatore che lo seguì in esilio e lo assistette sino alla morte e a cui il testo era stato dettato da un Napoleone sempre più in cattivo stato di salute. Perché un Bonaparte ormai alla fine si concentrava tanto sul condottiero romano? La risposta esauriente che fornisce l'antichista Canfora nell'introduzione è questa: «Dopo la sconfitta definitiva... Napoleone ripensa alla vicenda cesariana per ripensare se stesso e la propria traiettoria». Bonaparte, privo di un Plutarco, si costruisce da solo la sua vita parallela. Proprio per questo fa partire, dopo uno sbrigativo cappello sulla giovinezza di Cesare, le vicende del condottiero romano dalle campagne in Gallia. La Gallia è stata per Cesare quella che per Napoleone è stata l'Italia. Il prima è imparagonabile, Cesare era l'illustre rampollo di una antica familia, sebbene non in floridissime condizioni economiche, Napoleone un provinciale con poco di illustre nei natali. Ma una volta gettato il dado della campagna militare... Ecco i percorsi diventano simili. La lotta continua per emergere, una lotta che avviene sui campi di battaglia ma anche a livello politico. Napoleone sa che quel processo politico che è stato chiamato cesarismo sarà chiamato dopo di lui bonapartismo? Lo intuisce, e intuisce come le rivoluzioni che abbattono le élite generino altre élite alternative. In questo lui e Cesare, capaci di innovare ma anche di restaurare, raggiungono il punto di massima vicinanza: «Nei popoli e nelle rivoluzioni l'aristocrazia esiste sempre: eliminatela nella nobiltà, ed eccola rispuntare nelle casate ricche e potenti del Terzo Stato; eliminatela anche qui, ed essa sussiste nell'aristocrazia operaia e nel popolo». La potente intuizione sull'aristocrazia operaia di Napoleone è anticipatrice di quella ferrea legge delle oligarchie su cui rifletteranno anche autori marxisti come Gramsci. E coglie uno degli aspetti più importanti che Cesare dovette gestire. L'equilibrio tra vecchio e nuovo, tra gli ottimati ostili e i populares incontrollabili. L'equilibrio per il romano fu impossibile. Bonaparte lo ottenne e in questo, forse, si sentiva superiore al maestro. Un compiuto rivoluzionario conservatore: «Un principe non ci guadagna niente in questo dislocarsi altrove dell'aristocrazia. Al contrario egli rimette tutto a posto se lascia sopravvivere l'aristocrazia nel suo stato naturale, ricostruendo le vecchie casate sotto nuovi principii». Non bastò a Napoleone per salvarsi dalla stretta mortale contro il suo impero, portata avanti da una Europa delle monarchie, che non voleva tollerare la Rivoluzione e, nemmeno, l'uomo nuovo che ne era diventato l'alfiere sotto diverse spoglie (spoglie cesariane appunto). Ciò nonostante il modello di modernità da lui imposto avrebbe proseguito il suo corso, rivelando ogni restaurazione come inutile. E quindi l'inevitabile giudizio/speranza: «Nella sua testa Bruto assimilò Cesare a quegli oscuri tiranni delle città del Peloponneso, che godevano del favore di alcuni intriganti... Non volle vedere che l'autorità di Cesare era legittima: legittima perché necessaria e protettrice... perché era il risultato dell'orientamento e della volontà del popolo». E così Bonaparte, congedandosi dal mondo e guardandolo sub specie eternitatis, poteva davvero sentirsi vicino al suo antico maestro che mai volle sedersi al posto sbagliato, «sostituire la sedia curule dei vincitori del mondo con il volgare e spregevole trono dei vinti».

·        100 anni dalla morte di Enrico Caruso.

Enrico Caruso, 100 anni senza il tenore dei tenori: la sua incredibile esecuzione dai "Pagliacci". In un vinile della prima decade del ‘900. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 03 agosto 2021 

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Cento anni fa, dopo mesi di malattia, moriva tra l’affetto dei suoi cari, Enrico Caruso, ad appena 48 anni. La carriera del tenore napoletano era stata sfolgorante: incominciò ad esibirsi da bambino come contralto nelle chiese partenopee, fino al suo esordio lirico nel 1895. Sottoponendosi ad uno studio assiduo e rigoroso riuscì a superare alcune criticità legate alla sua voce, rendendone il tono morbido e quasi baritonale una preziosa peculiarità. Divenne così uno dei tenori dal timbro più espressivo e carismatico. Fu il raffinatissimo protagonista di molte opere di compositori come Puccini, Verdi e Mascagni; la sua fama lo condusse negli Stati Uniti dove dominò il Metropolitan di New York dal 1903 sino al 1920, quando fu colpito da un malore. Raggiunse una fama mondiale anche grazie alle numerose incisioni discografiche contribuendo a rendere il suo personaggio un mito; ancora oggi è considerato uno tra i tenori più grandi della storia, se non il più grande. Oggi vogliamo farvi ascoltare proprio una di queste gemme preziose, probabilmente registrata intorno al 1908.

E’ la celeberrima aria “Vesti la giubba”, dai "Pagliacci" di Ruggero Leoncavallo, un compositore gigantesco – il quale scriveva da solo i propri libretti – e che ancora deve essere riscoperto nelle altre opere della sua produzione: una fantastica “Bohème”, in antagonismo con quella pucciniana, “Zazà”, “I Medici” e altre ancora che restano ben chiuse nei bauli in soffitta. Invece di gettarci avidamente sulla riscoperta di questi capolavori dimenticati, offrendoli al mondo intero, continuiamo a lasciarne ammuffire le partiture nelle biblioteche dei conservatori. Un po’ come disporre di splendidi palazzi antichi, parchi naturali e lasciarli chiusi, invece di aprirli al pubblico (pagante). Va bene, tanto si sa: l’importante è continuare a sconciare quelle quattro opere di grande repertorio con regìe offensive e pazzoidi, perché il mercato vuole questo. Ma torniamo a bomba: in quest’aria da pelle d’oca, il capocomico Canio, che in un teatrino itinerante interpreta la maschera di Pagliaccio, scopre – grazie alla spiata del pagliaccio cattivo Tonio - che la sua giovane moglie Nedda, da lui a suo tempo raccolta “orfanella in su la via, quasi morta di fame”, lo tradisce col giovane contadino Silvio. Lo strazio è tale che condurrà Canio a uccidere entrambi proprio sulla scena, in una sovrapposizione – da pelle d’oca - fra la commediola di maschere che si recita e la tragedia greca che si consuma. Anzi, che ancora non ne hanno ancora cambiato il finale per “istigazione al femminicidio”, come già qualcuno ha fatto con la “Carmen” di Bizet. Quello di Canio, uomo dal temperamento focoso, è  più di un dolore da marito tradito, è lo strazio del benefattore pugnalato alle spalle, la disperazione di un uomo non più giovane, carico di responsabilità, che si vede surclassato dalle forze della natura e dell’attrazione. E’ anche l’archetipo del pagliaccio cui è vietato il piangere, un po’ lo stesso dramma del Rigoletto verdiano quando canta: “O rabbia!... esser difforme!... esser buffone!...Non dover, non poter altro che ridere!...Il retaggio d'ogni uom m'è tolto... il pianto!...”. 

Al di là dell’aspetto vocale di Enrico Caruso, che lascia senza fiato, ciò che colpisce è l’interpretazione, ancora freschissima e di una raffinatezza senza pari, in un perfetto equilibro fra accenti drammatici, “portamenti” leggermente lamentosi, singulti di dolore e rispetto rigoroso dello spartito. Direttori d’orchestra di una volta, che lasciavano la giusta briglia ai cantanti.  Ogni parola che sboccia sulle labbra di Caruso possiede la sua perfetta “intenzione”, in un caleidoscopio di emozioni oscure che si agitano in un uomo il cui destino lo costringe ad andare comunque in scena per fare il buffone, nonostante il cuore spezzato. “The show must go on”, potremmo dire, non l’ha scritta Freddie Mercury nel 1990, ma Ruggero Leoncavallo oltre un secolo prima. E a proposito, In occasione del centenario della scomparsa di Caruso, ieri, 2 agosto, dopo una lunga attesa, è stata inaugurata a Napoli la sua casa-museo. Qui sarà possibile immergersi negli ambienti dove Caruso nacque ed abitò da bambino, ammirando molti dei suoi ricordi, come dischi e fotografie, cartoline e caricature. La casa rappresenterà, insieme al Museo Enrico Caruso di Lastra a Signa- sinora l’unico in territorio italiano - un riferimento per i melomani di tutto il mondo, dove saranno esposti anche i cimeli provenienti dall’Enrico Caruso Museum of America di Brooklyn. Ed ora, ascoltiamo l’esecuzione, leggendo il libretto. Per chi volesse vedere tutta la breve opera “Pagliacci”, QUI una splendida versione cinematografica con un cast spaziale: Vickers, Kabajwanska, Glossop, diretti da Herbert von Karajan:

Vesti la giubba e la faccia infarina.

La gente paga e rider vuole qua.

E se Arlecchin t'invola Colombina, ridi, Pagliaccio... e ognun applaudirà!

Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto; in una smorfia il singhiozzo e 'l dolor...

Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto! Ridi del duol che t'avvelena il cor!

·        72 anni dalla morte del grande Torino.

Quel volo nella nebbia, poi lo schianto. E la squadra dei record fu cancellata. Paolo Mauri il 2 Maggio 2021 su Il Giornale. Ripercorriamo gli ultimi momenti del tragico incidente di Superga che costò a vita ai giocatori del Torino. Il Fiat G-212CP con la livrea delle Avio Linee Italiane (una compagnia aerea della società automobilistica e aeronautica di Torino) rulla lentamente sulla pista di Lisbona. I tre motori Pratt & Whitney R-1830 rombano, pronti a spingere il velivolo nella corsa di decollo che lo porterà a Barcellona. Ai comandi il tenente colonnello Pierluigi Meroni, 34 anni, decorato con due medaglie d'argento e tre di bronzo. Il secondo è il maggiore Cesare Biancardi, coetaneo di Meroni, e insieme a loro ci sono il capo marconista Antonio Pangrazzi (42 anni) e il motorista Celeste d'Incà (45 anni). Sono tutti veterani del volo e di guerra.

Il Torino dei record. A bordo del trimotore c'è una squadra di calcio, una squadra leggendaria: il Grande Torino. La sua storia fenomenale comincia durante la Seconda Guerra Mondiale, nel 1942, quando vince uno scudetto dopo una dura lotta contro il Livorno, ma solo dopo il conflitto diventa il Torino dei record: nella stagione 1947-48 grazie a una vittoria per 10 a 0 sull'Alessandria il Torino realizza il maggior numero di reti in una partita dall'istituzione del girone unico, nello stesso anno con 125 gol stabilisce il record per maggior numero di marcature in un campionato. Nelle stagioni tra il 1943 e 1949 entra anche nel record per maggior numero di partite casalinghe consecutive senza sconfitta: ben 88. La squadra granata era talmente forte che nella primavera del 1947 il commissario tecnico della nazionale Vittorio Pozzo convoca ben 10 giocatori del Torino su 11 per la partita contro l'Ungheria, una partita che resterà quella con il maggior numero di giocatori provenienti dalla stessa squadra in campo.

Il volo fatale. A bordo, insieme alla squadra, ci sono anche i dirigenti e tre dei migliori giornalisti sportivi italiani che siano mai esistiti: Renato Casalbore, fondatore di Tuttosport, Renato Tosatti che scrive per la Gazzetta del Popolo e Luigi Cavallero de La Stampa. La squadra è di ritorno da un incontro amichevole con il Benfica, organizzato in occasione dell'addio al calcio del suo capitano, Francisco "Xico" Ferreira, e per aiutare finanziariamente la società lusitana. Un'amichevole che fu veramente tale, in uno stadio gremito di folla, perché “il Toro” perse 4 a 3, ma questa è un'altra storia.

Alle 9.40 del mattino del 4 maggio 1949, un mercoledì, il G-212 decolla dall'aeroporto di Lisbona. Il piano di volo è semplice: il velivolo deve effettuare uno scalo tecnico a Barcellona per effettuare rifornimento e poi compiere l'ultimo balzo verso Torino, dove atterrerà all'aeroporto “Aeritalia” sito nel comune di Collegno. Il trimotore arriva all’aeroporto di Barcellona alle 13, come previsto, e durante la sosta la squadra del Torino, a pranzo, si incrocia con quella del Milan, in viaggio verso Madrid per disputare a sua volta un incontro amichevole contro il Real. Il velivolo con a bordo il club granata riparte alle 14.50. La rotta prestabilita prevede di passare sulla verticale di Cap de Creus, poi Tolone, Nizza e, oltrepassati i confini nazionali, Albenga e Savona. Quindi l’aereo deve virare in direzione nord, verso il capoluogo piemontese, dove è previsto il suo arrivo intorno alle 17. Il meteo durante le prime fasi del volo è buono, la visibilità ottima, ma più l'aereo si avvicina alla sua destinazione più questa peggiora. La torre di Torino comunica che nella zona le condizioni sono pessime: venti da sudovest, pioggia insistente e visibilità molto scarsa (circa 40 metri). Ci sono continui rovesci di pioggia, le nubi sono quasi a contatto con il suolo, e oltre alla visibilità orizzontale decisamente ridotta, il libeccio si fa sentire con raffiche di una certa potenza. Il pilota mantiene la rotta verso il radiofaro di Pino Torinese e una volta giunto sulla sua verticale conta di virare con prua 290 per allinearsi alla pista.

Alle 16.55 la torre chiede di riferire la posizione. Meroni risponde quattro minuti più tardi. Forse un segnale che l'equipaggio è in difficoltà per via delle pessime condizioni ambientali. Alle 16.59, dopo un silenzio stranamente lungo, il pilota riferisce “quota 2000 metri”. Alle 17.03 il velivolo compie una virata verso sinistra in corrispondenza del colle di Superga. L'ultima virata che avrebbe dovuto portarlo sulla pista. Possiamo provare a immaginare quanto avviene in cabina. Pilota e secondo predispongono il velivolo per l'atterraggio: giù il carrello, giù i flap, le mani sul volantino e sulla manetta per contrastare le potenti raffiche di vento. Il velivolo ha appena compiuto la sua virata in corto finale, come si dice in gergo aeronautico, ed è in volo livellato.

Alle 17.05 il Fiat G-212CP, siglato I-Elce, impatta contro il terrapieno della basilica di Superga, sita in cima all'omonimo colle alto circa 600 metri. Tutti e 31 gli occupanti periscono nel tremendo impatto. L'impennaggio di coda è la sola parte del trimotore che resta intatta. Il cappellano della basilica, don Tancredi Ricca, e un contadino sono i primi ad accorgersi della tragedia e a dare l'allarme. Lo schianto si porta via tutta la squadra del Grande Torino, tre dirigenti, gli allenatori e il massaggiatore, oltre ai già citati cronisti sportivi: si salva solo chi non era partito perché infortunato (Sauro Tomà), non convocato (Renato Gandolfi) o ammalato come il presidente Ferruccio Novo e Luigi Giuliano, oppure come Tommaso Maestrelli, invitato pur giocando nella Roma, che non riesce a rinnovare in tempo il passaporto e non parte insieme alla squadra torinese. Una tragedia nazionale.

Simbolo di rinascita. Ai funerali, tenutisi il 6 maggio successivo, partecipa un'intera città: mezzo milione di persone sono in strada per dare l'ultimo saluto non solo a una squadra, ma a un simbolo. Quella squadra, che mieteva successi in Italia e in Europa, era infatti la depositaria delle aspettative di rinascita di un intero popolo, che esorcizzava, nelle vittorie del Grande Torino, le tragedie di una guerra perduta conclusasi da pochi anni. Come ha ricordato anche Sandro Mazzola, campione dell'Inter e della nazionale, anni dopo la tragedia in cui perse la vita suo padre Valentino, quel Torino era quindi un simbolo per una nazione intera, indipendentemente dalla propria fede calcistica. Il Torino fu proclamato vincitore del campionato a tavolino, e tutte le squadre in gara, compresa quella granata, schierarono le formazioni giovanili nelle restanti quattro partite. Lo sgomento per quella tragedia, in cui persero la vita i dieci undicesimi della nazionale italiana, fu così grande che la massima selezione si recò ai mondiali in Brasile del 1950 in nave.

Le cause della tragedia. Cosa accadde all'I-Elce? L'ipotesi più accreditata, stante il fatto che gli esiti della commissione di inchiesta risentono delle tecniche investigative di quegli anni, è che una serie di eventi abbia portato l'equipaggio a un'erronea interpretazione delle condizioni di volo. La visibilità, molto scarsa, e il forte vento, hanno portato il G-212 al di fuori della rotta prevista, spostandolo verso nordest di qualche miglio senza che il pilota potesse accorgersi. Anche i limiti stessi degli strumenti di bordo sono stati una concausa fondamentale per lo schianto: il Fiat G-212CP non era dotato di radioaltimetro e di radar di bordo, ausili che avrebbero permesso all'equipaggio di accorgersi dell'errore di rotta e della quota ridotta rispetto a quella dei rilievi circostanti. Sebbene inizialmente si fosse pensato a un guasto all'altimetro, risulta difficile pensare che possa essere stata la causa dello schianto: il velivolo ne aveva tre, e un guasto simultaneo è da considerarsi improbabile. Lo stesso rateo di discesa, di circa 230 metri/minuto, che si registra tra la comunicazione delle 16.59 (“quota 2000 metri”) e lo schianto, è relativamente compatibile con una manovra effettuata seguendo gli strumenti di bordo correttamente funzionanti. Del resto, una volta recuperati gli stessi dopo lo schianto, fu chiaro che gli altimetri erano correttamente tarati rispondendo ai parametri della pressione atmosferica indicati da terra. Un errore umano quindi, ma certamente non dovuto a inesperienza o imperizia: in quelle condizioni, con quel velivolo, sarebbe stato molto difficile per chiunque evitare la collina di Superga. Così, in uno schianto nella nebbia, se n'è andata una squadra che ha rappresentato, più che il calcio italiano vincente, la voglia di rinascita di un'intera nazione. L'ultimo sopravvissuto di quella formazione, Sauro Tomà, ci ha lasciati raggiungendo i suoi compagni il 10 aprile del 2018 all’età di 92 anni. Chiudiamo questa narrazione con le parole, scritte a poche ore dalla tragedia, da un gigante del giornalismo italiano: Dino Buzzati. “Ecco che cosa sono i grandi calciatori, lo si è letto oggi sul volto di troppa gente perché ci si possa ostinare a non intendere. Nella mediocre vita delle grandi città essi portano ogni domenica un soffio di fantasia e di nuova vita”. Così chiudeva il suo pezzo, dalle colonne del Corriere della Sera, il 5 maggio del 1949. Una nuova vita, appunto, quella che milioni di italiani sognavano – anzi speravano – di avere guardando alle gesta del Grande Torino.

·        66 anni dalla morte di James Dean.

90 anni fa nasceva James Dean. E oggi vestiamo ancora come lui. La Repubblica 08 Febbraio 2021. Non importa quanti anni hai, se ami il cinema o segui solo serie in streaming: il nome James Dean supera ogni barriera culturale, di età o di stile. Nonostante siano passati 90 anni da quando nacque l'8 febbraio del 1931 a Marion, nell'Indiana, e quasi 66 dalla sua morte precocissima, avvenuta il 30 settembre 1955 a soli 24 anni in un incidente d'auto (una morte degna del suo film più celebre "Gioventù bruciata"), James Dean rimane il simbolo della giovinezza scapestrata, della filosofia di vita del "carpe diem" e di uno stile rilassato molto, molto cool. Il chiodo e i giubbini, i jeans, la t-shirt bianca, la camicia con le maniche arrotolate fino al bicipite. E poi i gilet e le giacche, i pantaloni écru e gli occhiali da sole sempre e comunque, persino i mocassini, li dobbiamo a lui. E li continuiamo a indossare anno dopo anno indipendentemente dalle tendenze del momento. Dean ha girato 8 film, ma solo 3 sono bastati a creare il mito: "La Valle dell'Eden", "Gioventù bruciata" e "Il Gigante". Noi lo facciamo rivivere in una gallery storica, dall'infanzia al successo, ricordando i suoi look e la sua bellezza senza eguali.

JAMES DEAN IL RIBELLE. La morte ne ha cristallizzato la leggenda. Accade (anche) quando le lancette dell’orologio sbagliano clamorosamente l’ora degli addii. Edvige Vitaliano su Il Quotidiano del Sud il 7 febbraio 2021. Il broncio del bello e dannato, lo sguardo corrucciato, inquieto e sfuggente, quasi mai dritto verso l’obiettivo della macchina fotografica; come se d’altra parte ci fosse sempre una via di fuga. La sigaretta accesa tra le labbra anche quando gli capitava di accennare un sorriso sfrontato e malandrino quel tanto che bastava per dire fra sé e sé: “Mi chiamo James Dean e di mestiere faccio il ribelle”. Deve essere stato così che si sentiva James anche quel giorno alla guida della sua “little bastard” (piccola bastarda, ndr) come aveva battezzato la sua amatissima Porsche 550 Spyder. E fu proprio a bordo di quella “piccola bastarda” che il ragazzo con i jeans e la maglietta bianca portata a pelle, perse la vita in un incidente stradale vicino a Cholame.

Era il 30 settembre 1955. James era col suo fidato meccanico Rolf Wütherich. Quel maledetto giorno d’inizio autunno “alle 15:30 l’attore viene  multato per eccesso di velocità nei pressi di Mettler, poiché la 550 viaggia a 105 km/h in una zona il cui massimo consentito è 89. […] Dopo aver lasciato le Lost Hills alle spalle, Dean è alla guida verso ovest sulla Route 466, a est di Cholame, quando, in direzione opposta, una Ford Custom Tudor coupé bianca e nera guidata dallo studente 23enne Donald Gene Turnupseed imbocca la Route 41 e s’immette nella corsia di Dean – scrive Federico Fabbri su Veloce.it – Le sue ultime parole, pronunciate poco prima dell’impatto, quando Wütherich dice a Dean di rallentare, sono: “Quel ragazzo dovrà pur fermarsi…ci vedrà![…]”.

E invece… Aveva solo 24 anni, James. Era nato a Marion l’8 febbraio 1931. Quest’anno avrebbe compiuto novant’anni e sarebbe stato un signore ormai molto avanti con l’età e una vita che chissà come sarebbe andata se non si fosse inceppata sull’acceleratore! A lui non è stato concesso di vivere oltre e di invecchiare. Non è stata concessa un’altra alba. La morte ne ha cristallizzato la leggenda e lo ha proiettato in un olimpo di stelle cadute. Precipitate a terra troppo presto. Del resto, a Dean sono bastati tre soli film girati in diciotto mesi per conquistare un posto al sole: “La valle dell’Eden” del 1955 diretto da Elia Kazan, “Gioventù bruciata” del 1955 di Nicholas Ray e “Il gigante” del 1956 di George Stevens. Tre soli film per farlo entrare nella Storia del Cinema – non un caso i riconoscimenti postumi, come le nominations agli Oscar (nel ’56 e ’57 per La Valle dell’Eden e Il gigante) – e il suo carisma per diventare un simbolo intergenerazionale. Di lui si parla ancora e si resta abbagliati a sfogliare l’album delle foto in bianco e nero come quelle con la fidanzata italiana:  Anna Maria Pierangeli.

“Pier” e “Jimmie”: un amore furente e romantico il loro. Riaffiorano le parole precise di quel ragazzo che aveva la capacità di fare rumore proprio come il motore della sua porche: “Se un uomo è in grado di colmare la distanza  tra la  vita  e la  morte, se è in grado di  vivere  anche dopo la sua  morte, allora forse è stato un grande  uomo.”

Brividi. Parole profetiche pronunciate in vita che giocano d’anticipo con la morte e un destino beffardo. Come se fosse possibile prevedere di vivere anche dopo. Una vita oltre la morte. Può accadere quando l’alba non spunta più e le lancette dell’orologio sbagliano clamorosamente l’ora degli addii. È accaduto a James ed è accaduto a Marilyn morta a soli 36 anni in circostanze mai del tutto chiarite. Era la notte del 4-5 agosto 1962. Una domenica d’estate e lei, Norma Jeane Mortenson Baker non c’era più. Evaporata nel peggiore degli incubi insieme alla diva che era diventata col nome di Marilyn Monroe. Evaporata ma mai dimenticata, anzi. Come per James, la morte così prematura ne ha – se possibile – consacrato ancor di più la leggenda. Bellezza e fragilità. Amori, matrimoni e divorzi. Celluloide e compleanni. “Happy Birthday, Mr. President” sussurrava il 19 maggio 1962 al Madison Square Garden, per festeggiare il presidente degli Stati Uniti d’America John Fitzgerald Kennedy.

Col cuore di Norma Jeane e la bellezza sfolgorante di Marilyn. E vien da pensare che c’è qualcosa di dolorosamente simile nelle albe che si arrendono alla notte. Roma, 3 febbraio 1960, alle ore 6,30 del mattino, muore in un incidente stradale Fred Buscaglione. Le cronache giornalistiche raccontano che quella mattina l’aspettavano sul set di un carosello con Anita Ekberg. Buscaglione a Cinecittà non arriverà mai. Il torinese, classe 1921 che aveva conquistato tutti con le sue canzoni e non solo, andrà via così. Aveva 38 anni. Te lo immagini col sigaro in bocca, i baffetti impertinenti e il borsalino in testa e ti vien da cantare sottovoce: “Guarda che luna, guarda che mare,/ Da questa notte senza te dovrò restare/ Folle d’amore vorrei morire/ Mentre la luna di lassù mi sta a guardare…” Sottovoce come quando riaffiora la faccia di Rino Gaetano e tu bisbigli “di aforismi perduti nel nulla…” e ripensi alla sua ultima alba. Anche lui sapeva giocare d’anticipo e ti prendeva in contropiede con i suoi testi, l’ironia, il dissenso e la poesia, la rabbia e l’irriverenza e lo sguardo. Quel suo sguardo così simile a un punto interrogativo come di chi sa quanto difficile sia guardare oltre, per restare anche dopo. Aveva 31 anni quando, nella notte del 2 giugno del 1981, perse la vita in un incidente stradale a Roma, sulla Nomentana. Una notte da schianto. E aveva solo 24 anni Luigi Meroni, detto Gigi quando morì poco dopo la fine di una partita tra il Torino, squadra in cui giocava, e la Sampdoria. Investito da un’auto, mentre attraversava corso Re Umberto, a Torino. E poi Jim Morrison, Kurt Cobain, Amy Winehouse, Jean Baptiste Basquiat…Sono davvero tante le storie delle albe che si arrendono troppo presto alla notte. Ma non all’oblio degli uomini.

·        61 anni dalla morte di Fred Buscaglione.

Da gazzettadelsud.it il 21 novembre 2021. "Guarda che luna, guarda che mare, da questa notte senza te dovrò restare...": sono passati cento anni dalla nascita (23 novembre) di Fred Buscaglione. Cantautore, polistrumentista e attore che ha fatto storia, nacque a Torino da una famiglia originaria di Graglia, un paesino ora in provincia di Biella. Era ancora adolescente quando iniziò ad esibirsi nei locali notturni della città come cantante jazz e musicista: contrabbasso, violino, pianoforte e tromba prendevano vita tra le sue giovani talentuose mani. Un giorno, durante una sua esibizione al Gran Caffè Ligure, venne notato da uno studente di giurisprudenza appassionato lettore di libri gialli, Leo Chiosso: nacque tra loro un sodalizio artistico che durò fino alla scomparsa di Fred. 

Lo "spettacolo" di Fred durante la Seconda Guerra

Durante la seconda guerra mondiale Fred venne richiamato sotto le armi e distaccato in Sardegna, dove si mise in luce organizzando spettacoli per le truppe. Venne fatto prigioniero dagli statunitensi e fu contattato dai fratelli Franco e Berto Pisano, con cui aveva formato a Cagliari il Quintetto Aster, che lavorava per la radio alleata e per Radio Sardegna, allora diretta da Jader Jacobelli. Del gruppo facevano parte anche Gianni Saiu e Carletto Bistrussu a cui in seguito si aggiunsero Giulio Libano e Sergio Valenti. Finita la guerra, Buscaglione rientrò a Torino e ricominciò a suonare prima come elemento in varie orchestre, poi fondando gli Asternovas, il suo complesso, iniziando una vita nomade fatta di spettacoli in locali notturni di varie città d’Europa. Dal 1946 con l’amico Leo Chiosso iniziò a comporre canzoni in un rapporto simbiotico. Leo annotava frasi e battute, Fred accennava sulla tastiera del pianoforte: nacquero così le canzoni che lo resero famoso: "Che bambola!", "Teresa non sparare", "Eri piccola così, "Love in Portofino", "Porfirio Villarosa", "Whisky facile" e tante altre. Il look di Fred fece il resto del successo: baffetti, doppiopetto gessato, cappello a larghe falde; un gangster americano prestato alla musica. 

Girava due o tre film contemporaneamente

Registrava spettacoli televisivi, incideva dischi e la notte cantava nei night, spostandosi a bordo di una vistosa auto americana, una Ford Thunderbird che lui chiamava "Criminalmente bella". Dopo la separazione dalla moglie inizia il periodo malinconico di Buscaglione: canzoni melodiche, talvolta scritte anche da altri autori come "Guarda che luna", "Non partir" di Giovanni D’Anzi e Alfredo Bracchi, e "Al chiar di luna porto fortuna" scritta da Carlo Alberto Rossi. Buscaglione morì improvvisamente all’alba del 3 febbraio 1960, a soli 38 anni, in un incidente d’auto mentre rientrava in hotel dopo aver trascorso la notte esibendosi in un night di via Margutta: si scontrò con un camion. Il suo ultimo film uscì postumo con il titolo "Noi duri" ed ottenne immediatamente un enorme successo, restando in programmazione per mesi. Le sue canzoni continuarono a essere ascoltate alla radio e nei juke-box, i suoi dischi continuarono ad essere acquistati: era nato un mito. Nel 2008 Fred Buscaglione è stato iscritto nel "Pantheon dello Swing Italiano" come uno degli immortali, proprio come la sua musica. 

Una discografia folta, in una breve vita

La sua discografia, nonostante la brevità della sua vita e quindi carriera, è folta. Nel 1956 incise numerosissime canzoni e in quello stesso anno uscirono i suoi primi 33 giri con l’aiuto decisivo dell’amico Gino Latilla: insistette con il direttore della Cetra, la sua casa discografica, affinché facesse incidere a Buscaglione le sue canzoni al punto di anticipare di tasca propria le spese; così nel 1955 vide la luce il primo singolo, un 78 giri che conteneva due canzoni: "Che bambola!" e "Giacomino": vendette 980.000 copie, inaspettato successo che lo portò in tante trasmissioni radiofoniche che contribuirono notevolmente alla sua crescente popolarità. Alla fine degli anni cinquanta Buscaglione era uno degli uomini di spettacolo più richiesti: in pubblicità, alla tv e persino al cinema, dapprima con brevi apparizioni canore, poi in ruoli autonomi incarnando quasi sempre la figura del simpatico spaccone. 

·        52 anni dalla morte di Rocky Marciano.

Il vero Rocky non si chiama Balboa ma Marciano. Piero Mei su Il Quotidiano del Sud il 15 febbraio 2021. Pierino Marchegiano, di Ripa Teatina, provincia di Chieti, e Pasqualina Pintuccio, di San Bartolomeo in Gallo, provincia di Benevento, si conobbero a Brockton, a sud di Boston, nel Massachussets, dove erano stati portati dai genitori, emigranti in cerca di fortuna tra quel milione di italiani che andarono “all’America”, come dicevano, agli inizi del Novecento, specie intorno al 1910. C’erano un sacco di “stranieri” a Brockton: irlandesi, italiani, lituani, polacchi, svedesi in primis. C’erano anche molte fabbriche di scarpe: Pierino, che era un uomo minuto, lavorava in una di quelle; Pasqualina, Lena per brevità, che era una donna formosa, stava a casa; il papà di lei, Luigi, che in Italia aveva fatto il maniscalco, s’industriava in mille modi. Nel retro della casa che aveva trovato, al numero 80 di Brook Street, nel cuore di quella Little Italy, ancora più piccola di Brooklyn, quella di New York che chiamavano “Broccolino”, aveva messo su una piccola distilleria clandestina. Pierino si arruolò tra i militari americani che furono mandati a combattere in Francia durante la Grande Guerra. Partecipò alla battaglia delle Argonne, il gas gli entrò nei polmoni ammalandolo per sempre. Pierino tornò, conobbe Lena, s’innamorarono: lui le regalò un anello di fidanzamento con un brillante che brillava come gli occhi neri di lei, si sposarono. Nacque un bambino che morì subito: “Paradiso Santo” pregavano le vicine di casa, vestite di nero. “Non ne avrete più” disse il dottore. La diagnosi era sbagliata: nel 1923 nacque Francesco Rocco e dopo di lui altri cinque bambini, tre femmine e due maschi fra cui Sonny. Rocco s’ammalò presto: pareva dovesse morire. Lena andò in chiesa: offrì a Sant’Antonio l’anello di fidanzamento purché gli guarisse quel bambino. Che guarì e il santo ebbe l’anello. Crescevano i piccoli Marchegiano; erano andati tutti a vivere al secondo piano di quella casa di Brook Street, dove al primo viveva nonno Luigi. Non c’erano né il bagno né l’acqua corrente né il riscaldamento: d’inverno spalancavano le porte perché entrasse un po’ del calore che facevano le due stufe di nonno Luigi. C’erano due camere da letto: in una dormivano le tre femmine, nell’altra i due genitori con il più piccolo dei figli; Rocco e l’altro fratello s’arrangiavano in una specie di salotto ma più spesso scendevano a dormire al piano di sotto da nonno Luigi. I dollari erano pochi. A Rocco sarebbe rimasto sempre questo pensiero. Quando divenne ricco e famoso come pugile si faceva sempre pagare le borse in contanti. Li contava, li nascondeva nello sciacquone del bagno in albergo, poi andava a combattere. Quella di nascondere i soldi divenne un’abitudine. Ne guadagnò a milioni (tre, dicono) ma quando morì li aveva nascosti talmente bene che nessuno riuscì ad ereditare trecentomila di quei dollari messi in uno dei tanti conti in banca che aveva aperto però non c’era chi conoscesse l’intestazione di uno. Con una parte di quei dollari Rocco aveva acquistato un anello con un diamante e lo aveva regalato a Pasqualina per sostituire quello offerto a Sant’Antonio. Ora Rocco si chiamava Rocky, Rocky Marciano, perché Marchegiano era troppo difficile per gli americani. Era un grande pugile, qualcuno dice il più grande di sempre. E infatti concluse la sua carriera imbattuto in 49 incontri, 43 volte mandando kappaò l’avversario, 20 volte prima della terza ripresa. Aveva affrontato campioni come Joe Walcott o Joe Louis difendendo sei volte il titolo mondiale dei massimi. Non era un ballerino del ring, ma aveva un destro micidiale, un colpo che lui aveva ribattezzato teneramente “Suzie-Q”. Quando “Suzie-Q” colpiva l’avversario, questi era spacciato. Una volta, combattendo sotto il nome di Tony Zullo in una di quelle esibizioni fatte per racimolare qualche spicciolo e non essere tacciato di professionismo stava per colpire senza pietà l’avversario, che si faceva chiamare Pete Puller. “Ehi, non farlo, sono io, Sonny, sono tuo fratello” fece il finto Pete e i ragazzi furono scoperti. Rocky non avrebbe voluto fare il pugile: non aveva il fisico canonico, era alto “appena” un metro e 78 e tarchiato da pesare novanta chili. Gli avversari dei massimi erano un palmo più alti. Sì, ammirava Primo Carnera, l’italiano campione del mondo che una volta era passato da Brockton: “Papà, ho visto Carnera, l’ho toccato!”. “Com’è?”: “Alto che toccherebbe il soffitto ed ha due mani grandi così” fece disegnandone nell’aria due enormi. Da soldato fu mandato in Galles con le truppe americane: mise kappaò un polacco che aveva provocato una rissa in un pub. Tornato a Brockton, insisteva con il baseball, che era la sua passione: ma lanciava così così e la corsa era lenta. Fu scartato più volte. Si “rassegnò” alla boxe che gli avrebbe dato fama e soldi. Il primo match da professionista lo vide opposto a Carmine Vingo. Altezza 1,93. Lo mise kappaò e Carmine finì in ospedale dove restò due mesi. Rocco lo assisteva tutti i giorni. Pagò tutto lui e quando Carmine si sposò gli regalò la camera da letto. Lo volle in platea a tutti i suoi incontri. Era attento al contante ma generoso. Fu lui a sostenere Joe Louis, il campione finito in miseria. Annunciò il ritiro nel 1955, quando sconfisse Archie Moore. Sotto i suoi pugni era caduto anche Roland La Starza, finito oltre le corde. Lo tentarono per un clamoroso ritorno: tre milioni di dollari per combattere contro Sonny Liston: quasi quasi… Ma aveva promesso a Barbara, sua moglie, che non avrebbe combattuto più. Adesso girava per l’America volando sul suo Cessna 172, alla cloche Glenn Bells, che faceva anche l’autista ed aveva preso 14 multe per eccesso di velocità. Il 31 agosto del 1969 Bells, nella nebbia, tentò un atterraggio di fortuna vicino all’aeroporto di Newrton, nello Iowa. Ma non ci fu fortuna: morirono Rocky, il pilota e un amico del pugile che molti ritengono il più grande di sempre. Mohammed Alì permettendo. Il suo record di 49 vittorie ha resistito 61 anni, poi Floyd Mayweather ha fatto 50.

·        51 anni dalla morte di Jimi Hendrix.

Jimi Hendrix dal vivo. La mappa degli show che ne esaltano il mito. Il chitarrista pubblicò solo tre album in studio. Ma continuano a uscire registrazioni "live". Antonio Lodetti - Mar, 30/03/2021 - su Il Giornale. Se n'è andato il 18 settembre 1970 a soli 27 anni. Troppi stravizi, troppe disillusioni anche se con la chitarra in mano era ed è sempre il numero uno. Jimi Hendrix, fonte inesauribile di energia e di ricerca per tutti i chitarristi dell'universo, è scomparso ormai da mezzo secolo ma la sua musica - e non è retorica - non invecchia. Basta ascoltare l'attacco con il wah wah scatenato di Voodoo Chile (Slight Return) per capirlo. Jimi nella sua breve vita ha inciso solo tre dischi, due pietre angolari della storia del rock come Are You Experienced? e Electric Ladyland e l'ottimo Axis: Bold As Love ma la sua produzione postuma dal vivo è ricchissima e di altissima qualità, Ora ci pensano il padre e la sorella a dispensare piccoli capolavori live, ma subito dopo la sua orte hanno cominciato a circolare dischi dal vivo. Il primo lavoro dal vivo è Band of Gipsys con la nuova formazione (Billy Cox al basso e il tonante batterista Buddy Miles) e la svolta funk soul in brani come Changes e Machine Gun, che diventerà uno dei suoi cavalli di battaglia in concerto. Band of Gypsys cattura le esibizioni del 31 dicembre e 1 gennaio 1969-'70 (allora si festeggiava il capodanno con concerti di lusso) ma comprende soltanto una manciata di canzoni di quello storico show. Il resto lo ritroviamo nel cofanetto quintuplo Songs From Groovy Children. The Fillmore East Concert una scatenata esibizione con 43 brani (nonostante questo non i concerti completi, perché all'appello mancano ancora 5 pezzi che presumibilmente la famiglia prima o poi pubblicherà). Per ascoltare un Hendrix più rock-blues e meno funky non si può mancare il nuovo Live In Maui inciso con la Experience alle Hawaii il 30 luglio 1970, energia allo stato puro un mese e mezzo prima della morte. Per comprendere il vero mito di Hendrix al di là dei suoi meriti musicali l'album più adatto è Live at Monterey. The definitive Edition. Una performance che ha segnato un'epoca. Jimi, americano di Seattle, era diventato una superstar in Inghilterra, e ora, al Festival di Monterey, doveva convincere il pubblico e l'intellighentia hippie americana. Per questo quello show fu così importante e la sua immagine inginocchiato e indemoniato mentre brucia la sua Fender sul palco fu solo la ciliegina sulla torta di una performance tirata come mai era accaduto prima. Fu Paul McCartney (di cui Hendrix eseguiva dal vivo Sgt Pepper's Lonely Hearts Club Band) dopo averlo ascoltato al Saville Theatre di Londra, a spingere gli organizzatori a portarlo sul palco lìultima delle tre serate, quella delle superstar, a contendersi il pubblico con gli osannati Who, anche loro campioni nello sfasciare la loro strumentazione alla fine dei concerti. Anche quello spettacolo al Saville Theatre ebbe il suo coupe de theatre. Jimi alla fine lanciò la sua chitarra in mezzo al pubblico, sul retro della quale aveva scritto questa poesia: «Possa questo essere amore o solo/confusione nata da sentimenti nutriti di frustrazione/Non essere in grado di dare/autentico e fisico amore/alla Regina zingara dell'universo/musica vera e libera di esprimersi/mia dolce chitarra ti prego riposa/Amen». Durante la preparazione dello show di Monterey, tutti i musicisti erano fatti di Lsd e soprattutto di una nuova droga allucinogena lanciata da Augustus Owsley (il chimico preferito dai Grateful Dead) chiamata STP o Purple Haze (non a caso Jimi le intitolò una sua canzone) ma Jimi, pur facendone largo uso, sapeva dominarne bene l'effetto e i suoi «viaggi». Il pomeriggio del concerto fu indaffarato tutto il giorno cercando una Fender da sacrificare al suo rito pagano. Aveva posto a terra quattro Fender e stava dipingendo degli svolazzi neri su una chitarra bianca e gialli su un'altra. «Pareva un sogno Navajo - disse Eric Burdon - il guerriero prima della caccia». Sappiamo tutti l'incredibile effetto visivo di quello spettacolo e chi lo volesse vedere può farlo attraverso il film Monterey Pop di Pennebaker. Nella versione più completa di 2Live at Monterey sono inclusi anche tre documentari tra cui una esibizione a Chelsform (in Gran Bretagna) del 25 febbraio 1967, la più antica esibizione di Jimi mai documentata. Si apre con una torrida versione della Johnny B. Goode di Chuck Berry l'infuocato Hendrix In the West uscito nel 1972 ma sempre attualissimo, così come la raccolta - presa da vari concerti e prodotta da Alan Douglas - The Jimi Hendrix Concerts. Sui dischi di Woodstock (il triplo e il doppio) c'è poca roba, anche se la versione dell'inno americano distorto e urlato dalla chitarra vale l'acquisto. Bisogna comprare l'intero cofanetto di 38 cd di Woodstock per avere la performance intera dell'artista. Fondamentali invece i 5 cd Live at Winterland incisi tra il 10 e il 17 ottobre 1968 con chicche come Dear Mr Fantasy dei Traffic con Buddy Miles alla batteria e ospiti come il bassista dei Jefferson Airplane Jack Casady. Sono ancora molti gli album di Hendrix dal vivo che meritano un ascolto, tra questi Miami Pop Festival uscito nel 2013 o il dvd Electric Church, tratto dal Festival di Atlanta del 4 luglio 1970 e ancora il recente West Coast Seattle boy. Fate voi la scelta. È tutta musica senza tempo e chissà che altre sorprese avrebbe potuto portarci.

·        50 anni dalla morte di Jim Morrison.

Barbara Costa per Dagospia il 9 novembre 2021. Da che pulpito, Robby Krieger!? Tu, chitarrista dei Doors, tu che hai scritto "Light My Fire", canzone culto, canzone stemma, canzone che “da sola è la più redditizia di tutte le altre canzoni scritte dai Doors messe insieme”, tu, con che coraggio ti metti a fare la paternale a Jim Morrison, e alle sue personali scelte di vita? Con che vena riempi la tua appena uscita autobiografia "Set the Night on Fire", di acidità su Jim, esternando un rancore che ti porti dentro da 50 anni?!? Gran brutta bestia, l’invidia tra uomini, se ne parla poco, se ne parla mai, ma tu fai un’eccezione: 440 pagine di ruggine repressa, riversata su questa tua versione della storia dei Doors, l’unica che ancora mancava all’appello. Hai aspettato il 50esimo della morte di Jim Morrison, 8 anni da quella di Ray Manzarek, e che John Densmore fosse messo non KO ma in ambasce dall’acufene che lo dilania, per prenderti nero su bianco la tua rivincita. Sai, Robby, è difficile da digerire il gusto con cui ricami ciò che sostieni di sapere dei fatti privati di Morrison: tu ci racconti che Jim era “un ragazzino cresciuto, e dispettoso, e capriccioso”, “che si pisciava addosso”, che “orinava regolarmente in pubblico”, e che “si è fatto crescere la barba per nascondere il doppio mento”. E che Jim a un certo punto si becca la sifilide, non se la vuole curare a imitazione di Baudelaire, e che tu, ne sei sicuro, che “Jim fosse sterile”, altrimenti come spiegarlo, che in tutti questi anni, calcolando le innumerevoli copule no condom di Jim, solo una persona abbia reclamato il test del DNA (risultato negativo) recriminando soldi e paternità? Tu, Robby, davvero pensi di persuadermi che Jim, nel famigerato concerto di Miami, quello per cui in primo grado fu condannato per il suo pisello mai mostrato, che lì Jim, prendendo in braccio quell’agnello, abbia detto “me lo sc*perei ma è troppo giovane”??? Ma c’è di peggio: c’è che tu moralizzi l’alcolismo di Jim e la sua passione per l’acido (che era anche la tua) per poi farci sapere, ma solo a p.252, che tu, per quasi 20 anni consecutivi della tua vita, e precisamente dai 30 ai 45, più successive ricadute, sei stato a farti di eroina, cocaina, e speedball. Testuale: “Con la sola eroina, di solito ti fai un paio di buchi al giorno. Con gli speedball te ne fai uno dopo l’altro, e poi un altro ancora, finché non ne hai più e esci a procurartene e te ne fai ancora, a ripetizione, per giorni interi”. E di chi sarebbe la "colpa" di una tale caduta agli inferi? Della tua depressione innescata da Jim, dalla sua morte improvvisa, che ha portato alla fine dei Doors, mutuati in un rimpianto, e nei vani “tentativi di sfuggire all’ombra del passato” (ma tu e John, con una band post Doors chiamata "Butts Band", e Butts ovvio sta per c*li, dove credevate di andare??). Dì la verità, Robby: quanto hai avuto soggezione, di Jim, in vita, e quanta Robby, ne hai tuttora? La tensione che c’era tra voi, la tensione che ti procurava l’ego di Jim, la sua cultura smisurata, la sua personalità già ben radicata, questa sì la chiave, la causa scatenante di questo tuo memoir, la molla che credo ti abbia portato a scriverlo. Non prendiamoci in giro. Non è che il tuo livore verso Jim ha, come intima radice, pure quella inserita nel capitolo "Lynn"? Tua moglie, Robby, con la quale hai condiviso decenni di droghe pesanti, con la quale hai fatto un figlio che da piccolo se l’è cavata da sé, “cibi precotti e microonde”, perché gli è toccato crescere con due genitori persi nella tossicodipendenza (“mio figlio che mi guarda con terrore mentre mi scarnifico un braccio con le pinzette per difendermi da insetti invisibili, frutto di allucinazioni”). Secondo te, Robby, la tossicodipendenza può essere ereditaria, perché così è stato nella tua famiglia: tu scrivi che tua nonna e tua madre erano schiave di pillole rosse e verdi di codeina, e che pure tuo figlio da adulto nella droga c’è cascato, poi per fortuna salvato, e non morto consumato, annegato, come tuo fratello gemello Ronny, su cui l’LSD ha scavato contraccolpi psichici, bui ricoveri in cliniche, fino a che non lo avete rinvenuto morto (“gli ho ripetuto per anni che figata fosse farsi di acido”). Ma vorrei ritornare, Ronny, su te e Lynn: si intuisce, tra le tue righe, il tuo astio verso Jim, quando sveli che Lynn, prima di mettersi con te, è stata la ragazza di Jim, non un’avventura da una botta e via e neanche un fidanzamento, e però… una storia. Alla fine Lynn ha scelto te. La tua “dolcezza, sicurezza”. OK. Ma non credi di avere esagerato a scrivere che, saputo della morte di Jim, “la mia reazione fu di sollievo, Jim aveva raggiunto il suo obiettivo…”?!? E perché a p.249 e a p.255 smentisci che Jim sia morto di eroina, ma poi a p.404 affermi che non gli hanno fatto l’autopsia “per non rivelare la presenza di eroina nel suo corpo”? È proprio vero quanto si dice: quando eravate i Doors, spesso voi tre avete fatto la guerra a Jim, alla sua anarchia, al suo 'fanc*lo gloria e successo. Poi, morto Jim, la guerra ve la siete fatta voi tre. Il tuo libro, Robby, è maniacale nel descriverla in ogni fase. E solo nel penultimo capitolo tu rendi a Ray ciò che è di Ray, e cioè che senza Manzarek (e Jim) non ci sarebbero stati i Doors, né la celebrità strameritata e imperitura, né i milioni che ci hai guadagnato e in cui meritoriamente vivi, e né il motivo per cui tu, Robby, sei Robby Krieger, e hai trovato in quella band, “parti diverse unite in un misterioso, musicale, sballato accidente”, la tua ragione di vita e spinta a scrivere questa autobiografia. E quanto male fanno, Robby, le tue ultime pagine su Ray. Non è giusto svigorire le scosse che, con il rock dei Doors, ci avete dato e tramandato. Ray ha detto le sue caz*ate, lo sappiamo, e però, era una brava persona. È grazie a lui, al suo zelante doorsiano evangelismo, che i Doors sono arrivati alle nuove generazioni, fino alla mia, e fino agli odierni Måneskin (che pure negli USA state conoscendo benissimo). È grazie a Ray che siete arrivati nei paesi dell’ex Unione Sovietica, quand’erano sotto il marcio del comunismo, e assaporavano una ipotesi di libertà, un “break on through”, coi dischi piratati dei Doors (ma questo, nel tuo libro, non ha trovato spazio). Certo non grazie a te, Robby, che, prima di questo libro, e finché Ray è stato in vita, te ne sei sempre stato in disparte, e zitto! E non certo grazie al film di Oliver Stone, su cui tu ti soffermi, e per un capitolo intero, e per lamentarti che lì “io vengo descritto come un lagnoso”. Oh, scusa tanto, Robby, se nessuno, e nemmeno la sottoscritta, nel film si accorge del tuo “fugace cameo, io passo a fianco alla band nel backstage del London Fog”, al contrario di John, che si vede e parla, all’inizio, è l’assistente di Jim/Val Kilmer che incide "An American Prayer". Ah. Leggo sul tuo profilo FB che l’8 dicembre suoni al "Whisky a Go Go". Proprio quel posto lì. E proprio il giorno del compleanno di Jim. Guarda un po’ che dannata coincidenza…

Chi era quindi davvero Jim Morrison? Alex Pietrogiacomi per “il Giornale”  il 21 luglio 2019. Ogni volta che si tenta di fare luce sulla vita delle star del rock si resta invischiati in tantissime problematiche legate alle fonti cui attingere, alle voci di corridoio o di quelle persone che non riuscivano proprio a non vedere l' oggetto delle loro testimonianze senza acrimonia o soggettività. Peggio ancora, spesso ci si trova a dover fare i conti con una stampa snob, impreparata o troppo politicizzata. Chi era quindi davvero Jim Morrison? Chi è stato nella sua vita? Chi è diventato quando è assunto a star? E in chi è stato trasformato dopo la sua morte a Parigi? Sono domande cui risponde Frank Lisciandro (che è stato regista insieme a Morrison del film HWY e ha effettuato le riprese di Feasts of Friends) con il suo libro Una conversazione tra amici, testo di cui da qualche anno si parlava nell' ambiente editoriale e musicale e che finalmente arriva in Italia per i tipi di Giulio Perrone Editore. Che cosa si trova tra queste pagine? Molto schiettamente lo dichiara nell' incipit lo stesso Lisciandro: «Questo libro affronta e spazza via i miti per fare luce su un uomo straordinario e su un artista creativo di talento. In queste pagine, Jim viene rivelato candidamente da persone che lo hanno conosciuto, che ne sono state compagni, colleghi, mentori e amanti. Troverete storie buffe, segreti rivelati e verità più sorprendenti di qualsiasi distorsione fatta circolare durante e dopo la vita di Jim. Il risultato è una interpretazione più dettagliata, un ritratto più umano e accurato». Ma oltre a essere un' interpretazione più dettagliata, un ritratto più umano, ciò che si legge di Morrison appare come un mosaico aperto, dove il lettore può aggiungere le proprie considerazioni. Il lavoro dell' autore è stato certosino e appassionato, avulso da qualsiasi sistema di protezione dell' amico scomparso (pur dichiarando di volerlo «rivalutare») e si è appoggiato sui suoi amici - che non lesinano comunque momenti abrasivi nelle loro memorie - e sulle persone della sua cerchia: «Una a una, iniziai a contattarle e a incontrarle, nella speranza di poter ricavare dalle nostre conversazioni nuove informazioni e notizie inedite. Molte di quelle persone non erano mai state intervistate e alcune erano piuttosto riluttanti. Potevo però contare sul fatto che tutti sapevano che io e Jim avevamo collaborato e che mi considerava un amico intimo. L' unica condizione a cui dovevano attenersi era che raccontassero soltanto ciò che avevano visto con i propri occhi. Così, sarebbe stata chiara e inconfutabile la fonte. Non volevo diffondere storie poco credibili, dalle origini discutibili o inaffidabili. Con pazienza e generosità, gli amici di Jim mi resero partecipe dei loro ricordi...». Da questi incontri ne esce un libro che mette in gioco il «Re Lucertola», lo allontana da qualsiasi speculazione postuma o proiezione critica/personale, ne mette in luce aspetti impensabili per molti ascoltatori, lati come la sua profonda ironia, che da ragazzo esplodeva in scherzi telefonici o finte morti tra i corridoi scolastici. Soprattutto risalta, durante questa conversazione, la grafomania di Morrison, che lo portava a scrivere di continuo, che lo possedeva nella poesia e nell' idea - forse inconsapevole, forse no - di poter diventare un poeta, sulle tracce di Whitman e dei poeti beatnik, soprattutto (pur ridendone a mo' di scherno dei poeti), ma con una personale linea di fuga simbolica che gli apparteneva per Dna, con la creazione di una nuova mitologia, di una spiritualità, se così vogliamo definirla, che prendeva spunto anche dalle sue letture fondamentali, come Hermann Hesse (Il pellegrinaggio in Oriente) oppure Sándor Ferenczi (il saggio Schermo del sogno). Si esce da questo libro con un senso di leggerezza e spaesamento, con il retrogusto di un' inconsolabile mancanza tipica dell' occasione perduta, quella di non aver compreso o conosciuto un uomo che aveva deciso di intraprendere la fenomenica del rock' n'roll, pur non rinunciando a una sua laica spiritualità capace di affascinare e magnetizzare chi lo incontrava, anche da sotto un palco. Un uomo mosso da una straordinaria passione per la vita e l' arte che viene sintetizzata in una sua frase: «Abbiamo tutta questa roba da fare».

Sciamano e istrione. Jim Morrison parola per parola. Alessandro Gnocchi il 15 Agosto 2021 su Il Giornale. Raccolti in un unico volume tutti gli scritti del cantante dei Doors: una sorpresa dopo l'altra. Sciamano e ubriacone, istrione e pagliaccio, genio e scrittore-regista-sceneggiatore dilettante, grande cantante per caso, maledetto di prima o seconda mano, leggenda un po' dimenticata... Chi era Jim Morrison? Convinto di essere posseduto dallo spirito di un indiano morente incrociato sul ciglio della strada, da bambino, durante un viaggio in macchina con i genitori, James Morrison, figlio di un pezzo grosso della marina americana, è tutto nelle pagine The Collected Works of Jim Morrison: Poetry, Journals, Transcripts, and Lyrics (Harper, pagg. 432, euro 42,27), il più grande, nel senso di mastodontico, omaggio a cinquant'anni dalla morte (1943-1971). Per la prima volta, sono riunite tutte le carte superstiti di Morrison, un vero grafomane. Poesie, canzoni, poemetti, sceneggiature, racconti e raccontini. Al gigantesco libro, ricco di fotografie e riproduzioni di autografi, si aggiunge un mini-box di sei cd in cui star della musica e della letteratura leggono gli scritti di Morrison. L'immagine da perenne sballato, divulgata dal pur bel film di Oliver Stone, The Doors, con Val Kilmer nei panni di Jim, crolla subito. Forse le parole di Morrison non rendono molto sulla carta, ma interpretate da lui, o da gente come Patti Smith, assumono subito fascino. Semplicemente sono fatte per essere ascoltate e possiamo immaginare Morrison che le compone ad alta voce. Le perle sono la perturbante prosa lirica di The Eye, l'occhio, una per niente scontata riflessione su cosa significa «vedere», il soggetto cinematografico di The Hitcher, l'autostoppista, un noir violentissimo dal retrogusto metafisico, e alcuni versi sparsi. Questi ultimi, prima autopubblicati e solo in seguito al successo venduti a una casa editrice, hanno avuto una influenza tutta da esplorare su emuli e ammiratori di Morrison. Ian Curtis dei Joy Division ne ha fatto tesoro in più di un brano. Iggy Pop ne ha tratto l'ispirazione per il suo maggior successo, The Passenger. Difficile pensare che Jim, benché famoso per i suoi eccessi, abbia potuto mettere assieme una tale mole di scritti in perpetua sbornia o con la testa smarrita nelle fantasie da acido lisergico. Jim Morrison non pensava di cambiare la storia della musica rock. Leggeva Arthur Rimbaud e William Blake: a proposito, il nome della band, The Doors, Le Porte, non viene, come molti pensano, dal saggio di Aldous Huxley, Le porte della percezione, ma da un passo appunto di William Blake, da cui lo stesso Huxley aveva tratto spunto: «Se le porte della percezione fossero purificate, ogni cosa apparirebbe all'uomo com'è: infinita». Una carriera da scrittore sembrava poco plausibile. Morrison allora prova con il cinema, ama Godard e la Nouvelle Vague: respinto con perdite. Le cose all'università della California di Los Angeles non promettono bene. Però durante una lezione conosce Ray Manzarek, brillante pianista, giovane ma già veterano della scena musicale cittadina. Manzarek prova con il batterista John Desmore e il chitarrista (e paroliere, Light My Fire non è di Jim Morrison) Robbie Krieger. Il nuovo amico, Jim, è invitato a cantare. Funziona subito. Dopo pochi concerti, il boss della Elektra Records compare nei camerini con una immediata proposta di contratto. Le prime prove dei Doors risalgono alla fine del 1965. Il 15 agosto 1966 sono accasati all'Elektra. Il 21 agosto sono licenziati dal mitico locale Whisky a Go Go per colpa del testo edipico di The End. Il 26 agosto entrano in sala d'incisione. Ne escono sei giorni dopo con i nastri dell'omonimo debutto, un capolavoro che esce il 4 gennaio 1967 e vola al secondo posto (al primo ci sono i Beatles di Sgt. Pepper Lonely Hearts Club Band). Qualche giorno dopo, il singolo Light My Fire va in cima alla classifica e ci resta a lungo. I Doors sono stelle a tutti gli effetti, in pochissimo tempo. La partecipazione all'Ed Sullivan Show, celebre programma televisivo, è uno scandalo per gli accenni allo sballo da acido. I concerti registrano incidenti a New Haven, Jim Morrison è arrestato sul palco (indecenza e oscenità) e pestato a sangue nel retro. I Doors si esibiscono con la polizia accanto. Due anni dopo, a Miami, nuove accuse, ancora oscenità, processo e libertà su cauzione. Nelle 430 foto scattate quella sera, nessuna mostra Morrison in atteggiamenti volgari. Il cantante comunque beve troppo, ingrassa visibilmente, il secondo album Strange Days va benissimo, il terzo e il quarto iniziano a mostrare qualche crepa. Poi il ritorno di forma con Morrison Hotel e soprattutto L.A. Woman. Quest'ultimo rimarrà imprevedibilmente il canto del cigno, Morrison muore a Parigi (3 luglio 1971) nella vasca da bagno. Arresto cardiaco, ma non viene effettuata alcuna autopsia. Il cadavere l'hanno visto in due, fidanzata e dottore: nasce la delirante ipotesi che Jim sia vivo e abbia inscenato la sua fine per uscire dallo show business. In fondo, Jim Morrison è riuscito a diventare ciò che le sue opere volevano creare: nuovi miti. Sulle spoglie dei miti del passato senza ignorare gli orrori del presente. Così troviamo lo sciamano, il tramite con gli dei che guarisce l'intera tribù, ma anche le divinità azteche e il serpente biblico; l'esortazione a recuperare la spiritualità, in qualunque forma; l'attesa di un messaggero divino; il deragliamento dei sensi di Rimbaud; la bomba atomica; la guerra in Vietnam. È l'America degli hippies e del movimento studentesco, delle droghe lisergiche e di Wooodstock. Ma anche l'America dove vengono assassinati uno dopo l'altro JF Kennedy (1963), suo fratello Bob (1968) e Martin Luther King (1968). Per sé, Morrison ritaglia il ruolo di profeta, con un filo di ironia ma neanche troppa: «Io sono una guida al labirinto». Consapevole del suo ascendente sul pubblico, Morrison si interroga sul Potere, in particolare quello della Parola. Proprio Parola, Potere e Trance sono le chiavi per aprire la porta su Jim Morrison. Morrison è considerato un poeta dilettante. Può darsi ma il suo mondo è affascinante e ricorda da vicino, in piccolo, quello dello scrittore William Burroughs, l'autore del Pasto nudo e La macchina morbida. Alla fine potrebbe aver ragione Jim Morrison quando, in una poesia, spiega il motivo per cui gradisce l'alcol in dosi abbondanti: «Essere ubriachi è un buon travestimento. / Io bevo così / posso parlare con le teste di cazzo. / Me incluso». Alessandro Gnocchi

Jim Morrison, la forza del desiderio impossibile da dimenticare. Ernesto Assante su La Repubblica il 3 luglio 2021. A cinquant'anni dalla morte, l'artista resta un'icona viva anche tra le nuove generazioni. Un tempo nelle camerette dei giovani rocker degli anni Settanta erano molti i poster che erano appesi alle pareti, tante band, tanti solisti, tante star. Ora magari ci sono ancora molti poster, ma i volti sono cambiati. Solo alcune delle icone di cinquanta anni fa riescono a resistere nel tempo, di certo John Lennon con la sua maglietta con scritto New York, Che Guevara con il suo basco. E anche Jim Morrison, perennemente fermo nella sua foto più celebre, a torso nudo, con una collanina al collo, i capelli arruffati e scomposti, che guarda dritto in camera come se avesse appena pronunciato la celebre frase di When the music’s over, quella in cui esprime il desiderio definitivo: “vogliamo il mondo e lo vogliamo adesso”. Sì, Morrison è sopravvissuto alla polvere che irrimediabilmente si è posata sull’immagine di Jimi Hendrix, che ha reso opaca quella di Janis Joplin, lontanissime nell’immaginario giovanile di oggi. Morrison, invece, un piccolo spazio lo conserva, costante e solido, magari secondario, non in prima linea con i miti di oggi, ma sufficiente per arrivare fino a noi. C’è un motivo specifico per questa ‘sopravvivenza’, per la presenza di Morrison nel pantheon dei miti correnti: il cantante dei Doors incarna il desiderio, ne è la rappresentazione fisica e spirituale, perché le sue canzoni, la sua voce, la sua immagine nelle fotografie e nei video, sono ancora la potente esternazione della forza del desiderio. Era così negli anni Sessanta, quando i Doors arrivarono sulle scene, e Morrison cambiò le regole del gioco del rock: il desiderio era carnale, fisico, sensuale, quello cantato in Light my fire, ma era anche poetico, visionario, quello di Celebration of the lizard o di The end, il desiderio era tra le righe delle sue poesie, tra le note delle sue canzoni, tra le pieghe dei suoi vestiti, nei suoi gesti, nei suoi sguardi. Era in Love me two times e in Back door man, era gioioso in Hello I love you e cupo in Riders on the storm. E tutto è ancora li, nelle fotografie e nei video, nelle canzoni che ancora si ascoltano nelle radio e nelle piattaforme di streaming, è impossibile non ascoltarlo, non sentirlo, non vederlo, è impossibile non riconoscerlo. I Doors erano il desiderio trasformato in musica, ogni nota, ogni tocco della tastiera di Ray Manzarek, ogni accordo della chitarra di Robbie Krieger, ogni colpo della batteria di John Densmore, si fondevano perfettamente con la voce e i gesti di Morrison, in una rappresentazione unica del desiderio. Desiderio di amore, di libertà, desiderio di andare oltre i limiti dell’emozione, della percezione, desiderio di cambiamento e di rivoluzione, desiderio di sesso, respiro, passione, desiderio di vita, sempre e comunque. E quelle canzoni, non a caso, sono nelle colonne sonore dei film, girano nei video di YouTube, sono nelle piattaforme di streaming ancora oggi, costantemente, sfuggendo ad ogni possibile rischio di essere dimenticate. Morrison esiste, il suo mito resiste, perché la cometa del desiderio vola ancora alta nei nostri cieli, perché vivere senza desiderio è impossibile, e perché desiderare l’impossibile è ancora bello.

Leonardo Martinelli per "la Stampa" il 2 luglio 2021. «Jim Morrison did not die here». Su un foglio bianco, affisso alla facciata di un antico edificio del Marais, al 17 di rue Beautreillis, ecco quelle parole: «Jim Morrison non è morto qui». Il corpo inerme del cantante dei Doors fu ritrovato al terzo piano, nella vasca da bagno di un appartamento, dove viveva. Era arrivato a Parigi appena tre mesi prima. Ma secondo una leggenda metropolitana, il poeta maledetto del rock spirò per una overdose di eroina nei bagni del Rock' n'Roll Circus, un club dove si ascoltava musica e si ballava, al di là della Senna, sulla Rive Gauche. Approdo di intellettuali, hippies, piccoli e grandi delinquenti, star come Mick Jagger, borghesi parigini. Quale sarà la verità? Davvero poterono trasportarlo nella notte, già morto, all' appartamento del Marais da quel locale? Per evitare lo scandalo? Chissà, forse la verità non si conoscerà mai. Era il 3 luglio 1971, esattamente 50 anni fa. Invece si sa dove venne tumulato quattro giorni dopo. Sulla sua tomba al cimitero del Père-Lachaise, meta di pellegrinaggio, si lasciano bottiglie di alcolici vuote o altri generi di offerte Piccola, anonima, non facile da trovare, neppure con la geolocalizzazione. Ma domani si riempirà di fans, giovani e vecchi, a ricordare quell'uomo instabile e geniale, fragile e irrequieto. Cosa ci faceva Jim a Parigi? Voleva mettersi l'America alle spalle e dedicarsi a tempo pieno alla scrittura, la sua vera passione. Nella città era già arrivata la fidanzata Pamela Courson, eroinomane (mentre lui era soprattutto dipendente dall' alcool: d' un fiato poteva bere una cinquantina di bicchierini di whiskyl). Lei si era piazzata all' hotel George V, dove all' epoca alloggiavano anche i Beatles o i Rolling Stones. Ma a Morrison quel posto non piaceva per nulla, «lo definiva un "bordello dai tappeti rossi". E odiava gli Champs-Elysées», ha ricordato al Figaro Patrick Coutin, ex giornalista, musicista e paroliere, che gli ha appena consacrato un libro. Pamela aveva conosciuto Elizabeth Larivière, una mannequin molto in voga allora, nota come Zozo. Fu lei a subaffittare a Jim l'appartamento al Marais. Da lì andava alla vicina Place des Vosges. Sedeva sulla panchina al centro. Scrutava, malinconico, i bambini giocare. Poi camminava per Parigi, figura anonima e sfuggente. Approdava alla Rive Gauche. Si fermava alla Shakespeare & Co., la libreria di testi in inglese, dove finalmente trovava qualcuno con cui discutere di letteratura, spesso Rimbaud, Baudelaire e Mallarmé, i suoi poeti preferiti. Che davano un senso alle notti senza pace. «Non parlava neanche una parola di francese - sottolinea Coutin -. Di sicuro quei tre mesi furono caratterizzati da una grande solitudine». Con Pamela i rapporti erano burrascosi. Lei, certe volte, si prostituiva, per tirare su i soldi necessari per comprare la droga. Non li chiedeva a Jim, non voleva sapesse fino a che punto dipendesse dall' eroina. Morrison la sera andava al Rock' n'Roll Circus, per cambiare aria. Si spense lì, chiuso in quelle squallide toilettes? «Poco importa dove sia morto - osserva Coutin -. Aveva trascorso tanto tempo con l'idea della morte, era presente fin dalle sue prime canzoni. Considerava il passaggio in un altro mondo come una liberazione». Se ne andò a 27 anni. Ma non era più il dio di un tempo, dalla bellezza sfacciata. Prese vari chili a Parigi, stava male fisicamente. Camminava anche attraverso il Père-Lachaise, alla scoperta delle tombe dei suoi beniamini. Gli piaceva quella di Oscar Wilde. Il 7 giugno, quando lo tumularono, c'era un pugno di persone, tra cui la regista Agnès Varda, sua amica. La notte del 3 luglio era corsa all' appartamento del Marais. Aveva chiamato i pompieri, perché lo salvassero. Ma non c' era stato niente da fare. Jim veniva da una famiglia cattolica (il padre, un ufficiale dell'Us Navy, non lo aveva mai capito), ma lui era piuttosto anticlericale. Nel suo ultimo diario, però, si sono ritrovate le parole: «God help me». Sembra che in quel girovagare solitario a piedi per Parigi, entrasse nelle chiese. E ogni volta accendesse una candela.

50 anni fa la scomparsa del leader dei The Doors. Jim Morrison, il moderno Dioniso nell’Olimpo degli dei. Cesare Catà su Il Riformista il 4 Luglio 2021. Forse non basta tornare con la mente al 1967 – anno d’oro della scena rock che vede l’uscita dell’album d’esordio dei The Doors – per capire i connotati culturali e l’impatto psicosociale della figura di Jim Morrison. Bisogna andare molto più lontano: all’origine della nostra civiltà, in mezzo ai miti della cultura ellenica classica. Sì, perché quello che è accaduto con Jim D. Morrison e le sue performance, tra la metà degli anni Sessanta e la sua sparizione nel nel 1971, credo rappresenti fondamentalmente il ritorno di un archetipo ben preciso, essenziale nella cultura occidentale. Mi riferisco all’archetipo del dio Dioniso e al correlato fenomeno che studiosi come Kereny e Dodds hanno definito “Menadismo”, ossia una sorta di pazzia di massa che portava soggetti apparentemente normali a lasciare le proprie dimore per seguire in un corteo danzante e delirante, detto tiaso, la voce del dio tra le montagne. Con le sue composizioni, con le sue esibizioni live e con i suoi versi poetici, Morrison ha suscitato una sorta di follia purificatrice collettiva, violenta e sublime, stupenda e tremenda, non molto diversa dal Menadismo dionisiaco. Più che concerti, le esibizioni pubbliche dei The Doors furono degli spettacoli rituali in cui i partecipanti potevano sperimentare quella “uscita da sé stessi” che gli antichi chiamavano ek-stasi. Espandendosi dagli eventi dal vivo nelle sue composizioni poetico-musicali, questa potenza numinosa, meravigliosa e terribile, resta nella voce di Morrison come essenza e scaturigine del suo successo, anche commerciale, a quarant’anni di distanza dalla sua scomparsa. La musica dei The Doors possiede in ultima analisi la capacità di nutrire la sete rivoltosa di follia che (ancora) percepiamo come esseri umani; risponde al bisogno di evadere dalle norme sociali precostituite, dai limiti dell’esistenza ordinaria e finanche dai confini della nostra identità soggettiva e del nostro corpo materiale. Si tratta esattamente di ciò che, nel momento aurorale della nostra società, si era incarnato nel mito di Dioniso. Per questo credo che sia utile pensare Morrison, anzitutto, come una versione post-moderna, rock-blues e psichedelica dell’archetipo del dio che i Greci invocavano come Zagreo o come Bromio, quel figlio di Zeus e Semele che venne al mondo incubato nella coscia di suo padre, sua madre essendo stata incenerita mentre lo portava ancora nel grembo per aver preteso di vedere la folgorante luce del proprio amante divino. Prima di diventare Dioniso, nel 1964 James Douglas Morrison era un ventenne inquieto, taciturno e timido. Originario della Florida, l’infanzia l’aveva passata girovagando in molte zone degli States seguendo il destino professionale di suo padre George, Comandante di Marina. Il Signor Morrison guardava quel figlio e scuoteva la testa, preoccupato per il suo futuro. In effetti James, fino a quel momento, non ha combinato granché, se non guai: studente mediocre, nel 1961 aveva disertato la cerimonia di consegna dei diplomi (momento sacro per la società statunitense), si era fatto licenziare nei lavori stagionali che il padre gli aveva procurato e addirittura, nella primavera del ‘63, si era fatto arrestare per ubriachezza molesta dalla polizia locale di Tallahallasee. Forse le sue ore più prolifiche e belle questo ragazzo scapestrato le aveva vissute quando la famiglia s’era trasferita ad Alameda, poche miglia lontano dal centro di San Francisco; qui il giovane aveva preso a frequentare alcuni locali, tra cui la mitica libreria City Light Books, in cui, tra una sbronza e l’altra, era possibile incontrare i più interessanti rappresentanti della scena beatnik, nel pieno del fermento della controcultura americana di quegli anni. Probabilmente è in questo momento che comincia a formarsi, in una sorta di iniziazione autodidattica, la ricca personalità intellettuale del futuro front-man dei The Doors. Il padre doveva aver perso già da un pezzo le speranze di vedere suo figlio seguire le proprie orme in Marina quando James, che ormai si fa chiamare Jim, si iscrive alla Facoltà di Cinematografia della Ucla. Anche in questo caso sarà un fiasco, e l’Università non la finirà mai; però in compenso, sulla spiaggia di Venice Beach – che in quel periodo doveva essere un crogiolo di artisti, poeti, musicisti e girovaghi in cerca dell’armonia cosmica –, fa un incontro che cambierà il suo destino e il destino della musica e della cultura del Novecento: Ray Manzarek. È un tastierista geniale, un musicista come ne esistono pochi: coltissimo, nonché capace di suonare il basso con la mano sinistra e con la destra la parte melodica, mescolando la classica al gusto psichedelico; con lui e con il batterista John Densmore e il chitarrista Robbie Krieger fondano un gruppo di rock-blues alternativo che decidono, ispirati da una riflessione di Huxley su William Blake, di chiamare The Doors. La loro idea è musicare le poesie che Jim ha scritto fino a quel momento, e che nessuno prima di Manzarek aveva mai letto, per farne dei pezzi musicali originali. Sono esaltatissimi. È la tarda primavera del 1965 e Jim, Ray, John, e Robbie si sentono ispirati dalla magia che sembra vibrare nel cielo di Los Angeles in quei giorni, forse i migliori della storia per avere vent’anni e alimentare i propri sogni. C’è solo un’incognita che osta: Jim, fino a quel giorno, non ha mai cantato in vita sua. Ma è proprio qui che avviene il miracolo. La metamorfosi del ragazzo della Florida senz’arte né parte nel Dio greco dell’estasi e dell’ebbrezza. Non appena comincia a modulare la sua voce calda e profonda nel microfono, corretto all’inizio musicalmente da Manzarek per le intonazioni, Jim rivela qualcosa che evidentemente covava da sempre dentro lui: è un cantante – per meglio dire: un cantore – magnifico. È il suo destino. È la reincarnazione americana di un antico aedo ellenico, di un trobadore medievale: canta con una potenza comunicativa impressionante i propri versi creando una magia che non si spiega. Jim Morrison non è una rock-star che intona canzoni: è un poeta che fa dei propri versi storie teatrali musicali. L’alchimia dei tre musicisti eccezionali attorno a lui completa la meraviglia e nasce, così, la band le cui performance segneranno un’epoca creando sempre maggiori problemi di ordine pubblico, la cui musica passerà alla storia. Per capire come e perché le capacità performative, poetiche e canore di Jim Morrison poterono attivare nella nostra epoca le stesse pulsioni originarie che in Grecia erano destate da Dioniso, occorrerebbe guardare attentamente alle sue radici culturali di scrittore. Radici complesse, nelle quali si mescolano una rilettura di Nietzsche in chiave di liberazione dei costumi sessuali e sociali, la lezione simbolista e ribelle di Rimbaud e Baudelaire del poeta come profeta-vagabondo, la visionarietà e l’ansia autodistruttrice di Dylan Thomas, l’erranza be-bop della Beat Generation, nonché una visione del teatro come contagio e come scandalo, conformemente alle teorie di Antonin Artaud e alle esperienze del Living Theater di Julian Beck e Judith Malina. Queste influenze eterodosse confluiscono in Morrison, che vive nella propria carne, fino alle estreme conseguenze, un impeto di delirio catartico divenendone paradigma vivente (e morente). Certo era il tempo giusto. Non perché Morrison sia un frutto della cultura hippie, perché appunto credo non lo sia e che la questione, come sopra ho accennato, sia più complessa; ma in quanto in tale cultura il personaggio di Morrison ebbe modo di fiorire e sbocciare. Solo in quell’epoca di rivolta e libertà Dioniso poteva rinascere. Ovviamente, il fatto che sia scomparso in un’età così giovane, come se fosse il figlio più caro agli Dei, vinto dall’alcool, dalla pazzia e dalla vita, ha definitivamente consacrato la sua leggenda. Ho detto “scomparso”, non “morto”: giacché, com’è noto, le circostanze della fine di Jim Morrison non furono mai chiarite del tutto. La versione ufficiale asserisce che gli eccessi etilici gli bloccarono il cuore in piena notte mentre era nella vasca da bagno dell’albergo al centro di Parigi in cui s’era rifugiato con la sua “compagna cosmica”, Pam Carson, per sfuggire al mondo e ai tribunali; ma in molti sostengono di averlo visto morire per overdose in un bagno del Rock-and-Roll Circus, locale di tendenza della Parigi anni Sessanta; altri affermano che svenne, sfinito, dopo una corsa folle tra i tetti della capitale francese, battendo la tempia contro una grondaia; altri ancora dicono che abbia volontariamente messo fine ai suoi giorni. C’è anche chi pensa, e non sono pochi, che quel 3 di luglio di quarant’anni fa Jim Morrison non sia morto affatto: avrebbe solo inscenato la sua dipartita terrena, per lasciarsi tutto alle spalle e andare a vivere sotto mentite spoglie nell’isola hawaiiana di Maui, dove starebbe ancora. Non so quale tra queste teorie sia meno assurda. A me piace pensare che in realtà quella notte Jim si addormentò ubriaco per un vicolo di Parigi e Zeus, vendendolo, riconobbe suo figlio e se lo legò nuovamente nella coscia, in attesa di farlo rinascere ancora. Cesare Catà

Il ricordo di un mito. Chi era Jim Morrison, il più maledetto protagonista della scena rock mondiale. David Romoli su Il Riformista il 3 Luglio 2021. James Douglas Morrison, “Our Leather Lamb”, il nostro agnello di cuoio, come lo definì Patti Smith, il musicista convinto che nella sua anima si fosse trasferita quella dello Sciamano pellerossa che aveva visto morire da bambino sull’autostrada. Jim Morrison nudo sul palco, nel mirino da quel momento di tutta la polizia d’America. In equilibrio sul cornicione, ubriaco, sospeso nel vuoto: un gioco suicida che faceva spesso e che terrorizzò l’amante Nico, una che pure quanto a follia non scherzava. Nel luglio 1971 la morte di Morrison a Parigi segnò l’avvio del semestre più tragico nella storia del rock’n’roll. Meno di due mesi dopo sarebbe toccata a Jimi Hendrix, anche lui per droga, poi in ottobre a Duane Allman, incidente in motocicletta: i due migliori chitarristi d’America falciati in poco più di un mese. C’era già stata la scomparsa di Janis Joplin, nell’ottobre del ‘70, e negli anni seguenti sarebbero stati uccisi dall’alcol o dalla droga PigPen dei Grateful Dead, Gram Parsons, Mama Cass e in motocicletta, nello stesso punto dove si era schiantato un anno prima Duane, sarebbe morto nel ‘72 Berry Oakley, bassista della Allman Bros Band. Una strage. La sanguinosa vendetta di quel lato oscuro e della controcultura a cui nessuno aveva dato voce più di Jim Morrison e dei Doors. La band era nata sulla spiaggia di Venice, con due studenti appena usciti dall’Ucla e innamorati di cinema che s’incontrano per caso all’alba di fronte all’oceano: Jim Morrison e il futuro organista dei Doors Ray Manzarek. Volevano fare i registi, parlarono di cinema ma anche di musica. Manzarek aveva già una sua band. Morrison, scriveva poesie e testi di canzoni. Da quell’incontro invece di un film nacque una rock band che era una sfida sin dalla formazione: quattro elementi ma niente basso e quando mai si è ascoltata una rock’n’roll band priva di basso? Il primo disco dei Doors, inciso nel 1966, uscì nel gennaio successivo: dunque nel 1967, l’anno chiave di quell’epoca, quello dell’“Estate dell’amore”. Frotte di adolescenti si riversavano nella Haight-Ashbury di San Francisco, il cuore della controcultura hippie, immaginando di poter costruire in poche settimane un mondo nuovo. “If You’re Going to San Francisco Be Sure to Wear Some Flowers in Your Hair”: lo cantavano in tutta la California, in tutti gli States, in tutto l’Occidente. Al festival di Monterey e qualche giorno prima al Fantasy Fair and Magic Mountain Music Festival di Marin County, battesimo della Summer of Love, emergeva quella che due anni dopo si sarebbe identificata addirittura come una nuova nazione, senza radici e senza confini, la Woodstock Nation. I Doors erano parte di quel movimento. Suonavano nei locali di LA già da un anno e mezzo ma l’esordio di massa fu proprio al Festival di Marin County. In primavera avevano tenuto una serie concerti al Matrix, cuore della musica hippie di San Francisco. Ma i Doors non furono mai davvero e del tutto omogenei alla controcultura. Non ne condividevano l’ingenuità, la solarità posticcia, la superficialità facilona. La loro musica e gli spettacoli che il cantante-sciamano metteva in scena scivolando quasi in un orgiastico stato di trance erano più inquietanti, più ombrosi. Nessuno più esplicitamente di Morrison esprimeva la sessualità sfacciata e oltraggiosa del rock’n’roll, ma senza mai ridurla ai miti dell’epoca sulla naturalezza spontanea del sesso libero e liberato. Il verso di The end, censurato nel disco ma cantato senza omissioni “Father, I Want to Kill You, Mother, I Want to Fuck You”, Papà voglio ammazzarti, mamma voglio scoparti, sarebbe stato impensabile anche per le più complesse e meno infantili tra le band floreali della California hippie. In quel 1967 i Rolling Stones, alla cui musica i Doors si erano ispirati, cantavano Let’s Spend the Night Together ed era già quasi inaudito: passiamo insieme la notte. Nell’interpretazione di Morrison l’hit che lanciò i Doors negli stessi mesi, Light My Fire, faceva sembrare gli Stones liceali pruriginosi. Nel rock di quell’epoca l’oltraggiosità era un requisito d’ordinanza. Non significa che non fosse sincera ma era pur sempre mediata e adeguata alle esigenze del mercato. Era accettabile. Non quella dei Doors, non quella di Jim Morrison. La sua era una provocazione portata agli estremi, una sfida che metteva nel conto l’eventualità dell’autodistruzione anche prima dell’overdose di Parigi ma la trasformava in erotismo e rivolta. «Elvis ha liberato i nostri corpi. Dylan le nostre menti»: la citazione di Bruce Springsteen è nota. Jim Morrison è stato forse l’unico a coniugare i due messaggi. L’uso del corpo sul palco portava a compimento la rivoluzione iniziata dal bacino rotante di Elvis, rendeva tanto esplicito il contenuto sessuale della sua musica da rendere quasi necessaria quella provocazione che gli costò moltissimo, lo spogliarsi sul palco. Ma allo stesso tempo i testi complessi, ermetici, spesso torbidi stravolgevano il senso di quella sensualità ostentata, la spogliavano di ogni innocenza. Aprivano la strada alla musica e alla cultura dei decenni successivi. Forse il segreto della longevità di Morrison, della sua popolarità che sfida il tempo e le tendenze dipende proprio da questo: dall’essere stato insieme l’icona del suo tempo ma anche del superamento di quell’epoca dorata. David Romoli

Robby Krieger "Caro Jim, il tuo fuoco resta acceso". Luca Valtorta per “Robinson - la Repubblica” il 3 luglio 2021.  "Sai cosa dobbiamo fare?" disse Jim al suo amico Sam, che era venuto a trovarlo a Los Angeles dove frequentava la Ucla, la facoltà di cinema da cui sarebbero venuti fuori attori come James Dean, Jayne Mansfield, James Franco, Jack Black e registi come Paul Schrader e Francis Ford Coppola. "No, cosa?" rispose Sam. "Dobbiamo creare un gruppo rock". "Merda, sono anni che non suono la batteria! E tu cosa faresti?". "Io farei il cantante". "Sai cantare?". "Cazzo, non so cantare?". "E come chiameremo il gruppo?". "The Doors. C' è quello che si conosce e quello che non si conosce. E c' è una porta che separa le due cose. E io voglio essere quella porta. Ahhh wanna be th' doooorrrr". Le porte della percezione di Aldous Huxley rivedute e corrette da Jim Morrison. Qualche tempo dopo Sam è tornato a casa ma sulla spiaggia di Venice, Jim, che vive sul tetto di un condominio, prende Lsd quasi tutti i giorni e scrive poesie, incontra per caso il compagno di scuola Ray Manzarek. È seduto sulla sabbia. "Ho scritto qualche canzone". "Fammela sentire", risponde Ray. "Non ho una gran voce" dice Jim, e intona quella che sarebbe diventata Moonlight Drive. "Non ho mai sentito testi più belli. Facciamo una band e tiriamo su un milione di dollari". "Precisamente. Ma il milione di dollari non è così importante". Qualche tempo dopo Ray chiese a John Densmore, che aveva conosciuto a un corso di meditazione trascendentale, se voleva suonare la batteria con loro. John portò con sé al primo appuntamento il suo amico Robby Krieger, che suonava la chitarra. Erano i Doors. Con i provini delle prime canzoni fecero il giro delle case discografiche: nessuno li voleva. Cinquant' anni fa, il 3 luglio 1971, Jim Morrison moriva di overdose in una vasca da bagno. Ma l'eco della musica dei Doors non si è mai spento. Tanto che quest' anno cade anche il 50esimo anniversario di L.A. Woman, l'ultimo album in studio con Jim Morrison uscito il 19 aprile del 1971 e che verrà ripubblicato in autunno con varie versioni delle canzoni mai ascoltate prima e altro materiale. Robby Krieger, chitarrista dei Doors, è un elemento di particolare rilievo della band perché è autore anche di alcuni tra i testi più importanti, tra cui il più grande successo realizzato dalla band, Light My Fire.

Come è nato "L.A. Woman?". So che era un periodo molto difficile per voi.

«Beh sì, lo era perché c' era appena stata la storia di Miami (il famoso concerto del primo marzo 1969 dove Jim venne accusato di aver mostrato i genitali per cui fu arrestato e subì un processo, ndr) e a causa di quello era impossibile suonare perché eravamo stati banditi da tutti i club. Così l'unica cosa che potevamo fare era registrare un disco». 

Uno dei pezzi scritti da lei in "L.A. Woman", "Love Her Madly", è diventato uno dei maggiori successi dei Doors. Come è nata?

«Stavo suonando la chitarra a dodici corde e, non so come, mi sono arrivati questi accordi. E poi è arrivata l'immagine di me e di mia moglie che litigavamo, io che vado fuori di testa e lei che se ne va sbattendo la porta così forte che l'intera casa sembrava tremare!».

Quando la canzone dice: "Don' t ya love her as she' s walkin' out the door/ Like she did one thousand times before" immagino.

«Esatto, quella è l'idea di come lei esce dalla porta: sbamm! Succede in tutte le case, no (ride)?». 

La canzone più famosa dei Doors invece è "Light My Fire", presente già nel primo album.

«Sì, il primo singolo a uscire fu Break on Through ma non "ruppe" ("break", ndr) granché: non entrò neanche nella Top 100 mentre Light My Fire rimase al primo posto per alcune settimane. Sapevamo che era una buona canzone perché quando la suonavamo dal vivo la gente andava fuori di testa. Ma non potevamo pubblicarla come singolo perché durava più di tre minuti e noi volevamo che dentro ci fossero i nostri assoli, come nell' album, solo che in quel modo il brano arrivava a quasi sette minuti. Dopo l'insuccesso di Break on Through decidemmo di cedere.  La tagliammo a tre minuti e "accese il fuoco"!». 

Lei ha scritto una parte della canzone.

«Io ho scritto la maggior parte del brano (ride). Ma fu merito di Jim. Ci mancava un pezzo e lui, che aveva composto tutti gli altri brani, spinse la band a inventare qualcosa dicendo: "Perché devo fare io tutto il lavoro? Provate a inventarvi qualcosa di universale che possa funzionare anche tra qualche anno". Così ho pensato a qualcosa legato ai quattro elementi e ho scelto il fuoco».

Come mai?

«Avevo in mente la canzone Play with Fire dei Rolling Stones e mi sembrava che il fuoco esprimesse bene il senso della nostra musica: nessuno aveva mai usato quelle parole! Ray ci mise la intro, che all'inizio era a metà canzone, e io avevo gli accordi giusti per andare avanti. Ne rifece una versione che andò al numero uno anche José Feliciano. Col tempo ne sono venute fuori moltissime altre: un giorno farò un disco che le raccoglie tutte, da Stevie Wonder a Nancy Sinatra». 

Quale fu la parte di Jim?

«È quella che inizia con "funeral pyre". Io gli dissi: "Ma Jim, devi proprio sempre parlare di morte?". Lui però voleva che fosse così. Mi disse: "C' è la parte dell'amore e c'è la parte della morte". Aveva ragione: in realtà ci stava benissimo. Il testo infatti giocava su diversi significati: vita, morte, amore, droghe. A ciascuno cogliere il suo».

Sono sorpreso dal fatto che Jim spingesse il gruppo a scrivere. Non succede quasi mai.

«Sì, lui voleva che fossimo una vera band». 

Quindi dividevate anche tutti i guadagni?

«Beh, sì, e un po' sono stato fregato da questa cosa (ride)». 

Quante canzoni ha scritto?

«Light My Fire, Love me Two Times, Spanish Caravan, Touch Me, Love Her Madly e altre: il fatto è che messe insieme finiscono per valere quasi più di tutte le altre». 

Il primo libro sulla musica che ho letto è stato "Nessuno uscirà vivo di qui": so che non era tutto vero.

«...Ma era una buona lettura! Non era tutto vero ma catturava lo spirito dei Doors: lo scrissero Danny Sugerman e Jerry Hopkins. Ma anche Ray ha contribuito alla scrittura di quel libro». 

Davvero?

 «Sì. Cambiarono un po' di cose apposta. Quel libro venne pubblicato una decina di anni dopo la morte di Jim ed era basato su una lunghissima intervista che Hopkins aveva fatto per Rolling Stone ma nessuno lo voleva pubblicare; allora Danny (che faceva parte dell'entourage dei Doors e che sarebbe diventato loro manager dopo la morte di Jim, ndr) aggiunse un po' di roba, con l'apporto di Ray, per renderlo più eccitante e la cosa funzionò. Funzionò molto bene, devo dire. Tra l'altro il film di Oliver Stone è in buona parte basato su quel volume».

Cosa ne pensa di quel film?

«Penso che sia un modo divertente per prendere in giro me stesso! Ero lì per tutte le riprese delle parti musicali e credo che Oliver Stone abbia fatto un grande lavoro. E Val Kilmer ha ricantato benissimo le canzoni: la parte dei concerti è molto, molto buona. Purtroppo c' è troppa enfasi sul rapporto tra Jim e Pam, in cui sembrava che Jim fosse sempre ubriaco, il che non era vero. Ray litigò con Stone per questo e perché non tenne conto di varie indicazioni storiche ma anche perché il lato più spirituale e poetico di Jim veniva messo completamente in ombra».

E quando invece Coppola vi chiese il permesso di usare "The End", quale è stata la vostra reazione?

«Adoro Apocalypse Now: il primo suono che senti quando inizia è quello della mia chitarra che suona The End (ride)! Coppola ha comprato i diritti di tutte le nostre canzoni per il film e quindi poteva fare quello che voleva. Esiste una parte in cui c' è Light My Fire ma non è mai stata usata: c' erano dei soldati che insegnavano a dei ragazzini come cantare Light My Fire! Era veramente cool!». 

Molti pensano sia un sitar, non una chitarra, quello che viene usato per l'inizio di "The End": non è così?

«È una chitarra ma accordata secondo una scala indiana, così sembra suonare come un sitar: ho studiato musica indiana e sono stato molto influenzato da Ravi Shankar».

Con Antonioni invece non andò bene.

«Stavamo finendo di registrare un brano, L' America, che pensavamo potesse andare bene per il film a cui stava lavorando, Zabriskie Point, e l'avevamo invitato in studio. Una sera qualcuno del suo entourage lo portò lì e per presentarci disse: "Mr Antonioni, questi sono i Doors e hanno scritto una canzone che sarà il tema per il suo film". E lui, stizzito: "Solo Antonioni può dire quale canzone sarà in un suo film!". Capimmo che poteva essere la migliore canzone del mondo ma non l'avrebbe mai usata. Credo non l'abbia neanche ascoltata alla fine...».

Anche i Pink Floyd hanno avuto problemi: la maggior parte delle loro canzoni è stata scartata.

«Avevo anche un paio di amici che lavoravano nel film e che avrebbero voluto che il pezzo fosse nella colonna sonora, ma non sono mai riusciti a parlare con il regista». 

È vero che Jim amava molto Frank Sinatra?

«Sì, è vero. Non credo che cercasse di cantare come lui o cose simili ma solo che apprezzasse la sua abilità vocale e penso anche che avessero un range vocale molto simile. Quando ha esordito Jim non era un cantante così straordinario ma dopo che abbiamo iniziato a suonare ogni sera, è andato migliorando continuamente. E siccome è successo gradualmente non mi sono reso conto subito di come fosse aumentato il suo range: poteva cantare note davvero alte come in The End o Light My Fire ma anche cose come Roadhouse Blues. Nel corso degli anni mi è capitato di suonare canzoni dei Doors con molti altri artisti e sono davvero pochi quelli che sono riusciti a raggiungere le note correttamente. Mi sono reso conto solo molto tempo dopo di quale grande cantante fosse». 

Secondo lei Jim odiava essere considerato un sex symbol? A volte insultava il suo pubblico.

«Credo che all'inizio gli piacesse, però penso che presto abbia capito che quella cosa stava distogliendo la gente dalla poesia. Al pubblico piaceva la sua poesia, certo, ma gli piaceva ancora di più vederlo fare cose pazze. E così dopo un po' ha cercato di ribellarsi a tutto questo». 

Dal momento che gli è stato molto vicino, che tipo di persona era, secondo lei, Jim Morrison? Immagino ci abbia pensato parecchie volte in tutto questo tempo.

«Che tipo di persona era? Era un genio. Hai presente quando hai troppe cose nella testa? Credo credo che per lui fosse così ogni istante. Penso che sia stato per questo che incominciò a bere: per spegnere quelle voci. Era un tipo incredibile, specialmente all' inizio, prima che iniziasse a bere. Ed era straordinario al lavoro. Fu una sua idea quella di dividere tutti i compensi per quattro, anche se fino a quel momento era lui a scrivere tutti i testi. Così lui era un tipo veramente in gamba. Ma a volte quando beveva diventava come schizofrenico, selvaggio. Era come se gli venisse fuori un'altra personalità e andava completamente fuori di testa. Ma vi posso assicurare che è valsa la pena lavorare con lui».

·        50 anni dalla morte di Fernadel.

Egidio Bandini per “Libero quotidiano” il 14 marzo 2021. «A Fernand son ami Peppone». Questa fu la frase scritta da Gino Cervi sulla corona di fiori inviata alle esequie di Fernandel: per tutti l' attore francese era don Camillo e, di conseguenza, Cervi era Peppone. Questa, vedremo, è la motivazione che impedì alla troupe di portare a termine le riprese del film Don Camillo, Peppone e i giovani d' oggi con una controfigura per Fernandel. Procediamo con ordine: il regista Christian Jacque e la produzione Rizzoli decisero di concludere la sesta "avventura" del pretone e del grosso sindaco inventati da Guareschi, dopo la spietata diagnosi che i medici francesi comunicarono per Fernandel: tumore ai polmoni. Tutto liquidato e il risarcimento affidato ai Lloyd' s di Londra. All' inizio delle riprese, Fernandel in un' intervista aveva dichiarato che, se avesse dovuto interpretare un don Camillo "convenzionale", come negli altri film, non l' avrebbe mai fatto: «La grande idea è di portare i tre personaggi - disse Fernandel - don Camillo, Peppone e Gesù, fra i giovani d' oggi: don Camillo non è d' accordo sulla nuova Messa, sulla Messa in francese, ma nemmeno con i maoisti. Sarà un film speciale e, purtroppo l' ultimo, perché è morto Guareschi: il figlio di Peppone è un capellone, ma anche Gesù, nel film, si definisce un capellone». Fernandel paragonava Giovannino Guareschi a Molière e dichiarava che don Camillo era il «ruolo della sua vita» e che, se tutto fosse andato bene, le riprese sarebbero terminate il 15 settembre: «Se tutto va bene...» aveva ripetuto al giornalista francese. Gino Cervi, intanto, era arrivato puntualmente sul set senza baffi (li aveva usati finti nel primo film e lo fece anche nei restanti cinque per scaramanzia) e tutto sembra procedere per il meglio. Ma, in quella caldissima estate del 1970, le cose vanno diversamente, come scrive Maurizio Schiaretti: «Le riprese si susseguono in un clima insopportabile, ci sono momenti in cui, al sole, la temperatura raggiunge i 60°. I due interpreti ne soffrono pesantemente: Fernandel si sente sempre più stanco e a ridargli energia non bastano le pietanze preparate apposta per lui dalla fedelissima Tina, arrivata da Marsiglia. È costretto ad interrompere le riprese di una scena in cui deve portare in braccio l' attrice Graziella Granata che non arriva a cinquanta chili (nella foto drammatica due della troupe sostengono l' attrice con un lungo asse). Christian Jacque fa di tutto per farlo sentire a suo agio ma il 31 luglio l' attore si fa visitare a Parma da uno specialista dei polmoni e la sera chiama il regista: «Devo interrompere immediatamente la lavorazione - gli dice quasi in lacrime - ho un polmone fuori uso e l' altro è pieno d' acqua, capisci! Non mi era mai successo di lasciare un film a metà e proprio con te, poi!». Christian Jaques cerca di rassicurarlo: «Non ti preoccupare, torna a Marsiglia e riposati. Quando starai meglio riprenderemo». Il 2 agosto Fernandel e sua nipote Martine ripartono in automobile per la Francia, la troupe si scioglie lasciando a Brescello proiettori, cavi, praticabili». Tutto finito? In realtà esiste un' intervista televisiva, rilasciata dall' attore il 15 ottobre 1970 a Jean-Paul Seligmann, nella quale Fernandel dichiara che gli restano solo 35 minuti (di riprese) per finire il film e prosegue: «Senza dubbio sarei in grado di riprendere il mio ruolo molto prima, ma questo non sarà possibile perché abbiamo iniziato il film all' aperto nel mese di luglio. In quel momento gli alberi sono carichi di foglie che ora stanno iniziando a cadere. Siamo così costretti ad aspettare il ritorno della primavera». Nelle immagini l' attore si mostra in forma e ben deciso a finire quanto cominciato, ma ormai la produzione aveva liquidato il film e consegnato le copie: alla cineteca per i contributi statali; forse ai Lloyd' s per l' assicurazione e, qualcuno dice, una copia anche a Fernandel della quale si ignora il destino. Scomparso Fernandel, neppure si poté utilizzare la storica controfigura Fortunato Arena, come disse Gino Cervi a "La Stampa" il 27 febbraio 1971: «Lui (Fernandel) se n' è andato prima e ha portato con sé nella tomba anche don Camillo. Quale attore accetterebbe di mettersi al confronto con Fernandel per riprendere la parte di don Camillo? È sparita definitivamente una maschera e con lui, anche quella di Peppone». Insomma, per rivederli non resta che ritrovare questa benedetta pellicola, che ha un' altra curiosità: nel ruolo dello zazzeruto figlio di Peppone c' era un giovanissimo Giancarlo Giannini...

·        50 anni dalla morte di Coco Chanel.

Mezzo secolo senza Coco e uno con Chanel N°5. Edvige Chanel su Il Quotidiano del Sud il 27 dicembre 2020. Coco Chanel, scomparsa a Parigi il 10 gennaio 1971. “Non mi pento di nulla nella mia vita, eccetto di quello che non ho fatto”, et voilà mademoiselle Coco Chanel. Leggendaria e unica, ribelle e geniale Coco sarà una delle prime donne ad essere ricordate nel primo mese dell’anno che verrà. Il 10 gennaio, infatti, ricorrono i cinquant’anni dalla scomparsa della celeberrima stilista francese le cui regole creative e di stile ancora oggi fanno la differenza. Mezzo secolo senza Coco e uno col “suo” iconico profumo: Chanel N°5. Per intenderci, la fragranza con cui andava a letto Marylin Monroe. Coco, dunque: i fili di collane di perle, il taglio dei capelli alla garçonne, la sigaretta tra le labbra, i cappellini immancabili ma misurati, il tailleur bon ton con la giacca senza collo e le taschine profilate. “Mi domando perché mi sono lanciata in questo mestiere; perché vi figuro come rivoluzionaria? Non fu per creare quello che mi piaceva, ma proprio, dapprima e anzitutto, per far passare di moda quello che non mi piaceva”, diceva mademoiselle Coco il cui vero nome era Gabrielle Bonheur Chanel. Gabrielle, dunque, per ritrovarla appena nata il 19 agosto 1883 in un ospizio dei poveri a Saumur. Figlia di un venditore ambulante, infanzia in un orfanotrofio, scuola di apprendimento delle arti domestiche a Notre Dame. Appena diciottenne inizia a lavorare come commessa a Moulins, presso il negozio di biancheria e maglieria Maison Grampayr. La scelta di chiamarsi Coco legata a una canzone “Qui qu’a vu Coco?” che lei cantava in un caffè-concerto. Nel 1926 inventa il tubino “le petite robe noire” (vestitino nero). Classe senza tempo. Il resto è la storia di una donna anticonformista e geniale che oltre a rivoluzione la moda e i costumi, ha dimostrato che si può nascere in un ospizio per poveri e diventare Coco Chanel. E non è una favola!

Coco Chanel, le sue 7 lezioni di vita che non passano mai di moda. Ilaria Perrotta su Vanityfair.it il 5/5/2021. Ha inventato, tra le altre cose, il tubino nero e il profumo più iconico del mondo, ovvero N°5 che il 5 maggio 2021 spegne 100 candeline ed è ancora oggi il più venduto al mondo. Mai fuori moda, come l'approccio al lavoro e lo stile di vita di Coco Chanel che fornisce insegnamenti immortali e contemporanei. Proprio come lei. Pioniera e riferimento per migliaia di donne, Coco Chanel è colei che ha saputo creare un impero pur provenendo da origini molto umili. Al di là delle controversie su alcuni episodi della sua vita (come quella che durante la Guerra avrebbe avuto una relazione con un ufficiale nazista) nessuno può gettare ombre sull’azienda di successo, oggi sinonimo di opulenza, eleganza, lusso e classe, che ha creato dal nulla, contando solo sulla sua immane personalità. Dal tailleur alle perle (che lei, per prima, ha reso democratiche e che indossava a cascate, naturalmente false) dalla borsa matelassé (la mitica 11.12) alla giacca in tweed, fino al leggendario N°5, la fragranza che irrompeva sul mercato esattamente un secolo fa, il 5 maggio 1921, e che da allora è ancora tra i profumi più venduti al mondo, unico ad aver attraversato il secolo conservandosi moderno e attuale. «Qualcosa di elaborato, che resti addosso. Un profumo da donna che sappia di donna, nessun olezzo di rosa o mughetto», così Gabrielle nel 1920 descriveva al naso Ernest Beaux come immaginava la sua essenza che, pare, lei volesse le ricordasse l’odore delle mani di sua madre, lavandaia in Provenza. A celebrarlo, tra le altre cose, proprio il 5 maggio l’uscita del libro Chanel N° 5. Il profumo del secolo, con fotografie e illustrazioni, in quattro edizioni internazionali (italiano, inglese, francese e tedesco) firmato da Chiara Pasqualetti Johnson (ed. White Star). Sin dalla boccetta rigorosa (inclusa dal 1954 nelle collezioni permanenti del MOMA di New York), minimalista, senza fronzoli e con il tappo che ricorda la forma di Place Vendôme a Parigi, si fa emblema del nuovo ordine dello stile firmato Mademoiselle Chanel: elegantemente basico, essenziale, confortevole, comodo perché le donne dovevano, per prima cosa, sentirsi libere. L‘eau de toilette indipendente, che tiene alla larga le note dolciastre di tendenza ai tempi di Coco, parla di una lei volitiva, forte, sicura di sé, che sa che, se vuole, può arrivare dappertutto. Coco Chanel, insomma, ha comunicato con le sue creazioni, messaggi per il tempo avanguardistici e oggi assolutamente contemporanei. E così guardiamo ancora a lei dopo cento anni perché ha ridefinito la femminilità attraverso il suo impero della moda, fornendo allo stesso tempo lezioni di vita su stile e savoir-faire. Coco Chanel è stata, infatti, all’unisono un’ artista, una ribelle e, soprattutto, un’acuta donna d’affari. Non si è mai lasciata definire dal suo passato e dalle sue umili origini, ma ha vissuto la sua meravigliosa vita sempre secondo i suoi desideri, mostrando caparbietà e determinazione. E questa è una lezione evergreen destinata a non andare mai, mai, mai fuori moda. Nella gallery le lezioni di vita e professionali che Coco Chanel continua a darci. Da leggere e fissare nella mente, perché no, con addosso due gocce di N°5.

Daniela Giammusso per “Ansa” il 4 maggio 2021. "Un profumo da donna che sappia di donna". "Nessun olezzo di rosa o mughetto". Ma qualcosa di "elaborato, che resti addosso". Era il 1920 e in vacanza in Costa Azzurra Coco Chanel descriveva così quella che voleva diventasse la "sua" essenza. Davanti a lei, Ernest Beaux, ometto dal "grande naso", di professione chimico, cresciuto a San Pietroburgo, dove il padre lavorava per gli zar. Due perfezionisti assoluti, che di lì a qualche mese avrebbero creato il profumo icona per eccellenza. Chanel N° 5, la fragranza 'astratta' lanciata da mademoiselle Coco il 5 maggio 1921, compie 100 anni ed è ancora oggi tra i profumi più venduti al mondo, l'unico ad aver attraversato il secolo senza mai perdere un afflato della sua allure e anzi restando sempre moderno, attuale. Per l'occasione, due volumi ne ricostruiscono nascita e successo: "Coco Chanel. Unica e insostituibile", biografia ricca di approfondimenti della giornalista Roberta Damiata (ed. Diarkos, pp. 104 - 18,00 euro) e "Chanel N° 5. Il profumo del secolo", con fotografie e illustrazioni, in uscita il 5 maggio in quattro edizioni internazionali (italiano, inglese, francese e tedesco) firmato da Chiara Pasqualetti Johnson (ed. White Star, pp.64 - 14,90). Una boccetta consegnata al mito dalle parole di Marilyn Monroe, quando in un'intervista del 1952 candidamente rispose: "Cosa indosso a letto? Che domande, Chanel N° 5, ovviamente". Ma che in realtà è stata sin da subito molto di più, emblema di quella nuova femminilità che Coco Chanel ha saputo costruire a colpi di eleganza, tubini essenziali e uso di tessuti comodi come il jersey, che rendessero la donna libera. Anche la sua essenza doveva essere così: senza fronzoli, ne inclinazioni dolciastre (come era invece in voga nelle fragranze e nell'idea di donna di quegli anni), ma volitiva, indipendente, per nulla fragile. La prima a suggerirle l'idea di un profumo, ricostruisce la Damiata, potrebbe essere stata Misia Sert, regina dei salotti parigini, alla quale Gabrielle doveva molto e alla quale fu molto legata. Ma è nell'estate del 1920, quando il granduca Dimitri Pavlovich le presenta Beaux, uno dei primi chimici a utilizzare aldeidi e profumi di sintesi, che il progetto può realizzarsi. Coco vuole qualcosa di assolutamente diverso, folgorante. L'ispirazione di partenza pare fosse "l'odore della pelle delle mani di sua madre, lavandaia della Provenza". Il chimico lavorò per lei realizzando due serie di campioni numerati da uno a cinque e da venti e ventiquattro. Nel profumo c'è un bouquet floreale che lascia intravedere le note di rosa di maggio e di gelsomino di Grasse, amplificate dalle aldeidi. Un flacone di Chanel N.5 da 30 ml contiene: 1000 fiori di Gelsomino di Grasse e 12 Rose di Maggio di Grasse. Anche questa una piccola rivoluzione, perché fino a quel momento si erano lanciati solo profumi a un'unica essenza. E fu anche tra i primi profumi ad usare le aldeidi (additivi privi di odore, ma capaci di esaltare gli altri, chiave dell’unicità del suo aroma inconfondibile). La scelta di Mademoiselle cadde sulla boccetta numero cinque, casualmente il suo numero fortunato. E a cavalcare sorte e scaramanzia, decise di lanciarlo proprio il 5 del quinto mese dell'anno nel corso della sua nuova collezione, chiamandolo semplicemente Chanel N° 5: il primo profumo nella storia a portare il nome della sua creatrice.

La piramide olfattiva di Chanel N°5:

Famiglia Fiorita-Aldeidata

Note olfattive

Testa Aldeidi, Bergamotto, Limone, Neroli

Cuore Gelsomino, Rosa, Mughetto, Iris

Fondo Vetiver, Sandalo, Vaniglia, Ambra

Genio del marketing prima ancora che il marketing esistesse, riuscì poi a farne subito un oggetto del desiderio. Studiò una boccetta in vetro o cristallo quasi minimalista (come la sua idea di eleganza fatta molto più del togliere che aggiungere), geometrica e razionale (come le correnti artistiche del tempo).  Il tappo ricorda la forma di Place Vendôme a Parigi. E non la mise in vendita. Era un omaggio per le clienti più facoltose. "Quasi un dono personale che elevava a una posizione privilegiata", scrive la Damiata.  Risultato, prima ancora di debuttate nella boutique al 31 di rue Cambon, le signore più chic dell'alta società parigina facevano a gara per averlo. E con quella boccetta, arrivò anche l'esigenza di un marchio: la celebre doppia C che da quel momento rese iconico tutta ciò che Cocò firmava. Il resto è storia, dalla nascita nel 1924 della nuova Societé des parfums Chanel alle foto dei soldati americani in fila per ore a Parigi pur di riportare a casa almeno un flaconcino dell'eleganza e del lusso europeo. E poi le serigrafie di Andy Warhol, Ads: Chanel, ispirate alle pubblicità del profumo. Ma soprattutto le molte bellissime dive che, fotografate o dirette da grandi maestri da Ridley Scott a Baz Luhrmann, in un secolo hanno prestato il loro volto a quella fragranza unica e senza tempo. Dalla stessa Coco ritratta su Harper's Bazaar a Nicole Kidman e Catherine Deneuve e poi negli anni Marion Cotillard, Carole Bouquet, Audrey Tautou, Lily-Rose Depp. E, primato nei primati, c'è anche un uomo, Brad Pitt. 

"Il Profumo", romanzo di Patrick Süskind. “Poiché gli uomini potevano chiudere gli occhi davanti alla grandezza, davanti all'orrore, davanti alla bellezza, e turarsi le orecchie davanti a melodie o a parole seducenti. Ma non potevano sottrarsi al profumo. Poiché il profumo era fratello del respiro”.

Laura Bosetti Tonatto per Dagospia il 5 maggio 2021. Oggi ci sono ottimi profumi che non hanno il successo che meriterebbero, pessimi profumi che ne hanno grazie ai soldi spesi in influencer e pubblicità, altri ancora che vivacchiano per qualche mese e poi scompaiono, subito sostituiti da un’altra novità: ogni anno ne escono sul mercato circa 6000, più di 16 al giorno. I profumi non si fanno più come ai tempi di Coco Chanel e non è detto che sia un male. Ma non è sicuramente un bene il fatto che il committente (colui che vuole un nuovo profumo) non incontri più nella maggior parte dei casi il “naso” (il creatore di profumi) che deve realizzarlo. Gabrielle Chanel incontrò invece per fortuna Ernest Beaux, parlarono a lungo, si spiegarono e si capirono. Lei voleva un profumo che sapesse di donna, non solo di mughetti e viole. Scartò molte proposte, Beaux ne preparò altre. Lei scelse alla fine il numero 5, com’è noto e stranoto, e non gli cambiò neppure il nome. Un nome in fondo non serviva, perché quel profumo Coco non voleva al momento venderlo: lo avrebbe regalato alle signore che acquistavano uno dei suoi già allora molto costosi vestiti. Una trovata geniale, che rendeva l’esperienza nel suo atelier un viaggio totalmente esclusivo, che si poteva rimarcare nei colloqui con le amiche invidiosette: “Che buon profumo, cara, dove l’hai preso?” “Oh sai, questo non si può comprare: lo regala Coco alle sue migliori clienti. Perché non ci vai anche tu?” Più tardi Coco ha però capito che non tutte le donne potevano permettersi di indossare un suo abito, ma tutte avrebbero potuto indossare il suo profumo. Nel N° 5 Beaux aveva messo rosa di maggio, gelsomino, ylang ylang e sandalo mescolati, per la prima volta nella storia, con le aldeidi, che non sanno di niente ma sublimano ogni altra fragranza con la quale vengono in contatto. E’ stato lui a proiettare la profumeria nell’era moderna e Coco è stata coraggiosa a rompere con il passato anche nei profumi, dopo averlo fatto con gli abiti. Erano i tempi di Picasso, di Modigliani, di Stravinsky (con cui ebbe una storiella) e di Shostakovich, del Futurismo e del jazz: tutto cambiava e guai a chi restava fermo, perché sarebbe stato dimenticato. Chanel N° 5 è ancora il profumo più venduto al mondo, ma questo non significa che sia quello che alle donne piace di più. Nei test alla cieca, quelli fatti senza che la confezione riveli il nome del profumo che si sta annusando, non si è sempre classificato al primo posto. Succede anche ai migliori vini, non bisogna stupirsene. Le nostre preferenze sono condizionate da molti fattori, spesso estranei alla qualità del prodotto. Coco capì per prima l’importanza di una bottiglia elegante e immediatamente identificabile, priva di ogni leziosità: quasi un contenitore da laboratorio, estraneo a ogni ammiccamento. Un profumo senza nome, il più regalato dagli uomini alle donne, il più citato dalle dive e dalle celebrità.  E’ difficile dire quanto il N° 5 sia cambiato in un secolo di vita, solo chi lo produce lo sa con certezza. Ma è certo che le tonalità cipriate di 100 anni fa oggi non sono più così popolari. Anche i profumi hanno una connotazione temporale, i gusti cambiano, le composizioni vanno corrette, ma senza snaturarle. Negli Anni 60 andava molto il patchouli, negli Anni 80 la vaniglia. Oggi le donne cercano invece nei profumi più leggerezza, e badano molto alla qualità delle materie prime: vogliono sapere che cosa c’è nel flacone e da dove viene. Non amano le materie prime di sintesi, ma su questo c’è poco da fare: oggi è impossibile creare un profumo totalmente naturale per un mercato globale. La Natura è generosa, ma neppure lei può fornire tutto ciò che serve a realizzare una fragranza. E poi le materie prime naturali sono costosissime, porterebbero il prezzo di un flacone a livelli insostenibili. Coco Chanel è stata brava. Ha intercettato un forte periodo di cambiamento, lo ha cavalcato e ha contribuito a plasmarlo, ha capito per prima non solo che cosa volevano le donne della sua epoca, ma le donne di tutte le epoche che continuano a indossare i suoi abiti e a usare i suoi profumi. Sì, al plurale, perché il N° 5 non è tutto. Provate anche il 19, realizzato da Henri Robert per gli 87 anni di Coco: secondo il mio amico Chandler Burr, già critico di profumi per il ‘’New York Times’’, gli sta alla pari, e non posso che dargli ragione.  

LAURA BOSETTI TONATTO, IL “NASO” ITALIANO DI PRINCIPESSE E SCEICCHI. Alice Rosati su forbes.it il 17 ottobre 2019. Laura Bosetti Tonatto una vita senza i profumi non riesce proprio a immaginarla e, se non fosse un “naso”, coltiverebbe comunque piante profumate. Da trent’anni crea fragranze fatte su misura e nella sua olfattoteca si possono contare più di 3mila note provenienti da tutto il mondo che lei sa riconoscere una per una. Il suo cuore, però, appartiene alla rosa: “Condivido quello che diceva il maestro Guy Robert, per fare un profumo bastano due ingredienti e uno di questi deve essere la rosa. È importante distinguere le tonalità di questo fiore per saperlo adattare ai diversi bouquet”. Per Laura, realizzare essenze più che una professione è una passione e per noi italiani è motivo di orgoglio. Non solo perché è un settore tipicamente maschile, ma soprattutto perché lei è uno dei nasi più conosciuti al mondo. Nel 2015 ha firmato la collezione “Essenzialmente Laura”: 39 fragranze per il corpo e la casa che ripercorrono la sua storia. Il suo amore per la rosa l’ha portata a Taif, in Arabia Saudita, dove nei giardini della famiglia reale viene coltivata una rara rosa damascena trigintipetala, dalla profumazione molto intensa per effetto dell’elevata escursione termica. Se ne producono solo 16 chili all’anno e di questi uno le viene riservato  per le sue formulazioni. Un regalo del valore di 50mila euro, ma che in realtà nessuno può acquistare: “Una volta finita la distillazione, il re dona le essenze ai suoi dignitari più meritevoli sotto forma di confezioni che contengono una tolah, ovvero11,7 grammi di prodotto, usanza che fa della rosa una fragranza tipicamente maschile e che connota le persone di potere”, racconta Laura. Tra le clienti di Laura non ci sono solo principesse: “Quando ho ricevuto una telefonata da Buckingham Palace pensavo fosse lo scherzo di un amico londinese e invece poco tempo dopo mi arrivò l’invito formale per creare il profumo personale della Regina Elisabetta II. L’unica cosa che sapevo è che doveva rispettare la sua gaiezza e gioia di vivere. Ci è voluto un anno di lavoro, inizialmente ho creato 12 fragranze di cui Sua Maestà ne ha selezionate e provate quattro prima di arrivare a quella definitiva che oltre all’eau de parfum comprende anche il diffusore per ambiente e le candele”. Il profumo della Regina non ha un nome, ma reca solo il logo dorato con le iniziali stampate a caldo, è un bouquet fiorito con note fissative di ambra, che fin dai tempi di Cleopatra e Lucrezia Borgia rappresentano una donna di elevato carisma. Laura non ha solo creato una profumazione per la Regina ma ne ha scoperto un lato della personalità molto privato: il suo buonumore. “Quando sono stata invitata al Garden Party ho incontrato personalmente la Regina prima dell’inizio dell’evento, fuori pioveva e la cosa che sembrava averla stupita di più era il fatto che non mi fossi bagnata. È una persona normale e l’ho percepito da come cercava in tutti i modi di farmi sentire a mio agio”. I profumi per Laura Tonatto sono ispirazione, ricordi, ma anche studio. Per esempio, la profumazione ideata per il quadro Il suonatore di liuto di Caravaggio all’Hermitage di San Pietroburgo è frutto di un lungo lavoro filologico, alla ricerca della connotazione olfattiva dell’opera e di quei profumi percepiti dal pittore mentre dipingeva, una decifrazione che va al di là del puro estro creativo. Come scegliere, quindi, l’alchimia perfetta per ognuno di noi? “Consiglio di non avere fretta nella selezione di un profumo, l’emozione giusta arriva quando meno ce lo aspettiamo, ma soprattutto, non bisogna lasciarsi attrarre solo perché lo si è sentito su un’amica, una fragranza è estremamente personale”.

Coco Chanel ed Elsa Schiaparelli, le rivali della moda dal destino comune. Alessandra D'Acunto su La Repubblica il 23 aprile 2021. Il libro "Le Rivali" di Paola Calvetti racconta le storie di cinque celebri coppie di antagoniste del Novecento attraverso rivalità realmente esistite, ma mai ammesse. Da Helena Rubinstein ed Elizabeth Arden a Mademoiselle Chanel ed Elsa Schiaparelli, l'autrice svela torti ed invidie di dieci donne dall'incredibile talento, capaci di rivoluzioni e piccoli grandi sgambetti reciproci. Ma, in fondo, non così lontane. Attrici di teatro, rivoluzionarie della moda, imprenditrici della bellezza, giornaliste e sorelle in corsa per l’Oscar. Cinque coppie di celebri antagoniste si riuniscono in Le Rivali, il saggio che sa di romanzo, di ultima uscita Mondadori, firmato Paola Calvetti. “Vorace lettrice di biografie”, l’autrice milanese, 66 anni, di romanzi all’attivo ne ha dieci, tra cui Elisabetta II. Ritratto di regina, pubblicato dalla stessa casa editrice nel 2019, tanto impegnativo quanto avvincente da scrivere. Una scrittrice che ama apprendere e raccontare le vite degli altri ma sempre da una prospettiva insolita. Da questo stesso spirito prende forma la sua opera più recente, che esplora il Novecento ed alcuni suoi grandi personaggi al femminile - da Sarah Bernhardt ed Eleonora Duse a Coco Chanel ed Elsa Schiaparelli, da Helena Rubinstein ed Elizabeth Arden a Hedda Hopper e Louella Parsons fino a Joan Fontaine e Olivia de Havilland - attraverso la loro rivalità, certificata, realmente esistita, al massimo mai ammessa. Tra biblioteche parigine e archivi newyorkesi, cronache ed articoli di giornale d’epoca, Calvetti ha scavato per tratteggiare la dimensione professionale ed intima delle sue protagoniste. Ciascun capitolo è dedicato ad una coppia e si apre con una citazione, un pensiero - che in alcuni casi è più lecito definire insulto- dell’una verso l’altra. Poi una data, un luogo di narrazione ed un insospettabile legame con la storia precedente.

Paola Calvetti ci toglie alcune curiosità sulle rivali più affascinanti del secolo scorso. Come nascono l’idea di questo libro e l’individuazione delle “dieci donne di talento che hanno cambiato la Storia”? Perché queste coppie di rivali rispetto ad altre?

“La rivalità tra donne è nei fatti. Ho cominciato ad esplorare il tema e l’ho voluto ambientare nel Novecento. Nell’individuare le coppie, ho scartato le sportive, antagoniste per definizione: la rivalità è nei punteggi che segnano la vittoria. Ho eliminato la rivalità amorosa, secondo me più complessa. Avevo voglia di parlare di rivalità professionale, perché tutti noi l’abbiamo vissuta, fin dai tempi della scuola. Così ho iniziato a selezionare le protagoniste, in cinque ambiti dove le rivalità erano effettive. L’unico duo che si differenzia è Joan Fontaine e Olivia de Havilland, che erano sorelle. La loro gelosia ed inimicizia, mai apertamente dichiarata, era nel dna, c’era già nella culla. Ma ciò che mi interessava di più era raccontare in positivo la rivalità, cosa possibile quando è sommata al talento. Ho scelto delle donne che hanno inventato un mondo: prima di Helena Rubinstein ed Elizabeth Arden non esisteva la sfera del beauty. La bellezza era relegata alle farmacie, i prodotti erano pochi. Sono state le prime a diversificare le linee per il viso e a commercializzare creme che usiamo ancora oggi. Hanno inventato il packaging e il sogno del vestire il barattolo, come un abito; hanno introdotto i corner nei grandi magazzini (facendosi guerra tra una avenue e l’altra). La parola genio deriva da generare e loro lo hanno fatto, hanno veramente inventato. Sono tutte donne che nel loro campo sono state pioniere. Questo aspetto femminile di creatività mi ha estremamente affascinato".

Nel capitolo dedicato a Schiaparelli e Chanel si legge: “Elsa e Gabrielle, sette anni di differenza e due vite parallele”. Cosa avevano in comune le due grandi stiliste e cosa, invece, le rendeva antagoniste? Puoi raccontarci qualche aneddoto?

“Le rivalità che racconto sono documentate, reali. Ma sulle stiliste mi sono presa una licenza. Perché Chanel che era una multinazionale, un marchio di fama internazionale rispetto a Schiaparelli ed alla sua boutique in Place Vendôme a Parigi, provava invidia nei confronti di Elsa? E la mia tesi è la seguente, come scrivo nel libro. Schiaparelli era un’artista, nata in un ambiente ricco, con un substrato di formazione culturale. Chanel non lo era, a Hollywood ha fallito, è fuggita da quel mondo: sapeva adattare i suoi capi di volta in volta a ballerini ed attori ma non creava costumi. Sosteneva il settore della cultura e questo le ha consentito di farne parte. Schiaparelli è rimasta in auge vent’anni, non è sopravvissuta all’ondata del New Look di Dior, ha dichiarato fallimento nei primi anni Cinquanta, è durata molto meno di Chanel, che nello stesso periodo sfornava ancora grandi invenzioni come il tailleur. Però Schiaparelli era un genio: gli artisti, da Salvador Dalí a Jean Cocteau, la riconoscevano una di loro. La rivalità era iniziata vent’anni prima ‘quando Mademoiselle rischiava di incrociare ogni mattina la donna pronta a minacciare il suo predominio’. L’aneddoto principe? Nel 1939 Chanel ha dato fuoco alla nemica italiana ad un ricevimento in costume, cui partecipavano entrambe. Sotto gli occhi di tutti, ha invitato Elsa a ballare ma era un trappola: l'ha spinta verso un candelabro mandando in fiamme il suo costume ”.

Vite parallele quindi come due rette, che non si incontrano mai? O in fondo Coco ed Elsa non erano poi così lontane?

“Da un punto di vista intellettuale, formale e anche stilistico, Coco e Schiap non si incontreranno mai. Il parallelismo è nella sofferenza e nella vita amorosa: sentimentalmente, sono state entrambe infelici. Un destino che le ha volute sfortunate, Elsa aveva sposato un ciarlatano, padre di sua figlia, che l’aveva lasciata al momento di metterla al mondo. Gabrielle non è mai stata madre e l’uomo che amava era morto in un incidente d’auto. Gli ultimi anni di Schiap sono stati meno tragici di quelli di Chanel, che era miliardaria ma completamente sola. Ha sempre voluto travestire la sua infanzia, l’abbandono del padre, l’orfanotrofio. Negava a se stessa questa ferita: nessuno è riuscito a scrivere una sua biografia finché era viva”.

Nonostante i percorsi costellati di sofferenze, in Le Rivali si apprende nel frattempo come le due couturières fossero capaci di produrre miti indelebili: dalla fragranza N°5, che Chanel fa conoscere alle sue clienti distribuendo campioncini tra un abito ed un accessorio, al maglione trompe-l’œil con fiocco sul davanti (il Bow-Knot) disegnato da Elsa ormai ad una distanza minacciosa dall’atelier di rue Cambon di Coco. La battaglia tra rivali si gioca nel primo arrondissement di Parigi.

Perché Schiaparelli parla di Chanel come di una “noiosa piccolo-borghese specializzata in cimiteri”?

“Perché realizzava abiti neri mentre Schiaparelli simboleggiava il trionfo del colore, non dimentichiamoci che è l’inventrice del rosa shocking. Chanel aveva una palette limitata di colori agli occhi di Schiaparelli. Anche nell’arredamento, Chanel riproduceva la sua filosofia sobria, con déco Coromandel in nero, oro, blu, beige. Schiaparelli era più pop, i suoi vestiti erano musei d’arte contemporanea. Chanel guardava, anche, alla praticità dell’abito, aspetto cui Schiap ha dato attenzione poche volte, come ad esempio durante la guerra, quando ha pensato ad una collezione con abiti muniti di tasche per inserire gli oggetti in caso di bombardamenti ed improvvise ricerche di rifugi”.

Chi sono la Coco e la Elsa di oggi?

“È una domanda che mi sono posta anche io ma senza trovare una vera risposta al femminile, forse perché sono state dei giganti. Si potrebbero certamente trovare dei paragoni ma limitandosi ad un punto di vista estetico”.

Perché mancano rivali contemporanee? È ancora presto per capire se potenziali coppie di oggi faranno la storia o non siamo più capaci di rivoluzioni?

“La grande rivoluzione degli ultimi trent’anni è stata Internet, paragonabile a grandi scoperte del passato. Mi viene da fare un confronto con Sarah Bernhardt ed Eleonora Duse, che non erano solo attrici a confronto, ma due modi di fare teatro. Bernhardt ha creato il divismo, era una Lady Gaga dell’epoca ma capì di essere ancora l’Ottocento. La Duse, invece, era il futuro, perché ha creato il ‘teatro verità’, ponendo le basi per il cinema. Sono diventate impresarie di se stesse, una rivoluzione per l’epoca, oggi è quasi normale crearsi dei ruoli autonomamente. Ai giorni nostri abbiamo tante possibilità in più, evolvere è facile ma rivoluzionare come hanno fatto queste dieci donne sembra impossibile. Il gossip, il giornalismo di spettacoli ed intrattenimento per le donne e fatto da donne lo hanno inventato Hedda Hopper e Louella Parsons. Forse c’è meno da scoprire”. “Non mi viene da trovare due grandi rivali contemporanee" riflette Paola Calvetti, "ma credo che smetteremo le nostre battaglie femministe quando non farà più notizia che una donna ricopre per la prima volta un incarico. Quando non ci sarà più da dire “è la prima” avremo raggiunto finalmente la parità. Le coppie di nemiche di Le Rivali la parità se la sono conquistata. Era anche il secolo, il Novecento, con i suoi dopoguerra e le esplosioni di creatività. Possiamo sperare di rivivere qualcosa di simile dopo la pandemia”.

Qual è la tua coppia di rivali preferita e perché?

“La coppia che mi ha più divertito sono le giornaliste, Hedda Hopper e Louella Parsons, perché mi hanno permesso di addentrarmi nel mestiere, così com’era all’inizio del secolo scorso. Le due che ho preferito sono Eleonora Duse e Sarah Bernardt, era naturale sceglierle. Mi sono occupata di teatro, di balletto, ho lavorato tanti anni alla Scala, è il mio humus. Sono le professioni che mi hanno fatto sentire a casa, immergendomi negli ambienti che più amo”.

·        46 anni dalla morte di Joséphine Baker.

Giuseppe Scaraffia per “il Venerdì di Repubblica” il 5 dicembre 2021. «È innegabilmente il sedere più famoso del mondo e anche il più desiderato. Un sedere talmente celebre e agognato da poter essere venerato […]. È un sedere fotogenico. Lo schermo riproduce le sue linee ferme e dolci, i sussulti lascivi e gli scatti più selvaggi […]. Una sintesi di voluttà animale, giovane e vivace come il jazz, trepidante, ridente, brutale e candida, soprattutto gioiosa di una gioia infantile sana ed esuberante». A scriverlo era uno dei tanti spettatori in smoking al Théâtre des Champs-Elysées nell'ottobre 1925. Lei non aveva ancora vent'anni, lui, Georges Simenon, pochi di più, ma era già noto per la sua inesauribile capacità di scrivere. Quanto a lei, la prima nera a entrare, il prossimo 30 novembre, nel Pantheon tra Victor Hugo e Marie Curie, stava per iniziare una lunga e gloriosa carriera. Nessuno sapeva che il ritmo frenetico dei suoi balli nasceva dal bisogno di riscaldarsi nei gelidi inferni di un'infanzia poverissima negli Stati Uniti. La platea che l'applaudiva entusiasticamente era stata preparata a quell'evento dalle avanguardie affascinate dall'arte primitiva africana. Inoltre c'era il fascino dell'esotismo: i musicisti della Revue nègre erano i primi ad apparire a Parigi dopo i soldati di colore della Prima guerra mondiale. Con l'evidente gioia infantile, la frenesia della danza e le sue inverosimili smorfie, la ballerina disarmava la gelosia delle spettatrici. La sua nudità era innocente senza smettere di essere sensuale. Tutti cadevano sotto il fascino di quella ragazza, da Picasso - «la nuova Nefertiti» - a Pirandello fino a Marinetti che aveva definito le sue lunghe gambe «afrodisiaci pennelli di color cioccolato al latte ». Cocteau aveva inventato per lei la celebre cintura di banane. Morand si era ispirato a lei per Magie noire. Con una rapidità fulminante era diventata una stella, imitata da tutte le parigine che correvano a laccarsi le unghie d'oro e i corti capelli come lei. Non a caso Anna de Noailles l'aveva soprannominata «la pantera dagli artigli dorati» e Colette salutava in lei «la più bella delle pantere e la più seducente delle donne». A lei Gaia de Beaumont ha dedicato una smagliante biografia, Scandalosamente felice (Marsilio), meravigliosamente contagiata dal ritmo travolgente della musica di quegli anni: «Come folgorata, Joséphine muove gambe e fianchi in uno sfrenato charleston per poi spiccare un salto al limite dell'esagerazione e atterrare in una spaccata». La sua esuberanza rendeva la sua vita intima sorprendentemente affollata. Serenamente bisessuale, non faceva nulla per nasconderlo. Il suo accompagnatore, il sedicente conte Pepito Abatino, in realtà un ex-scalpellino, doveva tenere a bada la gelosia e fingere di non vedere. Quella con Simenon era stata un'intensa passione. Lui, per salvare le apparenze, si era autonominato segretario della diva. Il primo numero di una sua trovata, il Joséphine Baker's Magazine, interamente dedicato a lei, era pronto ma non sarebbe mai uscito. Sim, come allora si firmava, non sopportava di non essere celebre quanto l'amata e presto si sarebbe allontanato. «Essere il marito o l'amante di una donna famosa e non essere nessuno non sarebbe la peggiore tortura per l'orgoglio di un uomo?». Non era stato l'unico grande a restarne affascinato. Appena arrivato a Parigi, un grande architetto, Adolf Loos era stato sedotto da Joséphine, che ammirava le sue straordinarie capacità di ballare il charleston. Purtroppo la splendida villa a righe orizzontali bianche e nere progettata da Loos, con al centro la grande piscina perfetta per incastonare la padrona di casa nuda, non sarebbe mai stata costruita. Nel 1929, durante una traversata oceanica, aveva sedotto Le Corbusier. A un ballo in maschera si erano travestiti lei da bianca e lui da nero e Joséphine aveva esultato: «Che peccato che lei sia un architetto! Sarebbe stato un ottimo partner». Lui la trovava «straordinariamente modesta e naturaleha un cuore tenero come quello di un bambino. Nemmeno un pizzico di vanità. Nulla. La naturalezza più miracolosa che si possa immaginare». La disegnava nuda o seminuda nelle sue tipiche pose di ballo. «Joséphine non posa per i ritratti, o la fa molto poco». Intanto lo sommergeva di domande e si confidava: «Non voglio che si prendano in giro i neri. Sono dei grandi artisti. Voglio far vedere ai bianchi che i neri sono uomini come gli altri, che la loro musica è bella». «La Perla Nera mi ha fatto venire i capelli bianchi», si lamentava l'impresario. A tratti Joséphine avrebbe voluto cambiare stile: «La danza selvaggia è finita. Avevo sedici anni quando ballavo il charleston quasi nuda. Adesso sono una donna. Si cresce e si cambia continuamente. Se non si ha niente di nuovo da dire o da fare, si scompare». Nel 1930 aveva intonato per la prima volta in pubblico J' ai deux amours ed era stato subito un trionfo. Ma la Venere Nera non era mai stanca di ballare, nemmeno quando, dopo avere eseguito il suo numero, andava nel suo club Chez Joséphine Baker, frequentato da artisti come Cocteau e Desnos. Tra un numero e l'altro dava il biberon alla sua capretta. Con i primi guadagni si era comprata un porcellino, un pappagallo, un serpente, due conigli, due scimmie, ma il preferito restava l'inseparabile Chiquita, un ghepardo dotato di un magnifico collare di diamanti. Aveva recitato in alcuni film - dalla Sirena dei tropici a Principessa Tam Tam - ma la nudità per lei restava un costume. Colette, forse sua amante come anche Frida Kalho, l'aveva ammirata, nel 1936, alle Folies Bergère: «Nuda tranne tre fiori d'oro, incalzata da quattro assalitori, assume un'aria seria sonnambulesca e un'assenza di sorriso che nobilitano un audace numero di music-hall. Grandi occhi fissi, armati di dure ciglia blu, zigomi porpora, zucchero abbagliante e bagnato della dentatura tra le labbra di un viola cupo - la testa si rifiuta a ogni tipo di linguaggio, non risponde nulla alla quadruplice stretta sotto cui il corpo docile sembra sciogliersi Parigi andrà a vedere, sul palcoscenico delle Folies, Joséphine Baker nuda insegnare il pudore alle ballerine nude». Durante la guerra si era impegnata nella resistenza ai nazisti, trasportando messaggi segreti mimetizzati tra gli spartiti. Da sempre schierata contro il razzismo, aveva partecipato nel 1963 alla marcia della pace di Martin Luther King, dove era stata l'unica donna a parlare. Coperta di decorazioni, era entrata nella massoneria femminile. Intanto era arrivata al quinto matrimonio con Jo Bouillon. Con lui aveva creato, nel suo castello in Dordogna, la sua "tribù arcobaleno", adottando dodici bambini di tante nazioni diverse. Proprio lei, malgrado tutta la sua spregiudicatezza, ne aveva allontanato uno dai fratelli, temendo che la sua omosessualità li contagiasse. Quando si era trovata senza soldi si era rifugiata nel principato di Monaco, sotto la protezione della principessa Grace, dove aveva passato i suoi ultimi anni. Non era possibile dimenticarla; persino un instancabile donnaiolo come Simenon doveva ammetterlo. Si sarebbero «rivisti solo trent'anni dopo, a New York, sempre altrettanto innamorati l'uno dell'altra». Neanche Le Corbusier avrebbe mai scordato il loro incontro: «Joséphine, che magnifica artista. Come erano belle le sue canzoni nere Quanta drammatica sensibilità nel suo modo di cantare e di ballare. Non l'hanno mai utilizzata come meritava Malgrado le trappole della vita, non ha mai smesso di essere buona e generosa».

·        44 anni dalla morte di Charlie Chaplin.

CHE TRIVELLONE CHARLIE CHAPLIN! Cesare Lanza per “la Verità” il 12 maggio 2019. Era ossessionato dalle donne e dal sesso. Celebre la sua imitazione di Adolf Hitler, ammirava invece Benito Mussolini, ma si schierò sempre a favore della pace. Tante le guerre giudiziarie con le numerose mogli. Di Charlie Chaplin è famoso soprattutto il suo inimitabile personaggio, Charlot. E di Charlot Chaplin ha detto: «All' inizio Charlot simboleggiava un gagà londinese finito sul lastrico... Lo consideravo soltanto una figura satirica. Nella mia mente, i suoi indescrivibili pantaloni rappresentavano una rivolta contro le convenzioni, i suoi baffi la vanità dell' uomo, il cappello e il bastone erano tentativi di dignità, e i suoi scarponi gli impedimenti che lo intralciavano sempre». E anche: «Volevo che tutto fosse una contraddizione: i pantaloni larghi, la giacchetta stretta, il piccolo cappello e le grandi scarpe. Ho aggiunto i baffetti che, pensai, avrebbero aggiunto qualche anno in più. Non avevo ancora bene in mente il personaggio. Ma nel momento in cui mi sono vestito, gli abiti e il trucco mi hanno fatto sentire chi ero. È bastato il tempo di entrare sul set per far nascere Charlot». Altre riflessioni: «Non è patetico, non è terribile che tutta questa gente mi circondi gridando "Dio ti benedica, Charlie!" e che voglia toccarmi il cappotto, e ridere o persino piangere? Li ho visti farlo, quando riescono a toccarmi la mano. E perché? Semplicemente perché li ho rallegrati. Dio, che lurido mondo è questo, che permette alla gente di passare una vita tanto abietta che se qualcuno li fa ridere vogliono inginocchiarsi e toccargli il cappotto come fosse Gesù Cristo che li risuscita». «Il mio ideale di donna? Potrei non essere davvero innamorato di lei, ma lei dovrebbe essere totalmente innamorata di me». «Ritengo che se non possiamo ridere di Hitler di tanto in tanto, allora vuol dire che la nostra condizione è peggiore di quella che crediamo. Ridere fa bene, ridere degli aspetti più sinistri della vita, persino della morte. La risata è come un tonico, un sollievo, un rimedio per attenuare il dolore». «Quando studio qualche gag che mi piace in modo particolare, e poi vado al cinema per vedere l' effetto che fa, quello che ride per primo è invariabilmente un bambino. Afferrano al volo, sempre». E di Chaplin, e Charlot, gli altri che cosa hanno detto? Alla sua morte, Federico Fellini ha scritto: «È scomparso nella stessa atmosfera natalizia in cui lo vidi per la prima volta. A Rimini i suoi film erano i più importanti, arrivavano nel periodo natalizio. Da bambini lo vedevamo come un omino cui dovere gratitudine, lo si accettava come un fatto naturale, come la neve d' inverno, il mare d' estate, Gesù Bambino. Una specie di Adamo, il progenitore da cui tutti si discende». «Chaplin ha speso tutto il suo genio per comprare sesso [...]. Seppe addirittura fingersi ebreo, cosa difficilissima, per accattivarsi il potere finanziario a Hollywood... Un amabile cinico, creatore di un personaggio umanitario» (Guido Ceronetti). «Tutto il mio amore è per Charlie Chaplin: il divino vagabondo, il divino fanciullo, il comico, il clown» (Roberto Benigni). «Chaplin è probabilmente l' uomo più sadico che io abbia mai incontrato» (Marlon Brando). Curiosità. Oltre al teatro, Chaplin si dedicava al podismo: era iscritto al club podistico di Kennington e si allenava sulle distanze lunghe; nel 1908 prese anche in considerazione l' idea di iscriversi alla maratona delle Olimpiadi di Londra, ma proprio in quel periodo si ammalò. Albert Einstein andò alla prima del film Luci della città negli Stati Uniti in compagnia dello stesso Chaplin: quando gli spettatori li videro, si alzarono in piedi applaudendoli calorosamente. E Chaplin mormorò a Einstein: «Vedi, applaudono me perché mi capiscono tutti; applaudono te perché non ti capisce nessuno». Pare che Charlie Chaplin e Paulette Goddard si siano sposati nel 1936 (per divorziare nel 1942). Tuttavia, ancora oggi, esistono dubbi se fra i due ci sia stato un effettivo matrimonio: entrambi rifiutavano di concedere dichiarazioni al riguardo e la Goddard, in lizza per ottenere il ruolo di Rossella O' Hara in Via col vento, perse per un soffio contro Vivien Leigh proprio perché non fu in grado di dimostrare di essere realmente la moglie di Charlot. Chaplin raccontava pubblicamente che si erano sposati in Cina e che avevano divorziato in Messico, ma con gli amici e la famiglia sosteneva che non erano sposati. Un cinema di New York fece l' esaurito per ben 10 anni proiettando solo film di Chaplin: dal Charlot muto ai titoli più impegnati del sonoro (che il regista non amava). Entrò così nel Guinness dei primati. Un giorno passeggiava per le strade di San Francisco e incontrò un barbone, lo portò in un ristorante e gli offrì il pranzo, dopodiché cominciò a fargli delle domande finché ottenne un racconto dettagliato e divertente della vita del senzatetto. Da quel racconto gli venne l'ispirazione per Il Vagabondo. Chaplin partecipò a un concorso per il suo miglior sosia. Arrivò terzo. La famosissima bombetta e il bastone di Charlot sono stati venduti a un' asta da Christie' s a Londra, nel 1995, come i due pezzi più importanti. Sono stati comprati al costo di 44.750 sterline, cioè circa 110 milioni di lire. Un capitolo a parte riguarda i rapporti con le donne. Peter Ackroyd ha pubblicato una biografia su Charlie Chaplin e ha messo in luce alcune (presunte?) ossessioni sessuali dell' attore e la sua sregolata vita sentimentale. Non c'era festa ad Hollywood nella quale non si rendesse subito gran protagonista: determinato a guadagnarsi sempre il centro dell' attenzione, sapeva mimare la parte di un bullo o quella di un assassino. Chaplin viene descritto come un uomo «ossessionato» dalle donne, soprattutto minorenni. Sembra che si vantasse spesso delle sue conquiste e ha confessato di aver avuto rapporti sessuali con più di 2.000 donne. Basso, con la testa leggermente troppo grande per il suo corpo esile e delicato, Chaplin era considerato da molti come di bell' aspetto, con i suoi profondi occhi azzurri, capelli neri e pelle chiara come l' avorio. Un uomo che non si è mai veramente fidato delle donne: ossessionato dalla paura della perdita e dell' abbandono e incline a furiosi scatti di gelosia. Una delle sue prime «scoperte» è stata la collega Edna Purviance, conosciuta quando lui aveva 25 anni: lei era una diciannovenne bionda, senza esperienza cinematografica e i due divennero più che colleghi. La relazione naufragò a causa dell' attaccamento al lavoro di Charlie, capace di girare la stessa scena anche 50 volte, prima di giudicarla perfetta. Poi, la sedicenne Mildred Harris, conosciuta a una festa nel 1918: per conquistarla inviò al suo albergo mazzi di rose rosse e la attendeva dopo le riprese, in auto. Diventarono ben presto amanti: lei gli raccontò di essere incinta e un matrimonio riparatorio fu organizzato in breve tempo. Divorziarono nel 1920 e in tribunale lei lo accusò di «crudeltà»: «Era irascibile, impaziente e mi trattava da cretina». Charlie era una vera «macchina del sesso». Dopo il flirt con la cacciatrice di dote Peggy Hopkins Joyce, la quindicenne Lita Grey, scelta per il film La febbre dell' oro. Anche lei rimase incinta e per Chaplin fu come rivivere l' incubo di Mildred: le suggerì di abortire, ma lei rifiutò. Consapevole dei 30 anni di carcere destinati a chi si fosse macchiato del reato di sesso con minori, l' attore confessò in un' intervista qualche anno dopo: «Ero scioccato e pronto a togliermi la vita quando Lita mi disse che non mi amava, ma che dovevamo sposarci». L'attrice dichiarò ai giornalisti dell'epoca che Charlie era una vera «macchina del sesso», capace di fare l' amore anche sei volte in una notte senza troppa fatica. I due divorziarono e in tribunale Lita l' accusò di aver tentato di minacciarla con una pistola, ad abortire. Ma è sulla questione «sessuale» che le sue dichiarazioni fecero scalpore: pare che Chaplin avesse «preteso e chiesto a Lita di gratificare i suoi innaturali, perversi e degenerati desideri sessuali». Le accuse furono subito negate dall' attore, che però concesse alimenti per un valore di 625.000 dollari, di cui 200.000 in fondi per i loro figli. Dopo Lita, Paulette Goddard, che gli disse di avere 17 anni quando invece ne aveva 22. Con lei recitò in Tempi moderni, la Goddard raccontò successivamente di aver subito dei veri e propri atti di «bullismo» da parte di Chaplin. Qualche giorno prima della prima de Il Grande Dittatore nel 1940 lei lo lasciò. Charles Spencer «Charlie» Chaplin (Londra, 16 aprile 1889 - Corsier-sur-Vevey, 25 dicembre 1977) nacque a East Street, nel sobborgo londinese di Walworth, in condizioni di indigenza, da un padre fannullone e una madre psicotica. Una vita «dalle stalle alle stelle». Ha raggiunto lo status di «uomo più famoso del mondo» a soli 26 anni. Nel 1943, sommerso dalle critiche dal governo americano per essere (così dicevano) guerrafondaio e comunista, Chaplin sposò un' altra donna molto più giovane, la figlia della sceneggiatrice irlandese Eugene O' Neill, Oona. Oona aveva 18 anni, Chaplin 54. Eugene, stessa età, era così furiosa che aveva diseredato Oona. Nonostante le critiche, il matrimonio durò fino alla morte di Chaplin, e ne nacquero otto figli. Il grande dittatore (1940) fu il primo film completamente sonoro di Chaplin, girato e distribuito negli Stati Uniti poco prima della Seconda guerra mondiale. Nel film, interpreta due personaggi: Adenoid Hynkel, il dittatore di Tomania, esplicitamente ispirato ad Adolf Hitler, e un barbiere ebreo perseguitato dai nazisti. Il film ebbe due candidature agli Oscar, come miglior attore protagonista e miglior sceneggiatura, ma non vinse alcuna statuetta. Memorabile la scena nella quale il dittatore danza con il mappamondo sulla musica del preludio del Lohengrin di Richard Wagner. Nel pomeriggio della vigilia di Natale del 1977, Chaplin chiese alla moglie Oona di spalancare le porte della camera affinché dalla hall sottostante potessero salire le note delle Christmas carol, secondo un rituale che si ripeteva da vent' anni. Quella stessa notte, alle 4, se ne andò per sempre, nel sonno, uno dei più grandi attori di sempre. Morì a Corsier-sur-Vevey (Vaud), in Svizzera. Fu sepolto nel piccolo cimitero della cittadina svizzera. Al suo fianco lo raggiunse Oona, nel 1991.

Charlot veniva da l'Aquila ma Chaplin lo abbandonò. E vinse l'Oscar delle luci. Massimo M. Veronese il 15 Agosto 2021 su Il Giornale. Era partito per l'America in cerca di fortuna, scoprì di somigliare a un genio. E diventò lui. Tutto avrebbe potuto finire prima ancora di iniziare, a bordo dello yacht più splendente della famiglia Hearst, signora e padrona di tutti i media. C'è il meglio di Hollywood quella notte di novembre del Ventiquattro, per far festa a Marlon Davies, vistosa ma mediocre stellina del cinema, compagna del padrone di casa, l'inarrivabile William Randolph Hearst: festa grande e champagne a fiumi anche se lui beve solo acqua minerale. C'è però una voce velenosa che sussurrata di bocca in bocca arriva alle orecchie del re Mida della stampa. Dice che la sua Marion se la intende in segreto con un giovane attore, Charlie Chaplin, e la cosa lo rende furioso. Hearst passeggia sul ponte, Marion è sparita, ma improvvisamente la vede vicino a una scialuppa di salvataggio, abbracciata a un uomo, o almeno così pare a Randolph che punta la pistola e spara. «É Chaplin, quel bastardo», pensa, ma appena si avvicina al cadavere si accorge con orrore che quel corpo non è del suo rivale, ma di un altro ospite della nave, un certo Thomas Ince. Nessuno ha visto niente tranne Marion, che non ne parlerà mai, e Louelle Parsons, una generica in cerca di fortuna. In cambio del silenzio sarà nominata a vita e corrispondente da Hollywood per tutta la catena dei suoi giornali. Thomas Ince sarà dichiarato morto «per una grave crisi dopo un pranzo troppo abbondante», Hearst la farà franca, Chaplin la scampò. Così cambiò la storia del cinema. E quella di un ragazzo che veniva dall'Abruzzo.

Una poetica bombetta. Il genio per Chaplin è semplicità: «Tutto quello di cui ho bisogno per girare è un parco, un poliziotto e una ragazza». La sua infanzia sembra uscita da un libro di Dickens: il papà, guitto del musical, che muore alcolizzato, la mamma, cantante di terz'ordine, che va fuori di testa, Charlie che con il fratellino Sydney finisce in orfanotrofio: fanno la coda per un piatto di minestra ma escono dall'istituto uno alla volta perché c'è solo un paio di scarpe. Nella compagnia di Fred Karno impara i trucchi della comicità e quando parte per l'America, scritturato da Mack Sennett a 150 dollari alla settimana, trova sullo stesso piroscafo Stan Laurel. Arriva a New York, alle dieci di una domenica mattina e ci resta male: «Le strade erano coperte da giornali portati dal vento e Broadway aveva un'aria sciatta come quella di una donna negligente appena uscita dal letto». Il debutto è un fiasco: se ne vanno tutti prima che il suo numero sia finito. Per sei settimane è così. Poi succede qualcosa di imprevedibile, qualcosa che cambia per sempre la Storia. «Inventami un altro personaggio - gli dice l'impresario - Ma qualcosa che funzioni». Racconta Chaplin: «Non avevo nessuna idea sul personaggio che volevo creare, ma mano a mano che mi truccavo cominciavo a conoscerlo». Vuole un personaggio che sia che tutto un contrasto: i pantaloni larghi e la giacchetta attillata, il cappello troppo piccolo e le scarpe troppo grandi. Aggiunge un paio di baffetti. Spiega: «Sarà un vagabondo, un gentiluomo, un solitario sempre in cerca di avventure». Imrovvisa una prima scena: inciampa sul piede di una signora, voltandosi si toglie la bombetta e si scusa. Poi inciampa su una sputacchiera, si volta, si toglie la bombetta e si scusa. Dietro la macchina da presa cominciano a ridere. Quando la sera torna a casa sul tram una comparsa gli dice: «Accidenti, che novità ti sei inventato, nessuno ha mai fatto tanto ridere sul set». Era nato Charlot.

Incontro a sorpresa. Un giorno al ristorante incontra se stesso. Sembra la gag di uno dei suoi film ma non lo è: quell'uomo non solo gli somiglia, è lui allo specchio. L'uomo si chiama Vincenzo Pelliccione, in arte Eugene De Verdi, è partito per l'America a vent'anni dalla piccola frazione di Rosciolo, a Magliano dei Marsi, provincia dell'Aquila. L'Italia era entrata in guerra, lui no. Ha cinque fratelli e i suoi genitori lavorano i campi. Sale su una nave destinazione Pennsylvania e sbarca il lunario a Hollywood «vendendo quadri e collaborando in teatro con Mae West e al cinema con Buster Keaton». In realtà fa un po' di tutto: barista, facchino, lavapiatti. La vita è durissima, ricca solo di sogni: «Guadagnavo due dollari al giorno: uno lo spendevo per mangiare, l'altro per le lezioni di inglese». Arrotonda facendo l'imitatore nei ristoranti di Hollywood. Chaplin lo vede e lo assume: lo vuole per essere lui. Vincenzo ha visto tutti i suoi film e per anni si era allenato a imitarlo. Poserà perfino per la sua statua di cera: «Mentre lui provava - racconta alla Domenica del Corriere -, io dovevo star fermo, immobile, come l'omino Charlot. Servivo da termine di paragone». E così Pelliccione-De Verdi sostituisce Chaplin in tutte le promozioni dei suoi film, nelle prove de Il Circo, Il Grande dittatore, Luci della città, Tempi moderni e, dal vivo, durante i tour in Florida e California. «Io, povero abruzzese emigrato in cerca di fortuna, diventavo Charlie Chaplin. La gente mi fermava per strada, mi applaudiva quando facevo il numero con la bombetta e i pantaloni a fisarmonica». E anche a teatro «riuscivo a imitarlo in modo ineccepibile, nessuno sarebbe stato in grado di distinguere la copia dall'originale», spiega a Gente. A Los Angeles, gli chiedono una comparsata alla fermata del tram vestito da Charlot. Funziona talmente che si scatena il caos: «Macchine ferme e persone che applaudivano il grande attore che credevano io fossi, crearono un ingorgo spaventoso. Ebbi un colpo di genio e incominciai a dirigere il traffico. Il pubblico mi acclamava, finché ebbi paura di tanto fanatismo e mi rifugiai nel teatro. Qui l'impresario mi guardò stupito: Che hai fatto? Credevi di essere Charlot?». Per dieci anni Chaplin e Pelliccione sono una cosa sola. Poi, di colpo com'era iniziata, finì. «Charlie non mi volle più sul set, ma Sid Grauman, l'impresario del Chinese Theatre, che mi scoprì, continuò a scritturarmi. Ma soffrii il distacco che sfiorava il disprezzo di Charlot».

Pelliccione torna in patria nel 1968, da tempo si è reinventato tecnico delle luci e mago degli effetti speciali per Hollywood e Cinecittà. Così bene da vincere, di sponda, l'Oscar per Ventimila leghe sotto i mari. Gira anche kolossal come Ben Hur e Cleopatra, collabora con Marilyn Monroe, Liz Taylor, Anna Magnani, spesso torna a Magliano dei Marsi da dove era partito tanti anni prima. Lo scultore Enzo Carnebianca, suo nipote, lo racconta al Corriere della sera: «Girava con un cocker nero ammaestrato che gli portava il giornale quando faceva colazione al bar: del suo passato come controfigura di Chaplin non amava parlare».

L'ultima scena. Anche Chaplin ha lasciato l'America inseguito dal maccartismo e si è rifugiato in Svizzera. Morirà il giorno di Natale del 1977, finale perfetto per il vagabondo poeta, ormai seduto sulla sedia a rotelle, che non parlava più. Dall'abete di casa vengono tolte tutte le decorazioni, viene sepolto in un piccolo cimitero ombreggiato di cipressi che si affaccia sul lago e sulle Alpi. Un bambino si presenta davanti al cancello con una rosa rossa. Sei mesi dopo, il 20 giugno del 78, se ne va anche Vincenzo a 84 anni, in una casa di cura a Roma. Ha un unico dispiacere: «Che non gli sia stata riconosciuta l'invenzione delle colonnine salvavita che ancora oggi vengono utilizzate nella nostra rete autostradale» spiega il nipote. Ma la vita non ti regala sempre le soddisfazioni che meriti. Diceva Chaplin: «Saggi o pazzi dobbiamo tutti lottare per l'esistenza: la fortuna e la sfortuna si abbattono su di noi con lo stesso capriccio delle nubi». Nell'ultima scena se ne andava sempre di spalle, con il bastoncino, verso l'infinito.

·        44 anni dalla morte di Maria Callas.

Anna Guaita per “il Messaggero” il 5 dicembre 2021. Il 16 settembre 1977 i telegiornali della sera aprirono con una notizia che scioccò il mondo: la grande Maria Callas era morta. La soprano che aveva dominato i palcoscenici e le cronache mondane si era spenta da sola, nella sua casa di Parigi, a soli 53 anni. Il cordoglio fu universale. Tutti sapevano che la sua non era stata una vita gioiosa. Oggi però una storica britannica ci racconta fatti che non conoscevamo, crudeltà che hanno accompagnato Maria sin dall'infanzia, tradimenti, ricatti, malattie e abuso di sonniferi e stupefacenti. Dalla madre che voleva che si prostituisse per pagarsi le lezioni di canto, al marito Giovanni Battista Meneghini che la stessa cantante in una lettera accusa di averle rubato metà del patrimonio, all'amante Aristotele Onassis che la drogava per farle fare atti sessuali che lei «non avrebbe mai fatto se fosse stata in controllo delle proprie facoltà», per giungere a un famoso direttore della Juilliard School che non le confermò l'insegnamento perché lei si era rifiutata di diventarne l'amante, Maria Callas ha attraversato i suoi brevi 53 anni di vita passando da «un inferno all'altro».  In un libro che sta facendo discutere prima ancora della data di pubblicazione del prossimo primo giugno, l'autrice Lyndsy Spence porta prove finalmente definitive della verità, almeno la verità che la stessa Callas raccontava. Spence infatti rivela il contenuto di centinaia di lettere che la soprano aveva inviato ad amici carissimi e alla sorella, e che erano state conservate in tre diversi archivi: «Non mento quando dico che erano state nascoste» rivela Spence nel suo indirizzo Instagram, nel quale offre varie anticipazioni del libro. Il titolo, «Cast A Diva», gioca sulle parole casta e cast: da un canto «Casta Diva» è la famosa aria di Bellini che Maria interpretava superbamente, dall'altro «to cast» significa «scritturare», quindi anche «Scritturate una Diva». La biografia ci rivela anche fatti dolci e innocenti dell'artista, sempre ricostruiti dalle lettere. La sua passione per la vita semplice, ad esempio: «La gente era intimidita da lei, credeva che lei si aspettasse sempre feste grandiose, quando in realtà avrebbe preferito guardare film western e cartoni animati mangiando gelato». O anche il grande dolore di avere avuto genitori che non l'amavano, perché speravano in un figlio maschio: «La cosa più terribile è far sentire a un figlio che è indesiderato» scrive la cantante, che si interroga anche: «Se solo mia madre capisse quel che ha fatto contro di noi, se per un solo minuto vedesse chiaramente, credo potrebbe suicidarsi». Ma le parole più aspre, Maria le riserva contro il marito, l'imprenditore veneto Meneghini, che fingeva di esserle devoto ma «confidava segreti alla stampa» e «abusava di lei psicologicamente» spesso «lasciandola in lacrime a pochi minuti dall'alzarsi dei sipari», e per di più la sfruttava economicamente, «è un pidocchio scriveva Maria mi ha derubato della metà dei miei averi, sono stata una sciocca ad aver fiducia in lui». Peggio ancora la vita con Onassis: «Ho cominciato a morire quando ho incontrato quest' uomo» confida Callas all'amica mezzosoprano Giulietta Simionato e in un'altra lettera aggiunge: «Le nostre vite erano un inferno». Il Nembutal e il Mandrax, che Onassis le faceva prendere per fare sesso, resero Maria dipendente, e forse peggiorarono quel disturbo neurologico che le cominciò a far perdere la voce, obbligandola ad abbandonare i palcoscenici. Onassis la lasciò per Jackie Kennedy, e lei dopo la famosa tournee con il collega e amico Giuseppe Di Stefano, si ritirò a vivere a Parigi, con la pianista greca Vasso Devetzi, una dama di compagnia che si fingeva fedele amica, ma Spence definisce «una truffatrice». 

Tormentata vita di Maria Callas rivelata in lettere inedite. Droga, abusi sessuali, violenza raccontate in nuovo libro. La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Aprile 2021. Maria Callas era adorata dal pubblico di tutto il mondo, ma la sua vita è stata tutt'altro che un sogno, anzi è stata ancora più tragica di quanto si pensasse in precedenza. A rivelarlo sono alcune lettere inedite pubblicate nel libro 'Casta Diva: The Hidden Life o Maria Callas', scritto da Lyndsy Spence, in uscita il 1 giugno. Dalla corrispondenza inedita a cui ha avuto accesso l'autrice sono emersi - secondo le anticipazioni riportate dai media - abusi e violenze fisiche, un matrimonio complicato con Giovanni Battista Meneghini e le ombre del rapporto con il suo grande amore, Aristotele Onassis, che la abbandonò per Jackie Kennedy. Spence ha scoperto il difficile rapporto della Callas con la madre, che durante la guerra aveva cercato di farla prostituire con i soldati tedeschi. In una lettera alla sua segretaria, la soprano ha poi confessato che Meneghini l'ha derubata di più della metà dei suoi soldi. "Sono stata una sciocca a fidarmi di lui - ha scritto - E mi sta ancora tormentando". Mentre Onassis in più di una occasione l'avrebbe drogata, per lo più per motivi sessuali. La Callas morì a soli 53 anni nel 1977 e dal materiale inedito raccolto da Spence emergono anche nuove informazioni sui suoi problemi di salute, che ne influenzarono le prestazioni negli anni Sessanta. Pare che soffrisse di un disturbo neuromuscolare che era stato liquidato dai suoi medici come pazzia, e che invece spiegava la sua perdita della voce. (ANSA).

Anna Guaita per “il Messaggero” il 12 aprile 2021. Il 16 settembre 1977 i telegiornali della sera aprirono con una notizia che scioccò il mondo: la grande Maria Callas era morta. La soprano che aveva dominato i palcoscenici e le cronache mondane si era spenta da sola, nella sua casa di Parigi, a soli 53 anni. Il cordoglio fu universale. Tutti sapevano che la sua non era stata una vita gioiosa. Oggi però una storica britannica ci racconta fatti che non conoscevamo, crudeltà che hanno accompagnato Maria sin dall'infanzia, tradimenti, ricatti, malattie e abuso di sonniferi e stupefacenti. Dalla madre che voleva che si prostituisse per pagarsi le lezioni di canto, al marito Giovanni Battista Meneghini che la stessa cantante in una lettera accusa di averle rubato metà del patrimonio, all'amante Aristotele Onassis che la drogava per farle fare atti sessuali che lei «non avrebbe mai fatto se fosse stata in controllo delle proprie facoltà», per giungere a un famoso direttore della Juilliard School che non le confermò l'insegnamento perché lei si era rifiutata di diventarne l'amante, Maria Callas ha attraversato i suoi brevi 53 anni di vita passando da «un inferno all'altro».  In un libro che sta facendo discutere prima ancora della data di pubblicazione del prossimo primo giugno, l'autrice Lyndsy Spence porta prove finalmente definitive della verità, almeno la verità che la stessa Callas raccontava. Spence infatti rivela il contenuto di centinaia di lettere che la soprano aveva inviato ad amici carissimi e alla sorella, e che erano state conservate in tre diversi archivi: «Non mento quando dico che erano state nascoste» rivela Spence nel suo indirizzo Instagram, instagram.com/lyndsyspence, nel quale offre varie anticipazioni del libro. Il titolo, «Cast A Diva», gioca sulle parole casta e cast: da un canto «Casta Diva» è la famosa aria di Bellini che Maria interpretava superbamente, dall'altro «to cast» significa «scritturare», quindi anche «Scritturate una Diva». La biografia ci rivela anche fatti dolci e innocenti dell'artista, sempre ricostruiti dalle lettere. La sua passione per la vita semplice, ad esempio: «La gente era intimidita da lei, credeva che lei si aspettasse sempre feste grandiose, quando in realtà avrebbe preferito guardare film western e cartoni animati mangiando gelato». O anche il grande dolore di avere avuto genitori che non l'amavano, perché speravano in un figlio maschio: «La cosa più terribile è far sentire a un figlio che è indesiderato» scrive la cantante, che si interroga anche: «Se solo mia madre capisse quel che ha fatto contro di noi, se per un solo minuto vedesse chiaramente, credo potrebbe suicidarsi». Ma le parole più aspre, Maria le riserva contro il marito, l'imprenditore veneto Meneghini, che fingeva di esserle devoto ma «confidava segreti alla stampa» e «abusava di lei psicologicamente» spesso «lasciandola in lacrime a pochi minuti dall'alzarsi dei sipari», e per di più la sfruttava economicamente, «è un pidocchio scriveva Maria mi ha derubato della metà dei miei averi, sono stata una sciocca ad aver fiducia in lui». Peggio ancora la vita con Onassis: «Ho cominciato a morire quando ho incontrato quest' uomo» confida Callas all'amica mezzosoprano Giulietta Simionato e in un'altra lettera aggiunge: «Le nostre vite erano un inferno». Il Nembutal e il Mandrax, che Onassis le faceva prendere per fare sesso, resero Maria dipendente, e forse peggiorarono quel disturbo neurologico che le cominciò a far perdere la voce, obbligandola ad abbandonare i palcoscenici. Onassis la lasciò per Jackie Kennedy, e lei dopo la famosa tournee con il collega e amico Giuseppe Di Stefano, si ritirò a vivere a Parigi, con la pianista greca Vasso Devetzi, una dama di compagnia che si fingeva fedele amica, ma Spence definisce «una truffatrice».

·        44 anni dalla morte di Elvis Presley.

Arianna Ascione per "corriere.it" il 9 gennaio 2021.

Era Biondo. «Prima di Elvis c’era il nulla» diceva John Lennon: grazie al suo stile musicale innovativo, nell’arco della sua vita purtroppo interrotta prematuramente, Elvis Presley (che nasceva 86 anni fa, l’8 gennaio 1935) ha rivoluzionato la storia della musica. In tutti questi anni è stato scandagliato ogni dettaglio della sua esistenza, ma forse non tutti sanno che nella realtà era biondo. Per ottenere il suo look si tingeva i capelli di nero (prima con del semplice lucido da scarpe, poi adottò la tinta Miss Clairol 51 D, Black Velvet).

Come si chiamano le celebri mosse. Furono tre le mosse che resero popolare Elvis fin dalle prime esibizioni: la celeberrima «pelvis» sfoggiata in diretta sulla CBS (quello scandaloso movimento delle anche che scandalizzò i benpensanti dell’epoca), il «windmill» (l’imitazione del mulino a vento, realizzato facendo roteare le braccia) e le «rubber legs» (la mossa con le gambe).

Fu testimonial pro-vaccini. Nel 1956, prima della sua memorabile partecipazione all’Ed Sullivan Show, Elvis accettò di farsi vaccinare contro la poliomielite davanti alle telecamere. Successivamente, anche grazie al suo esempio, ci fu una vera e propria corsa alla vaccinazione e nel giro di un decennio i casi di polio si ridussero notevolmente (nel 1962 furono soltanto 910, dieci anni prima erano stati 58mila).

Quando sparò alla tv. Tra le mura di Graceland è ancora custodito il televisore a cui Elvis sparò un colpo di pistola. Come ha spiegato in un’intervista recente suo cugino Billy Smith lo ha fatto probabilmente «per qualcosa che ha visto o qualcosa che lo ha disturbato». Insomma «non ci pensava su due volte».

L’errore sulla lapide. Come per molte altre star scomparse prematuramente le teorie cospirazioniste sulla morte di Elvis si sprecano. Una, molto curiosa, è legata al nome inciso sulla lapide: Elvis Aaron Presley. Il secondo nome, all’anagrafe, era Aron e l’errore - secondo i cospirazionisti voluto - indicherebbe che il Re non è stato sepolto in quel luogo (perché seppellito altrove o, appunto, ancora vivo). In realtà Elvis ha iniziato ad utilizzare Aaron, al posto di Aron, a partire da 1966.

I panini preferiti dal Re. L’ipercalorico panino Fool’s Gold (o Fool’s Gold Loaf), che deve la sua fama al Re, è stato inventato a Denver, in Colorado, nel ristorante Colorado Mine Company. Si prepara con una baguette (che viene ricoperta con margarina e fatta dorare in forno), un intero barattolo di burro di arachidi, uno di confettura d’uva e pancetta fritta nell’olio. Ma Elvis adorava anche una sua variante, che porta il suo nome e che contiene al posto della confettura d’uva una banana tagliata a rondelle (o schiacciata).

Chitarre all’asta. Da quando gli fu regalato il primo strumento a 11 anni di chitarre Elvis ne ha possedute moltissime. Alcune sono state battute all’asta a cifre record, come quella che ha suonato tra il 1954 e il 1956 (una Martin D-18 del 1942). La comprò nel negozio di strumenti musicali O.K. Houck’s Piano Store, a Memphis, e lo scorso 22 luglio è stata venduta per 1,32 milioni di dollari.

I primi lavori. Prima di darsi alla musica Elvis ha guadagnato qualche soldo con alcuni lavoretti saltuari: ha iniziato falciando i prati insieme ad alcuni compagni di scuola. In seguito lavorò come maschera in un cinema, come assemblatore in un mobilificio e come addetto alle consegne per un’azienda di materiale elettrico.

Era balbuziente. Ha iniziato a cantare come terapia per la balbuzie. Lo si sente balbettare - ad esempio - in una registrazione dello show The Louisiana Hayride.

Il karate e Brian Wilson. Nel 1975 Brian Wilson dei Beach Boys ed Elvis si incrociarono agli studi RCA di Hollywood, dove si trovavano entrambi per registrare. Per attirare l’attenzione del Re del Rock Brian iniziò a colpirlo sul braccio con alcune mosse di karate - convinto che lo conoscesse, voleva soltanto scherzare - ma lui non la prese bene e reagì andandosene subito.

·        41 anni dall’uscita di “The Blues Brothers”.

Francesco Alò per "il Messaggero" 21 dicembre 2020. La botta arriva già a pagina 24: «Perché non eri lì con lui?» le chiede a bruciapelo Billy, subito dopo che ha saputo della morte del fratello John Belushi, a 33 anni, la notte del 28 febbraio 1982, per overdose di cocaina ed eroina. Judith Belushi Pisano non sa che rispondere. Era a New York e il suo analista le aveva suggerito di non seguire a Los Angeles, dopo l' ennesimo litigio, il marito star del cinema con Animal House (1978) e The Blues Brothers (1980), musicista da due dischi di platino (sempre con i Fratelli Blues in coppia con Dan Aykroyd) e comico simbolo dei casinari anni 70 fin dai primi sketch comici nello show tv di culto Saturday Night Live (1975). «Lo so», singhiozza Judith al telefono: «Avrei dovuto essere con lui, Billy!». È il passaggio più drammatico di John Belushi La biografia definitiva, saggio pieno pure di risate, edito per la prima volta in Italia grazie a Sagoma Editore, frutto della fusione tra le memorie inedite nel nostro paese della consorte Samurai Widow del 1990 e Belushi, raccolta datata 2005 di interviste e foto sempre ad opera di Judith con l' aiuto di Tanner Colby, edito in Italia nel 2006 dalla Rizzoli. Le 480 pagine sono dunque in parte la ricostruzione del rapporto con il marito della vedova ironicamente ribattezzatasi Samurai (era il personaggio dall' eloquio incomprensibile più folle di Belushi, ispirato al cinema di Kurosawa) e per metà parole e chiacchiere di chi lavorò con lui, dall' amico fraterno Bill Murray al regista John Landis. Si passa dunque da una ragazza wasp spaventata da un certo Balucci (era convinta fosse italiano perché ignorava «l' esistenza degli albanesi») che provava a rimorchiarla con insistenza nella periferica Chicago di fine anni 60, al resoconto dettagliato dell' arte comica di colui che viene definito dal collega e futuro Ghostbuster Harold Ramis: «Strepitoso, matto e masochista». Non è mai stata data alle stampe, in traduzione italiana, un' opera così ricca di informazioni sulla formazione culturale e politica sull' enfant terrible dello show business americano dopo il best-seller Chi tocca muore (1984) del giornalista due volte premio Pulitzer Bob Woodward, che lo descriveva come uno sgradevole tossicodipendente. Qui c' è maggiore attenzione ai natali da figlio di immigrati piccolo-borghesi, gli anni della disillusione ideologica dopo l' omicidio di Bobby Kennedy nel 1968, gli esordi presso gli improvvisatori della satira del teatro Second City e soprattutto quelle qualità artistiche di chi imitava Marlon Brando alla perfezione e otteneva la stima incondizionata di Jack Nicholson («Tu non sei un comico ma un grande attore», gli ripeteva spesso). E allora cosa andò storto? Tutta colpa di quel dannato 1978 in cui Belushi recitò nella commedia più redditizia di Hollywood ovvero Animal House di Landis (141 milioni di dollari di incasso per un budget di miseri 3), sbancò con l' album dei Blues Brothers ed era il più popolare guitto in tv grazie al Saturday Night Live. Probabilmente troppo successo anche per uno abituato all' eccesso come lui. Ecco il regalo perfetto per le feste di questo 2020 in cui il film The Blues Brothers (1980) compie 40 anni: vita, morte e miracoli di un figlio di classi umili dell' Illinois nato nel 1949, con nonna analfabeta alla quale comunicare tutto a gesti, radicale di sinistra, milionario appena trentenne, tre volte sulla copertina di Rolling Stone, inseguito per strada come i Beatles e fissato con Napoleone Bonaparte. Struggente la chiusa della prefazione del soul brother Dan Aykroyd: «Attore, comico, rockstar. Per me ha interpretato l' eroe americano».

Laura Zangarini per il ''Corriere della Sera'' il 6 settembre 2020. «Ho ucciso John Belushi». Trentotto anni, 5 mesi, 23 giorni dopo la morte dell' attore americano, avvenuta il 5 marzo 1982 allo Chateau Marmont Hotel, a Los Angeles, California, Cathy Smith si è spenta a Maple Ridge, Canada. Aveva 73 anni. A cambiare per sempre la sua vita di corista e cantante nata il 25 aprile 1947 a Burlington, Ontario, era stata la copertina di The National Enquirer del giugno 1982 in cui rivelò di avere iniettato a Belushi la dose fatale di droga. «Non volevo ucciderlo, ma sono responsabile» si leggeva nel titolo, accanto a una foto dell' attore. Sotto l' immagine, un altro titolo aggiungeva: «Esclusiva mondiale - La donna misteriosa confessa». Prima dello scoop dell'«Enquirer», la morte della star di Animal House (1978) e The Blues Brothers (1980), film culto diretti da John Landis, era stata archiviata come «overdose accidentale di droga». Non era un mistero per nessuno che Belushi facesse uso pesante di stupefacenti. La sera di giovedì 4 marzo, dal bungalow dove si era sistemato per lavorare alla sceneggiatura del suo nuovo film, Noble Rot , chiamò Cathy Smith, ex groupie passata dal folk al più «pericoloso» mondo del rock' n'roll, attraverso cui era arrivata nella dorata Hollywood. Erano completamente ubriachi quando, come lei ammise nell' intervista, che le fruttò 15mila dollari, iniettò a Belushi una combinazione di eroina e cocaina - la micidiale «speedball» - che ne causò la morte. L' articolo portò a una nuova indagine e, nel 1983, Smith venne incriminata per omicidio di secondo grado. Accettò di patteggiare: ammise l' omicidio colposo. Condannata a 15 mesi, scontò la pena presso la prigione di Chino, in California. Dopo il rilascio si trasferì a Toronto, dove lavorò come segretaria legale e si dedicò a parlare con gli adolescenti dei pericoli della droga. Fece di tutto per sfuggire a quel titolo dell' Enquirer . Compreso discolparsi in un memoir ( Chasing The Dragon , inseguendo il drago) pubblicato nel 1984, mentre il suo caso era ancora aperto. «Non ho ucciso John Belushi - scrisse -. Mi sento in colpa, ma è il senso di colpa che deriva dal non essere consapevole di ciò che stava realmente accadendo». Nel suo libro Chi tocca muore - La breve delirante vita di John Belushi , 1984, il giornalista del «Watergate» due volte premio Pulitzer Bob Woodward, raccontò che, ben prima della morte del divo, Smith era nota nella scena rock come la pusher a tempo pieno di Ron Wood, Keith Richards e altri del mondo dello spettacolo. L' articolo riportava che Smith era conosciuta come «Cathy Silverbag» perché portava una borsa argentata piena di droga - o «veleno», come lo definì il giudice che la condannò nel 1986, David A. Horowitz, della Corte Superiore di Los Angeles: «Lei - disse rivolto a Smith - era il collegamento, la fonte di quel veleno. Sapeva come usare l' ago». Il cantautore canadese Gordon Lightfoot, di cui Cathy Smith era stata amante e musa nei primi anni Settanta, aveva raccontato la loro relazione tumultuosa nella canzone «Sundown» (1974). È stato l' unico a ricordarla dopo la morte. «Era una gran signora - ha detto al quotidiano The Globe and Mail -. Attraeva gli uomini, mi rendeva geloso. Ma non ho niente di negativo da dire su di lei».

Arianna Ascione per corriere.it il 6 settembre 2020.

Aveva rifiutato il rehab. Un’overdose di cocaina ed eroina il 5 marzo 1982 metteva fine alla vita di uno dei comici più promettenti di Hollywood, John Belushi. «Scervellato, sferico attore comico, noto per le sue imitazioni al Saturday Night Live, trovato senza vita in un bungalow a Hollywood»: così sintetizzò in un trafiletto il giorno successivo il New York Times nel dare la notizia della scomparsa improvvisa — a soli 33 anni — dell’attore di «The Blues Brothers» e «Animal House», che gettò nello sconforto i tanti amici e colleghi. Che, a dire il vero, da tempo erano preoccupati per la sua salute e per il suo smodato consumo di sostanza stupefacenti (che consumasse droga fin dai tempi del SNL non era un mistero per nessuno). Più volte gli avevano consigliato di andare in rehab, ma lui si era sempre rifiutato.

L’ultima notte. Il 4 marzo 1982 John era riuscito ad ottenere dal suo manager Bernie Brillstein 1500 dollari, ufficialmente per acquistare una chitarra. Temendo che potesse spenderli in droga inizialmente quest’ultimo glieli rifiutò. Poi, quando Belushi si ripresentò nel suo ufficio, Brillstein — che era nel bel mezzo di un incontro di lavoro — glieli concesse. L’attore decise di investire parte della cifra in un pedale per la sua batteria e il resto in cocaina ed eroina. Decise di passare la serata insieme all’ex autore del Saturday Night Live Nelson Lyon e alla groupie e cantante Cathy Evelyn Smith (morta il 18 agosto scorso a 73 anni). I tre, tra feste e locali, bevvero molto e assunsero una grande quantità di droga.

La visita di Robin Williams e Robert De Niro. Nel bel mezzo dei festeggiamenti Belushi accusò un po’ di nausea, e chiese a Smith di riaccompagnarlo al suo bungalow allo Chateau Marmont. Come avrebbe poi raccontato lei a distanza di qualche mese l’attore — che aveva il terrore degli aghi — le chiese di iniettagli più volte dosi di speedball (così è chiamato in gergo il mix di eroina e cocaina). Durante la notte fecero un salto al bungalow anche due amici, il comico Robin Williams — che prima di andarsene sniffò alcune righe di cocaina — e Robert De Niro che, sconcertato dallo stato in cui versava la stanza, decise di non trattenersi. Più tardi John andò a dormire.

Trovato morto dal personal trainer. John Belushi fu ritrovato privo di vita nella tarda mattinata del 5 marzo dal suo personal trainer di allora, Bill Wallace, che tentò di rianimarlo praticandogli il massaggio cardiaco, prima di chiamare l’ambulanza e il manager. Fu tutto inutile: dopo mezz’ora il medico legale Thomas T. Noguchi, intervenuto sulla scena, ufficializzò il decesso.

Il patto (funebre) con Dan Aykroyd. Ai funerali di Belushi, che si tennero con rito ortodosso, parteciparono i familiari e molte persone che avevano lavorato con lui a partire dal suo grande amico Dan Aykroyd che suonò la canzone «The 2000 Pound Bee» per rispettare un patto scherzoso fatto anni prima. L’attore fu poi sepolto all’Abel’s Hill Cemetery a Martha’s Vineyard, nel Massachusetts.

I progetti interrotti. In seguito alla morte di Belushi Dan Aykroyd affrontò una pesante crisi depressiva, che fece ritardare tutti i progetti cinematografici che i due avevano in cantiere. Tra questi «Una poltrona per due» (John avrebbe dovuto interpretare Valentine, parte poi andata ad Eddie Murphy) e «Ghostbusters», che fu realizzato soltanto nel 1984 con Bill Murray nei panni di Peter Venkman al posto dell’attore scomparso.

BLUES BROTHERS. IL CAPOLAVORO DI JOHN LANDIS COMPIE QUARANT’ANNI. Filippo Mazzarella per corriere.it il 21 giugno 2020.

Deludente in patria. Nel 1978, l’anno di Animal House, John Belushi e Dan Aykroyd creano per la popolarissima trasmissione tv Saturday Night Live i personaggi di Jake “Joliet” ed Elwood Blues, ribattezzati dal compositore Howard Shore “The Blues Brothers”: due fratelli cresciuti in un orfanotrofio dell’Illinois e iniziati al blues nelle sue molteplici declinazioni grazie a un inserviente dell’istituto, caratterizzati dai loro abiti neri e dagli onnipresenti occhiali da sole Ray-Ban Wayfarer, anch’essi con montatura nera. Col primo in vetta anche alle classifiche degli incassi cinematografici, i due finiscono primi nella classifica di Billboard grazie all’abum di cover Briefcase Full of Blues; e subito iniziano a mettere sul piatto l’idea che i loro personaggi possano diventare protagonisti di un film. Dopo una lotta acerrima di Paramount e Universal per aggiudicarsene produzione e distribuzione, a prevalere è quest’ultima, che ingaggia John Landis alla regia e lo incarica anche di trasformare in qualcosa di realmente filmabile il copione di 400 pagine che lo sceneggiatore esordiente Aykroyd aveva scritto di getto sull’onda dell’entusiasmo. Due anni dopo, il 20 giugno 1980, per la modica cifra di quasi trenta milioni di dollari di budget contro i dodici preventivati (nonché al prezzo di una lunga serie di traversie di lavorazione, inclusa la discesa sempre più verticale di Belushi nella dipendenza dalle droghe), il film (una commistione geniale, irripetibile e catastrofica di musical, commedia e satira) debutta nelle sale americane senza clamori e sbeffeggiato da gran parte della critica (il Los Angeles Times parlò senza mezzi termini di “disastro”, paragonandolo al flop di Spielberg 1941 – Allarme a Hollywood; la Bibbia dell’entertainment Variety lo associò per humour e forza espressiva ai film di Gianni e Pinotto) finendo a un onorevole ma deludente decimo posto negli incassi complessivi della stagione Usa. Assai meglio accolto dalla critica europea, che già vedeva in Landis l’alfiere di un cinema sì demenziale ma anche profondamente politico, diviene però a sorpresa il primo film americano a incassare più all’estero che in patria. E oggi, in occasione del suo quarantennale (ma la stessa cosa si sarebbe già potuta scrivere dieci, venti o perfino trenta anni fa...) è universalmente considerato un capolavoro.

La storia. A Chicago, a bordo della sua nuova “Bluesmobile”, Elwood Blues preleva il fratello Jake dalla prigione in cui ha trascorso tre anni per rapina e insieme a lui fa visita all’orfanotrofio cattolico dove hanno trascorso la loro infanzia solo per scoprire che l’istituto necessita di cinquemila dollari per pagare tasse arretrate che potrebbero portarlo alla chiusura. I due si offrono di procacciare la somma in tempi brevi, ma vengono avvertiti che dovranno guadagnare quei soldi onestamente. Dopo aver assisitito alla travolgente esibizione del reverendo Cleophus James nella chiesa battista di Triple Rock, Jake viene folgorato da una rivelazione: l’unico modo per far fronte all’impegno preso con l’orfanotrofio è entrare “in missione per conto di Dio” e rimettere insieme la vecchia Blues Brothers Band. Dapprima rintracciando e riunendo i vecchi compagni del gruppo (oggi tutti onesti e disillusi lavoratori, ben lontani dal sogno primigenio di sfondare con la musica) e poi organizzando concerti i cui incassi vengano devoluti alla bisogna. L’impresa non si rivelerà semplice: non tanto per la relativa difficoltà della reunion, quanto perché i due si cacceranno in una serie di catastrofici impicci a catena: tallonati da una donna misteriosa e vendicativa che li vuole morti (che si scoprirà essere la ex di Jake abbandonata sull’altare), dai membri di una band alla quale si sono sostituiti ingannando il proprietario di un club, dai “nazisti dell’Illinois” con cui hanno avuto uno spiacevole incontro e dalle forze dell’ordine congiunte dell’intero stato, riusciranno nel loro intento dopo una memorabile esibizione dal vivo ma anche dopo una fuga disperata e una lotta contro il tempo per raggiungere pagare il debito all’ufficio delle tasse di Chicago prima di finire definitivamente in prigione.

Un film «politico». Al suo quarto lungometraggio dopo Slok, Ridere per ridere e Animal House, Landis si mette al servizio del “progetto Blues Brothers” senza dimenticare la sua verve caustica e la sua capacità di restituire una lettura “politica” della società americana pur nascondendo il suo estremismo tra le pieghe di un cinema apparentemente innocuo e “demenziale”. Non a caso, dei suoi tre film precedenti i primi due erano parodie di genere (il secondo addirittura scritto da quei portabandiera della comicità paradossale e dissacratoria che furono i fratelli Abrahams e David Zucker, poi autori di una lunga serie di “classici” a partire da L’aereo più pazzo del mondo) e il terzo una sporazione della rivista satirica National Lampoon, nata nel 1970 sulla falsariga della celeberrima Mad. Da un regista che forse senza volerlo davvero ha impresso un cambiamento radicale non solo alla commedia ma anche al cinema di genere (la portata di innovazione interna di Un lupo mannaro americano a Londra attende ancora un quarto di giustizia), The Blues Brothers è un film “perfettamente in linea con lo spirito ribellistico e irriverente dei tempi” (P. Mereghetti), ma anche un attacco frontale e preveggente a un’America già sull’orlo del baratro della follia reazionaria degli anni Ottanta a venire: la descrizione sulfurea delle istituzioni tutte (e dei loro rappresentanti) fa il paio con quella di una società civile rappresentata come quintessenzialmente ignorante, razzista e alimentata dal pregiudizio. Questa tensione è palpabile, e percorre a livello carsico tutto il film, costituendone una seconda spina dorsale laddove la prima, logicamente, è quella più scatenata e (solo in apparenza) superficiale di un divertissement in grado di rielaborare le istanze del musical (pensate a come partono e si integrano nella narrazione i segmenti cantati e coreografati, posizionati nella scansione narrativa all’altezza delle svolte più cruciali del racconto, inclusa l’apoteosi finale in carcere sulle note -ovviamente- di Jailhouse Rock) e di costruire per accumulo un meccanismo comico che tiene conto con leggerezza anche della lezione dei maestri del cinema muto (le gag migliori sono tutte non verbali: vedi la storica sequenza in cui Belushi/Jake si toglie per l’unica volta gli occhiali). Una progressione dinamica nello sconquasso e nel finimondo che certamente origina da quella messa in atto sessant’anni prima da Chaplin, Keaton e Stanlio e Ollio (di cui Belushi e Aykroyd sono una sorta di doppio aggiornato e figlio delle sotto/controculture della seconda metà del Novecento): perché l’unicità di The Blues Brothers sta anche nel suo essere stato un esempio rielaborato e “galleggiante” di un cinema che già all’epoca in cui uscì non esisteva più. E, oggi, di rappresentare un cinema che rimpiangiamo ma che forse non è davvero mai esistito. Nonché, come ricorda la giornalista Sara Sagrati, di essere un film “su due bianchi che suonano musica nera, comandano dei musicisti neri, sfruttano il prossimo e tutto per aiutare delle suore bianche”. Che a voler contestualizzare come usa in questi giorni, magari i veri nazisti dell’Illinois potrebbero pure essere loro.

Una mitragliata di scene cult. Abbiamo sin qui accuratamente evitato di utilizzare il termine “cult”: ma ora non se ne può più fare a meno. Non solo un’infinità di sequenze “narrative” del film ricadono infatti sotto la categoria (proviamo a elencarne quattro a caso: la riconsegna degli effetti personali di Jake da parte della guardia carceraria, la sequenza al ristorante, il monologo-confessione nel tunnel, l’arrivo della SWAT nel finale; se non sapete a cosa ci stiamo riferendo proviamo per i vostri occhi vergini un profondo sentimento di invidia), ma che dire della parte strettamente musicale e delle sue guest star?  In un film che brilla comunque per le sue scelte di casting “puro” (oltre a Belushi e Aykroyd fanno parte del gioco anche Carrie Fisher, nel ruolo della ex fidanzata -senza nome- di Jake; il veterano Charles Napier in quello dell’improbabile leader della band country Good Ole Boys; John Candy, Kathleen Freeman e tanti cameo tra i quali Frank Oz, Steven Spielberg, Paul Reubens aka Pee-Wee Herman e la modella Twiggy), il parco di glorie della musica, blues/soul/jazz/funk/r’n’b in campo fa tremare i polsi. Già basterebbe la composizione della Blues Brothers Band, in cui figurano Donald Dunn e Steve Cropper (fondatori dei Booker T. & the M.G.’s), Alan Rubin, Lou Marini e Tom Malone (membri dei Blood Sweat & Tears), Willie Hall, batterista dei Bar-Kays e il chitarrista Matt Murphy che esordì con una leggenda come Howlin’ Wolf: ma quando mai si era vista una commedia in grado di riunire sullo schermo, facendoli anche esibire al meglio delle loro capacità, leggende come James Brown, John Lee Hooker, Aretha Franklin, Ray Charles e Cab Calloway (e, per i più “specialisti” Pinetop Perkins e Big Walter Horton)? Le sequenze monstre non si contano: dal gospel scatenato di James Brown (con Chaka Khan mescolata tra le coriste) di The Old Landmark, che risveglia la necessità di ricreare “la banda”, alla scatenata Think con cui Aretha cerca (invano) di convincere il marito a non tornare coi vecchi compari; dalla Shake a Tail Feather nel negozio di strumenti di Ray Charles al rovinoso tema di Rawhide intonato nel localaccio fino all’apoteosi di Minnie the Moocher di Cab Calloway durante lo show finale. Ma tutto, compresi i piccoli transiti tra una sequenza e l’altra, abitati da una miriade di altri commenti musicali, dice di una passione per il genere (principalmente di Belushi e Aykroyd) sconfinata: sono quasi trenta i pezzi classici originali o coverizzati udibili in colonna sonora, tra i quali la celeberrima She Caught the Katy and Left Me a Mule to Ride di Taj Mahal (di fatto la “sigla” del film), Shake Your Moneymaker di Elmore James, Hold On I’m Comin’ di Sam & Dave, il Peter Gunn’s Theme di Henry Mancini, I’m Walkin’ di Fats Domino e le trascinanti Gimme Some Lovin’ (originariamente dello Spencer Davis Group e usata da Jake e Elwood come “opener” del loro cruciale concerto) e Stand By Your Man (lo standard di Tammy Wynette con cui il duo riesce a commuovere il pubblico inizialmente ostile). Non a caso, in un poll indetto nel 2004 dalla BBC per decretare la miglior colonna sonora di sempre, quella di The Blues Brothers stracciò la concorrenza con un plebiscito. La velocissima dinamica con cui The Blues Brothers passò da opera sottostimata a capolavoro di culto indusse la produzione a considerare l’idea di un sequel: poi successe quel che successe e che tutti sappiamo e fu solo nel 1998 che vide la luce lo struggente e incompreso Blues Brothers – Il mito continua, sempre diretto da Landis (in cui Aykroyd riprendeva il suo ruolo) e realizzato con l’intenzione nascosta proprio di riflettere sull’impossibilità di dare un seguito a qualcosa di così irripetibile. Il film fu la pietra tombale sia sul fenomeno sia sulla carriera di Landis, già vacillante. Ma nello stesso anno, per fortuna, uscì anche la versione extended dell’originale (con circa un quarto d’ora di scene in più) che fece dinenticare in parte questa débacle.

La leggendaria Bluesmobile. Malgrado i loro emuli all’epoca non si contassero, il look semplicissimo ma impattante di Belushi e Aykroyd non è riuscito davvero a stabilire un canone estetico di eleganza (come successe pochi anni prima a livello planetario con il punk, per intenderci); ma The Blues Brothers (col precedente del Saturday Night Live) ha scolpito comunque nell’immaginario la raffigurazione dei suoi protagonisti; e consegnato alla storia del cinema un ennesimo e leggendario mezzo di locomozione in grado di competere a livello iconico con le auto iperaccessooriate di 007 o quelle non meno high tech di Batman: la sgangherata “Bluesmobile” (una Dodge Monaco 440 del 1974), per una beffa del destino allestita a mo’ di auto della polizia, è infatti una sorta di “terzo fratello blues” , protagonista di celebri sequenze (come quella nel centro commerciale o quella del parcheggio nella metropolitana sopraelevata di Chicago) ma soprattutto del lungo inseguimento finale con la polizia. “Motore truccato, sospensioni rinforzate, paraurti antistrappo, gomme antiscoppio e cristalli antiproiettile. E non c’è neanche bisogno dell’antifurto perché ho collegato tutti i contatti con la sirena. Allora, che ne dici? È la nuova Bluesmobile, o no?», dice Elwood a Jake. Ma quello che molti non sanno è che per “interpretarla” furono utilizzate ben dodici automobili originali, tutte distrutte durante la lavorazione. D’altronde, il film ha detenuto a lungo il record per il maggior numero di automobili “sacrificate” durante la lavorazione (ben 103) e viene ricordato dai cultori del genere wreckage al pari di capisaldi come Rollercar, sessanta secondi e vai (1974) o del da noi inedito The Junkman (1982), entrambi dello stuntman H.B. Halicki. Una cifra poi surclassata solo da Matrix Reloaded (2003) che polverizzò ben 300 autoveicoli.

"L'attore annegava nella cocaina": torna in tv The Blues Brothers. Erika Pomella l'11 Agosto 2021 su Il Giornale. The Blues Brothers è diventato con gli anni un classico del cinema anni '80, ma la lavorazione del film fu un vero e proprio incubo, soprattutto a casa degli eccessi del suo protagonista John Belushi. The Blues Brothers è il film cult che andrà in onda questa sera alle 21.09 su Iris. La pellicola, diventata una pietra miliare del cinema degli anni '80 è diretta da John Landis, regista che al suo attivo ha altri film intramontabili come Una poltrona per due e Il principe cerca moglie.

The Blues Brothers, la trama. Sono gli anni Ottanta e a Chicago Jake Joliet Blues (John Belushi) esce di prigione, pronto a riabbracciare il fratello Elwood (Dan Aykroyd). La libertà e la felicità ad essa collegata, però, non sono destinate a durare a lungo. I fratelli Blues, infatti, scoprono che l'orfanotrofio cattolico in cui sono cresciuti è sull'orlo del baratro e rischia il fallimento, visto che l'ufficio delle tasse ha chiesto cinquemila dollari di arretrati. Jake ed Elwood, allora, decidono di chiedere aiuto al reverendo Cleophus James (James Brown). Quest'ultimo li aiuta a comprendere quale sia la migliore strategia da seguire per poter trovare il denaro necessario a salvare la chiesa e l'orfanotrofio: dovranno rimettere insieme la vecchia band musicale. Da questo momento in poi per i Blues Brothers del titolo inizierà una vera e propria avventura, che li porterà a incrociare la strada dei personaggi più strani ed eccentrici di Chicago, mentre sulle loro tracce si mette una schiera di vittime di truffe da parte dei fratelli Blues, che riescono a rubare e imbrogliare usando il loro motto: "Siamo in missione per conto di Dio."

La difficile lavorazione del film. Nonostante The Blues Brothers sia diventato un vero e proprio cult nell'industria cinematografica e nel genere musicale, la lavorazione della pellicola non fu affatto semplice. Se da una parte i problemi venivano dal ritardo di produzione e dagli enormi costi - nel film ci sono artisti del calibro di Aretha Franklyn e Ray Charles -, dall'altra ebbe un forte peso anche la presenza di John Belushi e della sua dipendenza. Come viene raccontato da Virgin Radio, John Belushi consumava talmente tanta cocaina sul set e durante le riprese che la Universal Pictures ritenne opportuno assumere una persona, Smokey Wendell, che aveva il compito di badare alla sobrietà dell'attore ed evitare che annegasse nella droga. Il compito dell'uomo, però, non raggiunse lo scopo: Belushi continua a consumare dosi sempre più massicce di cocaina, al punto da cadere addormentato in camerino accanto a quella che lo stesso John Landis ha definito"una montagna di cocaina". Il sito dell'Internet Movie Data Base, invece, racconta che durante una notte di riprese John Belushi sparì nel nulla. Di punto in bianco era impossibile trovare l'attore, al punto che il suo co-protagonista - il Dan Aykroyd diventato famoso per Ghostbusters - andò a cercarlo in tutte le case di Chicago. L'attore bussava ad ogni porta del centro abitato vicino al set, disturbando le case in cui trovava la luce accesa. Giunto all'ennesima casa e pronto a presentarsi, Dan Aykroyd si sentì rispondere dai padroni di casa: "Sei qui per John Belushi, non è vero?". A quel punto gli sconosciuti raccontarono che John Belushi si era introdotto in casa loro e aveva chiesto se fosse possibile avere un bicchiere di latte e un sandwich, prima di cadere addormentato sul loro divano. Una situazione che si ripresentò varie volte: John Belushi si introduceva nelle case degli abitanti di Chicago e gli svuotava il frigo, al punto che Dan Aykroyd finì per chiamarlo "l'ospite americano". In un'altra occasione, poco prima di girare la scena finale di The Blues Brothers, John Belushi decise di provare a fare alcune "acrobazie" sullo skateboard di qualche bambino lì presente. Come riporta IMDB, finì con il cadere rovinosamente a terra, ferendosi gravemente al ginocchio. Il capo della Universal Pictures chiamò l'ortopedico più bravo e più famoso di Los Angeles per poterlo medicare in modo da avere l'occasione di completare il film. Si trattava di incidenti e situazioni che non facevano altro che ritardare il lavoro, facendo anche gonfiare i costi, al punto che The Blues Brothers rimane un incubo per la Universal, a prescindere dal successo ottenuto dopo essere uscito in sala.

Il tragico destino di John Belushi. Il protagonista di The Blues Brothers era un attore pieno di talento, ma che ormai era scivolato così profondamente nel mondo della droga e della dipendenza che ogni sua singola decisione dipendeva dalla quantità di cocaina assunta. E fu proprio la droga a spingerlo verso una morte tragica e prematura. John Belushi, infatti, morì il 5 marzo 1982, a soli 33 anni. Il corpo venne trovato allo Chateau Mormont, un famoso hotel a Hollywood. Come riporta Cinematographe, le condizioni dell'attore erano già preoccupanti. Non aveva una sana igiene personale e sembrava incapace di seguire un ragionamento così come di esprimersi senza inciampare sulle parole. La sua stanza d'albergo era sporca, così come lo erano i suoi vestiti coi quali si presentava - in ritardo - agli appuntamenti di lavoro. La cocaina, di cui aveva sempre fatto largo uso, aveva intanto lasciato il posto all'eroina, intervallata da droghe più leggere che Belushi assumeva fumando. Il 4 marzo John Belushi venne contattato da Robert De Niro, suo vecchio amico e leggenda del cinema: l'attore voleva invitare Belushi a cena fuori e a fare un giro nei locali più famosi di Los Angeles. Tuttavia, non ricevendo alcura risposta, De Niro decise di raggiungere direttamente l'amico nella sua stanza in hotel. Qui il protagonista di C'era una volta in America si trovò davanti uno spettacolo raccapricciante: non solo la stanza era sporca e semi-distrutta, ma c'era anche una donna, la cantante Cathy Evelyn Smith, che dormiva tra avanzi di cibo, bottiglie di vino ormai vuote e vestiti sporchi. Robert De Niro se ne andò in discoteca, con la promessa di tornare più tardi: promessa che non mantenne, perché scelse di tornare nella sua suite. Da John Belushi, invece, andò Robin Williams, che all'epoca stava fronteggiando la sua dipendenza da alcol e droga. L'attore fu sconvolto, proprio come De Niro, dalle condizioni della stanza: si limitò dunque a prendere un po' di cocaina e ad andarsene. Infine, stando a quanto ha raccontato Dave Itzkoff nella biografia dedicata a Robin Williams, Cathy Evelyn Smith preparò due speedball, termine con il quale si indica un mix molto forte di eroina e cocaina. L'attore di The Blues Brothers si lamentò di avere freddo, spingendo così la donna ad alzare il termostato, prima di mettersi a dormire. In quel che restava della notte, John Belushi andò in overdose e, verso mezzogiorno, il suo corpo venne trovato dal suo personal trainer. Successivamente fu proprio la Smith, dietro un compenso di circa quindicimila dollari, a parlare con la stampa e a fornire i dettagli degli ultimi istanti della vita di John Belushi. 

Erika Pomella. Nata a Roma, mi sono laureata in Saperi e Tecniche dello Spettacolo Cinematografico a La Sapienza. Dopo la laurea ho seguito un corso di specializzazione di montaggio e da allora scrivo di Cinema e Spettacolo per numerose testate. Ho collaborato con l’Ambasciata Francese in Italia per l’organizzazione della prima edizione del festival del cinema francese a Roma. Parlo fluentemente francese e, quando non lavoro, passo il mio tempo a leggere montagne di romanzi e ad organizzare via

·        40 anni dalla morte di Natalie Wood.

Dal corriere.it il 6 novembre 2021. Lui trentenne, già famoso interprete di «Spartacus», lei appena sedicenne, in cerca di fortuna nel mondo del cinema: nell’estate del 1955 Kirk Douglas avrebbe aggredito sessualmente Natalie Wood quando era adolescente. A rivelarlo è la sorella minore Lana nel suo libro di memorie «Little Sister». L’aggressione, secondo quanto riportato dai media americani, sarebbe avvenuta all’hotel Chateau Marmont di Hollywood, durante un incontro fra i due. «Mi sembrò essere passato molto tempo, prima che Natalie tornasse in macchina – racconta Lana Wood, che all’epoca aveva 8 anni e assieme alla madre era rimasta in attesa della sorella fuori dall’hotel -. Mi svegliò sbattendo la portiera. Sembrava sconvolta. Era spettinata e molto turbata, e lei e la mamma iniziarono a sussurrarsi delle parole, senza che io capissi cosa si stessero dicendo. Apparentemente era successo qualcosa di brutto a mia sorella, ma qualunque cosa fosse, a quanto pare ero troppo giovane perché mi venisse raccontata». Lana Wood scrive che Natalie non le disse per anni cosa successe nella suite di Douglas da cui, le raccontò di «essere stata ferita». Afferma inoltre che sua sorella e la loro madre fossero d’accordo sul fatto che accusare pubblicamente la star di Hollywood di averla aggredita avrebbe rovinato la carriera di Natalie. Natalie Wood morì in circostanze misteriose nel novembre 1981 annegando durante una gita in barca all’isola di Santa Catalina in California. Inizialmente giudicato come un incidente, la causa di morte dell’attrice è stata rivista nel 2012 in «annegamento e altri fattori indeterminati». Il marito di Wood all’epoca, Robert Wagner, è stato indicato come sospetto dalla polizia nel 2018 e Lana Wood è tra coloro che lo ritengono responsabile della morte di Natalie. Kirk Douglas, invece, (padre dell’attore Michael Douglas) è morto a febbraio 2020.

Dagotraduzione dal New York Post il 5 novembre 2021. La morte per annegamento di Natalie Wood nel 1981 è rimasta, per quattro decenni, uno dei grandi misteri di Hollywood. Ma sua sorella Lana Wood ha le idee chiare sul colpevole: il marito, Robert Wagner. «Non credo che sia stato premeditato» ha detto Lana, 75 anni, al Post. «Ma questo non significa che non penso che l’abbia fatto: certo che lo ha fatto!». Lana ha scritto un libro, “Little Sister. My investigation into the Mysterious Death of Natalie Wood”, in uscita martedì negli Stati Uniti. In parte memoriale e in parte indagine su un vero crimine utilizzando nuove prove raccolte dai detective della omicidi, il libro mira a dissipare il mito e a illuminare i fatti che circondano la morte di Natalie. Nel libro, Lana racconta anche che la sorella fu aggredita sessualmente quando era ancora adolescente da Kirk Douglas, confermando una delle più vecchie dicerie di Hollywood. Secondo Lana, la madre Maria avrebbe lasciato la sedicenne Natalie allo Chateau Marmont per incontrare Douglas, allora un attore molto importante. Quando Natalie finalmente tornò, Lana stava dormendo in macchina: era scapigliata e sconvolta, e in seguito le raccontò quello che era successo. «Ho bussato alla porta a cui la mamma mi ha detto di andare, e la cosa successica che ho saputo è stata che Kirk Douglas mi stava introducendo nella sua suite» le ha detto. Poi Natalie aveva iniziato a piangere e a mormorare sommessamente: «Mi ha ferita, Lana… È stata un’esperienza fuori dal corpo. Ero terrorizzata. Era confusa». «Questo ha davvero influenzato tutta la sua vita, come ha guardato le cose, come le ha percepite» ha ricordato Lana. Ma Natalie non ha fatto nulla al riguardo «perché mia madre le ha detto che avrebbe rovinato la sua carriera, non avrebbe mai più lavorato». Poi il racconto della morte della sorella. La mattina del 29 novembre 1981 Lana è stata svegliata da una telefonata, e poi da un urlo straziante. La madre, che aveva risposto, era per terra, in lacrime, con il telefono ancora in mano. Natalie, in quel momento, doveva essere su uno yacht con il marito attore, Robert Wagner, e il suo amico Christopher Walken.  «Hanno trovato il suo corpo questa mattina», le ha spiegato l'amica che aveva telefonato. «A riva su Catalina [isola]». All'inizio Lana non ci credeva. Poi ha acceso la TV. Secondo le ultime notizie, Natalie era scomparsa dallo yacht durante la notte, presumibilmente prendendo un gommone - avrebbe detto in seguito suo marito - per "festeggiare". Il suo cadavere è stato trovato a galleggiare nell'acqua la mattina dopo, in camicia da notte, calzini e piumino. Secondo “Natalie Wood: What Remains Behind ", un documentario del 2020 realizzato dalla figlia di Wood, Natasha Gregson Wagner, i tre erano parecchio ubriachi quando sono tornati sullo yatch dopo aver cenato in un ristorante sulla terraferma (Il rapporto tossicologico di Wood ha rivelato un contenuto di alcol nel sangue dello 0,14 percento). Nel documentario, Wagner dice che lui e Walken hanno litigato, ma entrambi pensavano che Natalie fosse al sicuro sulla barca. Sono andati a cercarla poco dopo le 23 e, a quanto pare, hanno scoperto che il gommone era scomparso. «Nessuna delle cose che [Wagner, Walken o lo skipper dello yacht] ha detto o che la polizia ha detto in quel momento mi suonava vera», ha detto Wood al The Post. «Le cose che sostenevano Natalie avesse fatto» - cioè che l'attrice, in camicia da notte, avesse portato il gommone a "festeggiare" tra le barche parcheggiate nel porto - «per me avrebbero anche potuto dire che stava cercando di volare su un altro pianeta. Erano totalmente fuori dal personaggio». Un rappresentante di Wagner non ha commentato. Nei mesi successivi, Lana ha cercato di ottenere più risposte da Wagner, ma lui ha rapidamente tagliato fuori Lana dalla sua vita, dicendole di contattarlo solo tramite il suo avvocato. Ma 10 anni dopo la morte di Natalie, Lana ha ricevuto una telefonata all'improvviso da Dennis Davern, lo skipper dello yacht. «Non ho detto tutto ai poliziotti», ha detto tra le lacrime. Nel 2011 il dipartimento dello sceriffo della contea di Los Angeles ha riaperto il caso dopo che nel suo libro del 2009, "Arrivederci Natalie, addio splendore", Davern ha rivelato di aver sentito la coppia sposata litigare prima della scomparsa di Natalie. Quell'anno, il medico legale cambiò la causa della morte in "annegamento e altri fattori indeterminati" dopo aver rivalutato i dettagli del caso, incluso il fatto che il corpo di Natalie sembrava avere lividi freschi quando fu inizialmente trovato. La polizia ha riclassificato il caso come "sospetto" e, nel 2018, ha nominato Wagner, ora 91enne, una "persona di interesse". Il caso resta aperto.

·        40 anni dalla morte di Rino Gaetano.

Quarant'anni senza Rino Gaetano, il cantautore che mascherava la serietà dietro la leggerezza. Gino Castaldo su La Repubblica il 2 giugno 2021. Il 2 giugno 1981 moriva l'artista di Crotone arrivato a Roma da piccolo. Ecco il racconto di come dopo tanti successi la sua partecipazione al Festival di Sanremo con 'Gianna' iniziò a togliergli dal volto quel grande sorriso. Era come se ci fosse venuto lui a Roma da Crotone con la valigia di cartone, lo spago e una sporta piena di belle speranze, tanto era bravo a cantare i migranti, i derelitti, i ferrovieri, talmente masticava bene quelle parole salate e scolpite dal sole di Ad esempio a me piace il sud, quando diceva: "Ad esempio a me piace la strada, col verde bruciato, magari sul tardi...

Rino Gaetano, 40 anni senza il cantautore: il racconto delle sue ultime ore. Il 2 giugno 1981 l’artista di «Gianna» e «Nuntereggae più» moriva in un incidente stradale sulla via Nomentana, a Roma, ma oggi la sua eredità artistica è viva più che mai. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 2/6/2021.

Eredità musicale. «C’è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio! Io non li temo. Non ci riusciranno. Sento che in futuro le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni. Che, grazie alla comunicazione di massa capiranno che cosa voglio dire questa sera»: così parlò Rino Gaetano, poco prima di un concerto sulla spiaggia di Capocotta nel 1979. Anche se un incidente stradale ce lo ha strappato via troppo presto 40 anni fa - quel maledetto 2 giugno 1981 lungo la via Nomentana, a Roma - l’eredità artistica del cantautore re dello sberleffo oggi è più viva che mai, tra pensieri anticonformisti e quelle canzoni che, dietro testi apparentemente leggeri e disimpegnati (come «Nuntereggae più» e «Aida»), denunciavano le storture della società.

La carriera artistica. Nato a Crotone il 29 ottobre 1950 Salvatore Antonio Gaetano (questo il nome all’anagrafe) a dieci anni si trasferisce a Roma con la famiglia e proprio nella Capitale, alla fine degli anni Sessanta, inizia a muovere i suoi primi passi nel mondo della musica tra le prime band (i Krounks, con cui eseguiva soprattutto cover) e il Folkstudio, noto locale romano in cui si esibivano molti giovani artisti all’epoca emergenti come Antonello Venditti e Francesco De Gregori. Nel 1974 arriva il primo album firmato Rino Gaetano, «Ingresso libero», ma è soltanto con la partecipazione al Festival di Sanremo 1978 con «Gianna» - in frac, cilindro, ukulele e scarpe da ginnastica - che il cantautore riesce a farsi conoscere dal grande pubblico. Anche se non tutti capiscono (e apprezzano) la sua arte pungente e venata di ironia a tratti surreale.

Gli ultimi giorni. Nel maggio 1981 Gaetano prende parte ad una tournée organizzata dalla RCA, presentata da Shel Shapiro, esibendosi insieme a Riccardo Cocciante e ai New Perigeo (durante i concerti viene registrato l’ep «Q Concert», caricato per la prima volta sulle piattaforme digitali lo scorso 29 ottobre, giorno in cui Rino avrebbe compiuto 70 anni). A fine mese, il 31 maggio, Rino fa la sua ultima apparizione in tv cantando «E io ci sto» e «Scusa Mary» nel programma Crazy Bus, e in quei giorni incide anche alcune canzoni insieme ad Anna Oxa.

L’incidente. Era quasi arrivato a casa, dopo aver passato la serata in giro per locali con alcuni amici, quel 2 giugno del 1981. A bordo della sua Volvo 343 grigio metallizzato (l’auto nuova che aveva acquistato nel 1979 per sostituire quella che aveva distrutto in un altro incidente stradale da cui era uscito illeso) Gaetano sta percorrendo via Nomentana quando - erano le 3.55 - all'altezza dell'incrocio con via Carlo Fea invade con la sua vettura la corsia opposta (forse per un malore o un colpo di sonno). Un camionista che sopraggiunge nell'altro senso di marcia prova a suonare il clacson, ma lo schianto è inevitabile. Gaetano batte violentemente la testa contro il parabrezza, sfondandolo.

La ballata di Renzo. È il conducente del camion a prestare i primi soccorsi al cantante, già in coma all’arrivo dei mezzi di soccorso. Portato al Policlinico Umberto I gli vengono riscontrate diverse fratture a cranio e torace, ma la struttura non ha un reparto attrezzato di traumatologia cranica. Così il medico di turno, il dottor Novelli, si mette alla ricerca di un'altra struttura: contatta il San Giovanni, il San Camillo, il CTO della Garbatella, il Policlinico Gemelli e il San Filippo Neri, inutilmente. Dopo qualche ora Gaetano viene finalmente ricoverato al Gemelli, ma alle sei del mattino muore (in seguito alle polemiche per il mancato ricovero è stata aperta un'inchiesta giudiziaria e presentata un'interrogazione parlamentare). Ad ottobre avrebbe compiuto 31 anni. Per una tragica coincidenza il cantautore nel 1971 aveva raccontato in una canzone, «La ballata di Renzo», proprio una circostanza simile, l’affannosa ricerca di un posto in ospedale per un ragazzo vittima di un incidente stradale («La strada molto lunga / s’andò al San Camillo / e lì non lo vollero per l’orario./ La strada tutta scura / s’andò al San Giovanni / e lì non lo accettarono per lo sciopero»). Il 4 giugno, nella chiesa del Sacro Cuore di Gesù, si tengono i funerali: parenti, amici, colleghi musicisti, dirigenti della RCA e fan si stringono per dare l’ultimo saluto al loro amato Rino che soltanto un mese dopo - nella stessa chiesa - si sarebbe dovuto sposare con il grande amore della sua vita, Amelia Conte.

40 anni fa moriva a Roma. Rino Gaetano, l’ultimo poeta del Sud è morto nel 1981. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 2 Giugno 2021. L’agave se ne sbatte della vita lunga, s’immola al cielo dello Stretto per un unico, insuperabile orgasmo. Il catrame penetra calanchi grigio azzurri che assediano il Capo Spartivento, spasmi di sabbia rovente e macchie amare di eucalipto che profumano il Cocinto e alimentano tartarughe in agguato sotto la rena. L’aria tremola intorno a corriere partorite di botto da un 70 senza nostalgia che si portano la vita giovane altrove. Il pozzetto ha ancora i gelati della Gelca, sogno di panna calabrese annegato in dolcezze foreste, richiamo irresistibile in un pannello colorato nato sotto la dittatura del Moretto. Il cinghiale bianco ha ere infinite, sopravvive nel juke box grazie a un porcellino carico di cinquanta e cento lire. La Peroni riposa esausta nelle cassette di plastica gialla assistendo all’ultimo spettacolo dell’illusionista che ipnotizza i clienti dondolandogli davanti agli occhi la chiave inglese con cui si guadagna da vivere cambiando bombole di gas che non cedono al metano in rete. E Rino Gaetano tira giù il finestrino della Littorina: Ahi Maria s’incanala lungo i letti secchi delle fiumare, sale in montagna a rinfrescarsi con “l’allegria” dei pastori. Il deserto da Cutro a Crotone ha perso irrimediabilmente i suoi banditi pasoliniani, muore di gigantesche pale eoliche, madri di un refrigerio castrato, che non potranno mai imitare le creature di un palmeto, l’oasi resta miraggio. Sopravvivono i predoni che fra le altre cose, la più importante, hanno razziato la lingua, portando via insieme a lei il futuro nei verbi, lasciando un dialetto romanzo che biascica frasi incomprensibili, declinando la vita fra presente e passato: i calabresi e i siciliani non possono dire farò, sognerò, mangerò. Ma nessuno se n’è accorto a parte Sciascia. L’avvenire si mette tutto fra le incompiute, il non finito calabrese contiene tutta la speranza di un Sud che non ha più poeti, l’ultimo è morto il 2 giugno di quarant’anni fa. Rino Gaetano bazzicava la 60 notturna, continuava a saperlo che quello Meridionale è popolo d’Avvento, avvinto nel nero del nero di madri addolorate. È morto a Roma, il 2 giugno: il suo corpo cercava un posto in ospedale, come accade a Sud; lontano dal Sud come continua ad accadere a quelli del Sud; riconosciuto da un estraneo perché i sudici i propri cari ce li hanno sempre da qualche altra parte. Tutto s’incarna nell’unica colonna tesa a Crotone che ancora rimanda la nenia d’amore, in un etere attonito, in viaggio da Bahia a Salvador.

Gioacchino Criaco. E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film.

40 anni senza Rino Gaetano. Francesco Ridolfi su Il Quotidiano del Sud l'1 giugno 2021. Il 2 giugno 1981 moriva, a seguito delle ferite riportate in un tragico incidente sulla via Nomentana a Roma, Rino Gaetano. Li finiva la sua vita e iniziava il suo mito. Rino Gaetano ha scalato i cuori dei propri fan riuscendo ad essere sempre presente nella memoria collettiva artistica italiana grazie alla sua musica, sicuramente fuori dall’ortodossia nazionale, ma anche grazie ai suoi testi unici e sicuramente dirompenti. Componimenti in apparenza “non-sense” ma capaci di trasmettere un senso profondo della realtà contemporanea mettendo in luce, in modo del tutto originale, aspetti spesso sottaciuti della società e del mondo socio-culturale e politico italiano. Ciò che indubbiamente colpisce della produzione musicale di Rino Gaetano è senza dubbio la sua attualità: a distanza di 40 anni dalla sua morte i suoi testi, le sue canzoni sono tutt’altro che roba passata e ciò lo dimostra l’affetto e il seguito sempre manifestato dai suoi fan. Basti pensare che appena pochi anni fa una delle sue innumerevoli raccolte di brani (e già se ne profila una nuova all’orizzonte) è schizzata ad occupare la parte alta delle classifiche di vendita e di ascolto. Quello che segue è solo un piccolo contributo per ricordare un artista che ha fatto della musica il proprio strumento per raccontare, non senza ironia e sarcasmo, l’Italia della gente comune, quella stessa gente che continua a cantare a squarciagola le sue canzoni.

40 anni senza Rino Gaetano, la storia del primo e unico concerto a Crotone. Giacinto Carvelli su Il Quotidiano del Sud l'1 giugno 2021.Il 1978 è stato un anno importante per Rino Gaetano, tanto che dopo la partecipazione al Festival di Sanremo, che lo vide trionfare (anche se in realtà arrivò solo terzo) volle organizzare quello che fu il suo unico concerto nella sua città, Crotone. Un concerto strano, di cui non si conserva alcuna testimonianza audio, video o immagini e che iniziò con una forte contestazione al cantautore. A raccontare questa pagina della musica crotonese, scritta il 23 agosto 1978 nello stadio Ezio Scida. il promotore del concerto, l’allora 22enne Antonio Bevilacqua. Innanzitutto, il promoter sottolinea che lo stesso Rino aveva voluto il concerto. «Dopo la partecipazione al Festival di Sanremo – dice in merito –  Rino Gaetano obbligò il suo manager ad organizzargli un concerto nello stadio della sua Città, perché desiderava ritornare nella sua Crotone. Il suo manager propose di organizzare il concerto prima al Comune ed all’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Crotone, poi alla Provincia di Catanzaro ed alla Regione Calabria, ma tutti questi Enti pubblici rifiutarono. Alla fine si rivolse all’Arci-Uisp nazionale e questi contattarono il presidente provinciale di allora, il rimpianto Peppino Guido. Purtroppo – continua nell’esposizione dei suoi ricordi Bevilacqua – in quel periodo lui era ricoverato in ospedale e così lui coinvolse me, in quanto allora io ero il vice presidente dell’associazione».   Sottolinea, lo stesso promoter di allora che era uno studente universitario di 22 anni, che da Cosenza ogni fine settimana tornava a Crotone «con nessuna esperienza di organizzazione di concerti o di grandi eventi. Inoltre dovevo firmare un contratto di parecchi milioni di vecchie lire, con la penale che in caso di qualsiasi impedimento (pioggia, contestazioni) avrei, comunque, dovuto pagare un terzo del budget previsto».

Fino alla fine, evidenzia Bevilacqua i dubbi lo assalirono, ma a rimuoverli fu una telefonata.

«Ricevetti una telefonata dal manager, che mi passò Rino Gaetano. Una telefonata di mezz’ora con cui mi spiegò l’immenso desiderio che aveva nel ritornare nella sua città nativa, che lo vide partire da bambino migrare verso Roma. Così mi convinse di accettare la sfida, firmare il contratto milionario e di organizzargli il concerto a Crotone. Ricordo – continua Bevilacqua – che allora Rino Gaetano non era molto conosciuto, nonostante il successo che ebbe qualche mese prima al festival di Sanremo, quando conquistò il terzo posto con la canzone Gianna. Anzi aveva molto più popolarità Mino Reitano e molti lo confondevano con lui».

Tra le altre difficoltà, poi, il fatto che «fino al 1978 non era mai stato organizzato un concerto nello stadio di Crotone, pertanto non fu facile organizzarlo perché non c’erano precedenti e soprattutto ottenere i permessi necessari. Ricordo che ho dovuto regalare un migliaio di biglietti omaggi a tutti gli Enti interessati. Inoltre alcune TV locali pretendevano di effettuare la video registrazione del concerto gratis, cosa che io non permisi. Così alcune di loro per vendicarsi hanno cercato di boicottare il concerto inventandosi la storiella che Rino Gaetano in una nota trasmissione televisiva nazionale avesse rinnegato di essere nato a Crotone. Col senno di poi a posteriori, dopo quello che è successo, ne sono amaramente pentito per quella presa di posizione così netta, perché dopo 40 anni non esiste alcun filmato o foto del concerto di Crotone».

Il boicottaggio di alcune TV locali, indusse i promotori a fare «una grande pubblicità in tutti i campeggi ed alberghi della provincia di Crotone, allora c’è ne erano circa 100. Così la maggior parte del pubblico, che riempì lo stadio, era composto da turisti del nord Italia e non da crotonesi».

Ma anche dopo la vendita dei biglietti e la buona presenza di spettatori, i problemi non finirono.

«Ricordo – racconta infatti Bevilacqua – che prima di iniziare il concerto verso le ore 20 un gruppo di persone, dalla gradinata, si mise a fischiare e buttare pietre sul palco, io ero nella biglietteria e fui chiamato ad intervenire. Fu così che andai sul palco, presi il microfono, feci una severa rimproverata a quelle persone ed invitai il pubblico a zittirli con un forte applauso. Poi chiesi al pubblico di chiamare Rino Gaetano a gran voce e quando salì gli chiesi, davanti a tutti, di chiarire le falsità che avevano diffuso sul suo conto. Così lui disse che si è sempre vantato di essere crotonese e che musicalmente si era cresciuto a Roma, lasciai il palco e ritornai nella biglietteria».

Dopo le incomprensioni iniziali, nel racconto di Bevilacqua, il concerto continuò in maniera trionfale con tutto il pubblico a cantare le sue canzoni, per poi terminare dopo mezzanotte. «Alla fine del concerto – ha chiosato l’organizzatore del concerto – Rino venne in biglietteria per invitarmi a cena, ma io ero troppo indaffarato a contare i soldi per pagare il suo manager e così gli risposi a malincuore che non potevo. Così lui mi ringraziò per tutto quello che avevo fatto e mi disse che lo avevo reso felice perché il suo sogno diventò realtà. Partito da emigrante da Crotone è ritornato trionfatore a Crotone. Purtroppo da quella notte non l’ho più rivisto. Ciao Rino».

40 anni senza Rino Gaetano, Crotone lo ricorda con il Rino Day in villa comunale. Giuseppe Laratta su Il Quotidiano del Sud l'1 giugno 2021. Da “Ma il cielo è sempre più blu” a “Gianna”, passando per “Mio fratello è figlio unico”: sono alcuni dei brani più famosi di Rino Gaetano che oggi pomeriggio alle 18:30, alla Villa Comunale di Crotone, saranno suonati dagli artisti pitagorici riuniti nell’evento “Sotto i cieli di Rino”, la manifestazione musicale promossa dal Comune in occasione del quarantesimo anniversario dalla morte del cantautore crotonese. Ritorna, dunque, nella sua città natale, un evento musicale per ricordare il “cappellaio matto”, anche se Crotone non ha mai dimenticato Rino Gaetano: nonostante varie dicerie, il rapporto è sempre stato caloroso con i suoi concittadini.

Un concerto, dunque, per ricordare Rino Gaetano, un’occasione di ripartenza per la musica, in un luogo altrettanto caro ai crotonesi da poco riaperto alla comunità in una nuova veste.

“Sotto i cieli di Rino” è collegata con altri due eventi: il primo è il “Rino Gaetano day”, manifestazione che da sempre si tiene a Roma, ma che quest’anno – per via del Covid – si tiene in versione online, organizzata da Anna ed Alessandro Gaetano – sorella e nipote di Rino; la seconda è l’incontro organizzato alla Lega Navale di Crotone dalla Provincia insieme alla fondazione “Una casa per Rino”, dove sarà illustrato alla stampa il progetto in cantiere per esporre finalmente l’ukulele alla comunità e ad i fans.

Al concerto si esibiranno: Marco Angotti, Maria Vittoria Mungari, Maria Teresa Manica, Anna Rizzo, Alessandro Manica, Pino Talarico, gli Skapizza, Gli Anni Veloci, i Come quando fuori piove; l’evento è stato presentato sabato scorso dall’assessore comunale allo Spettacolo Luca Bossi, e dalla consigliera comunale – nonché componente della Commissione Cultura – Floriana Mungari, ideatrice dell’evento.

«Ci ritroviamo nel nome di un artista che ci rappresenta tutti – ha dichiarato la Mungari – daremo spazio ai brani più famosi ma anche quelli meno conosciuti di Rino Gaetano. Ci sarà inoltre uno spazio social dove si potranno postare le foto e le emozioni della serata. Per l’occasione lanciamo l’hashtag #sottoilcielodirino”».

«E’ un omaggio dovuto a chi ha cantato l’identità di tutti noi – ha dichiarato Bossi – Rino Gaetano è stato un precursore. Il suo messaggio è universale ed in ogni suo testo si trova un riferimento al Sud. Testi sempre attuali che abbracciano tante generazioni».

L’evento – che si terrà nella parte alta della Villa Comunale, in ottemperanza delle normative anti-Covid, con tanto di ingressi contingentati – ha avuto anche il benestare della famiglia Gaetano: infatti – a quanto appreso – interverrà telefonicamente la sorella Anna. “Sotto i cieli di Rino” sarà inoltre trasmesso in diretta radiofonica su Radio Studio 97.

40 anni senza Rino Gaetano, l'omaggio della Fondazione "Una casa per Rino" passa dall'ukulele. Giacinto Carvelli su Il Quotidiano del Sud l'1 giugno 2021. Punterà soprattutto sull’ukulele, lo strumento utilizzato da Rino Gaetano nel 1978 per la sua esibizione sul palco di Sanremo, con Gianna, il ricordo tributo che il 2 giugno la fondazione a lui intitolata, “Una Casa per Rino” intende porgergli in occasione del 40° anniversario della sua morte. In una riunione, svoltasi lo scorso 20 maggio, nella Sala giunta della Provincia di Crotone, e convocata dalla Fondazione “Una Casa per Rino”, con la partecipazione della reggente della Fondazione Giusy Regalino accompagnata da Maria Teresa Sussurellu moglie di Giancarlo Sitra, il presidente della Lega Navale di Crotone Gianni Liotti, il maestro orafo Michele Affidato accompagnato da Antonio Affidato, e il dirigente Nicola Artese è stato definito un itinerario condiviso e per rendere fruibile l’ukulele di Rino Gaetano. Ci sarà la presentazione alla città, il 2 giugno, del progetto che prevede, tra l’altro, la collocazione dell’ukulele presso la sede della Lega Navale di Crotone. Lo spazio espositivo, la bacheca di alloggiamento dell’ukulele, sarà curato e realizzato a titolo gratuito dal maestro orafo Michele Affidato. Al termine della riunione è stato materialmente consegnato l’ukulele alla Provincia di Crotone che a sua volta lo girerà all’orafo Affidato per la custodia espositiva. L’ukulele, che è tra gli strumenti più iconici della musica italiana, era stato acquistato dalla Provincia di Crotone nel 2003 per una raccolta fondi di Emergency, per la costruzione di un ospedale pediatrico in Sierra Leone. A donarlo per il nobile scopo, Anna Gaetano, sorella di Rino. Nel corso degli anni, con recenti strascichi in seno anche al nuovo consiglio comunale, ci sono state contestazioni nell’assegnazione dell’ukulele di Rino, ma, soprattutto, sul fatto che in questi anni lo strumento non sia mai stato fruibile al pubblico. La Fondazione “Una casa per Rino”, come scrive lo stesso organismo si è costituita «nell’alveo dell’omonimo progetto che la Provincia di Crotone ha promosso e fatto nascere sulla necessità di far emergere l’arte, i profondi messaggi e la particolare capacità di comunicazione del cantautore Rino Gaetano, nato a Crotone nel 1950 e prematuramente morto a Roma nel 1981, riuscendo a coinvolgere, in questa azione di riscoperta, autori, produttori, kermesse ed addetti ai lavori nonché media nazionali ed internazionali». Tutte le manifestazioni ideate e realizzate prima nella Provincia e dopo dalla Fondazione «hanno sempre “prodotto” nuove e più ampie iniziative nazionali che hanno contribuito a collocare Rino Gaetano, come meritava, nell’olimpo dei più grandi e significativi autori della canzone italiana». La Fondazione Una Casa per Rino che si è vista riconoscere questa azione dal Presidente della Repubblica Italiana e nel suo Cda contava Giancarlo Sitra, l’ideatore dello stesso progetto, Procolo Guida ed i rappresentanti della società civile, Giusy Regalino e Giovanna Alma Ripolo nonché il Carmine Talarico già presidente della Provincia di Crotone. Alla stessa Fondazione con apposite deliberazioni e determine dirigenziali è stato destinataria dell’Ukulele. Oltre alla mera esposizione, la fondazione ha in programma «un percorso di individuazione e realizzazione Casa Museo all’aperto in memoria del cantautore crotonese Rino Gaetano con conseguente individuazione posa in mostra permanente dell’Ukulele  utilizzato dall’artista a Sanremo 1978, da noi già avviato». 

40 anni senza Rino Gaetano. Lo sberleffo del “Nuntereggae più”: Il titolo irriverente per l’eternità. Edvige Vitaliano su Il Quotidiano del Sud l'1 giugno 2021. Roma, 2 giugno 1981 è una di quelle notte in cui le lancette di un orologio sbagliano l’ora degli addii e spezzano le vite. In quella notte beffarda e crudele, un incidente stradale sulla via Nomentana a Roma si porta via Rino Gaetano: aveva solo trent’anni. Era nato a Crotone, in Calabria il 29 ottobre 1950. Oggi a quarant’anni dalla scomparsa il cantautore con il cappello a cilindro, la chitarra o l’ukulele, il sorriso malandrino e lo sguardo inquieto e scanzonato di tracce nel cuore ne ha lasciate diverse. Quel ragazzo di talento con la faccia da cinema – che ora sorride sornione anche su un francobollo emesso qualche giorno fa da Poste italiane – non è stato dimenticato.

Come le sue canzoni. Come i suoi testi che se fossero quadri, potrebbero somigliare alle forme iconoclaste e ai colori graffianti di Jean-Michel Basquiat. Sono ancora tra noi le parole di Rino, a stargli dietro sembrano capriole su un prato. Parole veloci, simili a frecce tirate con precisione. Parole che fanno centro mentre lui, Rino si volta verso il pubblico, saluta e se ne va senza prendersi mai sul serio. Ironia, sberleffo, satira, amore e amori, cromatismi e rabbia mediterranei. Fratelli sfruttati e malpagati, Gianna, Berta e Aida. Le spiagge di silicio e una sottile vena di malinconia. Tra parole e accordi Rino si racconta e racconta anche il Bel Paese della sua gioventù spezzata. Inanella uno dietro l’altro versi puntellati di apparenti nonsense. Del resto, a lui bastava anche giocare con un dittongo per sparigliare le carte e fare rumore.

Un dittongo come per Nuntereggae più, 1978. “Il titolo – che scioglie la lingua col dittongo “ae” – incrocia la locuzione regionale laziale “nun te reggo più” e la parola “reggae” (il ritmo e il genere di cui Rino riveste la canzone): un reggae rivisitato in chiave ska”, scrive Annibale Gagliani su Treccani. Impossibile rimanere indifferenti a quel “turbine di nomi, acronimi, fatti storici, notizie e titoli di classe che raccontano la società italiana, processata in un’arena tra cori ‘che sembrano appartenere ai passanti, intervistati al mercato, in fila per la pensione o per pagare le tasse’ (D’Ortenzi)”, continua Gagliani. Le parole di Rino paiono prese a prestito dagli strilli delle prime pagine dei giornali, complice un ritmo accattivante e il gioco è fatto. Tra un abbasso, un alè e un Eia alalà scatta una fotografia in forma di canzone dell’Italia in salsa agro-dolce di quegli anni. Senza sconti. A cominciare dai partiti: “Pci psi (nun te reggae più)/ Dc dc (nun te reggae più)/Pci psi pli pri / Dc dc dc dc[…]”. E via con “Cazzaniga (nun te reggae più), Avvocato Agnelli, Umberto Agnelli, Susanna Agnelli, Monti Pirelli/ Dribbla Causio che passa a Tardelli Musiello, Antognoni, […] Gianni Brera (nun te reggae più) Bearzot […] Onorevole eccellenza, cavaliere senatore/ Nobildonna, eminenza, monsignore/ Vossia, cherie, mon amour/ Nun te reggae più… […] Ue paisà (nun te reggae più) /Il bricolage (nun te reggae più)/ Il quindicidiciotto/ Il prosciutto cotto/ Il quarantotto/ Il sessantotto/ Le pitrentotto / Sulla spiaggia di capocotta/ (Cartier Cardin Gucci)/ Portobello e illusioni/ Lotteria a trecento milioni/ Mentre il popolo si gratta/ A dama c’è chi fa la patta/ A settemezzo c’ho la matta/ […]” . Si va a memoria e in ordine sparso. La genesi del pezzo Rino la racconta ad Enzo Siciliano in una intervista radiofonica per Quadernetto romano, Radio Rai. È il 15 luglio del 1978.

La conversazione è davvero imperdibile compresi i passaggi su Petrolini, Totò, Moretti e Germi. Lo scrittore e critico letterario dopo l’ascolto di Nuntereggae più si dice catturato da “questa specie di catalogo” che è la canzone in questione. Si tratta di un testo “nato da un pacco di giornali – spiega Rino a Siciliano – Cioè nel senso, dunque si fa così: si prende un pacco di giornali e si dividono le notizie politiche, le notizie sportive, le notizie d’attualità e le notizie di cronaca. Dunque, si dividono… Poi si prendono a caso, ecco si prendono a caso e si scrive una canzone”. Risata mista a un certo stupore divertito dell’intervistatore che chiede all’intervistato: “Tu hai fatto una canzone con i titoli, insomma?” “Sì sì con i titoli…”, risponde Rino. Per lui che si definisce semplicemente “uno che sta nel bar e sente le voci che girano attorno” Nuntereggae più in fondo è una canzone “evasiva”, “una canzone d’amore per la nostra società”. Un pezzo “da ore liete”. Un “divertissement” senza predicozzo che schiva il rischio del qualunquismo e della banalità.

Un articolo di fondo, piuttosto che un sermone. Di certo, ha un meccanismo perfetto per non essere mai fuori moda. A voler cambiare gli ordini degli addendi e i nomi dei protagonisti, infatti, il risultato ad effetto non cambia. Sulla via che conduce a Rino, però, c’è un’altra canzone-manifesto ed è Ma il cielo è sempre più blu. Una sorta di inno che in molti hanno cantato anche nei giorni sghembi dell’Italia colpita alle spalle dal virus. Un “corale” sui balconi italiani urlato dai cuori feriti in cerca di una speranza davanti alla strada franata. E sulla giostra delle canzoni di Rino ci salgono anche Ti ti ti ti, Ad esempio a me piace il Sud, Escluso il cane Sfiorivano le viole, Mio fratello è figlio unico.

E non son tutte. Basta accendere il giradischi e ci si casca dentro anche quando canta Ahi Maria e irresistibilmente “confessa”:“[…] L’acqua mi fa un po’ male la birra mi gonfia un po’/ Vado avanti tristemente a champagne e bon-bon/ Ahi Maria mi manca il tuo amor/ Il mio caimano nero piangendo mi confidò / Che non approvava il progetto del metrò/ Ahi Maria da te tornerò/ […]”. In fondo il ragazzo con la faccia da cinema e le medagliette appuntate sul bavero di un frac poco ortodosso, non è mai andato via!

Claudio Fabbretti per “leggo.it” l'1 giugno 2021. La sua Volvo 342 che sbanda contromano su via Nomentana, lo schianto violentissimo con un camion, la disperata e vana corsa in ospedale al Policlinico Umberto I. Finisce con quest’ultima agghiacciante sequenza il film della vita di Rino Gaetano. Era la notte del 2 giugno del 1981. Eppure oggi, quarant’anni dopo, le sue canzoni ci appaiono pienamente attuali e contemporanee. Basta sostituire i politici dell’epoca (da Fanfani a Berlinguer) con quelli attuali. E scavare un po’ oltre la patina rassicurante accumulata in questi anni, a coprire malefatte e vizi sociali di un’Italia che solo apparentemente può sembrare distante da quella grottesca dipinta dal cantautore calabrese. Era l’Italia in bianco e nero degli anni di piombo e delle P38, delle stragi e degli scandali. Ma la sua ipocrisia, il suo finto perbenismo, la sua corruzione strisciante non si sono dissolti, neanche con il progresso verso l’evo digitale. E oggi c’è da scommettere che sarebbero ancora quegli inveterati vizi i bersagli preferiti dell’ex-figlio calabro del Folkstudio. Autore di canzoni graffianti e appassionate, paladino del Sud e degli sfruttati, nemico giurato di tutti i politici, Rino Gaetano è ormai un vanto nazionale. Dopo la sua morte, le sue canzoni sono state riscoperte e saccheggiate senza ritegno. Ma nessuno, neanche tra i suoi più espliciti emuli (vedere alla voce Brunori Sas) ha saputo riprodurre quella capacità unica di rivestire la denuncia sociale di abiti grotteschi. Alternando un verso surreale - «Mio fratello è figlio unico perché è convinto che Chinaglia non può passare al Frosinone» - a un gancio dritto nello stomaco: «È convinto che esistono ancora gli sfruttati, malpagati e frustrati». Con la ruvidezza delle sue corde vocali e la dolcezza del suo personaggio, così naif e sincero, il menestrello di Crotone ha fatto innamorare generazioni di italiani. E oggi, più delle cover e delle non meno improbabili fiction, resta vivida la forza delle sue canzoni, tra ritratti femminili fulminanti (Aida, Berta, Lucia, Maria, Gianna), cantilene satiriche (Nuntereggae più, Sfiorivano le viole, Il cielo è sempre più blu, E cantava le canzoni) e delicate poesie sentimentali (Sei ottavi, I tuoi occhi sono pieni di sale). Ma sarà sempre inutile tentare di imitarlo: Rino Gaetano era unico all’epoca e lo resterà per sempre.

40 anni senza Rino Gaetano, il cantautore in 40 notizie. Il Quotidiano del Sud l'1 giugno 2021. Dalla sua nascita ad oggi, 40 pillole su Rino Gaetano per conoscere qualcosa in più del cantautore calabrese, definito il principe dell’Allegoria del Novecento, a 40 anni dalla tragica morte avvenuta in un incidente stradale a tarda notte a Roma.

1950. Il 29 ottobre nasce a Crotone Salvatore Antonio Gaetano: fin dalla nascita la sorella Anna abbrevierà il suo primo nome in “Rino” e da allora tutti lo chiameranno così.

1960. Per motivi di lavoro il padre Domenico e la madre Maria decidono di trasferirsi a Roma con i due figli. Inizialmente trovano sistemazione e lavoro in viale Tirreno.

1961. La vita della famiglia Gaetano è difficile e così i genitori mandano Rino al seminario della Piccola Opera del Sacro Cuore di Narni in provincia di Terni, scelta dettata più da esigenze pratiche che da convinzioni religiose. Rino si ritrova così solo e distante dalla famiglia, in un ambiente molto rigido e diverso da quello familiare.

1968. Rino compie diciotto anni. Stringe le sue prime amicizie «romane». Insieme ad alcuni ragazzi forma un gruppo musicale, i Krounks, dove suona il basso: il gruppo esegue cover, ma Rino scrive anche moltissime canzoni. È affascinato dalle grandi star internazionali come Bob Dylan e i Beatles e da una nuova generazione di cantanti italiani che si esprimono in modo originale come Celentano, Jannacci, I Gufi, Gianco, Pieretti, De André…

1969. A Rino arriva il congedo illimitato dal servizio militare per via dell’invalidità civile del padre. Si arrangia con dei piccoli lavoretti, avvicinandosi nel contempo al teatro dove fa di tutto, dal cabaret al teatro di strada, persino il fonico. Comincia anche a frequentare il Folkstudio, noto locale romano all’epoca diretto da Giancarlo Cesaroni, dove si esibiscono moltissimi giovani. Qui conosce Ernesto Bassignano, Antonello Venditti e Francesco Dé Gregori, praticamente coetanei e anche loro in cerca di fortuna.

1970. La famiglia Gaetano si trasferisce in via Nomentana Nuova 53, dove i genitori, diventando portieri, hanno a disposizione il seminterrato dello stabile. La casa è piccola e le finestre si affacciano sul marciapiede: l’unico panorama che si può ammirare attraverso le grosse sbarre dei vetri sono le gambe delle persone che passano. Per Rino, che vive con i suoi in quell’abitazione, il cielo blu è solo un miraggio.

1971. Dati i problemi economici della famiglia, Rino deve cercarsi delle entrate certe. Attraverso conoscenti, il padre gli procura un posto in banca, un lavoro ben retribuito e sicuro. Rino, diplomato in ragioneria ma con sogni ben diversi, riesce a trovare un piccolo compromesso con i genitori: avrà a disposizione un ultimo anno per provare a sfondare, altrimenti dovrà rassegnarsi a lavorare in banca.

1972. Rino riesce a iscriversi alla SIAE e, introdotto dal suo amico Antonello Venditti, si presenta a Vincenzo Micocci, della casa discografica IT, con lo pseudonimo di “Bacom”. In un primo momento Rino è intenzionato a impegnarsi solamente come autore. Contemporaneamente ottiene un provino dalla etichetta discografica Beli Disc di Milano e incide un primo 45 giri contenente La Ballata di Renzo e I Love You Maryanna che però non sarà mai stampato.

1973. Finalmente esce il suo primo 45 giri prodotto dalla IT, che si deve considerare una specie di prova vocale, dove, con lo pseudonimo “Kammamuri’s” troviamo le canzoni I Love You Maryanna e Jaqueline.

1974. La casa discografica RCA, che ha come affiliata la IT, propone Rino come autore a Nicola Di Bari, che nel 1971 aveva cantato brani di Tenco. Rino scrive per il cantante Prova a chiamarmi amore, Questo amore così grande e una versione modificata nel testo e nel significato di Ad esempio a me piace… il Sud presentata per la prima volta a “Canzonissima”.

1975/1. Rino Gaetano insieme a molti altri cantanti partecipa alla manifestazione “Trianon ’75”, a Roma, che diventerà un doppio album molto suggestivo, dove Rino canta dal vivo, accompagnandosi solo con la chitarra, Ad esempio a me piace… il Sud. 

1975/2. Nel 1975 ottiene il primo grande successo pubblicando Ma il cielo è sempre più blu, un 45 giri atipico: praticamente contiene una sola canzone divisa in due parti, una su ognuno dei due lati. Fin da subito viene molto trasmessa alla radio e soprattutto all’interno di «Alto Gradimento», viene il molto programma trasmessa RAI di alla Renzo radio e Arbore e soprattutto Gianni all’interno Boncompagni. Non tardano ad arrivare le prime censure: nell’incisione originale della canzone troviamo una frase che forse per l’epoca è ritenuta «politicamente poco corretta»: «chi tira la bomba/ chi nasconde la mano». Questa frase sarà poi ripristinata, e quindi si potrà ascoltare, nel remix della canzone che dj Molella pubblicherà il 15 luglio 2003.

1975/3. Ma il cielo è sempre più blu scala la classifica delle vendite e per Rino arrivano i primi guadagni. Finalmente con i primi soldi può prendere la patente e si acquista una Simca 1000 usata di colore verde bottiglia. 

1976. In maggio esce l’album «Mio fratello è figlio unico». I dischi della IT vengono registrati e preparati negli studi della RCA con musicisti e tecnici messi a disposizione dall’etichetta discografica. Dopo l’uscita del disco, Rino Gaetano parte subito in tournée affiancato dai Perigeo.

1977/1. Rino è impegnato a ultimare l’album «Aida», che uscirà in primavera. Va sottolineato che nel clima socio-politico di quel momento, molti cantanti vengono conte­stati, ma a Rino Gaetano viene riconosciuta una purezza che lo tiene al di fuori delle contestazioni. Inedita dal titolo Marziani noi.

1977/2. Cresce sempre di più la popolarità del cantautore che però è ancora co­stretto a scontrarsi con la censura: per esempio in una apparizione televisiva a «Domenica in», in quell’anno condotta da Corrado, è costretto a tagliare la parola «coglione» dalla canzone Spendi spandi effendi.

1978/1. Il 26 gennaio entra nelle case degli italiani Gianna. Rino Gaetano partecipa al 28° Festival di Sanremo ottenendo un enorme successo: arriva al terzo posto nella classifica finale, ma scala la classifica delle vendite, dove rimane al primo posto per diverse settimane. 

1978/2. Alcuni fan non approvano la sua scelta di partecipare a Sanremo, lo stesso Rino in un primo momento non ne è convinto, soprattutto di farlo con una canzone commerciale come Gianna: preferirebbe presentarsi con Nuntereggae più, ma i discografici spingono per Gianna fino a convincerlo. Rino Gaetano comunque cerca di distinguersi dal contesto presentandosi in maniera atipica con un cilindro in testa, ukulele, frac e scarpe da tennis, accompagnato da strani coristi che poi non sono altri che i Pandemonium.

1978/3. Con Gianna per la prima volta a Sanremo viene pronunciata la parola «sesso».

1978/4. Nel corso dell’anno ritroviamo Rino impegnato in una tournée per l’Italia, partecipa anche a varie serate e manifestazioni fra cui va ricordato «Discomare ’78» anche per la polemica che scoppia nella serata finale: la RAI infatti, o chi per essa, cerca di impedire al cantante di esibirsi con Nuntereggae più; Rino per protesta lascia la manifestazione.

1979/1. A questo punto della carriera Rino Gaetano viene ceduto dalla IT alla RCA (come avviene per tutti quelli che arrivano a un certo successo) e proprio per la nuova etichetta esce l’album «Resta vile maschio dove vai», dove anche l’immagine di Rino subisce una trasformazione (basta guardare la scelta della foto di copertina): ora è più professionale e commerciale.

1979/2. In ottobre al «Discoestate», a Rieti, obbligato a cantare in playback, Rino invece di muovere la bocca per far finta di cantare, si fuma una sigaretta.

1980/1. In maggio in RAI, partecipa alla serata per i vent’anni dalla morte di Fred Buscaglione dove interpreta, rivisitandola e aggiornandola, Il dritto di Chicago.

1980/2. A fine anno, presentata da Shel Shapiro, prende il via una nuova tournée, dove Rino si esibisce a fianco di Cocciante e dei Perigeo. Da questa sinergia esce «Qconcert», contenente quattro canzoni fra cui Insieme e la splendida interpretazione di A mano a mano di Cocciante eseguita da Rino Gaetano.

1981/1. Il 31 maggio Rino Gaetano fa la sua ultima apparizione in TV cantando E io ci sto, mentre sta preparando un nuovo tour con Anna Oxa e i Perigeo, incidendo al contempo delle canzoni con la Oxa fra cui La gallina coccodè di Battisti.

1981/2. Il 2 giugno, da solo, alle prime luci del mattino, Rino muore. Come al solito aveva cercato degli amici per passare la serata e poi era rimasto solo. Stava tornando a casa, alle 3,55 a bordo della sua Volvo 343 grigio metallizzato, targata Roma 240932, all’incrocio di via Nomentana con via Carlo Fea, vicino a via XXI Aprile, finisce sulla corsia opposta e si schianta contro un camion, un Fiat 650 D che è diretto ai Mercati Generali.

Rino sbatte violentemente la testa sul vetro ed entra in coma, arrivano i soccorsi e viene portato al Policlinico che però è privo di un reparto per craniolesi. Si cercano disperatamente altri ospedali, ma non si trova un posto e così dopo due ore Rino ci lascia per sempre.

1981/3. Colpiscono le tremende somiglianze con la sua prima canzone incisa La Ballata di Renzo.

1981/4. Forse un colpo di sonno o un malore: l’autopsia rivela un possibile collasso prima dell’incidente, l’autista del camion racconta di aver visto Rino accasciarsi di lato e iniziare a sbandare per poi riaprire gli occhi un attimo prima dell’impatto.

1981/5. Il 4 giugno, alle 11,30 del mattino, nella chiesa del Sacro Cuore di Gesù e sul lungotevere Prati, proprio nella chiesa di padre Simeone e dove Rino si sarebbe sposato, si svolge il suo funerale. Rino inizialmente viene sepolto nel piccolo cimitero di Mentana fino al 17 ottobre quando è trasferito al cimitero di Verano, nel riquadro 119, piano terra, cappella V, loculo 10.

Curiosità/1. Ma il cielo è sempre più blu è anche l’inno ufficiale della squadra di calcio del Crotone.

Curiosità/2. Un avvocato ed ex sindaco di Agropoli, Bruno Mautone, ha scritto un libro in cui sostiene che Rino Gaetano era massone ed è stato ucciso dai poteri forti. La tesi molto bizzarra ha alimentato molte leggende in Rete.

Curiosità/3. Due canzoni di Rino Gaetano hanno dato il titolo ai film “Il cielo è sempre più blu” di Antonello Grimaldi e a “Mio fratello è figlio unico” di Daniele Lucchetti. Da segnalare anche il commento di A mano a mano nel film “Allacciate le cinture” di Ferzan Optezek.

Curiosità/4. Un giovane chiamava ogni giorno una radio romana per chiedere che venisse trasmesso un successo di Gaetano. Stanco dell’andazzo, lo speaker gli avrebbe detto: “Ma ti sei proprio innamorato di questo Rino Gaetano?”. Dall’altro capo del telefono la risposta: “Sono io”.

2004. In ottobre Giorgio Panariello condusse su Rai Uno il varietà Ma il cielo è sempre più blu. Il titolo della trasmissione era un chiaro omaggio a Gaetano e la sorella del cantautore, Anna, fu una degli ospiti della prima serata.

2006. Il Pds adotta Ma il cielo è sempre più blu come inno del partito.

2009. Marco Bellocchio ha realizzato uno spot per la Banca Monte dei Paschi utilizzando Il cielo è sempre più blu.

2017. Il 4 aprile, il Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, insignisce della medaglia d’oro alla cultura non il menestrello del nonsense, ma il principe dell’allegoria del Novecento: Rino Gaetano.

2020. Un pannello alto 9 metri e largo quasi 8 con la scritta “Benvenuti a Crotone dove il cielo è sempre più blu” con l’effige del cantautore è collocato sulla fiancata di uno degli edifici delle case Aterp che si incontrano percorrendo viale Gandhi all’ingresso della città. In città lo ricorda anche una statua.

Notizie tratte da “Rino Gaetano, Ma il cielo è sempre più blu” curato da Massimo Cotto per Mondadori, Donna Moderna, Enciclopedia Treccani, Ansa, Corriere.it 

40 anni senza Rino. Il ritorno di Rino Gaetano in Calabria, un viaggio attraverso i suoi testi. Paride Leporace Il Quotidiano del Sud l'1 giugno 2021. A quarant’anni della sua scomparsa riascoltare le canzoni di Rino Gaetano significa sentire quel brivido di coinvolgimento da un calabrese che conosceva bene la sua terra. Abbiamo voluto immaginare un ritorno estivo a Crotone di Rino adoperando parole e versi delle sue intramontabili canzoni. Perché quel terribile incidente stradale sulla Nomentana non ha spento il suo vivo ricordo. Una R4 rossa macina chilometri sulla strada che congiunge Catanzaro con Crotone. Rino torna a casa, la sera prima a Roma con i Pandemonium ha parlato di nuove canzoni.

Parlano di donne, i discografici sono interessati, si potrebbe anche andare a Sanremo. Figurarsi!

La macchina scorre lenta e Rino guarda la sua terra. Calabria. Sud. E il cantautore memorizza le sue sensazioni. Le visioni della sua terra d’origine ispirano pensieri e parole:

“mi piace questa strada con il verde bruciato, proprio a quest’ora sul tardi con le macchie scure senza rugiada, coi fichi … d’India e le spine dei cardi”.

Ecco za’ Maria. Anche lei mi piace vedere…

…avvolta nel nero del lutto di sempre, sulla sua soglia tutte le sere che aspetta il marito che torna dai campi”.

Dire queste cose a Roma, chi ti può capire, solo uno come te. Guarda che albero.

Ad esempio a me piace il Sud

“Ad esempio a me piace rubare le pere mature sui rami se ho fame, e quando bevo sono pronto a pagare l’acqua, che qui in Calabria è più del pane”.

Sulla strada passa, intanto, Michele Vittimberga, contadino, figlio di contadini dai tempi del feudo Barracco, e che ricorda ancora i morti di Melissa. Michele abbraccia Rino. Camminano insieme e parlano dell’uva, del vino; che è ancora un lusso “per lui che lo fa”.

Michele torna a casa. E Rino resta solo, tornando a meditare …

“A me piace per gioco tirare dei calci ad una zolla di terra, passarla a dei bimbi che intorno al fuoco, cantano giocano e fanno la guerra”.

Capo Colonna staglia la sua monumentalità classica. Rino ferma l’automobile, scende e trattiene il respiro:

“Poi mi piace scoprire lontano il mare, se il cielo è all’imbrunire, seguire la luce di alcune lampare e raggiunta la spiaggia mi piace dormire”.

E si ricordò di Aida.

Lei sfogliava i suoi ricordi, le sue istantanee, i suoi tabù le sue madonne i suoi rosari e mille mari e alalà i suoi vestiti di lino e seta, le calze a rete Marlene e Charlot e dopo giugno il gran conflitto e poi l’Egitto un’altra età marce svastiche e federali sotto i fanali l’oscurità e poi il ritorno in un paese diviso nero nel viso più rosso d’amore Aida come sei bella, Aida le tue battaglie i compromessi la povertà i salari bassi la fame bussa il terrore russo Cristo e Stalin Aida la costituente la democrazia e chi ce l’ha e poi trent’anni di safari fra antilopi e giaguari sciacalli e lapin Aida come sei bella

“L’estate che veniva con le nuvole rigonfie di speranza, nuovi amori da piazzare sotto il sole, quel sole che bruciava lunghe spiagge di silicio”.

Sempre Calabria, l’amore di un giovane che voleva “cantare Prevert e non copiare Baglioni”.

E “lei che cresceva sempre più bella, il sole che batteva su di me, e prendeva la mia mano mentre io aspettavo, li sole che bruciava, bruciava mentre sfiorivano le viole”.

E poi quella notte:

Sfiorivano le viole

“i passi delle onde che danzavano sul mare a piedi nudi, come un sogno di follie venduto all’asta, quella notte cominciava un po’ perversa e mi offriva tre occasioni per amarti”.

E Rino rimettendosi in auto si ricordò del suo amico Santo Guarino, di Isola Capo Rizzuto. Operaio in Lombardia che si intristiva a vedere…

… “vacche stanche di muggire, che proponevano sbadigli, con tanta nebbia da smaltire”.

Rino ogni fine agosto accompagna Santo alla stazione che…

“portava le provviste e due o tre pacchi di riviste. Poi aveva sempre la fotografia di Bice, bella come un’attrice”.

Anche questo è sud

E mentre aspettavano il fischio del capostazione, Santo….

… “cantava le canzoni che sentiva sempre a lu mare”.

Rino tornò a guardare verso il mare.

“Vecchi gozzi alla deriva si preparano alla pesca con le reti rattoppate nella stiva, l’onda avanza a passi nani, agonistica col molo mentre il vento già scommette coi gabbiani”.

E cantava le canzoni

Anche questo è Sud. Pensò Rino. Che vedeva il cielo sempre più blu per …

“chi suda chi lotta, chi mangia una volta, chi gli manca la casa, chi vive da solo, chi prende assai poco, chi gioca col fuoco, chi vive in Calabria, chi vive d’amore”.

Marco Castoro per “leggo.it” l'1 giugno 2021. Alessandro Gaetano è il nipote di Rino, è il figlio della sorella Anna. Ha seguito le orme dello zio, è un cantautore con il nome d’arte di “greyVision”.  

Sono passati 40 anni, che ricordi affiorano quando pensa a quella tragica notte?

«Un momento che ha spezzato la giovane vita di mio zio e che ha cambiato per sempre le sorti della nostra famiglia. Un dolore simile non lo superi mai, ci convivi».

Quel mancato ricovero dopo l’incidente e i ritardi ospedalieri sono stati decisivi per la vita di Rino? Si poteva salvare?

«Non indossava la cintura di sicurezza, a quei tempi non c’era la sensibilizzazione che c’è oggi. Non sapremo mai se con un intervento tempestivo si sarebbe potuto salvare. I medici fecero di tutto per trovare le attrezzature adeguate per operarlo ma credo che il malore che ha avuto prima dello schianto, gli sia stato fatale».

Che ricordi ha di suo zio? 

«Molti e bellissimi. Era alto, profumato e spiritoso ma anche riservato, premuroso e presente».

Ogni anno con la Rino Gaetano band lo avete ricordato con dei concerti in piazza Sempione strapiena di fans nel quartiere romano di Montesacro, il quartiere di Rino, alimentando il mito. Quest’anno com’è strutturato l’evento?

«Celebreremo i quarant’anni dalla sua scomparsa a suon di musica con il Rino Gaetano Day, un concerto alla sua XI edizione. Si terrà il 2 giugno alle 18:30, trasmesso in diretta streaming sulla pagina Rino Gaetano Band Facebook, Youtube e on air su Radio Italia Anni 60 Roma. Ci saranno ospiti e bei contenuti speciali. Anche il Mei ha sposato l’iniziativa. Dopo la grande partecipazione degli anni passati, quest’anno abbiamo preferito rendere l’evento fruibile a tutti anziché destinarlo a pochi fortunati in presenza».

Perché Rino e le sue canzoni piacciono ancora così tanto? Non solo ai 50enni ma anche ai ventenni: come mai questo successo tra i giovani?

«Ha saputo creare un linguaggio universale. Ironia, per lui, non significava ridere o far ridere ma togliere alle cose quel tanto di drammatico che hanno».

La voce ruvida di Rino è unica e inimitabile. Quando interpreta le sue canzoni si immedesima in lui o va per la tua strada vocale?

«Mi emoziono spesso mentre canto. Non mi sono mai sforzato, non ho mai avuto l’intenzione di imitarlo. Nessuno dovrebbe, Rino era unico. La mia è una missione, io e mia madre gli dedichiamo tutta la vita che possiamo».

Qual è il brano che sente più suo? E quello che ricorda più Rino?

«Adoro “E la vecchia che salta con l’asta” perché ha un testo un po’ mistico, composto quando era appena adolescente. Il mio preferito però è “Mio fratello è figlio unico”: il tema della mancanza di reciproca solidarietà è, sempre più, pura urgenza per l’umanità».

Ha mai sognato Rino?

«Raramente, è capitato qualche volta che lo vedessi a fianco a me. Un paio di volte, mi aveva messo in guardia su alcune cose. E ci aveva preso. Mi capita più spesso, invece, di sentirlo al mio fianco».

Se avesse un’occasione di parlare qualche minuto con lui, che cosa gli direbbe?

«Zio, prendiamo le Nikon e andiamo a scattare due foto, lontani dalla città e dal mormorìo».

Nostro fratello Gaetano è figlio unico. Come il suo talento. Alessandro Gnocchi il 6 Giugno 2021 su Il Giornale. Le filastrocche "nonsense" del cantautore compongono un canzoniere spericolato. Per depistare, Rino Gaetano sosteneva che i suoi brani non significassero niente, che fossero giochi di parole adatti a melodie semplici. Lo diceva con un filo di amaro sarcasmo. In fondo stava assecondando un luogo comune nato per mancanza di attenzione. Infatti Gaetano, quando componeva, non scherzava. Il suo canzoniere, ascoltato oggi a quarant'anni dalla morte, è cresciuto assieme ai suoi estimatori e si è rivelato profondo anche e soprattutto dove sembra più giocoso e spensierato. In realtà, Rino ha creato un repertorio spericolato, il più spericolato assieme a quello (diversissimo) di Franco Battiato. Il cantante calabrese, romano d'adozione, si inerpica per sentieri quasi sconosciuti in Italia. Il teatro dell'assurdo è la sua prima passione, da autodidatta si studia Eugene Ionesco e Samuel Beckett. Non è un amore passeggero. Reciterà in Aspettando Godot e interpreterà la volpe in una riedizione del mitico Pinocchio di Carmelo Bene. I cantautori seri vanno regolarmente a sbattere contro la retorica dell'impegno e la involontaria parodia della poesia. Gaetano non corre neppure il rischio, le sue «filastrocche» a rima baciata sanno sempre essere spiazzanti o trasgressive. Senza contare che Gaetano ha un vocabolario dieci volte più ampio dei suoi colleghi. Prendiamo Gianna, grande successo sanremese del 1978. L'ispirazione potrà anche essere casuale (in origine era Anna, la sorella di Rino) ma è un dato di fatto: per la prima volta, il pubblico del Festival sente pronunciare la parola sesso. Ecco qua, la ribellione è servita, e non c'è stato neppure bisogno di tirare in ballo la politica. Non che Gaetano la trascurasse. L'esegesi di Berta filava (1976) conduce in luoghi davvero imprevedibili: siamo dalle parti dello scandalo Lockheed (secondo alcuni) e del compromesso storico targato Aldo Moro (secondo Rino). Nuntereggae più prende a pugni in faccia l'establishment vecchio e noioso: «Avvocato Agnelli, Umberto Agnelli / Susanna Agnelli, Monti Pirelli / Dribbla Causio che passa a Tardelli / Musiello, Antognoni, Zaccarelli (nun te reggae più)». Qualcuno se la prese, Susanna Agnelli invece dichiarò in televisione di essere una fan. Gaetano sapeva anche andare dritto al cuore del problema, che fossero faccende pubbliche o tormenti privati. Ma il cielo è sempre più blu, un'altra «filastrocca», distrugge ogni ipotesi di «volemose bene» e «ci rialzeremo dalla nostra polvere». Escluso il cane è una delle più atroci dichiarazioni di solitudine e incomprensione. Il meglio del meglio arriva con gli apparenti non sense. Che razza di titolo sarà mai Mio fratello è figlio unico? Dietro all'ironia, Gaetano mostra qual è il prezzo da pagare per essere una persona che non prova vergogna a guardarsi nello specchio: «Mio fratello è figlio unico / perché non ha mai trovato il coraggio d'operarsi al fegato ... Mio fratello è figlio unico / sfruttato represso calpestato odiato». Dopo sei dischi e un successo crescente, Rino, nato a Crotone nel 1950, muore in un incidente stradale il 2 giugno 1981. Sono le tre e mezza di notte, Gaetano sbanda e va a sbattere contro un camion di frutta che procede nell'altra corsia. Lo estraggono vivo dall'automobile. Alle quattro e un quarto, in condizioni disperate, Gaetano entra al Policlinico Umberto I. Il reparto di neurochirurgia d'emergenza non è funzionante, bloccato da una causa al Tar. Vengono chiamati cinque ospedali. Nessuno ha un posto libero o una sala operatoria disponibile. Alle sei del mattino, Gaetano, trent'anni, è dichiarato morto. Una biografia succinta ma ricca di aneddoti interessanti è appena uscita per Hoepli: Rino Gaetano. Sotto un cielo sempre più blu di Michelangelo Iossa. Il libro è arricchito da una prefazione di Sergio Cammariere (cugino di Rino) e da una testimonianza di Renzo Arbore, all'epoca cerimoniere di Alto gradimento assieme a Gianni Boncompagni. Lasciamo al grande Arbore il compito di fare giustizia: «Le sue canzoni erano importanti, da grande cantautore - certamente - ma anche con qualche significato in più, decisamente inconsuete e con elementi ai limiti del proibito, per l'epoca». Perfetto. Alto gradimento si trova a sponsorizzare Rino, e non è cosa normale. Sul 45 giri di Tu, forse non essenzialmente tu, splendido brano su come si possano confondere amore e amicizia, si legge: «Una scelta di Alto gradimento!». Belle le pagine dedicate da Iossa al clima del Folkstudio di Roma. Rino era perfettamente inserito nell'ambiente dei cantautori della sua generazione, era amico, in particolare, di Antonello Venditti e Francesco De Gregori. Ma la storia più bella è legata a Lucio Dalla. Il bolognese si è messo da poco in proprio e ha già piazzato qualche colpo da maestro, come 4 marzo 1943. Un giorno, mentre guida verso Roma, Dalla nota un autostoppista con chitarra. Si ferma e lo fa salire. Il vagabondo suona qualche brano dei suoi. Dalla è colpito. Decide di segnalare il viandante a Vincenzo Micocci, leggendario talent scout e discografico. «A proposito, come ti chiami?» chiede Dalla. «Rino Gaetano». Sarà poi Venditti ad aiutare ulteriormente Rino, che sarà sempre riconoscente, perché era fratello di tutti i figli unici.

·        40 anni dalla morte di Alfredino Rampi.

Vermicino e la tv dell’empatia. Beatrice Dondi su La Repubblica il 14 giugno 2021. La tragedia di Alfredino fu uno strazio collettivo, in cui lo spettatore che guardava lo schermo avrebbe voluto essere lì, vicino a quel pozzo maledetto. Poi tutto degenerò. E la televisione perse il senso del pudore. Quando l’inviato del Tg1 chiese la linea a Piero Badaloni per non interrompere il collegamento da Vermicino, si pensava, tutti lo pensavano, dalla troupe ai curiosi accorsi intorno al pozzo artesiano in cui era precipitato il piccolo Alfredino, che di lì a breve sarebbe arrivato il lieto fine. Quella diretta durò 60 ore. E il lieto fine non arrivò mai. In compenso 21 milioni di telespettatori non abbandonarono il piccolo schermo, per seguire, attimo per attimo, uno dei momenti di lutto collettivo più simbolici del nostro tempo. Che segnò, per molti, una linea del confine televisivo. Venne coniato il termine “tv del dolore”, e da quel momento in poi, quando il 13 giugno del 1981 si spensero le telecamere, ogni qualvolta si entrava di forza nel reale la tragica vicenda di Vermicino tornava alla memoria con il bruciore di una ferita. Ma quello di quarant’anni fa, al contrario, fu un evento unico, irripetibile, televisivamente parlando. Impossibile da eguagliare. Perché tra gli spettatori dell’epoca, raccolti umanamente vicino alla famiglia Rampi, quegli spettatori che ascoltavano con le lacrime agli occhi le parole di Sandro Pertini, che con delle cuffie troppo grandi per il suo capo chino, tentava di parlare col bambino, tenerlo sveglio, fargli sentire che un mondo intero era lì con lui, nel suo buio, ecco quegli spettatori un momento in cui il sentimento andava ben al di là del gusto raccapricciante dell’indagine sulla morte non lo avrebbero vissuto mai più. Non fu tv del dolore quella della diretta a reti unificate, fu la tv dell’empatia, a cui ci si abbandonò per vivere insieme un dolore collettivo. La quarta parete era stata letteralmente abbattuta perché tutti avrebbero voluto essere lì, non spettatori distanti alla ricerca brutale del dettaglio guignolesco, ma parenti, amici, vicini di Alfredino, ognuno avrebbe voluto essere quella voce che lo accompagnava mentre il piccolo precipitava sempre più giù, ognuno avrebbe voluto provare a calarsi nel tunnel maledetto, ognuno era, fisicamente, tra i pompieri, gli speleologi, i circensi, i volontari, i genitori affranti. Ognuno era il dolore, che guardava la tv. Non era la vita in diretta che spreme la cronaca fino all’osso per guadagnare quel punto di share, non era il plastico di Cogne, per intrufolarsi col dovuto distacco alla ricerca bramosa di una goccia di sangue nascosta, non erano le Poste, le Buste, i microfoni, quanti microfoni, sbattuti sulle facce dei parenti per la domanda «soffre, ma quanto soffre?». Quella vergognosa mancanza di pudore è nata dopo, con le speculazioni successive, le derive malsane, le riconversioni minuto per minuto dei grandi fratelli. Ma a Vermicino non c’era. Perché a Vermicino c’eravamo noi.

Antonello Piroso per “La Verità” l'8 giugno 2021. Con il senno di poi - per dirla con il Luigi Di Maio di oggi, ex giustizialista pentito - a Vermicino sbagliammo tutti. Sì, anche noi, che rimanemmo ipnotizzati davanti al piccolo schermo per la prima non-stop della storia, in un gioco di specchi: la tv fissava un buco nel terreno, noi, complici, fissavamo la tv in attesa di un impossibile happy end. Vermicino. Frazione tra Roma e Frascati. Molto più che un'espressione geografica. Non uno spazio fisico, ma un non-luogo dell'anima, schiantata da un atroce evento di cronaca, avvenuto 40 anni fa, il 10 giugno 1981, protagonista involontario Alfredo Rampi, per tutti -sempre e per sempre - Alfredino, precipitato in un pozzo e incastrato a 40 metri (oppure entrato per gioco? O magari spinto? La dinamica non è mai stata appurata, eppure quel posto era una specie di cantiere, possibile che nessuno abbia visto niente? Alla fine l'unico processato per omicidio colposo fu Elio Ubertini, autore dei lavori di sbancamento, assolto con formula piena). Errammo tutti, ma soprattutto lo Stato, e in primis colui che, a norma di Costituzione, ne è il capo, il Presidente della Repubblica che rappresenta l'unità nazionale. Ovvero colui che - ci assicurano - è ancora il più amato dagli italiani: Sandro Pertini, il «partigiano presidente» secondo la stucchevole etichetta appioppatagli dopo l'elezione del 9 luglio 1978 al posto di Aldo Moro, assassinato dalle Brigate Rosse giusto due mesi prima, il 9 maggio. La riprova? Sulla prima pagina del Corriere della Sera del 13 giugno 1981, titolo «Per Alfredo ha battuto angosciato il cuore di 50 milioni di italiani», a firma di Cesare De Simone e Gian Antonio Stella, la foto a corredo non è quella iconica del bambino di 6 anni, sorridente nella sua canottierina in riva al mare. Ma quella di Pertini, in piedi sull' orlo dell'abisso in cui è sprofondato Alfredo, con in testa le cuffie per sentire e farsi sentire, intorno un irrazionale assembramento: gli uomini della scorta, vigili del fuoco, poliziotti, carabinieri, soccorritori, curiosi e, naturalmente, giornalisti. Un mucchio selvaggio, un caos tutt' altro che calmo in cui Pertini portò ulteriore scompiglio. Nessuno fu evidentemente in grado di fargli intendere che il suo protagonismo egotico non avrebbe giovato alla causa, ma tant' è: abile nel cavalcare l'umore dell'opinione pubblica, un autentico «populista» ante litteram, una volta realizzato che l'evento stava calamitando l'attenzione spasmodica degli italiani, raggiunse Vermicino centrando l'obiettivo di diventare lui, con ciò stesso, la notizia. Riavvolgiamo brevemente il nastro. Alfredo, ricostruiranno i magistrati, viene inghiottito dalla terra non oltre le ore 20 di mercoledì 10 giugno. Ma sarà individuato solo a mezzanotte. Alle 2 di giovedì, l'Ansa diffonde una nota: «Un bambino di 6 anni, Alfredo Rampi, è precipitato in un pozzo artesiano, rimanendo ferito dopo un volo di 20 metri». Commenterà con il Tg2 la madre Franca Rampi, finita nel tritacarne mediatico perché sorpresa - dopo tre notti e due giorni sotto il sole cocente - a mangiare un ghiacciolo (!), segno evidente della sua pretesa insensibilità e, forse, complicità nella morte del figlio: «Non ha funzionato niente. Quelli del 113 sono venuti a cercare Alfredo di sera e non avevano le lampade. Le unità cinofile arrivate da Roma non erano adatte. I cani giusti stavano a Nettuno, che è vicino Roma. Ho detto: andiamo a prenderli. È venuto fuori che ci voleva l'autorizzazione di un tale che non si riusciva a rintracciare perchè era notte» (uno dei tanti disservizi, spiegherà Elveno Pastorelli, comandante dei vigili del fuoco di Roma che diventerà il primo comandante operativo della costituenda Protezione Civile: «Nella notte tra mercoledì e giovedì ho fatto 100 telefonate per trovare una sonda, ma nessuno mi rispondeva»). Ma chi lancerà il primo appello, «si cerca una gru per tirare fuori un bambino caduto in un pozzo»? La Rai? Macché: una tv locale, «forse Teleroma56», ricorderà l'inviato del Tg2 Pierluigi Pini, che rientrato a casa all' una di notte accende la tv, vede scorrere quella scritta e con il fiuto del grande cronista chiama il suo operatore: «Prendi la cinepresa (le telecamere a spalla erano ancora un oggetto semimisterioso) e raggiungimi a Vermicino». Il resto è storia. Un blackout giovedì 11 colpirà dalle 10.30 alle 17.30 le reti radiofoniche (le onde radio dell' antenna di Santa Palomba interferivano con il microfono calato nel pozzo, così la Rai, le radio locali e perfino i radioamatori decisero di interrompere ogni comunicazione: ma siccome il 20 maggio era emerso il bubbone della P2 di Licio Gelli, e il 13 maggio papa Giovanni Paolo II era stato ferito a pistolettate in piazza San Pietro da Alì Agca, correvano voci incontrollate su «forze eversive» pronte ad agire, con i cittadini che chiamavano le redazioni di tv e giornali: «Ma è in corso un golpe?»). Le trivelle rimediate e le geosonde per cui furono allertate Iri e Eni. Le decisioni controproducenti (innaffiarono le pareti del pozzo rendendole così sdrucciolevoli che il povero bimbo slittò ancora più giù, a 60 metri). La buca scavata parallelamente per salvare Alfredino non da sopra ma da sotto. Gli «angeli» pronti a calarsi in quel buco nero (l'ultimo, disperato tentativo fu quello di uno gnomo sardo Angelo Licheri, 48 minuti a testa in giù nel cunicolo, sette tentativi di strappare il bimbo al suo destino, ma non c' è nulla da fare: gli scivola letteralmente via dalle dita). Il mitico pompiere Nando Broglio, l'unico con cui a un certo punto vorrà parlare Alfredino, e che rimarrà in contatto radio con lui ininterrottamente per oltre 24 ore, fino alla fine. Ma soprattutto la mostruosa diretta Rai - 18 ore con un'unica telecamera fissa, una specie di videocitofono, e il resoconto minuto per minuto di quello che lo stesso Alfredo, sempre più stremato, riusciva a dire, compreso uno straziante: «Mamma, ma quando arrivi? Non mi dire bugie, non ti credo più!» - che partirà con il Tg2 delle 13 di venerdì per terminare alle ore 7 del mattino dopo, quando dagli inferi in cui era finito Alfredo non giungerà più alcun segno di vita. Un rito collettivo, un voyeurismo di massa per il primo atto della tv del dolore, con i vertici del servizio pubblico incapaci di staccare la spina. Soprattutto perché alle 16.30 piomba Pertini provocando l’ambaradan di cui sopra, non senza tappare la bocca all' inviato Rai Maurizio Beretta, futuro direttore generale di Confindustria (in giacca di lino bianca, «un piccolo Grande Gatsby capitato per sbaglio in una scena del film Accattone di Pier Paolo Pasolini», annota Massimo Gamba nel suo documentato libro Alfredino-L' Italia nel pozzo), che gli ha messo il microfono sotto il naso: «Presidente, siamo in diretta per il Tg1». Risposta che più «paraventa» non si può: «A me non interessa la televisione, la televisione è esibizionismo». Una «visita a sorpresa», come la definirà dallo studio del Tg1 Piero Badaloni? Manco per niente, confesserà Emilio Fede, direttore pro tempore del Tg1 in quanto il suo predecessore Franco Colombo era stato travolto dallo scandalo P2: «Io avevo deciso di interrompere la diretta. Ma mi chiamò Antonio Maccanico, segretario generale del Quirinale, dicendomi che il capo dello Stato stava seguendo il fatto in tv e aveva deciso di andare sul posto, perché lo avevano avvertito che da un momento all' altro il bambino sarebbe stato tirato fuori. Quindi la non-stop non si poteva stoppare». Morale: Pertini va a Vermicino perché la tv ha dato all' evento una dimensione epocale e addirittura sovranazionale. E la tv rimane a Vermicino perché lì è arrivato Pertini, trattenendosi peraltro anche lui fino alle 7 di sabato. Insomma: dietro il gesto di Pertini non c'era solo il desiderio di esprimere la vicinanza di «tutto il popolo italiano» al piccolo Alfredo, in lotta con la morte, ma soprattutto un calcolo opportunistico, personale e istituzionale, dal momento che - dopo il disastro dei soccorsi per il terremoto in Irpinia con i suoi circa 3.000 morti nel novembre 1980, contro cui Pertini si era scagliato in diretta tv (alla faccia del «la tv è esibizionismo») - Vermicino può rappresentare la catarsi. Se i vigili del fuoco riusciranno a tirare fuori Alfredino vivo e in diretta, quale migliore spot per la credibilità della macchina dello Stato? Purtroppo non ci fu alcun lieto fine. Alfredo non riemerse vivo da quella fossa, il suo corpo fu recuperato un mese dopo. La comparsata di Pertini si rivelò inutile a tutti gli effetti. Come ha rilevato perfino Walter Veltroni, che sulla vicenda ha scritto il libro L' inizio del buio: «Nessuno voleva mancare la scena che salderà il dolore con la felicità, giunse anche Pertini. Ma forse stavolta non fece la cosa giusta». Non ci riuscì nessuno, in verità. Come concluse amaramente Leonardo Sciascia, suggellando il senso di angosciosa e fallace impotenza globale: «Siamo stati capaci di andare sulla luna, ma non di salvare un bambino in fondo a un pozzo».

Stefania Cigarini per leggo.it l'8 giugno 2021. Piero Badaloni condusse quasi per intero - 36 ore - la diretta Rai sulla tragedia di Vermicino del 10 giugno 1981. Oggi la morte di Alfredino verrà raccontata da una fiction.

«C'è sempre il rischio di una spettacolarizzazione del dolore. Staremo a vedere. Il fatto che il centro Alfredo Rampi abbia collaborato alla realizzazione della miniserie potrebbe essere un elemento di garanzia. Quel fatto di cronaca divenne evento anche in funzione della diretta tivù e con essa entrò a far parte della storia del Paese. Può essere legittimo che una emittente televisiva voglia ricostruire quella che chiama “Una storia italiana”. All'epoca si superò la misura, speriamo non accada anche in questo caso».

Lei come la visse?

«Dopo quarant'anni ricordo ancora ogni dettaglio e soprattutto la sensazione di angoscia. Avevo trentacinque anni e uno dei miei figli sei, come Alfredino. Dovetti combinare la mia stessa partecipazione emotiva con il distacco del cronista». 

Perché la diretta?

«Fu casuale. Vermicino era un collegamento in coda alla scaletta del Tg2 delle 13,30 dell’11 giugno 1981. Il capo dei Vigili del fuoco disse al nostro inviato (sul posto si alternarono Maurizio Beretta e Pierluigi Camilli, ndr) che sarebbe mancato poco al recupero. Il direttore Emilio Fede decise di mantenere la linea. Tutto iniziò così». 

Gli errori di allora

«Vi furono discrepanze tra le strategie di intervento degli speleologi e quelle del capo dei Vigili del fuoco. E l'arrivo del Presidente della Repubblica». 

Pertini? Perché?

«Con tutto il rispetto e l’ammirazione per l’uomo e il Capo di Stato, forse sarebbe stato meglio che fosse rimasto a seguire da palazzo. Con il suo arrivo divenne necessità istituzionale mantenere la diretta su tutti e tre i canali Rai dalle 14 dell’11 giugno, ed Alfredino era nel pozzo da 18 ore, alle 7 del 13 giugno, quando si ebbe la netta sensazione che fosse morto. Sarebbe stato meglio seguire quell'evento con una sola rete. La speranza scivolò via ora dopo ora, insieme quel povero bambino che da trenta metri scivolò a sessanta». 

Si dice che da quella diretta nacque la “tivù del dolore”

«Provocò certamente un coinvolgimento emotivo intenso da cui scaturirono partecipazione sincera al dolore, ma anche curiosità morbosa. Fu un fatto unico, da allora cambiò il mio modo di vivere e di fare la televisione. E non solo il mio. Dal successo di quella diretta, in termini di audience, nacque una televisione che puntava proprio alla speculazione del dolore. Scelta che disapprovavo e che disapprovo tutt'ora». 

Cosa la colpì, già allora, in maniera negativa?

«Ci sono cose che continuo a portarmi dentro e che dimostrano quali sono i rischi quando si è costretti, come fummo allora, a seguire una tragedia. Non avrei mandato in onda il dialogo tra Franca Rampi e suo figlio avvenuto attraverso un microfono calato nel pozzo. Lei cercava di rassicurarlo, era un momento intimo, struggente e privato. Quella è stata una spettacolarizzazione del dolore. Ricordo la signora Rampi presa per una spalla e fatta voltare bruscamente “a favore di telecamera” mentre stava chiedendo informazioni ad un vigile del fuoco in un momento cruciale delle operazioni d salvataggio, la perforazione del tunnel parallelo al pozzo». 

Da quella tragedia nacque anche il sistema di Protezione civile

«Una conseguenza positiva. La sensibilizzazione delle istituzioni e lo sforzo della mamma di Alfredino che creò il Centro intitolato a suo figlio. Nell'arco di un anno nacque il coordinamento interministeriale. E quello che fino ad allora era una organizzazione disarticolata e molto sulla carta divenne il sistema di Protezione civile». 

Lei ha incontrato successivamente Franca Rampi?

«No, preferisco rispettare la sua privacy. La signora Rampi non accetta interviste, ha scelto la strada della discrezione, si è espressa creando il Centro intitolato al figlio, non ha mai cercato pubblicità. E io sono tra quei giornalisti che preferiscono avere un limite e non superarlo. Per me è un dato insormontabile. Il resto lo considero sciacallaggio». 

Vermicino rispetto ad altri eventi epocali tragici

«In quel periodo mi capitò di seguire varie dirette, il sequestro Moro, la strage di Ustica, il terremoto in Irpinia, l'attentato al Papa; ma Vermicino assunse una dimensione completamente diversa, incise profondamente sulla storia della televisione e del Paese. Dovrebbe ricordarci che, come giornalisti, abbiamo un codice etico e delle responsabilità». 

Una tragedia di oggi, il Mottarone

«C'è sempre il tentativo di mantenere alto il livello di attenzione mediatica attraverso la curiosità di conoscere dettagli che non sono così rilevanti. E' più importante l'inchiesta, non sapere quali sono state le prime parole del bimbo, unico sopravvissuto, al suo risveglio in ospedale. C'è ancora la voglia, da parte di qualcuno, di inseguire il sensazionalismo. Penso che gli italiani siano abbastanza maturi da capire qual è il limite che non va superato, spesso sono i giornalisti a farlo».

Capita anche in politica

«Il gossip sulla politica, perché l'informazione politica è altra cosa. Fa tutto parte dello stesso disegno, la scelta di una linea editoriale che si crede sia quella che fa vendere di più o che crei più ascolto televisivo. In realtà spesso l'effetto è quello di allontanare il lettore o il telespettatore. Accade anche per i fatti di cronaca, che nei tg europei non superano la media del 4, 5 per cento; in Italia siamo sul 12 per cento». 

Un suggerimento?

«Fare più attenzione alle problematiche che ci circondano, il mondo africano, la situazione in Medio Oriente. Non siamo un piccolo villaggio, facciamo parte del mondo». 

In tivù cosa guarda?

«Canali tematici come Rai Storia o National Geographic, oppure qualche bel film. Non trovo per il resto molte trasmissioni originali sulle reti generaliste, si copiano le une con le altre». 

Progetti e interessi

«Ho una passione per la storia e dall'ultimo periodo di inviato Rai a Madrid ho tratto una trilogia sul periodo franchista. Il libro più recente, "Quando il passato non passa", esplora i crimini della dittatura di Franco, la più longeva in Europa. In particolare lo scippo dei bimbi dei dissidenti consegnati a coppie sterili fedeli al regime. In quasi cinquant'anni furono oltre trecentomila bambini. La memoria storica è importante, va ribadita sempre contro ogni frequente tentativo di manipolazione».

Giornalista e scrittore, oltre all'impegno su TV 2000?

«Sto preparando un documentario sull'acqua, sulla realtà e le problematiche legate a questo vitale elemento (ha realizzato anche “Dolomiti. Montagne, uomini, storie, ndr). Credo ancora in una tivù che abbia una valenza formativa e continuo imperterrito così».

La tragedia di Vermicino diventa fiction - Alfredino, una storia italiana - di Lotus production/Marco Berardi, in onda su Sky il 21 e il 28 giugno 2021. Nel cast Anna Foglietta (Franca Rampi, foto); Kim Cherubini (Alfredino); Vinicio Marchioni (Nando Broglio); Massimo Dapporto (Sandro Pertini). Ed ancora, Luca Angeletti è Ferdinando Rampi, il padre,  Francesco Acquaroli è Elveno Pastorelli, comandante dei Carabinieri,  Beniamino Marcone è il pompiere Marco Faggioli, Valentina Romani è Laura Bortolani, geologa, Daniele La Leggia è Tullio Bernabei, caposquadra degli speleologi, Riccardo De Filippis è Angelo Licheri, ultimo a tentare il salvataggio.

"Come un sasso nel cuore". Quando Alfredino morì nel pozzo. Rosa Scognamiglio il 15 Maggio 2021 su Il Giornale. Alfredino Rampi, un bimbo di soli 6 anni, morì dopo essere rimasto intrappolato in un pozzo nelle campagne di Frascati. Quarant'anni dopo, l'incidente di Vermicino diventa una serie tv. La storia di Alfredino Rampi, il bambino di 6 anni che morì a seguito della caduta accidentale in un pozzo artesiano di Frascati, è una ferita aperta nella storia del nostro Paese. Quarant'anni dopo, "L'incidente di Vermicino" diventa una miniserie tv targata Sky. "Un sasso duro rimasto nel cuore di un intero Paese", si legge nella nota alla stampa dell'emittente satellitare a corredo del trailer "Alfredino - Una storia italiana".

La caduta accidentale nel pozzo. Era il 10 giugno 1981 quando Alfredino Rampi, un bimbo di soli 6 anni, precipitò in un pozzo artesiano di via Sant'Ireneo, in località Selvotta, una piccola frazione di campagna nella zona di Frascati, lungo la strada di Vermicino che collega Roma Sud a Frascati Nord. Pressappoco alle ore 19.30 il piccolo stava rincasando insieme al papà, quando chiese di poter fare una deviazione per i prati da solo. Ottenuto il consenso del genitore, Alfredino imboccò una strada sterrata da cui non fece più ritorno. Allarmati dall'assenza prolungata del figlio, verso sera i coniugi Rampi allertarono le forze dell'ordine. A ipotizzare che il bimbo potesse essere caduto accidentalmente in un pozzo poco distante dall'abitazione, fu la nonna del ragazzino. Un agente di polizia, il brigadiere Giorgio Serranti, decise di ispezionare la cavità a cui aveva fatto menzione l'anziana nonostante gli fosse stato detto che era coperta da una lamiera. Giunto sul luogo della segnalazione, il poliziotto potè udire la voce flebile di Alfredino infilando la testa nell'imboccatura dello scavo: fu l'inizio di un calvario durato ben 60 ore.

I tentativi di soccorso. In una manciata di minuti attorno al pozzo si radunarono vigili del fuoco, vigili urbani e vigili del fuoco. Dalle prime stime risultò che il bambino fosse intrappolato a una profondità di circa 38 metri, ma le misurazioni successive accertano che si trovasse invece a ben 60 metri dall'imboccatura del cunicolo. Esclusa sin da subito la possibilità di calarvi dentro un soccorritore (il pozzo risultò più stretto e angusto del previsto), si decise di procedere al salvataggio con una tavoletta legata a corde, di modo che il bambino potesse aggrapparvisi per risalire verso la superficie: fu un errore madornale. La tavoletta si incastrò a 24 metri di profondità e le funi si spezzarono. Attorno alle prime luci dell'alba, giunsero sul luogo dell'incidente alcuni speleologi che si offrirono come volontari per calarsi nel sottosuolo. Ma nonostante gli sforzi risultò pressoché impossibile recuperare l'assicella. A quel punto il comandante dei vigili del fuoco di Roma, Elveno Pastorelli, ordinò che fosse scavato un tunnel parallelo al pozzo. Dopo un primo tentativo andato a vuoto, si cominciò a trivellare il terreno con una perforatrice di grosse dimensioni. Nel mentre, i telegiornali della Rai rilanciarono la notizia favorendo l'interesse degli spettatori per la vicenda con una lunga diretta a reti unificate. In centinaia si riversarono nelle campagne di Selvotta, circostanza che rese ancor più difficili le operazioni di salvataggio. Sul posto il giorno successivo giunse anche il presidente della Repubblica Sandro Pertini, che comunicò col bambino dall'imboccatura del pozzo. Per circa 2 giorni si scavò nel sottosuolo senza risultati. Lo scavo parallelo fu completato pressapoco alle ore 19 del 12 giugno ma servì a ben poco. Alfredino, forse a causa delle vibrazioni della scavatrice a pressione, era scivolato ancora più a fondo. Lo speleologo Tullio Bernabei accertò che si trovasse oltre i 60 metri di profondità dalla superficie. A quel punto, non restava altra possibilità che la discesa di qualche volontario nel pozzo. Speleologi, uomini di piccola corporatura e persino un contorsionista circense tentarono l'impresa ma senza successo.

La morte del bambino. L'ultima persona a discendere il cunicolo fu lo speleologo Donato Caruso. A lui spettò l'ingrato compito di comunicare ai genitori del bimbo, Franca e Ferdinando, la possibile morte del loro primogenito. Dunque fu calato uno stetoscopio nel pozzo per verificare che il cuore di Alfredino battesse ancora. Poco dopo fu introdotta nella buca una piccola telecamera fornita da alcuni tecnici della Rai che, a circa 55 metri di profondità, individuò il corpo immobile del ragazzino. Una volta accertato il presunto decesso, il magistrato competente del caso ordinò che il pozzo fosse irradiato con gas refrigerante per evitare che il cadavere si decomponesse. Il corpo senza vita di Alfredino fu estratto da tre squadre di minatori della miniera di Gavorrano l'11 luglio seguente, 28 giorni dopo il decesso. I funerali si svolsero il 17 luglio 1981 nella Basilica di San Lorenzo fuori le mura: la salma venne trasportata da quegli stessi volontari che tentarono di salvarlo, fra cui Angelo Licheri e Donato Caruso. Fu sepolto al Cimitero del Verano di Roma.

La serie Tv su Alfredino. Il trailer di "Alfredino - Una storia italiana", prodotta da Sky e da Marco Belardi per Lotus Production, ci riporta direttamente a quei momenti di ben quattro decenni fa. "Un trauma collettivo che questa serie vuole raccontare - si legge nel comunicato dell'emittente satellitare - animata dalla speranza di aiutare ad elaborarlo e superarlo. Un evento doloroso che appartiene alla memoria storica dell'Italia e da cui, però, è scaturito qualcosa di prezioso: la vicenda di Alfredino diede infatti un impulso decisivo alla costituzione della Protezione civile come la conosciamo oggi e grazie alla determinazione di Franca Rampi è sorto il Centro Alfredo Rampi, con l'obiettivo di evitare che altri potessero soffrire quanto da loro sofferto". Nel cast c'è l'attrice Anna Foglietta nel ruolo di Franca Buzzati, la madre di Alfredino. Accanto alla famosa interprete romana ci sono Francesco Acquaroli (Smetto quando voglio, Dogman, Suburra - La serie, Fargo) nel ruolo del comandante dei vigili del fuoco Elveno Pastorelli; Vinicio Marchioni (I predatori, Tutta colpa di Freud, Romanzo criminale - La serie) interpreta Nando Broglio, il vigile del fuoco che provò a tenere compagnia e a motivare Alfredo durante quelle terribili ore; Luca Angeletti (Come un gatto in tangenziale, Nessuno mi può giudicare, Nero a metà) è il padre di Alfredo Ferdinando Rampi; Beniamino Marcone (Il giovane Montalbano, 20 sigarette, Prima che la notte), nei panni di Marco Faggioli, è uno dei pompieri accorsi sul luogo della tragedia.

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.

Da "oggi.it" il 10 giugno 2021. A quarant’anni dalla tragedia di Vermicino, Walter Veltroni, In un’intervista al settimanale Oggi, in edicola da domani, rievoca la drammatica sorte del piccolo Alfredino Rampi, inghiottito da un pozzo il 10 giugno del 1981. L’ex sindaco di Roma, che sulla dolorosa vicenda ha scritto uno dei suoi libri più intensi, L’inizio del buio, spiega perché quell’agonia lunga 60 ore, narrata dalla Rai con una diretta no stop, abbia cambiato il nostro Paese: «Lo sciacallaggio televisivo creò e pilotò un’opinione pubblica sparviera, che si nutre del dolore e va a cercarne dell’altro, quando finisce la razione… Sembrava che il futuro di ciascuno di noi dipendesse dalla salvezza di Alfredino. Eppure, il 13 giugno, non appena il bambino ha smesso di respirare, con la stessa rapidità, abbiamo voltato pagina». Veltroni, con garbo, rimprovera anche il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, che accorse a Vermicino: «Commise un errore. La sua presenza a Vermicino non giovò alla causa e accentuò la confusione». A una domanda sul suo possibile futuro al Quirinale, il primo segretario del Pd dà una risposta secca: «Abbiamo avuto l’immensa fortuna di infilare quattro grandi presidenti di fila: Scalfaro, Ciampi, Napolitano e Mattarella. Se fossi alla loro altezza, potrei anche pensarci. Sfortunatamente, non lo sono».

Cos’è un pozzo artesiano: 40 anni fa la tragedia di Alfredino Rampi a Vermicino. Vito Califano su Il Riformista l'11 Giugno 2021. L’incidente del Vermicino, nel quale perse la vita Alfredo Rampi, è stato uno degli eventi più rilevanti e sconvolgenti della storia della Repubblica italiana. La caduta del bambino di sei anni in un pozzo artesiano in via Sant’Irineo, località Selvotta, piccola frazione di campagna vicino a Frascati, fu un fatto storico per la copertura mediatica, l’attenzione morbosa sulla tragedia vissuta in diretta, con la Rai sempre collegata durante le ultime 18 ore del caso. Furono tre notti di un’esperienza psicologica e sociale collettiva sconvolgenti, terribili, per molti l’inizio della televisione del dolore. Se n’è tornato a parlare e a dibattere in Italia e per via di una serie tv Sky Original – Alfredino – Una storia italiana – diretta da Marco Pontecorvo, e in prima Tv il 21 e il 28 giugno su Sky Cinema e in streaming su NOW TV. Un mese prima l’attentato a Giovanni Paolo II. Lo stesso anno il ritrovamento degli elenchi della Loggia massonica P2. Dal 28 giugno il primo governo non a guida della Democrazia Cristiana con il repubblicano Giovanni Spadolini Presidente. Alfredino era magro, aveva sei anni, soffriva della Tetralogia di Fallot che causa una difficoltà di ossigenazione del sangue. Detta anche la “Sindrome del bambino blu”. Era il 10 giugno 1981.

La famiglia – il padre Ferdinando, la madre Francesca Bizzarri, la nonna paterna Veja e i figli Alfredo e Riccardo, di sei e due anni – era in vacanza nella loro seconda casa a Vermicino. Alfredo chiese al padre di poter tornare a casa da solo, attraverso i prati ma quando Ferdinando tornò a casa il bambino ancora non era arrivato. La prima a ipotizzare la caduta in un pozzo fu la nonna del bambino. Quel pozzo era stato recentemente scavato. Un pozzo artesiano viene perforato per captare una falda acquifera sotterranea che scorre in pressione e per effetto della pressione idrostatica tende a salire fino a uscire. Sfrutta i naturali bacini artesiani, acquiferi in pressione, e permette di fare a meno dei sistemi di pompaggio. Il nome deriva dalla Regione nel Nord della Francia di Artois, dove le argille consentono la formazione di acquiferi multistrato confinati. Il primo sarebbe stato praticato nel 1126 da un gruppo di monaci. Il pozzo della vicenda – secondo la ricostruzione – era stato coperto, con una lamiera, perché il proprietario del terreno non si era accorto fosse caduto dentro il bambino. Il brigadiere Giorgio Serranti volle controllare. Il proprietario del terreno, Amedeo Pisegna, 44 anni, insegnante di applicazioni tecniche a Fascati, fu arrestato con l’accusa di omicidio colposo e con l’aggravante della violazione delle norme di prevenzione degli infortuni. Su quello spiazzo si accalcano telecamere, giornali e giornalisti, televisioni. Le operazioni incontrano numerosi ostacoli. Una tavoletta alla quale Alfredo avrebbe dovuto aggrapparsi si incastra. Gli speleologi si calano a testa in giù. Con una trivella si scava un tunnel parallelo. Le dirette televisive proseguono senza sosta. Arriva anche il Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Angelo Licheri riesco solo a sfiorare Alfredino a circa sessanta metri. Il cadavere fu recuperato 28 giorni dopo da tre squadre di minatori della miniera di Gavorrano l’11 luglio seguente, 28 giorni dopo la morte del bambino. “Si può andare sulla Luna, ma non si può salvare un bambino caduto in un pozzo. Si possono annientare milioni di vite umane in un attimo; non si riesce a salvarne una sola in trentasei ore … Lo spavento che provava Pascal di fronte al silenzio degli spazi infiniti noi lo sentivamo ora davanti a un pozzo da cui la voce di un bambino invocava la salvezza. Il pozzo era il nostro infinito”, scrisse lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

LA TRAGEDIA DI VERMICINO 1981-2021. ALFREDINO RAMPI: QUANDO MORÌ, NEL 1981, AVEVA 6 ANNI. Alfredino Rampi, l’agonia di un bambino: gli eroi e gli errori di Vermicino. Walter Veltroni il 4 giugno 2021 su Il Corriere della Sera. Aveva sei anni, tornava a casa dopo una passeggiata e cadde in un pozzo: per 36 ore la tv raccontò la paura, la speranza e poi la fine. L’Italia intera seguì il dramma in diretta tivù. «Si può andare sulla Luna, ma non si può salvare un bambino caduto in un pozzo. Si possono annientare milioni di vite umane in un attimo; non si riesce a salvarne una sola in trentasei ore…Lo spavento che provava Pascal di fronte al silenzio degli spazi infiniti noi lo sentivamo ora davanti a un pozzo da cui la voce di un bambino invocava la salvezza. Il pozzo era il nostro infinito». Con queste parole Leonardo Sciascia descrisse l’incredibile choc collettivo di un paese intero di fronte al destino di un bambino. Alfredo Rampi, età sei anni, un mercoledì di quaranta anni orsono, stava giocando nel verde di uno spiazzo di Vermicino, vicino a Frascati. Era un bambino magro, una malattia che gli rendeva faticosa la vita gli pesava come uno zaino sulle spalle. La sindrome di cui soffriva aveva un nome letterario o sinfonico, si chiamava e si chiama la Tetralogia di Fallot e comporta una difficoltà nell’ossigenazione del sangue. E’ una malattia rara, odiosa come sono oggi quelle sindromi autoimmunitarie che sembrano sempre una sfida alla statistica. Anche per Alfredo aver scoperto la «Sindrome del bambino blu» era stato il primo incontro con una vita messa per storto. Ne vengono diagnosticati tre casi ogni diecimila persone nate. Una di queste era lui, il cucciolo Alfredo.

L’INCUBO. In L’ inizio del buio, uno dei libri per me più belli che abbia scritto, per il quale ho lavorato più di un anno sentendo i testimoni e rivivendo quei giorni, ho messo a confronto le due notti televisive che gli italiani più ricordano, quella dello sbarco sulla luna e quella dell’incubo di Alfredo. Quella del luglio 1969 era l’emozionante testimonianza delle magnifiche e progressive sorti di una scienza che sembrava tanto veloce e onnipotente da essere riuscita, nell’arco di un solo decennio, a portare l’uomo prima nello spazio e poi sulla Luna. Lo sguardo, in quel momento, era rivolto in alto, verso un cielo carico di promesse.

«In quella notte del 1981 le finestre degli italiani, nel buio estivo, si illuminano della luce azzurrognola dei teleschermi, per seguire il destino di un bambino solo in un buco della terra»

Ora, in un’altra notte d’estate, gli occhi di tutto il paese cambiano invece direzione, scendono verso il basso, esplorano non più lo spazio infinito sopra di noi ma un buco nella terra, nero e umido, infido e imprigionante. Scrissi allora: «In cielo c’è Dio, in fondo alla terra il diavolo». E questa è la sensazione psicologica del passaggio di testimone tra quelle due notti in bianco vissute dagli italiani. In una ci si sentiva fratelli del mondo intero che, ovunque e nello stesso momento, guardava con illimitata speranza al fatto che un uomo avesse lasciato la sua impronta sul luogo descritto da Ariosto per il viaggio di Astolfo. Su quel deserto di pietre grigie non esisteva, però, quello che il poeta aveva immaginato: «Altri fiumi, altri laghi, altre campagne sono là su, che non son qui tra noi; altri piani, altre valli, altre montagne, c’han le cittadi, hanno i castelli suoi, con case de le quai mai le più magne non vide il paladin prima né poi». La Luna era terra, alfine. Ma il viaggio, quello sì, accendeva sogni non minori di quelli di Astolfo. Eravamo sicuri, a ventiquattro anni da Hiroshima, quasi la stessa distanza di tempo che ci separa dall’attentato alle Torri Gemelle — un attimo della storia e della vita —, che quel cielo scalato, assaltato fosse, in definitiva, la dimensione del nostro futuro realizzato. Era la fine, forse meglio dire il culmine, degli Anni Sessanta: ricchezza e contestazione della ricchezza, fiducia nel futuro e voglia di libertà, rabbia e speranza. La combinazione di opposti che ha sempre fatto muovere il mondo nel modo più veloce e più giusto. Ma ora, nel 1981, siamo ad altri ventidue anni di distanza da quella notte stellata. E le finestre degli italiani, nel buio estivo, si illuminano della luce azzurrognola dei teleschermi, per seguire il destino di un bambino solo in un buco della terra.

Angelo Licheri rimase a testa in giù 45 minuti, contro i 25 considerati la soglia massima. Riuscì a raggiungere Alfredino, ma l’imbragatura si aprì per tre volte

La scienza che era riuscita a portare tre uomini sul suolo della Luna non riesce a tirare fuori il corpicino di un bambino sospeso nel vuoto di una terra scavata male, per fare un pozzo abusivo, da mani furtive e non autorizzate. Terra scempiata che inghiotte gli innocenti, come il sangue sul terreno dei soldati in trincea. E’ difficile da descrivere a chi non l’ha vissuto: quelle notti di giugno del 1981 sono state un’esperienza psicologica collettiva concentrata nel tempo ma di terribile, sconvolgente, intensità.

GLI ATTENTATI. Solo un mese prima una tonaca bianca, quella di Papa Giovanni Paolo II, era stata insanguinata dai colpi di un incredibile, e non creduto, sparatore turco. Non ci si è chiesti abbastanza cosa sarebbe successo se quella pistola, e chi l’aveva armata, avesse ottenuto l’effetto che si proponeva. Se il Papa che sosteneva Solidarnosc fosse stato ucciso, il regime sovietico sarebbe caduto nei tempi in cui è accaduto? Ci sarebbe stato il 1989. Sarebbe stato prima, dopo, mai? La crisi polacca fu infatti l’innesco del disfacimento del blocco comunista. Un paio di mesi prima un solitario attentatore aveva cercato di uccidere Ronald Reagan.

12 GIUGNO, 8.30 - UNO SPELEOLOGO VIENE CALATO NEL POZZO PER TENTARE DI RAGGIUNGERE IL PUNTO DOVE SI TROVA IL BAMBINO

Fatti separati, distinti, non assimilabili ad un’unica strategia, ma sicuramente temporalmente coincidenti. Nel 1981 sono stati ritrovati gli elenchi della Loggia massonica P2 e l’elenco di quei nominativi ha sconvolto il Paese. E la Dc smette di guidare il Paese, dopo decine di anni. Che anno, il 1981! Nel giorno stesso in cui Alfredino cade nel pozzo, più o meno alla stessa ora, un ragazzo di San Benedetto Del Tronto viene rapito dalle Brigate Rosse. Si chiama Roberto Peci, è il fratello di Patrizio, uno dei primi pentiti del terrorismo italiano. Sua moglie è incinta. Lui paga, con il sequestro, per colpe non sue. Le due vicende si intrecceranno, sui media. Quella di Alfredino dominerà schermi e colonne dei quotidiani per un tempo breve e intensissimo, sarà un flash di inaudito dolore. Quella di Roberto durerà mesi, fino al 3 agosto, uno stillicidio di notizie sempre meno evidenti. Come se la generale assuefazione di quel tempo a morti ammazzati, ferimenti, gambizzazioni, sequestri avesse mitridatizzato la coscienza del paese, ormai abituato a considerare un rumore di fondo, una spiacevole normalità, il fiume di sangue che scorreva ogni giorno.

GIOVEDÌ 12 GIUGNO - FRANCA RAMPI SI CHINA E PARLA CON IL FIGLIO ALFREDINO CADUTO NEL POZZO LA SERA DEL GIORNO PRECEDENTE

L’Italia è fragile, in quei giorni di giugno del 1981. E per questo ha il cuore ancora più strizzato dall’odissea di questo bambino precipitato nel buio di un pozzo, il luogo di ogni orrore immaginabile. Alfredino è lì sotto, che soffre, ha paura, dorme, ha fame, fa la pipì, chiama la mamma. In superficie – uno spiazzo che a vederlo in televisione sembrava grande e dal vero è invece minuscolo – succede di tutto. Sia chiaro, era meno facile di quanto possa sembrare, l’operazione di salvataggio. Ma la somma di improvvisazioni e di errori consumati in quelle ore è pari solo alla generosità e al coraggio di chi ha provato a salvare il bambino. O ha provato a tenerlo sveglio, ad accendere in lui la speranza, che qualcosa sarebbe successo. Come Nando Broglio, vigile del fuoco con quattro figli, che per giorni, piegato all’imboccatura del buco nero, si sforzerà di parlare al bambino e, soprattutto di ascoltarlo. Un giorno un microfono sguaiato viene calato nell’antro non per ascoltare Alfredino, ma per catturarne la sofferenza. Quella voce straziante, quell’urlo che sale dal ventre della terra, mi è rimasto da allora nelle orecchie Sarà il momento più inaccettabile di quella saga del dolore. Quello più cinico, più immorale. Tanto che chi lo trasmette, forse colpito dalle reazioni degli spettatori, lo rimuove in fretta. Quell’urlo resterà, come una cicatrice, solo in chi l’ha sentito durante un notiziario delle tredici. Alfredino dice una frase che avrà sentito dai grandi, che magari lo rimproveravano. Dice, rivolto all’affanno confuso che percepisce lassù: «La vogliamo piantare?». E’ una frase di rimprovero, da un bambino verso gli adulti. Poi grida disperato «Basta, Basta». Non sa che invece il Circo Barnum sta montando le sue tende e disponendo le attrazioni e le musiche del caso. Dopo la trasmissione di quella voce, a un telegiornale dell’ora di pranzo, si forma una coda interminabile di auto dirette verso Vermicino, scambiato per Ostia o Fregene. I soccorritori, pressati dai curiosi, invocano le forze dell’ordine, affinché garantiscano almeno «uno spazio vitale » per il loro lavoro. A questo siamo. Lassù, sulla testa di Alfredino, si accalcano telecamere e sperimentatori. A un certo punto viene la brillante idea di calare una tavoletta di legno nella presunzione che il bambino possa afferrarla e risalire attaccato all’oggetto. Nel rapporto delle autorità verrà scritto che, essendo Alfredo, «di natura vivace e di intelligenza spiccata, era da ritenere senz’altro in grado di servirsi con facilità dell’attrezzatura predisposta collaborando alle operazioni di soccorso». (nella foto, la folla di persone, soccorritori e curiosi, accalcatasi intorno al pozzo di Vermicino)«Alfredino grida disperato: «Basta, Basta». Non sa che invece il Circo Barnum sta montando le sue tende e disponendo le attrazioni e le musiche del caso.

Dopo la trasmissione di quella voce al telegiornale, si forma una coda interminabile di auto dirette verso Vermicino»

Allora: Alfredo è da ore al buio, imprigionato in uno spazio di ventotto centimetri, grande come un sottopiatto; ha freddo, paura, fame. Ma i «dotti, medici e sapienti» che sono all’aria aperta pensano che lui, con facilità, si aggrapperà alla tavoletta così «collaborando alle operazioni di soccorso»!. Che dubbio c’era, Alfredo è «vivace e di spiccata intelligenza». Lui sì, quelli sopra no. Infatti la tavoletta si incastra, come era forse prevedibile, e costituisce un altro tappo tra il bambino e la luce, tra il bambino e la voce, tra il dentro e il fuori, tra la prigione e la libertà. Arrivano gli speleologi, quelli che il ventre della terra lo conoscono bene. Si calano in diversi, a testa in giù. Come era il mondo a Vermicino, in quei momenti. Mi dirà uno di loro, Tullio Bernabei: «Scesi bene per i primi dieci metri, ma il pozzo non era rettilineo e faticai molto nella seconda parte dove la pietra era più dura. Vedevo bene la tavoletta, che era a pochi metri da me e ostruiva la vista del bambino. Ricordo il respiro affannoso di Alfredo, ricordo che piangeva sommessamente e chiamava la sua mamma. Ho cercato di rassicurarlo. Gli ho detto, con tutta la dolcezza che potevo: “Stiamo venendo”. Il bimbo mi ha risposto: ”Fate presto”. Ma non riuscivo a scendere più giù e allora ho chiesto di essere tirato in superficie».

Una illustrazione pubblicata all’epoca su «Il Tempo» ricostruisce il progetto di raggiungere Alfredino scavando un pozzo parallelo; le operazioni di scavo con tutta probabilità provocarono quelle vibrazioni che fecero precipitare il bambino a 60 metri di profondità

Lui e tanti altri cercheranno di salvare Alfredo. Si tenterà poi di scavare con una grossa trivella per fare un tunnel parallelo capace di arrivare sotto il bambino che, con un pertugio orizzontale sarà poi prelevato e portato in superficie.

Tutti ora sono allegri, persino sorridenti. Al telegiornale dicono che è stata persino predisposta una stanza di ospedale e il pigiamino per il ricovero. Da ore la televisione trasmette senza sosta. Hanno provato ad interrompere la interminabile diretta per trasmettere una Tribuna politica con il segretario socialdemocratico Pietro Longo ed è successo un putiferio. Alfredo, solo Alfredo. Siamo, in fondo, a un passo dall’happy end, nessuno vuole mancare la scena che salderà il dolore con la felicità, l’ansia con la soddisfazione. E’ arrivato anche Pertini, che ora staziona vicino al pozzo e indossa le cuffie. Vuole essere vicino al dolore popolare ma forse stavolta non fa la cosa giusta, il presidente partigiano che tutti abbiamo amato. C’è già abbastanza confusione, improvvisazione, tifo da stadio in quella macchia d’erba. Presto, in quel venerdì, tutto cambia. I sorrisi diventano terrore e comincia il ballo italiano dello scaricabarile.

12 GIUGNO, 16,30 - SANDRO PERTINI PARLA CON ALFREDINO. RIMARRÀ A VERMICINO FINO ALLE 7 DEL GIORNO SUCCESSIVO.

Alfredino è precipitato a sessanta metri, molto probabilmente scivolando per effetto del movimento della terra provocato dalle operazioni di scavo per il pozzo parallelo. La terra si è scossa e quel corpicino, certamente disidratato, è sceso ancora. I vigili del fuoco sentono la sua voce sotto di loro, non sopra, come avevano sperato. Ora è una corsa disperata. Arriva un sardo piccolo e determinato, Angelo Licheri, che arriverà a sfiorare Alfredino, dopo aver viaggiato per sessanta metri tra rocce e spunzoni che gli lacerano le carni. Si presentano nani e medium. Il circo con movenze grottesche, sta per chiudere. Alfredino non si sente più. Il suo cuore affaticato non ha retto. Ci vorranno giorni, prima che la terra lo restituisca. Quando il suo corpo rivedrà la luce, il circo ha già smontato le sue tende. Le televisioni hanno ripreso a trasmettere la musica del tempo e il pubblico si indirizza verso altre manifestazioni da assaporare. In fondo tra solo un anno vinceremo i mondiali di calcio…

«La televisione, in quel giugno del 1981, ha infranto ogni barriera. La vita e la morte sono divenute un evento spettacolare, un modo per distrarsi... La loggia massonica P2, la scelta di Spadolini come primo presidente del Consiglio laico dal dopoguerra passano, in fondo, in secondo piano»

QUEL CHE RESTA. Roberto Peci viene ucciso, la sua esecuzione documentata e il suo corpo fotografato. Il processo farsa che era stato intentato dalle Brigate Rosse, barbarie pura, concluso da una condanna a morte, viene diffuso dalle televisioni private. La televisione, in quel giugno del 1981, ha infranto ogni barriera. La vita e la morte sono divenute un evento spettacolare, un modo per distrarsi, una specie di roulette russa. La loggia massonica P2, la scelta di Spadolini come primo presidente del Consiglio laico dal dopoguerra passano, in fondo, in secondo piano. In questa grande, tragica farsa ci sono solo alcuni eroi. I vigli del fuoco, gli speleologi, i medici, i giornalisti rigorosi. E due genitori fantastici. Certe volte penso cosa accadrebbe oggi, nel tempo dei social, con il tribunale istantaneo è riunito in permanenza.

12 GIUGNO, ORE 19,00 - LA PERFORATRICE, IN UN BUCO PARALLELO AL POZZO, HA RAGGIUNTO 34 METRI DI PROFONDITÀ

Quando dopo tre giorni sotto un sole cocente Franca Rampi, mamma eccezionale, cambiò un vestito, ci fu chi ebbe da ridire. Figurarsi cosa sarebbe oggi. Sono passati quarant’anni ma forse, con il dolore per Alfredino, c’è qualcosa da preservare, nel ricordo. Portiamo con noi la misura del coraggio di persone che volevano salvare, a rischio della propria vita, un bambino che non era il loro e due genitori riservati e sinceri. Una madre e un padre carichi di amore e dignità.

·        39 anni dalla morte di Romy Schneider.

Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 6 gennaio 2021. La mattina del primo maggio 2017 l'attrice di teatro Sarah Biasini riceve una telefonata. «Buongiorno, è la gendarmeria di Mantes-la-Jolie. Stanotte la tomba di sua madre è stata profanata». La madre è Romy Schneider, mito del cinema francese, morta 35 anni prima a Parigi. Sarah aveva appena quattro anni e mezzo quando rimase orfana, venne allevata dai nonni e dal padre, il giornalista franco-italiano Daniel Biasini. La telefonata dei gendarmi e la visita obbligata al cimitero di Boissy-sans-Avoir, dopo così tanto tempo, sono l'occasione per riscoprire la madre perduta da bambina, presente nei film e nei racconti di amici e famigliari, e solo per pochi anni nella vita reale. Da quel ritorno alle origini nasce La beauté du ciel (La bellezza del cielo), il libro di Sarah Biasini che esce oggi in Francia edito da Stock. Quando la 43enne Romy Schneider venne ritrovata morta, la mattina del 29 maggio 1982, dal compagno Laurent Pétin nel suo appartamento parigino, la polizia trovò sulla scrivania una lettera incompleta, con una riga in fondo, come se l'attrice fosse crollata per un malore mentre la scriveva, nella quale Romy Schneider chiedeva scusa e annullava un'intervista e una sessione di fotografie perché la figlia Sarah aveva il morbillo. Un anno prima Schneider aveva dovuto sopportare la disgrazia della morte del figlio 14enne David (avuto dal precedente matrimonio con Harry Meyen), rimasto infilzato mentre scavalcava il cancello della villa di famiglia a Saint-Germain-en-Laye. A quattro anni e mezzo, Sarah Biasini rimaneva senza fratello e senza madre. La beauté du ciel è una sorta di lettera che la donna ha deciso di scrivere alla figlia Anna di appena due anni e mezzo: dopo una lunga attesa e quando ormai era pronta a ricorrere alla fecondazione artificiale, l'attrice è rimasta incinta pochi giorni dopo la visita alla tomba della madre Romy Schneider e del fratello, che riposano insieme.  «Tutti possono pronunciare il nome di mia madre - scrive nelle prima pagine del libro -. Tutti la conoscono o hanno sentito parlare di lei, soprattutto chi oggi ha tra i 40 e gli 80 anni. Ai ventenni non dice niente, tranne se sono cresciuti guardando Sissi in tv, durante le vacanze di Natale, se hanno genitori cinefili appassionati dei film di Claude Sautet. Mia madre è indimenticabile. Per il suo lavoro di attrice, per gli uomini che ha amato, per la morte tragica del suo primo figlio, David, mio fratello, appena un anno prima della sua scomparsa. Nessuno vuole dimenticare mia madre, tranne me. Tutti vogliono pensare a lei, tranne me. Nessuno piangerà quanto lo farò io, se penso a lei». Sarah Biasini racconta delle tante volte in cui è stata fermata per strada da persone che le chiedevano se fosse la figlia di Romy Schneider, e lei rispondeva di no, infastidita. «Che cosa rispondere a quelli che mi dicono "quanto mi piaceva!"? Non riesco a condividere il loro amore per lei, il loro sentimento di mancanza. Il mio amore e il mio vuoto mi sembrano mille volte superiori». Il libro è anche una risposta alla domanda su come si possa essere madri, avendo perduto la propria. La riappropriazione privata di un personaggio pubblico, a lungo celebrato da tutti tranne che dalla figlia, paralizzata dalla paura di soffrire. Per riavvicinarsi alla madre l'autrice incontra finalmente gli attori che sono stati importanti nella sua vita: Michel Piccoli per esempio, poco prima della sua scomparsa e poi, certo, Alain Delon, grande amore di Romy Schneider e suo partner nella «Piscina». «A lungo non ho osato contattarli, avevo paura di infastidirli e non mi piaceva la posizione della bambina che cerca di sapere chi era sua madre e fa un sacco di domande. Nei confronti di Alain Delon, così fedele, ho lo stesso pudore mal riposto. Ci siamo incontrati tardi, ognuno aggrappato alla propria sensibilità, al proprio disagio, forse anche all'attesa. Ma oggi ho meno paura delle mie emozioni. Anzi, stasera lo chiamo».

·        37 anni dalla morte di Truman Capote.

Segreti e bugie, il mezzo che Truman Capote usò per scrivere il suo capolavoro. L'epistolario inedito dello scrittore rivela che non era uno stinco di santo: aveva ingannato i due assassini del Kansas per poter portare a compimento il suo romanzo. Francesco Specchia Libero Quotidiano il 29 giugno 2021.

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Il senso del sangue, l’anima della cronaca, il ritmo della sinfonia di morte. “Resterò qui fino a ottobre, poi mi sposterò, forse in Svizzera. Perché non vo-glio andare a casa finché non ho finito il mio libro sugli omicidi in Kansas e, poiché è molto lungo (presumo 150-200 mila parole), potrebbe volerci un altro anno o più. Non m’importa – dev’essere perfetto, perché mi coinvolge così tanto, mi prende tutto il tempo e credo che, se avrò molta pazienza, potrebbe essere una specie di capolavoro”. Quando il vibratile Truman Capote scrisse, dalla Costa Brava, all’amico pigmalione Newton Arvin, la sua prima lettera sul massacro di un’intera famiglia del Kansas del 1959, A sangue freddo era soltanto l’ombra del reportage immortale che lo rese leggenda sette anni dopo. “Dio sa che materiale straordinario ho, e parecchio: più di 4000 pagine dattiloscritte di appunti. Certe volte, quando penso a quanto potrebbe essere bello, quasi mi manca il respiro. Be’, l’intera faccenda è l’esperienza più interessante della mia vita e, a dire il vero, mi ha cambiato la vita, ha cambiato il mio punto di vista su quasi tutto – è un Gran Lavoro, credimi, e se fallisco avrò vinto comunque”, continuava Capote preso dall’ossessione romanzesca. E nella foga di un inedito epistolario contenuto nel volume E’ durata poco la bellezza (Garzanti), abbondantemente citato da Rai Cultura oggi lo scrittore di fatto conferma i segreti e i sospetti che circondavano la storia sanguinaria di Perry Smith e Dick Hickcock. Ossia dei due assassini patentati di quattro persone (di cui il capofamiglia sgozzato e fatto annegare nel suo sangue) che, salendo i gradini del patibolo prima dell’impiccagione, abbracciarono proprio Capote ritenuto una sorta di arcangelo penitente. Invece Capote non si fece scrupoli nel mentire ai due; continuava a ripeter loro di volergli salvare la pelle e pagargli i migliori avvocati, ma arrivava ad accendere ceri in chiesa per favorirne un’esecuzione veloce. “Ovviamente ti prego di tener conto che non potò propriamente finire il libro finché il caso non sarà giunto alla sua conclusione legale, o con l’esecuzione di Perry e Dick (la più probabile), o con la commutazione della pena (assai improbabile). Con i ricorsi alle Corti Federali ancora disponibili tutta la faccenda si trascinerà di sicuro almeno fino all’estate prossima”, comunicava infatti Truman a Bennet Cerf, suo editore nonché tra i fondatori di Random House. È il 10 settembre del 1962, e Capote che aveva quasi ultimato le bozze si preoccupava che la vita dei killer si ancorasse troppo ai cavilli dei tribunali e alle lungaggini della burocrazia. Lo si scopre da un’altra confessione, indirizzata al costumista Cecil Beaton, suo confidente da anni: “Sto malissimo per la tensione e l’ansia. Perry e Dick attendono l’esito del ricorso alla Corte Federale per avere un nuovo processo: se dovessero ottenerlo (un nuovo processo) avrò un esaurimento nervoso o qualcosa del genere”. Qualcosa del genere. Più che in un esaurimento Capote si stava consumando in una personale ossessione. Al punto da raccontare fatti e dettagli intimi dei due assassini a qualunque amico col quale intrecciasse confidenze di penna. Per esempio al fotografo Richard Avedon, Truman raccontava: “Perry e Dick stanno ancora aspettando l’esito del ricorso – ma Perry si sta lasciando morire di fame, è calato da 76 a 51 chili, e potrebbe morire prima dell’impiccagione – in ogni caso, ha perso la ragione: crede di essere in co stante comunicazione con Dio, e che Dio sia un grande uccello che si libra sopra di lui in attesa di avvolgerlo nelle Sue ali. Il povero vecchio signor Hickock è morto –cancro. Che storia spaventosa e terribile! Questa è l’ultima volta che scrivo un «reportage». Quest’anno non verrò a New York perché voglio rimanere all’estero finché non avrò terminato il libro. Resteremo qui, sulla Costa Brava fino alla fine di ottobre…”. Capote era talmente intriso dal racconto dell’orrore che sconvolse il villaggio di Holcomb immerso nelle distese di campi di grano e nell’indifferenza degli uomini, che l’evocazione (soprattutto da parte di Perry che come lui aveva subito abusi in famiglia e di cui si dice fosse realmente infatuato) dei delitti assunse la narrazione della tragedia greca inseguita da inquadrature cinematografiche. Quella notte del ’59 Smith e Hickock a scopo di rapina picchiarono e seviziarono la famiglia Clutter, sfondando loro il cranio sia a colpi d’arma da fuoco che col calcio del fucile. Furono presi su un’auto rubata; in sette giorni di dibattimento e 45 minuti di Camera di Consiglio vennero condannati a morte di lì a poco. Negli anni successivi Capote, che arrivò sul luogo del delitto con l’amica Harper Lee decise di penetrare l’anima dei colpevoli. Ma lo fece con stile chirurgico e rigore da entomologo. A Donald Cullivan, un ingegnere di Boston compagno d’armi di Perry Smith spiegò per esempio le sue esigenze di storyteller che si era riproposto di non far intervenire mai nel racconto che doveva apparire al lettore come se stesse osservando la realtà. C’erano, tuttavia, informazioni che Capote aveva preso di prima mano, e soltanto lui poteva sapere: “Ora, il problema è questo, è una questione tecnica”, scrive a Cullivan, “nel libro non c’è la prima persona – vale a dire che io non figuro e, tecnicamente, non posso farlo. Ora, verso la fine del libro voglio inserire una scena tra te e Perry in cui userò del materiale tratto dalle mie conversazioni con Perry – in due parole, ci sarai tu al mio posto”. Ne uscì, appunto, l’invenzione di un nuovo genere che innervava il giornalismo con descrizioni e tecniche letterarie. Il fatto che dietro la pietas ci fosse una mente priva di scrupoli nulla toglie al capolavoro…

Antonio D’Orrico per Sette – Corriere della Sera il 4 aprile 2021. Truman Capote scrive: “Un ragazzo che vive all’estremità opposta del villaggio sostiene di essere stato attaccato da un licantropo. Graziella dice che in passato ci sono già stati dei lupi mannari a Taormina…In ogni caso l’opinione generale è che non abbiamo nulla da temere, almeno fino alla prossima luna piena”. È una lettera del 7 luglio 1950 dalla Sicilia contenuta nel bellissimo “E’ durata poco, la bellezza” (Garzanti, mio attuale libro del cuore), Graziella era la ragazzina non ancora ventenne che faceva le pulizie e cucinava per Capote. Siccome indossava sempre lo stesso vestito (“tenuto insieme con le spille da balia”), lo scrittore gliene comprò uno nuovo. Ma lei non lo metteva, Capote le chiese perché. Rispose: “Ma è il vestito buono e devo tenerlo da parte per le occasioni importanti”. Due settimane dopo Capote scrive: “Graziella si è presentata al lavoro con un occhio nero, un braccio bendato nel punto in cui si è beccata una coltellata e lividi blu e nero sparsi per tutto il corpo. Suo fratello l’ha picchiata – secondo lui, Graziella va troppo spesso alla spiaggia”. Capote sbrocca: “Sotto sotto, gli italiani non sono altro che negri”. Fine della storia di Graziella. Pensatela, se passate da Taormina.

Le lettere al vetriolo di Capote tra scrittori, attori e magnati. Gian Paolo Serino su Il Giornale il 24/3/2021. Diversi quotidiani italiani a oggi hanno stroncato, quasi senza pietà, quasi senza leggerlo, È durata poco la bellezza che come recita il sottotitolo raccoglie «Tutte le lettere» di Truman Capote, l'autore, tra gli altri di A sangue freddo e Colazione da Tiffany. Da pochi giorni nelle librerie italiane per Garzanti (traduzione di Filippo Balducci, Francesca Cristoffanini e Giuseppe Maugeri, pagg. 600, euro 28) a una prima lettura superficiale può sembrare, in effetti, una raccolta di pettegolezzi, di amarezze, di quelle operazione postume sugli scrittori morti che gli editori pescano dal cestino per sfruttare la celebrità dell'autore. E invece tra le pagine è un vero Truman Show: lo scrittore americano, nato a New Orleans nel 1924 e morto a Los Angeles nel 1984 è pirotecnico, irrefrenabile, divertente e schietto come da decenni mancava negli epistolari di altri suoi compagni di penna. È un Capote (si pronuncia Capoti) sorprende su tutto perché incontriamo più disciplina che dissipazione. La fiammeggiante corrispondenza lo riporta in vita in molteplici ruoli: da adolescente gadabout (in italiano: perdigiorno) a stella letteraria a uomo distrutto dai continui ricoveri per disintossicarsi dall'alcool e ormai lontano dallo spirito di un tempo. Un percorso che troviamo anche nella cronologia di queste lettere: dalle prime, anche ridondanti e soprattutto divertenti, alle ultime quasi telegrafiche e scritte sempre più raramente perché, come sottolinea il biografo e curatore Gerard Clarke «negli ultimi anni preferiva telefonare». Il Capote inedito e spontaneo che troviamo qui è una creatura diversa dal meticoloso artigiano che scrisse, tra le altre opere accuratamente affinate, A sangue freddo, il capolavoro del 1967 che fondeva il giornalismo con l'impatto emotivo di un romanzo che lui chiamava «la precisione della poesia». Nelle sue lettere offre il cuore e l'anima con un'arguzia rara a un gruppo di amici e colleghi artisti, così come a conoscenti influenti; i suoi affetti sgorgano tra errori di ortografia e una sintassi stridente. Disdegna di velare la sua omosessualità e rivela presto una predilezione per i pettegolezzi conditi di aforismi. Scrive da una varietà infinita di luoghi diversi: Portofino, una villa siciliana a Taormina, lo yacht di Katherine Graham, Sankt Moritz, Verbier. Capote era un leone sociale ma rivela di «condurre una vita da monastero» e non può tornare negli Stati Uniti, dichiara, finché non avrà completato la stesura del suo romanzo L'arpa d'erba. Anche questo suggerisce che oltre i giudizi schietti che leggiamo tra le lettere, si può comprendere anche il suo metodo artistico, il suo rigore, che magari cela dietro a battute al vetriolo. Per nascondersi, come ha fatto nella sua vita, trincerandosi dietro a una sciarpa, occhiali neri e cappello nero tipo Borsalino. Ricordando gli eventi mondani di New York che lo portarono a calcare le scene più glamour della metropoli (compreso il celebre night Studio54 di Andy Warhol) in una lettera ricorda che per molti anni la sua «professione di scrittore è stata più che altro una lunga camminata tra un drink e l'altro». Ma veniamo al Truman Show: Capote confessa di avere avuto un flirt romano con Montgomery Clift («Niente di troppo serio», commenta ironicamente), per anni, lui e Leo Lerman, l'editore di Vogue e impresario culturale, corrispondono come "Marge" e "Myrt", come le concorrenti coriste madre-figlia di un serial radiofonico degli anni Trenta con esiti esilaranti ma con una profondità di pensiero che ci fa capire quel mondo di engagé perché, come scrive in una lettera del 1962, considera New York una «città malvagia». Mentre cerca di completare il suo romanzo in una sorta di esilio dall'America -anche dovuta alla sua omosessualità sempre esibita in una nazione ancora puritana- riceve dai suoi editori di Random House - più precisamente Robert Linscott, Bennett Cerf e Robert Haar- una lettera di disappunto per gli argomenti trattati. Capote risponde per le rime: «Non posso sopportare che tutti voi pensiate che il mio libro sia un fallimento; sono colpito da una trinità di opinioni così schiacciante. La vaghezza della critica mi fa sentire ancora più impotente». Quanti scrittori oggi avrebbero questo coraggio nel rispondere a una delle più importanti case editrici americane? Esistono scrittori scrittori, come Capote e scrittori-impiegati come quelli che concorrono per il Premio Strega. Non mancano lettere, a giovani autori, su cosa sia «la vera scrittura», come la chiama: «Vai fuori strada per trovare una parola strana o lunga, dove ne basterebbe una più semplice. La maggior parte degli scrittori principianti lo fa - apparentemente sotto l'impressione che una buona scrittura sia una scrittura di fantasia. Non è così. Sforzatevi di essere semplici - la parola semplice e quotidiana è di solito la migliore. È come le disponi che conta». E i suoi colleghi scrittori? Di James Baldwin scrive «Detesto la narrativa di Jimmy: è scritta in modo grossolano e di una noia che arriva alle palle»; del Nobel andato a Faulkner scrive che: «i suoi racconti mi sembrano mal scritti, illeggibili: frodi assolute»; di James Purdy «scrittore interessante, ma non riuscito»; di Tennessee Williams «È quando scrive articoli per i giornali che tocca l'assoluto zenit della volgarità. È pseudogionalismo». Perché, sottolinea Capote, «nessuna lettera degna di questo nome fu mai scritta per trasmettere informazioni o per compiacere il ricevente. Una lettera può fare l'una e l'altra cosa incidentalmente ; ma il suo scopo resta quella di esprimere la personalità di chi la scrive». E così Capote non mente neanche davanti all'alta società e anche sui luoghi non lesina giudizi drastici ma illuminanti: «A St. Moritz ospite di Marella e Gianni Agnelli si sarebbe detto che ogni potentato del mondo si trovasse lì: i comunisti non avevano che da bombardare il Corviglia Club. È stato divertente. Però che gente assurda». E in queste righe c'è tutto Truman Capote.

Truman Capote, lo scrittore che voleva sedurre. Tutti coloro che hanno incontrato Capote, brillante, caustico, maligno, ne sono stati catturati, non importa se nel bene o nel male. Giovanna Stanzione su Il Quotidiano del Sud il 21 marzo 2021. Quando Perry Smith e Dick Hickock salgono i gradini del patibolo, poco prima della loro impiccagione, è lui che abbracciano, uno dopo l’altro: Truman Capote, lo scrittore che ha passato gli ultimi sei anni della sua vita a scavare nelle loro. Alla fine di tutto: il libro capolavoro di Capote, A sangue freddo. A margine, i corpi di quattro persone, la famiglia Clutter, ammazzati da Smith e Hickock, uno dopo l’altro.  Truman da bambino parla moltissimo, ha una voce acuta, il corpo minuscolo, la testa grande e tonda. Metà delle cose che dice sono bugie, enormi, esagerate e quindi con un certo stile. È solo. Cambia spesso casa. La madre lo affida all’uno o all’altro dei suoi parenti, ogni tanto torna, lo ascolta distrattamente, lo porta agli incontri con i suoi uomini, ma lo lascia chiuso a chiave in una stanza. Una professoressa di scuola, quando ha dodici anni, propone di iscriverlo in un istituto per “sub-normali”, la sua famiglia lo manda allora da uno psichiatra per stabilire la sua salute mentale una volta per tutte. Viene fuori che è un genio, un bambino prodigio. Nessuno ci crede. Lui sì. Finalmente ha trovato una parte di sé che possa spiegare ogni cosa, decide di impersonarla fino alla fine. “Sembra che lei finisca sui giornali più per quello che è che per quello che scrive.” Gli chiede un giornalista che lo intervista, già famoso, dopo il successo avuto con Altre voci, altre stanze, L’arpa d’erba, Colazione da Tiffany. “Ma non vale per tutti? – risponde Capote – Voglio dire, io sono un personaggio.” Nel corso della stesura di A sangue freddo, Dick e Perry vennero condannati a morte. “Capote continuava a ripetere che stava facendo di tutto per salvargli la pelle, che stava cercando i migliori avvocati. – scrive Emmanuel Carrère – In realtà, nonostante l’autentico affetto che lo legava almeno a uno dei due, Perry, sapeva che l’epilogo ideale per il suo libro sarebbe stata proprio la loro esecuzione, sapeva che quel libro sarebbe stato il suo capolavoro, e nella speranza di portarlo a termine era arrivato al punto di accendere ceri in chiesa perché si decidessero a impiccarli.” Tutti avevano davanti agli occhi l’intenso rapporto che lo legava a Perry Smith. È innamorato di lui, dicevano da più parti. Capote ci rifletté sopra, concluse che non era così. L’infatuazione amorosa era un sentimento troppo semplice, quello che provava, lo provava a un “livello più tragico.” Perry aveva avuto un’infanzia di solitudine e dolore, una madre alcolizzata, un padre assente, continui spostamenti da una famiglia all’altra. Si guardavano, ai due lati del vetro di separazione, e l’uno poteva essere l’altro. Perry era stato in qualche modo lui. Ci sono molti modi di suicidarsi: alcuni disperati, come quello di Ann Woodward che si è uccisa alla vigilia dell’uscita del racconto di Capote che anticipava il suo futuro libro, Preghiere esaudite, in cui trascriveva senza pietà tutti i segreti e le storie torbide che le persone del Jet-set gli avevano raccontato; altri squallidi e controversi, come fu la morte di Marylin Monroe, una delle persone più amate da Capote, riversa e con la faccia gonfia di barbiturici come se ci fosse annegata; e ci sono, infine, dei modi molto elaborati e teatrali, come una complicata e contorta bugia di bambino, che iniziano con una distruzione di sé più radicale e profonda di quella fisica. Iniziano sventolando le proprie parole incandescenti davanti alla muta di cani dell’odio giustificato, del biasimo pubblico, che si scatena. Finiscono con la morte per cirrosi epatica, alcuni anni dopo, nella solitudine quasi completa. “Che si aspettavano? Sono uno scrittore, ho usato gli strumenti che avevo a disposizione. Pensavano che fossi qui solo per divertirli?” Quando Capote era bambino, racconta Jennings Faulk Carter “A volte passeggiando nei boschi vedevamo una scena particolarmente bella di un albero che allungava i rami sopra un ruscello, e lui si fermava proprio per scrivere la descrizione.” La scrittura di Capote è come se a tratti si immobilizzasse davanti alla percezione della bellezza, che coglie nella natura, in un oggetto o in una persona, e si ha la sensazione che finalmente qualcosa che la attanaglia dentro si sciogliesse. Ogni suo libro racchiude quell’istante di silenzio e di apnea, che si ha quando molte persone che avessero parlato tutte insieme fino a quel momento, improvvisamente si zittiscono. Tutti coloro che hanno incontrato Capote, brillante, caustico, maligno, ne sono stati catturati, non importa se nel bene o nel male. “Le persone all’inizio rifiutano ciò che è diverso, ma io riuscivo a conquistarle senza difficoltà. Sedurre: ecco quello che faccio. La cosa andava in questo modo: pensi che io sia diverso, bè, allora ti faccio vedere davvero quanto sono diverso.” Riusciamo sempre a capire quando i bambini stanno mentendo, non perché ci sia una discrasia smaccata tra la realtà e le loro invenzioni, ma perché si comprende sempre il motivo che hanno per mentire, e di solito l’origine è dolorosa. In Preghiere esaudite, c’è un passo in cui i due personaggi parlano del libro che sta scrivendo lo scrittore alter-ego di Capote. L’uno chiede all’altro se il libro tratti di tutta la banda delle persone che frequentano, ma lo scrittore risponde di no, che è sulla verità come illusione, “poiché la verità non esiste, non può essere altro che illusione – ma l’illusione, questo sottoprodotto dell’artificio rivelatore, può raggiungere le sommità più vicine alla vetta inaccessibile della Verità Perfetta.” Mentre guardava Perry Smith salire il patibolo, Capote si sarà trovato come tutti davanti al dilemma se in fondo non fosse giusto che un mostro come Perry morisse, rifiutato dalla società. Guardandolo pendere, avrà pensato che è un po’ come se avesse risposto a questa domanda, che non ci fosse posto per persone come loro, che hanno vissuto la vita prigionieri di un’infanzia sofferente e del desiderio di riscatto, senza riuscire più a liberarsene. Eppure doveva esserci stato un momento nella loro vita in cui erano stati bambini felici come gli altri. In una sua intervista a Marylin, Capote racconta di osservarla nella luce del crepuscolo. “Lei pareva dissolversi con essa, fondendosi col cielo e le nubi, svanendo ancora oltre. Io volevo alzare la voce superando le strida dei gabbiani e richiamarla: Marilyn! Marilyn, perché tutto doveva andare com’è andato? Perché la vita deve essere un tale schifo?” Allora Marylin si volta verso di lui e gli chiede cosa risponderebbe agli altri se gli domandassero com’è lei veramente. “Direi… – risponde lui – Direi che sei una bellissima bambina.”

DAGONEWS il 4 febbraio 2021. Le donne, la sua ispirazione. Truman Capote amava circondarsi di donne eleganti dell'alta società che soprannominava i suoi "Cigni". Donne dall’aspetto regale dalle quali succhiava via le loro storie per prendere ispirazione per i suoi libri. Donne che lo hanno amato come amico e che lo hanno rinnegato con l’uscita di "Preghiere esaudite", il libro nei quali erano raccolti i loro segreti. Capote è stato circondato sempre da queste socialite di New York, ma ci sono alcune donne che hanno lasciato il segno e dalle quali ha preso ispirazione. Ecco le “it” girls dell’autore di “Colazione da Tiffany”.

Lee Radziwill. Principessa e icona della moda che ha contribuito a creare lo stile della sorella Jackie Kennedy: nata Caroline Lee Bouvier a New York nel 1933 da Janet Norton Lee e dall'agente di cambio e socialite di New York John Vernou Bouvier III, Lee, nonostante arrivasse da una famiglia famosa, si affermò come una figura degna di nota a pieno titolo. Vantava un elenco esclusivo di amici intimi, da Andy Warhol a Truman Capote, e ha lavorato brevemente come attrice prima di dedicarsi al design degli interni e alle pubbliche relazioni. Per un certo periodo, è stata anche una "principessa" americana. Dopo il suo primo matrimonio con Michael Canfield, sposò il principe Stanislaw Albrecht Radziwill, un aristocratico polacco, nel 1959. Lee, allora 26enne, viveva a Londra con il principe Radziwill e insisteva che la chiamassero principessa nonostante il marito avesse rinunciato al titolo  dopo aver preso la cittadinanza britannica nel 1951. La coppia ha avuto due figli, prima di divorziare nel 1974. Si è sposata per la terza volta con il regista Herbert Ross nel 1988. La loro unione è durata 13 anni e si prima di separarsi nel 2001. Lee è morta nel 2019, all'età di 85 anni, a New York City.

Babe Paley. Trendsetter e fashion editor di Vogue, era la terza delle sorelle Cushing, insieme a Minnie e Betsey. Le sue storie d'amore, il suo stile e le sue feste hanno catturato il pubblico americano durante la Grande Depressione duramente colpito dalla povertà. La prima a sposarsi fu la ventunenne Betsey, la sorella di mezzo che ha irretito l'affetto di James Roosevelt II. James, noto anche come "Jimmy" per i compagni di classe di Harvard, era il figlio maggiore del presidente Franklin Delano Roosevelt. Babe (nata Barbara) era stata a lungo considerata la più bella delle tre ragazze; era alta, snella, elegante e aveva un fascino aristocratico. Ma con grande disappunto di sua madre, Babe decise di entrare nel mondo del lavoro dopo due stagioni da debuttante. Babe divenne redattrice di Vogue Magazine, assunta da Conde Nast, e rapidamente si trasformò in  un'icona di stile. Lanciò anche due tendenze del 20° secolo: mixare roba di alto valore con pezzi di a buon mercato e legare una sciarpa alla borsa. È stata sposata per sei anni con il petroliere Stanley Grafton Mortimer, prima di risposarsi con il fondatore della CBS, William S. Paley. La sua amicizia con Capote venne distrutta dopo che l'autore pubblicò il suo capitolo di "Preghiere esaudite", "La Cote Basque 1965" su Esquire Magazine, che descriveva in dettaglio il tradimento di William Paley alla moglie.

Gloria Guinness. La moglie dell'ex parlamentare Thomas "Loel" Guinness, è stata una figura centrale del dopoguerra. Gloria è stata una redattrice di Harper's Bazaar negli anni '60 ed entrava regolarmente nelle classifiche delle donne meglio vestire. Gloria era cresciuta in povertà in Messico, secondo Tatler, prima di sposarsi all’erede della rinomata dinastia della birra Guinness in seguito a due matrimoni falliti.

C. Z. Guest. La musa di Andy Warhol era nata in America, era una bionda ed elegante. Era un'attrice teatrale diventata famosa per il suo senso dello stile, ed è stata inserita nella International Best Dressed List Hall of Fame nel 1959.

Marella Agnelli. Dopo aver sposato Giovanni Agnelli nel 1953 , divenne una delle figure centrali del jet set internazionale. Truman Capote amava far parte della cerchia di Marella, partecipando spesso alle sue crociere estive nel Mediterraneo. Si erano conosciuti a New York all'inizio degli anni '60 e presto diventarono amici. Durante gli anni '60, Marella rivelò di considerare lo scrittore uno dei suoi amici più cari: lo trovava simpatico e divertente e con lui condivideva i suoi segreti. «Ma stava aspettando come un falco – disse Marella a Vanity Fair nel 2014 - Ci chiamava i suoi "cigni", ma c’erano troppi cigni. Ho sempre pensato che il mio rapporto con Truman fosse esclusivo. L'intimità, le risate… ho pensato che ci fosse un'amicizia speciale tra me e Truman, ma ero ignara del fatto che lui stesse ridacchiando anche con Babe o Gloria o Slim». La loro rottura avvenne prima della pubblicazione del capitolo del libro “Preghiere esaudite” su Esquire.

Slim Keith. Da modella a signora: la socialite statunitense Nancy 'Slim' Keith era un'amica di Babe Paley. Slim era la classica ragazza californiana originale quando finì in copertina di Harper's Bazaar a 22 anni. È stata anche fotografata su Vogue, e regolarmente è entrata nelle liste dei vestiti migliori. Dopo essere stata corteggiata da Clark Gable ed Ernest Hemingway, ha sposato il suo primo marito, il regista Howard Hawks. Si pensa che la sua influenza su suo marito sia stata così grande, da essere stata lei ad accreditare Lauren Bacall. Slim divorziò da Hawks nel 1949 dopo otto anni di matrimonio e andò a vivere con l'agente di Hollywood Leland Hayward. Il suo ultimo e terzo matrimonio fu con il banchiere britannico Baron Keith di Castleacre e lei prese il titolo di Lady Keith. La coppia si separò dopo 10 anni di matrimonio, nel 1972. Tuttavia, Slim interruppe i contatti con lo scrittore quando scoprì che aveva basato su di lei un personaggio poco lusinghiero, Lady Coolbirth, nel suo libro “Preghiere esaudite”. Smith è morta all'età di 72 anni di cancro ai polmoni.

·        33 anni dalla morte di Christa Paffgen, in arte: Nico.

Tom Leonard per il Daily Mail il 15 agosto 2021. Nico faceva girare la testa ovunque andasse, così bella che un amico invidioso sosteneva che anche i mobili gemessero quando entrava in una stanza. Gli uomini impazzivano per la flessuosa ex modella tedesca, archetipico della "fanciulla di ghiaccio". Anche la sua sonora voce baritonale era indimenticabile, anche se non sempre ricordata dalla scena rock con tanto affetto. Andy Warhol, che ha lanciato la sua carriera musicale, ha detto che era come "un computer IBM con un accento alla Garbo". Eppure l'enigmatica cantautrice ha trascorso la maggior parte dei suoi ultimi anni vivendo nell'oscurità nei grigi sobborghi di Manchester, irrimediabilmente dipendente dall'eroina e impantanata nelle accuse di razzismo. Aveva solo 49 anni quando morì in un bizzarro incidente per un'emorragia cerebrale dopo essere caduta da una bicicletta e aver battuto la testa mentre era in vacanza a Ibiza nel 1988. Oggi è in gran parte ricordata come una femme fatale teutonica comicamente troppo seria che ha realizzato dischi inascoltabilmente cupi, oppure come una super-groupie troppo sessuata che ha mostrato fino a che punto si può arrivare nel mondo dello spettacolo con un bel fisico. Ora, una nuova biografia - You Are Beautiful And You Are Alone - si propone di salvare la sua eredità e ritrarla come tragicamente incompresa. Traumatizzata dai suoi primi anni in una Germania distrutta dalla guerra, era vulnerabile, isolata e persino ingenua. Per quanto riguarda il suo famigerato distacco, che poteva ridurre la rock star più arrogante a un relitto tremante, in realtà era dovuto a una timidezza paralizzante. In un'interpretazione lusinghiera e femminista dell'eccentrica cantante, la biografa Jennifer Otter Bickerdike afferma anche che la sua bellezza eterea era diventata il più grande nemico di Nico, oscurando il suo talento. Nico, dice, è stata vittima di misogini e ipocriti che tollerano le pop star maschili che si drogano, ma non le donne. Tuttavia, non si può negare che Nico sia stato all'altezza della sua desolata reputazione. Un caro amico ha descritto la condivisione della sua casa con Nico come "vivere in un'impresa di pompe funebri". Ma non c'è da meravigliarsi, dice il suo biografo, data la sua infanzia. Nata Christa Paffgen a Colonia nel 1938, aveva quattro anni quando suo padre fu ucciso in battaglia. Lei e sua madre hanno lottato con pochi soldi. Nico - che ha detto di aver cercato di passare cibo e acqua agli ebrei mentre passavano in treno verso i campi di concentramento - ha ricordato di essersi nascosta nella vasca da bagno di famiglia mentre le bombe piovevano intorno al loro minuscolo appartamento a Berlino. Il posto preferito della bambina solitaria e senza amici per giocare era un vicino cimitero. Aveva 12 anni quando ha iniziato a parlare in quel suo modo strano, tirando fuori ogni parola e ignorando gli appelli a parlare normalmente. "Christa era una ragazza molto strana", ricorda sua zia Helma. «Camminava molto eretta. Ed era timida o presuntuosa. O entrambi." Nico ha affermato di essere stata violentata da un soldato nero degli Stati Uniti quando aveva 13 anni. Ha lasciato la Berlino devastata dalla guerra non appena ha potuto, dirigendosi a Parigi per diventare una modella a 16 anni e cambiando il suo nome in Nico. Ha lottato per rimanere magra e ha avuto la sua prima esperienza di tossicodipendenza quando è diventata troppo dipendente dalle pillole dimagranti. Si diceva che Coco Chanel flirtasse con le sue modelle e Nico disse che la stilista "l'aveva corrotta" a Parigi. Ma dato che Chanel avrebbe avuto 73 anni, una relazione sembra improbabile, dice il nuovo libro. A Nico non è mai piaciuto fare la modella e passò alla recitazione quando incontrò Federico Fellini nel 1959. "Ti ho sognata", ha detto con entusiasmo e le ha dato un ruolo cameo ne La Dolce Vita. Ciò ha portato ad altri ruoli durante i quali Nico rivelò di aver avuto una relazione con l'attrice francese Jeanne Moreau. "Aveva l'idea che fosse chic essere lesbica", disse un'amica. Nico ha anche incontrato il rubacuori francese e incallito donnaiolo Alain Delon. Hanno avuto una "avventura turbolenta" sull'isola italiana dove stava girando, che ha lasciato senza fiato Nico, ma non Delon che era coinvolto con la sua co-protagonista Romy Schneider. Un amico ha ricordato Nico come "molto felice ed emozionata: "Ho appena dormito con Alain Delon!" Era come se Biancaneve avesse incontrato il suo principe. Era ossessionata da quell'uomo orribile». Dopo una successiva avventura di una notte a New York, rimase incinta e decise di avere il bambino. Gli amici erano sbalorditi dal fatto che lei credesse sinceramente che Delon l'avrebbe sposata. Delon ha sempre negato di essere il padre del ragazzo. Nico ha lasciato suo figlio Ari a Ibiza con sua madre, che soffriva del morbo di Parkinson, in modo che potesse andare a guadagnare soldi per tutti loro recitando, facendo la modella e - così sperava - cantando. È stata una mossa disastrosa. Il bambino è stato in gran parte lasciato a badare a se stesso e la madre di Delon, Edith, ha finito per salvare e infine adottare Ari dopo averlo trovato "accovacciato come un animale" in una stanza buia che puzzava di feci e vomito. Nelle occasioni in cui "prendeva in prestito" Ari, Nico era una madre caotica. Il bambino a volte andava in giro dopo i concerti bevendo tutto l'alcol avanzato che riusciva a trovare. Otter Bickerdike scrive: "È stato scritto, ma non confermato, che Nico avrebbe spalmato di eroina le gengive del bambino per calmarlo". Ma Nico era molto più preoccupata per la sua carriera. Le sue ambizioni musicali ebbero una spinta quando incontrò Bob Dylan a Parigi nel 1964. La leggenda narra che Nico abbia invitato Dylan nel suo appartamento, dove sono rimasti per "una sera e una settimana". Nico ha parlato con un intervistatore degli "occhi azzurri celesti" di Dylan. Dice che Dylan ha ricambiato, scrivendo la canzone ‘’I'll Keep It With Mine’’ su di lei. La sua successiva conquista fu il co-fondatore dei Rolling Stones Brian Jones, che incontrò dopo un concerto a Parigi. "Era affascinante, finché non ha chiuso a chiave la porta", ha detto del suo comportamento violento in camera da letto, una conseguenza presumibilmente della sua frustrazione per la sua prestazione sessuale ostacolata dalla droga. Nico ha descritto come l'ha presa a pugni, e anche peggio. Disse che spesso cercava di parlargli di poesia e musica "ma era davvero troppo fatto per parlare di qualsiasi cosa, e spesso lo ero anch'io". La collega modella "Zouzou" ha insistito che Nico aveva il sopravvento su Jones. "Aveva paura di lei e aveva paura degli scontri con lei. Era una donna grossa e minacciosa». Nico ha registrato un disco nel Regno Unito con il manager dei Rolling Stones, Andrew Loog Oldham, che l’ha descritta come "orribile". Anche così, Nico gli piaceva. « Era una di una nuova razza di donne, come Anita Pallenberg e Yoko Ono, che avrebbe potuto essere un uomo", ha detto Oldham. "Molto meglio che le sciocche gallinelle inglesi in giro a quel tempo." Ciò che alcuni potrebbero vedere come il suo sfacciato opportunismo con famose rockstar era in realtà una "vulnerabilità ingenua", insiste il suo biografo. Si è diretta a New York con il piccola Ari per fare soldi facili facendo la modella, ma invece incontrò Andy Warhol in un ristorante messicano. "Era seduta a un tavolo con una brocca davanti a sé, immergendo le sue belle dita lunghe nella sangria, sollevando fette di arance imbevute di vino", ha registrato il re della Pop Art. Vedendolo, Nico 'inclinò la testa di lato e si ravviò i capelli con l'altra mano e disse molto lentamente: "Mi piace solo il cibo che galleggia nel vino"." Warhol ne fu colpito e la reclutò nella sua enclave artistica, The Factory. Tutti gli altri avevano la diarrea verbale, ma Nico parlava a malapena. Alcuni accoliti di Warhol presumevano che fosse perché non aveva nulla da dire, mentre altri conclusero che era semplicemente perché aveva profondità nascoste ed era felice di osservare. Tutti, specialmente le donne, erano intimiditi da lei. I Velvet Underground - la rock band d'avanguardia capitanata da Lou Reed - la consideravano una "mosca", disse John Cale. Lou Reed, notoriamente capriccioso e geloso, era furioso che fosse stata loro imposta, ma Warhol, che era la mente della band ancora sconosciuta, insistette che avevano bisogno di glamour. Il loro primo album seminale del 1967 fu debitamente intitolato The Velvet Underground & Nico. Nico avrebbe voluto cantare in ogni canzone, ma la band l'ha ostacolata, dicendo che il suo inglese stentato non era abbastanza buono. Ma Reed si affezionò alla presenza di Nico nella band abbastanza da avere una relazione con lei, un'avventura che Cale ha descritto come "sia consumata che stitica". Nico si sarebbe poi lamentata del fatto che Reed fosse manipolatore, ma la batterista della band Sterling Morrison vedeva Nico come il vero Machiavelli, sempre manovrando se stessa vicino a chiunque fosse dominante. Nico concluse la relazione infuocata, dicendo a Reed: "Non posso più fare l'amore con gli ebrei", durante una prova della band.  Mentre John Cale (che in seguito ebbe anche una relazione con lei) insistette sul fatto che stava semplicemente indulgendo nel contorto senso dell'umorismo della band, i critici di Nico lo bollarono come prova del suo razzismo - come nel 1971 quando Nico ruppe una bottiglia di vetro in faccia a una ragazza di colore che si lamentava della disuguaglianza razziale. Secondo quanto riferito, Nico gridò: "Sofferenza? Non sai cos'è la sofferenza!' Nico lo definì un "attacco di follia" mentre era fatta di droghe, ma di fronte alle minacce delle Pantere Nere, fu costretta a lasciare gli Stati Uniti per un po'. Il suo tentativo di una carriera musicale da solista ha incontrato il disprezzo della critica e i locali vuoti, anche se le grandi star maschili hanno continuato a svenire su di lei. Leonard Cohen era infatuato ma ha ammesso: "Dopo cinque minuti mi ha detto di dimenticarlo perché era interessata solo ai giovani". Aveva 33 anni. A un certo punto, l'adulazione maschile rovesciò la testa di Nico. Volò a Londra alla fine degli anni '60 e si presentò di punto in bianco a casa del fotografo David Bailey, aspettandosi di stare con lui. La rifilò a Paul McCartney, che le ha permesso di rimanere per diverse settimane, ma è stato salvato dall'imbarazzo dell'imminente ritorno della sua ragazza Jane Asher quando Warhol è volato a Londra e prelevò Nico dalle sue mani. Incontrò Jim Morrison nel 1967 e l’affascinante coppia ha scioccato gli altri membri dei Doors con il rumore delle loro notti di passione, alcol e assunzione di droghe. Era l'unico dei suoi tanti amanti della musica che l'aveva incoraggiata a scrivere il proprio materiale e a suonare uno strumento. Prese a suonare l'harmonium. "Era molto seria, terribilmente seria, come un’organista nazista", ha detto un coinquilino. "Tirava le tende e cantava questo canto funebre tutto il giorno." Ciò che ha davvero segnato il destino della sua carriera è stata l'assunzione di droghe. Nessuno può essere d'accordo su quale dei suoi amici rock abbia introdotto Nico all'eroina negli anni '60, ma nel 1970 si faceva, era diventata dipendente, trascurando il suo aspetto. Ha continuato a esibirsi per finanziare la sua dipendenza, trasferendosi nel Regno Unito dove è stata sostenuta da gruppi New Wave che veneravano i Velvet Underground. Era così lontana che quando, nel 1979, fu finalmente unita a suo figlio Ari, ora 17enne, Nico finì per iniettargli eroina. "Sebbene sembri orribile, può anche essere comprensibile", dice il suo biografo. Perché? Perché Nico "non aveva molta esperienza come genitore" e la droga forniva un "legame reciproco". Nico ha trascorso i suoi ultimi sette anni a Londra e Manchester, soprattutto quest'ultima che aveva un pusher affidabile di eroina. Viveva in squat e monolocali rancidi, uscendo con un lungo mantello nero e stivali da motociclista. "Le sue giornate trascorrevano spesso a letto o cercando di drogarsi", dice il libro. Ironia della sorte, Nico si era liberata dall'eroina poco prima della sua morte. In quegli ultimi anni, si è impegnata a non cercare di abbellire se stessa - aveva perso i denti e messo su molto peso - confidando che il suo peggior rimpianto era di non essere nata uomo. 

You Are Beautiful And You Are Alone: The Biography Of Nico di Jennifer Otter Bickerdike pubblicato da Faber

·        31 anni dalla morte di Sergio Corbucci.

Marco Giusti per Dagospia il 12 novembre 2021. E’ un piccolo evento l’arrivo sugli schermi italiani per tre giorni, 15, 16, 17 novembre, del documentario “Django&Django” di Luca Rea e Steve Della Casa dedicato al cinema western di Sergio Corbucci e raccontato con grande passione e sincero amore per il regista e per i suoi film da un Quentin Tarantino e commentato, oltre che da due vecchi amici e compagni di scorribande come Ruggero Deodato e Franco Nero, da una serie di immagini in superotto davvero mai viste girate sui set dallo stesso Corbucci. Proprio rivedendo il documentario mi sono fatto due domande. La prima riguarda come Corbucci ha perso l’occhio destro. Cosa che capitò a altri grandi registi, come John Ford, André De Toth, Nicholas Ray. L’ho chiesto a Ruggero Deodato. “Stava facendo un film come assistente regista volontario fuori Roma. Il direttore di produzione aveva l’abitudine di svegliare tutti la mattina sparando dei colpi di pistola. A salve. Insomma, mentre lui usciva dalla camera dove dormiva, un colpo gli ha beccato l’occhio”. Il film, leggo nell’autobiografia di Sergio Corbucci, è “Turi il bandito” di Enzo Trapani. “La capsula era caricata troppo forte”, scrive Corbucci, “e persi l’uso dell’occhio destro. Allora non c’era ancora il laser e non ci fu niente da fare. Stetti fermo per quasi sei mesi. Non mi scoraggiai. Questa benda nera un po’ misteriosa mi aveva reso più interessante agli occhi delle ragazze e non mi danneggiò sul lavoro perché l’incidente mi aveva dato una certa notorietà, ero uno di cui si parlava”. Per Deodato fu l’inizio della sua fortuna da regista e in qualche modo è vero, perché grazie a quell’incidente il protagonista del film, Ermanno Randi, racconta proprio Corbucci, riuscì a imporlo alla produzione di “Salvate mia figlia!” al posto del vecchio Aldo Vergano come regista. L’altra domanda riguarda l’antifascismo di Corbucci che proprio nel documentario raccontano sia Tarantino che lo stesso regista in un raro filmato della tv tedesca. Cosa che allora, almeno per “Django” non percepivamo, devo dire, anche se “Il mercenario” e “Vamos a matar, companeros” era western adorati da Lotta Continua e considerati molto più rivoluzionari dei film impegnati del tempo, da Petri a Damiani. Ma non ci sembrava di ritrovare nei suoi western lo stesso antifascismo e le ombre della guerra partigiana che avevamo trovato in “Se sei vivo spara” di Giulio Questi e Kim Arcalli. Secondo Dante Matelli era davvero antifascista, aveva lavorato anche per i giornali americani del primissimo dopoguerra, come “Star and Stripes”. Secondo Deodato definirlo antifascista non era proprio del tutto vero. Ma nella sua autobiografia Corbucci riporta l’aneddoto raccontato anche da Tarantino nel documentario, di quando, bambino, vestito da balilla trombettiere mollò un terribile peto all’arrivo del Duce e di Hitler a Roma nel maggio del 1938. “Quando Hitler scese dal treno e ci passò in rassegna salutandoci a braccio teso, incrociando i suoi occhi con i suoi, dopo un perfetto squillo fatto ad arte, un altro squillo di natura per così dire intestinale, certamente provocato non dall’emozione ma dalla troppa cioccolata ingerita, echeggiò sinistro e mefitico nella stazione. Mi parve che il Duce che era accanto a lui se ne accorse e trasalì assieme al Fuhrer. Fu un attimo. Naturalmente continuarono a camminare come se non fosse successo niente”. Scoperto, a causa di “un sottile rivolo di cacca che dal calzoncino grigioverde scendeva lentamente verso il calzettone”, il piccolo balilla trombettiere viene messo sotto processo e vengono fuori un nonno anarchico e uno zio confinato in un’isola. La storiella, devo dire, raccontata da Corbucci, è più da maestro della commedia all’italiana che da maestro dello spaghetti western violento e antifascista. Ma in bocca a Tarantino, grande affabulatore, funziona anche così. E’ un film. Perché nessuno, e qui mi ricollego al documentario di Luca Rea e Steve Della Casa, racconta come Quentin Tarantino il mondo del western all’italiana e dei suoi eroi come Sergio Corbucci, sul quale da sempre aveva progettato di scrivere un libro. Questo non vuol dire che i suoi racconti siano sempre storicamente attendibili, soprattutto perché, come tanti critici e registi americani, non sempre ha un preciso quadro storico della storia del nostro cinema e ancor meno dell’Italia del tempo. Né sa vederne il lato costantemente ironico, da commedia, che era tipico di Corbucci. Ma tale è l’energia, la passione, la generosità, il divertimento che mette nel raccontare il nostro cinema dal suo punto di vista, come fosse parte di un suo film, che staremmo ore e ore a sentirlo. Dopo averlo avuto a Venezia nel 2008 nella rassegna “Italian Kings of B’s”, che curai assieme a Luca Rea, poi come padrino della mia rassegna sul western all’italiana, dove non venne, ma lanciò la profezia che Corbucci avrebbe avuto presto il suo posto nella storia del cinema accanto a Anthony Mann, e pochi anni dopo quando si esibì in una scatenata lezione su “Minnesota Clay” di Sergio Corbucci, Tarantino torna in “Django&Django” a spiegarci non solo il suo punto di vista sul “Django” di Corbucci, ma tutta la sua lettura dell’opera violenta dei film western di Corbucci. Inquadrato nella sala di proiezione della sua villa a Los Angeles, Tarantino racconta un Corbucci legato a Leone, ma anche profondamente diverso, rivolto non all’epopea (fordiana), come farà il primo Sergio, ma al revenge western, ai film di cowboy che più gli piacciono, perché puro cinema. Definisce “Navajo Joe” il più violento western mai fatto, prima dell’arrivo di “The Wild Bunch” di Sam Peckinpah. Trova in ognuno dei suoi cattivi matrici di fascismo o nazismo o di antichità romana. E spiega che quello di Corbucci è un cinema di cattivi e di anti-eroi che possono prendere indifferentemente la buona e la cattiva strada, ma possono anche trovare una pallottola che ne chiuderà improvvisamente e per sempre il percorso. E scopriamo che i suoi stessi film devono moltissimo più che alle opere di Corbucci, al suo studio sulle opere di Corbucci o, meglio, alla sua idea di quel cinema. Che forse, ai nostri occhi, non è esattamente così, come non è così antifascista militante, ma va bene lo stesso. Perché parlare di western con Tarantino e sentirlo parlare di cinema credo sia uno dei grandi piaceri che ci abbia regalato Hollywood in questi ultimi vent’anni. Perché non è mai un professore, ma uno studioso, uno scolaro, spesso candidamente improvvisato, che nello studio reinventa il suo stesso cinema. Lo dimostra il suo lavoro più completo e complesso, “The Hateful Eight”. Nessuno era riuscito a rivitalizzare così profondamente il western italiano, a leggerlo nella sua eleganza visiva, nella sua violenza da rielaborazione della storia recente, nei suoi rapporti con la musica, come Tarantino. “Django&Django” ci permette di condividere parte degli studi di questo fan ossessionato dei nostri western e di quelli di Corbucci in particolare. E il recupero, a casa di Nori Corbucci, scomparsa un anno fa per Covid, dei superotto girati nei backstages dei suoi film diventa il corredo necessario e mai visto di questo racconto. Viva Django e Viva la revolucion!  

·        31 anni dalla morte di Ugo Tognazzi.

Stefano Cortelletti per "il Messaggero" il 20 luglio 2021. Per tutti gli amanti del cinema è la Tognazza. Non la semplice dimora nelle campagne di Velletri che fu di Ugo Tognazzi ma un vero e proprio territorio libero. Dai pregiudizi e dal conformismo. Casa vecchia, così viene chiamata quella che fino al 1990 è stato il rifugio del grande attore, oggi è un museo inserito nell'elenco delle case memoria d'Italia e aperto alle visite guidate grazie all'associazione culturale Ugo Tognazzi. La Tognazza è un luogo di emozioni, accoglienza e ricordi, dove sembra che da un momento all'altro possano spuntare Ugo e la sua famiglia. Rimasta chiusa per dieci anni dopo la sua morte, ha ripreso a vivere grazie alla tenacia del figlio Gianmarco Tognazzi, che abita nella casa accanto Casa nuova appunto e che ha avviato l'azienda agricola Tognazza, producendo un vino d'eccellenza.

IL BILIARDO E LE LOCANDINE. C'è ancora il suo tavolo da biliardo, i premi vinti in 40 anni di carriera, le locandine dei film. La veranda, trasformata in sala proiezioni, era dove il piccolo Gianmarco dormiva, in una culla che nessuno ha voluto spostare. C'è il locale dove i venerdì si svolgevano le leggendarie cene dei dodici apostoli, un tavolo volutamente piccolo per fare in modo che tutti i commensali 12, non uno di meno o uno di più stessero stretti per fare socialità. Il menu? Rigorosamente deciso e preparato da Tognazzi nella grande cucina in pietra. Un tempio del gusto che lo ha reso celebre: qui sperimentava ricette con i prodotti della sua terra. Un precursore del chilometro zero. Serate enogastronomiche ancora oggi storia. Ugo invita i suoi amici, attori (come Vittorio Gassman, che aveva una villa sul monte Artemisio), registi, sceneggiatori, con cui scriveva e realizzava la maggior parte delle sceneggiature: capolavori come Romanzo Popolare, Amici Miei, In nome del popolo italiano, Il vizietto o La tragedia di un uomo ridicolo sono nati a Velletri. Il regista Marco Ferreri una sera mangiò così tanto che non si fece più vedere per 2 mesi. Stava scrivendo La grande abbuffata. A colpire è anche il grande divano nella sala del camino. Si racconta che una sera Franca Bettoia, moglie di Ugo il matrimonio fu celebrato lì nel 71 passando per la stanza notò il marito e i suoi ospiti stesi che dicevano parole incomprensibili. Stavano nascendo antani e tapioco, i nonsense della supercazzola oggi diventati i nomi di alcuni dei vini prodotti dalla Tognazza insieme a Conte Mascetti, il nome del personaggio di Amici Miei. Durante la visita vengono raccontate storie e aneddoti sul padrone di casa. Nessuno spazio delimitato, nessun divieto di sedersi o toccare.

RICETTE E BURLE. Per un'ora e mezza si è ospiti di Ugo, anche se Ugo non c'è più, e l'ospite è sacro. Chi vuole può suonare il pianoforte di casa, magari eseguire La vita è fatta di piccole cose, la canzone portata da Tognazzi a Sanremo, il cui spartito introvabile è ancora appeso alla parete. Come introvabile è il Rigettario, libro di aneddoti e ricette scritto da Tognazzi nel 1977: una copia è in bella mostra nella cucina. Tognazzi è anche celebre per i suoi scherzi. Uno di questi non riuscì come avrebbe voluto: fece pubblicare un'edizione straordinaria di Paese Sera che titolava Tognazzi capo delle Brigate rosse, con tanto di foto e finti carabinieri. Quel giornale è appeso nella sala del biliardo ma Tognazzi impiegò mesi per far capire che era solo una burla. Erano gli anni del terrorismo e della tensione. L'attore, che ebbe qualche grana lavorativa, rivendicò il diritto alla cazzata, inteso non solo come ammissione dello scherzo mal riuscito, ma anche di prendere la vita alla leggera. Per il centenario della sua nascita, nel 2022, sono in programma varie iniziative. Altre visite sono in programma il 31 luglio e il 28 agosto.

E l’anno del Covid lasciò nell’ingiusto oblio il trentennale della morte di Ugo Tognazzi. Francesco Specchia su Il Quotidiano del Sud l'11 gennaio 2021. Me ne sono accorto, perché l’altra sera in tv davano l’ultimo atto di Amici miei, col Conte Mascetti finito mestamente a rotolarsi in un ospizio. E’ passato il 2020 e – quasi tutti – ci siamo dimenticati dei trent’anni dalla morte del gran padano: l’Ugo Tognazzi da Cremona. Per Gassman avevamo elevato altari verso il cielo, per Sordi avevano pianto le prefiche, i bambini e i presidenti della Repubblica; per Tognazzi solo qualche replica di film a tarda notte. Eppure, Tognazzi meritava.

I MILLE FLASH DI UGO. Dei giganti della commedia all’italiana era l’unico che, provenendo da una piccola provincia del nord – come la mia, io sono di Verona – era riuscito a conquistare il palcoscenico internazionale specie nella sua seconda vita di attore drammatico e regista. Dal punto di vista umano, di Tognazzi mi aveva appassionato la determinazione: il nipote di un lattaio che s’era trasformato in venditore di carbone; il figlio di un assicuratore che la madre voleva prete e suonatore di violino; l’impiegato cazzaro del salumificio Negroni che in ufficio imitava il sottofondo dei maiali che venivano sgozzati all’ora di pranzo. Ecco. Tognazzi era l’italiano medio, in grado di recitare sempre parti di «borghesi tentati da imprese più grandi di loro», come diceva Salce, il suo grande scopritore. I miei flash su di lui sono infiniti: il gerarca Primo Arcovazzi in sidecar col professore antifascista interpretato da Georges Wilson («Buca, buca, buca con acqua»); la chiusura dello show Un, due, tre alla Rai, con Tognazzi che simulò a sua volta una caduta come quella del presidente della Repubblica Gronchi, con Vianello che gli disse «ma chi ti credi di essere?»; il discorso esilarante del ministro, sempre in coppia con Vianello, nel film con Totò, Sua eccellenza si fermò a mangiare, metafora del fascismo; e, ovviamente tutta la poesia del Conte Mascetti in Amici miei. Quando Gastone Moschin, il Melandri nel film, diceva «Che cos’è il genio? Fantasia, intuizione, colpo d’occhio velocità d’esecuzione» si riferiva di certo a Tognazzi.

FACEVA TANTO, ANCHE TROPPO. E poi molte altre scene mi tornano alla mente. Il Tognazzi versione pelosa che fa l’amore con Jane Fonda avvolto dalla plastica in Barbarella di Vadim, per dire. Poi c’era il Tognazzi privato, casinista con le centinaia di donne che aveva amato, padre affettuoso, goliarda inarrivabile, ottimo tennista ed eccellente chef organizzatore di gare culinarie con gli amici, di cui mi parlavano benissimo due grandi amici miei. Erano Sergio Bonelli, l’editore di fumetti da Tex a Dylan Dog, fraterno sodale di Ugo; e Sandro Parenzo, sceneggiatore, produttore cinematografico e patròn di Telelombardia. Parenzo era quello, per dire, che aveva convinto Ugo, alla fine degli anni 70 a prestarsi alla finta copertina di Paese sera del Male, il cui titolone era «Arrestato Tognazzi, grande vecchio delle Brigate Rosse». E la foto era proprio di Ugo, in manette, scortato da finti carabinieri. C’era anche, in appoggio, un finto articolo di un finto Raimondo Vianello: «Io l’avevo sempre sospettato». Fu una beffa che scosse l’Italia, rimasta nella storia della satira. Tognazzi fece davvero tanto, di tutto. Ben 150 film come attore e 5 come regista, senza contare i programmi radiofonici e il teatro (me lo ricordo, ne L’Avaro). Direi che quasi faceva troppo. Operelle come Il petomane (1983) di Pasquale Festa Campanile potevano essere evitate. Ma vabbè. Sospetto che, in questo tripudio oggi di politically correct, molti l’abbiano obliato per l’interpretazione macchiettistica del gay nel Vizietto. Se fosse vivo, Ugo ci farebbe su un film…

·        30 anni dalla morte di Pier Vittorio Tondelli.

Trent’anni senza Pier Vittorio Tondelli, lo scrittore per sempre giovane. Curioso, generoso, non invidioso. E’ capace di cogliere in modo vertiginoso lo spirito del suo tempo. Il viaggio dell’autore di “Altri libertini” per terre inesplorate resta attualissimo. Paolo Di Paolo su L'Espresso il 13 dicembre 2021. Nell’inverno di trentacinque anni fa, L’Espresso radunò attorno allo stesso tavolo un drappello di scrittori di diverse generazioni. Il punto di partenza del dibattito? Una categoria editoriale diventata centrale in quella stagione (e rimasta rilevante nel tempo): la categoria del “giovane scrittore”. Edoardo Sanguineti prende la parola per dire che secondo lui non ha alcun senso. Antonio Tabucchi ricorda di avere già compiuto quarant’anni: «Siamo seri…», e perciò cerca di scrollarsela di dosso. Anche se essere definito scrittore di mezza età – confessa – «mi metterebbe a disagio». Daniele Del Giudice riconduce l’etichetta a un dato puramente anagrafico («Oggi, paradossalmente, il vero fascino potrebbe essere nel saper invecchiare»). E poi c’è Pier Vittorio Tondelli, appena trentenne, che propone la sua diversa chiave di lettura: «È giovane scrittore chi ha a che fare con l’universo dei comportamenti giovanili. Universo fatto di determinate riviste, di musica rock, di originali esperienze culturali e di vita. A me questa definizione sta bene, anche se alle orecchie di qualcuno suonerà come subculturale. Insomma, giovane è chi si oppone al vecchio. In questo senso, se scrivi di giovani e li rappresenti, sei un giovane scrittore». Tondelli tale è rimasto. Al momento della morte, il 16 dicembre 1991, aveva da poco compiuto trentasei anni. E - tratto che fa la differenza - già diventato per certi versi un maestro. Un giovane allenatore di giovanissimi. Le tre antologie “Under 25”, da lui curate, nascevano per sollecitare autori nuovi a raccontare «quello che fate, che sentite: i vostri tormenti, i vostri rapporti a scuola, con le ragazze, con la famiglia. E perché di queste cose, poi - visto che ne avete così voglia - non provate a formulare un giudizio? Perché non scrivete pagine contro chi odiate? O per chi amate? C’è bisogno di sapere tutte queste cose. Siete gli unici a poterlo fare. Nessun giornalista, per quanto abile, potrà raccontarle al vostro posto». Risposero, tra gli altri, gli allora sconosciuti Andrea Canobbio, Romolo Bugaro, Silvia Ballestra, Giuseppe Culicchia, Gabriele Romagnoli. Gli ultimi due partecipano oggi a un confronto organizzato a Reggio Emilia, nel contesto di una serie di iniziative curate da Piergiorgio Paterlini tra Reggio e Correggio, città natale dello scrittore, sotto un titolo geniale: “Tondelli non era invidioso”. Il segno di una curiosità - e generosità - intellettuale tutto fuorché canonica, tanto più che da sempre, diciamo pure dai fratelli Goncourt, l’invidia è un inchiostro speciale e malevolo in cui s’intinge la penna, un carburante che controbilancia la frustrazione, e qualche volta spinge anche al capolavoro. Di invidie si nutrono le conversazioni tra colleghi: se i salotti non esistono più, esiste WhatsApp. Ma dire che Tondelli non era invidioso significa soprattutto che - a un’età in cui di solito si pensa solo al proprio presente e futuro - scavava in terre inesplorate, alla ricerca di voci nuove. Intervistato da Gianni Riotta a proposito del progetto antologico, si esprimeva così: «Vogliamo semplicemente offrire a questi ragazzi la possibilità di essere pubblicati, di confrontarsi, di leggere le proprie cose in un libro». Fa effetto sentir parlare così un trentenne! Nei colloqui raccolti da Fulvio Panzeri, da poco scomparso, in “Viaggiatore solitario. Interviste e conversazioni 1980-1991” (Bompiani), colpisce di Tondelli una curiosità famelica, un desiderio energico, impaziente, di mischiarsi, contaminarsi, scoprire. Stare nel presente con tutti i sensi all’erta, senza pregiudizi. È la lezione più smagliante di un volume come “Un weekend postmoderno”, la debordante raccolta di scritti apparsi nel corso degli anni Ottanta, di cui diventano un’eccentrica e potentissima radiografia, su giornali e riviste. Si può dare conto della varietà di temi e figure e luoghi solo facendone una vorticosa enumerazione. Ma mi verrebbe da indicare la «vertigine della lista» come un tratto distintivo della scrittura di Tondelli, nei romanzi e fuori, uno spasmodico tentativo di esaurire la realtà attraverso «tanti piccoli e sparsi flash», la calca delle sensazioni, il caos, il bordello, avrebbe scritto lui, dell’esistere, gli incontri cercati e quelli casuali, lo stupore costante di fronte alla gente - «gente ordinaria e gente comune, gente che batte le strade provinciali e quelle comunali, gente che fa, gente che produce, gente sottoccupata, gente incantata, gente improduttiva, gente selvatica, gente morbida, gente ubriacona, vecchia gente senza passato, giovane gente senza avvenire». La massa è anonima solo per difetto di attenzione: basta indagarla con scrupolo per trovare sorprese, per riaccendere l’incanto dell’ordinario, del quotidiano. Di «aria bulimica e contagiosa» si dice nel documentario prodotto da Sky Arte (in onda il 16) e diretto da Stefano Pistolini, “Ciao, Libertini!”. E un grande amico di Tondelli, lo scrittore Mario Fortunato, connette questa fame di vita alla sua brevità: «Forse è vero che ognuno di noi dentro di sé ha il sentore del tempo che ha a disposizione. Come se Pier sapesse che doveva sbrigarsi». Insegue il tempo che lo insegue, e ne fissa lo spirito: pochi hanno colto con tanta esattezza e intensità quello che solennemente si direbbe lo Zeitgeist degli anni Ottanta. Un decennio «incerto ma esaltante», di cui coglie il fermento, i segni di rinascita culturale. Effervescenza, festosità, ebbrezza… «Poi tutto è stato un po’ azzerato dal rampantismo, dalla spietatezza della concorrenza, dalle leggi del profitto, dall’invadenza della televisione». All’intervistatore che lo incalza, stavolta, Tondelli offre la sua opinione, recalcitrando un po’, e dimostrando - come ha notato Panzeri - la sua indisponibilità a vestire i panni dell’opinionista. Preferisce, così come chiede ai suoi under 25, astenersi «dai giudizi sul mondo in generale (ci sono già i filosofi, i politologi, gli scienziati ecc.)». Chiede loro di raccontare le angosce «senza reticenze piccolo-borghesi, anzi “spandendo il sale sulla ferita”», di investire su una «letteratura interiore» i cui campi di battaglia siano gli «strati profondi della personalità». Rifiuta l’etichetta di scrittore generazionale, nonostante il fitto dialogo con i coetanei e l’interesse per la controcultura, per le voci anagraficamente più prossime. Rifiuta l’etichetta di scrittore gay: «Ho sempre ripetuto, fino alla nausea, che non credevo nell’esistenza di una scrittura omosessuale». Rifiuta l’etichetta di scrittore cattolico, e anche quella di giornalista, nonostante le numerosissime collaborazioni con i giornali. La parola “scrittore” gli basta: perché riesce a coglierne e sfruttarne l’intera estensione, l’ampia raggiera di possibilità. I suoi strumenti sono duttili, adattabili: è meno schematico della maggioranza degli autori oggi attivi in Italia, concentrati in una sclerotica fiducia nel loro prossimo romanzo. Tondelli cerca, guarda, interroga, dialoga, confronta. Si lascia costringere dall’occasione giornalistica al sopralluogo, al prendere appunti. Il rock. La politica. Il fumetto. Fellini, Lucio Dalla. Kerouac e Patti Smith. Pasolini bambino. Vasco Rossi, «con la sua faccia da contadino, la sua andatura da montanaro». L’osteria di Spilamberto. Le tigelle, la grappa che ti stende al primo sorso. È l’eterno apprendista, consapevolissimo però - perché consapevolezza è la sua parola-talismano; e anche da questo, in un tempo di fede nell’istinto, si può imparare qualcosa. Il campo largo di Tondelli è un campo impuro, variegato come la musica che amava ascoltare («I Tuxedomoon, mi piace quel loro blues galattico; poi della roba di Berlino che mi hanno portato alcuni amici ma che non ricordo perché hanno nomi impronunciabili. Un po’ di Mahler»); è il primo a esplicitare una playlist in coda a un romanzo. Un campo articolato e nervoso come la sua prosa, «emotiva, parlata, piena di suoni, a fumetti, gestuale». Ne arriva, a trent’anni dalla morte, il calore solo toccando le copertine dei suoi libri. La copertina di “Rimini” emana come un vapore - pioggia, umori dell’epidermide. Diffonde una musica di sax suonata di notte. Nelle note preparate per la quarta di copertina del romanzo, evocava un intreccio, un groviglio di generi e di toni: racconto esistenziale, indagine sociologica, tono mistico, erotico, perfino apocalittico. Dalla copertina del suo libro d’esordio, “Altri libertini”, arriva il chiacchiericcio, il «cicalare» tra amici, la nuvola di fumo delle sigarette, e soprattutto il palpito dei corpi giovani in un pomeriggio freddo, il desiderio e l’ebbrezza, un tempo corto e intensissimo come un urlo, o un orgasmo. E tutto dentro la bolla di una lacrima potenziale, futura, una specie di nostalgia preventiva, una saudade adriatica che strugge e lascia inquieti: «Avercele delle braccia grandi tutta la città per poterti coprire e stringere ovunque tu sia amore mio, avercela una lingua di mille leghe per leccarti e un uccello in volo sopra ai mari e ai monti e ai fiumi per raggiungerti affezionato mio caro, e per venirti dentro e per strusciarti e spezzare così questa atroce lontananza e invece rimango solo e la notte tutt’intorno tace e la mia stanza invece urla e grida per te che non ci sei». 

Il 30esimo anniversario della morte. Chi era Pier Vittorio Tondelli, lo scrittore capace di rompere gli schemi sempre sull’orlo della censura. Biagio Castaldo su Il Riformista il 16 Dicembre 2021. «E io devo lavorare per mantenerti a scrivere quelle porcate? Finirai come Pasolini». Quella collerica reazione di Marta Bartoli, la “contadina altissima”, fervente cattolica e madre di Pier Vittorio Tondelli, che in lacrime leggeva le prime pagine di Altri libertini, sarebbe poi culminata in uno svenimento in teatro nel momento in cui si svolgeva la scena di massima tensione di Postoristoro, nell’adattamento teatrale dell’esordio tondelliano: l’iniezione di eroina sul pene di uno dei protagonisti. La lapidaria sentenza materna era ai tempi del tutto inconsapevole di aver di fatto preconizzato gli analoghi destini dei due scrittori, non nella tragica e ancora misteriosa morte prematura di Pasolini, bensì nel comune imporsi sulla scena letteraria mediante lo scandalo e contro la legge.

Tondelli non era ancora nato quando i processi per atti osceni e corruzione di minore valsero a Pasolini l’espulsione dal Pci, ma avrebbe ben presto ravvisato quella scissione tra l’adesione razionale all’ideologia comunista e la rispettiva presa di distanza emotiva da questa, nella poetica dello scandalo sintetizzata dalla celebre terzina de Le ceneri di Gramsci: «Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere». La pietra di inciampo tondelliana aveva radici più personali, generazionali, che politico-ideologiche. Altri libertini era un libro aggressivo, sperimentale ma non neoavanguardista, avverso al canone delle belle lettere, osceno rispetto alla morale cattolica, e i suoi personaggi accusati di essere campioni di abulia, di disimpegno e troppo interessati al proprio ombelico. Tuttavia, l’autore stesso interpretava quell’aggressività come il feroce desiderio personale dei timidi che, per comunicare con il mondo, ha bisogno di passare attraverso un gran clamore. Appartenente al «popolo alto dei camminatori» come il Boccalone dell’amico Enrico Palandri e il Gio(f)anni del Lunario del paradiso di Gianni Celati, suo professore al Dams, Tondelli passeggiava tra i portici di Bologna nel ’77, quando sui muri nei pressi di via Zamboni comparivano le sagaci e ingiuriose scritte nei confronti di Umberto Eco: «Ecò, coiffer pur dames», mentre l’11 marzo Francesco Lorusso veniva assassinato da un carabiniere di leva in via Mascarella 37. Un ragazzo altissimo ma timido, così ridondantemente definito dalla critica giornalistica di quegli anni, «un paradosso», come se per loro quella statura implicasse anche una certa spavalderia di stare al mondo.

Al contrario, l’apprendistato bolognese di Tondelli, tra gli esperimenti didattici di Scabia e Celati, la lezione sullo Strutturalismo, le assemblee e le prime frequentazioni di locali gay, spingeva sull’ostinata inadeguatezza derivatagli dalle radici contadine, quel sentimento altalenante tra la repulsione e l’orgoglio della sua cultura provinciale e piccolo-borghese, impastata di televisione, cinema e tanta radio. «Ci stavo di merda, mi sentivo il più imbecille di tutti. Ero sempre in paranoia, due maroni…», eppure alla «morte civile ed erotica e intellettuale e desiderante» nella natia cittadina di Correggio a Reggio Emilia, che affratellava Tondelli al personaggio dell’episodio Viaggio in Altri libertini, le grandi città di Bologna, Firenze e poi Milano garantivano l’anonimato alle sue alterità e maggiori vie di fuga alla tristezza. Quando «veniva su la scoglionatura», Tondelli si metteva in viaggio sul suo «ronzino scappottato» su e giù Fra la via Emilia e il West – la folgorazione per Guccini avvenne sui banchi del liceo, «la colonna sonora di quel mio passato irrequieto e provinciale», arrivando a intercettare un «Guccini allo stato puro» addirittura nei versi di Alceo e di Orazio – e poi i soggiorni in Tunisia, Marocco, Amsterdam e Austria. Il Viaggiatore solitario che pativa la scomodità della sua solitudine, quella debolezza pasoliniana implicata dalla forza della sua indipendenza, e difesa da Leo, il protagonista di Camere separate, nell’immagine tutta tondelliana di una persona monca, appendice di sé stessa. Nell’ultimo romanzo, pubblicato nel 1990, Leo è infatti obbligato a rivolgersi costantemente agli altri passeggeri per chiedere loro di tenere d’occhio i suoi bagagli prima di recarsi al ristorante, dove la sua solitudine apparirà ancora più ridicola e fastidiosa a un tavolo per due ridotto alla sua singola compagnia. Tondelli viaggiatore per cimiteri, vacanze mortuarie riservate solo agli spiriti eletti, per recarsi sulle tombe dei propri miti, Ingeborg Bachmann e W.H. Auden, dove «adageremo un fiore o verseremo champagne in segno di perenne devozione e massimo onore». Parlando di miti, l’illuminazione sulle pagine del primo Arbasino, quello delle Piccole vacanze e soprattutto dell’Anonimo lombardo, gli procurò non poco imbarazzo. Tondelli lo citò nei Titoli di coda della prima edizione di Altri libertini come riconoscimento del proprio debito formativo, specie per la poetica del “sale sulla ferita”, dell’andare dentro le storie senza alcuna reticenza per raccontare tutto il raccontabile, per quella capacità squisitamente arbasiniana di inventare sulla pagina il sound del linguaggio parlato e che Paolo Milano aveva definito sull’Espresso con la puntuale espressione del «magnetofono ben temperato».

Pare che Arbasino non gradì questo accostamento e il giovane Tondelli rimediò con una lettera di eleganti scuse che ha tutta l’aria, i toni e i termini di un amante respinto: «Questo libro non nasce ovviamente dal nulla ma è stato maturato su alcuni testi di cui non ho mai nascosto il mio profondo innamoramento». Diversi anni passarono dalla morte di Tondelli quando lo stesso Arbasino rimpianse quel contatto, arrivando a dedicargli uno dei suoi Ritratti italiani: «Ogni mancato incontro con Tondelli – fonte di lunghi e tardivi rimpianti – è il frutto di un eccesso di delicatezza, reciproca e simmetrica». “Perché facciamo ancora i conti con Tondelli” recitava il felice titolo di un articolo di Giorgio Fontana, uscito su Internazionale qualche anno fa. Ci facciamo ancora i conti perché quel baby-boomer di Tondelli – termine che detestava, in luogo del quale aveva coniato la locuzione «essere nato nel clima delle vacche grasse e della speranza» – continua ad essere ristampato e letto con voracità ed entusiasmo dalle nuove generazioni e insegnato nella sua Alma Mater Studiorum; i convegni dedicatigli continuano ad accogliere orde di appassionati lettori e studiosi; le tesi di laurea e di dottorato in Italia e all’estero vengono pubblicate ogni anno e rinnovano continuamente le categorie interpretative della sua opera, come nel caso del meritevole studio condotto da Olga Campofreda alla University College di Londra e confluito in Dalla generazione all’individuo. Giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli (Mimesis, 2020), dove figurano ben due inediti tondelliani ritrovati negli archivi dell’omonimo Centro di documentazione a Correggio.

L’ultimo uscito in casa Bompiani è intitolato eloquentemente Viaggiatore solitario. Interviste e conversazioni 1980-1991, un’encomiabile operazione di recupero e collezione di interviste e conversazioni, alcune già edite ne Il mestiere di scrittore, per restituire il dialogo che Tondelli ha intrattenuto con i critici e giornalisti del suo tempo, a cura di Fulvio Panzeri, già suo curatore testamentario e deceduto poco dopo l’uscita del volume. Recentemente, proprio il fu-ciellino-Panzeri è stato accusato dallo studioso Sciltian Gastaldi in Tondelli: scrittore totale, di essere stato il mandante di quell’operazione di borghesizzazione eteronormativa volta alla redenzione del figliol prodigo queer che, insieme al fratello Giulio Tondelli e all’accademico gesuita Antonio Spadaro, aveva lo scopo di rendere più digeribile il corpus tondelliano, conformandolo a quel moralismo cattolico che imperversa ancora a Correggio, dove la morte di Aids di Tondelli continua a essere celata sotto le più rassicuranti spoglie di un collasso cardio-circolatorio. Il profilo del Tondelli con cui facciamo i conti oggi è dunque quello di un autore strattonato, con un’eredità manipolata nella coatta operazione di revisionismo di chi ne vorrebbe reprimere le istanze sessuali più sovversive.

Se ogni taglio è politica, è sorprendente che si sia tentato di epurare la sua scrittura mediante bieche censure e cassature, i nascondimenti dalla sua biblioteca, e coprire l’ultimo Tondelli, quello terminale, di un’aura di cristianità piccolo-borghese per redimere con una certa malcelata sufficienza il Manifesto di una generazione di omosessuali. È appunto sorprendente che si sia tentato di fare tutto ciò, poiché è stato lo stesso Tondelli a tradirli: «Scrivere è un modo di fingere che le censure non esistano. È un’attività molto legata alla sessualità, nel senso proprio del desiderio. Scrivo una storia, parlo di sentimenti per cui esiste un appagamento mentale, quasi una sublimazione dell’eros». Era ben consapevole di quanto fosse pericoloso parlare della propria sessualità, pur sublimandola nelle maschere di Leo, Thomas, Aelred, le Splash di Reggio, perché ciò avrebbe significato «esibire le proprie ferite o il proprio dolore», esporsi, gettare il proprio corpo nella lotta. E godere di farsi vedere nudo.

In quelle pagine sporche, materiche, che lasciano intravedere il gesto stesso della sua scrittura erotica ed emotiva, Tondelli aveva fatto convergere tutta la sua solitudine, la duplice diversità di scrittore e di omosessuale. Oggi, a trent’anni dalla sua morte, la tanto odiata e tanto amata Correggio, tra targhe, centri di studio e giornate commemorative, ha dedicato al suo Viaggiatore solitario un piazzale, che è a tutti gli effetti, tristemente, un parcheggio: una stasi. Biagio Castaldo

Il saggio di Sciltian Gastaldi. Pier Vittorio cristiano? È ora di finirla con queste fesserie! Emiliano Reali su Il Riformista il 16 Dicembre 2021. Quando a soli 24 anni venne denunciato e il suo Altri libertini sequestrato per indecenza e blasfemia non si scompose più di tanto. Pier Vittorio Tondelli è stato e continua a essere uno scrittore che divide, uno scrittore la cui immagine si è cercato di trasfigurare per mezzo della censura e di interpretazioni viziate dal pregiudizio, pilotate dal desiderio di epurarne la figura e renderla maggiormente tollerabile per la ristretta Correggio.

Tale veemenza santificatrice con la quale il fratello Giulio e alcuni critici cattolici, tra cui Spadaro e Panzeri, hanno proposto/imposto un’impropria lettura del correggese, ha colpito anche Sciltian Gastaldi e il suo Tondelli: scrittore totale. Il racconto degli anni Ottanta fra impegno, camp e controcultura gay (Pendragon, 2021). Lo scrittore romano rivela infatti che l’opera sarebbe dovuta uscire con Bompiani, ma un inatteso cambio ai vertici portò come conseguenza un nuovo esame per valutarne l’idoneità alla pubblicazione. La persona alla quale venne affidata la decisione fu proprio Fulvio Panzeri che non ci mise molto a bocciare un testo dove la sua persona e il suo operato venivano smascherati. Giulio Tondelli, ci dice Gastaldi, mutilò la biblioteca privata del defunto fratello prima di donarla alla città di Correggio, facendo sparire opere fondamentali come Elementi di critica omosessuale di Mario Mieli o Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, probabilmente perché voleva impedire che si leggessero gli appunti di Pier Vittorio su quei testi. In catalogo non figura anche la prima stesura di Biglietti agli amici, mentre fanno bella mostra di sé tutte le pubblicazioni di tipo religioso o spirituale.

Tondelli presenta tematiche e personaggi gay che sono spavaldi, divertiti, divertenti, allegri, non più chini a rimuginare sui propri drammi, personaggi sovversivi che non si rendono nemmeno conto di esserlo. Racconta il mondo omosessuale come nessuno in Italia prima di lui aveva fatto. Malgrado ciò c’è chi come Canalini afferma che sarebbe stato eterosessuale e mette in dubbio che sia morto di Aids. Non mancano i detrattori omosessuali, i cosiddetti militanti, come Giovanni Dall’Orto, che lo accusano di omofobia interiorizzata per l’eccessività dei suoi personaggi e per non aver voluto – assenza di coraggio o semplicemente pudore? – trasformare la propria malattia in uno strumento mediatico. Gastaldi attraverso i Queer studies, il camp e voci eminenti del panorama letterario internazionale smentisce tali teorie ricordando le parole di Christopher Atwood: «La mancanza di un’esplicita denuncia della sua malattia non significa assenza d’impegno».

Fu proprio Tondelli infatti, in Camere separate, il primo a parlare di Aids, anche se non la nomina apertamente. Ancora l’americano Gary Cestaro, partendo da un approccio psicanalitico della Queer Theory, ha sottolineato come le sensibilità post strutturaliste di Tondelli incidano sul desiderio gay e la mortalità gay e agiscano come una finestra sull’individualità umana in generale e che alcuni momenti dei suoi libri sono chiaramente ideologici e a sostegno dei diritti civili e gay. Questi pareri rappresentano solo un accenno agli studi e alle teorie che Gastaldi raccoglie nel libro destrutturando l’immagine cattolica di Tondelli, sottolineando il suo impegno sociale per una comunità, quella Lgbtqi+, che finalmente veniva rappresentata senza timori e freni. Ci sono scrittori che anticipano le battaglie prima che la gente comune comprenda che è il momento di lottare. Tondelli con i suoi Altri libertini nel 1980 ha iniziato in Italia un’azione molto simile a quella che Gore Vidal compì negli Stati Uniti nel 1968 con Myra Breckinridge.

Gastaldi per mezzo di un libro particolareggiato e meticoloso ci restituisce il Tondelli vero, lontano da epurazioni post mortem, non una pecora smarrita alla fine redenta, piuttosto un uomo che ha fatto della scrittura un impegno sociale del quale gran parte della comunità Lgbtqi+ e non solo gli è riconoscente, uno scrittore imponente, totale, che ha rivoluzionato il modo di scrivere e l’approccio alla letteratura. Un’operazione lodevole che riconsegna alla figura del correggese molti dei colori che si è tentato arbitrariamente di nascondere: non si potrà mai esser sazi di scrittori come lui, pronti a contrastare chi tenta di relegare la verità all’ombra di un apparente perbenismo.

Emiliano Reali. E' autore di romanzi sulla discriminazione e i diritti civili. Ha scritto la trilogia di Bambi, prima trilogia italiana incentrata sull'identità di genere e l'orientamento sessuale. Il primo volume della saga è stato tradotto in spagnolo per la Spagna, il Messico e l'Argentina. La sua raccolta di racconti Sul ciglio del dirupo, dove sono protagoniste le minoranze (etniche, religiose, persone diversamente abili), invece, è stata pubblicata anche in America. La sua produzione letteraria comprende inoltre testi per ragazzi utilizzati nelle scuole come Il seme della speranza. Reali scrive sulla pagina cultura de Il Mattino e cura una rubrica di libri sull'HuffPost Italia.

·        30 anni dalla morte di Yves Montand.

Leonardo Martinelli per "La Stampa" l'8 febbraio 2021. Il quarto figlio (ha pochi mesi), avuto a cinquant’anni, frigna accanto a Benjamin Castaldi, nella sua casa, a Neuilly-sur-Seine, sobborgo chic di Parigi. Il soggiorno è un porto di mare. Lui è un conduttore televisivo conosciuto in Francia, sempre pronto a fare il mattacchione, pure simbolo di una certa tv trash. Ma ora è solo il nipote di due mostri sacri che non ci sono più, ma che si occuparono di lui da bambino e da (irrequieto) adolescente. Erano Simone Signoret (1921-85) e Yves Montand (1921-91), attori mitici del cinema francese, lui pure cantante: una vita insieme, con alti e bassi, intensa, mai scontata. Il loro Benjamin ha scritto (di getto) un libro, pubblicato dalle Editions du Rocher.

Il titolo è quello che non aveva mai detto loro in faccia: Vi ho amati così tanto. Quale il ricordo della nonna, che riaffiora di frequente nella sua memoria?

«Era il mese di agosto 1985: un’estate così calda. Lei aveva un cuscino sulla pancia: soffriva terribilmente per il tumore. E io le leggevo ad alta voce l’ultimo libro che aveva scritto, Adieu Volodia. Abbiamo chiuso le persiane, c’era troppa luce. Ma un raggio di sole illuminò il suo sguardo, che era incredibile, sebbene fosse quasi cieca. Uno sguardo trasparente, con quegli occhi grigi-azzurri-verdi. Uno sguardo carico di sensazioni e vuoto al tempo stesso».

Alla morte della Signoret, lei aveva 15 anni. Dopo continuò a vedere spesso Montand, fino ai suoi vent’anni, quando scomparve pure lui…

«Aveva avuto un bambino, Valentin, dalla sua nuova donna. Io per lui ero una sorta di confidente. In realtà mi parlava molto di nonna, anche della storia di Marilyn Monroe».

Era il 1960. Montand, accompagnato da Simone, andò negli Usa a girare un film con la Monroe, «Facciamo l’amore». Durante le riprese con Marilyn nacque una tresca…

«C’è un prima e un dopo rispetto a quella vicenda, è ovvio: lui la tradì con la donna più bella del mondo e lei diventò la cornuta più celebre del mondo. Anche fisicamente mia nonna non fu più la stessa. Prima era una donna innamorata. Dopo accelerò il tempo, fisicamente sembrava più vecchia della sua età. Accettò il tempo che passava».

Il fatto che si lasciasse andare era un segno di libertà?

«Mia nonna era una donna libera. E la libertà suprema è poter controllare tutto, anche il proprio fisico e scegliere di lasciarsi andare. Comunque, se negli Anni 70 non avesse avuto quella faccia lì, non sarebbe riuscita a ottenere ruoli memorabili, come Madame Rosa in L’evaso, con Alain Delon».

Si può dire che non si amarono più dopo la storia con Marilyn?

«Non è vero. Si sono amati fino alla fine. Hanno avuto la forza di non cedere agli incidenti della vita. Mi viene in mente un’altra immagine».

Quale?

«Gli ultimi mesi di vita di mia nonna lui fu molto presente. Mi ricordo di loro due che si tengono la mano e guardano la tv come due vecchi qualsiasi, stesi sul letto. Era bello e magico. Montand, poi, volle quella coperta sopra il suo corpo nella bara, quando a sua volta se ne andò».

Politicamente, la coppia passò dal comunismo all’anticomunismo…

«In realtà, non presero mai la tessera del Partito comunista ma lo sostennero. Montand era nato a Monsummano Terme, in Toscana, e da piccolo era fuggito in Francia con la famiglia: erano comunisti e c’era il fascismo. I miei nonni, poi, fecero un viaggio in Unione Sovietica tra la fine del 1956 e l’inizio del ’57. Furono molto criticati, ma solo così videro la verità in faccia e dopo presero le distanze dal comunismo. Mia nonna rimase un’intellettuale di sinistra. Montand negli Anni 80 approdò addirittura a un liberalismo quasi reaganiano, ma sempre sociale».

Se fossero in vita oggi per chi voterebbero?

«Macron, senza dubbi. Loro nella testa avevano il macronismo quarant’anni prima. Volevano prendere il meglio della sinistra e della destra».

Montand poteva essere duro…

«Mia nonna era già morta. E lui un giorno mi urlò: “Tu non sei il mio nipote”. Mi buttò addosso un rotolo di banconote, che io ebbi il torto di prendere. È vero che mia madre (ndr, Catherine Allégret) era figlia del primo marito di mia nonna, anche se poi era stata adottata da Montand. Comunque, ci rimasi male. Poco dopo, scrisse un libro e me ne inviò una copia, con una dedica: “Al mio nipote che amo”. In cambio di un momento di una durezza assoluta ne ebbi uno di una tenerezza incredibile».

·        30 anni dalla morte di Dino Viola.

Tonino Cagnucci per ilromanista.eu il 21 gennaio 2021. Giocavamo col Pisa quel giorno... Dino Viola ha amato la Roma più di qualsiasi altra cosa, da quando ragazzino la scoprì su un tram che portava a Testaccio fino a quando se l'è stretta per l'ultima volta, il 19 gennaio 1991. Trent'anni fa oggi.

Persino in guerra. Nel 1942 era a Pontedera, nelle campagne di Curigliana, come ufficiale della regia aeronautica militare, addetto ai collaudi dei P. 1088B Piaggio, l'unico bombardiere strategico quadrimotore italiano della seconda guerra mondiale. C'era la guerra. Ma c'era la Roma che giocava a Livorno e Pontedera dista 37 chilometri. Ci andò in bicicletta con la Signora Flora. Era il 7 giugno. Si erano sposati il 30 aprile di quell'anno, quattro giorni prima era andato a Venezia che quel giorno era romantica soprattutto perché ci giocava la Roma. Trentasette chilometri in bicicletta per vederla, trentasette anni per sposarla: nel maggio del 1979 diventa presidente. Diventa tutto. Se è vero che c'è stata una Roma prima e dopo Falcao, cos'è stata la Roma prima e dopo Viola che Falcao lo ha portato qui? L'Ingegnere è stato l'architetto del nostro sogno, e insieme il suo custode più feroce e dolce: faceva tutto, da comprare Falcao fino a spegnere le luci di quella che considerava casa sua per darle la buonanotte. Sognavamo tutti e quando dopo 41 anni ci risvegliammo da quella che lui stesso definì "una prigionia", era tutto vero. Era la Roma campione. Era la Roma più bella e grande. Era una continua emozione. Più che i campioni e i trofei, ve lo ricordate lo stadio? Le luci? Le bandiere? La Roma? Ci sono uomini che votano l'intera vita a una causa, Viola l'ha dedicata alla Roma. Pure troppo. Pure tutto. Puro amore. La Roma la sentiva sua. La Roma in quegli anni era sua. Questione di sangue, tigna, piglio. Ci ha litigato anche, ci ha sofferto. L'acquisto di Manfredonia fu una ferita. Così come le cessioni di Di Bartolomei, Cerezo, Ancelotti e la querelle legale con Falcao. Quando e se ha sbagliato lo ha fatto per eccesso di amore, proprio per quel senso di appartenenza totale e feroce alla causa, alla squadra, alla sposa. Quando è stato contestato è stato fatto solo per eccesso di amore, perché Dino Dino Viola alè, è andato oltre a certi canti degli ultimi anni, è andato oltre perché lui era lui anche per noi: il più grande. Forse è stato troppo grande anche per quei tempi: ha visto prima degli altri la Roma che avrebbe costruito e prima degli altri anche quella che avrebbe potuto ancora costruire. Tante immagini che restano lo ritraggono di profilo, come a guardare chissà quale punto, ma sempre fisso, sempre lontano. La più bella, forse, è quella in tribuna il giorno di Roma-Juventus del 16 marzo 1986, con uno stadio intero che si stava colorando e lui – unico in quel parterre in piedi – assiso a fissare uno spettacolo mai visto primo. Mai come in quel momento era il Presidente di tutta quella gente. Si stagliava dal contesto ma era proprio così che quella diventava la sua gente. Dopo il terzo gol nella prima di Coppa Campioni col Goteborg disse: «Mi sono alzato e mi sono messo a guardare il pubblico». Mentre tutti guardavano la più forte e bella Roma di sempre in campo, lui guardava Roma guardare la sua Roma. Altro che Las Meninas di Velasquez (il quadro in cui pittore si dipinge dipingere mentre è dipinto). È stato un quadro l'epoca di Dino Viola che ogni romanista ha appeso in casa. Credo che Dino Viola si ricaricasse facendo questo: guardando la Sud spesso, perché nel frattempo per la Roma lui aveva sfidato tutto. E contro la smisurata arroganza e i centimetri del potere, ha vinto lo Scudetto più bello, cinque Coppa Italia, è arrivato tre volte secondo, due volte terzo, in finale di Coppa Uefa e nella finale della Coppa dei Campioni. Ha insegnato a scriverci in corsivo, a capire che eravamo grandi, che la nostra storia "non so du' coppette". Che dobbiamo sentirci destinati a esserlo grandi. Comunque. Non sopportava che la Roma la chiamassero Rometta e aveva ragione: la Roma è la Roma. Sempre. Dopo di lui l'autostima del tifoso romanista non è stata più la stessa. Ci ha condotto lì dove nessuno ci aveva nemmeno sperato di portare eppure la sensazione che ha lasciato – e si è lasciato- è persino quella di un qualcosa di incompiuto: quella Coppa, lo Stadio, comunque un qualcosa che racconta una misura incolmabile. Forse bastano quei 37 chilometri tra Pontedera e Livorno o lo striscione della Sud il giorno dopo la sua morte per provare almeno a suggerirla: "In 12 anni hai dato molto, ieri tutto". Per lui non sarebbe stato ancora abbastanza da dare alla Roma. Giocavamo col Pisa quel giorno. Col Pisa, che si trova tra Pontedera e Livorno.

·        30 anni dalla morte di Walter Chiari.

Walter Chiari moriva 30 anni fa: campione di pugilato, gli amori da copertina, l’arresto nel 1970, 9 segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 20 Dicembre 2021.  Il 20 dicembre 1991 se ne andava - a 67 anni - il grande mattatore del piccolo schermo, re degli storici varietà Rai del sabato sera (da Canzonissima a Studio Uno)

Ex pugile

«Mio padre era un trascinatore. Non si riusciva a non amarlo. Lui rapiva l’attenzione e gli affetti. Tutti sentivano che aveva un cuore grande e una testa libera da qualsiasi tipo di vincolo»: così Simone Annichiarico descriveva suo padre Walter. Annichiarico, in arte Chiari. Oggi ricorre il trentennale dalla sua morte, avvenuta il 20 dicembre del 1991 a 67 anni in un residence milanese. Se ne andò in completa solitudine, povero, dimenticato da almeno vent’anni nonostante fosse uno degli attori più prolifici della sua generazione, un irresistibile talento comico, re dell’improvvisazione e amato mattatore del piccolo schermo. La vita lo ha messo più volte alla prova, ma nei suoi anni più bui si è sempre rialzato, come un pugile sul ring. Paragone non casuale perché - forse non tutti sanno che - pugile Walter Chiari lo è stato davvero: nato a Verona l’8 marzo 1924 in una famiglia di origini pugliesi quando aveva nove anni si trasferì a Milano. Il suo primo impiego fu come magazziniere all'Isotta Fraschini, storica azienda automobilistica, e in quel periodo iniziò a praticare il pugilato, diventando campione lombardo della categoria pesi piuma nel 1939. E questa non è l’unica curiosità su di lui.

Scoprì Domenico Modugno

Dopo essere stato notato dalla showgirl Marisa Maresca, popolare ballerina del teatro di rivista degli anni Quaranta (con cui ebbe anche una relazione), Chiari nel 1946 ottenne la sua prima parte di rilievo nello spettacolo «Se ti bacia Lola». Seguiranno altri spettacoli tra cui «Controcorrente» (1954) che fece da trampolino di lancio per un giovanissimo cantautore pugliese: Domenico Modugno, che all’epoca si manteneva lavorando come parcheggiatore. Fu proprio Walter a scoprirlo e a volere con sè in scena il futuro Mr. Volare.

Il successo in Rai (e lo sketch del Sarchiapone)

Nel 1947 Walter Chiari esordì al cinema con «Vanità», doppiato da Gualtiero De Angelis, e fu premiato con il Nastro d'argento. Il successo vero però arrivò negli anni Sessanta (dopo essere apparso in numerosi film tra cui «Totò al Giro d’Italia» del 1948, «Bellissima» del 1951, «Un giorno in pretura» del 1953 e «Accadde al commissariato» del 1954, arrivò a recitare in sei film in un solo anno): nel 1962 Chiari partecipò a Studio Uno e nel 1968 condusse una delle più fortunate edizioni televisive di Canzonissima, in trio con Mina e Paolo Panelli. I suoi sketch, monologhi e barzellette - presentati all’interno di quei programmi cult - oggi fanno parte della storia della televisione. Il più celebre? Sicuramente quello del Sarchiapone, trasmesso per la prima volta nel 1958 durante il programma televisivo La via del successo (insieme a Carlo Campanini, sua fedele spalla).

L’amore giovanile con Valeria Fabrizi

L’attrice Valeria Fabrizi era molto amica di Walter Chiari: i due, che sono praticamente cresciuti insieme a Verona fin dall’infanzia (erano vicini di casa), da giovani hanno anche avuto un breve flirt ma poi hanno preso strade diverse. Hanno però conservato sempre un ottimo rapporto (è stata proprio Valeria con il marito Tata Giacobetti ad ospitare Walter in casa propria per quasi cinque anni, fino alla morte del conduttore). «Ha sofferto molto alla fine perché è stato abbandonato da tutti - ricordava qualche settimana fa l’attrice a Domenica In -. Era generoso, aveva sempre le mani in tasca anche quando non poteva farlo. La sera si sfogava, diceva: “Io ho avuto tutto dalla vita: donne, denaro, successo. Però adesso c’è qualcosa che non mi danno più, non mi vogliono più. Ma è colpa mia”».

Protagonista della cronaca rosa

Walter Chiari negli anni è finito più volte sulle pagine di cronaca rosa (suo malgrado: diventò celebre una foto del 1957, immortalato mentre inseguiva il paparazzo Tazio Secchiaroli che lo aveva fotografato di nascosto). Tanti gli amori che gli sono stati attribuiti, da Mina a Delia Scala, da Anita Ekberg ad Anna Magnani. Nel 1951 fece molto chiacchierare la sua relazione con Lucia Bosè, conosciuta sul set del film di Mario Soldati «È l’amore che mi rovina». Lei - ex commessa, Miss Italia 1947 - lo lascerà per sposare il torero Luis Miguel Dominguín, e Chiari si consolerà con l’ex fidanzata di Dominguín, l’affascinante Ava Gardner.

Italiano a Broadway

È stato l’unico attore italiano a fare il tutto esaurito a Broadway: per tre mesi, nel 1961, Chiari andò in scena con la commedia musicale «The gay life». A proposito della carriera teatrale dopo l’esperienza negli States Walter Chiari sarebbe tornato sul palco prima nel 1978 con «Hai mai provato nell'acqua calda?» poi negli anni Ottanta: uno dei suoi ultimi spettacoli (prima della scomparsa nel 1991) fu «Finale di partita» di Samuel Beckett (1986), in cui recitò con Renato Rascel.

Il matrimonio con Alida Chelli

Durante le riprese del film australiano «Sono strana gente» (1966), diretto dal regista Michael Powell, Walter Chiari conobbe Alida Chelli. Iniziò così una lunga e travagliata relazione che culminò nel matrimonio, celebrato nel 1969 in una chiesa di Sydney: mentre era impegnata nelle riprese dello sceneggiato televisivo «Giocando a golf una mattina» Alida ricevette una telefonata da Walter, che si trovava in Australia per girare «Squeeze a Flower». Lui le disse: «Sono vestito da frate davanti a una fontana, se accetti di sposarmi mi ci butto dentro!». Due giorni dopo la coppia convolò a nozze e l’amore durò fino al 1972 quando i due divorziarono. Dal loro amore nel 1970 nacque un figlio, Simone, che nel 2012 fece un piccolo cameo nella miniserie tv di Enzo Monteleone dedicata alla storia di suo padre («Walter Chiari - Fino all'ultima risata»).

L’arresto e il processo

Il 20 maggio del 1970, mentre si stava recando negli studi radiofonici della Rai per registrare una puntata del programma Speciale per voi di Renzo Arbore, Walter Chiari venne arrestato con l'accusa di consumo e spaccio di cocaina e finì in carcere, a Regina Coeli. La notizia del fermo fece molto scalpore, e quello fu l’inizio del suo declino. Chiari non potè nemmeno assistere alla nascita di suo figlio Simone: «Non l’ho visto nascere, ero in isolamento - avrebbe poi raccontato a Tatti Sanguineti in “Storia di un altro italiano” -. Mi è stato detto: ti è nato un figlio maschio, due ore fa. Non sapevo a chi dirlo, con chi bere, festeggiare, con chi piangere, con chi vantarmi o scherzare dicendo: ce l’ho fatta». L’attore fu scarcerato il 28 agosto e l'anno seguente fu processato. Venne prosciolto dall'accusa di spaccio e condannato con la condizionale per il reato di detenzione di sostanze stupefacenti per uso personale. In seguito alla sua vicenda giudiziaria l’attore farà molta fatica a lavorare in Rai (ci tornerà sporadicamente, come nel 1981 per la seconda edizione del programma Fantastico). Gli offriranno qualche occasione le allora nascenti televisioni private, come Tele Alto Milanese e Antenna Tre.

La mancata Coppa Volpi e gli ultimi anni

Nel 1984 il nome di Walter Chiari finì nuovamente sulle pagine di cronaca, chiamato in causa dal pentito Giovanni Melluso nell’ambito dello stesso scandalo che travolse anche Enzo Tortora. L’attore fu poi completamente prosciolto, come la sua allora compagna Patrizia Caselli, ma anche questa vicenda fu un duro colpo. Due anni dopo Chiari tornò sul set, nel film «Romance» di Massimo Mazzucco per il quale vinse il Premio Pasinetti e fu candidato alla Coppa Volpi come migliore attore alla Mostra del Cinema di Venezia (non vinse, il premio andò a Carlo Delle Piane per «Regalo di Natale» di Pupi Avati). Nel 1989-91 ebbe una parte (quella di Tonio) nel celebre sceneggiato «I promessi sposi» di Salvatore Nocita, ripropose il suo spettacolo «Il gufo e la gattina» con Lory Del Santo e recitò in quelli che sarebbero stati i suoi ultimi film: «Tracce di vita amorosa» di Peter Del Monte (1990) e «Capitan Cosmo» (uscito postumo nel 1993). 

L’irresponsabile esuberanza di Walter Chiari che si chiamava felicità. Max Del Papa su culturaidentità il 20 Dicembre 2021 su Il Giornale. La verità è che ci manca Walter Chiari e ci manca da trent’anni. Ci manca come qualcosa che non potremo riavere. La sua disperata vitalità, quel sorriso in fondo rassegnato, che mascherava l’incoscienza della vita. Walter Chiari è di quelli non ripetibili e ci manca come ci manca un’epoca, come rimpiangiamo la nostra stessa età, se abbiamo fatto in tempo a conoscerlo; oppure come qualcosa che ci è sfuggito, ma di cui sospettiamo la felicità. Perché, a pensarci, l’irresponsabile esuberanza di Walter Chiari era felicità. Quel viversi dissoluto. Quel riempirsi di donne che non sapevano resistere e alle quali non poteva resistere. Quel buttarsi via, sfasciarsi, restare inaffidabile e poi farsi perdonare tutto con uno scatto del corpo, un monologo assassino, una improvvisazione irriverente. Ci manca Walter Chiari come un campione di una generazione di giganti che avevano scritta in faccia la disperata brutalità del vivere: ma chi poteva divertire e disturbare col vittimismo, come Sordi? Chi sapeva parlare con un burattino come Manfredi? Commuovere nel ruolo di un petomane, di un conte rovinato, come Tognazzi? Far venir giù un teatro come Gassman? Umanizzare tutto, ma proprio tutto, come Gino Cervi?

E poi arrivava Walter Chiari, il più irrequieto, irresponsabile e irresistibile di tutti. Che peccava come tutti, ma ha pagato più degli altri: logorato dal suo stravivere, punito dallo Stato paternalista che ha sempre in odio le schegge impazzite. Non sapeva redimersi Walter Michele Armando Annichiarico, origini pugliesi, nascita veronese, cittadinanza mondiale, e se n’è andato in silenzio, come addormentandosi, come si spegne una Marlboro, proprio lui, così fisico, così fragoroso. Così rockstar.

Terribile, perché in Walter Chiari c’era una inafferrabile gioia condannata, che è quasi impossibile rievocare. Come un malandrino che va incontro al suo destino e lo sa e ci va sghignazzando, incapace di resistere all’ultimo sberleffo. E gli sberleffi di Walter Chiari restavano incisi nella carne della società per quanto paradossali, esagerati, improbabili suonassero. Anche oggi. Prendiamo l’entropia verbale, lessicale che ci avvolge; un’etichetta per tutte: l’ormai usurata “bipartisan” (cioè: ipocrita, furbetto, paragnosta), via via rimasticato in bipartisain, baipartisan, baipartaisain, con allarmante deriva verso il gna-gna-gna del «vieni avanti cretino» di lui, Walter Chiari, il solo ed unico. Davvero capace di tutto, nella vita e sulla scena. Dulcis in fundo, il Sarchiapone. Che ha quasi 70 anni, ma è sempreverde. Il Sarchiapone, animale immaginario che nasconde la cialtronaggine da scompartimento ferroviario. Dio sa, oggi, quanto sia diffusa questa bestiaccia che non c’è però impazza: il Sarchiapone è la maschera grottesca dello zelante, del megafono del potere, sta sopra al virologo che le sbaglia tutte, alla provocatrice che si farcisce di involtini primavera e dà la caccia all’untore, al saltafila moralista, al fumettaro da centro sociale, al plagiatore affarista che decide chi è fascista, allo scienziato che dà i numeri puntualmente sbagliati, al benefattore in Lamborghini, all’intellettuale 4 stagioni.

Il Sarchiapone siete voi. Dai fumosi ectoplasmi sgranati in tonalità di bianco e nero, una immortale lezione d’umorismo: la gag ruota tutta attorno ad una gabbietta vuota, tenuta coperta da Carlo Campanini: ma a tenerla in piedi è un bel giovane, agitato, distinto, logorroico, che per dieci minuti non lascia scampo a chi lo osserva, lo ascolta col fiato sempre più sospeso. E si percepisce, si coglie che quella è acqua per il pesce-Walter, che guizza fuori dal copione, lo lacera, lo scardina e lascia sfogo alla sua prorompente creatività comica. Senza una banalità, una volgarità, una parolaccia strategica (vero, cari comici di Sanremo e dintorni?). Ora, il problema è che a darlo in pasto a un altro, chiunque sia, il Sarchiapone ne fa un boccone. Ci voleva Walter Chiari per addomesticarlo, in un vagone che diventava un ring. Campanini si era convertito, era diventato devoto di Padre Pio, Walter Chiari non ce l’aveva fatta: ammirava il Santo ma da lontano, non ce la faceva a tenere a bada se stesso. Incarnava e liberava tutta l’euforia ingenua di un’epoca che si scrollava di dosso le macerie di una guerra e riprendeva a sognare. Ribaltando, da artista unico, la lezione della comicità, il pianto che si fa sorriso tragico: lui partiva dal sorriso, dalla farsa, e riusciva a stenderci sempre sopra un impercettibile velo di tragedia.

La verità è che ci manca Walter Chiari, a noi che l’abbiamo amato. Ci manca come una parte di noi. E se un giovane non lo conosce, gli basta vedere il Sarchiapone su YouTube per innamorarsene. E, dopo, sentirsi un poco orfano, la fitta sottile di un dispiacere sfocato ma non per questo meno acuto.

Maria Luisa Agnese per “Sette - Corriere della Sera” il 21 dicembre 2021. Cosa sarà mai il Sarchiapone? Oggi nessuno si interroga più, ma nell'Italia degli albori tv un comico di genio aveva portato all'attenzione di tutti quell'animale oscuro e dispettoso che si divertiva a morsicare le mani del padrone negli scompartimenti dei treni d'Italia. In realtà era una bufala fantastica, che oggi più modestamente chiameremmo fake news, nata da un comico dal multiforme ingegno. Era andata così: Walter Chiari - perché di lui parliamo - bel ragazzo quasi 30enne da Verona ma di origini pugliesi, vede su una spiaggia di Fregene un venditore napoletano che attira i bambini dicendo «Venite, compratevi il sarchiapone napoletano». Nessuno ne sa nulla, ma presto, andando di bocca in bocca («Tu ce l'hai il sarchiapone?»), diventa per tutti misterioso oggetto del desiderio. Fulminato, Chiari ne parla con Italo Terzoli da Milano ed Enrico Vaime da Perugia e ne nasce uno sketch irresistibile animato dalla mimica di Walter Chiari e sostenuto dalla sua impassibile spalla Carlo Campanini da Torino. Nella scenetta, di durata variabile, dai 14 ai 40 minuti, a seconda dell'estro dell'inesauribile Walter, dopo uno sfoggio di sapienza da parte dei vari passeggeri nessuno dei quali voleva fare la brutta figura di non sapere cosa fosse il sarchiapone, alla fine si scopriva che il sarchiapone non esisteva, era un trucco escogitato dalla spalla Campanini per allontanare tutti dallo scompartimento e potersi allungare a dormire. Ma era chiaro che quella macchietta era altamente profetica, anticipatrice di ogni futuro sfoggio di tuttologia televisiva e non solo. Il sarchiapone era solo uno dei cavalli di battaglia di Chiari, re del monologo tv e croce e delizia dei registi per la sua noncuranza dei tempi. C'erano i fratelli De Rege e c'era Hitler con cui era diventato famoso nei primi luoghi di lavoro e che gli valse il licenziamento dalla banca: il direttore, sentendolo, prima gli batte le mani e poi lo licenzia. Ma Walter è stato il vero mattatore di Canzonissima e Studio uno con le tirate fra satira, politica, costume sociale, che mischiava i linguaggi e i codici in modo raffinato. Prima per Walter ci fu il cinema: da Bellissima a il Giovedì a La rimpatriata. Con puntate internazionali: il film australiano Sono strana gente. Donne, innumerevoli: da Marisa Maresca a Lucia Bosè a Della Scala a Mina a Maria Gabriella di Savoia ad Anita Ekberg a Belinda Lee, le scazzottate con i paparazzi per la tribolata storia con Ava Gardner, un matrimonio con Alida Chelli e un figlio, Simone. La sua vita ingorda e non regolare ha ispirato, secondo l'amico e biografo Tatti Sanguineti, Fellini per La dolce vita e Visconti per Rocco e i suoi fratelli. Ma lo ha anche portato a un uso di cocaina mai nascosto e nel '97 all'accusa di spaccio da cui poi è prosciolto. Fu una cesura forte nella sua biografia. Messo al bando dalla Rai, alterna le tv private ma la vita è più affaticata e meno smagliante, muore quasi solo e povero. Valeria Fabrizi, vicina di casa da giovanissima e prima fidanzatina, oggi star a Ballando con le stelle, lo seguì da amica sino alla fine. 

·        29 anni dalla morte di Astor Piazzolla.

L'omaggio nel doodle di Google. Chi era Astor Piazzolla, il musicista e compositore che ha rivoluzionato il tango. Antonio Lamorte su Il Riformista l'11 Marzo 2021. Astor Piazzolla è il protagonista del doodle di Google di oggi. È stato il rivoluzionario del tango. Una carriera lunghissima, migliaia di composizioni, centinaia di registrazioni. Una parabola per niente facile: venne definito “assassino del tango”, un traditore, perché inizialmente non fu apprezzato in patria dalla vecchia guardia che difendeva il genere tradizionale. L’omaggio da parte di Google in occasione del centenario della nascita del musicista, a Mar del Plata. Astor Pantaléon Piazzolla era figlio di Vicente, figlio di Pantaleone, un pescatore emigrato in Argentina da Trani, in Puglia, e di Assunta Manetti, originaria di Massa Sassorosso, frazione di Villa Collemandina, in Garfagnana, Toscana. Pochi anni dopo la sua nascita la famiglia si trasferì a New York. Piazzolla ha composto il suo prima tango a soli 11 anni. Un bambino prodigio: era stato il padre a regalargli il suo primo bandoneón, uno strumento simile a una fisarmonica, lo stesso con il quale è ritratto nel doodle di Google. Piazzolla tornò in Argentina nel 1937. Studiò musica classica e poi musica moderna. Fu apprendista a Parigi della compositrice Nadia Boulanger: un incontro che fu decisivo nella sua vita. Boulanger lesse diversi suoi spartiti senza riconoscere una voce speciale, fino a quando l’argentino non le fece leggere i suoi tango. La compositrice a quel punto lo convinse a dedicarsi a quello. La musica di Piazzolla è stata innovazione, divenne il padre del “nuevo tango”. Anche più difficile da ballare rispetto al tango “de la guardia”, quello della tradizione, come ha raccontato il ballerino Miguel Angel Zotto. Quando tornò a Buenos Aires il musicista fondò il gruppo Octeto Buenos Aires. Una musica anche da concerto, non soltanto da sala da ballo e da milonga. La rivoluzione fu il risultato dell’aggiunta di nuovi elementi: musica jazz, dissonanze, strumenti come l’organo Hammond, il flauto, la marimba, il basso elettrico, la batteria, le percussioni, la chitarra elettrica. Libertango, la sua composizione più famosa, fu registrata a Milano. Piazzolla venne all’inizio più apprezzato in Europa che in patria. Ha collaborato con Tullio De Piscopo, Pino Presti, Mina, Milva e Iva Zanicchi. Daniel Rosenfeld, in occasione del centenario, ha realizzato il documentario Piazzolla, la rivoluzione del tango, distribuito da Exit Media. Al regista la famiglia ha aperto il suo archivio, per la prima volta. In Argentina fu spesso oggetto di scherno. A un conduttore di una trasmissione disse: “Ti vengo a cercare, e non sarà per parlare, la tua campagna denigratoria è da infami”.  Il figlio ha raccontato che in una grigliata bruciò numerosi spartiti perché “bisogna guardare avanti”. Il 4 agosto del 1990 Piazzolla soffrì una trombosi cerebrale dalla quale non si riprese mai. Si trovava a Parigi. Fu trasferito a Buenos Aires il 12 agosto. Morì due anni dopo, il 4 luglio 1992, a 71 anni. È stato seppellito nel cimitero Jardin de Paz, a Pilar, nella provincia di Buenos Aires.

Astor Piazzolla, allacciati nel sensuale tango nuovo del Gato. Ritratto dell’argentino che entrò di diritto nella Storia della musica del Novecento. Edvige Vitaliano su Il Quotidiano del Sud l'8 marzo 2021. Tutto inizia con uno sguardo in codice: la mirada. Uno sguardo per dire sì o no, per scegliersi senza parlare e abbracciarsi nel tempo vorticoso e breve di un tango in una milonga di Buenos Aires. Una sala da ballo con la pista levigata, i tavolini allineati lungo le pareti, l’odore di brillantina tra i capelli tirati sulla nuca dei tangueros. E sembra di vederlo in fondo alla milonga, un uomo perso tra volute di fumo e una sottile malinconia mentre comincia a suonare il suo bandoneón. Lo tiene fra le mani, come si fa con i sogni per non lasciarli scappare. Comprime e dilata il mantice, preme con le dita uno o più tasti… Il viaggio nei suoni del tango ha inizio. Nostalgia, struggimento, visioni. “Le gambe s’allacciano, gli sguardi si fondono, i corpi si amalgamano in un firulete e si lasciano incantare.  Dando l’impressione che il tango sia un grande abbraccio magico dal quale è difficile liberarsi.  Perché in esso c’è qualcosa di provocante, qualcosa di sensuale e, allo stesso tempo, di tremendamente emotivo. Il tango è un linguaggio in cui convivono tragedia, malinconia, ironia, amore, gelosia, ricordi[…] Il tango trasgredisce e lì sta la sua attrattiva.[…]”. Prendendo a prestito le parole di Borges si può provare a raccontare Astor Piazzolla, detto anche “El Gato” per la sua abilità e il suo indiscutibile talento. L’argentino nato a Mar del Plata da genitori di origine italiana – che quest’anno, l’undici di marzo avrebbe compiuto cento anni – il tango lo ha amato, reinventato, consacrato, suonato, scritto e riscritto. Ne ha messo in discussione tradizione e ritmo tanto da far storcere il naso ai puristi ed essere “accusato” di essere el asesino del Tango (l’assassino del tango). Attirare su di sé i dardi delle critiche capita a chi è capace di mettere un punto e a capo, a chi è in grado di battere nuove strade. Piazzolla non arretra. Del resto, il suo è un “delitto” perfetto, geniale. Ed ecco il Tango Nuevo o Nuevo Tango. Attraverso scorribande creative, sconfinamenti in altri territori sonori, collaborazioni preziose e varie – come quelle con il sassofonista Gerry Mulligan piuttosto che con Mina, per citarne solamente due – Astor resta nella Storia della musica del Novecento e oltre. In sostanza pratica la libertà di espressione compositiva, incontra il jazz (e non solo), scommette sulle dissonanze, sull’innesto di strumenti inconsueti per il tango e scrive quel vero e proprio manifesto musicale che è “Libertango”. L’album è battezzato con il nome di uno dei pezzi più celebri, eseguiti e amati di Astor. Due sole parole: Libertad (libertà in lingua spagnola) e Tango. Il lavoro viene registrato a Milano nel maggio 1974. Nella compagine di musicisti che lo accompagnano, Piazzolla sceglie, per esempio, Tullio De Piscopo alla batteria. Astor e il suo Libertango fanno il giro del mondo. Nelle case degli italiani quel tango seducente entrerà anche grazie a un noto spot pubblicitario, mentre Polansky lo vorrà per il suo “Frantic”. Non solo Libertango, però. Secondo alcuni biografi il compositore firma circa 3.000 brani e ne registra circa 500, o forse più. Difficile scegliere in un repertorio così vasto e articolato ma un altro pezzo da Novanta – con “Oblivion” che Bellocchio sceglie nel 1984 per il suo film “Enrico IV” – è “Adiós Nonino”. Si racconta che Astor lo scrisse in soli 45 minuti riprendendo un pezzo già composto, dopo aver ricevuto la notizia della morte del padre Vicente, detto Nonino. Dolore e morte. Musica e vita che abbraccia altra vita da ascoltare. Perché se è vero che “il tango è un pensiero triste che si balla” – è stato scritto attribuendo la frase a Enrique Santos Discepolo o a Borges – per “El Gato” bisognava prima di tutto ascoltare. Ascoltare il tango, suona strano. Non con Piazzolla. Con lui è necessario fare silenzio per poi mettersi all’ascolto e non perdere nemmeno un pezzettino di quei suoi racconti in musica. Accade anche con “Maria de Buenos Aires”, nata “un giorno che Dio era ubriaco”: un tango operita su libretto del poeta Horacio Ferrer. Astor la compone dedicandola a Milva, la rossa. Con Piazzolla il tango si suona, si ascolta e ti resta nel cuore. Accade anche se non lo hai mai ballato e non sei mai andata in una milonga a Buenos Aires. Perché “il tango si porta dentro la pelle”, diceva Astor. C’è da credergli come si può credere ai sogni che ti si parano davanti mentre ascolti “Oblivion” . Un pezzo così struggente che capita di immaginare gli italiani partire per l’ America: i bastimenti, le valige di cartone, i sorrisi che morivano sulle banchine dei porti. Solo i sogni rimanevano nell’aria come i fazzoletti bianchi dei saluti e la paura di essere dimenticati da un amore lasciato sulla terraferma. Visioni e suggestioni sonore nel tempo di un tango. In fondo, anche quella di Astor somiglia a una di quelle storie con la valigia in mano!

·        28 anni dalla morte di Sun Ra.

Sun Ra, nato come Herman Poole Blount. Dal 1952 Le Sony’r Ra. Marco Molendini per Dagospia il 26 novembre 2021. Il jazzista venuto dal cielo arrivò a Roma con un paio di scudieri della sua Arkestra. Si sedette al piano e cominciò a viaggiare nello spazio musicale. Era una notte d’inverno a via del Cardello, in un ex teatro trasformato in un club di jazz, il Saint Louis. Il più anomalo dei jazzisti, il leader di una comune musicale guidata con regole militari e legami strettissimi, aveva scelto di esibirsi nella sua veste più intima, quella del pianista, un mestiere che faceva già da ragazzino prodigio, da solo o in gruppi jazz e r&b. La sua musica, quella sera, era assai meno torrida di quella che produceva abitualmente l’Arkestra. Meno anarchica ma sempre sorprendente fra alti e bassi, capace di aprire squarci di sereno in classici standard come St. Louis blues o l’ellingtoniana Take the A train (Duke era un eroe giovanile di quel ragazzo cresciuto in Alabama), o nello spiritual Sometimes I feel like a motherless child, o nei brani della sua produzione come lo speciale Outer Spaceways Incorporated: quest’ultimo un piccolo, seducente campionario della sua idea musicale. Comincia come una fascinosa canzoncina fuori dal tempo, dove l’allora sessantatreenne Sun Ra sfodera una voce infantile che sembra provenire da lontano, forse da un altro pianeta, segno ulteriore e spontaneo del suo sentirsi comunque altrove, chiuso nel suo cosmo musicale. Un incipit morbido e affascinante dal quale poi si scatena una tempesta sonora con le mani del jazzista caduto sulla terra che si dividono imbizzarendosi fra il pianoforte e le tastiere. Non poteva mancare la sua sigla, Space is the place, abituale finale degli show dell’Arkestra al completo con tutta la big band che cantava in coro un testo che la diceva lunga sul perché Herman Blount, a un certo punto della sua vita, avesse deciso che invece che a Birmingham fosse nato su Saturno per poi sbarcare sulla Terra a bordo di una navicella spaziale in missione per predicare la pace. Una conversione astrale che già aveva mostrato i primi segni a metà degli anni Trenta, ma che poi si era definita negli anni Cinquanta quando, a suo dire, Herman Blunt vide una luce e cambiò il proprio nome in Le Sony’r Ra. Quella notte, nel club romano davanti a una raccolta rappresentanza del popolo del jazz, Sun Ra offre una versione solo strumentale di Space is the place, sovrapponendo e alternando piano e minimoog ma facendo affiorare comunque, quantomeno nella memoria, le parole di quella canzone così legate al suo senso di estraneità da una società, quella terrestre, nella quale era vittima di una doppia segregazione, come americano dalla pelle nera e come omosessuale: “Space is the place where I will go/And just because you kiss your Brother /It doesn't mean to say you're gay/ And just because you're loving him / it doesn't mean you don't love me” (“Lo spazio è il posto dove voglio andare/ E solo perché baci un tuo fratello/Non significa che stai dicendo di essere gay/E solo perché lo ami/Non vuol dire che non ami me”). Al Saint Louis l’occasione avrebbe meritato maggiore presenza di pubblico, ma, chi c’era, non poteva non rimanere soggiogato dalla fantasia di quell’alieno incartato in un costume luccicante con un copricapo egizio e scortato da due scudieri, un batterista per lo più inattivo, chiamato al lavoro dal leader e spesso tacitato dopo poche battute, Luqman Ali, e il cantante Thomas Thaddeus (che si faceva chiamare anche Pharaoh Abdullah)  alle prese con lo standard How I Am I To Know. Quel concerto è stato sepolto nella memoria per quarant’anni, poi è magicamente riapparso come album, ''In some far place- Roma ‘77'', ad arricchire ulteriormente la discografia del jazzista venuto da Saturno, che nella sua carriera ha registrato un migliaio di brani. Una ricchezza discografica frutto della sua indipendenza artistica, nel 1955 Sun Ra aveva fondato un’etichetta, El Saturn, cominciando a registrare i concerti con la sua formazione di allora, i Cosmic Rays, un gruppo doo-wop. Negli anni è poi andato avanti a stampare la propria musica, anche in edizioni ridottissime  di poche decine di copie confezionate in maniera amatoriale , utilizzando copertine realizzate dagli stessi musicisti dell’Arkestra. Ricordo di essere andato via, dopo una dilagante intervista (in cui non rinunciò a elargirmi una delle sue  maestose affermazioni: “C’è che mi chiama Mr. Ra. Altri mi chiamano Mr. Re. Tu puoi chiamarmi Mr. Mystery”), con un pacco di quei dischi artigianali dove spesso il suono della musica si confondeva con i gracchii della lacca e i rumori di fondo delle registrazioni. Tanta sterminata produzione, arricchita da edizioni postume come In some far place, resta però a testimoniare l’originalità di un personaggio creativo capace di suggestionare con il suo afrofuturismo la black music, da George Clinton agli Earth, Wind and fire. Persino Lady Gaga ha attinto dalla sua miniera, inserendo  nel brano Venus, contenuto nell’album Artpop, un sample di Rocket Number 9, parte del repertorio dell’artista venuto da Saturno. PS. Sun Ra è morto nel 1993, aveva 79 anni, ma la sua Arkestra è ancora attiva: a guidarla un suo spettacolare luogotenente, il sassofonista Marshall Allen, di anni 97

·        28 anni dalla morte di Albert Sabin.

Lo scienziato moriva il 3 marzo 1993. Albert Sabin, l’inventore del vaccino anti-polio che rinunciò al brevetto: “Lo dono ai bimbi del mondo”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 3 Marzo 2021. Il 3 marzo del 1993 moriva a 86 anni all’ospedale della Georgetown University di Washington Bruce Albert Sabin. È diventato famoso anche come “l’uomo della zolletta di zucchero”: era stato infatti lui a ideare il più diffuso vaccino contro la poliomielite che veniva somministrato con una zolletta imbevuta. Il suo nome viene spesso citato in questi giorni per via della pandemia da coronavirus, dell’andamento lento della campagna vaccinale, dei brevetti: chi propone di condividerli e chi dice che è impossibile. “È il mio regalo a tutti i bambini del mondo”, disse invece Sabin che visse una vita piuttosto rocambolesca, spesso drammatica. Non ha mai vinto il Premio Nobel per la Medicina ma è finito nel ritornello della canzone del film Mary Poppins con quel “poco di zucchero e la pillola va giù”. Un inno, allegro e inconsapevole, alla sconfitta di un’epidemia tragica.  Sabin era nato nel 1906 nel ghetto di Bialystok, in Polonia, una città parte dell’Impero Russo. Quando aveva 15 anni era partito con la famiglia per gli Stati Uniti. Il padre Jacob era artigiano: aveva deciso di partire per via della crescente ostilità anti-ebraica che si andava diffondendo in Europa. Bruce Albert fin dalla nascita era quasi cieco dall’occhio destro. Con l’appoggio dello zio, divenne un promettente studente di odontoiatria alla New York University. Quando però lesse il libro I cacciatori di microbi di Paul de Kruif cambiò idea: non più dentista, ma medicina. Microbiologia, per la precisione: un’epifania. L’aneddotica sulla sua vita racconta che andasse perfino raccogliendo microbi per la città, lì dove capitava: stagni, polvere, cassonetti della spazzatura e via dicendo. Sabin si laureò, divenne capo della ricerca pediatrica, assistente di William Hallock Park, celebre per gli studi sulla difterite. Approfondì quindi lo studio delle malattie infettive: la poliomielite era una piaga in quegli anni. La malattia virale aveva paralizzato tra il 1951 e il 1955 oltre 28mila bambini. Diverse migliaia le vittime. Nel solo 51 negli USA aveva colpito 21mila persone; in Italia oltre 8mila nel 1958. La poliomielite colpisce il sistema nervoso centrale e in particolare i neuroni del midollo spinale. Il contagio avviene per via oro-fecale: ingestione di acqua o cibi contaminati o tramite la saliva e le goccioline emesse con i colpi di tosse e gli starnuti da soggetti ammalati o portatori sani. La fascia più a rischio sono i bambini sotto i cinque anni di età. L’1% dei malati sviluppano paralisi, il 5-10% una meningite asettica. Un vaccino annunciato negli Stati Uniti nel 1934 si era rivelato inefficace, anzi letale. Il Presidente Franklin Delano Roosvelt il 3 gennaio del 1938, costretto su una sedia a rotelle con una diagnosi di poliomielite – che in seguito sarebbe stata contestata – scrisse un appello sui quotidiani e fondò la National Foundation for Infantile Paralysis allo scopo di raccogliere fondi per la lotta alla malattia. La campagna, alimentata anche da volti noti, fece esplodere l’attenzione sulla poliomielite. Sabin era uno scienziato rigoroso, egocentrico, intransigente. Un’esplosione di contagi a New York lo aveva spinto a studiare la polio. Lo fece dal 1931 all’University of Cincinnati, nello stato dell’Ohio. Il suo primo grande risultato fu capire che non si trattava di un virus respiratorio: ma che vive e si moltiplica nell’intestino. Aveva inaugurato l’epoca degli enterovirus. Ma allo scoppio della II Seconda Guerra Mondiale Sabin partì come ufficiale medico: sbarcò in Sicilia e poi a Okinawa, in Giappone; a Berlino aveva intanto assistito a una terribile epidemia di polio. Quando tornò in America riprese le sue ricerche armando un laboratorio con 10mila topi e 160 scimpanzé. Mise a punto così un vaccino che si basava su ceppi indeboliti e che andava somministrato per via orale. Ma Jonas Salk, ricercatore della University of Pittsburgh, aveva realizzato intanto tre vaccini, uno per ogni tipo fondamentale di polio, a partire da virus uccisi e conservati in formalina, che gli USA nel 1952 approvarono. Il farmaco di Salk tuttavia non preveniva il contagio iniziale e veniva somministrato tramite iniezione. A chiamare in causa gli sforzi di Sabin fu l’Unione Sovietica che, con altri Paesi dell’Est europeo, richiese allo scienziato di sperimentare il farmaco sulla sua popolazione. Fu un successo: il primo Paese a produrlo su scala industriale fu la Cecoslovacchia, poi la nativa Polonia, l’Urss stessa, la Repubblica Democratica Tedesca e la Jugoslavia. L’autorizzazione in Italia arrivò nel 1963, dal 1966 il vaccino divenne obbligatorio. In ritardo arrivarono anche gli Stati Uniti. Si vaccinarono milioni di bambini in tutto il mondo. L’ultimo caso negli Usa risale al 1979, in Italia al 1982. Sabin divenne molto celebre: ricevette 40 lauree honoris causa, il Premio Feltrinelli, la Medaglia Nazionale per la Scienza. Divenne anche presidente del Weizmann Institute of Science di Rehovot, in Israele, e dopo la pensione continuò a studiare i tumori, il morbillo e la leucemia. “Non dobbiamo morire in maniera troppo miserabile – diceva – La medicina deve impegnarsi perché la gente, arrivata a una certa età, possa coricarsi e morire nel sonno senza soffrire”. Se dolce come lo zucchero era il suo farmaco, altrettanto non era lui a quanto pare: dai modi spesso burberi, anche per una vita fin dall’infanzia segnata da drammatici sconvolgimenti. Che non finirono in età adulta: la sua prima moglie, madre delle figlie Amy Deborah – chiamate come le nipoti uccise dalle SS durante la guerra – si tolse la vita trangugiando barbiturici nel 1966. Eredi dello scienziato vivono in Italia, tra Milano, Biella e Bologna. “Il vaccino di Sabin – si legge sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità – somministrato fino ad anni recenti anche in Italia, ha permesso di eradicare la poliomielite in Europa ed è raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità nella sua campagna di eradicazione della malattia a livello mondiale”. Se Sabin così spesso viene tirato in causa in questi giorni è per la sua decisione di non brevettare la sua invenzione, rinunciando allo sfruttamento commerciale dell’industria farmaceutica. “Tanti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo”, disse e non guadagnò un dollaro dalla sua scoperta. Donò i ceppi virali all’Urss, superando le gare sull’orlo della Cortina di Ferro, tra Usa e Urss, in piena Guerra Fredda, e continuò a vivere del suo stipendio da professore. Molti lo tirano quindi in ballo per la campagna vaccinale, e la penuria di farmaci, contro il coronavirus che avanza a fatica in queste settimane, questi mesi. La questione è argomento di dibattito ormai da mesi. Oxfam ed Emergency hanno scritto un appello al governo per la liberalizzazione dei brevetti “ponendo fine al monopolio delle case farmaceutiche. A cominciare dal vaccino italiano Reithera, in dirittura d’arrivo”. Un brevetto riconosce un monopolio: un’esclusiva di produzione, uso e vendita. Vale di solito 20 anni. Questo meccanismo è considerato da molti economisti ed esperti un incentivo per investire nella ricerca. È anche vero però che molte ricerche vengono – e sono state, nel caso specifico – finanziate da ingenti investimenti pubblici. I vaccini sono anche farmaci poco redditizi rispetto a quelli che vengono assunti per una malattia cronica. I governi hanno in effetti la possibilità di sospendere momentaneamente il monopolio, da Risoluzione 58.5 dell’Assemblea Mondiale della Sanità (Ams). Una strada alternativa, come ha ricordato il Post in un lungo e approfondito articolo sulla questione, potrebbe essere una licenza su base volontaria da parte delle aziende farmaceutiche che permetta la produzione ad altre società. Il dibattito è comunque molto più complesso di così e si ramifica in tutti i brevetti che possono esserci dentro un solo vaccino, nelle norme per gli stabilimenti industriali, negli accordi e le collaborazioni tra case farmaceutiche (Sanofi e Novartis si occupano dell’imballaggio e del confezionamento dei lotti di Pfizer e BioNTech, per esempio), nelle autorizzazioni in arrivo per altri vaccini.

·        27 anni dalla morte di Ayrton Senna.

Ayrton Senna, "le sue ultime ore di vita". A 27 anni dalla morte a Imola, la sconvolgente confessione del medico. Libero Quotidiano l'1 maggio 2021. Ayrton Senna moriva il 1° maggio 1994, dopo un incidente nel GP San Marino di F1, a Imola. Il ricordo di Giovanni Gordini, 67 anni, all'epoca responsabile del 118 di Bologna e oggi direttore della Rianimazione e del Dipartimento emergenza, è raccolto dalla Gazzetta dello Sport. "Ero in giro per il circuito. Mi ero diretto in tribuna centrale per controllare l’incidente tra JJ Lehto e Pedro Lamy alla partenza, dato che diversi detriti delle monoposto erano volati in tribuna, compresi alcuni pneumatici. Pochi minuti dopo mi è arrivata la voce via radio di Mauro Sacchetti (allora coordinatore sanitario del 118 che operava quel giorno al circuito del Santerno, ndr) con tre chiare parole: “Senna, incidente Tamburello”. Ero anche un po’ preoccupato, dato che quella curva evocava spesso botti dannosi come quello di Gerhard Berger nel 1989, bloccato nella sua Ferrari in fiamme e salvato grazie all’intervento tempestivo degli uomini del servizio antincendio. Così ho preso il mio motorino medico e mi sono diretto al Tamburello”, spiega Gordini. “Sono arrivato qualche minuto dopo il medico della F1, Sid Watkins. Senna respirava ancora autonomamente ma era entrato in coma: aveva perso molto sangue dalla ferita sopra all’occhio destro, oltre ad avere una frattura alla base del collo per colpa della sospensione che si era staccata dalla sua Williams. Le manovre di rianimazione erano già iniziate, ma lui non dava nessun segnale di vita. Capimmo tutti subito la gravità della situazione e decidemmo di fare scendere l’elicottero in pista per portarlo all’ospedale Maggiore", svela Gordini. "Sull’elicottero continuava a respirare ancora con il ventilatore meccanico polmonare. Il suo cuore ha anche subito un rallentamento del battito ma siamo riusciti a farlo ripartire. Abbiamo portato subito Senna nell’emergency room del pronto soccorso.  Eravamo in 10 ad assisterlo. Dalle prime immagini abbiamo capito quanto la situazione fosse critica, la conferma l’abbiamo avuta poi con l’elettroencefalogramma: era piatto, il suo cervello non rispondeva agli stimoli elettrici. L’emorragia era troppo grande e diffusa per colpa sia della lesione al lobo frontale destro che della frattura alla base del cranio. Ricevendo poco sangue, il cervello di Senna si è spento andando in quello che noi definiamo silenzio elettrico. Posso assicurarlo, le abbiamo provate tutte, ma non c’è stato nulla da fare. Con la morte celebrale di Senna e dopo che il suo cuore ha smesso di battere, ci siamo trovati di fronte a un altro arduo compito: dare l’annuncio della morte ai tantissimi presenti all’ospedale”, conclude Gordini.

F1, Ayrton Senna: il salvataggio di Erik Comas durante il GP del Belgio del 1992. Ilaria Minucci l'1/05/2021 su Notizie.it. Il pilota brasiliano Ayrton Senna, morto il 1° maggio 1994, salvò il collega francese Erik Comas durante un incidente avvenuto al GP del Belgio del 1992. Il 1° maggio 1994, il pilota di Formula 1 Ayrton Senna rimase ucciso in un drammatico incidente mentre gareggiava sul circuito di Imola, durante il GP di San Marino. Dal giorno della tragedia, sono ormai trascorsi 27 anni: il pilota brasiliano, però, è passato alla storia come una delle più grandi legende della F1, continua ad essere ricordato e omaggiato in ambiente sportivo non soltanto per le sue qualità professionali ma anche per la sua umanità e per il suo coraggio. In questo contesto, infatti, si inserisce l’episodio risalente al GP del Belgio del 1992, in occasione del quale Ayrton Senna salvò la vita del pilota e collega francese Erik Comas, sfidando ogni pericolo. Nella giornata di venerdì 28 agosto 1992, Ayrton Senna stava percorrendo a bordo della McLaren il circuito di Spa Francorchamps per le prove libere del Gran Premio del Belgio. L’intento principale del pilota brasiliano consisteva nel trovare il giusto assetto in vista delle imminenti qualifiche. Giunto quasi alla conclusione della sessione, tuttavia, Ayrton Senna si imbatté improvvisamente in un grave incidente avvenuto sul circuito che aveva coinvolto la Ligier del collega Erik Comas, rimasta bloccata al centro della pista con il motore acceso. Il pilota francese, intanto, era svenuto e si trovava avvolto in una densa nuvola di fumo. A bordo della sua auto, Ayrton Senna aveva raggiunto la Ligier a grande velocità ma riuscì a evitare l’impatto e a decelerare rapidamente per poi accostare. Subito dopo, uscì dalla sua monoposto e si diresse verso Comas: nonostante l’elevato rischio di esplosione dell’auto, Senna spense il motore e soccorse il pilota francese incosciente, salvandogli la vita. La vicenda è stata raccontata dallo stesso Erik Comas che ha deciso di ricordare il pilota brasiliano con le seguenti parole: “Non era soltanto un pilota straordinario ma anche un uomo straordinario. Mi ha salvato la vita nel 1992 a Spa-Francorchamp quando la mia macchina ha colpito le barriere. Avevo perso conoscenza, Ayrton se ne accorse subito, si fermò, cercò di tagliare i circuiti elettrici della mia macchina. A quel tempo c’era un grosso rischio di esplosione. C’era molto olio fuoriuscito dall’auto. È vero che quel giorno ha mostrato un coraggio incredibile perché c’erano altre vetture in arrivo anche se rallentate dalle bandiere rosse. Per me è stato un atto eroico, ma per lui è stato quasi un atto civico e normale”. Circa due anni dopo l’incredibile salvataggio, tuttavia, il brasiliano Senna perse la vita durante il GP di San Marino del 1994 e, ad assistere alla morte dell’uomo, fu proprio Erik Comas. Il pilota francese, infatti, era rimasto bloccato ai box per tre giri a causa di alcune riparazioni mentre sul circuito di Imola si consumava l’incidente mortale che coinvolse la monovolume di Ayrton Senna.

Nonostante la situazione in atto sulla pista, la squadra francese non ricevette alcun tipo di comunicazione e nessuno impedì la ripartenza di Comas che raggiunse ad altissima velocità il luogo della tragedia, riuscendo però a frenare quasi a ridosso del drappello di soccorritori che stavano tentando di salvare il pilota brasiliano. La tragedia e il conseguente rilascio di una sanzione nei confronti di Comas stabilita dalla Federazioni per la sua condotta portò il pilota francese ad abbandonare la Formula 1 alla fine della stagione. Ci vollero, poi, dieci anni prima che Erik Comas riuscisse a ripresentarsi in pubblico e a parlare apertamente dei drammatici eventi che caratterizzarono il 1° maggio 1994. A questo proposito, infatti, il francese ha ricordato: “Sono arrivato e tutti soccorritori erano già lì. Ayrton era sdraiato. Ho fermato la macchina, mi sono tolto il casco e volevo avvicinarmi. Ma commissari mi hanno impedito di farlo. Sappiamo che in quel momento Ayrton era già tra la vita e la morte e secondo me stava proprio morendo. Ho avuto un’incredibile sensazione di paralisi. Sono un cristiano ma non un praticante, ed è vero che quel giorno ho sentito qualcosa di enorme, come un’onda intorno al suo corpo, paralizzante e molto forte. Vedere l’uomo che mi ha salvato la vita andarsene due anni dopo è stato molto difficile e mi ci sono voluti 10 anni prima di poterne parlare”.

Ilaria Minucci. Nata a Napoli il 16 marzo 1992, consegue una laurea triennale in Lettere Moderne, una magistrale in Scienze storiche indirizzo contemporaneo presso l'università "Federico II" di Napoli e il diploma ILAS da Graphic Designer. Ha partecipato a stage di editoria e all’allestimento di fiere del libro con l’associazione "Un'Altra Galassia". Attualmente collabora con Notizie.it.

·        27 anni dalla morte di Moana Pozzi.

Silvia Maria Dubois per corriere.it il 2 ottobre 2021.

La matematica, il clavicembalo e la fuga a Roma. Il suo nome era uno scivolo morbido di vocali, pronto a terminare la sua corsa nella taglia numero sei del suo seno, ma pure con il rischio di schiantarsi nello sguardo serio dei suoi occhi intelligenti. Moana. Per la precisione Anna Moana Rosa Pozzi: uno dei misteri più affascinanti del cinema a luci rosse (quando il porno era ancora un mondo sotterraneo e le videoteche avevano quella tenda nera che copriva le cassette vietate) terminato il 15 settembre 1994. Che stanotte, su Cine 34, un documentario «Moana Pozzi, storia di una diva» prova a raccontare, alle 2.15. Ma ecco alcune curiosità su di lei. Nata a Genova il 27 aprile 1961, figlia di un fisico nucleare e di una casalinga, seppe mescolare quei due mondi dentro di sé senza troppi squilibri: la madre spazzava la polvere dai pavimenti, il padre ne studiava la parte radioattiva. Moana, in mezzo, studiò e tanto: il liceo scientifico prima, il conservatorio poi. Le sue esibizioni di chitarra e clavicembalo devono essere state affascinanti. Ma Moana ebbe voglia di andare oltre: a 18 anni lasciò la famiglia per trasferirsi a Roma. Non dopo aver seguito i genitori nei tanti posti del mondo dove il padre veniva trasferito per lavoro: Brasile, Canada, infine Lione. Una città a cui Moana si affezionò in modo particolare, dove forse si sentiva sicura e anonima, e dove decise di vivere i suoi ultimi giorni: come fanno certi animaletti che si nascondono per morire, scegliendo un posto lontano ma conosciuto. 

Gli esordi (già un “po’ porno”). Estate 1980, camera da letto della Reggia di Caserta: è lì, in mezzo alla storia borbonica, che Moana scopre il seno davanti alla telecamera, per la prima volta. Senza troppi problemi, sicura del proprio corpo, nutrita di una certa dose di libertà post sessantottina che le cresce dentro. Si tratta di un cortometraggio, “Smorza ‘e llights ovvero Caserta by night”, di Arnaldo Delehaye, con Renzo Arbore. Ma l’ingresso “ufficiale” nella pornografia di “Serie A” avverrà solo sette anni più tardi. In mezzo, Moana, sembra quasi divertirsi a tirare la corda, calibrando uscite osè a lavori più istituzionali. A Roma si mantiene facendo la modella, con piccole parti nelle commedie italiane, che vivono la loro stagione più florida. Ma Moana osa troppo: nel 1982 le viene affidata una grande occasione, quella di condurre un programma per bambini su Rai 2 (“Tip Tap Club”), ma contemporaneamente si intensificano le sue presenze nei film proibiti, con scene sempre più hot. A nulla le servirà la sfilza di pseudonimi usati in quegli anni (Margaux Jobert si alternava a Linda Heveret): beccata dai dirigenti Rai, fu allontanata dal programma. Lì, il pubblico, inizio ad interessarsi a lei.

Fantastica Moana. È il 1987, l’esordio nei cinema è frontale: una pellicola con il suo nome, la regia di Riccardo Schicchi, un contratto con l’agenzia Diva Futura. Con “Fantastica Moana” si celebra il battesimo di fuoco di quella che sarà ricordata come la più grande pornostar italiana. Da lì, l’agenda della bionda genovese, non avrà più un giorno libero. “Moana la bella di giorno”, “Cicciolina e Moana Mondiali” sono solo due delle pellicole diventate cult, e cucite addosso alla fortissima personalità dell’attrice. Il mito in quegli anni sale di giorno in giorno: le tv se la contendono, i giornali la seguono, al pubblico piace pensare alla rivalità con Ilona Staller (i protagonisti del porno in quel periodo strategico diventano sempre più pop, hanno finalmente un volto e una vita extra, come dimostra anche il caso di Rocco Siffredi). Moana accontenta tutti: non risparmia ospitate nei salotti tv e nei primi, scandalosissimi “Erotik Festival” in terra italiana, incisioni musicali (“Mi sono rotta lo sai”; “Supermacho”), un libro sulle sue conquiste di letto che inguaia non poco personaggi istituzionali, come l’allora segretario del Psi Bettino Craxi. Il gioco delle ambiguità è un crescendo: nell’Araba Fenice, nel 1988, parla vestita solo di cellophane, scoppia il famoso caso della “rivolta delle casalinghe”, una sua lunga intervista a Baudo resta negli annali. Blob la manda in onda a più non posso. Censura permettendo. Lei stessa dirà più volte: “Il mio è un erotismo consapevole. Faccio all’amore e mi diverto. Ho fatto quello che volevo”. 

La politica. Un cuore rosa, dentro una foto stilizzata di Moana. È il simbolo del Partito dell’Amore, fondato da Riccardo Schicchi e Mauro Biuzzi: nato all’inizio degli anni Novanta, vide un passaggio di testimone proprio fra le due antagoniste dell’hardcore, Cicciolina-Moana. La prima aveva già avuto la fortuna di entrare in parlamento con i Radicali, la seconda, meno fortunata, scese in campo per le elezioni politiche del 1992 e poi per le amministrative nella capitale. Nonostante i punti “seri” del suo programma (lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata) rispetto a quelli precedentemente sostenuti dalla collega (creazione di parchi dell’amore, legalizzazione delle case chiuse), non riuscì ad arrivare all’elezione. Ma Moana prese più voti (12.393 nominali) di Umberto Bossi e Francesco Rutelli. La sconfitta fece virare ancora di più il programma verso temi più seri e sempre meno scandalistici. Moana organizzava direttivi nella sua casa romana, metteva soldi di tasca propria (il partito aveva perso il diritto al rimborso elettorale), ci credeva. Il partito, sebbene trafitto dalle sconfitte elettorali, morì con la scomparsa di Moana. Anche se per un certo periodo lo ressero Biuzzi e la mamma dell’attrice, sostanzialmente per difenderne l’immagine, anche in tribunale. 

La morte, tutto un altro film. “Moana è viva!” Moana è viva!”. Sembrano visioni. Con regolare periodicità una voce che non si arrende, si leva da qualche giornale, pronta a giurare che Moana esiste, si nasconde da qualche parte del mondo, come uno di quegli ex leader pronti a tornare al momento giusto. Voci pronte ad alimentare il mito, e a far male alla famiglia. Moana è morta all’Hotel-Dieu di Lione il 15 settembre 1994, dove era ricoverata da mesi. La sua morte è ufficialmente dovuta ad un tumore al fegato, ma si parla anche di epatite cronicizzata. E qui inizia un altro film, l’ultimo di Moana: la sua morte, a soli 33 anni, è ancora fonte di misteri. Dai più neri, come l’ipotesi di essersi spenta a causa dell’Aids a quelle più colorate (viva, felice, al caldo). A posteriori, tutti hanno qualcosa da dire: chi se la ricorda emaciata nelle ultime ospitate, chi la vedeva sempre più triste, chi ha letto spiegazioni nuove in sue vecchie dichiarazioni. La verità è che il pubblico ha bisogno di ricordare un personaggio che ha segnato un’epoca: una ribelle, sensuale libera, elegante e intelligente. Quasi ossimori se cuciti addosso ad una donna, fino a pochi decenni fa. 

Introduzione a “Moana”, di Marco Giusti, Mondadori, 2004. Dagospia " il 27 aprile 2021. Svanito come un fiocco di neve, il corpo bianco di Moana ripercorre da fantasma i nostri anni Ottanta. Piccola Marilyn martirizzata ed esaltata dal porno, inutilmente santificata dai media, icona femminile di desideri creativi e di desideri puri, bassi e chiari, impone nel cinema il suo corpo-macchina sessuale e in tv la sua testa, magnificamente pensante. Più di tante star grandi e piccole del nostro schermo, Moana progetta razionalmente il suo mito e chiude drammaticamente la sua glorificazione, lasciandoci il suo grande corpo bianco, incontaminato e perfetto. Nella sua breve vita, Moana tocca o è toccata da tutti i personaggi illustri che danno vita all’Italia di fine Novecento. E’ una galleria di celebrità che Moana colleziona amorosamente e dalle quali è a sua volta collezionata. Si parte da Fellini, ovviamente, che la vuole corpo racchiuso dentro mille schermi nello schermo del suo film sulla tv, Ginger e Fred, che la ridisegna come sogno dentro altri sogni, pronto poi a ridurla, a tagliarla, a escluderla dalla totalità di un’opera già così parcellizzata e moribonda (l’agonia del cinema dentro la tv… l’agonia di un’Italia come sarà dopo trent’anni di dominio televisivo, cioè oggi…). E’ ancora Fellini, e il suo cartellone dell’Eur con Anita Ekberg gigantesca in Boccaccio ’70, che viene parodiato nella prima scena del primo hard ufficiale con il nome sul titolo della neo pornostar, Fantastica Moana, dove il suo grande corpo latteo, volutamente ekberghiano, prende vita proprio come un fumetto. Sfregio e omaggio al maestro, come vuole il mondo parallelo dell’hard, ma anche piccolo sfruttamento dell’universo felliniano per il lancio definitivo della nuova diva. Si passa poi a Craxi, il più potente politico italiano degli anni Ottanta, e quello che cadrà con più rumore di tutti, l’amante velato e svelato che la porta in televisione e cerca di aiutarla nella sua scalata verso l’eternità. Anche Craxi verrà moanizzato quando si tratterà di elencare i nomi degli amanti celebri, il “politico anonimo”, troppo nascosto e quindi massimamente esibito. Ma pensiamo anche a Mario Schifano, che la introduce nel suo studio da amica, Mimmo Rotella, che ne ritaglia il corpo dai manifesti dei suoi hard intuendone la grandezza da star, prima della santificazione, Sylvano Bussotti, che la espone alla Biennale come “musica del corpo”. E ancora i grandi comici italiani degli ultimi trent’anni, Massimo Troisi, forse qualcosa in più che uno dei duecento amanti e del quale cerca in tutti i modi di non raccontare troppo, Roberto Benigni, che la fa ridere, Beppe Grillo, Carlo Verdone, che la immortala sirena in Borotalco. Ma non sarebbe Moana se non apparisse contemporaneamente anche nel cinema delle pratiche basse dei comici del tempo, cioè assieme a Alvaro Vitali, Andrea Roncato, Lino Banfi, Bombolo, non ancora parodia di se stessa, ma corpo-presenza da rintracciare come una reliquia dopo la sua scomparsa in film che lei ha sempre detto di odiare. Commediole che la vedono nuda fra le tante, mai Moana. Per arrivare a quello avrà bisogno di dell’inferno dell’hard e di partner che, pur attraversandola in ogni parte del corpo, non le offuscheranno il primo piano da star come un qualsiasi comico degli anni Ottanta. Sfida anche il calcio, logicamente. Amante di Tardelli nella realtà, velina opinionista nel fondamentale “Appello del martedì” di Italia 1 condotto da Maurizio Mosca, parodia scatenata del “Processo del lunedì” di Aldo Biscardi e suo superamento spettacolare, poi vero corpo erotico assieme alla rivale Cicciolina nell’unico hard dedicato all’Italia dei Mondiali, Cicciolina e Moana ai Mondiali, dove le parodie oscene di Biscardi, Maradona e Montezemolo diventano corpi attivi nella flagranza del cinema hard. Del resto Moana attraversa l’alto e il basso, la verità e la parodia anche in pubblicità, ragazza della Saiwa e “donna più bella del mondo” dei folli spot dei mobili di “nonno” Ugo Rossetti, nella politica, candidandosi nel Partito dell’Amore e incontrando sul serio le star del nostro giornalismo come Indro Montanelli. E, ovviamente, in televisione, dove passa da icona nuda dello scandaloso “Matrjoska” di Antonio Ricci su Italia 1 a star erotica delle private, a opinionista delle grandi trasmissioni di Rai e Mediaset, intervistata da Pippo Baudo, Giuliano Ferrara, Maurizio Costanzo, da “Mixer” e da “Samarcanda”. Porta nelle reti nazionali la flagranza del corpo dell’hard senza turbarci con le esibizioni maniacali e reali del porno. Riporta nell’hard la figura nazionalpolare della diva del salotto televisiva che solo il suo pubblico affezionato vede in azione con Rocco Siffredi e Ron Jeremy. Al suo meglio Moana attraversa i due mondi del salotto borghese e della latrina del porno riuscendo a usarli entrambi per la sua ascesa mistica e, contemporaneamente, a starne fuori come se fosse sempre l’ospite più gradita che potete avere al massimo per una sera. Solo Sabina Guzzanti ne frena la forza parodiandola da un corpo esterno, quello del comico appunto, che ne mette in discussione la verità, catturandone l’aspetto più normalizzante della star, quello sessual-pedagogico dell’esperta televisiva. Logico che Moana la rifiutasse, svelando Sabina Guzzanti l'ossessività dell’operazione che Moana conduceva su se stessa nella sua marcia verso l’essere Moana, cioè la costruzione di un corpo-mito, che poteva essere autoparodiato, ma non parodiato da altri, perché con la risata ne venita minata la logicità. Moana, per tutta la vita, e perfino con la propria morte, ha sempre cercato maniacalmente di costruire oltre che il proprio corpo, base del mito, la propria funzionalità logica. Il rapporto col suo corpo non è meno ossessivo di quello con la propria testa, almeno analizzando i suoi discorsi in tv e sui giornali. Moana è sempre presente a se stessa, non dice mai sciocchezze, parla non l’italiano della tv ma un italiano complesso e perfetto, non adatto a una star del porno, anni luce lontano dal cicciolinismo anni Settanta di Schicchi-Staller. L’ultimo suo interesse, magari, è proprio quello verso il sesso, che lei adopera sempre come un mezzo per costruire Moana, mai per se stesso. La più pagata delle star italiane dell’hard è in realtà una delle meno “brave” sulla scena. Lo dicono tutti i suoi registi. E non riesce a sfondare internazionalmente come Cicciolina. Perché è una star di testa e di parola. E’ una star pensante e ragionante, sempre presente a se stessa, mai abbandonata alla deriva del cinema o della televisione. Costruzione impossibile dentro quel corpo, dentro quel cinema e quella televisione. Moana ci ha attraversato rapidamente, ha toccato i nostri occhi e la nostra testa, prima di colpirci al cuore con la propria morte. E’ l’unica diva italiana, di tutto il nostro cinema, che ci ha eccitato con la razionalità e ci ha fatto piangere col proprio corpo. Puntava a farci capire come era e non come era fatta. Moana non è un corpo o una testa, è “il punto dove il mare è più profondo”.

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” " il 27 aprile 2021. Domani avrebbe compiuto sessant' anni. Ed è difficile immaginare come sarebbe diventata, perché gli eroi son tutti giovani e belli, e lei era bella ed era anche un'eroina, a suo modo, Fantastica Moana, sogno erotico di padri e di figli, perfino capolista del Partito dell'Amore alle politiche del 1992 (pensava davvero di fare i raid negli ospedali per vedere se le cose funzionavano) e audace candidata alle amministrative di Roma l'anno successivo. La madre Rosanna Aloisio raccontò tutt' altra figlia, nei giorni della morte, avvenuta il 15 settembre del 1994 all' Hôtel-Dieu di Lione per un tumore al fegato. Le leggevo Sant' Agostino, disse a Epoca, e quando mi interrompevo mi chiedeva di andare avanti perché la faceva stare bene. Aggiunse che aveva chiuso gli occhi con il rosario tra le dita e che uno degli ultimi pensieri fu per i nonni: «Ci rivedremo tutti insieme in paradiso, li andrò a cercare appena arrivo. Speriamo si possano mangiare anche lì gli agnolotti al vino». Non che non fossero mancati gli scontri con una figlia che era la nemesi di una famiglia super cattolica, scuola dalle Orsoline e dai Padri Scolopi, clavicembalo e chitarra classica al Conservatorio, papà ingegnere nucleare impegnato nel volontariato. E invece Anna Moana Rosa Pozzi, con quel nome che in dialetto polinesiano significa «il punto dove il mare è più profondo», ha fatto la storia del porno. Rivendicandone la scelta, sempre con eleganza. E guadagnandosi la stima di insospettabili intellettuali come Enzo Biagi, che facendo un parallelo con i ladri di Tangentopoli scrisse: «È più rispettabile una persona che dà del suo in confronto a chi si appropria di ciò che è di altri». «Vorrei essere eterna, vorrei non finire mai, essere sempre così... Sarebbe una cosa meravigliosa», rispose lei in una delle tante interviste, frasi testamento raccolte da Marco Giusti in Moana, pubblicato nel 2004 per Mondadori. Eterna lo è diventata, un po' come Marilyn o James Dean, Amy Winehouse o Paul Walker, eroi tutti giovani e belli. E se sentirne il nome ci riporta subito alla mente le sue onde bionde e il sorriso liquido, forse è proprio perché non è mai voluta essere diversa da come era. Con Pippo Baudo ammise: «Non sono pentita. Ne parlavo con mia madre pochi giorni fa. Le dicevo: mi dispiace che ti dispiaccia, ma rifarei tutto quello che ho fatto».

·        27 anni dalla morte di Giulietta Masina.

Notizie tratte da: M. C. Boratto, "La cartomante di Fellini" (Ed. Baldini+Castoldi), selezionate da Giorgio Dell’Arti e pubblicate da “il Fatto quotidiano” l'8 luglio 2021. Sigarette. Fellini fumava sessanta sigarette al giorno, Mastroianni sessanta, Visconti ottanta. Strada. "Ci si lavava in cucina, in una tinozza, a pezzi, mio padre faceva il falegname. Aveva una botteguccia. Mi mandavano nei negozi a chiedere cibo a credito. I miei genitori erano così poveri che non si preoccupavano affatto del mio futuro. Mi iscrissero all'Istituto industriale, sarei potuto diventare un operaio specializzato e forse un geometra. Non ho mai studiato greco, latino, né filosofia, m'innamoravo di scarpe che non potevo comprare, e andavo a letto col maglione per il gran freddo che si pativa in casa. L'infanzia l'ho passata con gli amici per strada e dopo non riesci più a stare solo, questo spiega il mio attaccamento al lavoro. Quando non sono occupato giro come un lupo, vado a cercare mio fratello, il mio sarto. E a cena ho sempre amici intorno, e nel letto deve esserci una donna. Sarà perché da ragazzo dormivo con mamma, mio padre stava da solo, la brutalità della miseria consuma ogni legame. Eppure, quando ho vicino la donna che amo, divento più intelligente e mi sento anche più ricco" (Mastroianni). Fregene. A Fregene, casa Fellini era bianca con le finestre verdi. Ci si accedeva seguendo un viottolo di travertino che attraversava il giardino. Gli alberelli, il prato verde, i gatti in attesa, i fiori delle aiuole.

Gatti. Nomi dei gatti di Fellini: Baffetto, Caterina e Marina. 

Omo. "Ma che sei 'n omo tu? Sei 'n omo tu che non me tocchi da otto anni? O sei uno che se fa tutte, ma proprio tutte l'artre? Pensi che nun te vedo? Non fai che maneggià le chiappe di questa e di quella! Che deve fa' 'na poveraccia come me? Che me ne frega che tu sei un artista, se sei solo 'na parvenza d'omo ? A me non m'incanti, sai? Dove sei stato a arzà porvere? Dimmelo!". 

E poi: "Infame! Perché te sei ridotto così? Perché quando l'ho sposato me voleva bene, sapete? Era normale, allora! Adesso è un mezz'omo" (Giulietta Masina a Federico Fellini, durante un pranzo a Fregene). 

Albergo. Quel giorno che Fellini tentò di andarsene di casa. Per prima cosa andò al cinema, poi entrò in un grande magazzino, e ancora in un caffè-ristorante, ma poi non era riuscito a sopportare l'odore dolciastro del corridoio e della stanza dell'albergo che aveva prenotato. Sconfitto, era tornato la sera stessa da Giulietta.

Eccitante. "Niente è più eccitante che frequentare la moglie casta di un genio" (Salvato Cappelli, fedele uomo di compagnia di Giulietta). 

8 1/2. "Alla prima mondiale al cinema Fiamma gli invitati erano selezionatissimi, la sala non era colma, e non ci furono grandi applausi. Federico era arrivato sottobraccio a Giulietta e insieme ad Anouk Aimée.

Marcello Mastroianni al braccio di Flora Carabella e Rossella Falk, la migliore amica di Flora. Michelangelo Antonioni e Monica Vitti alla fine del film si alzarono silenziosi e quasi indispettiti. Vittorio Gassman, in compagnia di Annette Strøyberg, si guardava intorno un po' incredulo che il film mescolasse la caoticità del presente, i fantasmi del passato e le visioni deliranti del futuro. Anna Magnani aveva al suo fianco un' amica e commentò con una sola parola: 'Tosto!'".

Bugie. "Federico sembrava sempre dover pagare per colpe che non aveva commesso" (Anna Giovannini, amante di Fellini). 

Mattatoio. I volti più significativi del Satyricon vennero scelti ai Mercati Generali e al Mattatoio. 

Jung. "Sai che dice Jung? Che la nostra vita è un esperimento di esito incerto" (Fellini).

Dagospia il 3 magio 2021. Estratto da “La Cartomante di Fellini - L’uomo, il genio, l’amico”, di Marina Ceratto Boratto, ed. Baldini+Castoldi. All’improvviso si attaccò a una misteriosa bottiglia con l’etichetta di un frantoio. Finsi di non vedere, aiutandola a portare i piatti a tavola…. Giulietta mi impedì di tornare in sala da pranzo. Continuava a tossire e a fumare. E riprese a raccontare. «Sai che appena sposata con Federico e incinta, so’ caduta giù dalle scale? Ho abortito. Poi e arrivato Pier Federichino, vissuto solo tre settimane... poi, poi... per lui, nun so’ esistita più, intendo come donna... te rendi conto? Sembrava un marito tanto devoto invece ha cominciato ad andare in camporella.» Non mi piaceva la piega che stava prendendo la serata. «Guarda Giulietta che è un marito affettuoso, dice su di te cose sublimi.» «Ma va là, ma a chi la racconti?» Come rassicurarla, nel silenzio spiccava il ticchettio di una sveglia, messa lì forse per la cottura dei suoi piatti. Dopo circa un quarto d'ora Federico fece il suo ingresso trionfale festeggiato da tutti. Tutti tirammo un sospiro di sollievo, avrebbe ripreso con il suo stile e la sua autorità il controllo della situazione. «Chi ha telefonato  Giuliettina? Non hai fatto le polpette, sai che mi piacciono tanto…» chiese mellifluo e aggiunse: «Ah, questo film, quanti problemi!»  «Ndò sei stato Ninì?» gli domandò lei, senza rispondergli. «Per un piccolo sforamento del badget sono stato a parlare tutto il tempo con Fracassi, pessimista ma risolutivo come sempre», replicò soffiando ansia per troppo lavoro e aggiunse: «Qualcosina mangiucchio, forse solo la carne e il dolce! Che begli amici, che allegra brigata, raccontatemi tutti qualcosina di voi! Che bello ritrovarvi. Come sei in forma, Caterina! Ciao Marina bella! Lucia, che occhi magnifici da assassina». «E già, eri con Fracassi o co `na mignotta, Ninì? Torni sempre con gli occhi bassi sul piatto e te metti a mangià e non dici mai niente di dove sei stato. Ma in realtà hai già mangiato...» continuò ostinata. Arrossimmo tutti. «Su, Giuliettina, sai che è un film complesso, ho continue grane. Rogne spaventose con Rizzoli. Devo elencarti tutte le difficoltà, giorno per giorno? Dovresti essere contenta che te ne tengo fuori, te le evito, vivi qui beata, fra boschi e ruscelli, in compagnia dell'ottimo Salvato. E voi invece cosa avete fatto, avete sparlato del sottoscritto?» Mentiva o diceva la verità sulla sua serata fuori casa? Lucia ci aveva avvertito che era un bugiardo congenito, comunque nessuno dei presenti voleva indagare, desideravamo solo che tornasse un po' di pace e leggerezza. Era uno spettacolo triste vedere una moglie sbottare a quel modo. Non immaginavamo certo che lei e Federico fossero due sposini in viaggio di nozze, ma che fossero a questo punto, mai. Poi Giulietta, quasi con gli occhi iniettati di sangue, si scagliò a parole contro Federico, dimostrando un temperamento degno di una popolana di Roma e un talento drammatico superiore a quello della Magnani. «Ma che sei 'n omo tu? Sei 'n omo tu che non me tocchi da otto anni? O sei uno che se fa tutte, ma propri tutte l'artre? Pensi che nun te vedo? Non fai che maneggià chiappe di questa e di quella! Che deve fa 'na poveraccia come me? Che me ne frega che tu sei un artista, se sei solo 'na parvenza d'omo? A me non m’incanti, sai? Dove sei stato a arzà porvere? Dimmelo!» Stranamente Giulietta non tossiva più. Guido Alberti si alzò da tavola e si schiarì la voce, sembrava un tribuno: «No, vi prego non fate così, dovete andare d'accordo, avete dato dei capolavori al cinema mondiale e ne darete altri, così ci rendete infelici stasera, dovete far pace, perché voi due... voi due siete immensi... siete entrambi una risorsa per il mondo», Fellini si alzò e abbracciò Guido. «Guidone che farei senza di te?» Ma Giulietta continuò imperterrita. «Infame! Perché te sei ridotto così? Perché quando l'ho sposato me voleva bene, sapete? Era normale, allora! Adesso è un mezz'omo.» Federico sembrava accettare rassegnato tutto ciò che usciva da quella bocca, rimproveri e insulti, ossessionato dai complessi di colpa o forse altrove, serafico.  

"Mia zia Giulietta Masina, la Charlot in gonnella che piaceva a Clark Gable". Il centenario di Fellini ha prodotto film e libri. Quello della moglie rischia di passare in silenzio. Paolo Scotti - Lun, 22/02/2021 - su Il Giornale. All'ombra del Genio. Destino inevitabile: ancora una volta la monumentalità di Federico fa velo alla grandezza di Giulietta. E oggi perfino il centenario della nascita della celebre attrice (22 febbraio 1921) rischia di rimanere offuscato da quello, celebrato solo un mese fa, del glorioso marito. «Pochissimi ne parlano conferma Francesca Fabbri Fellini, figlia della sorella di Federico, Maddalena, e unica erede diretta del regista -. Eppure Giulietta è stata colei cui Chaplin disse: Lei è Charlot in gonnella». Al ruolo di esperta della leggendaria coppia, la Fabbri Fellini giornalista, scrittrice e regista del delizioso corto Fellinette, oltre che curatrice del Fellini Magazine unisce il raro privilegio di aver conosciuto intimamente i due: «Gli zii furono miei padrini di battesimo. Loro, che erano senza figli, mi amavano in modo tutto speciale».

Sempre un passo dietro Federico, che pure la portò in palma di mano. È stato questo il destino di Giulietta?

«Forse sì. Lui esaltò la grandezza di lei con capolavori assoluti come La strada o Le notti di Cabiria. Poi però gli altri registi avevano una specie d'imbarazzo a proporre film alla moglie di Fellini. Eppure, la sera dell'Oscar a Le notti di Cabiria, quando lei timidamente chiese l'autografo al suo mito Clark Gable, si sentì rispondere: Stasera sono io che devo chiederlo a te».

E poi «la moglie di Fellini» dimostrò quel che valeva anche con altri grandi registi.

«Certo: Rossellini, Lizzani, Castellani Per tacere dell'enorme popolarità dei suoi sceneggiati tv degli anni 70, Eleonora e Camilla. E dire che all'inizio le facevano fare solo la prostituta patetica: ne interpretò cinque di fila! Poi però anche le colleghe ne riconobbero il talento: sul set di Nella città l'inferno la rivalità con Anna Magnani fu tale che, in una scena di finti schiaffoni, Nannarella la picchiò davvero, strappandole il vestito e lasciandola seminuda. Quando zio Federico lo seppe Ma sai - sospirò - Anna è fatta così...».

Come donna com'era?

«Piccola di centimetri ma enorme di cuore. Con Danny Kaye fu la prima Ambasciatrice di Buona Volontà dell'Unicef. Aveva perso il suo unico figlio Pierfederico, di appena undici giorni: questo l'aveva resa ancora più sensibile. Era una donna di fede: andava sempre a Messa, dove incontrava la mamma di Pupi Avati. Era generosa, concreta: ispirava una fiducia istintiva. Le sue risposte agli ascoltatori di una rubrica radiofonica, prevista per 15 giorni e che invece durò tre anni, divennero un best-seller: Il diario degli altri. Non era una vip: faceva la spesa al mercato, indossava scarpe senza tacchi, i capelli se li lavava da sé. E preparava da sé le tagliatelle al ragù per il suo Federicone».

E come attrice a quale delle sue memorabili eroine Gelsomina, Cabiria, Giulietta, Ginger - fu più legata?

«Amò la Gelsomina della Strada tanto da chiedere che al suo funerale suonassero l' assolo di tromba del film, composto da Nino Rota. Cosa che avvenne. Ma su tutte preferì Cabiria, perché le somigliava. Positiva, battagliera, coraggiosa. Non amò molto, invece, Giulietta degli Spiriti: Mi è sempre stata antipatica disse -. Non mi piacciono le mogli succubi dei mariti. Io non sono mai stata sottomessa a nessuno».

Eppure sopportò le numerose infedeltà di Fellini. Addirittura che lui le raccontasse: in Giulietta degli Spiriti l'episodio di lei che fa pedinare e fotografare il marito fedifrago era reale, accaduto proprio a loro.

«Vivere accanto ad un genio è difficile. Se accetti di farlo sai che può significare anche questo tipo di sacrifici. Quando le chiesero il segreto di un matrimonio durato mezzo secolo, lei rispose: Bisogna saper abbozzare. Sacrifici essenziali: sono certa che Fellini non avrebbe regalato al mondo i suoi capolavori senza l'appoggio di una donna simile. E lo zio adorò soltanto lei. Nel tragitto dalla casa di via Margutta allo studio 5 di Cinecittà fermava la macchina un paio di volte per scendere e telefonarle da qualche cabina».

Vuol dire che Federico era davvero, come ha scritto Tullio Kezich, «infedele ma monogamo»?

«Esattamente. Nessuno puntò mai una pistola alla tempia di mia zia per costringerla a restare con lui. Quel che li legava era un rapporto specialissimo: Non aver avuto figli diceva lei - ci ha reso figlia e figlio l'uno dell'altra. Come scrisse padre Arpa - il gesuita che difese La dolce vita dalle stroncature di Civiltà cattolica - Giulietta non era solo l'appoggio di Federico. Era il suo respiro».

Che ne pensa allora dei racconti di Sandra Milo, su una loro presunta storia d'amore durata 17 anni?

«No comment. A me hanno insegnato che non si dovrebbero fare affermazioni sui morti che non possono più smentirle. E aggiungo che tutte le volte che vedo questa signora apparire in tv, cambio canale».

Le ultime immagini che ha di zia Giulietta.

«La sera dell'Oscar alla carriera allo zio, con lui che davanti a tutto il mondo le dice: Per favore, smettila di piangere!. E la mano alzata di lei col rosario al polso nell' ultimo, straziante saluto ai funerali di lui. In quel momento forse ricordava le sue parole: Io sono nato il giorno in cui ho visto Giulietta per la prima volta».

·        27 anni dalla morte di Massimo Troisi.

Da ilnapolista.it il 17 ottobre 2021. Massimo Troisi raccontato da Lello Arena nel libro “C’era una volta”. L’attore ne parla nell’intervista al Fatto quotidiano. Racconta diversi aneddoti (tra cui la relazione del comico con Jennifer Beals), ne riportiamo uno quello relativo alle ragazze Coccodè della trasmissione “Indietro tutta”. “Quando Renzo era impegnato con Indietro tutta e c’erano le ragazze Coccodè, Massimo il pomeriggio si vestiva, si profumava e usciva. Cosa rarissima, perché non andava mai da nessuna parte. Tempo dopo ho capito che andava a vedere lo spettacolo proprio per le Coccodè, fino a quando un pomeriggio è tornato da noi come una specie di belva: “Che è successo?”. “Niente, non ho voglia di parlarne”.“ma che hai?”.“ho litigato con Renzo”. Noi basiti. Per il carattere di entrambi ci sembrava impossibile una discussione. Lo calmiamo e capiamo: “Non si fa così! In mezzo a quelle Coccodè ci sono tre uomini. Uno deve avvisare”. E dopo un breve silenzio ha aggiunto: “Ho fatto il cretino con uno di questi travestiti”. Nella sua ottica quello di Renzo era il tradimento di un amico. (Pausa) Anche Renzo dovrebbe scrivere un libro su Massimo, sarebbe fantastico”. 

Racconta anche la sua lite con Massimo Troisi. “La lite con Troisi nasce da un ruolo in un film… Per Le vie del signore sono finite: dopo mesi e mesi di lavoro, di studio del mio personaggio, una sera Massimo mi chiama e mi comunica che avrei avuto un altro ruolo. Non accetto. E da lì parte un meccanismo più grande di noi, con incomprensioni e voci sbagliate”.

Massimo Troisi diede la vita per Il postino. Così è morto dopo l'ultima scena. Il postino è uno dei film cardine della filmografia di Massimo Troisi. L'attore accettò di proseguire il lavoro pur sapendo che questo lo avrebbe ucciso. E così è stato. Erika Pomella - Dom, 28/03/2021 - su Il Giornale.  Il postino - che andrà in onda questa sera alle 20.55 sul Canale 34 - è uno dei film più apprezzati della storia del cinema italiano e, senza dubbio, è uno dei più amati tra quelli della filmografia di Massimo Troisi. La pellicola, che è stata diretta da Michael Radford e Massimo Troisi, è tratta dal romanzo Il postino di Neruda, scritto dall'autore cileno Antonio Skármeta. La trasposizione cinematografica del romanzo fu fortemente voluta da Massimo Troisi, che ne acquistò ben presto i diritti e chiese a Michael Radford di dirigerlo.

Il postino, la trama. La storia del film segue Mario Ruoppolo (Massimo Troisi), figlio di pescatori, dal cuore buono e gentile che attraversa un brutto periodo non avendo alcun tipo di impiego. Sulla stessa isola del sud Italia vive anche il famoso poeta Pablo Neruda (Philippe Noiret), che sul suolo italiano ha cercato riparo, vista la sua condizione di rifugiato politico. Mario ben presto diventa il responsabile della posta del poeta: ogni giorno, infatti, l'uomo incontra Neruda a cui consegna la posta, ricevendone in cambio lunghe conversazioni su poesia, scrittura e tutto ciò conta nella vita. Tra i due inizia una bella amicizia che diventerà preziosa quando Mario si innamora di Beatrice (Maria Grazia Cucinotta) e userà proprio l'aiuto del poeta per scrivere alcune poesie per corteggiare il suo grande amore. Tutto però cambia quando Neruda riceve una comunicazione dal Cile, attraverso la quale il suo governo gli fa sapere che non è più un esiliato e che finalmente può tornare a casa.

Il film per cui Massimo Troisi diede la vita. Il postino è una storia d'amore e d'amicizia, un racconto che, attraverso il "sotterfugio" della parola, narra le vicende di un uomo semplice e generoso. Tutti elementi, questi, che senza dubbio hanno cooperato a rendere l'opera di Radford e Troisi una pellicola tanto amata dal pubblico di ogni generazione. Ma forse sono gli stessi elementi che hanno colpito l'immaginazione e l'arte di Massimo Troisi, spingendolo a voler fare questo film a ogni costo, letteralmente. Michael Radford era un regista esordiente quando, a inizio degli anni '80, domandò a Massimo Troisi di collaborare in Another Time, Another Place - Una storia d'amore, in cui l'attore avrebbe dovuto interpretare un prigioniero napoletano durante la seconda guerra mondiale che si innamorava di una massaia scozzese. Tuttavia l'attore, all'epoca, non se la sentiva ancora di partecipare ad un film straniero, oltretutto con un regista ancora agli esordi. Più tardi, quando ebbe modo di vedere il film, Massimo Troisi chiamò Radford e si complimentò per la pellicola, asserendo di essersi reso conto di aver perso una grande occasione. Da allora lui e Michael Radford divennero amici. Fu quasi naturale, dunque, per Troisi domandare anni più tardi proprio a Radford di girare Il postino, ma in questo caso fu il regista a temporeggiare. Come viene raccontato nel libro L'applauso interrotto. Poesia e periferia nell'opera di Massimo Trosi, l'attore partenopeo riuscì comunque ad avere Radford tramite un piccolo inganno: gli disse, infatti, di aver offerto la regia del film anche a Giuseppe Tornatore. Con Radford nella squadra, Massimo Troisi e lo sceneggiatore Furio Scarpelli volarono a Los Angeles per ultimare la sceneggiatura. In questa occasione, l'attore si recò all'ospedale di Houston, dove era già stato operato al cuore, da ragazzo. Purtroppo, le notizie che ricevette non furono affatto positive. Scoprì di doversi operare con una certa urgenza, dal momento che entrambe le valvole al titanio che permettevano al suo cuore di funzionare si erano deteriorate. L'intervento fu molto delicato e nel corso dell'operazione Troisi subì anche un attacco cardiaco. La sua vita venne salvata dalla prontezza dei medici che riuscirono a far ripartire il suo cuore, che riprese a battere.

Questo, naturalmente, comportò una degenza molto lunga in ospedale, che si protrasse per oltre un mese e mezzo. Periodo nel quale i medici consigliarono al futuro protagonista di Il postino di sottoporsi a un trapianto di cuore, l'unica soluzione adatta per il suo problema cardiaco. Tuttavia, come racconta il sito dell'Ansa, Massimo Troisi decise di non operarsi immediatamente e di girare prima Il postino. In questo modo non avrebbe dovuto rinunciare alla possibilità di avere Philippe Noiret nei panni del poeta Pablo Neruda. Le riprese iniziarono nell'autunno del 1993 sull'isola di Procida, ma come viene ricordato dal sito dell'Internet Movie Data Base, Massimo Troisi era sempre più debole. La sua fragilità gli impediva di restare sul set per più di un'ora: il che comportava che tutte le scene che lo vedevano protagonista dovevano essere girate in non più di due riprese. La lavorazione della pellicola, quindi, cominciò a ruotare intorno alla salute di Troisi: tutto veniva organizzato in modo da essere il meno pesante possibile per l'attore, che appariva sempre più in difficoltà. Tutto ciò venne reso possibile dalla scelta di una contro figura davvero molto somigliante a Massimo Troisi, che venne usata per le riprese in campo lungo o di spalle. In qualche modo, Il postino venne completato. Dodici ore dopo la chiamata dell'ultimo ciak, Massimo Troisi si trovava nella casa di Ostia di sua sorella Annamaria, cercando di riprendersi dalle fatiche accumulate nelle undici settimane di riprese. Ma il ristoro non arrivò mai: quella stessa notte subì un nuovo infarto da cui non si risvegliò. L'attore morì a soli 41 anni, di fatto dando la vita pur di realizzare Il postino.

·        27 anni dalla morte di Domenico Modugno.

L'importanza di (non) chiamarsi Modugno. Michele Gravino su la Repubblica il 4 ottobre 2021. Il nome è Fabio, il cognome quello di Mr. Volare. Ci ha messo 25 anni per scoprire di essere suo figlio e quasi altrettanti per dimostrarlo. Ora per la prima volta si racconta. Chi ha detto che il romanzo d'appendice ottocentesco non esiste più? Il libro di Fabio Modugno, in uscita il 5 ottobre per Mondadori, avrebbe tutti gli ingredienti del genere. Un ragazzo che scopre di essere figlio di un uomo ricco e famoso. Un patrigno cattivissimo, violento e smodato come un orco. Una madre in apparenza svagata ma dalla volontà d'acciaio.

Michele Gravino per il Venerdì- la Repubblica l'8 ottobre 2021. Chi ha detto che il romanzo d'appendice ottocentesco non esiste più? Il libro di Fabio Modugno, in uscita il 5 ottobre per Mondadori, avrebbe tutti gli ingredienti del genere. Un ragazzo che scopre di essere figlio di un uomo ricco e famoso. Un patrigno cattivissimo, violento e smodato come un orco. Una madre in apparenza svagata ma dalla volontà d'acciaio. E un titolo fatto di una parola sola, una parola che non si usa quasi più e che proprio per questo ha il potere di evocare tutto un groviglio di rapporti e sentimenti: Fratellastri. Solo che la storia non si svolge nelle nebbie della Londra dickensiana ma tra le terrazze e i locali notturni della Roma Nord di 20-30 anni fa, con le sue appendici vacanziere: Panarea, Castiglioncello, Formentera... E soprattutto è una storia vera. Nel 1987 Fabio Camilli è un attore venticinquenne di buona famiglia, un po' rissoso, parecchio narcisista, quando riceve una telefonata sconvolgente: un'ex fidanzata gli dice che sta avendo una storia con l'amico comune Marcello Modugno, figlio di Domenico, e che ha notato una somiglianza tra loro due. Ma quando gliel'ha fatto notare, Marcello è andato su tutte le furie, le ha fatto giurare di non dire niente a nessuno per poi rivelarle che sì, Fabio è effettivamente il suo fratellastro. È nato da una relazione tra il grande Mimmo e una ballerina, Maurizia Calì. Entrambi erano già sposati e hanno tenuto il segreto: per tutti Fabio è figlio di Romano Camilli, potente capo ufficio stampa del teatro Sistina e marito di Maurizia, con cui ha già una figlia. Per Fabio è come scoprire "di essere figlio di Batman o di Topolino". A quel padre monumentale, già molto malato, che pure sapeva di lui, non avrà mai l'opportunità e il coraggio di avvicinarsi. Ma con i tre figli legittimi di Modugno, e in particolare con Marcello, suo coetaneo, si riconoscerà, creando un rapporto di amicizia e collaborazione professionale che somiglia molto alla fratellanza. Destinato però a interrompersi quando, già diversi anni dopo la morte di Domenico, Fabio deciderà di rendere pubblica la storia. Il libro si interrompe qui: Marcello gli piomba in casa accusandolo di essere un cacciatore di eredità, Fabio lo caccia via. Da allora parleranno solo tramite avvocati. La battaglia legale durerà vent'anni e si concluderà solo nel 2019, con una sentenza della Cassazione che acquisisce la prova del Dna e stabilisce che Fabio è figlio di Domenico. Come chiunque lo veda di persona può confermare: sono identici. 

Anche sulla copertina del libro c'è una sua foto da ragazzo e la somiglianza con suo padre è impressionante: dica la verità, se l'era scattata apposta?

"Ma no, da attore ho cambiato tanti look e in quel periodo avevo i baffi. Poi certo, quando ho portato la foto all'editore è sembrata una scelta naturale. Pensi che qualche mio amico non mi ha nemmeno riconosciuto: hanno pensato che fosse Mimmo, o un effetto grafico che fondeva i due volti". 

La somiglianza però non passava inosservata: lei racconta di aver scoperto che nel suo ambiente la voce circolava...

"Ancora oggi, dopo aver visto il libro su Instagram, una vecchia amica mi ha contattato per dirmi di averlo saputo già quando avevamo sedici anni... cioè nove anni prima di me! E allora ripenso a certe serate in cui magari prendevo la chitarra e mi mettevo a cantare. Immagino le risatine, i sussurri. Davvero ero l'unico fesso che non sapeva?".

E Romano Camilli, l'uomo che considerava suo padre, ha mai saputo?

"Forse aveva dei sospetti, ma non l'avrebbe mai ammesso nemmeno con sé stesso. Era un burbero, sempre incazzato, il terrore del Sistina. Prima di una prima a teatro lo sentivo ringhiare al telefono: "Ah, il ministro vuole due biglietti? E sti cazzi, je dica d'annassene affanculo!". 

Verso di me la sua ostilità, il suo rancore si sono manifestati fin da subito, anche con le botte. Era un'epoca meno bambinocentrica, nessuno si aspettava l'attenzione smodata che i genitori di oggi dedicano ai figli. Ma un minimo gesto d'affetto, un incoraggiamento, da lui non li ho mai avuti". 

E sua madre? Con lei un chiarimento c'è stato, anche se un po' ambiguo.

"Ammise senza problemi di aver avuto una storia con Modugno, di considerarlo il suo grande amore. Ma diceva di non sapere se ero suo figlio. Arrivò a dirmi che forse gli somigliavo perché lei in quel periodo aveva voglia di Mimmo, come altri nascono con una voglia di cocomero. Quando era bambina i suoi due fratelli maggiori erano morti in un incidente, e credo che quel dramma le abbia creato attorno una corazza di anaffettività difficile da scalfire". 

Una famiglia disfunzionale.

"All'epoca non si diceva così, io la chiamavo una famiglia incasinata di brutto. Per compensare ho sempre cercato l'affetto negli amici, e Marcello era già un amico: ci univano interessi e passioni in comune, lavoravamo tutti e due nello spettacolo, e quando ho scoperto di essere anche suo fratello, beh, mi è sembrato di mettere piede su un continente pieno di possibilità affettive e non solo. Mi facevo castelli in aria, pensavo ai Jackson Five..." 

Tutto finisce di colpo nel 2001, quando, con il suo consenso, un giornale svela una storia che ormai conosceva mezza Roma. Da allora qual è stato l'atteggiamento dei suoi fratellastri (e della madre Franca) nei suoi confronti?

"Chiusura totale. Nessuna dichiarazione pubblica, nessun contatto al di fuori del tribunale. La loro linea è che sono un pazzo, un mitomane". 

Durante la lunga vicenda giudiziaria anche lei ha taciuto. Come mai oggi esce allo scoperto?

"Complice una malattia che mi ha costretto a lungo in casa, ho capito che mi piaceva mettere ordine nei ricordi. È stato catartico. Come mi disse la mia analista quando ancora titubavo: devi smettere di crederti superiore, questa storia devi tirarla fuori. Altrimenti rischi di finire come un matto che gira per strada col carrello della spesa gridando: 'Io so' er fijo de Modugno!'. Aveva ragione lei". 

"Così ho scoperto che il mio vero padre era il mito Modugno". Eleonora Barbieri il 5 Ottobre 2021 su Il Giornale. A 25 anni, Fabio Camilli riceve una telefonata da una ex. Che gli svela di chi è figlio in realtà. Nell'estate del 1987, Fabio sta per finire il servizio militare. Ha venticinque anni e di cognome fa Camilli, come il padre Romano (storico collaboratore di Garinei e Giovannini al Teatro Sistina), con cui ha un rapporto pessimo; la madre Maurizia Calì, invece, per lui è una fata, «bellissima, bravissima», anche se l'ha sempre vista poco, presa com'era dalla carriera di ballerina, coreografa, regista. Ma una telefonata di una ex, fidanzata con il suo amico Marcello, gli svela la verità: suo padre non è il mal sopportato Romano, bensì Domenico Modugno. Lui. Il mito nazionale, con il quale la madre ebbe una relazione segreta durante la tournée di Rinaldo in campo. E l'amico Marcello, cioè uno dei tre figli nati dal matrimonio di Modugno con Franca Gandolfi, insieme a Marco e Massimo, è il suo fratellastro. Non solo: amici, parenti, conoscenti lo sapevano praticamente tutti. Che Fabio Modugno, nato a Roma, nel 1962, sia il quarto figlio «segreto» di Mimmo, è ormai un fatto diventato di cronaca, essendo la vicenda finita in tribunale (dove è rimasta per quasi vent'anni...), fino al riconoscimento di paternità sancito dalla Cassazione nel 2019, tramite la prova del Dna; ma ora Fabio Modugno, attore al cinema (con Bellocchio e Piccioni), a teatro (sempre con Bellocchio, e con commedie sue come Trompe-l'oeil e Panama) e in tv (nella serie su Padre Pio con Michele Placido, per esempio) racconta la sua storia in Fratellastri (Mondadori, pagg. 336, euro 20), un memoir familiare in cui fa capolino una parte della storia del mondo dello spettacolo italiano.

Una storia un po' incredibile.

«Lo dica a me. È anche per questo che ho avuto bisogno di scrivere il libro».

Davvero non aveva mai sentito Romano come il suo vero padre?

«È così, ma non credo sia stato per un intuito mio; piuttosto, quando un padre non sente che sei suo figlio, ti trasmette chiari segnali di rifiuto. Fra noi non c'è mai stato un rapporto, se non di violenza, prepotenza e poca considerazione».

E ha scoperto tutto con una telefonata... Della sua ex, Silvia, fidanzata con il suo fratellastro...

«È stato surreale. Ho pensato che fosse uno scherzo, ma si capiva che Silvia non scherzava. Provo gratitudine per questa ragazza, che ha avuto il coraggio di rompere il muro di omertà che mi circondava: nella mia vita è una piccola eroina, con un coraggio che nessun altro ha avuto, neanche il mio migliore amico. Il mio era il segreto di Pulcinella, uno spettacolo nello spettacolo, che nessuno aveva avuto il coraggio di interrompere».

Neanche la somiglianza impressionante l'aveva mai fatta sospettare?

«La somiglianza fra me e Marcello era un gioco; mi era successo di essere scambiato per lui, o per Marco o Massimo, ma non mi era mai venuto in mente che potesse esserci un legame di sangue fra noi».

Insomma scopre la verità, e non dice niente a casa.

«No... Per tantissimo tempo non dico nulla. L'idea di andare contro mio padre, di cui avevo il terrore, e di rompere il rapporto con mia madre, che era un rapporto di amicizia - perché madre non era proprio nel Dna, ma come amica era fantastica - era qualcosa di troppo grande per me: avevo 25 anni, pensavo che il tempo fosse infinito e, soprattutto, dovevo crescere, per diventare abbastanza forte. Ci ho messo un po' di più».

È vero che suo padre, Modugno, confessò la sua esistenza in un momento in cui era stato male?

«Sì, era stato male e, come è successo a me qualche anno fa quando ho avuto il linfoma di Hodgkin, forse ha fatto dei bilanci; e, in uno di questi bilanci, ha sentito il bisogno di confessare la mia presenza alla sua famiglia. Poi, per coincidenza, i suoi figli già mi conoscevano. C'è un ragazzo, dovrebbe chiamarsi Fabio Camilli.... E loro: Ma chi, Fabio?».

Come eravate diventati amici?

«Frequentavamo gli stessi posti, ci eravamo stati simpatici, c'era una affinità. Con Marcello, in particolare, avevamo in comune la musica e tante cose. Quando ho saputo che eravamo anche fratelli, io l'ho visto come un valore aggiunto; loro forse all'inizio sì, poi no...»

E dopo i risultati del test del Dna non hanno detto niente?

«Niente. Siamo ancora in piena battaglia legale, dopo il riconoscimento di paternità».

Quello che cambia tutto è un articolo sul Foglio, nel 2001.

«Sì, quel pezzo di Pierluigi Diaco è lo spartiacque che ha scoperchiato questa piccola pentola. Anche per me è stato scioccante vedere rivelata questa cosa, che io stesso avevo voluto tenere nascosta per tanto tempo: mi sono ritrovato senza pelle, ma loro hanno scelto di rinnegare questo nostro legame».

E sua madre che cosa le disse?

«Che mio padre voleva sapere di me, vedere le mie foto, ma lei aveva scelto di allontanarlo. E lui non ha insistito. Credo che entrambi abbiano scelto ciò che era meglio per loro: sono stati entrambi egoisti, hanno pensato a loro stessi, e non a me, che ci sarei andato di mezzo».

Ha mai incontrato suo padre?

«Mai».

Non ha rimpianti per questo?

«Sì, certo. Ho del rammarico, perché penso fosse una persona straordinaria ed era anche mio padre. Forse ho anche il rammarico di non avere avuto il coraggio di provare a incontrarlo. Quando Romano è morto ho avuto un lungo tempo di elaborazione, non facile; poi mi è balenata l'idea di trovare un modo per incontrare mio padre ma, nove mesi dopo, è morto anche lui, ed è finita lì».

Come lo vedeva prima, e dopo aver saputo che Modugno era suo padre?

«Come artista l'ho scoperto da grande, suonando la chitarra e facendo l'attore. Poi, dopo, l'ho apprezzato ancora di più: attraverso le canzoni ho cominciato a conoscere qualcosa di lui, della sua sensibilità, della sua anima poetica, di come esprimeva l'amore. È stato l'unico modo per conoscerlo, l'unica parte di lui che abbia conosciuto».

Come vive una somiglianza fisica così forte?

«All'inizio, quando l'ho scoperto, e ho scoperto che tutti lo sapevano, con imbarazzo. Mi ero anche fatto crescere i baffi, suonavo la chitarra... Chissà come ero ridicolo, senza saperlo. Ho dovuto guardare le sue immagini a lungo per appropriarmene e, ora, credo di esserci riuscito, perché tutto è stato chiarito: e non è un problema, che un figlio somigli al padre». Eleonora Barbieri

Domenico Modugno, il doppio matrimonio con Franca Gandolfi e la battaglia dell’attore Fabio Camilli per farsi riconoscere la paternità. Arianna Ascione il 9/1/2021 su Il Corriere della Sera.

Grandi passioni. La vita sentimentale del grande cantautore, che oggi avrebbe 92 anni e di cui si è tornati a parlare nel 2019 dopo la sentenza che ha riconosciuto l’attore Fabio Camilli come suo figlio legittimo. Nasceva a Polignano a Mare, il 9 gennaio 1928, Domenico Modugno. Considerato uno dei padri della musica italiana - trionfatore per quattro volte a Sanremo - «Mr Volare» (dalla canzone con cui ha vinto per la prima volta il Festival, «Nel blu dipinto di blu», nel 1958) ha scritto e inciso circa 230 canzoni, ha interpretato 38 film per il cinema e 7 per la televisione, ha lavorato in teatro e si è anche cimentato come conduttore di programmi televisivi. È tra gli artisti italiani che hanno venduto più dischi (oltre 70 milioni di copie) e negli ultimi anni è stato omaggiato con una fiction («Volare - La grande storia di Domenico Modugno», riproposta martedì 12 gennaio su Rai Premium alle 21.20) mentre lunedì 11 gennaio su Rai 1 in prima serata arriverà «Penso che un sogno così», lo spettacolo teatrale in cui Beppe Fiorello ha raccontato la sua vita sulle note del grande cantautore (del resto è stato proprio lui a prestargli il volto nella miniserie). Nel 2019 però si è tornati a parlare di Modugno anche relativamente alla causa per il riconoscimento di paternità intentata (e vinta) dall’attore Fabio Camilli, nato dalla relazione dell’artista con Maurizia Calì mentre era ancora sposato con la sua compagna di una vita, Franca Gandolfi. Ma andiamo con ordine.

L’incontro con Franca al Centro Sperimentale di Cinematografia. Tra Domenico Modugno e Franca Gandolfi non fu amore a prima vista: «Ci siamo conosciuti al Centro Sperimentale - ha raccontato lei nel 2019, ospite di Unomattina Estate - lui mi ha accompagnata a fare un provino diretto da Zampa. Da parte mia non fu amore a prima vista: lui era piuttosto vivace, faceva la corte a tutte le donne. Mi ha dovuta conquistare». Alla fine è riuscito a rubarle il cuore grazie alle sue canzoni, ma non è sempre stato facile stargli accanto: «Capii che sarebbe stata una vita difficile - disse lei nel 2013 al settimanale Oggi - e, infatti, feci di tutto per lasciarlo ma non ci fu verso. Si era fissato con me, lo trovavo ovunque».

Il matrimonio (doppio). Cinque anni dopo il primo incontro, nel 1955, la coppia convolò a nozze. Il matrimonio fu celebrato civilmente, ma dopo qualche anno - come svelato dalla vedova Modugno - l’unione fu consacrata anche a livello religioso: «Dopo le nozze civili in Campidoglio, nel 1955, nel 1960 ci sposammo in gran segreto anche in chiesa - ha dichiarato nell’intervista a Oggi - C’eravamo solo noi e due testimoni, con gli abiti di tutti i giorni. Fu un giorno bellissimo perché sentivamo il bisogno di dirci di sì davanti a Dio e fu davvero solo un momento nostro». Dalla storia, durata 43 anni fino alla scomparsa dell'artista, sono nati tre figli (Marco, Massimo e Marcello): «In famiglia Domenico era come l’avete visto nella fiction Volare: un vulcano. Era un uomo travolgente, sempre allegro, ironico. E poi era molto simpatico. Nei 43 anni trascorsi insieme abbiamo superato tante difficoltà ma non mi sono mai annoiata un giorno».

Il figlio segreto. Mentre lavorava al Sistina di Roma nel 1961, nell’allestimento della commedia musicale di Garinei e Giovannini «Rinaldo in campo», Modugno - interprete di Rinaldo Dragonera - trascorreva molto tempo insieme alla coreografa e scenografa triestina Maurizia Calì, all'epoca sposata con l'ingegner Romano Camilli (curatore delle relazioni publiche del teatro). Nacque una complicità, che presto si trasformò in qualcosa di più e Maurizia, rimasta incinta, il 10 agosto del 1962 diede alla luce il piccolo Fabio. La verità sul suo vero padre (che era il cantautore, non Camilli) gli fu tenuta nascosta per anni. Poi un giorno, grazie alla rivelazione di un’amica, Fabio - che nel frattempo era diventato attore ed era amico di Marcello Modugno dato che frequentavano gli stessi ambienti dello spettacolo - scoprì ogni cosa: «Un giorno una mia amica, con cui avevo avuto una relazione e che poi si era fidanzata con Marcello, mi raccontò una sua confidenza - queste le parole di Camilli in un’intervista al Corriere del 2014 - le aveva svelato che eravamo fratelli, pregandola però di non dirmi nulla. Per me fu una cosa sconvolgente. Come fai a credere che quello che pensavi fosse tuo padre per quasi trent’anni in realtà non lo era?».

La battaglia legale per il riconoscimento. «Quello che posso dire è che conosco Fabio da più di 20 anni e la cosa buffa è che siamo sempre stati amici da prima che venissero fuori queste voci» raccontava Marcello nel 2001, quando la storia divenne di dominio pubblico dopo la pubblicazione di un articolo sul Foglio. «Ci ho messo del tempo a parlarne. Lo feci con un amico di famiglia e mi resi conto che il pettegolezzo girava da tempo. Come in un Truman Show: gli altri sapevano. Io no» ha rivelato Camilli, che nei primi anni Duemila ha avviato il procedimento per il riconoscimento di paternità. La battaglia legale, dopo l’esito positivo del test del dna nel 2014, si è conclusa definitivamente soltanto nell’agosto 2019: a pochi giorni dal venticinquesimo anniversario della morte del cantautore la Prima sezione civile della Corte Suprema di Cassazione ha riconosciuto Fabio come figlio legittimo di Domenico Modugno. «Ho dovuto fare una battaglia per poter affermare chi era mio padre. È stato un viaggio faticoso ed estenuante - ha commentato l’attore - Il procedimento di riconoscimento di paternità della durata media di 4-5 anni si è trasformato per me in un “percorso a ostacoli” lungo (e credo sia un record) 18 anni. Comunque ce l’ho fatta, è finita. Sono molte le persone che dovrò ringraziare per essermi state vicine in questi anni».

·        24 anni dalla morte di Ivan Graziani.

Ivan Graziani avrebbe 76 anni: cantautore sui generis, fu seppellito con la chitarra.  Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 6 ottobre 2021. Personaggio non incasellabile della musica italiana, riuscì a unire per la prima volta il rock alla musica d'autore

Gli inizi da autodidatta

Il 6 ottobre 1945 nasceva Ivan Graziani, «la chitarra rock della musica d’autore italiana», come è stato soprannominato. Cantautore impossibile da incasellare e sempre lontano dalle «mode» musicali del momento, nelle sue canzoni ha raccontato con ironia la provincia italiana, mentre con la sua chitarra ha portato avanti sperimentazioni e virtuosismi, primo in Italia a unire cantautorato e rock. Nato a Teramo, Graziani fin da piccolo si appassiona all’arte e alla musica, cominciando a suonare la chitarra da autodidatta. Vince vari concorsi locali e poi inizia a suonare con dei gruppi: ancora minorenne viene arruolato da Nino Dale a suonare nella sua orchestra e viaggia anche fino in Tunisia per esibirsi nei villaggi vacanze.

La carriera solista

Dopo le esperienze con le band, tra dischi, concerti e partecipazioni al Cantagiro, Ivan Graziani intraprende la carriera solista. Pubblica 15 album (l'ultimo è del 1994), nel 1977 arriva al grande pubblico con il successo di «Lugano addio», collabora con tanti cantautori, ma il suo rapporto con l'industria discografica non è mai semplice. Nel 1985 partecipa al Festival di Sanremo, dove ritorna per una seconda volta nel 1994.

La collaborazione con Lucio Battisti

Tra i tanti colleghi che lo stimano e che si «contendono» la sua chitarra c'è anche Lucio Battisti: Graziani e Battisti instaurano una collaborazione negli studi della Numero Uno, storica etichetta fondata da Mogol. Graziani viene chiamato a suonare nelle registrazioni dell'album battistiano «La batteria, il contrabbasso, eccetera» e poi i musicisti di Battisti vengono impiegati per le registrazioni del disco di Graziani «Ballata per quattro stagioni» del 1976. Un periodo che segnerà una svolta per il cantautore

La moglie Anna Bischi, compagna di una vita

Ivan Graziani conosce la futura moglie Anna Bischi all’Istituto d’arte di Urbino. Si incontrano molto giovani, ma trascorrono l'intera vita insieme, inseparabili fino alla fine. La copertina del primo disco pubblicato con nome e cognome del cantautore, «La città che io vorrei», uscito nel 1973, mostra proprio una foto del loro matrimonio. Ivan e Anna hanno avuto due figli, Filippo e Tommaso.

La malattia e la morte: fu seppellito con la chitarra

Ivan Graziani muore prematuramente il 1° gennaio 1997, a soli 51 anni: da quasi due anni combatte contro un tumore al colon e nonostante la malattia continua a suonare dal vivo fino all’ultimo. Viene a mancare nella sua casa di Novafeltria, in Emilia Romagna, tornato dall’ospedale per passarvi le festività natalizie. Graziani è stato seppellito insieme a una delle sue chitarre, una Gibson che chiamava «mamma chitarra», e al gilet di pelle che aveva ingegnosamente dotato di un gancio per appendervi lo strumento.

·        24 anni dalla morte di Gianni Versace.

Da leggo.it il 10 dicembre 2021. Antonio D’Amico ha vissuto un periodo drammatico quando il suo compagno Gianni Versace è stato ucciso. L'uomo ha raccontato a “Oggi è un altro giorno” di aver tentato il suicidio perché nulla aveva più senso. «Quel giorno, quando spararono a Gianni, la mia vita fu spezzata in due. -  ha spiegato l’ex modello - Sentendo gli spari mi si gelò il sangue. Vidi Gianni a terra in una pozza di sangue. Poi diventò tutto nero, mi spinsero via e non vidi più niente». I due sono stati insieme per 15 anni: «Ci siamo conosciuti a una cena mediante un amico comune, salutandoci normalmente a fine serata e promettendoci di risentirci. Sono quindi trascorsi alcuni mesi prima che iniziassimo a frequentarci. Noi vivevamo insieme 24 ore al giorno, facevamo tutto in simbiosi. Quel giorno tragico della sua morte mi ha spezzato la vita, ha tagliato in due la mia esistenza: una parte se n’è andata, un’altra si è sotterrata. Ho sofferto per lungo tempo, cercando di sopravvivere a questa mancanza». E, ancora: «Quella scena non si è mai cancellata dalla mia mente, è rimasta sempre viva. Ancora oggi, quando ci sono momenti particolari, quella immagine ritorna e ci si domanda se si sarebbe potuto fare qualcosa di diverso. Ho passato otto anni di dolore profondo. Un giorno ho ingoiato due flaconcini di Lexotan per farla finita, ma un amico carissimo, non sentendomi, ha capito cosa stava succedendo e mi ha salvato». Oggi Antonio D’Amico ha ripreso a lavorare nel mondo della moda e ha un altro compagno da sedici anni.  

·        24 anni dalla morte di Renzo Montagnani.

La capriola del Veltroni cine-critico: ora elogia il Montagnani disprezzato. Paolo Giordano il 7 Giugno 2021  su Il Giornale. La sinistra "scopre" che accettò ruoli disimpegnati per bisogno. Come giravolta è perfetta. Ieri Walter Veltroni sul Corriere della Sera ha dedicato due pagine a Renzo Montagnani, attore grande e sfortunato di teatro e cinema, protagonista anche in tv, ricordato dal grande pubblico per le commedie sexy con Edvige Fenech, Barbara Bouchet e Nadia Cassini o per capolavori come Amici miei di Monicelli, e dagli storici per le magistrali interpretazioni sul palco come in I sogni muoiono all'alba, di Indro Montanelli (che lo farà esordire al cinema due anni dopo nel film omonimo di cui era regista). Si dirà: un giusto ricordo per un attore memorabile, bene, bravo, bis. Però c'è un però. A massacrare la quasi totalità dei film nei quali recitava Montagnani era allora la critica schierata, quella che «segue dibattito», quella che se un'opera non era impegnata non valeva una beneamata. La critica della quale Walter Veltroni, entrato nel 1970 nella Fgci, organizzazione giovanile del Partito Comunista Italiano, era uno degli incontestabili motori ideologici. Lo riconosce nell'articolo lo stesso Veltroni parlando di un cinema che «era impegnato o non era». Si dirà: onesta ammissione. E invece no. In nessuna parte delle due paginate si ammette o anche si sottintende che «io c'ero», «ero parte di quel sistema che ha stroncato, massacrato, boicottato film e carriere solo perché non erano politicamente allineate o accettate». Il lungo e condivisibile ritratto di Renzo Montagnani, fuoriclasse nato per caso ad Alessandria nel 1930 e morto disfatto da un cancro nel 1997, sembra scritto da un estraneo a quella brutale censura ideologica. Per capirci quale fosse il clima l'attrice Paola Pitagora, come ricorda a Veltroni, ammette che, quando recitarono in Dialogo di Natalia Ginzburg, lei e Montagnani «all'inizio non ci sopportavamo, forse per i miei pregiudizi generati dai film che faceva». Pregiudizi tra colleghi, il massimo del minimo. A un certo punto, nonostante i suoi film spesso fossero campioni al botteghino, Montagnani arrivò a giustificarsi: «I film grossolani sono una scelta remunerativa, ma io uso definirmi migliore dei miei film». Come a dire, scusate se recito bene e sono colto e competente ma faccio film che non piacciono alla critica schierata. Incredibile, vero? Eppure in quegli anni andava proprio così. «C'è una verità nascosta», scrive ora sul Corriere l'ex deputato di Pci, Pds, Pd ed ex direttore de l'Unità: «Doveva pagare le spese di cura per suo figlio malato». Si dirà: finalmente la verità viene a galla. Ennò. In realtà Montagnani parlò delle sofferenze del figlio già in una intervista a Luciano Salce su Raiuno nel 1980, non proprio in un luogo segreto: «Purtroppo ho delle spese pazzesche familiari, perché se in Italia esistessero delle strutture valide per curare dei bambini malati non avrei bisogno di fare tutti questi film». Mentre lui recitava per pagare le cure al figlio, la critica lo massacrava con verdetti sconfitti dal tempo. Ora lo riconosce anche l'altro Veltroni, l'ologramma giornalistico di quello che allora applaudiva quei fischi e quei buu.

Montagnani, la tragedia nascosta e il sorriso: attore grande e dimenticato. Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 6 giugno 2021. Interprete delle commedie sexy anni Settanta, subì critiche feroci. Edwige Fenech: «Ne soffriva. Era un padre pieno d’amore e di dolore». Per molto tempo Renzo Montagnani, attore italiano di vaglia, è stato irriso dalla critica, dal mainstream di un periodo in cui il cinema o era impegnato o non era, o era di sinistra o non era. Il suo cinema degli anni Settanta - fatto di commedie sexy che oggi sembrano l'edizione dinamica del catalogo Postalmarket o delle castissime, ingenue parodie delle convenzioni pruriginose dell'Italia bigotta - è stato a lungo additato come il peggio del peggio, come un insulto alla cultura cattolica e a quella della critica del capitalismo. Quei film erano invece la prosecuzione del varietà, quello che precedeva o seguiva le proiezioni in tanti cinema italiani, quello di Polvere di stelle, quello che ha fatto grande e popolare il teatro italiano per molto tempo. Il varietà di Totò, Sordi, Chiari, Dapporto, Macario. Il varietà fatto di meravigliosi giochi di parole, di scambi di persona, di gag e parodie. Su quei palcoscenici un grande attore come Lino Banfi, o i suoi amici Franchi ed Ingrassia, hanno fatto scuola, sperimentato la rudezza del pubblico, maturato la velocità delle battute. Indimenticabile descrizione del varietà è quella di Fellini in Roma, con il dialogo ininterrotto tra i guitti e un pubblico geniale, non meno spiritoso di chi doveva, per contratto, far ridere. Ha detto una volta Montagnani: «Il talento non è solo quando fai Shakespeare, sai! Shakespeare è facile, la cosa più facile al mondo... Dici: "Onesta come le mosche che gremiscono i macelli folleggiando anche col vento...". Lo dici come lo sto dicendo a te e la gente applaude, sbava rispetto, si commuove... È farsi apprezzare dicendo "che bel sedere" che è difficile». È stato il cruccio della sua vita. Quello che ha rivelato in un intervento addolorato in un convegno di attori nel 1977: «Io mi ritengo l'ultimo in graduatoria, anche se venisse fuori qualcun altro nuovo, io resterei sempre l'ultimo. Un critico, un giorno, ha scritto di me "attore da bordello"... Io ho sofferto tanto perché non mi sento affatto un attore da bordello, mi sento un attore che ha alle spalle ventiquattro anni di professione seria...». C' è una verità nascosta, nella vita e nelle scelte lavorative di Renzo Montagnani. Lui faceva quei film, che rispettava ma non amava, soprattutto per ragioni economiche. Doveva pagare le spese di cura per suo figlio malato, quell' unico figlio che amava e che lo faceva soffrire. Mai il teatro gli avrebbe dato i soldi che uno solo di quei film sapeva garantire. Tutto per suo figlio.

Tutto per Daniele. «Per come ho vissuto, certe cose gliele avrei trasmesse, a mio figlio. Gli avrei insegnato la dolcezza, per esempio. E a piangere, a commuoversi, a comprare un mazzo di fiori...». «Lui ha sofferto per non aver fatto una carriera diversa, pensava di meritare di più. Diciamoci la verità: gli davano soddisfazione i ruoli più colti» mi dice Edwige Fenech, compagna di tante pellicole e donna di grande sensibilità e intelligenza. «Gli volevo molto bene, era un uomo di estrema sensibilità. Era capace di piangere o di commuoversi per i gesti di affetto nei suoi confronti. Voleva molto bene a mio figlio, che allora era piccolo. Lo trattava da grande, come fosse un suo amico. Renzo aveva un fondo di tristezza. Amava enormemente Daniele. Mi parlò della situazione di suo figlio, ma lo faceva poco, con grande sofferenza e facendo forza alla sua discrezione. Sentivo che per lui era una cosa terribile. Era un padre pieno di amore e di dolore. Renzo era un orso buono. E nonostante il suo fardello di dolore, con lui non si smetteva di ridere mai». Maurizio Costanzo, che con Renzo ha lavorato per un programma radiofonico e per una rubrica televisiva, dice che era un personaggio da Amici miei. «Aveva, insieme, quella allegria iconoclasta, quasi goliardica, e quel senso tragico che ci sono nel film». E ha ragione, perché il primo film di quella serie fu, per Renzo, ragione di dolore. Lui voleva la parte di Philippe Noiret, un francese che lui poi dovette doppiare... Ci restò male. Ma poi fu felice quando toccò a lui, nel secondo episodio, la parte del Necchi. Luigi Diberti, che ha recitato con lui in Metello di Bolognini, ricorda «un grande attore, con una forte preparazione classica e un marcato impegno civile». Montagnani sarà infatti protagonista di tante manifestazioni contro la guerra nel Vietnam e a sostegno di tutte le cause di libertà dei popoli. Paola Pitagora ricorda quando recitò con lui in Dialogo scritto da Natalia Ginzburg. «Non ci sopportavamo, all' inizio. Forse per colpa mia, forse per miei pregiudizi generati dai film che faceva. Il regista era costretto a girare la scena, due coniugi che a letto si rivelano la fine del loro rapporto, con i piani separati. Non potevamo incontrarci. Finché una volta fummo costretti a girare insieme e successe un miracolo. Lui era un attore fantastico e quel giorno sembravamo sposati da vent' anni. Da quel momento tutto cambiò. Mi raccontò di suo figlio e mi fece capire perché e come, in un essere umano, potessero convivere l'abisso e il sole, la tragedia e il sorriso. Ho rivisto recentemente un suo film Fiorina la Vacca e ho trovato Renzo bravissimo. Era un attore fantastico, sempre». Lino Banfi ha lavorato in diversi film con Renzo: «Giravamo La moglie in vacanza e l'amante in città, eravamo a Courmayeur. La sera restavamo da soli, noi due, Ci divertivamo da matti, insieme. A lui piaceva quando io dicevo il mio "Porca Puttena" e a me quando lui si avventurava nella parola "Focaccia", che alla fine era solo una ventata di vocali. Una sera mi confidò del figlio. E io capii perché ogni tanto affondasse nella vodka la sua tristezza e la sua ansia. Gli pesava che il suo talento non fosse riconosciuto, meritava certo di più dalla critica. Anche per quei film, che vengono rivalutati ciclicamente. Che lui faceva per i soldi, per suo figlio che era un ragazzo tanto forte quanto infelice. Quei film che rispettava, che vanno rispettati, non derisi». Ha ragione Banfi. Capitò così con Totò, con Sordi, con gli spaghetti western, con Oronzo Canà di L' allenatore nel pallone e Mandrake di Febbre da cavallo. Quando il sopracciglio dei detentori della verità estetica si abbassa, anche il loro occhio riesce a vedere il bello che il pubblico, spesso puro popolo, ha già metabolizzato. Renzo Montagnani è stato un grande attore e una grande persona. L'ho conosciuto che ero ragazzo e mi fece una grande impressione. Era una delle prime combinazioni di tristezza e allegria che mi fosse capitato di incontrare. Non sapevo perché, ma capivo che in quell' uomo c'era qualcosa di misterioso, di nascosto. Rideva e faceva ridere, ma lo faceva come per tirarsi fuori da un gorgo. A quei tempi Renzo presentava un programma televisivo di grande successo, si chiamava Milledischi. Sua partner era la più sensuale delle annunciatrici della tv, Mariolina Cannuli. Che oggi mi dice: «Non ho mai riso tanto in vita mia. Era spiritoso, intelligente, un compagno di lavoro ideale. Era riservato, molto sensibile, per me è stato padre, fratello. Tutto. Rideva e piangeva, aveva una vena devastante di tristezza che ogni tanto lo assaliva». Mi sembra di vederlo, quest' uomo grande e solo. È stato il popolarissimo Fumino, il prete incazzoso con la sciarpa rossa, la voce indimenticabile di Romeo, er mejo der Colosseo. Ed era capace, nella stessa giornata, di interpretare il protagonista di L' insegnante balla con tutta la classe e la sera di andare in scena con La coscienza di Zeno. Montagnani veniva da una famiglia umile: il padre Guido ferroviere, di Prato, e la madre ventiduenne Elvezia, di Stradella, che lo partorisce in casa, ad Alessandria, in una data fatidica, l'undici settembre. Ma del 1930. Renzo cresce con la passione del teatro e quando le cose della vita lo riportano nella Toscana che lui sentirà sempre come la sua terra, comincia a recitare nel teatro dell'Affratellamento, nome meraviglioso, che è ospitato nella sede di una Società di Mutuo soccorso di Firenze. Nel frattempo, lasciata la scuola in terza media, fa il commesso in una merceria, poi operaio nella produzione di bulloni, poi commesso in una farmacia. Quell' Italia che rinasce dalle macerie non è un pranzo di gala. Tutto è fatica, sacrificio, lotta del talento per affermarsi. Roba di carattere e di testardaggine. Montagnani esordisce in teatro in un ruolo nel Barbariccia di Sergio Tofano. Il suo personaggio non deve mai parlare. Ma nel 1953, Renzo ha ventitrè anni, tanto basta. Un bel libro di Damiano Colantonio traccia il percorso di Montagnani, tra teatro classico e operetta, venti anni a spezzarsi la schiena sulle tavole del palcoscenico, tra Pirandello e Shakespeare, Goethe e la Ginzburg. Anche un po' di cinema, quello impegnato. I sogni muoiono all' alba di Indro Montanelli sulla tragedia ungherese del 1956 e I sette fratelli Cervi di Gianni Puccini. E poi in televisione con Il Mulino del Po e i Caroselli Chlorodont, in cui interpreta Lindo Sorridenti. Nel 1963, mentre tutto sembra sbocciare nella sua vita, mentre sta interpretando Brecht in teatro, la moglie, una ballerina delle Blue Bells, gli regala il figlio che volevano, Daniele. Ma il bambino non riesce a uscire dal ventre della madre e i medici usano il forcipe. Non sa parlare e per tutta la vita questa sua impossibilità di esprimersi determinerà in questo ragazzo bellissimo, alto e biondo, la furia di una violenza incontrollabile. Fragile e disperato, Daniele cresce bisognoso di cure e ricoveri. Morirà nel 2004, a 41 anni, di tumore, come il padre. Che se ne è andato nel 1997, sette anni prima di Daniele. Sui muri della sua casa Renzo aveva scritto «Non bisogna mai smettere di ricominciare». Non ha avuto paura di vivere, ha riso e pianto. Renzo Montagnani è stato un uomo vero. E, credo sia giusto finalmente dirlo, un grande attore italiano.

·         23 anni dalla morte di Frank Sinatra.

Massimo Novelli per “il Fatto Quotidiano” il 29 agosto 2021. Settant' anni fa, nel 1951, i rotocalchi e i quotidiani di mezzo mondo dedicarono innumerevoli articoli al matrimonio fra due star americane dello spettacolo. Lei si chiamava Ava Gardner (1922-1990), bellissima femme fatale di Hollywood; lui era "The Voice", ovviamente Frank Sinatra (1915-1998), al secolo Francis Albert Sinatra, nato da padre siciliano e da madre ligure. Sempre in quel '51, in ottobre, i fan di Ava poterono ammirarla sullo schermo, accanto a James Mason, nel film Pandora di Albet Lewin, una rivisitazione della leggenda dell'Olandese Volante. Il film era stato realizzato in Spagna, a Tossa de Mar, sulla Costa Brava catalana, fra la primavera del '50 e l'estate del '51.

DURANTE la lavorazione di Pandora, Ava si fece vedere spesso in compagnia del torero, attore e poeta Mario Cabré, suscitando la gelosia di Sinatra. Tanto che il cantante e attore si precipitò sulla Costa Brava. Innamorato e geloso, portò dagli Stati Uniti un braccialetto di brillanti da 10 mila dollari da regalare all 'attrice. Fu probabilmente anche la passione per la protagonista di celeberrime pellicole come Mogambo e La contessa scalza, e soprattutto la rivalità con il torero, a cementare in Frank il suo forte sentimento antifascista contro la Spagna di Francisco Franco e l'odio per il "Caudillo", che non lo avrebbero mai abbandonato. Poco noto e del tutto ignorato in quegli anni, visto il legame fra gli Usa e la Spagna anticomunista di Franco, l'episodio è stato ricordato in queste settimane da Isabelle Piquer in un lungo articolo pubblicato da Le Monde, intitolato "Ava Gardner, sirène de Catalogne". Sinatra, ha rievocato la Piquer, "è uno dei rari attori che non nascosero la propria ostilità al regime di Franco". Lo ha rammentato Perico Vidal, assistente alla regia di Orgoglio e passione di Stanley Kramer, del 1957, un film che "The Voice"fu costretto a girare in Spagna. "Non sopportava", narra Vidal, "di vedere la faccia del dittatore su tutti i francobolli". E sulle lettere che Frank spediva dalla Spagna negli Stati Uniti, "invece di firmare con il suo nome e con il suo indirizzo, scriveva: 'Franco è un maiale'". Nonostante le simpatie manifestate per Ronald Reagan, del resto, Sinatra fu a lungo un democratico impegnato. Si batté contro il AL razzismo, fu un grande sostenitore di John Kennedy. Durante il maccartismo aderì al Comitato per il primo emendamento, guidato da Humphrey Bogart, in difesa degli attori e degli intellettuali perseguitati perché ritenuti "comunisti". Come ha osservato Giuliana Muscio su il manifesto qualche anno fa, "fece campagna per il presidente Franklin D. Roosevelt nel 1944 e registrò una serie di spot per il Democratic National Committe, facendo generose donazioni. (E chiamò suo figlio Franklin in onore di Fdr). Nel 1945 realizzò un cortometraggio contro l'anti-semitismo e l'intolleranza razziale, The House I Live In, scritto dallo sceneggiatore comunista Albert Maltz", una delle vittime del maccartismo. Il "corto vinse un Oscar speciale, in riconoscimento dell'impegno politico del cantante. Nel 1956, in un'intervista con Ed Murrow, per prima cosa mostrò la foto autografa di Fdr e successivamente i suoi due Oscar, sottolineando che il primo, quello per The House I Live In, era quello che aveva amato di più. Sinatra, infatti, era davvero sensibile ai temi dell'uguaglianza e della razza".

L'ASTIO per il generalissimo Franco ebbe l'apice nel settembre del 1964. Accadde a Torremolinos. Stava girando alcune scene del film Il colonnello Ryan, cui partecipó una giovanissima Raffaella Carrá. Venne coinvolto in una rissa all'Hotel Pez L'Espad con un giornalista e una attrice cubana. Arrivò la polizia, tutti furono condotti in commissariato. Si racconta che Frank rispose a monosillabi agli agenti. Poi, quando tutto sembrava finito, il protagonista indimenticabile di Da qui all'eternità e di L'uomo dal braccio d'oro staccò all 'improvviso una foto di Franco da una parete, e "la adornò con un tremendo escupitajo": ci sputò sopra, insomma. La polizia, scrissero i giornali spagnoli, "avrebbe voluto fucilarlo subito", ma intervenne il console americano. La "gente del Gobernador Civil", peraltro, "sapeva del prestigio di Sinatra", perciò si chiuse con la sua immediata espulsione e 25 mila pesetas di multa. Salendo sull'aereo, Frank disse che non avrebbe mai più rimesso piede "in questo maledetto Paese". Quando si seppe che Franco avrebbe festeggiato i 25 anni della sua dittatura, Sinatra dichiarò: "E allora che adesso muoia".

·        21 anni dalla morte di Nicola Arigliano.

Fulvio Abbate per huffingtonpost.it il 12 luglio 2021. Arigliano che sei nei cieli… Più esattamente, nel settimo della memoria televisiva e musicale. D’improvviso, poche sere fa, “blob”, Raitre, gli ha meritatamente reso omaggio, dal nulla estivo lo ha riportato fino a noi, all’attenzione dello sguardo e dell’ascolto di chi ne aveva memoria, anzi, di tutti. Nicola Arigliano, voce, volto e vessillo del nostro jazz, dato in prestito all’occorrenza anche al cinema, e perfino al varietà televisivo, a “Carosello” perfino, con la sua pubblicità di un digestivo che “… si prende senz’acqua”. Alcuni lo ricordano ancora giovane e spigliato, sarcastico, ironico, la sua maschera nel bianco e nero appena trasfigurato in technicolor degli anni Settanta, mentre corre dietro a un tram in corso Massimo d’Azeglio, a Torino, là dove il mago della pubblicità Armando Testa aveva scelto dovesse trovarsi il teatro dei suoi spot, sebbene allora si parlasse, più semplicemente, di “pubblicità” e ancora prima, come testimoniano i titoli dei quadri di Schifano, “propaganda”. “Antonetto”, appunto. Nicola Arigliano se n’è andato il 30 marzo del 2010, ha vissuto gli ultimi anni in casa di riposo, a Calimera, nelle sue Puglie. Facendo un salto indietro, a me personalmente dispiace non essere mai andato a trovarlo a Magliano Sabina, in campagna, poco fuori Roma, ai bordi di un’autostrada che raggiunge la verde Umbria, dove si era trasferito: forse per coltivare la sua natura lunare, eppure affatto schiva. Nicola è stato, e forse lo si è detto, la colonna ionica portante dello swing, muovendo dal nostro dopoguerra, un faro della musica leggera, da immaginare, che so, accanto a Tony Dallara, a Nilla Pizzi, Bruno Martino, Fred Buscaglione, a molti altri ancora, di più, è stato il barone dei “crooner”, ossia cantar quasi parlando o viceversa. Se provavi a chiedergli come si potesse diventare bravi come lui, Arigliano, cioè a cantare con naturalezza, a restituire la voce, il canto, il ritmo con nuova immediatezza ancora di più, come imparare il suo stesso mestiere, lui ti spiegava che era necessario “non essere squadrati”. Indicava così un dono naturale, lo restituiva talvolta con un calambour: “Ho cominciato da ragazzo. Studiavo un po’ di armonia, ero, anzi sono, un bachiano convinto, mi piace tutto di Sebastiano”. Perle, diademi, tiare musicali assoluti i suoi “Amorevole”, “I sing ammore”, “Un giorno ti dirò”, per non dire “Venti chilometri al giorno”, “Maramao”, “Buona sera, signorina!”, “Carina”. Ho perfino negli occhi e nell’udito una versione di “Arrivederci”, così come appare in un incunabolo televisivo degli anni ’70, nel mare magnum della rete. Lui in giacca tre bottoni, ampi revers, cravatta non meno ampia a quadri, alle sue spalle i “maestri” dell’orchestra in tenuta color caffè che lo accompagnano, e un numero di telefono in sovrimpressione, i primordi dell’emittenza privata. In quella sua performance sembra di assistere agli ultimi istanti di vita prima della dissoluzione del magico tempo dei night. Nicola dava a tutti la sensazione di cantare con minimo dispendio di energie, tutte le note, le intonazioni possibili presenti nella voce, nel tesoretto del suo talento erano segno, l’ho detto, di naturalezza; c’era da domandarsi allora dove avesse imparato a farlo, ma soprattutto ammirare quel suo modo di restituire la sostanza, le monete d’oro dello swing. Una carriera che inizia nell’immediato dopoguerra, Arigliano era nato a Squinzano il 6 dicembre 1923, come sia pervenuto alla musica credo resti un mistero lunare, o forse potrebbe essere dipeso dalla decisione di donare a se stesso uno strumento di sopravvivenza materiale o una via di fuga dal quotidiano familiare. Lo ricordiamo mentre raggiunge ogni genere di palcoscenico, compreso Il Festival di Sanremo, ultimo doveroso ufficiale omaggio a un artista già ultraottantenne. Fuori di retorica, raccontando le session, le tournée aggiungeva: “… vado a fare quattro pernacchie”, il suo modo per riassumere la sostanza del jazz. Arigliano era ritenuto plebiscitariamente, per definizione spettacolare, “brutto”, si fa fatica a immaginarlo con una ragazza al suo fianco, marito, eppure, trasfigurando la sua irregolarità somatica, l’uomo si abbandonava all’ironia teatrale; proprio “blob”, fra molte altre gemme dal repertorio tratto dalle teche, ha mostrato un vecchio sketch dove Nicola si presenta in scena con abito e postura da maggiordomo spettrale della famiglia Addams, proprio lui che nel 1996 conquisterà invece la Targa Tenco con l’album antologico “I sing ancora”. Così come nel 2001 si concederà “Go, man!”, registrato dal vivo, accompagnato da altri “cardinali” del jazz italiano, suoi amici, complici, compagni di strada: Franco Cerri, Enrico Rava, Gianni Basso…  Oltre alla voce, aveva un volto da caratterista, di più, da interprete assoluto di se stesso, era cioè ora e sempre Nicola Arigliano, pronto a innalzare la scatoletta del digestivo, oppure a vestire il ruvido panno grigioverde del fante Giardino ne “La grande guerra” di Mario Monicelli, oppure barone viveur e debosciato in “Ultimo tango a Zagarol”; ovunque lo si mettesse Nicola brillava. Per lui ho provato, e non da solo, l’affetto che si può nutrire per un parente, zio Nicola, meglio, zio Pasquale; spiego meglio: a metà degli anni ’90 l’ho avuto tutti i sabati accanto, ospite in una trasmissione radiofonica su un’emittente oggi svanita, ItaliaRadio, lui irrompeva con ironia stralunata, da zio un po’ svanito, diceva di chiamarsi appunto “Pasquale”, e io: “no, scusami, tu sei Arigliano!” E lui: “… no, ti sbagli, sono Pasquale!” Nei mesi scorsi, in Salento, a Casalabate, è stato cancellato un murale che lo mostrava gigantesco su una facciata; in molti un istante dopo hanno chiesto che il suo volto tornasse nuovamente, a dispetto dei lavori di ristrutturazione dell’edificio dove fino a poco prima brillava. Raccontava, Arigliano, d’essere scappato di casa a undici anni, per ribellione contro la famiglia che non lo tollerava balbuziente. Sulla tomba, le sue parole, degne di “Pasquale”: “La vita è come il jazz, se si improvvisa viene meglio”. 

·        20 anni dalla morte di Ferruccio Amendola.

Alessandro Ferrucci per il Fatto Quotidiano il 3 settembre 2021. Basta chiudere gli occhi, a volte non serve neanche vedere la registrazione. Certe frasi, certe intonazioni sono nella storia del cinema, galleggiano nella nostra testa, vivono autonomamente; superano il significato e diventano significante. Il "no " di Al Pacino alla fine del Padrino, la vocina stridula di Hoffman in Tootsie, i tempi di De Niro in C'era una volta in America hanno tutti in comune un "grazie". Un grazie a Ferruccio Amendola. Il 3 settembre di vent' anni fa moriva il più grande tra i doppiatori e c'è un'immagine, questa volta sì, per raccontare come lo stesso De Niro giudicava la sua voce italiana: anno 1991, Telegatti, sul palco sale l'attore statunitense e dopo di lui Ferruccio Amendola. Amendola si posiziona un passo dietro, come a dire non sono io il protagonista. De Niro quel passo lo annulla. In platea c'era Claudio Amendola e gli occhi estasiati sono quelli di un figlio orgoglioso: "È stato un momento di gratificazione, il riconoscimento che papà ha sempre avuto dal pubblico, dal lavoro, dal successo; ma trovarsi lì, insieme all'attore che preferiva, a sua volta rispettoso con lui, mi ha emozionato. Sapevo cosa voleva dire".

C'era un rapporto tra De Niro e suo padre?

Pochissime occasioni: credo l'abbia incontrato solo una volta, così come con Stallone; (ci pensa) oggi dal doppiaggio c'è una gratificazione maggiore, anche grazie ai cartoni che danno visibilità alla voce, ma un tempo tutto finiva con la sala. Quella generazione di grandi doppiatori non ha ricevuto indietro quanto ha dato agli attori statunitensi.

Cioè?

Spesso avevano e hanno delle voci stridule, scollate dalla loro fisicità; mentre i nostri doppiatori, i colleghi di papà, i miei zii...

Zii?

Per me erano tutti parenti: il sabato sera si ritrovavano a casa nostra e noi figli stavamo insieme: sei, sette uomini non bellissimi, ma con delle voci meravigliose. 

Luca Ward racconta: "Al bar fermavano Ferruccio per fargli dire "Sei solo chiacchiere e distintivo"".

Quando era con me siamo andati oltre, ed era un continuo (sorride); un caro amico, ai tempi del liceo, mi ha rotto le palle per mesi e mesi, solo per farsi mandare a quel paese da papà. 

Ci è riuscito?

Una sera, sfinito, gli chiedo il favore: prendo la cornetta, compongo il numero e passo il telefono a mio padre. E a quel punto inizia (voce profonda, tempi perfetti): "Vaffanculo, fanculo, vaffanculo". 

L'apoteosi.

Il mio amico impazzito di gioia; (ora ride) aggiungo tutti quelli che gli chiedevano di incidere il messaggio della segreteria telefonica. (pausa) Anche io, poi mi sono vergognato e l'ho cancellato. 

Come cancellato?

Non ho un buon rapporto con i cimeli, non amo neanche le foto: sono un attore e mi vedo là e pure papà lo vedo e lo sento là (intende sullo schermo). 

Suo padre che attore era?

Bravo e dotato di rigore e abnegazione, quella che oggi definiamo professionalità; per lui il lavoro era l'aspetto più serio della vita, più serio della famiglia e forse perché era parte di quella generazione uscita dalla guerra, che aveva conosciuto la fame e attraverso l'impegno aveva calmato i crampi dello stomaco. 

Torniamo a lui attore.

Come dicevo, bravo. Ma con un viso da caratterista in un momento in cui il cinema era per i belli, per i Cary Grant o i Marcello Mastroianni; e poi possedeva una voce considerata sgraziata, quindi i suoi ruoli erano quasi sempre da sfigato e pure nel doppiaggio gli assegnavano le parti da"apri porta", tipo: "È arrivata la marchesa, l'aspetta di là" o "buongiorno" e "buonasera". A quel tempo ai protagonisti era richiesta una sonorità pulita con la dizione perfetta.

Mentre Ferruccio Amendola...

Coltivava l'Armageddon della recitazione e del doppiaggio; (pausa)ha divelto la tradizione e le abitudini ed è stato straordinario nel capire il valore del suo strumento. Con lui non si parla di gola, ma di strumento.

È una dote.

È stato un attore bambino, è nato in palcoscenico. 

Non è una metafora.

No, è di Torino perché mia nonna era lì per una tournée e lo hanno chiamato Ferruccio perché l'impresario promise un regalo se gli avessero dato il suo nome. 

Il regalo è arrivato?

Macché!  E di questo in famiglia si è riso molto; però era un predestinato: a casa nostra tutti erano attori, registi, sceneggiatori o teatranti, e questa tradizione risale a generazioni e generazioni, quando ancora si recitava in piedi sulle botti di legno; ogni tanto vedo dei film dove appare mia zia Gina Amendola: è una delle tre suore ne I soliti ignoti. 

Quindi suo padre...

A 17 anni è stato costretto a scegliere: o la carriera da calciatore o quella d'attore; era una grandissima mezz' ala sinistra.

Ci ha giocato insieme?

Eccome, fino a 65 anni mi fregava con dei tunnel (passare la palla tra le gambe). 

Insomma, la scelta.

Dentro casa gli indicarono la strada: "Ferrù, ma 'ndo vai, qui c'è la tournée, la famiglia e poi parti con Walter Chiari". 

Le raccontava la sua vita?

Soprattutto i ricordi di guerra, della fame, insomma della sua gioventù. 

Come mai?

Era una forma d'insegnamento, e poi per soddisfare la mia curiosità: quel periodo mi è sempre interessato; (silenzio) non parlava volentieri di politica: era certamente di sinistra, ma riservato, anche con me. E non approvava il mio schierarmi. 

Anche su quel palco con De Niro, un passo indietro.

Era riservatissimo, al limite del chiuso, con gran senso del pudore. Poi nel suo ambiente diventava maschio alfa.

Il doppiaggio aiuta a celare.

Toglie la parte dell'esposizione, l'obbligo a diventare personaggio, ma con il passare del tempo quella parte aveva imparato a gestirla. Ricordo dei siparietti molto divertenti con Maurizio al Costanzo Show negli ultimi anni, grazie alle serie televisive, il successo di Ferruccio-volto lo ha gratificato. 

Suo padre ha rivelato: "La mia voce la devo a 40 sigarette al giorno, al tennis e a non asciugarmi dopo la doccia".

È vero, e non solo i capelli: non utilizzava proprio l'asciugamano, sivestivamentre ancora gocciolava; (pausa)le sigarette lo hanno aiutato, poi però l'hanno ucciso; (altra pausa) era un accanito fumatore ed è l'unico aspetto che gli rimprovero, perché lo sono diventato pure io. 

Inevitabile...

Sono sempre stato seduto all 'angolo del tavolo dove giocava a carte, o nelle salette dei circoli del tennis, o al cinema quando la sigaretta non era proibita. E si fumava, fumava...

Non ha mai smesso.

 Sì, nel giorno in cui è morta sua madre: ma aveva 59 anni ed era troppo tardi. 

Suo padre lo hanno accusato di doppiare troppi personaggi.

Lo chiamavano, era il più bravo; comunque li differenziava, come un musicista toccava diversi tasti dello strumento e li conoscevo sulla mia pelle. 

Tradotto?

A seconda della cazzata che avevo combinato, mi sgridava con la voce di Hoffman o di De Niro; se la cazzata era veramente grossa allora riconoscevo Stallone. 

Riusciva a restare serio?

 Trattenermi dal ridere era l'aspetto più complicato.

Tomas Milian ha sostenuto che lei e suo padre non lo sopportavate.

(Pausa, è stupito e dispiaciuto) Ma perché? È vero? Non lo sapevo, sono basito. Papà era grato e innamorato di Tomas, si divertiva tantissimo, e poi con lui ha guadagnato infinitamente di più rispetto alle pellicole con gli attori statunitensi. 

Lei ha dichiarato che di suo padre ama i western.

Perché dirigeva il doppiaggio di quasi tutti i film con Bud Spencer e Terence Hill, ed erano suoi gli effetti delle risse. Da solo. Quindi li riconosco sempre. E non sono semplici: c'è dietro un difficilissimo lavoro di apnea. 

E torniamo al concetto di strumento...

Quando ho girato Soldati di Marco Risi, in una scena scappo dalla caserma e corro sotto la pioggia: quegli attimi andavano doppiati. Così entro in sala, inizio, e poco dopo svengo per iperventilazione. Alla fine è arrivato papà e ci ha pensato lui. 

Qual è il film che ama più di suo padre come attore?

La grande guerra, ma solo perché è in assoluto uno dei miei preferiti. 

Come doppiatore?

(Silenzio) Porca miseria, è complicatissimo. Credo Il Padrino: lì è stato grande, e per quel "no" finale alla moglie ha ricevuto centinaia di lettere; oppure i monologhi di Al Pacino in Giustizia per tutti, o De Niro quando dice "un colpo solo, un colpo solo" ne Il cacciatore; (riflette) aggiungo Hoffman in Tootsie. 

Tootsie con quella vocina...

Ricordo che aveva già chiuso tre turni di doppiaggio, poi una sera torna a casa e lo vedo strano: "Non sono contento, ho sbagliato". Il giorno dopo ha ricominciato da capo. 

Perfezionista.

Era realmente un lavoratore serio e con i colleghi è stato terribile: ho assistito a cazziate e urla solo se uno dei giovani era arrivato con cinque minuti di ritardo, o se tra un turno e l'altro vedeva poca serietà. Poteva cacciarli. Per questo stava sulle palle a tanti: con lui non ne passava mezza. E aveva ragione: non è un mestiere per tutti.

Non ha citato C'era una volta in America.

Alt. È il mio film preferito e papà mette i brividi quando cambia voce e diventa anziano. "Sono andato a letto presto" è una di quelle frasi che gli ho chiesto di ripetere un milione di volte. Magari lo chiamavo al telefono: "Che hai fatto ieri, papà?" "No, basta! Che palle!" "E dai... che hai fatto?" "Sono andato a letto presto" "Grazie, ciao". 

Quando è morto cosa l'ha stupita?

La folla fuori dalla chiesa; lì ho pensato: "Mamma mia Ferruccio, cosa hai combinato". Eppure lo sapevo, perché già da anni mi fermavano e ogni volta mi ripetevano lo stesso concetto: "Sei bravo, molto bravo, però tu padre..."

E...

Questa frase spero non finisca mai, mi accompagna da sempre e lo dico pure io: perché papà era superbo, un genio del nostro mestiere. E sono tanto orgoglioso di lui.

Le cose che ha detto Ferruccio Amendola. Il Post.it il 3 settembre 2021. «Ma dici a me?» e le altre battute più celebri pronunciate da uno dei più grandi doppiatori del cinema italiano, morto 20 anni fa. La voce che la maggior parte degli italiani attribuisce a Robert De Niro, Al Pacino, Dustin Hoffman e Sylvester Stallone è di una sola persona, uno dei più grandi doppiatori della storia del cinema italiano: Ferruccio Amendola, che morì il 3 settembre del 2001, vent’anni fa. Nato a Torino nel 1930 in una famiglia di attori e commediografi, cresciuto poi a Roma, dopo un esordio da attore Amendola si diede al doppiaggio giovanissimo, dando la voce al bambino Marcello (Vito Annichiarico) in Roma città aperta di Roberto Rossellini (1945). Dagli anni Settanta in poi sarebbe diventata la sua carriera principale, grazie a una voce formidabile e anche alla fortuna di aver doppiato dei giovani attori che sarebbero diventati tra i più famosi della storia del cinema. Il primo film in cui doppiò De Niro fu Ciao America! del 1968, il terzo della sua carriera e forse il primo a dargli una vera visibilità. Successe quasi la stessa cosa con Pacino, che Amendola doppiò per la prima volta in Panico a Needle Park del 1971, il film grazie al quale sarebbe stato scelto da Francis Ford Coppola per Il Padrino. Nel 1970 aveva doppiato Stallone nel suo primo ruolo da protagonista, in Fuga senza scampo. Quando per la prima volta lavorò al doppiaggio di Hoffman, nel 1969 in Un uomo da marciapiede, l’attore americano era invece già famoso da un paio d’anni per Il laureato. Nella sua lunga carriera, Amendola doppiò una lunga serie di altri grandi attori, da Clint Eastwood a Harvey Keitel, e peraltro fu la voce italiana di Christopher Lloyd nel primo Ritorno al futuro. L’altra grande cosa per cui è famoso Amendola, poi, è aver doppiato in quasi tutti i suoi film Thomas Milian, l’attore cubano dei poliziotteschi e degli spaghetti western degli anni Settanta, celebre soprattutto per il personaggio di er Monnezza. Doppiò anche Bill Cosby nella versione italiana della sitcom I Robinson. Amendola, che peraltro è il padre dell’attore e conduttore Claudio, morì a Roma nel 2001 per un tumore alla gola. Alcune delle frasi più celebri della storia del cinema, dal dialogo di De Niro allo specchio in Taxi Driver alla scena finale di Pacino in Scarface, sono quindi per la maggior parte degli italiani pronunciate da Amendola. Queste sono alcune.

«Ma dici a me?» (Robert De Niro, Taxi Driver, 1976) 

«Questo rende possibile viaggiare nel tempo: il flusso canalizzatore» (Christopher Lloyd, Ritorno al Futuro, 1985) 

«In città sei tu la legge, qui sono io» (Sylvester Stallone, Rambo, 1982) 

«Sono andato a letto presto» (Robert De Niro, C’era una volta in America, 1984) 

«Sono stato un uomo migliore con te come donna di quanto lo sia stato con le altre donne come uomo» (Dustin Hoffman, Tootsie, 1982) 

«Sei solo chiacchiere e distintivo» (Robert De Niro, Gli intoccabili, 1987) 

«Salutatemi il mio amico Sosa» (Al Pacino, Scarface, 1983) 

«È come il cane di Mustafà» (Thomas Milian, Squadra antitruffa, 1977)

·        17 anni dalla morte e 100 anni dalla nascita di Nino Manfredi. 

"Mio papà Nino Manfredi, attore per scelta ma regista Per grazia ricevuta". Luigi Mascheroni il 2 Settembre 2021 su Il Giornale.

Il figlio Luca ricorda il grande ciociaro a cento anni dalla nascita. Al Lido la proiezione della pellicola restaurata che vinse a Cannes nel 1971. Nino Manfredi, battezzato Saturnino, nacque cento anni fa, a Castro dei Volsci, in Ciociaria, terra di tradizioni antiche e di gente di cinema. E ne aveva 50 quando, nel 1971, scrisse, diresse e recitò un classico del cinema italiano, Per grazia ricevuta, film oggi restaurato dalla Cineteca Nazionale e proiettato alla cerimonia di preapertura, l'altra sera, alla Mostra del Cinema di Venezia. In quel 1971, invece, il figlio di Nino, Luca - che ha presentato l'evento qui al Lido - aveva 11 anni. Ed era lì anche lui...

«Fu la mia prima comparsata. Recito con mia sorella nella scena della Prima comunione, facciamo i figli della famiglia ricca del paesino, vestiti da marinaretti. Paghetta: 5mila lire al giorno...».

Per grazia ricevuta, in cui suo padre interpreta un uomo miracolato che non sa scegliere fra vita monacale e vita di piaceri, denunciava, in un'Italia cattolicissima, la credulità religiosa.

«Un po' il film è la biografia di papà. Da giovane si prese una pleurite, poi diventata tubercolosi. Rimase malato tre anni, un calvario di ricoveri e due estreme unzioni. Dell'intera camerata, dove tutti pregavano, lui, che non credeva, fu l'unico a sopravvivere. Mia nonna credette al miracolo, lui invece pensava solo di essere fortunato...».

E poi cosa accadde?

«Che la sua vita fu una continua ricerca di un Dio che in fondo non credeva esistesse. E se esiste è ingiusto, diceva. A chi gli chiedeva di riassumere Per grazia ricevuta, spiegava: È la storia di un uomo che cerca Dio. Per dargli un calcio in culo».

Il pubblico come reagì?

«Si divise: come l'Italia, sempre un po' religiosa, sempre un po' libertina. Papà in fondo rispettava gli uni e gli altri. Comunque, anni dopo il film, mio padre partecipò con molti colleghi famosi a un incontro in Vaticano con papa Wojtyla, il quale - di fronte a un pubblico di attori - ricordò gli anni in cui da giovane faceva teatro, e che gli era dispiaciuto smettere... E mio padre gli disse: Santità, se fossi in Lei mi terrei stretto il Vostro posto: come uomo di teatro non sareste diventato così celebre».

La mostra di Venezia oggi omaggia un gigante del nostro cinema.

«E dire che Nino studiò Giurisprudenza, per non deludere suo papà, cioè mio nonno, un maresciallo di Polizia molto severo che lo voleva avvocato. Si laureò in legge - uno dei pochissimi attori laureati della sua generazione - e intanto studiava all'Accademia di arte drammatica a Roma. Il pubblico non se ne accorse mai, ma papà era caparbio, determinato, preciso».

Tanto preciso che nell'unica sua vera regia, Per grazia ricevuta, appunto, vinse il premio Miglior opera prima a Cannes.

«Volle provare a dirigere un film, diceva, per capire che cosa aveva imparato facendo per tanti anni l'attore. Lui era attento e metodico, in tutto. Dino Risi lo chiamava l'orologiaio per la precisione con cui costruiva i suoi personaggi. E Giuliano Montaldo diceva che era un cesellatore di caratteri».

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi

Nino Manfredi, 100 anni e 5 film indimenticabili. Roberto Nepoti su La Repubblica il 22 marzo 2021. Cento gli anni dalla nascita di Nino Manfredi, cento i film da lui interpretati. Nei quali l'attore ciociaro diede vita a personaggi molto diversi: comici o drammatici, generosi o abietti, protettivi (non ce ne voglia Benigni, il suo resta il miglior Geppetto di sempre) o spauriti. Con una predilezione per i character di individui bastonati dalla vita; anche patetici al caso, però mai tali da ispirare disprezzo, ma piuttosto compassione e solidarietà. Come lo Stefano Liberati del Gaucho di Dino Risi, che l'amico Vittorio Gassman crede arricchito in Argentina e invece ritrova umiliato e povero in canna. Dal vasto repertorio andiamo a estrarre le "facce" di Nino che preferiamo (come si potrà notare i titoli sono concentrati tra la fine degli anni '60 e il decennio successivo, il periodo più fertile della carriera di Manfredi).

C'eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola. Nella triade di personaggi maschili del capolavoro di Scola, Manfredi incarna quello più nobile e coerente: il portantino Antonio, rimasto fedele agli ideali di uguaglianza per cui ha combattuto durante la Liberazione. Pagandone le conseguenze. Nel clima di compromessi del dopoguerra, Antonio è discriminato in ospedale per la sua militanza politica. Si vede anche portar via Luciana, la ragazza che ama, dal cinico amico Gianni e prende botte per lei a Fontana di Trevi, durante le riprese della Dolce vita. L'attore è perfetto nel "carattere" più positivo dl film, ma anche sintesi delle delusioni di una generazione.

Pane e cioccolata (1974) di Franco Brusati. Nello stesso anno di C'eravamo tanto amati l'attore centra un altro personaggio memorabile in uno dei suoi film migliori: Giovanni Garofoli, detto Nino, ciociaro emigrato in Svizzera alla ricerca di un lavoro decoroso. Dopo traversìe una più frustrante dell'altra, il pover'uomo cerca di mimetizzarsi tingendo i capelli di biondo e fingendosi cittadino elvetico. Nella scena-clou del film, che non ti stanchi mai di vedere, Nino si tradisce quando, assistendo a una partita di calcio in un bar pieno di tifosi svizzeri, non riesce a trattenere l'entusiasmo per un gol della nazionale italiana.

Brutti, sporchi e cattivi (1976) di Ettore Scola. Anche al culmine della popolarità Manfredi volle affrontare la sfida di personaggi - a dir poco - sgradevoli (pensiamo a Girolimoni il mostro di Roma), che lo facevano uscire dalla zona di comfort dei suoi ruoli più premiati dal pubblico. In questa commedia al vetriolo di Scola è Giacinto, che vive in una baraccopoli alla periferia di Roma custodendo gelosamente il milione ricevuto in risarcimento per la perdita di un occhio. Circondato da una famiglia allargata a dismisura, subirà un tentativo di omicidio da parte dei parenti-serpenti, che cercherà a sua volta di sterminare.

Straziami ma di baci saziami (1968) di Dino Risi. Altro caposaldo della commedia all'italiana, una parodia feroce degli stereotipi della cultura popolare. Il barbiere Marino Balestrini da Alatri ama l'operaia marchigiana Marisa di Giovanni. Felici, i due cantano versi di canzonette alla moda; ma quando il loro amore è minacciato, s'immaginano protagonisti di una riedizione del Dottor Zivago e tentano il suicidio. Se Marino è un uomo costantemente inadeguato agli eventi, pure non rinuncia a prendersi per l'eroe di un romanzo popolare. Una piccola vincita al lotto gli fa pronunciare l'indimeticabile frase: "Sono tornato come il Conte di Montecristo... ricco e spietato".

Per grazia ricevuta (1971) di Nino Manfredi. Nel 1962 Manfredi aveva debuttato in regia con un eccellente "corto" quasi sperimentale: L'avventura di un soldato, episodio (tratto da un racconto di Italo Calvino) del collettivo L'amore difficile. Senza parole, vi si raccontava l'incontro erotico, in un treno, tra una bella vedova e un soldatino, interpretato (credibilmente) dal quarantenne Manfredi. Una decina di anni dopo Nino scrisse e diresse questa sorta di Heimatfilm all'italiana: opera tragicomica molto personale, premiata come miglior esordio al Fesival di Cannes. Dove interpreta il povero Benedetto, la cui vita è rovinata dall'educazione religiosa. Memorabile la canzone a tormentone (dello stesso Manfredi) Viva viva Sant'Eusebio.

Il giocattolo (1979) di Giuliano Montaldo. Forse non tra i film migliori di Nino, il quale però vi dà prova del suo talento nell'affrontare una parte drammatica. La sceneggiatura (co-scritta dal protagonista con Montaldo e Sergio Donati) parafrasa un classico "tipo" manfrediano, quello dell'impiegato grigio e pavido, regolarmente maltrattato dal prossimo, trasformandolo in un giustiziere con la pistola. Se l'arma gli dà un euforico senso di onnipotenza, tuttavia, il suo destino sarà molto diverso da quello dei Charles Bronson in voga nel cinema dell'epoca.

Il cinema, i film, le radici e la vita ... 100 anni di Nino Manfredi nel ricordo del figlio Luca. Edvige Vitaliano su Il Quotidiano del Sud il 21 marzo 2021.  Nino Manfredi, all’anagrafe Saturnino, attore con la A maiuscola. A rivederlo sullo schermo si resta incantati dalla sua capacità di recitare fosse solo con uno sguardo, uno spalancare d’occhi, un sorriso smozzicato, una smorfia di dolore, una semplice alzata di spalle, un levare di sopracciglio, una mano tra i capelli, una camminata sghemba. Manfredi non aveva bisogno di effetti speciali, era i suoi personaggi di cui si impadroniva con un lavoro di scavo e cesello raro e prezioso. «Conta prima la mimica, poi la parola: questo non lo insegna più nessuno», diceva. E il miracolo era compiuto. Niente sconti all’”improvvisazione”, però: “Io mi sono fatto la fama di essere il peggiore rompicoglioni del cinema italiano”. Sarà, ma quel perfezionismo – Risi lo chiamava l’orologiaio – ha regalato al Cinema italiano una galassia di personaggi indimenticabili. A Nino piacevano le sfide. Raccoglieva il guanto e vinceva. Ora che avrebbe compiuto cento anni – era nato in Ciociaria a Castro dei Volsci il 22 marzo 1921 – è difficile raccontarne l’universo, tante e tali sono le cose fatte. Di Nino parliamo col figlio, il regista e sceneggiatore Luca Manfredi.

Qualcuno ha detto che l’Italia si poteva dividere e raccontare attraverso i personaggi interpretati da Manfredi, Tognazzi, Sordi e Gassman. L’Italia di Nino è certamente un’Italia popolare, di sofferenza e umanità. Un’Italia delle maschere declinate attraverso i personaggi interpreti sullo Schermo: da  mons. Colombo da Priverno de “In nome del Papa Re” all’emigrante italiano di “Pane e Cioccolata”, dall’ambulante di “Caffè Express” al Pasquino interpretato “Nell’anno del signore” a Ciceruacchio de “In nome del popolo sovrano”. Personaggi diversi tra loro, ma chi di questi somigliava davvero a Manfredi?

«Secondo me è il personaggio che io ho di più nel cuore ed è quello dell’emigrante di “Pane e cioccolata”. Credo che questo sia anche il suo più bel film. Racchiude tutto il Dna della famiglia Manfredi e di Nino. Suo nonno Giovanni immigrò negli Stati Uniti per fare il minatore e quando tornò dopo molti anni raccontava a Nino e a suo fratello Dante quell’America che lui in realtà conosceva poco perché si alzava presto per andare a lavorare tutto il giorno. La domenica però qualche volte andava a vedere questo mondo completamente diverso dal mondo contadino a cui lui apparteneva. È un film meraviglioso».

“Io ho sempre scelto film difficili. Se non sono difficili, non mi stimolano”, ha detto suo padre, ma qual è il personaggio più difficile, quello che ha richiesto uno sforzo maggiore perché più lontano dalle sensibilità di Nino?

«Mio padre in realtà ha sempre fatto scelte coraggiose perché amava le sfide. Lo sforzo maggiore credo lo abbia fatto per il suo personaggio più sgradevole: Giacinto di “Brutti, sporchi e cattivi”. Un personaggio respingente che lo ha fatto soffrire anche fisicamente: l’occhio guercio gli veniva incollato ogni giorno dal truccatore, in più era imbottito di gommapiuma per apparire più grasso. Dodici settimane e una lavorazione faticosa. Mio padre aveva questa caratteristica: era uno specialista del sorriso amaro. I suoi personaggi avevano sempre due anime: una più lieve e ironica e l’altra più malinconica e c’era sempre un’onestà priva del cinismo che, invece, caratterizzavano i personaggi di Sordi e Gassman. Nino ha interpretato l’italiano medio nel senso migliore di questo termine. È stato intelligente anche agli inizi, quando ha provato a fare il Cinema e lo scartavano. Gli dicevano che aveva una faccia da perdente tra l’altro non in linea con alcuni canoni di bellezza maschile dell’epoca, ma proprio con quella faccia da perdente ha capito che doveva farsi interprete della perdenza di personaggi sconfitti dalla vita come l’emigrante di “Pane e Cioccolata” ma anche di quelli più lievi come il barbiere di “Straziami ma di baci saziami”». 

“Manfredi recitava con gli occhi dove altri si aiutano col viso o le parole ”, per dirla con Frassica, qual è a suo giudizio la qualità che lo rendeva unico sullo schermo?

«Intanto bisogna partire dagli insegnamenti ricevuti da Orazio Costa il quale gli diceva che prima della parola bisognava esprimersi con il corpo, per questo gli faceva fare anche il cielo o la pioggia. Costa diceva agli allievi che bisogna prendere spunto e osservare la natura, la nostra prima insegnante: se uno deve fare un personaggio nevrotico può osservare una formica che va avanti e indietro e se deve interpretarne uno sornione può prendere spunto dal gatto. Grazie a questi preziosi insegnamenti, Nino era il più americano tra gli attori della sua generazione. Studiava a tavolino i suoi personaggi con una ricerca particolare su un tic o su un’altra caratterizzazione. Era un camaleonte che si mimetizzava con i personaggi. Spariva dietro la loro pelle e diventava il portantino di “C’eravamo tanti amati” o l’emigrante di “Pane e cioccolata” o il baraccato di “Brutti, sporchi e cattivi”. Inoltre aveva fatto suo il suggerimento di Silvio D’Amico. Fu lui a dirgli che aveva un punto di forza in più: l’ironia. D’Amico gli citava sempre la locuzione latina “Castigat ridendo mores” (“corregge i costumi ridendo”) di Jean de Santeul che viene riportata sulla facciata di diversi teatri: criticare i costumi ma facendo spuntare il sorriso sulla bocca degli spettatori. È la chiave della commedia all’italiana».

Se lei dovesse indicare ai ragazzi di oggi tre film per conoscere e stupirsi del talento di Nino, quali sceglierebbe?

«Sicuramente “Pane e Cioccolata”, “C’eravamo tanto amati” e “Brutti, sporchi e cattivi”. Un quarto immancabile – perché autobiografico – è “Per grazia ricevuta” che vinse la Palma d’oro a Cannes».

C’è una parola, un modo di dire che lei ha ereditato da suo padre e ancora oggi usa nel suo quotidiano?

«L’unica parole che mi viene spesso da pronunciare e che lui diceva in maniera divertente è daje – la risata dall’altro capo del telefono restituisce la forza di una consuetudine che anche nel ricordo appare vivida – Ecco, mi viene da dire daje come faceva lui. Oggi viene usata in senso propositivo, invece, lui la usava in senso di fastidio, di sopportazione».

Di suo padre quali gesti conserva che lo riconducono immediatamente a lui?

«C’è un gesto che gli apparteneva sicuramente. Era un po’ un suo “vizio” – legato sempre ai ricordi d’infanzia e alla fame provata in Ciociaria – riguardava il “controllo” di cibi e i vini. Quando tornava dal set faceva l’ispezione del frigorifero e degli avanzi. Nulla andava buttato. Da alcuni veniva confuso per tirchieria anche il suo portarsi a casa gli avanzi del cestino del pranzo che veniva dato sul set, in realtà aveva un rispetto sacro del cibo».

Che rapporto avrebbe avuto Nino con i social di oggi?

«Credo nessuno. Papà era veramente molto legato alla sua matita e alla sua gomma. Ha continuato a lavorare fino al 2003 quando c’erano già i computer ma aveva diffidenza per la tecnologia. Interveniva sui suoi copioni sempre con la matita e la gomma. Al massimo, quando c’erano le macchine da scrivere chiedeva a una dattilografa di mettere in bella. Mi ricordo che quando veniva in macchina con me che avevo il navigatore satellitare mi diceva “ma questa come fa a sapere dove devi andare?”: era comico».

Nino “Era un po’ come il pane casareccio della sua terra ciociara: compatto e saporito fuori, ma con tanti “buchi” nascosti al suo interno”…c’è scritto nella presentazione del suo libro “Un friccico ner core” (Rai Libri). Se oggi dovesse raccontare l’uomo Nino Manfredi, che aggettivi sceglierebbe?

«Era un uomo molto complesso e tormentato. Questa complessità e questo tormento nascevano dalla sua terribile esperienza in sanatorio. A quindici anni ha ricevuto un paio di estreme unzioni, poi siccome non si decideva a morire l’hanno messo in lunga degenza per tre anni. Alla mattina insieme ai compagni andavano in pigiama a fare lezione. Nino che non era particolarmente credente ha dovuto assistere alla morte dei compagni. L’unico a salvarsi è stato proprio lui che non pregava. Questo lo ha portato a farsi delle domande e il risultato è nel film “Per grazia ricevuta”, film sulla cattiva educazione religiosa e sulla superstizione. Nino aveva uno strano rapporto con Dio, ci parlava ad alta voce come faceva suo nonno Giovanni tornato dall’America mentre zappava l’orto a Castro dei Volsci. Una volta mentre eravamo a tavola al telegiornale diedero la drammatica notizia di un bus che si era ribaltato, mi ricordo che mio padre alzò la testa verso l’alto e disse : “Ma cosa ti costava tenerlo sveglio quell’autista tu che sei Dio e non far morire quei poveri ragazzini?!”. Per Nino era inconcepibile l’idea di un Dio malvagio».

Domani su su Rai2 e Sky Arte andrà in onda il documentario scritto e diretto da lei “Uno, nessuno, cento Nino”, perché questo titolo?

«Il titolo pirandelliano allude ai cento volti di Nino uomo e artista complesso, ai cento personaggi dei suoi film e ai cento anni che avrebbe compito. È un documentario che ha un punto di vista particolare perché è Nino Manfredi attore ma soprattutto è raccontato da me, dalla sua famiglia e dai suoi amici ed è tra l’altro impreziosito dalla sua testimonianza inedita girata da me in occasione dei suoi ottant’anni».

Cose le manca di più di suo padre?

«Il fatto di avere avuto un padre come Nino – che in qualche modo la sua arte ha reso immortale – consente a distanza di diciassette anni dalla sua scomparsa di accendere il televisore e trovarselo davanti con le sue battute che conosco a memoria ma che continuano a farmi sorridere e a farmi commuovere. È come se lui fosse sempre con noi, un grande privilegio e un grande conforto per la nostra famiglia. Ogni tanto mi diverto anche a rivedere alcuni film per i quali mio padre ha fatto il doppiatore prestando la sua voce ad esempio a Marcello Mastroianni o a Franco Fabrizi ne “I vitelloni” di Fellini. Li potremmo chiamare “falsi d’autore”».

·        17 anni dalla morte di Michele Profeta.

"Uccido a caso, sarà un bagno di sangue" Il killer col mantra del "12 rosso". Michele Profeta è stato uno tra i più enigmatici degli assassini seriali italiani. Soprannominato il "killer delle carte da gioco" firmava i delitti con un re di quadri. Rosa Scognamiglio, Martedì 16/02/2021 su Il Giornale. Due carte da gioco: un re di quadri e uno cuori. È così che Michele Profeta, soprannominato il "Mostro di Padova", firmava i suoi delitti. "Ucciderò a caso", prometteva al questore di Milano nei biglietti redatti con un normografo, in cui rivendicava la paternità dei crimini commessi. Una revolver Iver Johnson calibro 32 e un colpo di pistola - tre nel secondo e ultimo delitto - dritti alla nuca della vittima. Giocatore d'azzardo, padre di quattro figli e appassionato di discipline umanistiche. Due donne, una moglie e un'amante, in diverse città. Se non il più prolifico dei serial killer italiani, sicuramente quello più enigmatico. Un assassino seriale è, per definizione, un killer che commette almeno tre omicidi. Dunque perché Profeta è considerato tale? Se non fosse scampato alla cattura, avrebbe ucciso ancora? "Nel progetto criminale che Profeta aveva fantasticato, c'era sicuramente di uccidere altre persone. E avrebbe ucciso ancora se non avesse commesso un errore di 'ingenuità', da dilettante. Certo di essere imprendibile e in preda al delirio di onnipotenza, non si è più curato di tutte le attività relative all'autosicurezza. E così, senza volerlo, 'si è fatto beccare', per dirla in modo semplice", spiega alla redazione de ilGiornale.it il criminologo e investigatore Carmelo Lavorino, che fino al 31 maggio del 2001 è stato perito di parte nel caso Profeta.

Debiti di gioco e due famiglie: chi era Michele Profeta. Michele Profeta nasce a Palermo, il 3 ottobre del 1947, da madre casalinga e papà dirigente in una nota compagnia del gas. Durante le prime settimane di vita i medici gli diagnosticano una malformazione cardiaca, ma nulla di particolarmente invalidante. All'età di 18 anni consegue il diploma di maturità classica, poi si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza. Successivamente decide di abbandonare gli studi, sopraffatto dalla compulsione al gioco d'azzardo sviluppata durante l'adolescenza. È appassionato di filosofia, amante delle moto e delle arti marziali. Giovanissimo, s'innamora di Concetta, una ragazzina minuta con gli occhi azzurri ma che la madre, una donna dal temperamento autoritario, non vede di buon occhio. Dunque Michele sposa Adriana Sorci, diventando padre di 2 figli maschi all'età di 23 anni. Viene assunto in un'agenzia immobiliare, ma dopo qualche mese i debiti contratti al gioco inficiano la carriera professionale. Sulla scia degli eventi contrari, anche il matrimonio con Adriana naufraga in un tonfo sordo. Qualche tempo dopo Profeta trova lavoro come impiegato e si ricongiunge all'amore della vita, Concetta. I due convolano a nozze in pochi mesi e mettono su famiglia: dall'unione nascono altri due figli maschi. È il momento migliore per la vita di Michele, anche gli affari vanno a gonfie vele. Si mette in proprio, apre una sua agenzia immobiliare e acquista beni di lusso. Poi però qualcosa va storto. Mette a segno qualche colpo a vuoto e incassa una denuncia per truffa che mette in crisi l'immobiliare. Dopo qualche tempo diventa rappresentante di preziosi, poi apre un ufficio come promotore finanziario. Qui intreccia una relazione sentimentale con la sua segretaria, Antonella, ma gli affari precipitano nuovamente: finisce nelle mani degli usurai. Dunque per sfuggire ai creditori nel 1996 si trasferisce in Veneto. Porta con sé l'amante e Concetta. Durante i giorni feriali vive con Antonella a Mestre e lavora a Padova in una società finanziaria, nei fine settimana torna dalla moglie e i figli ad Adria. Due case, due mogli, due figli e un solo stipendio che diventa una miseria all'ennesimo rovescio di fortuna. I sogni di gloria e successo naufragano miseramente, così Profeta finisce a distribuire volantini. Ma il 12 gennaio 2001 trova la soluzione ai suoi guai finanziari: chiedere allo Stato 12 miliardi di vecchie lire o farà "un bagno di sangue". Una promessa che mantiene: Michele Profeta, all'età di 53 anni, diventa un assassino seriale, "il killer delle carte da gioco".

Il primo omicidio. Il 30 gennaio 2001, un tassista padovano di 38 anni, Pierpaolo Lissandron, viene ritrovato in una pozza di sangue nell'abitacolo della propria vettura. Il taxi, la cui sigla è Pisa 14, è fermo al fondo di via Malman, a Padova, con i fari accessi. La polizia, intervenuta sul posto a seguito di una richiesta di intervento sollecitata dai medici del 118, non ha dubbi sulla natura criminosa del decesso: Lissandron è stato assassinato. Un delitto anomalo, privo di movente, consumatosi verosimilmente al termine di una corsa. La vettura ha le portiere chiuse e le chiavi sono ancora inserite nel quadro di accensione. Nulla è stato sottratto al trentottenne, né il portafogli con l'incasso della giornata (circa 400mila lire) né altri effetti personali. La vittima è stata freddata di spalle, al collo, con un colpo solo d'arma da fuoco. I tecnici della Scientifica deducono si tratti di una pistola Iver Johnson calibro 32 dalla pallottola scamiciata (senza rivestimento metallico) estratta dal cranio del cadavere. Nessun indizio del sospetto assassino, nessuna logica deduzione che indichi agli inquirenti la risoluzione del giallo. Chi ha ucciso Lissandron?

"Dodici miliardi subito o faremo un bagno di sangue". Il primo febbraio 2001, alla questura di Milano giunge una lettera, scritta con il normografo, inviata da Padova. "Continueremo fino quando non pubblicherete sul Corriere della Sera questa inserzione: offresi tornitore specializzato, con 12 anni di esperienza", recita il biglietto recante la firma "Padova 1". La lettera è stata spedita il 30 gennaio, ventiquattro ore dopo l'omicidio del tassista Lissandron: una rivendicazione del delitto? A modo suo, l'assassino sta allertando le Autorità. "I biglietti che Profeta inviava al questore di Milano rappresentavano, da un lato la rivendicazione del delitto, dall'altro un guanto di sfida lanciato a chi gli dava la caccia - spiega il criminologo Carmelo Lavorino - Di certo sapeva benissimo che quella somma di denaro nessuno gliela avrebbe mai data. Era una provocazione. Del resto Profeta era uno spaccone". Un'altra missiva con la stessa strana richiesta era già stata recapitata al questore di Milano l'11 gennaio precedente. "Questo è un ricatto – scrive l'anonimo firmatario – vogliamo 12 miliardi o uccideremo delle persone a caso in qualsiasi città. Sarà un bagno di sangue". A quel punto la polizia fa pubblicare l'annuncio relativo all'offerta di lavoro come tornitore sul Corriere della Sera, auspicando che l'inserzionista anonimo ponga fine alle richieste o, in alternativa, si palesi. Dopotutto potrebbe trattarsi di un millantatore, qualcuno in vena di provocazioni: l'ipotesi che dietro quei messaggi minatori ci sia la mano di un serial killer viene scartata. Ma ben presto gli inquirenti sono costretti a ricredersi.

Il secondo omicidio. L'11 febbraio a Pontecorvo (Padova), in un appartamento al civico 173 di via San Francesco, viene rinvenuto il corpo senza vita di un uomo: è riverso in una pozza di sangue. La vittima si chiama Walter Boscolo, 38 anni, ed è socio dell'agenzia immobiliare Gregoriana. Il 38enne è stato freddato con tre colpi di pistola alla nuca. L'arma del delitto è, come nel caso dell'agguato a Lissandron, un revolver Iver Johnson calibro 32. La scena del crimine però stavolta fornisce qualche dettaglio in più sul misterioso killer. Accanto al corpo della vittima ci sono due carte da gioco, un re di quadri e uno di cuori. Tra le ipotesi al vaglio degli inquirenti si fa largo per la prima volta l'idea che i due omicidi, avvenuti a distanza di 12 giorni l'uno dall'altro, siano riconducibili a un unico autore: un assassino seriale? Nel corso delle indagini gli specialisti della Unità Serial Killer della Polizia di Stato scovano nell'agenda degli appuntamenti di Boscolo, alla pagina del 10 febbraio, l'incontro con un tale "Signor Pertini". "Profeta ha scelto l'alias - chiarisce il criminologo Lavorino – vale a dire uno pseudonimo. Peraltro non uno a caso. Il riferimento all'ex Presidente della Repubblica (Sandro Pertini), uomo amato da molti, è l'ennesima riprova di un marcato delirio di onnipotenza, della sua indole narcisista. E aggiungo, anche un tentativo di compensazione dai fallimenti personali". Sarebbe questo fantomatico "Signor Pertini" ad aver visto per ultimo la vittima l'agente immobiliare. È lui "il mostro di Padova"?

Sulle tracce di Michele Profeta. L'8 febbraio, due giorni prima del delitto, l'assassino ha fissato l'incontro con Walter Boscolo nell'appartamento di via San Francesco. La chiamata è stata effettuata da un telefono pubblico dell'ospedale di Noventa Vicentina, alle ore 15.38. In men che non si dica gli investigatori riescono a individuare la scheda prepagata con cui è stata fatta la telefonata. Attraverso l'analisi del traffico in un'uscita della sim repertata, risalgono poi a una serie di utenze, tra cui quella di una anziana signora di Palermo il cui figlio vivrebbe in Veneto, tra Mestre e la provincia di Rovigo. La polizia si dà da fare per risalire all'identità del serial killer il prima possibile: bisogna evitare altre vittime. Dopo una complessa serie di accertamenti tecnici, gli inquirenti risalgono al nome di Michele Profeta. "Profeta ha commesso un errore da dilettante - spiega il criminologo - Certo di essere imprendile, perché riteneva di essere molto più furbo di chi gli dava la caccia, non si è più preoccupato di garantirsi la sicurezza personale quando commetteva i crimini. Nel secondo delitto era completamente sopraffatto dal delirio di onnipotenza (lo prova il fatto che con l'omicidio dell'agente immobiliare ha iniziato anche a 'firmare' la scena del crimine con le carte da gioco) e quindi si è 'fatto beccare'. Ovviamente non era sua intenzione farsi catturare e, per certo, nel suo progetto criminale fantasticava di uccidere altre persone".

La cattura e il "kit da assassino seriale". La caccia all'assassino seriale finisce a Padova, in via Carducci, pressappoco alle ore 18.30 del 16 febbraio 2001. Profeta viene fermato da un pattuglia della polizia all'uscita dall'ufficio presso cui lavora. Impassibile di fronte agli agenti, nega qualunque coinvolgimento nelle vicenda per cui è indagato. "Vi sbagliate, non sono io la persona che state cercando", afferma con aria serafica. Ma gli oggetti rivenuti a bordo della sua auto durante le attività di perquisizione fugano ogni dubbio sulla sua colpevolezza. Nella Skoda Felicia di sua proprietà vengono repertati un normografo, dei bossoli di una Iver Johnson calibro 32, una pila di carta da lettera e, soprattutto, una carta da gioco: il re di cuori. "Ogni assassino seriale si distingue per la 'firma psicologica' del delitto e il modus operandi - spiega il dottor Lavorino - Profeta sceglie le carte da gioco per firmare l'omicidio perché il 're' rappresenta la sua indole da giocatore d'azzardo. Lui elaborava sistemi, era convinto di poter dominare la natura del gioco e quindi ha proiettato la sua passione anche sulla scena del crimine attraverso il simbolismo delle sue sconfitte. Ogni serial killer, quando riproduce la scena del crimine, si pone come vincitore. Dunque, da sconfitto qual era al gioco, nella vita e nei rapporti umani, si poneva come soggetto vincitore quando metteva a segno un omicidio. In breve, riusciva, attraverso la realizzazione di un piano criminale, a invertire le posizioni. Lui si identificava col re di picche che rappresenta la morte".

La condanna all'ergastolo. Testimonianze, indizi che si trasformano in prove schiaccianti, alibi inesistenti e perizie balistiche inconfutabili inchiodano Profeta: è lui l'assassino seriale anche se nega tutto. Ma nonostante il pesante carico probatorio, il processo subisce numerosi colpi di scena tra avvocati dimissionari e un carosello di periti che sfila nelle aule del tribunale di Padova per giorni, settimane, mesi. L'indagato continua a professarsi innocente, riuscendo ad aggirare con astuzia gli interrogatori con risposte che non ammettono replica. La pistola? "L'ho trovata in baule, era del nonno". E il normografo? "Lo usavo per messaggi", risponde alle domande dei pm senza lasciar trapelare mai alcun segnale di cedimento emotivo. Ma l'8 maggio 2002 arriva la svolta. In Corte d'Assise a Padova, Profeta conferma il contenuto di un colloquio precedente con il professor Vittorino Andreoli: si tratta della sua confessione. Gli avvocati che lo difendono chiedono una nuova perizia psichiatria per escludere il rischio del carcere a vita. Ma la Giuria non sente ragioni e condanna Profeta all'ergastolo.

"Dodici rosso": analogie tra Michele Profeta e Donato Bilancia. Nella breve carriera da serial killer, c'è una costante che ricorre nel curriculum inglorioso di Profeta: è il numero 12. Dodici sono i giorni che intercorrono tra i due omicidi che mette a segno, dodici sono i miliardi che chiede allo Stato quando rivendica la paternità dei delitti commessi e dodici sono gli anni di lavoro del "tornitore con esperienza" nell'inserzione pubblicata sul Corriere della Sera. Anche l'appuntamento con l'agente immobiliare Walter Boscolo, la seconda e ultima vittima, è fissato per le ore 12. Un caso? No di certo. Basti pensare al caso del "killer delle prostitute" Donato Bilancia, che aveva fatto del numero 32 un mantra. "Profeta s'ispira a Bilancia - afferma il dottor Lavorino - Entrambi sono giocatori d'azzardo e hanno una vita sentimentale completamente disastrata. Tutti e due freddano le vittime con uno o più colpi d'arma da fuoco (una pistola Smith & Wesson modello 38 nel caso di Bilancia e una Iver Johnson calibro 32 nel caso di Profeta) senza mai guardarle negli occhi. Profeta, a livello istintivo, s'ispira a Bilancia: il delirio di onnipotenza li accomuna e il desiderio di riscattarsi dai fallimenti personali".

"Per questo ho ucciso". Durante i mesi di reclusione nel carcere di Voghera, Michele Profeta scrive un memoriale di 7 pagine che consegna all'avvocato Cesare Dal Maso. In quel breve scritto racconta il motivo per cui ha cominciato a uccidere: una sorta di "sacrificio rituale", stando a quanto racconta, per salvare sé stesso dalla rovina. "Ebbene, negli ultimi giorni di novembre del 2001, mi è capitata una cosa strana... - racconta - Era una tersa mattinata di fine mese, intorno alle 13 credo, e mi trovavo a Marghera, posteggiato nei pressi del viale che porta al sottopassaggio della stazione di Mestre. Mi accingevo a compilare alcune schede sui 'calcoli delle probabilità' (sai quella mia mania sui calcoli del Rosso e del Nero e sulla loro sequenza di uscite alla roulette), quando tutto ad un tratto mi sentii chiamare per nome. Michele, Michele, Michele, era una voce calma e carezzevole. Non il solito tono che si usa quando si chiama una persona, una strana eco insomma... Ho alzato gli occhi, ho guardato in giro, ma non ho visto nessuno. "Avrò sentito male", ho pensato, e ho continuato a svolgere i miei calcoli. Pensando: "Ho proprio bisogno di riposare, sono troppo stressato...". E poi, continua: "Stavo per riprendere le operazioni quando la voce si fece risentire, ancora più carezzevole di prima: 'Michele, ascoltami, sono io…'. Posai tutto di scatto e capii: era la voce della mia madrina, morta venti anni prima. Una donna stupenda che mi aveva sempre aiutato e mi voleva un bene enorme... [...] "Sì - mi rispose - sono qua per aiutarti, ho qualcosa su cui farti riflettere: pensa ai sacrifici che fin dall'antichità si facevano per ingraziarsi gli dei, pensa al sacrificio di Gesù, al Suo preziosissimo sangue versato per il perdono dei peccati di tutta l'umanità, pensa alle vittime innocenti sacrificate sull'altare della pace. Non si ottiene nulla senza un sacrificio... Anche tu ne devi compiere, Michele". Poi sparì, dicendo: "Mi farò viva io". Quindi la voce amica mi disse che per risolvere per sempre i miei problemi (da buon imprenditore ero ridotto a fare volantinaggio), ed ottenere il perdono delle mie colpe, dovevo sacrificare "Due vittime innocenti". Una al "dio del Bene" e una al "dio del Male", persone forse contrapposte e in eterno conflitto tra loro. [...] Ma cosa devo fare? 'Te l’ho detto: non si ottiene nulla'". Un'allucinazione o un alibi nel tentativo di farla franca? Il criminologo Lavorino non ha dubbi: "Tutti i serial killer che uccidono con arma da fuoco dicono di aver sentito questa 'voce' - spiega - Ma si tratta di confessioni posteriori all'arresto che, come nel caso di Profeta, vengono riferite molto tempo dopo. A mio avviso, credo si tratti di un espediente per dimostrare incapacità di intendere e volere al fine di evitare l'ergastolo. Se fosse vero che Profeta fosse perseguitato da queste "voci", sarebbe stato affetto da schizofrenia. Ma non ci sono mai stati gli indicatori di una patologia schizofrenica, altrimenti alcuni segnali sarebbero emersi molto tempo prima. Ripeto, ritengo siano stati puramente degli espedienti per farla franca. Profeta era un soggetto edonista (uccideva per il gusto di uccidere), missionario, leggermente visionario e commetteva omicidi per profitto. Non aveva alcuna sindrome paranoide".

La morte di Profeta. Il 16 luglio 2004, mentre sostiene il suo primo esame universitario in storia della filosofia nella sala degli avvocati del carcere di San Vittore, Michele Profeta reclina il capo lentamente e muore, stroncato da un infarto. "Ebbe un rilassamento, piegò la testa all’indietro, socchiuse gli occhi e iniziò a tremare come in preda a convulsioni. Le guardie chiamarono i medici del carcere, lo sdraiarono ma lui agonizzava e non ci fu più nulla da fare. Profeta morì davanti ai miei occhi", racconterà nel corso di svariate interviste alla stampa il professor Davide Bigalli che ha assistito al decesso. "Il Male se la rideva di me e poteva dire, a buon diritto - scrive Profeta nelle righe conclusive del suo memoriale - al Signore che era riuscito a strapparmi a Lui. Ecco questa è la vera storia dei due omicidi che ho commesso a Padova". Questa la storia del "killer delle carte da gioco".

·        15 anni dalla morte di Mario Merola.

Il cantante simbolo moriva 15 anni fa. Chi era Mario Merola, la storia del “Re della Sceneggiata” che cantò per il Presidente USA e fece inchinare Bono Vox degli U2. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Novembre 2021. Mario Merola stava girando Il Mammasantissima. Una donna, anziana, praticamente in fin di vita, si fece accompagnare sotto al braccio dalla figlia, fino in prima fila, per assistere dal vivo alle riprese del film. Era il novembre del 1978, l’attore e cantante doveva ancora dare la faccia all’emblematico Zappatore, ma era già una star. Perché questo era Merola: l’uomo che ha contribuito a portare la canzone napoletana nel mondo, a dare lustro al genere della sceneggiata sia al teatro che al cinema, un emblema e un protagonista della città. È morto 15 anni fa: l’anniversario ricade proprio il 12 novembre. Era il 2006. Merola era nato il 6 aprile 1934 a Strettola Sant’Anna alle Paludi nel quartiere Mercato, nel cuore del centro storico di Napoli. Figlio del ciabattino Giuseppe, nativo di Maddaloni, e della madre Maddalena Esposito, di Casalnuovo di Napoli. Personalità di svariati talenti, oltre alla voce e alla recitazione, visto che solo un infortunio grave alla caviglia gli precluse l’ambizione di una carriera da calciatore: giocò da terzino nell’Unione Sportiva Granili, nel Pro Carmelo, nelle giovanili del Napoli perfino, quindi nella squadra dei portuali del Portugal. E fu proprio da scaricatore di porto, con il collega Salvatore De Lillo, che si appassionò al canto. La prima esibizione: alla festa della Madonna alla chiesa di Sant’Anna alle Paludi, con Mario Trevi in ritardo, i colleghi lo incitarono a esibirsi. Un successo. Il primo disco nel 1962. Con i primi guadagni lasciò il lavoro al porto e si dedicò completamente alla musica, all’arte. Sposò dopo 13 anni di fidanzamento Rosa Serrapiglia (oggi 85 anni) il 6 aprile del 1964. La coppia ha avuto tre figli: Roberto, Loredana e Francesco. I maschi lo hanno seguito nella musica: il primo organizzatore di eventi e il secondo cantante anche lui. Era molto devoto di Padre Pio, Merola, e incontrò anche il frate di Pietrelcina durante una tournée in Puglia. Quando fu costretto al coma farmacologico dopo un malore a Milano, nel 1997, raccontò di aver avuto la visione del santo “in mezzo ad un giardino pieno di verde un monaco mi sorride. Quando mi avvicino mi dice: ‘Non ti preoccupare, sto qua io’. Io lo guardo meglio: Padre Pio, Padre Pio, allora te si arrecurdate ‘o veramente di quando ti venni a trovare!”. Questo e altri aneddoti sono stati raccolti nella biografia ufficiale Napoli solo andata … Il mio lungo viaggio scritto con Geo Nocchetti e pubblicato nel 2005. Ad esempio, altri: nel 1977 con altri artisti italiani come Pavarotti fu ricevuto alla Casa Bianca dall’allora Presidente degli Stati Uniti Gerald Ford e dal segretario di Stato Henry Kissinger; ogni anno assisteva al Festival di Sanremo, del quale era un grande appassionato, e al quale partecipò una sola volta nel 1994 con la cosiddetta “Squadra Italia”, 11 artisti come una squadra di calcio in previsione dei Mondiali del 1994; proprio a Sanremo, nel 2000, il siparietto che passò alla storia con il cantante degli U2 Bono Vox che scese tra il pubblico e si inchinò a Merola che applaudiva; il cantante è anche apparso in un cameo per la soap opera di RaiTre ambientata a Napoli Un Posto al Sole nei panni di un camorrista-strozzino. Merola è diventato il “Re della Sceneggiata” soprattutto per film come Il mammasantissima, Zappatore, Carcerato, Lacrime napulitane e Tradimento. Con lui suonava il piano nei primi anni Novanta Gigi D’Alessio. “Per lui ero come un figlio ribelle – ha raccontato Nino D’Angelo nella sua recente biografia Il Poeta che non sa parlare – In fondo gli volevo molto bene e anche a me dava molto fastidio il fatto che, quando stavamo litigati, per farmi indispettire si coccolava Gigi D’Alessio, e quando stava litigato con Gigi al contrario si coccolava me”. A Domenica In, interrogato da Pippo Baudo, Merola ipotizzò proprio D’Angelo come suo più papabile erede. Due vizi ha sempre ammesso il “Re della Sceneggiata”: le donne e il gioco d’azzardo. I guai grossi però arrivarono sotto un’altra ombra, quella della Camorra. Fu raggiunto da un avviso di garanzia nel 1983 per associazione a delinquere a scopo camorristico e nel 1989 da un altro avviso (a seguito delle dichiarazioni di un pentito) per il cosiddetto Maxiprocesso Quater con l’amico attore Franco Franchi. “Sono innocente, ho la coscienza a posto – si difese – Sono fetenzie, cose brutte che fanno male a Napoli, non possono rovinare così la mia famiglia e la mia carriera per cose che non esistono, io con la Camorra non c’entro niente”. Merola fu assolto completamente in entrambe i casi. La seconda volta fu indagato e prosciolto dal giudice Giovanni Falcone. Dopo aver mangiato delle cozze crude a Castellammare di Stabia venne ricoverato in rianimazione all’Ospedale San Leonardo. Domenica 12 novembre, cinque giorni dopo il ricoverò, morì intorno alle 21:00 per arresto cardiocircolatorio nello stesso ospedale. Circa 40mila persone e le autorità politiche e cittadine parteciparono ai funerali presso la Basilica di Santa Maria del Carmine Maggiore. È sepolto al Cimitero Monumentale di Napoli. A omaggiarlo una strada nel quartiere Porto e una lapide nel quartiere Sant’Anna alle Paludi, il suo quartiere, con una scultura in bronzo con la frase “v’aggio voluto bene … penzateme”. E infatti, a riprova del grande affetto della gente verso l’artista: quella donna, in condizioni gravissime, come raccontato dal produttore e sceneggiatore Ciro Ippolito, che volle assistere alle riprese de Il Mammasantissima, aveva espresso il suo ultimo desiderio, mentre un male incurabile la stava divorando: vedere l’artista che le “faceva compagnia”, “alleviando i suoi dolori” con le sue canzoni e i suoi film. Quando tornò a casa, in quella giornata di novembre 1978, morì. E Merola, con il resto della troupe, partecipò, in lacrime, ai suoi funerali.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

·        15 anni dalla morte di James Brown.

Marco Molendini per Dagospia l'11 ottobre 2021. L'algoritmo di Spotify non lo andrà mai a scovare ‘Soul on top’, fantastica vacanza discografica di James Brown, incontrastabile, potente, scatenato, bizzarro padrino del soul che travolge una pattuglia di jazzisti con il suo funk e violenta un pugno di classici con la sua voce consumata dalla carta vetrata. Sepolto dai milioni di titoli di Spotify, ‘Soul on top’ è un sussulto di energia, un brivido musicale: basta ascoltare la versione di ‘It's a man's, man's, man's world’ con una coda di quattro minuti dove Mr Dynamite sferza l'orchestra, grida, improvvisa, incita i fiati «hit me, hit me», colpitemi: uno spettacolo. Non l'ha mai cantato così quel suo cavallo di battaglia. Oppure, poco dopo, ecco servita la reinvenzione di ‘September song’ di Kurt Weill, morbida ballad santificata da Frank Sinatra, trasformata in una sfida rovente. La canzone danza, prende il volo spinta da una fusion resa incandescente da un impasto di ritmi dove si mescolano blues, soul, latin (la boogaloo dance), prosegue in un crescendo contagioso, si sporca («io non traspiro, sudo» chiarì una volta in un'intervista James Brown), si infila in una coda dove l'orchestra offre il tappeto e il mago lo cavalca improvvisando fino all'ultimo grido mentre i fiati vanno alle stelle: non c'è un finale, non ci può essere, la registrazione sfuma e lascia immaginare che quel sabba sia andato avanti all'infinito. Che pezzo, una lezione artistica ancora oggi, a distanza di mezzo secolo, per freschezza, inventiva, energia. L'album potrebbe vivere di queste due sole prodezze, ma non è così, testimonianza sfavillante dell'immenso talento di un'artista naturale, insieme primordiale e raffinato che, nel momento di massima potenza artistica (di lì a qualche mese avrebbe inciso un monumento della musica come ‘Sex machine’), decide di fare un disco per divertirsi e fa un capolavoro. Lo fa rispolverando due vecchie passioni, il jazz e Frank Sinatra (al quale qualche mese prima aveva già dedicato un altro album da riscoprire, Gettin' down to it, dove si avventura anche in una sua versione di Strangers in the night). Lo fa chiamando un vecchio amico come Oliver Nelson, sassofonista, arrangiatore di talento capace di passare dall'avanguardia del jazz alla musica commerciale, e convocando un illustre batterista, Luigi Paulino Alfredo Francesco Antonio, in arte Louie Bellson, supremo specialista di big band, per anni con Duke Ellington. Con loro un'orchestra di 18 elementi (con alcuni gran nomi, dai sassofonisti Ernie Watts e Buddy Collette, al trombonista Jimmy Cleveland, al principe dei contrabbassisti Ray Brown, al fidato Maceo Parker che si incarica dei soli di sassofono). Si chiudono in studio 48 ore e macinano suoni mentre Brown, dentro un box delle dimensioni di una cabina telefonica, non sta fermo un momento. Così il capolavoro è servito, frutto di un affiatamento carnale con Oliver Nelson che mette a disposizione un'orchestra che non ha imbarazzi a macinare swing e funk e con Louie Bellson che produce una base ritmica sciolta e muscolare allo stesso tempo. Parlare di capolavoro può suonare banale, con l'abuso che si fa di quel termine distribuito al primo stormir di fronde (mi vengono in mente gli incensamenti sperticati per i Manneskin, secondo alcuni la grande rivoluzione del rock), ma la forza di questo disco misconosciuto che, quando venne pubblicato, nel 1970, fu praticamente ignorato, salta agli occhi (anzi alle orecchie) senza incertezze. Arrangiamenti, genuinità, divertimento, spontaneità, freschezza, originalità, libertà (la forza del jazz). Il materiale è eterogeneo (da hit country come Your cheatin heart, a un pezzo di Frankie Laine come That's my desire, uno di Doris Day come It's magic, un altro di Sammy Davis come What kind of fool am I, For once in my life del giovane Stevie Wonder) ma non importa, viene passato al setaccio, macinato, cucito su misura su quel prodigio di Mr Dynamite. Non solo ‘September song’ o ‘It's a man's, man's, man's world’, ma anche un suo successo di qualche anno prima, come Papa's got a brand new bag, anche questo dato alle fiamme con un crescendo finale dove il tema diventa un pretesto (come per gli altri pezzi) mentre la big band spinge i fiati in fuorigiro e quell'interprete magmatico va avanti affidandosi all'estro della sua fantasia. E, dopo 51 anni, se scovi ‘Soul on top’ scavando in quella miniera chiamata Spotify, così ricca al punto di confonderti (ci vuole tempo, passione, curiosità), l'effetto è un messaggio chiaro: quel disco è frutto di una convergenza astrale non facile da ripetere. La vita turbolenta di James Brown ha disseminato per strada molto talento e molto spreco. Lo sappiamo, lo abbiamo misurato negli anni, ma ascoltandolo si capisce che a questa impresa il padrino del soul fosse profondamente legato, forse perché offriva un lato privato della sua irrefrenabile passione musicale. Tre mesi prima di morire, quel disco, che intanto veniva ripubblicato su cd, lo ha riproposto in una serata live all'Hollywood Bowl divertendosi come un pazzo nonostante gli acciacchi (su Youtube c'è un frammento): gli arrangiamenti erano quelli di Oliver Nelson, Louis Bellson a 82 anni, ha potuto fare solo una partecipazione, l'orchestra era guidata dal contrabbassista Christian McBride.

·        15 anni dalla morte di Oriana Fallaci.  

Vittorio Feltri, la confessione sugli ultimi giorni di Oriana Fallaci: "Voleva parlarmi con urgenza, ma il giorno dopo era morta". Libero Quotidiano il 13 luglio 2021. Quest' anno, il 15 settembre, si celebra la morte di Oriana Fallaci, avvenuta tre lustri orsono. Superfluo dire quanto ci manchi la meravigliosa giornalista e scrittrice. La sua produzione letteraria è nota e ha lasciato il segno non solo nel nostro Paese, ma in tutto il mondo. Proprio negli ultimi giorni è uscito un volume edito da Giulio Perrone, titolo: A Firenze con Oriana Fallaci, vergato da Riccardo Nencini, un signore che sa tenere la penna in mano, come dimostrano i numerosi premi che si è meritato nel corso di una lunga e brillante carriera nel nostro mestieraccio. Si tratta di un ricordo particolare, ambientato nel capoluogo toscano, dove Oriana nacque e divenne adulta. Il volume ha il pregio di non essere banale, racconta del legame strettissimo della fenomenale narratrice con la sua città, dalla quale, pur avendo vissuto un'eternità a New York, non si è mai slegata, al punto che quando il cancro l'aveva divorata, volle lasciare gli Usa e tornare a Firenze per morire, come lei diceva, nei luoghi in cui aveva visto la luce e imparato alla perfezione la lingua di Dante. In quei giorni per lei finali, mi telefonò chiedendomi di procurarle una casa a Milano, che non fosse una camera d'albergo (non desiderava mostrarsi in pubblico nel pieno della malattia), allo scopo di discutere con la Rizzoli i diritti d'autore che le spettavano. Non sapevo come aiutarla e le offrii il mio appartamento in piazza Duse. Volle visitarlo per constatare se facesse al caso suo. Le piacque, ma non sopportava il fatto che per accedere alla cucina fosse necessario scendere un gradino. Pertanto si comprò un nastro bianco e rosso, di quelli che delimitano i lavori in corso sulle strade, lo legò a due sedie in maniera di essere avvertita dello sbalzo. Rifiutò l'assistenza della mia cameriera. Pretendeva di godersi la solitudine. Nessuno tra i piedi. Mi trasferii in una mansarda dello stesso edificio, ma ogni giorno andavo a trovarla.

Seduti sul divano chiacchieravamo, Oriana fumava una sigaretta dopo l'altra. Seppe che al piano di sopra abitava la signora Trussardi, proprietaria della omonima azienda di moda, e manifestò l'aspirazione di poterla conoscere perché da anni usava il suo profumo, portandoselo perfino nei deserti del Medioriente. Combinai un pranzo. Al quale accompagnai la Fallaci onde procedere alla presentazione delle due dame. Oriana indossava un abito elegantissimo, era una persona elegante e rispettosa delle forme. Come al solito mangiò due bocconi e basta, e conversò amabilmente con la ospite. Terminato il pasto mi chiese di accompagnarla in una salumeria in via Salvini, comprò due cose e si rifugiò di nuovo nel mio quartierino. Un paio di giorni dopo decise di trasferirsi a Firenze per morire. Le procurai un'auto che la conducesse a destinazione. Trascorre una settimana e fui ricoverato al Fatebenefratelli a causa di una prostatite acuta. Non potei parlarle più. Cosicché telefonò a mia moglie, che la conosceva, e le disse che aveva urgente bisogno di conferire con me. Non ho mai saputo perché in quanto Oriana l'indomani spirò. Anche se me lo aspettavo, l'evento mi fece venire un colpo al cuore. Fine di una amicizia profonda, fine di una donna meravigliosa. L'anno successivo a Rimini si svolse il Meeting di Comunione e liberazione. Ero tra i partecipanti, incaricato di conversare della scrittrice scomparsa. Un altro relatore era Rino Fisichella, un arcivescovo che accompagnò all'altro mondo la principessa della letteratura. Al termine del dibattito, il prelato mi consegnò una busta di plastica dicendo che gliela affidò Oriana per recapitarmela. La aprii, conteneva un bicchierino e un cucchiaio. Le erano serviti per lenire il dolore del tumore durante il viaggio da Milano a Firenze. Sentiva il bisogno di restituirmi quegli oggetti che aveva prelevato dalla mia dimora senza avere l'opportunità di avvertirmi. Ecco questa è la mia Oriana, la creatura migliore che ho incontrato. Il libro di Riccardo Nencini.

Fallaci, ecco la biografia. "Oriana una donna" di Cristina De Stefano. Roberto Procaccini su Libero Quotidiano il 27 ottobre 2013. Oriana, una donna. E' già dal titolo che la prima biografia della giornalista Oriana Fallaci (edito da Rizzoli) dichiara il proprio obiettivo: ripercorrere la carriera professionale di una donna in grado affermarsi in un mondo ancora tutto al maschile e portare la propria sfida fino alle orecchie dei potenti. Ma raccontare anche l'intimità di una ragazza coraggiosa, staffetta della resistenza partigiana ancora adolescente, vissuta a cavallo tra l'Italia e gli Stati Uniti, squassata da amori infelici. E' studiando e navigando per tre anni in materiale d'archivio in gran parte inedito e sconosciuto che l'autrice della biografia, Cristina De Stefano, è riuscita a tirar fuori il ritratto inedito di una giornalista in grado di essere osteggiata dai progressisti come dai conservatori. Un'attenzione alla vita privata pregna di interesse proprio perché non diventa mai gossip.  Tra amori e aborti - Il primo amore della giovanissima Oriana è Alfredo Pieroni, corrispondente da Londra per la Settimana Incom Illustrata e futura penna di punta del Corriere della Sera. La Fallaci ha meno di trent'anni e si innamora perdutamente del collega, di 7 anni più grande. Ma il suo sentimento non è corrisposto con la stessa intensità. La storia tracolla nella primavera del 1958: la giornalista rimane incinta, ma il partner non è disposto a riconoscere la paternità del bambino. Oriana valuta la possibilità dell'aborto, ma sarà la natura a decidere per lei: l'interruzione della gravidanza arriva in maniera spontanea mentre si trova a Parigi. La storia con Pieroni finisce, e la Fallaci prova a suicidarsi mandando giù una confezione di sonniferi. L'abuso di farmaci non sarà letale, ma seguono mesi di internamento in un ospedale psichiatrico durante i quali la giornalista getta i semi di quelle riflessioni che (insieme a un secondo aborto spontaneo) la porteranno nel 1965 a scrivere la prima bozza di Lettera a un bambino mai nato. Il reporter, l'eroe, l'astronauta - Impiegherà dieci anni Oriana per ritrovare il coraggio per lanciarsi in una nuova storia d'amore. Ma sarà una nuova delusione. La Fallaci conosce sul fronte di guerra il reporter francese François Pelou, che sarà per lei un grande maestro e una grande passione. La storia va avanti dal 1968 al 1973, ma Pelou è sposato e non vuole rinunciare alla sua famiglia. Quando capisce che la loro storia è destinata a non avere futuro, Oriana molla il francese e spedisce l'intera corrispondenza che hanno intrattenuto per anni alla moglie. Viene poi il rapporto con Alekos Panagulis (oppositore greco al regime dei colonnelli) che dura fino alla sua morte, avvenuta nel 1976 in un sospetto incidente stradale. E' la storia che sembra lasciare meno il segno in Oriana. L'ultimo scampolo d'amore arriva in età matura. E' il 1983 quando a Beirut la Fallaci conosce Paolo Nespoli, un militare italiano destinato a una carriera da astronauta. I due convivono a lungo a New York, ma la storia finisce quando Nespoli si trasferisce in Germania per un ingaggio con l'Agenzia Aerospaziale Europea. Oriana ne trarrà impressioni per il romanzo Un cappello pieno di ciliege, uscito postumo nel 2008.

Oriana Fallaci, una fiction sulla Rai. Gli autori sono tutti "sinistri". Giulio Bucchi su Libero Quotidiano il 11 maggio 2013. La vita di Oriana Fallaci raccontata in uno sceneggiato targato Rai. Se ne parla da anni, da quando l'allora direttore di Rai Fiction, Fabrizio Del Noce - nell'ottobre del 2009 - lo aveva preannunciato. E a quanto pare, nonostante l'andirivieni ai vertici di viale Mazzini, l'idea non è stata abbandonata. Anzi, ha preso forma. Ma, se prestiamo attenzione a coloro che si sono fatti promotori dell'ambizioso progetto salta all'occhio qualcosa su cui vale la pena riflettere.  Tre nomi su tutti: Stefano Rulli e Sandro Petraglia (sceneggiatori), Domenico Procacci (produttore). La trama - che sarebbe già stata approvata dagli addetti ai lavori - è infatti stata scritta proprio dalla premiata ditta Rulli - Petraglia. Per intenderci, gli stessi che hanno firmato La meglio gioventù (di Marco Tullio Giordana), il film che racconta i sogni degli intellettuali di sinistra e della borghesia progressista negli anni Settanta, attraverso le vicende personali di Matteo e Nicola Carati. Pochi giorni fa, al teatro Eliseo di Roma - dove è andata in scena la pièce Mi chiedete di parlare diretta e interpretata da Monica Guerritore - si è tenuto un convegno sulla vita privata e professionale della Fallaci, moderato dalla giornalista del Corriere della Sera Emilia Costantini.  In quell'occasione l'attuale direttore di Rai Fiction Eleonora Andreatta ha annunciato la realizzazione della mini serie in due puntate sulla vita della Fallaci e ha rivelato il nome del produttore cinematografico: appunto il barese Domenico Procacci, patron della Fandango. Procacci è notoriamente vicino agli ambienti di sinistra, come lo sono gli sceneggiatori. A questo punto una domanda sorge spontanea: perché la sinistra sceglie di celebrare Oriana Fallaci, la stessa persona che non era vista di buon occhio negli ambienti sinistroidi per la sua voglia di combattere a favore della libertà?  Quando nell'ultima parte della sua vita la Fallaci si è scagliata contro il radicalismo islamico, è stata spesso e volentieri ricoperta di insulti dalla maggioranza degli intellettuali progressisti. Riusciranno quindi i nostri «eroi» a raccontare tutto quello che questa donna è riuscita a dire, fare, scrivere e vivere nella sua vita? La Fandango è al suo primo progetto televisivo. Quello che avrebbe spinto la casa di produzione ad accettare tale sfida sarebbe la grande eco che Oriana Fallaci ha avuto nel mondo. È un lavoro importante e di portata internazionale, poiché la scrittrice è stata una delle donne che più ha segnato l'era moderna, attraverso le sue inchieste e le sue testimonianze, che però fino a poco tempo erano scomode e fuori dal coro. E a proposito di respiro internazionale, pare che Procacci si stia muovendo per cercare contributi economici anche dall'estero. La mini serie in due puntate sarà diretta probabilmente da Marco Turco, già regista di Altri tempi - fiction Rai in cui si racconta la storia delle case chiuse prima dell'approvazione della Legge Merlin - la cui protagonista è Vittoria Puccini.  Ed è proprio il nome della Puccini quello più accreditato per vestire i panni di Oriana Fallaci. Insomma, il regista si porta la sua attrice; sceneggiatori e produttore dovrebbero essere in accordo e il cerchio si chiude. Le riprese dovrebbero iniziare in autunno e la messa in onda è prevista per il prossimo anno, rigide regole dei palinsesti televisivi permettendo. «Ha avuto una visione della realtà fuori dalle chiese dei partiti, assolutamente non conformista, ed è questo su cui con Petraglia vogliamo puntare: una Oriana Fallaci in qualche modo eretica», aveva detto qualche tempo fa Stefano Rulli. Siamo curiosi di scoprire che significa, per lui, «eretica». Perché, in qualche modo, «eretica» l'Oriana lo è stata tutta la vita. Anche se molti tendono a cancellare una parte della sua produzione letteraria e le più politicamente scorrette delle sue idee. Proprio lo spettacolo di Monica Guerritore di cui sopra è l'esempio perfetto del modo in cui la grande fiorentina viene rappresentata dall'intellighenzia: come una pazza furiosa in preda alle proprie ossessioni. Mentre, fino all'ultimo, la Fallaci è stata di una lucidità spietata e di un coraggio senza pari. Tra l'altro, non troppo tempo fa, si era parlato di un possibile sceneggiato tratto da Un Uomo, e il maschio in questione è Alekos Panagulis, un leader dell'opposizione greca al regime dei Colonnelli, che era stato perseguitato, torturato e incarcerato a lungo, e di cui Oriana è stata perdutamente innamorata fino alla morte di lui, avvenuta in un misterioso incidente stradale il 1 maggio 1976. Il progetto - che sarebbe dovuto essere a cura degli stessi sceneggiatori e prodotto sempre dalla Fandango - dovrebbe però restare nel cassetto, tutte le risorse saranno dirottate sulla fiction che racconta l'universo Fallaci, anche perché la storia d'amore è parte integrante dello sceneggiato in cantiere.     

Furio Colombo accusa Libero: "La Fallaci? Ne fanno un uso strumentale". Andrea Tempestini su Libero Quotidiano il 31 agosto 2014. Furio Colombo, sul Fatto Quotidiano, ci accusa di fare un uso strumentale delle parole di Oriana Fallaci. Dice che «nella grande opera si rivela il grande autore» e dunque, a proposito di scontro di civiltà dovremmo leggere, invece di La Rabbia e l'Orgoglio o La Forza della Ragione, «Inshallah». Motivo? Gli ultimi scritti di Oriana sono «dettati dalla disperata emozione per le due Torri». Insomma, non vanno presi tanto sul serio. Ecco, questa è la solita tiritera della sinistra sulla Fallaci: è stata una grande, però alla fine era un po' fuori di cervello. La sua Trilogia, poiché non piace ai progressisti, non va considerata. E le sue parole, quanto mai profetiche, sullo scontro di civiltà, vanno ignorate perché non sono gradite a Furio Colombo. Già, molto meglio leggere «Inshallah, che ingiustamente è stato messo da parte». Ah, Furio, una cosa, visto che conosci così bene la Fallaci e i suoi libri: il romanzo di cui parli si intitola Insciallah, non Inshallah.

Alexandre Del Valle come Oriana Fallaci: "La sinistra italiana apre la strada ai tagliagole islamici, non escludo un attentato".  Azzurra Barbuto su Libero Quotidiano l'1 gennaio 2021. È con una punta di orgoglio che Alexandre Del Valle, professore e politologo francese di origini italiane, autore di 18 saggi tradotti pure in italiano e spagnolo, rivendica a buon titolo di essere stato il primo uomo in Francia, oltre vent' anni fa, a mettere in guardia popolo e istituzioni dai pericoli insiti nell'islamismo radicale nonché di avere coniato l'espressione «totalitarismo islamico», assimilando in tal modo l'islamismo al nazismo e al comunismo. «Ritengo più corretto adoperare il termine "totalitarismo" piuttosto che "integralismo", dal momento che l'islamismo radicale costituisce una forma di suprematismo, mirando al controllo totale della società ed essendo caratterizzato dall'assenza di individualismo, dal senso marcato di superiorità e dalla violenza sacralizzata, elevata altresì a metodo di governo», puntualizza l'esperto internazionale di geopolitica e islam, con il quale siamo a colloquio. Come ha conosciuto Oriana Fallaci? «In un mio articolo pubblicato su Le Figaro difesi Oriana, la quale era stata ferocemente attaccata in Francia dopo l'uscita del suo libro La rabbia e l'orgoglio. Evidenziai che la giornalista aveva fatto ricorso a parole senza dubbio dure, ma che pure non poteva essere tacciata di razzismo e fascismo, dato che era stata una partigiana. Un giorno mi telefonò per chiedermi documenti e informazioni che le sarebbero serviti per la stesura de La forza della Ragione. Nel 1996 avevo lavorato nei servizi segreti francesi in qualità di analista e fornii ad Oriana ciò di cui aveva bisogno. Nacque così un rapporto di intensa stima, Oriana volle a tutti i costi che i miei libri venissero tradotti e pubblicati in Italia. Non intendeva essere vista, dunque ci scrivevamo. Era una persona non facile, molto autoritaria, soffriva di sbalzi d'umore, del resto era alle prese con una malattia terribile. Tuttavia ascoltò il mio suggerimento: le dissi che era stato un errore parlare dei musulmani come ratti che si riproducono. E lei assunse un approccio più "morbido" nel libro La forza della Ragione. Nel 2004, quando fu pubblicato il mio saggio Il totalitarismo islamista, come prefazione l'editore volle allegare una lettera che mi aveva inviato anni prima Oriana, la quale era affascinata dalle mie teorie».

Dal 2015 in particolare si è imposto in Francia un clima di terrore, a causa dei ripetuti attentati che hanno provocato 260 morti in meno di cinque anni, com' è vivere da quelle parti oggi?

«In Francia le aggressioni a cristiani o ebrei sono quotidiane nei quartieri dove ha attecchito l'islamismo radicale che ha preso in ostaggio i musulmani. Le prime vittime sono le donne, che devono rinunciare alle più banali libertà. Non possono neppure indossare la gonna corta. Gli ebrei non possono avere alcun segno di distinzione altrimenti rischiano di essere picchiati o ammazzati. L'80% delle moschee sono controllate dai Fratelli musulmani, non solo in Francia ma anche in Italia».

Lei stesso ha patito violenti attacchi da parte della sinistra francese, che la incrimina di diffondere l'islamofobia. Il suo impegno è servito a qualcosa o abbiamo lasciato gli occhi chiusi e le coscienze sopite?

«I francesi hanno capito di recente i pericoli che corriamo. Esattamente un anno fa io e una decina di esperti siamo stati consultati dalla commissione del Senato sulla radicalizzazione islamica, istituita da una senatrice macroniana. Per la prima volta il governo ha preso sul serio il nostro allarme. Da lì è poi partita la campagna internazionale promossa da Erdogan che imputa al presidente Macron, il quale ha ormai compreso che gli islamici usano la nostra tolleranza per invaderci, di essere islamofoba».

La sinistra francese e quella italiana sono complici del declino dell'Europa, della resa incondizionata e dell'assoggettamento ad un'altra civiltà? Chi sono i "tagliatori di lingue" di cui lei spesso scrive?

«Essi non ammazzano ma preparano il terreno ai tagliatori di gole. Rappresenta una piaga l'islamicamente corretto difeso dalla sinistra eversiva terzomondista, dalla estrema sinistra e dai buonisti, ma addirittura dalla destra molle, quella filoturca, una destra interessata. La destra berlusconiana, ad esempio, fu filoturca. Tajani mi rimproverò di "mettere i turchi in mare", dal momento che ero contrario all'ingresso della Turchia nell'UE. Persino la Chiesa è filoislamica e fa di tutto per aiutare i Fratelli musulmani e danneggiare i sovranisti».

La paura di essere incolpati di razzismo e fascismo è ancora oggi più forte della paura nei confronti del terrorismo islamico?

«L'etnomasochismo di cui siamo affetti è una patologia psichiatrica più che una questione politica. Nel mio ultimo libro Il complesso occidentale ho dimostrato che il nostro vero nemico è la tendenza all'auto-colpevolizzazione nonché all'auto-razzismo: siccome siamo bianchi ed europei, dobbiamo scomparire incamerando chi ci odia di più. Abbiamo più timore di essere targati razzisti che di annientarci, preferiamo annullarci in funzione espiatoria che tutelare la nostra identità. Eppure siamo l'unica civiltà che abbia afferrato l'importanza dell'autocritica (l'islam non si critica mai), la quale ha permesso l'illuminismo, l'affermazione della ragione e la scienza. Tuttavia, quando l'autocritica diventa perversa, si trasforma in autolesionismo».

L'Italia si reputa al riparo dal terrorismo islamico e, in effetti, ad oggi il nostro Paese è stato risparmiato. Secondo lei, per quale motivo non abbiamo ancora subito attentati? Inoltre, questa calma apparente, a suo giudizio, potrebbe saltare in un prossimo futuro?

«L'Italia non ha ancora avuto attentati per due ragioni: la Chiesa cattolica dagli anni Sessanta ha dimostrato di essere sottomessa all'islam proclamando il principio dell'uguaglianza delle religioni. La Chiesa è diventata "dhimmi", parola che nel Corano indica il cristiano che va risparmiato solo se accetta la superiorità dell'islam. La Chiesa si comporta da vigliacca: ad esempio, non converte i musulmani. La seconda ragione consiste nel fatto che il Bel Paese è uno Stato-rifugio per i radicali musulmani ricercati nel mondo arabo, una zona franca. Eppure ciò non risparmierà l'Italia. Essa sarà colpita pure perché il Daesh è più anticristiano rispetto ad Al Qaeda. Non sarei sorpreso se tra qualche mese, o qualche anno, pure sul suolo italiano entrassero in azione i terroristi».

Nei mesi della emergenza sanitaria abbiamo accolto oltre 34 mila clandestini, provenienti soprattutto dalla Tunisia. Cosa si dice in Francia della maniera italiana di affrontare il problema della immigrazione illegale?

«Il cittadino francese è molto più filoitaliano di quanto non si pensi. Pure la stampa francese di destra difende Matteo Salvini e l'Italia, obbligata dall'Europa ad aprire le braccia ai clandestini. La scorsa estate i francesi si scandalizzarono nell'apprendere che a Lampedusa ci fossero più extracomunitari che abitanti. C'è un progetto dei governi del Nord Europa mirante a rendere i Paesi del Sud "campi profughi". Il governo italiano, per ottenere fondi, si piega a tale disegno».

I francesi vedono un pericolo nella politica dei porti aperti perpetrata dall'esecutivo italiano?

«Macron è ora più lucido riguardo l'islamismo radicale, però la sinistra blocca una presa di coscienza che si traduca in provvedimenti. Macron stesso è terrorizzato dalla possibilità di essere targato fascista dalle lobby europee».

Esiste o no un islam pacifista e moderato, il quale auspica l'integrazione con la cultura occidentale?

«Esistono musulmani credenti che hanno una visione della fede moderata. Occorre integrarli. E il modo migliore per farlo è trasmettere a scuola l'amore per la patria». "Patria" è oggigiorno una parolaccia, almeno in Italia.

«Occorrerebbe ricordare a chi ne ha orrore che "patria" fu la parola più pronunciata ed amata dai partigiani. Questo me lo insegnò Oriana».

Lei sostiene che l'integrazione non è più possibile quando l'immigrazione supera una certa percentuale, in quanto il numero diventa forza e subisce l'influenza dei Paesi di provenienza dove l'intolleranza nei confronti degli infedeli è legge. In Italia siamo vicini a questa soglia di non ritorno?

«Voi avete ancora pochi migranti rispetto alla Francia. E quelli che ospitate ancora non hanno la cittadinanza italiana. Noi, invece, abbiamo già le seconde e terze generazioni. Per l'Italia c'è speranza. Un domani un governo sovranista potrebbe porre a capo delle moschee imam miti. La sinistra di oggi, non patriottica, vede come una specie di espiazione il fatto di essere invasi e lo ius soli, tanto declamato, ha la funzione di scongiurare il ritorno della destra al potere nel futuro».

L'Europa può ancora salvarsi dalla deriva a cui si è autocondannata o è già troppo tardi? E qual è la soluzione?

«Non è mai troppo tardi. Personalmente non mi preoccupa tanto l'alta percentuale di migranti quanto che molti nostri lettori abbiano smarrito la speranza. Se già ci consideriamo sconfitti, lo diventiamo. Dobbiamo nutrire fiducia nel domani e anche fare bambini».

·        14 anni dalla morte di Ingmar Bergman.

Eleonora Barbieri per “il Giornale” il 19 marzo 2021. Aveva pianificato ogni dettaglio per tutta la vita, e non si tirò indietro nemmeno di fronte alla morte. Diede disposizioni. «Non voglio finire in una casa di riposo del cazzo. Voglio morire a casa mia. Non finirò inerme e in balìa dei miei figli. Non saranno ammesse manifestazioni emotive eccessive». Casa sua era a Hammars, di fronte al mare, quello freddissimo dell' isola di Farö, nel Baltico. Qui Ingmar Bergman trascorse gli ultimi anni della sua vita, fino alla morte, il 30 luglio 2007. Non si era più mosso da quella casa tutta in orizzontale, che aveva fatto ampliare anno dopo anno dagli artigiani dell' isola, sempre in lunghezza. Era arrivato a Farö nel 1965 per girare Persona con la bellissima Liv Ullmann: il regista svedese e l' attrice norvegese si innamorarono, nell' estate dell' anno successivo nacque la piccola Linn (vero nome di battesimo Karen Beate, mai utilizzato), lui era sposato, ci fu uno scandalo, lasciò la moglie (era la quarta, la penultima, prima dell' amatissima Ingrid), si trasferì ad Hammars con Liv, poi i due si lasciarono. Era l' estate del '69, Linn aveva tre anni, e prese in seguito il cognome della madre. È proprio Linn, la più giovane dei nove figli, ormai adulta, scrittrice e giornalista, che si ritrova vicino al padre Ingmar nell' ultimo anno ad Hammars. Lui ha già iniziato a «perdere le cose»: i ricordi, le parole. Hanno l' idea di scrivere un libro insieme, così programmano una serie di «appuntamenti» per registrare delle conversazioni: sei in tutto, nel maggio del 2007. Quando Linn torna, dopo due settimane, il padre non è più in grado di proseguire, poi in luglio lui muore, e lei dimentica quelle registrazioni. Sette anni dopo, il marito di Linn ritrova i nastri in soffitta, ed è così che nasce Gli inquieti (Guanda, pagg. 402, euro 20), romanzo di una figlia che insegue una madre e un padre fra viaggi, passione, separazioni, regole rigide, telefonate intercontinentali, fratelli e sorelle scoperti all' improvviso, corteggiatori, manie, distanze, e quei ricordi di un genio che si sta spegnendo, ma lei vuole in qualche modo conservare. Linn Ullmann ha quarantotto anni, l' età del padre quando lei è nata. «Io amavo mia madre e mio padre incondizionatamente. Li davo per scontati». Anche se non esiste una foto di loro tre insieme: «Uno era il giorno e l' altro la notte, il giorno finiva dove cominciava la notte, io ero la bambina di lei e di lui, ma, dal momento che anche loro a volte volevano essere bambini, le cose a volte si complicavano». Quando Liv e Ingmar si lasciano scrivono una «lista» di regole da seguire, fra cui quella di trascorrere almeno sei settimane tutti insieme ogni estate, ad Hammars. Non la rispettano: ci va solo Linn, per qualche settimana, in luglio. Deve adattarsi alle regole di casa: finestre sigillate, perché il padre - Pappa - ha il terrore degli insetti (le mosche in particolare) e degli spifferi (ogni conversazione inizia con la domanda: «Senti corrente?»); bagni in piscina ogni giorno, ma non troppo lunghi, perché il padre teme i raffreddori e, se la bambina starnutisce, non gli si può nemmeno avvicinare; tende sempre tirate, perché il padre dice che è la luce a procurargli gli incubi peggiori, a ricordargli la morte; proiezioni di film ogni pomeriggio alle tre, puntualissimi, prima nella casa principale, poi in un fienile trasformato in cinema. Nessuno può toccare i proiettori, tranne il fratello Daniel, che riceve dieci corone ogni volta. E poi ci sono le «sedute», rigorosamente segnate in agenda, cioè i momenti in cui Pappa chiacchiera con la figlia. Le legge i libri di Astrid Lindgren, le si rivolge in terza persona: «Come sta oggi la mia figlia più piccola?» e se lei risponde «bene», lui si arrabbia: «Non voglio parole vuote. Bene, bene. Voglio sapere come stai di preciso!». «Precisione, amore mio» dice alla figlia, in quelle «sedute» del maggio 2007. Lui teme che la sua creatività sia sparita, non si sente più «come un bambino che gioca», e lei si stupisce: giocare, proprio lui? Allora le spiega: «Da un lato, capisci, sono molto preciso, molto meticoloso... come probabilmente avrai sentito dire dai miei colleghi... Improvvisare non fa per me. Quando ho girato Il flauto magico ero come un bambino che gioca, era un gioco, ogni giorno la musica di Mozart dietro le quinte, ma, sia chiaro, tutto era progettato con estrema precisione». Non vuole che il discorso funebre del pastore (una donna) contenga la minima «improvvisazione». Si fa preparare una bara come quella di Giovanni Paolo II, che ha visto in tv. La morte è lì. La figlia gli fa notare che «la morte è ovunque», nelle sue opere, eppure lui nega di essersene mai «preoccupato»: «La morte come tradizione, come fantasia, sì, però non l' ho mai presa sul serio. Cosa che, naturalmente, adesso devo fare». Ha paura: «Dover essere concreto mi spaventa». Sogna ancora di mettersi al volante della sua jeep rossa e guidare a folle velocità per le stradine dell' isola, o di salire sulla sua bicicletta da donna, o di sedersi sulla panca macchiata, anziché sulla carrozzina. Ma inizia a non trovare più le parole. Qualche mese prima, all' appuntamento per il film, anziché alle solite tre meno dieci era arrivato alle tre e diciassette: la prima «eclissi» della sua mente. «Credo che buona parte della mia vita professionale abbia ruotato intorno al mio grande amore per le donne» confessa. La figlia: «In che modo le donne hanno influenzato la tua...». Il padre: «In tutti i modi immaginabili, mia cara».

·        14 anni dalla morte di Guido Nicheli.

GUIDO NICHELI, CUMENDA D'ITALIA. Nino Materi per “il Giornale” il 2 gennaio 2021. «E anche questo Natale...» è il titolo di un libro-strenna (lo ha scritto Gianluca Cherubini, edito da Bibliotheka) fresco di slitta santaclausiana e abete sbirluccicante. Ma è pure la prima parte di una celebre battuta sparata dall' avvocato Giovanni Covelli (Riccardo Garrone) nel cult-movie del 1983 «Vacanze di Natale» (regia di Carlo Vanzina); poi ci sono quei fatidici puntini di sospensione che introducono la seconda parte del «concetto», quello - per così dire - più «filosofico»: ... se lo semo levato dalle palle. E scusate l' oltraggio vagamente blasfemo alla festa-simbolo della cristianità. Ma qui si parla di commedia, mica di teologia. Fatto sta che nel successo del film (che si è meritato questo amarcord-book pieno di aneddoti e testimonianze dei protagonisti) c' è anche una fondamentale componente milanese riconducibile a quel notevole caratterista che fu Guido Nicheli (in arte Dogui), il mitico cumenda Donatone Braghetti. Lui, ormai da tredici anni, il suo Natale lo trascorre organizzando veglioni in paradiso, ma da lassù gli farà certo piacere leggere il ritratto che Cherubini gli ha dedicato, celebrando il 37° anniversario di Vacanze di Natale dove il bauscia meneghino Braghetti è già, a sua insaputa, il prototipo del «Milanese imbruttito». Quella storica pellicola, nata da un' esaltatissimo Aurelio De Laurentis, dette il «la» a una saga infinita che un critico (di manica decisamente larga) ha elevato al rango di «secondo neorealismo». Nel film il «partito di maggioranza» è di scuola romana (Christian De Sica, Jerry Calà, Stefania Sandrelli, Claudio Amendola) ma l' appoggio di un «esterno» di matrice milanese come Nicheli si rivelerà fondamentale per il boom di incassi, con i cinema del capoluogo lombardo secondi per affluenza di pubblico solo alle sale della Capitale. E non è un caso se, a distanza di 37 anni dall' uscita di Vacanze di Natale, le battute del «maestro di vita» Donatone Braghetti continuano a tener banco, nonostante il banco-bar sia «chiuso» per Covid al pari dei cinema. Ma Milano non dimentica, soprattutto in vista di un Natale orfano di feste, cenoni, baci e abbracci. Per non parlare di tombole e mercanti in fiera, benché questi giochi non fossero roba per il Dogui, abituato a ben altri azzardi. Di lui, in queste festività contagiate dal virus della malasorte, non restano che perle di saggezza, capaci di illuminare la notte del 25 dicembre come stelle comete sulla Capannina di Forte dei Marmi, più che sulla Capanna di Betlemme: «Cambiare car è una scelta di vita»; «Ivana fai ballare l' occhio sul tik! Via della Spiga, Hotel Cristallo di Cortina: 2 ore, 54 minuti e 27 secondi... Alboreto is nothing»; «Ivana, hai visto l' animale come è andato via scondinzolando?»; «Ma quale cafona? Sei tu che non sai viaggiare, dai! La regola numero uno quando arrivi in albergo è presentarsi con il personale. Tu ti spari via un 300.000 e sei nel burro tutta la vacanza... Testa!»; «Vedi... il mio non è un punto di vista, è un teorema, claro!?»; «Hasta la vista! Ah... Ivana... Mi raccomando il panta nell' armadio... Il pantalone bello dritto eh... Hai capito? E un po' di ordine in stanza. See you later...»; «Ma la libidine è qui amore: sole, whisky e sei in pole position!». Perché si può essere felici anche nel Natale-Covid.

La prefazione di Jerry Calà alla biografia di Guido Nicheli “See you later” per Sagoma Edizioni il 27.01.2018. Guido Nicheli? Taaac! L' ho frequentato a partire dai giorni in cui questo "taaac" non faceva presagire nulla. Nessuno tra noi amici poteva immaginare che questo personaggio, un curioso venditore di superalcolici, sarebbe un giorno diventato un attore. Era una delle strane figure che frequentavano un locale straordinario: il Derby Club di Milano. Io e i miei amici Gatti di Vicolo Miracoli siamo passati da lì nel febbraio del 1971, quando capitava di incontrare Giorgio Gaber e Gino Paoli, ma anche Guido Nicheli o il Bistecca. Alcuni erano già dei pezzi da novanta, altri erano semplicemente presenti e anche chi non aveva velleità artistiche mica stava zitto in un angolo. Tutt' altro. Nessuno si tirava indietro dal dir battute. Al Derby di queste figure geniali ce n' erano molte. Livello complessivo sempre altissimo. Il giorno del debutto dei Gatti, tanto per rendere l' idea, ci spingono sul palco perché noi siamo terrorizzati. Se ti accorgevi del cartellone, avevi davanti i seguenti nomi: Cochi e Renato, Enzo Jannacci, Paolo Villaggio. Un confronto non semplice. Le battute di Guido sono state rese immortali da un periodo particolarmente fortunato del cinema italiano, ma posso assicurare che il suo linguaggio nasceva molto prima, almeno dieci anni prima del suo film d' esordio, e arrivava proprio dal foyer del Derby, di cui Guido era un grandissimo animatore. Non a caso molti del gruppo hanno - ma che dico hanno abbiamo - attinto dal suo stile. Le sue frasi a effetto erano dimostrazione di un' inventiva che andava al di là della semplice battuta. Le sue parole erano espressione di un mondo interiore. Ancora oggi si può dire che in molti sono cascati in quel modo di parlare. Ecco la prova evidente della grande personalità di chi l' ha inventato. Non c' è bisogno di raccontare, spiegare, sottotitolare. Guido è stato un comico naturale. In Yuppies, per lo spot celeberrimo del collant Velatissimo, Guido mi dice che "è una vita che pensiamo in tandem". In effetti, ho sempre cercato di portarlo con me. Era sempre uno spettacolo. Gli davo il copione e lui lo "doguizzava". C' era scritto: "Rambelli, la vedo in pericolo". Lui esclamava: "Sa cosa le dico, Rambelli, che vedo la sua promozione in grave danger". Faceva diventare di culto tutto quello che diceva. "Da casello a casello in un giro di Rolex" e si rideva di questo personaggio appena entrato in un albergo di Cortina. In più, la stessa battuta, estrapolata dal contesto e messa in qualunque altra situazione, continua a funzionare, anche se la conoscono tutti a memoria. Per questo reputo Guido tra i più grandi caratteristi del cinema italiano. A dieci anni dalla scomparsa del mio amico Guido, arriva questa biografia come giusto tributo riservato al Dogui. Finalmente ho l' occasione per sottolineare che è stato un peccato che il cinema non gli abbia concesso altro spazio. Con Guido non c' erano mai due ciak uguali. Si sarebbero potuti riempire due dvd di extra con le incredibili battute che Guido Nicheli con fantasia tirava fuori dal cilindro delle proprie trovate. Anche in Vita smeralda, il suo ultimo film che mi vede alla regia, le sue scene sono tutte farina del suo sacco. In una ripresa, che mi piace ricordare proprio qui, ero sul punto di chiamare lo stop per fermare tutti gli attori. Guido, già uscito di scena, torna davanti alla macchina da presa e con la sua faccetta simpatica ripete ancora una volta: "See you later".

Lui mi diceva: "Bravo, Rige". Io scrivo qui: grande, Dogui.

UN CARATTERISTA NATO PROTAGONISTA. Ste.Ca. per il Fatto Quotidiano il 27.01.2018. Nascere caratteristi - oltretutto per caso - ed essere sempre protagonisti, anche quando in un' ora e mezza di pellicola si compare molto meno di altri interpreti. Certo, la storia del cinema sarà altrove, ma alzi la mano chi non si è mai fatto strappare almeno sorriso da un monologo di Guido Nicheli, il "Dogui", il "cumenda" o - come passato alla storia grazie alla terribile sit com fine Anni 80 "I Ragazzi della III C" - il commendator Zampetti: parlata sciolta da milanese ipercinetico, un misto di anglo-meneghino da yuppie ante litteram, un universo grammaticale e sintattico a sè che ha partorito un breviario di battute da antologia della leggerezza, che in tanti sanno a memoria. Una a caso, da "Vacanze di Natale" del 1983 (nobile capostipite di un genere poi degenarato): "Ivana, fai ballare l' occhio sul tic. Milano via della Spiga, hotel Cristallo di Cortina 2 ore, 54 minuti, 27 secondi. Alboreto is nothing". Pare che la battuta non fosse in sceneggiatura, e che al primo ciak l' intero set - Vanzina compreso - si sia capottato dal ridere. Facile crederlo. Il segreto del caratterista che diventa protagonista è essere sè stesso sul set (un po' come il suo alter ego romano, l' indimenticabile Mario Brega, gli sketch che li vedono protagonisti entrambi sono strepitosi, farsi un giro su Youtube per credere). È noto, infatti, come la carriera cinematografica del "Dogui", odontotecnico e rappresentante di alcolici, sia iniziata in Sardegna a metà Anni 70, per caso, a cena con Steno, Renato Pozzetto e Teo Teocoli: "Steno me lo chiedeva da dieci anni, quella sera mi disse: "Domani ti faccio lavorare" - raccontava Nicheli -. Quando vidi la scena al cinema ho sentito la gente ridere. Allora ho pensato: "Ho trovato il veleno. Teeec". Perché sapete, dopo una certa età la popolarità, con il gentil sesso, aiuta". Insomma, Nicheli non era incastrato in un personaggio. Era il personaggio. E le è ancora, come testimonia l' epitaffio sulla sua lapide al cimitero di Zelata, in provincia di Pavia: "See you later".

IL CUMENDA D'ITALIA. Francesco Persili per Dagospia il 27.01.2018.  “Tre sono le cose fondamentali nella vita: lenzuola, minestra e dieci dollari per il whiskino la sera. Più un libro di Bukowski. E’ un pugno nello stomaco ma anche lui come me era un uomo libero…”. "Taac, scatta subito la libidine" quando si parla di Guido Nicheli, in arte Dogui, cumenda d’Italia. Dalla dura infanzia nella Milano del Dopoguerra alle notti ruggenti in Costa Azzurra con Gigi Rizzi, dai mille lavoretti (odontotecnico, rappresentante di liquori e champagne) alle vacanze negli anni Sessanta tra Cadaqués e Port Lligat a casa Dalì, la vita in prima classe del principe dei caratteristi viene ora raccontata da Sandro Patè in un libro (See you later, ed. Sagoma). Una lettura obbligata per la generazione dei 30-40enni che hanno nella memoria i tormentoni del marito di Adriana-Virna Lisi in “Sapore di Mare” (“Porsche, auto di grande libidine”) e quelli di Donatone in “Vacanze di Natale”. “Sole, whisky e sei in pole position”. In 40 anni Guido Nicheli non ha mai recitato. Ha sempre portato sul set sé stesso. "Il miliardario senza portafogli", l’irregolare catturato, taac, nella terra sconsacrata del cabaret. Alan O’Leary, studioso del cinema italiano e grande esperto di cinepanettoni, l’ha paragonato a Kim Kardashian e a D’Annunzio nella capacità di costruzione del proprio personaggio. Dal Derby all’Ufficio Facce del bar pasticceria Gattullo, c’è la Milano “che ride e si diverte” nel cocktail di goliardate, battute al bancone e avventure che finiscono all’alba. L’amicizia con Teo Teocoli con cui riesce ad "imbucarsi" perfino alla festa scudetto del Milan del 1979, gli scherzi con Massimo Boldi, le notti folli con Fausto Leali, Enzo Jannacci che lo prende in simpatia e lo fa esordire al Derby nello spettacolo “La tappezzeria” su testi di Beppe Viola, il Dogui, anagramma di Guido, coltiva un genere linguistico fatto di parole all’incontrario (“Treno diventa notre, cane, neca) e fulminanti neologismi (le “fangose” sono le  scarpe, il “legno”, la barca): il goger (o gorge), un modo per parlare senza farsi capire come facevano i Carbonari. E poi “il richiamo dello spago che riecheggia nel ventre, il “collant Velatissimo”, il tipico slang dei grandi creativi all’epoca della Milano da bere quando arriva ad interpretare un pubblicitario in Yuppies prima di un’improbabile imitazione dello sciatore Pirmin Zurbriggen a Drive In nella stagione ’87-’88. “Uè, animali, cosa fate ingessati con le mandibole?” In Montecarlo Gran Casinò è Ambrogio Colombo, “sempre in plancia, presente all’appello”, nella famosa battaglia navale dei caratteristi con il romano Mario Brega che lo apostrofa col mitologico “cafonauta”. Ne “Le finte bionde” del 1989 è un avvocato milanese di stanza a Roma con” fisicanza” di categoria: “addominali, qualche vasca e scatta il fisicone alla Marvin Hagler”. Carlo Vanzina ricorda: “Molte battute nei nostri film sono invenzioni sue. Si dimenticava parti fondamentali e inventava di sana pianta”. Il fratello Enrico : “E’un gigante ne ‘I ragazzi della Terza C’", la serie culto di Italia 1 che piaceva anche a Berlusconi. Il Commendator Camillo Zampetti, eterno sponsor delle iniziative di Chicco Lazzaretti, Bruno Sacchi e compagni. Nell’episodio “Il giornalino di classe”consiglia di mettere in copertina un nudo di Tinì Cansino o Carmen Russo: “Ve lo dice uno che di curve se ne intende e non perche’ sono un pilota…” Quando Tinto Brass gli offre la parte di un omosessuale in Paprika, lui rifiuta pensando che si sarebbe rovinato la carriera. Tra la fine dei Novanta e l’inizio dei Duemila viene un po’ dimenticato: “Sono un cane senza collare, non bacio pile e non lecco piedi. È per questo che lavoro poco…”, Jerry Calà lo dirige in "Vita Smeralda" nel 2006: ”Un comico naturale. Gli spiegavo il senso generale della scena poi lui con fantasia se ne usciva con le sue trovate”. Sul set c’era anche Umberto Smaila che ha condiviso con lui domeniche a San Siro (“Kakà che corre come l’Anguilla Aquiletti ma ha lo sprint di Pierino Prati, mi esalta”, diceva) e serate a Poltu Quatu: “Surreale e provocatorio, come Dalì. Impossibile non volergli bene. Aveva una fissazione per la forma fisica, non saltava mai l’ora di nuoto. Ovviamente si guadagnava il lusso di regalare consigli agli altri: “NCS…stai prendendo peso tu”. Un outsider, la quintessenza della milanesità, chi è stato davvero il Dogui? “Un pesce pilota che vive e viaggia fuori dal branco. Sembra destinato alla solitudine e invece è sempre in compagnia della sua libertà”. Taac! See you later.

·        13 anni dalla morte di Paul Newman.

Di Paolo Mastrolilli per "D – la Repubblica" il 12 dicembre 2021. «Paul Newman racconterà la propria storia, 14 anni dopo la sua morte». Suona un po’ macabro, il titolo scelto dal New York Times, per annunciarne l’autobiografia postuma. Ma in fondo è efficace, anche perché invita a leciti dubbi sull’operazione. Stanco di vedersi rappresentato a piacere dagli altri, una trentina di anni fa Newman aveva infatti accettato il suggerimento dell’amico sceneggiatore Stewart Stern e registrato le sue memorie. Ne erano uscite ore e ore di conversazione, monologhi riflessivi dell’attore e interviste con i familiari. Poi Paul muore nel 2008 e Stewart nel 2015, senza riuscire mai a trascrivere in un libro la storia di quel ragazzo partito dalla periferia di Cleveland per arrivare nel firmamento di Hollywood. La famiglia però ha deciso di realizzare il progetto e la scorsa primavera ha messo all’asta il materiale. La casa editrice Knopf l’ha acquistato, affidandolo a Peter Gethers, che lo tradurrà in un libro in uscita il prossimo autunno. Per l'80% conterrà le parole di Newman, il resto saranno interviste a familiari e amici. Proprio Gethers ha detto al Times che «quanto ha registrato, e in sostanza scritto, è davvero onesto e rivelatore. Mostra lo straordinario arco narrativo di un ragazzo che era molto, molto imperfetto all’inizio della sua vita, ma crescendo si è trasformato nel Paul Newman che volevamo fosse». Dentro ci sono i problemi con i genitori, l’alcol, le due mogli, la sofferenza per la morte del figlio Scott a causa di un’overdose. C’è la gelosia e l’invidia per colleghi come Marlon Brando e James Dean, che giudicava migliori di lui. «Dice che sua madre non pensava a lui tanto come carne e sangue, ma come una decorazione. Dice che se non fosse stato un bambino carino, non gli avrebbe mai prestato attenzione. È una cosa devastante da leggere e chiaramente forma gran parte della sua vita e della sua insicurezza riguardo all’essere attore». Resta da vedere se è giusto conoscere tutto questo attraverso la mediazione di Gethers, che non aveva mai conosciuto Newman, e delle sue figlie, che ora faranno da redattrici e curatrici al posto del padre. Ma forse l’importante sarà resuscitare Paul restando fedeli alla storia orale. 

Dagotraduzione da Dnyuz il 5 novembre 2021. Decenni fa, l'attore e filantropo Paul Newman, frustrato da tutte le biografie non autorizzate e dalla copertura della sua vita, ha registrato la sua storia, lasciando trascrizioni che per anni sono state dimenticate nella lavanderia nel seminterrato della sua casa in Connecticut. Ora la sua famiglia ha deciso di trasformare quelle trascrizioni in un libro di memorie, che sarà pubblicato da Knopf il prossimo autunno. «Ciò che ha registrato, e in sostanza ciò che ha scritto, è stato così onesto e rivelatore», ha detto Peter Gethers, editor di Knopf che si occuperà del libro, ancora senza un titolo. «L’arco narrativo straordinario lo mostra all’inizio della sua vita come un ragazzo molto, molto imperfetto ma che, crescendo, si è trasformato nel Paul Newman che vogliamo». Newman - noto per i suoi occhi azzurri e i suoi 50 anni di carriera di attore in film come "Butch Cassidy e Sundance Kid", "Hud" e "Cool Hand Luke" - è morto nel 2008 all'età di 83 anni. Il libro è stato iniziato più di 30 anni fa come progetto di storia orale messo insieme da uno degli amici più cari di Newman, lo sceneggiatore Stewart Stern. Stern, il cui film del 1968 "Rachel, Rachel", è stato diretto da Newman e interpretato da sua moglie, Joanne Woodward, ha trascorso diversi anni intervistando persone provenienti da tutti gli angoli della vita di Newman, inclusi i suoi figli, la sua ex moglie Jacqueline Witte, amici intimi e attori e registi che hanno lavorato con lui. Questo lavoro ha prodotto migliaia di pagine di trascrizioni e ha convinto Newman che avrebbe dovuto dare la sua versione. Stern lo ha tempestato di domande, ha detto Gethers, e hanno creato registrazioni che sono un mix di interviste e Newman che parla senza suggerimenti. Le registrazioni, completate circa 10 anni prima della sua morte, descrivono i primi anni di vita di Newman, compreso il suo difficile rapporto con i suoi genitori, così come i suoi problemi con l'alcol, le sue carenze come marito nel suo primo matrimonio e i suoi difetti come genitore. È sincero riguardo al suo dolore quando suo figlio, Scott, è morto per overdose di droga e alcol a 28 anni. Il libro approfondisce anche l'insicurezza di Newman nei suoi anni più giovani, esplorando la sua gelosia nei confronti di colleghi come James Dean e Marlon Brando quando lavoravano tutti a Hollywood. «Ha detto che sua madre non pensava a lui tanto come carne e sangue, ma come una decorazione», ha detto Gethers. «Dice che se non fosse stato un bambino carino, lei non gli avrebbe mai prestato attenzione. È una cosa devastante da leggere e chiaramente forma gran parte della sua vita e della sua insicurezza riguardo all'essere un attore». Il libro di memorie riguarderà anche il suo matrimonio con Woodward, che Gethers ha definito «notevolmente amorevole, affettuoso e sexy», così come la sua carriera di attore e pilota di auto da corsa. Il libro è stato acquistato all'asta questa primavera, ha detto Gethers. Sarà per l'80% di memorie, e la parte restante si baserà sulle registrazioni fatte da Stern con persone vicine a Newman. Includerà anche fotografie di famiglia inedite.

Giuseppe Videtti per "la Repubblica" il 17 aprile 2021. «Potrebbe girare con la patta dei pantaloni slacciata», disse una volta Rod Steiger, suo compagno all´Actors Studio, «così almeno è sempre pronto per l'uso». Alludeva al fatto che Paul Newman, arrivato a New York dall'Ohio fresco di militare, era diventato il nuovo oggetto del desiderio. «Paul scopa praticamente tutto quello che si muove», scherzava Steiger. Ma diceva il vero, perché il divo, morto nel 2008 a ottantatré anni, fu per tutti gli anni Cinquanta e oltre uno dei più rinomati donnaioli del mondo dello spettacolo. Ma il suo straordinario appetito sessuale spaziava senza troppi pregiudizi anche nell'universo maschile. Gossip erano trapelati solo sulla stampa underground, che negli anni Sessanta alludeva alle tendenze gay o bisessuali di attori come Rock Hudson, Richard Chamberlain, Farley Granger, Tab Hunter, Burt Lancaster, Marlon Brando, James Dean e Montgomery Clift, ma le lingue biforcute della Mecca del cinema sono state sempre incredibilmente discrete sui comportamenti del giovane Apollo. Ora una nuova biografia (la seconda pubblicata in pochi mesi, dopo la più pudica Paul Newman: A Life di Shawn Levy) firmata da Darwin Porter, The Man Behind the Baby Blues (Blood Moon Productions, 526 pagine, 21,95 dollari), prende a picconate la reputazione etero di Paul. La curiosità sessuale di Newman - due matrimoni, sei figli, immacolato curriculum di womanizer - era pari alla morbosità con cui gli scrittori americani si affannano a compilare saporite biografie post-mortem che fanno scempio della privacy dei vip. Best seller che hanno svelato le intimità di star come Judy Garland, Frank Sinatra, Marlene Dietrich, Bette Davis, Robert Mitchum. E persino della coppia Spencer Tracy-Katharine Hepburn, coniugi perfetti agli occhi del mondo, in realtà bisessuali impenitenti. La diva delle dive ha ispirato centinaia di volumi, eppure c´è ancora qualcosa da scoprire anche su Marilyn Monroe. J. Randy Taraborrelli ha appena scritto una Secret Life of Marilyn Monroe di quasi seicento pagine (Grand Central Publishing, 23,19 dollari) con particolari sconosciuti sull'infanzia della star, sulla pazzia di sua madre (che lei fece credere morta), sulle sue spericolate love story con i Kennedy. In The Man Behind the Baby Blues, Porter demolisce definitivamente il mito della virilità a Hollywood. Ne esce ammaccata non solo la reputazione etero di Paul Newman, ma di molte altre vittime del suo fascino. Come Steve McQueen con il quale, racconta Porter, Newman intrecciò una schermaglia amorosa che durò fino alla sua morte nel 1980, fatta di rivalità, cameratismo e sesso sfrenato. L´autore sta proprio ora lavorando a una nuova biografia, King of Cool. Tales of a Lurid life (in uscita a dicembre), che indaga sui segreti di McQueen, figlio di prostituta abusato dai clienti di sua madre, towel boy in un bordello della Repubblica Dominicana, giovane prostituto nella Times Square del dopoguerra ed escort di lusso per facoltosi newyorkesi, ben prima di diventare lo spietato sciupafemmine di Hollywood. McQueen non fu né la prima né l'ultima passione di Paul. Newman aveva avuto esperienze gay sotto le armi, poi a New York scoprì Brando, che era già una star di Broadway. Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams faceva il tutto esaurito all'Ethel Barrymore Theater dal 3 dicembre 1947. «La prima volta che l´ho visto in scena», confidò Paul a Geraldine Page, «sono rimasto stregato». Con la t-shirt bianca arrotolata sui bicipiti e i jeans attillati, Marlon era già sex symbol e icona gay. Paul lo aspettò fuori dal teatro, gli chiese un autografo. «Sono anch´io un attore, ma non riesco a esprimere il mio sex appeal», gli confessò. «Per riuscirci devi recitare col cazzo e le palle», borbottò Brando con rude franchezza. «Sali», gli intimò poi, dopo aver acceso la moto, «ti porto a fare un giro di mezzanotte attraverso i canyon di Manhattan». Il giorno dopo all´Actors Studio tutti sapevano della notte di sesso che c'era stata tra i due. «Mi assomiglia talmente che è come se avessi scopato me stesso», tagliò corto Brando, «e poi è troppo sentimentale, lui degli uomini s'innamora». Essere chiamato «il nuovo Brando» fu il tormento del giovane Newman, che pure continuò a idolatrare (e amare) il suo mito al punto da imitarne i comportamenti sessuali, come rivela Shelley Winters, una delle lingue lunghe di questa biografia, insieme agli altri confidenti di Newman ascoltati da Porter: Steiger, Eartha Kitt, Janice Rule, Vampira, la versione femminile di Bela Lugosi, e Sal Mineo, che prima di essere assassinato nel 1976 era diventato amico dello scrittore. La love story tra Paul e James Dean si innestò proprio su un legame già esistente fra il ribelle e Brando negli anni dell´Actors Studio. Lawrence J. Quirk, il biografo ufficiale di Newman, faceva cenno nel 1997 all´homosexual panic di cui fu preda dopo la prima notte di «dirty sex» con Dean: «Si cercò subito una donna per riaffermare il proprio status di eterosessuale». Il panico, in realtà, era scatenato più da esigenze pratiche che da remore morali: in pieno maccartismo, con l´equazione omosessuale uguale comunista, finire nelle liste nere voleva dire essere bandito da tutti i teatri e dagli studios. Alla morte di Dean, nel 1955, Newman non solo si ritrovò orfano di un amico-amante, ma ereditò il suo fidanzato storico, Sal Mineo, che allora aveva sedici anni. Mineo, attore del Bronx di origine siciliana, aveva esordito dodicenne a Broadway nella Rosa tatuata di Tennessee Williams, e subito dopo aveva iniziato una chiacchierata liaison con James Dean, che gli aveva procurato una parte in Gioventù bruciata. A un certo punto Newman, dopo la morte di Dean - con tre figli e una moglie che stava per abbandonare, Jackie Witte; un´attrice che stava per sposare, Joanne Woodward - continuava ad amare Marilyn, si vedeva con Mineo (che si incontrava anche con Rock Hudson e Yul Brynner), intrecciava una relazione fissa con Anthony Perkins (che a sua volta aveva anche una relazione fissa con Tab Hunter), flirtava con Montgomery Clift e iniziava le sue schermaglie amorose con Steve McQueen. Non è tutto: Newman amava sedurre le dive, anche quelle sfiorite: finì a letto con Joan Crawford, Judy Garland, Lana Turner, Susan Hayward, Grace Kelly, Peggy Lee, Rita Hayworth e Myrna Loy. Si concesse qualche scappatella con la 15enne Sandra Dee e con Joan Collins fece coppia fissa. Partecipò alle orgette bisex di Tyrone Power (e apprese che Tyrone e Errol Flynn erano stati amanti), e alle orgette etero di Sinatra. «Non sarai mica frocio? Girano strane voci su di te», gli disse Frank. Lui negò. Negli anni Sessanta, Paul rallentò il ritmo: s´invaghì solo di Robert Wagner ed ebbe una storia con John Derek, finito da ragazzo anche nelle grinfie dell´insospettabile Spencer Tracy. Solo le sue passioni per Robert Redford (Butch Cassidy) e Tom Cruise (Il colore dei soldi) sono rimaste platoniche. Lo conferma anche Cal Culver, pornostar gay: «Sono certo di essere stato l´ultimo uomo con cui Paul abbia fatto l´amore, alla fine degli anni Settanta. Aveva superato i cinquanta e vi assicuro che non veleggiava più col vento in poppa». Cruise fu la sua nemesi, finalmente c´era «il nuovo Paul Newman», voleva dire che finalmente lui non era più «il nuovo Brando». Le due mogli sapevano e tacevano. Louella Parsons, Edda Hopper ed Elsa Maxwell, le regine del gossip, non facevano che decantare le sue prodezze da dongiovanni. La rispettabilità era salva. Avrebbe vissuto serenamente la sua bisessualità se non avesse avuto la sua dark star, quel Sal Mineo che pretendeva un rapporto esclusivo. Newman andò in tilt e lo abbandonò. Il giovane attore si tagliò le vene, fu salvato per miracolo. Folle di gelosia, colpì Paul nell'unico punto debole, il figlio Scott. Ribelle, tossicodipendente, alcolista, bisex, Scott Newman era in rotta di collisione con il padre. Nel cuore della notte Mineo chiamò Paul: «Sto scopando tuo figlio», gli disse. Newman cercò di mantenere la calma, fece del tutto per recuperare un rapporto con Scott. Una volta lo trovò in condizioni pietose al Ramada Inn di Beverly Hills. Decise di dormire da lui. Scott cominciò ad accusarlo: «Sei un frocio, un rovina famiglie, hai lasciato noi tre e nostra madre a marcire in un letamaio di San Fernando Valley, mentre tu e Joanne ve la spassate in villa». Ci fu una colluttazione, una sorta di wrestling in cui Scott cercò di violentare suo padre. Di fronte agli occhi di ghiaccio di Paul, il ragazzo rimase disarmato e si arrese. «Non sei neanche abbastanza uomo da finire lo schifo che hai cominciato», gli disse andandosene. Non capì che era l´ultimo, disperato gesto d´amore di un figlio negletto. Scott morì suicida a ventotto anni, nel 1978. Già perseguitato dai fantasmi di Dean e Marilyn, Paul non sarebbe più stato quello di un tempo. Steve McQueen lo trovò sulla spiaggia che meditava il suicidio. Newman confidò a James Mason: «Dopo aver parlato per ore col mare, mi alzai, salii in macchina e misi in moto». Non era pronto per la scena finale, aveva ancora trent´anni da vivere. Un´altra vita.

·        13 anni dalla morte di Heath Ledger.

Heath Ledger moriva 13 anni fa. La lotta contro l’insonnia, la separazione burrascosa: cosa è successo nelle ultime ore.  L’attore australiano, indimenticato Joker ne «Il cavaliere oscuro», se ne andava a soli 28 anni il 22 gennaio 2008. di Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 22/1/2021.

All’apice della carriera. In questo giorno di 13 anni fa se ne andava l’indimenticato attore australiano Heath Ledger: aveva soltanto 28 anni quando fu trovato morto nel suo appartamento di New York. Talentuoso, promettente, era all’apice della sua carriera: in poco meno di dieci anni aveva già regalato al pubblico alcune interpretazioni magistrali come il cowboy Ennis Del Mar ne «I segreti di Brokeback Mountain» di Ang Lee e Robbie Clark nel film biografico sulla vita di Bob Dylan «Io non sono qui» (in cui recitò accanto alla sua compagna di allora Michelle Williams). Ma a renderlo immortale fu il suo Joker ne «Il cavaliere oscuro» di Christopher Nolan, personaggio folle, beffardo e così fuori controllo da rubare la scena a Batman/Christian Bale: proprio per questa performance nel 2009 a Ledger fu tributato un Oscar postumo come migliore attore non protagonista.

La lotta contro l’insonnia. Nell’ultimo periodo della sua vita Heath non era sereno: lo ha testimoniato il suo amico Gerry Grennell che negli ultimi tempi ha vissuto e lavorato con lui per aiutarlo a preparare il film «Parnassus - L'uomo che voleva ingannare il diavolo» di Terry Gilliam. In un’intervista del 2017 a People ha definito l’attore «esausto, emotivamente e fisicamente», tra i postumi di una polmonite e l’insonnia che lo tormentava da tempo. «Lo sentivo vagare per l'appartamento. Mi alzavo e gli dicevo: “Dai, amico, torna a letto, devi lavorare domani”. Ma lui mi rispondeva: “Non riesco a dormire, amico”». Per questo Ledger si era fatto prescrivere dal medico dei sonniferi e degli ansiolitici, che non sembravano sortire gli effetti sperati: «Diceva: “Devo smetterla, non mi aiutano, non sto bene, mi fanno sentire più arrabbiato”». Grennell, per provare a farlo stare meglio, si era offerto di accompagnarlo a casa in Irlanda, ma Heath aveva rifiutato la sua proposta: voleva andare a New York.

La separazione burrascosa. Tra i pensieri che affollavano la mente della star in quel periodo c’era sicuramente anche la burrascosa separazione da Michelle Williams dopo tre anni d’amore: i due si erano conosciuti nel 2004, sul set de «I segreti di Brokeback Mountain», e nel 2005 era nata la loro figlioletta Matilda Rose (oggi 15enne). «Gli mancava la sua famiglia, gli mancava la sua bambina. Voleva disperatamente vederla, tenerla stretta e giocare con lei» ha rivelato Grennell. Quando Heath morì lui e Michelle si erano lasciati da qualche mese: l’attore non faceva altro che incolparsi per la rottura, come ha raccontato Terry Gilliam a Vanity Fair Usa.

Tre telefonate al giorno. Con sua sorella Kate Heath aveva un rapporto speciale: si sentivano telefonicamente tre volte al giorno, cosa che hanno fatto anche la sera prima della scomparsa dell’attore («Stavo preparando la cena, e ridevamo. Poi ha detto: “Devo andare e ti chiamo alle 8:30 del mattino” e basta. Questa è stata la nostra ultima conversazione. Ho detto “Va bene, ti voglio bene”. E così è stato. È straziante»). Intervistata da People Kate ha inoltre raccontato che suo fratello sembrava felice nell’ultimo periodo della sua vita, ma - sapendo che stava assumendo numerosi farmaci pesanti per i suoi problemi di salute - gli aveva detto di «fare molta attenzione».

L’ultimo addio. L’attore purtroppo a qualche mese di distanza - il 22 gennaio 2008 - è stato ritrovato senza vita, dalla domestica e da una fisioterapista con la quale aveva un appuntamento, nella camera da letto del suo appartamento di Soho. Secondo l’autopsia, che ha collocato l’ora della morte tra le 13 e le 14.45, a causare il decesso è stata «un’intossicazione acuta provocata dagli effetti combinati di ossicodone, idrocodone, diazepam, temazepam, alprazolam e doxilamina», ovvero i principi attivi dei medicinali che Ledger stava prendendo dietro normale prescrizione medica. La notizia ha subito fatto il giro del mondo, e nelle ore e nei giorni seguenti moltissimi fan si sono recati davanti all’abitazione per lasciare fiori, biglietti e omaggi. Dopo i funerali, celebrati negli Stati Uniti e in Australia, Heath è stato cremato e le sue ceneri sono state sparse sul luogo di sepoltura dei nonni nel cimitero di Karrakatta.

L’omaggio in «Parnassus». «Eravamo tutti entusiasti, ci eravamo salutati ridendo. Poi, il giorno dopo, al computer, mentre stavo guardando le notizie sul web, ho letto che era morto. Pensavo a uno scherzo, a una trovata della pubblicità di cui io non fossi al corrente. Poi ho capito che era vero. È come se avessero spento un interruttore: Heath c’è, Heath non c’è più. Eravamo tutti, sul set, come bambini che vedono il mago al lavoro. Quando ho letto la notizia, il mio mondo è crollato». Dopo la morte di Heath Ledger Terry Gilliam, regista di «Parnassus - L'uomo che voleva ingannare il diavolo», ha voluto a tutti i costi portare avanti il progetto e terminarlo, come omaggio finale all’attore: «Per quel che mi riguarda, ho pensato di smettere - ha raccontato - di buttare via tutto, il progetto, il film per due terzi girato. Poi ho reagito». Al posto di ricostruire il personaggio di Tony con la computer grafica (come accadde a Brandon Lee ne «Il corvo») la produzione convocò tre attori per interpretare quel ruolo - Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell - e dare così vita ad una sorta di tributo corale: «Nulla è per sempre - dice Depp, non a caso, in una scena - neanche la morte».

·        10 anni dalla morte di Giorgio Bocca.

Quel Giorgio Bocca che andò contro i terroristi rossi. Marco Gervasoni su Culturaidentità il 24 Dicembre 2021. Ho un vago ricordo di ragazzo. Metà anni ottanta, una delle tv di Berlusconi di allora. Dialogano Indro Montanelli e Giorgio Bocca. Il secondo confessa al grande Indro più o meno che “noi in teoria dovremmo essere nemici, tu di destra io di sinistra, ma in realtà la pensiamo allo stesso modo su quasi tutto”.

Ecco, in attesa delle rievocazioni che, per il decimo anno della scomparsa di Bocca (25 dicembre 2011, n.d.r.), lo dipingeranno come il grande antifascista, compagno, militante, esempio di “giornalismo civile”, pietra miliare di “Repubblica”, vogliamo dire che questo ritrattino sarebbe un santino, ingeneroso per lo stesso Bocca.

Che certo alla sinistra italiana apparteneva ma, come Montanelli, era prima di tutto un giornalista. E ai suoi amici non risparmiò mai nulla. Bocca fu infatti sempre un acerrimo critico del Partito Comunista e dal gruppo suo dirigente fu scarsamente amato. Fin dagli anni Sessanta, con le sue straordinarie cronache de “Il Giorno”, mostrava che l’Italia andava in una direzione del tutto diversa da quella raccontata da Togliatti, Longo e Berlinguer.

Poi cominciò la violenza politica: e mentre il Pci e i giornalisti “democratici” dell’eskimo in redazione e del “Corriere della sera” ottonizzato parlavano delle Br come “infiltrati fascisti”, Bocca ebbe il coraggio di scrivere che il terrorismo rosso era figlio legittimo di decenni di propaganda comunista – quello che poi tempo dopo Rossana Rossanda avrebbe chiamato “l’album di famiglia”.

Anche sulla storia del Pci, Bocca provocò non pochi grattacapi a Botteghe oscure, pubblicando nel 1973 una biografia di Togliatti che metteva in mostra i lati più oscuri del Migliore. E l’anno dopo, un rapporto sull’Urss di Breznev da far accapponare la pelle. Pure sulla “fermezza” contro il terrorismo che il PCI, per far dimenticare tutto, sposò con rigore leninista e ben poco garantista, Bocca ebbe molto da ridire, fino ad essere persino troppo indulgente nei confronti dei terroristi.

Antifascista certo. Bocca rimase molto legato alla sua esperienza partigiana a cui arrivò dopo una prima adesione alla Repubblica sociale. Ma nei suoi libri sulla Resistenza e sul fascismo, tutti lavori documentati, da storico sopraffino, non andò molto lontano dal “revisionismo” che Renzo De Felice, negli stessi anni, certo con altro peso e forza, imprimeva. Fino a ricordare, nel 1981, scrivendo un libro sul Mussolini socialista, che “il socialismo reale non è fascismo ma come gli somiglia”, come recava il sottotitolo. E la mitologia operaista della Cgil? Fatta a pezzi nel volume I signori dello sciopero (Milano, Longanesi, 1980), una dura requisitoria conto la casta sindacale.

Si dirà che negli anni Ottanta, con “Repubblica”, a cui aveva aderito fin dalla fondazione, Bocca fosse diventato il giornalista democratico perfetto. Niente affatto: mentre il suo giornale e la sinistra spingevano, di fronte alle prime ondate di immigrazione, per un lassismo generalizzato, Bocca raccomandava di controllare le frontiere e rimandava al mittente l’idea che gli italiani fossero razzisti, in un libro del 1988.

Egli vedeva una Italia in sfacelo, rosa dalla partitocrazia, ovviamente quella di governo (era stato simpatizzante di Craxi ma se n’era allontanato all’inizio degli anni Ottanta) ma anche quella del Pci. Mentre le sue cronache e commenti sulla lunga svolta che avrebbe portato al Pds erano colmi di scetticismo, riguardo alla identità comunista che il nuovo partito non aveva intenzione di abbandonare. Per un certo periodo, si infatuò persino di Bossi e della Lega. Faceva impressione, quando all’inizio degli anni Novanta tutti ma proprio tutti i giornali demonizzavano il Senatur, leggere i commenti pro leghisti di Bocca, E su “Repubblica”!

Si, ma almeno contro il Caimano? Certo, dopo il 1994 un Bocca ormai anziano si intruppò nella Armata (Brancaleone) rossa anti Cav, ma fino al 1992 lavorò nelle televisioni del Biscione ed ebbe parole di grande elogio per Berlusconi imprenditore.

Decisamente, il vecchio Bocca era cosa ben diversa rispetto ai giornalisti oggi embedded nel Pd, sugli yacht degli Ingegneri e sugli elicotteri degli Avvocati e nei circoli più o meno svizzeri: in cui il “provinciale” si sarebbe trovato irrimediabilmente a disagio. 

Dieci anni fa moriva a Milano Giorgio Bocca, "L'antitaliano". Il giornalista, per tanti anni firma di punta de Il Giorno, si spegneva a 91 anni il giorno di Natale del 2011, dopo una breve malattia. Il Giorno il 25 dicembre 2021. Era il giorno di Natale del 2011: Giorgio Bocca, 91 anni, si spegneva a Milano, dopo una breve malattia. Sono passati dieci anni, ma del giornalista piemontese rimane un ricordo più vivido che mai.

Nato a Cuneo il 28 agosto del 1920, dopo l'8 settembre '43 Bocca aderì alla lotta partigiana nella zona della Val Grana come comandante della decima Divisione Giustizia e Libertà. Giornalista di razza, ha vissuto il mestiere come una vera e propria vocazione: dopo aver iniziato la sua carriera nella seconda metà degli anni Trenta, alla fine della guerra ha scritto per il giornale 'Giustizia e Libertà', venne assunto alla 'Gazzetta del Popolo' di Torino per andare poi, nel 1954, a 'L'Europeo'. 

Ma è sulle colonne de 'Il Giorno' che Bocca ha firmato una lunga serie d'inchieste e si è affermato anche come inviato speciale seguendo ad esempio la Guerra dei Sei Giorni. E' stato tra i fondatori insieme a Eugenio Scalfari de 'La Repubblica'. Ma è stato anche una firma di punta del settimanale L'Espresso per il quale ha curato la rubrica 'L'antitaliano'.

Non solo carta stampata per Bocca: dal 1983 ha condotto una serie di programmi per le reti Fininvest tra cui 'Prima pagina', 'Protagonisti', '200 e dintorni', 'Il cittadino e il potere'. E si è dedicato all'attività di scrittore occupandosi di terrorismo e, tra le altre cose, della questione meridionale. 

Memorabili, a questo proposito, i suoi giudizi senza appello sul Meridione, che gli hanno attirato un vespaio di critiche, argomentati anche nel libro del 1992 'L'inferno profondo Sud, male oscuro'. Bocca, d'altra parte, ha espresso giudizi pungenti anche quando ha giudicato la cosiddetta 'Milano da bere' degli anni Ottanta o quando ha proposto un parere molto negativo nei confronti dell'ascesa politica di Silvio Berlusconi. Ma non è da meno quando si è prestato a battagliare con Giampaolo Pansa con cui ha condiviso gli anni de 'Il Giorno', de 'La Repubblica' e de 'L'Espresso'. 

Una polemica nata dai libri in cui Pansa rilegge la Resistenza che Bocca ha considerato utili soltanto ad aprire una pagina revisionista che accomunava la Resistenza e il fascismo'.

Tanti i libri che Bocca ha pubblicato. Si possono ricordare, per iniziare, 'Storia dell'Italia partigiana,' del 1966 e 'Il terrorismo italiano' 1970-1978, 1978). Negli anni Novanta ha esercitato una forte critica del mondo economico e politico pubblicando ad esempio 'Il secolo sbagliato' (1990) mentre, negli anni successivi, ha scritto

'L'Italia l'è malada' (2005), 'Napoli siamo noi' (2006), 'Le mie montagne' (2006), 'È la stampa bellezza! La mia avventura nel giornalismo' (2008), 'Annus horribilis' (2010), 'Fratelli coltelli' (2010). Nel gennaio 2012 è stato pubblicato postumo il volume 'Grazie no. Sette idee che non dobbiamo più accettare', che costituisce una

sorta di testamento ideale di Bocca.

Giorgio Bocca, dieci anni fa la morte: il giornalista censore degli sprechi meridionali. Il Mattino, Mercoledì 22 Dicembre 2021. È stato tra i fondatori insieme a Eugenio Scalfari del quotidiano La Repubblica. Ma è stato anche una firma di punta del settimanale L'Espresso per il quale ha curato la rubrica L'antitaliano. Giornalista, allievo ufficiale degli alpini all'inizio della Seconda Guerra mondiale, partigiano dopo l'8 settembre del 1943 nella zona della Val Grana come comandante della decima divisione giustizia e libertà.

Giorgio Bocca, di cui il 25 dicembre cadono i dieci anni dalla morte, avvenuta il giorno di Natale a Milano del 2011 a 91 anni dopo una breve malattia, è stato un giornalista a tutto tondo. Si potrebbe dire che, in qualche modo, è passato dall'adesione alla Resistenza alle polemiche con il collega Giampaolo Pansa legate all'eredità storica della Resistenza. «La sostanza del giornalismo - raccontò a Fabio Fazio negli studi di Che tempo che fa - è cercare di capire quello che sta succedendo al mondo. E allora scrivi la storia cercando di capire che cosa accade intorno a te. Questo è abbastanza semplice, credo che tutti i giornalisti lo vogliano fare. Poi alcuni si vendono e non lo fanno». 

Parole che hanno guidato sempre la mano del giornalista nato a Cuneo il 28 agosto del 1920 e che, nel tempo, si sono trasformate in una sorta di legge non scritta alla quale aderire senza esitazione. Testimone fin da adolescente della realtà che lo ha circondato e che ha raccontato su periodici locali, Bocca ha vissuto il mestiere come una vera e propria vocazione: dopo aver iniziato la sua carriera nella seconda metà degli anni Trenta, alla fine della guerra scrive per il giornale Giustizia e Libertà, viene assunto alla Gazzetta del Popolo di Torino per andare poi, nel 1954, a L'Europeo.

Ma è sulle colonne del quotidiano Il Giorno che Bocca ha firmato una lunga serie d'inchieste e si è affermato anche come inviato speciale seguendo ad esempio la Guerra dei Sei Giorni. Non solo carta stampata per Bocca: dal 1983 ha condotto una serie di programmi per le reti Fininvest tra cui Prima pagina, Protagonisti, 200 e dintorni, Il cittadino e il potere. E si è dedicato all'attività di scrittore occupandosi di terrorismo e, tra le altre cose, della questione meridionale. Memorabili, a questo proposito, i suoi giudizi senza appello sul Meridione, che gli hanno attirato un vespaio di critiche, argomentati anche nel libro del 1992 L'inferno profondo Sud, male oscuro.

Tanti i libri che Bocca ha pubblicato. Si possono ricordare, per iniziare, Storia dell'Italia partigiana, del 1966 e Il terrorismo italiano 1970-1978. Negli anni Novanta ha esercitato una forte critica del mondo economico e politico pubblicando ad esempio Il secolo sbagliatò mentre, negli anni successivi, ha scritto L'Italia l'è malada, Napoli siamo noi, Le mie montagne, È la stampa bellezza! La mia avventura nel giornalismo, Annus horribilis, Fratelli coltelli. Nel gennaio 2012 è stato pubblicato postumo il volume Grazie no. Sette idee che non dobbiamo più accettare, che costituisce una sorta di testamento ideale di Bocca.

Quando i "barbari" di Umberto Bossi sono arrivati a governare Milano. Giorgio Bocca su La Repubblica il 24 dicembre 2021. Il 25 dicembre del 2011 moriva Giorgio Bocca: lo ricordiamo con una selezione dei suoi articoli per Repubblica, come questo pubblicato il 22 giugno 1993. Nel 1993 Milano, scossa da Tangentopoli, elegge il suo primo e finora unico sindaco della Lega, Marco Formentini. Una rivoluzione nel salotto buono della città. Che Giorgio Bocca racconta, il 22 giugno del 1993, sulle pagine di Repubblica. E così i 'barbari' sono arrivati nel Municipio di Milano e metto barbari fra virgolette perché se no Umberto Bossi prende la parola alla lettera. Penso che il fatto abbia o possa avere una valenza positiva perché il nuovo della politica italiana deve uscire dai pregiudizi e dalle fobie, dalle chiacchiere populistiche o localistiche e misurarsi con i grandi problemi della modernizzazione. E amministrare Milano è qualcosa di diverso che amministrare Cene nella bergamasca o Meda in Brianza, è misurarsi con la capitale economica, finanziaria, terziaria, informativa del Paese. Il Municipio di Milano non è stato conquistato dalla Lega come mostra di pensare il suo leader storico che forse dovrebbe darsi una regolata politica e culturale. Più correttamente sei milanesi votanti su dieci hanno scelto la Lega come il segnale più chiaro del non ritorno al passato, come la delega più chiara a un'amministrazione positiva e civile della città. Delega temporanea, ritirabile fra quattro anni ove l'Amministrazione non desse buona prova, una regola fondamentale della Democrazia che i nemici fobici della Lega considerano come una consegna della città al demonio.

Le ragioni per cui penso che l' amministrazione di Marco Formentini abbia o possa avere una valenza positiva sono le seguenti: Formentini e i dirigenti della Lega, e anche Bossi se saprà liberarsi del suo protagonismo rumoroso, sanno, devono sapere che la loro amministrazione sarà sotto il controllo dei milanesi non leghisti, sanno, devono sapere che i quattrocentocinquantamila da cui Formentini è stato votato e gli altrettanti che con le loro astensioni e voti bianchi hanno dato via libera alla vittoria non sono leghisti e nemmeno lombardisti perché per almeno un terzo sono dei meridionali o come chi scrive consapevoli che culture o lingue o folklori lombardi non hanno alcun bisogno delle cure leghiste per esistere: o ci sono e hanno ancora un valore e allora appartengono alla cultura milanese o non c'è nessuna Lega al mondo che possa risuscitarli. Questi sei milanesi votanti su dieci che hanno portato la Lega a palazzo Marino chiedono delle cose molto precise: la prima, di cui la Lega sembra forte garanzia, è che il passato prossimo non si faccia più vedere in piazza della Scala. E poi che si torni alle non trascendentali pratiche della buona amministrazione e a quell'amore per la città che negli ultimi anni era come sparito, come vergognoso di dimostrarsi e di rivelarsi.

Nelle lettere di critica che ho ricevuto non potevano mancare accenti antisvizzeri: sì, magari questo Formentini farà funzionare le poste e il traffico, ma è ben altro che noi vogliamo da una città. Spiacenti ma noi ci accontentiamo, noi pensiamo che il compito di un buon sindaco non sia quello di procurare ai cittadini la soluzione dei problemi esistenziali, del rapporto con la morte, della ricerca della felicità della speranza nell'aldilà ma il buon funzionamento dei servizi e un rapporto civile fra amministratori e amministrati. Sotto questo aspetto il compito di Formentini è facile se confrontato al disastro delle precedenti amministrazioni, difficile e difficilissimo rispetto a tutto ciò che non si è fatto negli ultimi venti anni e che dovrà essere fatto nei prossimi venti.

Le elezioni amministrative di Milano sono state un fatto positivo come una svolta da elezioni ideologiche a elezioni anglosassoni. Nella sostanza gli elettori hanno pensato agli uomini che gli davano più affidamento e che ritenevano più congeniali. Ma vizi cinquantennali non cambiano da un giorno all' altro, da una parte come dall' altra si è ancora caduti nelle false rappresentazioni. Nando Dalla Chiesa si è talmente fatto prendere dalla sua, di un concerto di forze democratiche tolleranti, civili, riformiste, progressiste, da dimenticare che il gruppo più forte dei suoi sostenitori, quello di Rifondazione comunista, è composto da persone che non si sono ancora accorte che il comunismo è morto persino in Cina, e che l'altro suo grande supporter, il Pds è così nuovo da avere molte decine di persone inquisite per 'Mani pulite'. Si è talmente fatto prendere dal suo seguito di sessantottini e figli di sessantottini da accusare sei milanesi su dieci di essere dei biechi trasformisti che hanno con la Lega fatto rinascere il craxismo e altre amenità piuttosto melanconiche. Entrambi i personaggi, Nando Dalla Chiesa e Umberto Bossi, devono ancora imparare che la democrazia consiste nel saper perdere come nel saper vincere e forse gli gioverebbe andare a ripetizioni dal sindaco di Torino, Castellani, che ha saputo perdere il 6 giugno e vincere il 20. Comunque qualcosa si è messo in marcia e non saranno i centoquaranta zombi di Pannella a fermarlo. Si è messo in marcia il nuovo della Lega e della Rete e di Segni e il similnuovo del Pds. 

I vecchi partiti del quadripartito hanno assistito impotenti o distrutti a questa prima uscita delle forze politiche che dovranno assumersi il governo del Paese. In nessuna di queste forze noi vediamo degli alieni, nessuna di queste forze ci incute paure e fobie. Ma come si può ancora dubitare dell'attaccamento degli italiani, di tutti gli italiani alla democrazia? Come si può vedere la violenza e l'intolleranza in una Italia ricca e avanzata che ha digerito le grandi ondate migratorie? Violenti e faziosi ce ne sono da una parte come dall' altra, vedi quelli che hanno incendiato l'auto dell'assessore alla cultura Philippe Daverio, ma non per questo si può dire che ci sia stata violenza nell'una come nell'altra parte. Ci auguriamo che Bossi faccia l'uomo di governo con maggiore responsabilità verbale e che Nando Dalla Chiesa sappia fare, senza vani furori, il capo dell' opposizione.

Se Giorgio Bocca era antimeridionalista lo sono anche io. Gesellschaft su L'Inkiesta il 25 Dicembre 2011. Da poche ore è morto Giorgio Bocca. Un normale "coccodrillo" lo avrebbe definito come giornalista, scrittore e partigiano. E invece gli strepiti di chi vuol dire la sua sulla biografia e la vita de... 

Da poche ore è morto Giorgio Bocca. Un normale “coccodrillo” lo avrebbe definito come giornalista, scrittore e partigiano. E invece gli strepiti di chi vuol dire la sua sulla biografia e la vita degli altri non si sono fatti aspettare. In poche ore sono comparsi in Rete post, articoli, status, tweets che identificavano il noto giornalista come un anti-meridionalista, uno che odiava città come Napoli o Palermo. Altri ancora si sono spinti oltre addirittura definendolo come razzista.Accuse che nascono da dichiarazioni come questa: 

Le forme di complicità con la Camorra sono innumeri e spesso inconsapevoli. Si vede semplicemente entrando nei negozi, negli uffici, guidando l’automobile, in questa lotta di tutti contro tutti che cerca la protezione dei più violenti. La Camorra ha avuto nella grande città una funzione decisiva: assicurare la sopravvivenza dei marginali ma impedire che essi dessero l’assalto ai regolari. I marginali sono massa, centoquarantaseimila famiglie hanno fatto domanda per il sussidio di povertà, solo ventimila l’hanno ottenuto, un esercito permanente di poveri di fronte ai quali sta la grossa minoranza dei ricchi che fanno politica, accumulano enormi patrimoni senza produrre sviluppo, senza cambiare i rapporti sociali.

Ebbene Bocca aveva ragione, e non solo perché vivo il contesto da lui descritto così amaramente. Bocca aveva ragione perché le sue posizioni erano analisi antropologica e non deliri di un vecchio nei suoi ultimi anni di vita. Il più delle volte accompagnate da buone dosi di ironia e provocazione ma che davano comunque un senso di verità al suo pensiero.

Certo verrebbe da dire che “non tutti i napoletani fanno schifo” o che “non tutta Palermo è collusa con la mafia”, ma sono dichiarazioni che lasciano il tempo che trovano ed evidenziano una totale assenza di contenuti circa la storia del meridione, e soprattutto una totale ignoranza sia del personaggio – provocatore e tagliente – che dei suoi scritti.

Ma “anche le pulci hanno la tosse” ed è davvero grottesco veder confondere l’intellettuale con l’opinionista, il giornalista con il “cane mediatico” di qualche partito o qualche politico. Bocca era altro.

In Italia ormai abbiamo la cattiva abitudine di vivere in barricate culturali e politiche, su Bocca in poche ore non ci siamo smentiti.

Bocca non era la verità assoluta, ci mancherebbe. Tantomeno voglio applicare il buonismo post-mortem. Giorgio Bocca era deluso da una umanità imbarbarita, imbruttita dentro. Nessuno può negare il contrario.

Ormai il “sacro fuoco” che lo accompagnava qualche anno fa lo aveva abbandonato.

Bocca era deluso dell’Italia che ne è venuta fuori dopo aver combattuto per costruirla. E sono d’accordo con lui. Città come Napoli o Palermo hanno contribuito alla resistenza più di molte altre e oggi sono solo meravigliose cornici tornite da una umanità repellente.

Se Bocca era antimeridionalista lo sono anche io.

Il razzismo antimeridionale di Vittorio Feltri non è nuovo: anche Giorgio Bocca e Indro Montanelli manco scherzavano…Ignazio Coppola il 23 aprile 2020 su inuovivespri.it. 

La storia del razzismo contro il Sud Italia e i suoi abitanti – di cui Vittorio Feltri è solo uno dei tanti ‘protagonisti’ – comincia nel 1860. Inizia con i Savoia, con l’odio e l’astio dei generali e dei politici piemontesi, prosegue con i positivisti di fine ‘800 (Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri) e arriva fino ai nostri giorni. Basta andare a rileggersi cosa hanno detto e scritto dei meridionali Giorgio Bocca e Indro Montanelli…

La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica viene oggi drammaticamente riproposta dalle farneticanti affermazioni razziali dei deliri antimeridionali del “giornalista” Vittorio Feltri, che raccoglie l’eredità di tanti suoi illustri colleghi giornalisti del Nord, come, tra gli altri, Giorgio Bocca, Indro Montanelli, di cui parleremo più avanti, che verso i meridionali hanno sempre avuto parole di disprezzo e di repulsione. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata Unità d’Italia.

ACREDINE VERSO IL SUD – Le parole di Feltri di questi giorni non sono solo il frutto di una demenza senile razziale, ma sono il punto di arrivo di un’acredine e di una ipocrisia nei confronti del Sud che trova appunto le sue radici nelle bugie e nelle falsità che, a dosi massicce, ci sono state propinate, senza soluzione di continuità, sino ai nostri giorni, dalle storiografie ufficiali e scolastiche. Si continua infatti ad ignorare che, alla base di una mala unità d’Italia, vi fu, come del resto continua ad esserci – retaggio del passato – un’ignobile componente razzistica antimeridionale conclamata e documentata da quei politici e da quei militari che erano venuti a “liberare e civilizzare “ il Sud.

In una lettera inviata il 17 ottobre del 1860 a Diomede Pantaloni e contenuta in un carteggio inedito del 1888, il piemontese marchese Massimo D’Azeglio, che fu Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna ed esponente della corrente liberal-moderata tra l’altro così scriveva:

“In tutti i modi la fusione con i napoletani mi fa paura e come mettersi a letto con un vaioloso”.

Più o meno quello che, esattamente 150 dopo, canterà in coro con altri leghisti ad una festa del suo partito l’eurodeputato ed allora capogruppo al comune di Milano Matteo Salvini:

“Senti che puzza, scappano anche i cani, sono tornati i napoletani, sono colerosi e terremotati, con il sapone non si sono mai lavati”.

Sembra di risentire il D’Azeglio di 150 anni prima. Da allora niente è cambiato se non in peggio. Feltri docet. Nino Bixio, il paranoico massacratore di Bronte, in una lettera inviata alla moglie, tra l’altro così scriveva:

“Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili”.

CIALDINI: “QUESTA E’ AFRICA!” – Ancora, sulla stessa lunghezza d’onda del colonnello garibaldino, il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II inviato a Napoli nell’agosto del 1861 con poteri eccezionali per combattere il “brigantaggio”, a proposito dei territori in cui si trovò a operare in una lettera inviata a Cavour così si esprimeva:

“Questa è Africa! Altro che Italia. I beduini a confronto di questi cafoni sono latte e miele”.

Enrico Cialdini era lo stesso che alcuni mesi prima, nel febbraio del 1861, durante l’assedio di Gaeta, bombardando l’eroica città, non si fece scrupolo di indirizzare il tiro dei suoi cannoni rigati a lunga gittata e di grande precisione deliberatamente sugli ospedali per terrorizzare gli occupanti e fiaccarne la resistenza. E, a chi gli faceva osservare il suo inumano comportamento non rispettoso dei codici d’onore e militari, rispondeva sprezzatamene:

“Le palle dei miei cannoni non hanno occhi”.

Cialdini si rese poi protagonista degli eccidi e della distruzione, in provincia di Benevento, dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, esecrabili e orrendi al pari di quelli compiuti dai nazisti molti anni dopo e con minor numero di vittime a Marzabotto e a Sant’Angelo di Stazzema, in cui furono massacrati senza pietà uomini, donne e bambini. Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, Cialdini era solito raccomandare di “non usare misericordia ad alcuno, uccidere, senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani”.

E dire che del nome di Cialdini, criminale, spacciato per eroe, la toponomastica delle nostre città ne ha fatto incetta. Ed ancora , a ulteriore testimonianza di questi propugnatori del razzismo antimeridionale, quanto scriveva all’alba dell’Unità d’Italia il generale conte Luigi Menabrea comandante del genio del corpo d’armata piemontese di stanza nell’ex Regno delle Due Sicilie, alla baronessa Olimpia Savio Rossi dal comando di Castellone di Gaeta il 26 dicembre del 1860:

“I meridionali sono simili agli ottentotti (si riferiva ai Boscimani la popolazione che abitava l’Africa meridionale), nonostante il loro bel paese e le loro grandi memorie. L’abbassamento del senso morale e della dignità personale della popolazione sono le cose che colpiscono di più. Sotto gli stracci disgustosi che coprono le contadine non si riconosce più questa belle razza italiana, che sembra finire nel territorio romano”.

Il conte piemontese Luigi Menabrea sarà poi dal 1867 al 1869 presidente del Consiglio dei Ministri del nuovo regno d’Italia e, non perdendo la sua propensione razzista nei confronti dei meridionali, si distinguerà nella spasmodica ricerca, nella sua qualità di capo del Governo, di territori fuori dall’Italia, in Patagonia (Argentina) prima e nell’isola di Socotra (Portogallo) in cui deportare – essendo le carceri italiane strapiene – miglia e miglia di prigionieri meridionali. Per fortuna il criminale disegno di Menabrea e del governo sabaudo non andò a buon fine per la decisa opposizione dell’Argentina e del Portogallo, che eccepirono problemi di sovranità che giustamente rivendicavano sui propri territori.

GOVONE: “LA SICILIA? BARBARI!” – E che dire poi del generale Giuseppe Covone mandato anch’esso a reprimere il brigantaggio in Sicilia, un militare che, per snidare i renitenti di leva, non si fece scrupolo di fucilare sul posto, di torturare, arrestare e deportare, intere famiglie e compiere abusi e crimini inenarrabili? Ebbene, anche il Covone, per non essere da meno dei suoi conterranei predecessori e per difendere e giustificare il suo criminale operato dell’uso di metodi di costrizione di stampo medievale nei confronti dei siciliani: anch’egli non trovò di meglio, in un rigurgito razzista, di affermare in Parlamento:

“Nessun metodo poteva aver successo in un paese come la Sicilia che non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà”.

Ed infine per completare questo “bestiario” di aberrante avversione razziale nei confronti dei meridionali val bene ricordare le parole tratte dal diario dell’aiutante in campo di Vittorio Emanuele II, il generale Paolo Solaroli:

“La popolazione meridionale è la più brutta e selvaggia che io abbia potuto vedere in Europa”.

E poi quanto scrisse Carlo Nievo, ufficiale dell’armata piemontese in Campania al più celebre fratello Ippolito, scrittore e ufficiale e amministratore della spedizione garibaldina in Sicilia:

“Ho bisogno di fermarmi in una città che ne meriti un poco il nome poiché sinora nel Napoletano non vidi che paesi da far vomitare al solo entrarvi, altro che annessioni e voti popolari dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti, che razza di briganti, passando i nostri generali ed anche il re ne fecero fucilare qualcheduno, ma ci vuole ben altro”.

LOMBROSO, FERRI, NICEFORO – Questi i documentati pregiudizi razziali di quei “liberatori” che fecero – a spese del Sud, depredandolo, saccheggiandolo, uccidendo e massacrando i suoi abitanti . l’Unità d’Italia. Grazie anche a questi pregiudizi, nati per giustificare la politica coloniale e civilizzatrice piemontese, poi furono elaborate le teorie razziali dell’inferiorità della razza meridionale propugnate da Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri, Giuseppe Sergi, Paolo Orano e Raffaele Garofalo che si affrettarono a dare una impostazione scientifica ai pregiudizi diffusi ad arte dagli invasori per giustificare politiche di rapine, di spoliazioni e di saccheggi a danno del Meridione.

Sui fondamenti antropologici e storici della crisi dell’identità italiana e sulla mancanza di comunicazione interculturale tra Nord e Sud ne fa una lucida analisi Antonio Gramsci nei quaderni quando sostiene:

“La miseria del Mezzogiorno era storicamente inspiegabile per le masse popolari del Nord. Queste non capivano – afferma Gramsci – che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord era una piovra che si arricchiva a spese del Sud e che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale”.

L’impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza ma la ragione stessa dell’Unità d’Italia. In buona sostanza, con l’Unità d’Italia ebbe il sopravvento il disegno e la strategia egemonica dell’imprenditoria e della finanza settentrionale che, conquistando e colonizzando il Sud, ostacolandone in ogni modo la crescita prevaricò ogni ipotesi di sviluppo della nascente economia meridionale.

Significativo in questo senso fu quanto ebbe a dire il genovese Carlo Bombrini prima dellUnità d’Italia, già direttore della Banca Nazionale degli stati Sardi e amico personale di Cavour e successivamente governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882:

“Il Mezzogiorno non deve essere messo più in condizione di intraprendere e produrre”. Infatti, negli anni in cui fu a capo della Banca Nazionale, tenendo fede a questa sua spiccata vocazione antimeridionalista fu artefice di numerose operazioni finanziarie finalizzate allo sviluppo dell’economia del Nord, soprattutto nella costruzione delle reti ferroviarie settentrionali per le quali ottenne numerose concessioni a detrimento di quelle meridionali.

Riprendendo l’analisi di Gramsci si può in buona sostanza affermare che la origine della questione dei meridionali bollati come razza inferiore nasce dal fatto, a detta dall’illustre intellettuale sardo, che il rapporto Nord-Sud dopo l’Unità d’Italia fu un tipico rapporto di tipo coloniale che vide le popolazioni del Sud defraudate della loro storia, della loro identità culturale e occupate militarmente.

Lo scrittore ceco Milan Kundera, protagonista della primavera di Praga nel suo Il libro del riso e dell’oblio scrive un pensiero che è assolutamente calzante con quanto avvenne alle popolazioni meridionali e ai siciliani subito dopo l’Unità d’Italia:

“Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, le loro culture e la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di altre culture e inventa per loro un’altra storia. Dopo di che il popolo incomincia a dimenticare quello che è stato”.

Ed è proprio quello che è capitato alle popolazioni del Mezzogiorno d’Italia nel corso di 160 anni di un forzato e mal digerito processo unitario che ha alle sue origini come abbiamo visto aberranti radici antropologiche, xenofobe, razziste e coloniali. Una colonizzazione ed una occupazione militare del Mezzogiorno che, al di là delle frasi di aberrante e vomitevole razzismo nei confronti dei meridionali che abbiamo abbondantemente e documentalmente riportato da parte di “liberatori”quali Bixio, Cialdini, Covone, D’Azeglio, Nievo, Bombrini e tanti altri, doveva trovare per questo una giustificazione ed una sua legittimazione ideologica, culturale ed anche scientifica tendente a dimostrare la inferiorità della razza meridionale ed alla gratitudine che si doveva ai settentrionali di esserci venuti a liberare ma soprattutto a civilizzare. E questo fu lo sporco compito assolto con lodevole perizia, in questa direzione, dalla scuola positivista di Cesare Lombroso che, assieme ad altri antropologi e criminologi quali Alfredo Neciforo, Ferri, Sergi, Orano e Garofalo propugnatori del razzismo scientifico e dell’eugenetica, misero a frutto i diffusi pregiudizi antimeridionali teorizzando l’inferiorità della razza meridionale.

Cesare Lombroso antropologo e criminologo, nel periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia, elaborò le sue teorie sulla inferiorità etnica dei meridionali effettuando misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo scopo di dimostrare e di ottenere la prova scientifica sulla inferiorità genetica dei meridionali. Lombroso, sfatando il mito di una omogenea razza italica, teorizzò l’esistenza di due tipi di italiani: i settentrionali come razza superiore e i meridionali di stirpe negroide africana razza inferiore.

Più avanti, un altro antropologo di scuola lombrosiana, Alfredo Niceforo, propugnatore del razzismo scientifico, come il suo maestro, teorizzò l’esistenza in Italia di almeno due razze: quella eurasiatica (ariana) al Nord e quella euroafricana (negroide) al Sud e, di conseguenza, la superiorità razziale degli italiani del Nord su quelli del Sud. Con un particolare, di non poco conto, che l’illustre antropologo, tutto preso dalla elaborazione delle sue folli teorie, vittima della sindrome di Stoccolma, si era dimenticato di essere nato nel gennaio del 1876 a Castiglione di Sicilia e quindi di appartenere ad una razza inferiore!

Niceforo, in un suo libro del 1898, L’Italia barbara contemporanea, descriveva il Sud come una grande colonia, una volta conquistata e sottomessa, da “civilizzare”. Questa ideologia della superiorità della razza nordica, al fine di giustificare le rapine e le spoliazioni nei confronti del Sud, fu diffusa – sostiene ancora Gramsci – in forma capillare dai propagandisti della borghesia nella masse del Settentrione.

Il Mezzogiorno è la palla al piede – si disse allora come si ripete pedissequamente oggi – che impedisce lo sviluppo dell’Italia. I meridionali sono – secondo la teoria del Lombroso e dei suoi seguaci – biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale e se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di altra causa storica, ma del fatto che i meridionali sono di per sé incapaci, poltroni, criminali e barbari. O dei posteggiatori abusivi come delira oggi Vittorio Feltri.

“NON SI AFFITTA AI MERIDIONALI” – Queste teorie portarono poi nel corso degli anni alla discriminazione razziale nei confronti dei meridionali, come quando nelle città del Nord si era soliti leggere cartelli come questi:

“Vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali”. O, ancora:

“Non si affittano case ai meridionali”.

Era questa la conseguenza della campagna xenofoba e razzista avviata con l’unità d’Italia e che dura con Vittorio Feltri e i suoi sodali, ancora sino ai nostri giorni. Fra i detrattori dei Siciliani e dei meridionali, visti, nel loro insieme, come un popolo di “terroni” e di “mafiosi”, non sono poi mancati “ giornalisti famosi come dicevamo all’inizio, i “compianti” Indro Montanelli e Giorgio Bocca, che più di una volta ebbero a sottolineare la condizione di inferiorità delle popolazioni meridionali rispetto a quelle del Nord.

Nel 1960, al tempo della guerra d’Algeria, in una intervista rilasciata al giornalista francese Weber per “Le Figaro Litteraire” (la notizia fu riportata dal quotidiano “L’Ora” di Palermo del 25 ottobre del 1990) Montanelli disse testualmente:

MONTANELLI: “VOI AVETE L’ALGERIA, N LA SICILIA” – “Voi avete l’Algeria, noi abbiamo la Sicilia, ma voi non siete costretti a dire che gli algerini sono francesi, mentre noi, circostanza aggravante, siamo costretti ad accordare ai siciliani la qualifica di italiani”.

Molti siciliani insorsero deplorando quella frase oltraggiosa, da cui si ricavava che Montanelli considerava gli Algerini un popolo di serie B e i Francesi un popolo di serie A, così come i Siciliani rispetto agli Italiani. In un articolo di risposta a quella intervista un magistrato di Caltanissetta (Salvatore Riggio) si domandava:

“Ma che cosa ci facevano i Francesi in casa algerina? I Francesi non erano forse gli sfruttatori, gli oppressori, i colonizzatori, gli illegittimi occupanti mediante violenza bellica dell’Algeria? Gli Algerini non avevano il sacrosanto diritto di cacciare dalla loro Terra i colonizzatori francesi e reclamare la propria indipendenza? Secondo l’ottica razzista del Montanelli parrebbe di no, perché secondo lui forse la Provvidenza Divina aveva assegnato agli Algerini come angeli custodi i Francesi e secondo la stessa ottica la medesima Provvidenza Divina avrebbe designato i «Fratelli d’Italia» al di là dello Stretto custodi dei Siciliani, considerati dal Montanelli «Esseri» distinti dagli «Italiani» perché posti nella scala di una presunta gerarchia in un gradino inferiore”.

Il magistrato citava poi un altro episodio analogo in cui Montanelli (era il 1967) se la prendeva con tutti gli avvocati siciliani accusandoli indiscriminatamente in massa di avere connivenze e collusioni con la delinquenza. Gli avvocati siciliani reagirono proponendo una querela per diffamazione contro di lui. “Ma dove voleva arrivare questo signore?”, si domandava il magistrato. “Voleva forse proporre anche la fornitura di avvocati nordisti per la difesa dei delinquenti siciliani, così come i nordisti ci forniscono giornalmente i loro prodotti per la nostra vita dato che ormai il Sud e la Sicilia in particolare sono stati ridotti soltanto a vaste aree di mercato di consumo interno?”.

Ma non finisce qui. L’autore dell’articolo (apparso sulla rivista Il Domani) ricordava che nel 1970 Montanelli aveva scritto che, alla Sicilia, mancava da sempre una coscienza civile e sul Corriere della Sera del 9 Gennaio 1971 scriveva che in Sicilia non v’era traccia di pensiero illuministico. Gli rimproverava poi di non conoscere la storia, l’arte, il pensiero, la letteratura della Sicilia, e persino la geografia, avendo scritto che “il 26 Maggio 1860 tre ufficiali della flotta inglese erano sbarcati a Misilmeri” (Montanelli e Nozza, Garibaldi, 1963, pag. 372), mentre Misilmeri non è sul il mare.

Il magistrato poi citava anche il caso di Moravia, che sull’Espresso del 3 Ottobre 1982 a pag. 37 in un articolo intitolato “Siciliano = mafioso?” ad un certo punto aveva scritto:

“Il Siciliano in quanto tale, anche il galantuomo, è tendenzialmente mafioso”.

Con tutto ciò, concludeva il magistrato, nel 1986 i “sicilioti” di Agrigento (affetti dalla sindrome di Stoccolma) assegnarono a Moravia il Premio Pirandello per la narrativa e il 28 novembre 1990 un’Associazione Culturale di Caltanissetta conferiva a Montanelli il Premio Internazionale Castello di Pietrarossa per la sezione giornalismo. “Cupidigia di servilismo”,così titolava l’articolo il magistrato.

E presi da questa cupidigia di servilismo e affetti dalla sindrome di Stoccolma che, alla fine, i palermitani di corta memoria hanno addirittura dedicato a questo illustre giornalista – loro costante denigratore – addirittura una strada: appunto via Indro Montanelli, sita in una traversa della Via Tasca Lanza. E giunti a questo punto, speriamo per l’avvenire che il sindaco Leoluca Orlando o chi gli succederà non si convincano a dedicare come per Indro Montanelli una strada a un razzista seriale antimeridionale come Vittorio Feltri.

"Bocca razzista e omofobo". Gli insulti postumi su Twitter. Il cronista d'Italia divide la rete. Nel mirino le frasi su Pasolini e sul Sud. Ma in tanti lo omaggiano. Gabriele Martini il 26 Dicembre 2011 su La Stampa. Di qui la beatificazione, di là gli insulti postumi. Giorgio Bocca ci aveva visto giusto: «Sono certo che morirò avendo fallito il mio programma di vita: non vedrò l'emancipazione civile dell'Italia», diceva nel 2007 in un’intervista a L’Espresso. La scomparsa del giornalista è diventata subito "trend" su Twitter. Sui social network trovano sfogo rabbia, rancori e invidie: «Omofobo», «razzista», «fascista». Certo, si tratta di una minoranza. In tantissimi salutano il gigante del giornalismo, l’intellettuale sincero. L’anti-italiano, provocatorio e contraddittorio. Ma le critiche non mancano. I passaggi dell’intervista-fiume “La neve e il fuoco” fanno il giro della rete: «Insomma, la gente del Sud è orrenda (…). C’era questo contrasto incredibile fra alcune cose meravigliose e un’umanità spesso repellente. Una volta, a Palermo, c’era una puzza di marcio, con gente mostruosa che usciva dalle catapecchie». «Vai a Napoli ed è un cimiciaio, ancora adesso – continuava Bocca nel documentario prodotto da Feltrinelli Real cinema - . Una poesia il modo di vivere di quelle parti? Per me è il terrore, è il cancro. Sono zone urbane marce, inguaribili». «Bocca era un nemico del Sud», scrive Medoro. Anche il sindaco di Napoli De Magistris ne denuncia «l'antimeridionalismo». La politica non sta a guardare. Arrivano i messaggi di Napolitano, Fini e Schifani. Anche qui c’è chi si smarca. «In queste ore tutti si sperticano ad esaltare il suo antifascismo, ma fino al 1942 non era esattamente così....», scrive Storace su Facebook. « Bocca fu un convinto assertore dell'antisemitismo», attacca il deputato Pdl Giancarlo Lehner. «Mi chiedo quanti ebrei italiani non ebbero l'opportunità di defungere a 91 anni come il giornalista». In rete si assiste ad un arruolamento-lampo tra gli schieramenti: guelfi o ghibellini, «il migliore» o «il peggiore». Finiscono nel mirino anche le parole di Bocca su Pasolini: «Avevo paura di lui, della sua violenza. Pasolini è morto perché (…) era di una violenza spaventosa nei confronti di questi suoi amici puttaneschi. Poi mi dava noia questo: ho un po' di omofobia, che poi è una cosa militare, come i bei fioeu va a fer il solda' e i macachi resta a ca', i macachi restano a casa. Il mio concetto piemontese è che gli uomini veri vanno a fare il soldato. Quindi anche questa faccenda dei suoi rapporti con questi poveretti che manipolava...». Bocca «è stato un becero leghista voltagabbana ipocrita», scrive Massimo su Twitter. Per Mimmo rappresenta «l’anello di congiunzione tra razzismo risorgimentale e razzismo leghista». Altri lo difendono, ma sui blog alcuni si spingono ad esultare per la sua morte. Sisetta su Twitter fotografa la situazione stupita: «Vi eccitate tutti perché così avete qualcosa su cui litigare, và che siete degli strani animali eh…». Resta quella frase di Bocca, quasi un testamento: «Morirò avendo fallito il mio programma di vita: rendermi tanto antipatico da evitare di essere adulato da morto».

Le verità scomode su Giorgio Bocca.  Le commemorazioni e il ricordo di Giorgio Bocca fatte molto benevolmente da Giulio Ambrosetti credo per rispetto a verità scomode che riguardano questo mostro sacro della cultura italiana, meritino delle opportune riflessioni. La benevolenza sul giornalista e sull'uomo che ha caratterizzato, in queste ore e a caldo, i giudizi espressi nei suoi confronti da certa stampa ad usum delphini credo vada stemperata per la contraddittorietà, per l'incoerenza e per la vis polemica, molto spesso a sproposito, dimostrata dal personaggio in questione nella sua lunga esistenza.

In una cosa, Gorgio Bocca è stato coerente nella sua lunga vita: in quella di essere stato costantemente razzista. Prima antiebreo e poi antimeridionale. Come quando, giovane fascista assieme a tanti altri gerarchi del regime e molti intellettuali dell epoca, nel 1938, sottoscrisse il manifesto della razza , documento base delle leggi razziali fasciste contro gli ebrei. Contro gli ebrei prima e contro i meridionali dopo. Una costante razzista che ha caratterizzato da sempre la sua vita.

Ecco quanto scrisse sul giornale La Provincia Grande nel lontano 4 agosto del 1942 in un articolo nel quale imputava il disastro della guerra alla congiura ebraica, scrivendo tra l altro: Questo odio degli ebrei contro il fascismo è la causa della guerra attuale. A quale ariano, fascista e non fascista, può sorridere l idea di essere lo schiavo degli ebrei? . Esattamente un anno dopo avere scritto queste ripugnanti frasi, e precisamente il fatidico 8 settembre del 1943, Giorgio Bocca avvertendo l odore della sconfitta da fervente e convinto fascista fa il salto della quaglia e diviene partigiano, addirittura come comandante della decima divisione di Giustizia e Libertà e poi, nei primi mesi del 1945, fa parte dei giudici dei tribunali del popolo, firmando, a guerra conclusa, la condanna a morte del tenente Adriano Adami e di altri 4 prigionieri della Repubblica Sociale Italiana, gente che in passato la pensava come lui e la qual cosa non andava perdonata.

Ecco, dal Fascismo alla Resistenza, chi fu Giorgio Bocca, il fustigatore dei meridionali nei sui numerosi libri tra i quali il recente La neve sul fuoco (Feltrinelli) in cui definisce la gente del Sud orrenda e repellente, con particolare riferimento a due città - Napoli e Palermo - e con ciò suscitando la giustificata indignazione di tanti meridionali stanchi di essere offesi e vilipesi nelle loro tradizioni, nella loro storia e nella loro cultura.

Non è, del resto, la prima volta. E accaduto spesso che Giorgio Bocca, con stomachevoli venature razziste, si sia scagliato contro i meridionali, come quando - riferendosi alla capitale della Campania - si lasciò andare a frasi come questa: Napoli è tuttora un cimiciaio come lo era prima . E i territori del Meridione definiti: Zone urbane marce ed inguaribili.

Ricordando le prime volte che ebbe a visitare il Sud affermava. C era sempre un contrasto tra i paesaggi e questa gente orrenda: un contrasto incredibile fra cose meravigliose ed una umanità ( la gente del Sud, ovviamente ndr) repellente . E come se non bastasse, in un altro suo libro - Aspra Calabria - con il suo sprezzante ed acclarato nordismo (simpatie nei confronti del partito di Bossi? il dubbio è legittimo), percorrendo la Calabria con il naso arricciato dallo schifo nei confronti delle popolazioni locali non perdeva l occasione di gettare discredito e fango su di esse definendole barbare e incivili.

Queste affermazioni razziste di Bocca e quanto riportato nei suoi scritti non hanno fatto altro che attagliarsi e portare acqua al mulino secessionista di Umberto Bossi, mortificando, tra l altro, quella verità storica per la quale all'Unità di questo Paese diedero il loro peculiare e fondamentale contributo le tanto vituperate e vilipese popolazioni meridionali.

Ecco perché per quanto detto non avremmo mai potuto accettare lezioni di civiltà da uno come Giorgio Bocca che, anziché riesumare nei confronti dei meridionali giovanili rigurgiti razzisti, avrebbe dovuto pensare più opportunamente a trarre, per restare in pace con se stesso e con la sua coscienza, un bilancio della sua intensa, lunga, discussa e controversa vita. Ma ormai è troppo tardi è un peso questo e un rimorso che certo si porterà nella tomba.

Ed è anche per questo che i meridionali e i siciliani, resi consapevoli di tali poco onorevoli trascorsi di questo mostro sacro della cultura italiana, di sicuro non si listeranno a lutto e non si strapperanno le vesti per la sua morte.

Le verità scomode su Giorgio Bocca. Un odiatore tribale e razzista dei meridionali. Pietrangelo Buttafuoco il 27 dicembre 2011 su Il Foglio.

Razzista. Non nel senso del ragioniere che se ne va ad ammazzare senegalesi. Ma razzista con l'idea che quelli del sud – e i siciliani in particolare – fossero gente non evoluta, non emancipata, non civile, insomma, gens inferiore rispetto al nord, in questo senso, sì. Lo era.

Razzista. Non nel senso del ragioniere che se ne va ad ammazzare senegalesi. Ma razzista con l'idea che quelli del sud – e i siciliani in particolare – fossero gente non evoluta, non emancipata, non civile, insomma, gens inferiore rispetto al nord, in questo senso, sì. Lo era.

Giorgio Bocca – buonanima – aveva un'idea precisa dell'Italia e riteneva che “l'Inferno”, ovvero quella categoria dello spirito che fece da Ur-Gomorra a Roberto Saviano, fosse, appunto, il “cimiciaio” di un vasto sud abitato da belve meridionali. Se ne andava in giro per Palermo e se ne ritraeva come se fosse nella plaga flatulenta di un'umanità sciancata.

Antonio Di Grado, presidente della Fondazione Sciascia, giustamente non se lo può scordare di quella volta quando Bocca, inviato in Sicilia, raccontò di un Leonardo Sciascia in abito bianco, con la paglietta da avvocaticchio, immerso in ragionamenti mafiosi. Ancora oggi nessuno, neppure tra i più devoti innamorati di Bocca, può credere ad una scena simile. Non è possibile che Gian Antonio Stella creda a tutto ciò, né Ezio Mauro che lo ha eletto a bussola. Forse tanti lettori avranno creduto a quel racconto, ma chi è del mestiere sa quanto fosse scivoloso il patto del cronista con la verità. E quello di Bocca è stato un negoziato marchiato dal pregiudizio. Razzista, certo. Bocca viaggiava in Italia e cercava solo ciò che voleva trovare. E fu così che s'inventò uno Sciascia con la coppola. Se solo avesse avuto la convenienza – polemica, per carità – perfino di Saviano avrebbe fatto un camorrista. E non ha avuto tema di consegnare in una delle sue ultime interviste, edite in un video Feltrinelli (“La Neve e il fuoco” di Maria Pace Ottieri e Luca Masella), una sequela di luoghi comuni sul sud degne delle sagre padane, giusto quelle tribù nelle cui vallate avrebbe saputo attingere umori, spurghi e bestemmie. E pubblico.

Seguì la prima Lega, lavorò per Silvio Berlusconi e il nord è stato la sua platea ideale, un nord speciale dove abitava il “ceto medio riflessivo”, “il girotondo” e “il cattolico adulto”. Era quel mondo tutto sbrigativo e rapace della sinistra conformista, un mondo addolcito dalla convinzione di stare dalla parte giusta ma pur sempre duro nel giudicare quell'umanità lazzarona da redimere a colpi di manette, di tasse e di Costituzione.

Razzista, Bocca, lo fu non perché si ritrovò ad essere fascista in gioventù ma per quell'azionismo dell'età matura che lo teneva avvinto all'idea di aggiustare l'umanità malata degli italiani.

Non ebbe la possibilità di fare il salto nel vuoto e ritrovarsi – come Oriana Fallaci, da lui ribattezzata con stizza e genio “Oliala” – tra gli applausi della peggiore destra. Razzismo per razzismo avrebbe potuto uscirsene anche lui con la difesa dell'occidente. Sarebbe bastato sostituire la parola “meridionali” con “musulmani”. Tutto qua. 

Pietrangelo Buttafuoco. Nato a Catania – originario di Leonforte e di Nissoria – è di Agira. Scrive per il Foglio.

·        10 anni dalla morte di Amy Winehouse.

Amy Winehouse, la divina che non ha eredi: dieci anni senza la voce del tormento e della verità. Ernesto Assante su La Repubblica il 23 luglio 2021. Il 23 luglio del 2011 moriva a Londra l'artista di straordinario talento che ha interpretato senza errori il "copione" della vita perduta. Il pop al femminile non è più lo stesso da quando Amy Winehouse è a scomparsa, esattamente dieci anni fa. Con lei è per ora scomparso un certo modo di far musica, molto legato alla libertà espressiva, alla vita, e assai poco al mercato e alle sue tendenze. Senza di lei sembra passato in secondo piano il cantare i sentimenti, mettere in scena la verità, affrontare le canzoni senza filtri o schemi.

Riccardo De Palo per ilmessaggero.it il 23 luglio 2021. A dieci anni esatti dalla morte di Amy Winehouse, avvenuta il 23 luglio 2011 per un avvelenamento da alcol, spunta una registrazione audio della grande interprete soul, che ammette la gravità della sua dipendenza. «Ho cominciato a bere whisky a 12 anni e non ho più smesso da allora», dice la cantante nel nastro ottenuto dal tabloid “Sun”. La registrazione risale al 2003, poco dopo la pubblicazione dell’album “Frank”. «Amo il Jack Daniel's. Lo adoro, è buonissimo. Bevo tutti i giorni, ma non sempre Jack Daniel's. Ma l’ho bevuto per qualcosa come otto anni. Succede quando sei giovane e vuoi essere un po’ più sbronzo di chiunque altro, e bevi whisky. Si sa come succede, quando sei una ragazzina». Nell'audio, Amy ammette anche di avere un debole per la vodka. La rivelazione arriva a una settimana dalle dichiarazioni del padre di Amy, Mitch, che aveva auspicato che la figlia fosse ricordata per i suoi successi, e per le iniziative benefiche organizzate in suo onore. La sua missione, aveva detto sempre al “Sun”, sarebbe stata di assicurarsi che la gente ricordasse sempre Amy «per il talento, la generosità e l’amore che aveva dimostrato a tutti noi, e non soltanto per i suoi problemi, le dipendenze». I genitori della cantante, Mitch e la madre Janis, hanno fondato anni fa la Amy Winehouse Foundation, che ha proprio l’obiettivo di combattere l’abuso di sostanze tra i giovani. Tra le iniziative messe in campo dalla fondazione, la Amy's Place, un rifugio in cui vengono ospitate sedici giovani donne alla volta, per aiutarle nel percorso di riabilitazione e reinserimento nella vita quotidiana. Le royalties dei diritti d’autore coprono in larga parte le necessità dei genitori e della loro iniziativa benefica, perché le canzoni di Amy Winehouse continuano ad essere molto apprezzate e ascoltate. Tuttavia, ha precisato Mitch, «darei indietro fino all’ultimo penny, pur di riavere indietro mia figlia». Amy Winehouse è cresciuta in una famiglia ebraica, Mitch era tassista e la madre Janis farmacista. La coppia divorziò quando la futura cantante aveva dieci anni, nel 1993. Amy diventò presto una ribelle, e si racconta che arrivò a forarsi il naso da sola per mettersi un piercing. Tra le iniziative per ricordare la cantante a dieci anni dalla morte, c’è anche un documentario che andrà in onda sul secondo canale della Bbc, “Reclaiming Amy”, in cui intervengono anche i genitori. Una stilista amica dell’artista ricorda: «Sentivi di dover prenderla con te e portarla al sicuro da qualche parte, ma sarebbe stato come afferrare un gatto selvatico: ti avrebbe graffiato via gli occhi». 

Niccolò Agliardi per “Il Messaggero” il 23 luglio 2021. Ricordare Amy per la sua voce magnetica. Ricordare Amy per i suoi eccessi. Ricordare Amy perché è entrata di diritto nel Club 27 (che, per chi non lo sapesse, è l'elenco funesto di star che se n'è andato prima del 28esimo compleanno). Lo abbiamo fatto per dieci anni, quelli della sua assenza e continueremo a farlo perché Amy Winehouse con due soli album, Frank e Back to Black, cinque Grammy e un'esistenza fulminea e disperata, è stata un talento esplosivo ed è ancora una delle voci più belle di sempre. Dopo dieci anni, però, possiamo permetterci di andare oltre la commemorazione e provare a fare un'ipotesi sul perché il suo cuore, come un torsolo, è stato buttato drammaticamente oltre l'ostacolo. Quando il clamore del successo, le sirene delle fama, l'inganno della notorietà sono sganciate dall'anima, dalla vita interiore di chi ne è vittima, l'unica cosa da fare è prepararsi all'ammaraggio. Rannicchiarsi su se stessi e stare a vedere se si sopravvive ammaccati o se si muore. Quel demone travestito da giullare, truccato da sciantosa, mistificato da gigolò, che per brevità chiamiamo successo, è tra gli assassini più infidi. Altera la realtà dei fatti, anche quella della sua stessa vocazione. Non significa nulla, infatti, provare a rimanere se stessi quando tutto quello che succede dentro e fuori di noi cambia. È questo che è accaduto a Amy: il mostro ha cambiato il paesaggio, e il paesaggio ha cambiato lei, fintanto che non è più riuscita a riconoscersi. La sua guardia del corpo, ha dichiarato, infatti, che Amy è morta guardando se stessa. Ha passato l'ultima notte della sua vita davanti al computer, ipnotizzata dai video musicali delle sue canzoni su YouTube, e bevendo vodka, ma così tanta che il suo giovane ed esile corpo, già martoriato dalla bulimia e dal vomito autoindotto, non è stato in grado di sopportare. Tentava di ritrovare segnali del sé che aveva perduto scrutando nel suo incommensurabile talento. La sua voce potentissima, unica al mondo, capace di raggiungere vette inesplorate e profondità abissali, era l'ultimo salvagente disponibile a cui aggrapparsi; ma non è bastato. Amy, forse troppo sola, forse troppo debole per duellare con la sua nuova realtà in grado di offrire tutto ciò che desidererebbe un'aspirante popstar ma che, probabilmente, nulla le ha dato di ciò che realmente voleva lei. Nella tragica profezia della sua morte, mirabilmente descritta nella sua canzone Back to black si nasconde un nemico strisciante e insospettabile. Probabilmente ha un nome: omissione. Quello che nessuno le ha detto e che Amy come molti altri nelle sue identiche condizioni ha imparato a proprie spese barattando la mesta informazione con la vita. Inciampare tra le gambe di una pletora di paparazzi, non poter andare a comprare un reggiseno senza essere inseguita, non poter abbracciare il proprio ragazzo per le strade di Camden Town senza essere giudicata, invidiata, osservata e derisa non ha nulla a che fare con il reale. Questa e molte altre cose le sono state nascoste e silenziate. A lei e a tutti gli impreparati al successo. Che sono tanti, sparsi nel mondo. Costellazioni di gente di talento e di improvvisati. Di illusi e di appassionati di innamorati dell'arte o di se stessi. Tutti privi o privati della consapevolezza che la fama o la governi tu o ti ammazza lei. L'improvvisa mancanza di privacy non può che portare all'isolamento e alla solitudine. Il saccheggio della propria identità a tutela del denaro (spesso quello degli altri) e della celebrità, non ha niente di naturale. Tutt' al più rende naturale il reperire modi veloci per sopravvivere allo tsunami. Eccole lì, allora, stese sul velluto rosso, seducenti e ammalianti la coca, l'eroina, la vodka e le metanfetamine. Che non fanno altro che aumentare l'insoddisfazione prima, la disperazione poi. L'amore che manca all'inizio, non arriva con l'approvazione degli estranei. Non passa né attraverso un applauso e nemmeno alzando i decibel di un impianto gigante davanti a 50 mila persone tutte le sere. Non arriva dallo streaming, dalle vendite dei dischi (anche perché non se ne vendono più), dai premi prestigiosi nel mondo, dalle interviste in tv e sui giornali o dalle foto con la gente. L'amore che manca all'inizio, arriva, semmai, dall'amore. Quello che Amy non ha fatto a tempo a conoscere. Non l'ha trovato nel matrimonio tossico con Blake Fielder Civil, non l'ha trovato nei suoi genitori - che hanno pensato prima a divorziare e poi ad attingere dal suo patrimonio - non l'ha trovato nei suoi discografici che hanno spremuto il frutto finché anche i semi sono schizzati fuori. Lasciando solo un torsolo da buttare. L'ambizione, efficace propulsore per la nostra vita, perché abbia effetti benefici deve permettere all'amore e agli aspetti creativi dell'anima di esprimersi, non ai bisogni compensatori di personalità insicure, e già compromesse, di imporsi.

·        9 anni dalla morte di Marie Colvin.

Marco Giusti per Dagospia il 21 novembre 2018. Svegliate le nostre corrispondenti di guerra. Perché questa eroica, appassionata, vanitosissima Marie Colvin presentata da Rosamun Pike in A Private War, opera prima del documentarista Matthew Heineman, sceneggiata da da Arash Amel, è qualcosa che tutti i giornalisti dovrebbero vedere. Certo, un po’ di melassa e di retorica c’è, un po’ di birignao alla Virginia Raffaele c’è, ma non era facile trattare un personaggio così complesso come Marie Colvin, figura leggendaria del “Sunday Times”, coraggiosa ma vanitosissima, anche nelle missioni più pericolose indossa il suo reggipetto La Perla (“così se muio mi riconoscono…”), e anche se il film non è un capolavoro, ma non è affatto male, l’interpretazione di Rosamund Pike è supersnob, ma piena di vita e di gran classe. Il film è in pratica una documentatissima cronaca delle quattro missioni più importanti della Calvin, quando perde un occhio in Sri Lanka in mezzo alle tigri Tamil, e lo rimpiazza con una benda alla John Ford, quando si ritrova in mezzo alla primavera araba in Libia, e intervista il colonnello Gheddafi a pochi giorni dalla sua morte, in Iraq, a Falluja, e a Homs, in Siria, dove troverà la morte per essersi spinta davvero troppo oltre nel suo voler documentare fino all’impossibile la tragica sorta di ventottomila civili bombardata da Assad. Esattamente nello stile della Colvin il film non vuole farci della morale o spiegarci chi sono i buoni e chi sono i cattivi, stiamo comunque dalla parte delle persone, dei civili che soffrono durante le guerre e compito di chi scrive e di chi documenta è informare il pubblico, comodamente seduto in poltrona, di quel che sta realmente accadendo. In mezzo a queste quattro missioni, che la Colvin vive col suo fotografo freelance Paul Conroy, interpretato da Jamie Dornan, ci sono i rapporti col suo direttore Sean Ryan, interpretato da Tom Hollander, e i suoi amori a Londra, soprattutto col ricco Tony, interpretato con grande stile da Stanley Tucci. Rosamund Pike si getta sul personaggio non facendone assolutamente un santino, beve, scopa, impazzisce, mette lo scoop sopra a tutto, ma ci regala un ritratto complesso di una giornalista d’assalto che non perde mai la sua femminilità. Matthew Heineman adatta il suo stile documentaristico al racconto riuscendo a darci dei set di guerra un’immagine il più possibile realistica e cogliendo il lato ossessivo e narcisistico della reporter d’assalto. In sala dal 22 novembre.

Quando la giornalista perse un occhio e poi venne uccisa. Erika Pomella il 3 Giugno 2021 su Il Giornale. A private war è un film che racconta la vera storia di Marie Colvin, giornalista di un quotidiano britannico, che diede la vita per portare a termine il suo reportage in Siria. A private war è il film che andrà in onda questa sera alle 21.10 su Rai 3, presentato alla festa del Cinema di Roma e che racconta la storia vera della reporter di guerra Marie Colvin, portata sul grande schermo dall'attrice Rosamund Pike.

A private war, la trama. Uscito al cinema nel 2018, A private war racconta la storia della giornalista del The Sunday Times che, con coraggio e tenacia, riuscì a raccontare zone di guerra come l'Iraq, l'Afghanistan e la Libia. Una determinazione professionale che porterà Marie Colvin a mettere a repentaglio la sua stessa incolumità: perse un occhio durante un reportage in Sri Lanka e, a dispetto di tutto, continuò sempre a portare avanti il suo lavoro e il suo bisogno di testimoniare gli orrori perpetrati in zona di guerra, fino al terribile assedio di Homs, in Siria.

La vera storia di Marie Colvin. Come viene fatto notare da Coming Soon, A private war di Matthew Heineman è un film che prende spunto dall'articolo Marie Colvin's Private War, pubblicato su Vanity Fair nel 2012. Un articolo che racconta l'ultimo reportage a cui la giornalista stava lavorando, prima della sua tragica fine in Siria. Veterana del giornalismo di guerra e vera e propria leggenda negli affari esteri, Marie Colvin aveva iniziato a lavorare al Sunday Times di Londra nel 1986, specializzandosi sempre di più nel descrivere zone di guerra, dove i conflitti erano davvero violenti e, soprattutto, pericolosi. Ad esempio, come ricorda il Times, Marie Colvin volò in una regione dello Sri Lanka per intervistare il leader delle cosiddette Tigri Tamil, un gruppo militante ribelle che aveva dato il via a una guerra civile con il governo. Marie Colvin partì insieme alla sua scorta nel cuore della notte, ma finì col trovarsi sotto il fuoco delle truppe dello Sri Lanka. "Sono rimasta illesa finché non ho gridato che ero una giornalista", spiegò la stessa Colvin. "Poi hanno fatto esplodere la granata". A seguito dell'esplosione, Marie Colvin venne portata a New York per essere sottoposta a un intervento chirurgico che la portò a perdere l'occhio sinistro. Ma nonostante questo, mentre era ancora degente in ospedale, riuscì a scrivere un articolo di più di tremila parole sulla guerra e la crisi umanitaria nello Sri Lanka. Nel corso della sua carriera Marie Colvin incontrò e intervistò molti capi di Stato e leader militari come Mu'ammar Gheddafi, ma la sua "passione" era soprattutto quella di raccontare l'impatto che la guerra aveva nella vita delle popolazioni. Come viene raccontato sul sito della Marie Colvin Memorial Foundation, la giornalista disse: "Queste sono persone che non hanno voce. Sento di avere una responsabilità morale nei loro confronti, che sarebbe da codardi ignorare. Se i giornalisti hanno la possibilità di salvare la loro vita, dovrebbero farlo." Possibilità che la giornalista ebbe nel 1999 a Timor Est, il paese del sud-est asiatico, quando alla Colvin venne riconosciuto il merito di aver salvato la vita a 1500 donne e bambini che erano intrappolati dalle forze militari indonesiane in un complesso delle Nazioni Unite. Quando il personale ONU e gli altri giornalisti sono stati evacuati, Marie Colvin si è rifiutata di partire e di abbandonare gli abitanti del posto. Continuò invece a scrivere dall'interno, raccontando la difficile situazione che vivevano questi rifugiati. Imbarazzate dal reportage della Colvin, le Nazioni Unite decisero di tornare sui propri passi evacuando tutti i rifugiati e salvando la loro vita. Una vita dedicata ai più deboli e a coloro che non avevano armi per difendersi: questa è stata la carriera di Marie Colvin fino al 2012, quando decise di voler raccontare la guerra in Siria. Nonostante il governo siriano avesse fatto dei tentativi per impedire che giornalisti stranieri raccontassero il conflitto, Marie Colvin riuscì a raggiungere la città di Homs, che aveva già subito dei bombardamenti. Riguardo il conflitto scrisse: "È una menzogna il fatto che stiano inseguendo dei terroristi. L'esercito siriano sta semplicemente bombardando una città abitata da civili che sono infreddoliti e affamati." Il giorno dopo questa testimonianza, il 22 febbraio 2012, Marie è stata uccisa nel centro per le comunicazioni improvvisato a Homs in cui si trovavano lei e molti altri giornalisti. Il luogo è stato bombardato da un missile siriano che ha ucciso anche l'acclamato fotografo francese, Rémi Ochlik, il fotografo britannico Paul Conroy, il traduttore siriano Wael al-Omar e la giornalista francese Edith Bouvier.

Erika Pomella. Nata a Roma, mi sono laureata in Saperi e Tecniche dello Spettacolo Cinematografico a La Sapienza. Dopo la laurea ho seguito un corso di specializzazione di montaggio e da allora scrivo di Cinema e Spettacolo per numerose testate. Ho collaborato con l’Ambasciata Francese in Italia per...

Marina Valensise per “il Messaggero” il 14 febbraio 2021. Marie Colvin è una leggenda. Ma per capire cosa abbia spinto la figlia di un ex marine, nata a Long Island nel 1956, cresciuta in barca a vela e laureata a Yale in antropologia, a diventare una delle più temerarie corrispondenti di guerra non bastano i documentari come Under the Wire, e nemmeno il film, A Private War, realizzato sei anni dopo anni dopo la sua morte avvenuta nel 2012 per mano delle forze militari siriane, durante l'assedio di Homs.

LE TAPPE. Bisogna leggere questa poderosa antologia che racchiude tutte le tappe d' una vita spericolata trascorsa sui grandi teatri di guerra (da Tripoli a Bassora, da Baghdad al Kosovo, dalla Cecenia a Timor Est, in Etiopia fra le vittime della carestia, in Zimbabwe fra le vittime degli stupri dei miliziani di Mugabe, in Sierra Leone fra i guerriglieri drogati nel deserto, e in Sri Lanka fra gli indipendentisti Tamil, e poi in Iraq per la morte Saddam, e da lì a Gaza, a Beirut, in Afghanistan fra i talebani, in Egitto e in Libia per la primavera araba e la fine di Gheddafi, e quindi in Siria martoriata dalle bombe) e ne rivela le pulsioni più profonde. E cioè la passione per la verità, l'ansia di raccontare l' orrore della guerra nei suoi risvolti più banali, e soprattutto l' adrenalina che nasce dalla voglia di mettersi in gioco e sfidare se stessa con prove ardimentose e forti emozioni, sino a testare ogni giorno il nucleo inscalfibile della forza d' animo e testimoniare l' infinita sorgente che morte distruzione e sofferenza rappresentano per la compassione umana.

ASTUZIE. Marie Colvin era una donna che aborriva le astuzie femminili. Quando vinse il Women' s Media Foundation Award, lei stessa lo spiegò, citando la mitica Martha Gellhonrn («Non le posso reggere, le femministe») in un'intervista che le nostre grandi firme in pashmina dovrebbero imparare a memoria. Pur consapevole del fattore D, voleva essere un reporter di guerra e basta, senza concessione di genere, e ora sappiamo come riuscì nell' impresa. A trent' anni, quando guardava il mondo dai suoi due occhi azzurri, sottili come quelli di una lucertola (dopo aver perso il sinistro in Sri Lanka nel 2001 durante un servizio fra le tigri Tamil, se lo coprì con una benda nera), finisce a Bassora per la guerra Iran-Iraq. Due anni dopo racconta la violenza criminale alla corte di Saddam attraverso il sosia del secondogenito del dittatore, figlio di un ricco mercante curdo minato dalla distruzione d' identità e gravi turbe psichiche.

ORRORI. Nel marzo 1998, entra clandestinamente in Kosovo con un' unità dell' Esercito di liberazione, e ricostruisce gli orrori dell' artiglieria serba attraverso il racconto di un' undicenne albanese, unica sopravvissuta all' eccidio della sua famiglia a Prekaz. L' anno dopo, sempre clandestinamente, entra in Cecenia dalla Georgia con un fuoristrada presto crivellato dai russi. Trova riparo in un campo vicino a Grozny, dove intercetta una coppia di ceceni che dopo aver tentato tre volte la fuga attraverso il corridoio aperto dai russi verso l' Inguscezia, s' è rintanata in una minuscola grotta, con un letto posato sulla ghiaia, una stufa a legno e un sacco di cipolle e un po' di farina. Quando i bombardamenti riprendono, capisce che l' unico modo per sfuggire ai caccia russi è inerpicarsi a sulle montagne del Caucaso.

LA FUGA. Inizia così per lei, per il fotografo russo che lavora per il Sunday Times, e gli sherpa ceceni che si alternano nei traffici clandestini, una marcia di otto giorni, a 3800 mt di quota, segnati dal gelo, dalla fame, dalla fatica, lungo sentieri sospesi sull' abisso fra gole imbiancate, torrenti ghiacciati, valichi introvabili, nell' incubo del satellitare con la batteria allo stremo, finché il giornale di Londra non riesce a mandare da Tbilisi un elicottero dell' ambasciata Usa per trarre in salvo la sua corrispondente, concittadina americana.

La corrispondente e inviata americana morte nella guerra civile in Siria. Chi era Marie Colvin, la giornalista di guerra protagonista del film “A private war”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 3 Giugno 2021. Marie Colvin era diventata celebre anche per quella sua benda nera sull’occhio sinistro. È stata una delle reporter di guerra più famose degli ultimi decenni. Aveva operato in diversi scenari di crisi in tutti i continenti. È morta nel febbraio del 2012 nella guerra civile in Siria. Aveva 44 anni. Alla sua storia è stato dedicato il film A private war del 2018, diretto da Matthew Heineman e interpretato da Rosamund Pike. Colvin era stata corrispondente dal Medio Oriente per il Sunday Times per il quale lavorava dal 1985. Era nata negli Stati uniti il 12 gennaio 1956, a Oyter Bay, ma da anni viveva a Londra. Aveva cominciato a new York con lo United Press International dopo essersi laureata a Yale. Era quindi diventata capo del bureau du Parigi dell’UPI. È stata la prima giornalista a intervistare Muammar Gheddafi, nel 1986, dopo l’inizio dei bombardamenti degli USA in Libia. È diventata una dei reporter di guerra più noti in tutto il mondo. Ha lavorato nell’ex Jugoslavia, in Cecenia, Kosovo, Sierra Leone, Zimbabwe, Timor Est e nello Sri Lanka. Proprio durante un attacco delle forze governative in Sri Lanka, era il 2001, ha perso un occhio. Dopo l’incidente ha sempre portato una benda nera sull’occhio. Da quel momento ha cominciò a soffrire di disordine da stress post-traumatico. A Timor Est le fu attribuito il merito di aver salvato la vita di 1500 donne e bambini da una zona presidiata da forze armate sostenute dall’Indonesia. Ha seguito le Primavere Arabe tra Tunisia, Egitto e Libia. “Il mio lavoro è testimoniare. Non sono mai stata interessata a sapere quali modelli di aerei avessero appena bombardato un villaggio o se l’artiglieria che aprì il fuoco su di esso fu 120mm o 155mm”, ha detto. Colvin è morta con il fotografo francese Remi Ochlik, classe 1983, fondatore dell’agenzia IP3 PRESS. Si trovavano in un ufficio stampa dell’opposizione siriana nel quartiere sunnita di Baba Amr, uno dei più colpiti dalle forze lealiste, a Homs. L’autopsia ha stabilito che l’ordigno che l’ha uccisa era pieno di chiodi. Per il governo era stato piazzato da “terroristi”, una versione smentita da alcuni colleghi sopravvissuti all’esplosione. Per questi l’edificio era stato preso di mira dall’esercito siriano. Poco prima di morire Colvin aveva documentato per Channel 4 la situazione drammatica ad Homs: la città all’epoca era la roccaforte dei ribelli, ostili al Presidente Bashar Al Assad. La giornalista aveva descritto quel conflitto come il peggiore da lei vissuto e raccontato. La guerra in Siria è esplosa sulla scia delle Primavere Arabe, nel 2010. È diventata una guerra per procura. Sul suo territorio si sono fronteggiati lealisti, russi, forze paramilitari iraniane, fondamentalisti islamici, curdi, forze occidentali prevalentemente con bombardamenti. Il caos e il vuoto di potere hanno permesso allo Stato Islamico di guadagnare un’ampia fetta di territorio, di stabilire la sua capitale ad Assad. Il sedicente Stato Islamico oggi risulta di molto ridimensionato. Colvin ha vinto numerosi premi durante la sua carriera, tra cui l’Anna Politkovsakya Award. Aveva sposato due volte il giornalista Patrick Bishop e il giornalista Juan Carlo Gumucio. Il film ispirato alla sua vita – tratto soprattutto dall’articolo Marie Colvin’s Private Wat, uscito nel 2012 su Vanity Fair, e scritto da Marie Brenner – ha ricevuto due candidature ai Golden Globe per l’interpretazione di Pilke e per la migliore canzone originale.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

·        9 anni dalla morte di Lucio Dalla.

Antonio Gnoli per Robinson – la Repubblica - ESTRATTO il 19 luglio 2021. Nel repertorio parolistico di Paola Pallottino ci sono almeno tre brani straconosciuti. Li cito così in ordine sparso: Occhi di ragazza, 4 marzo 1943 (altrimenti noto come Gesù bambino) e Il gigante e la bambina. È buffo, ma l'autrice di quei versi non si definirebbe mai paroliera. Scrittrice, affabulatrice, illustratrice sì. Ma per lei le canzoni sono state un di più, una specie di "resto" che la vita le ha messo a disposizione e che lei ha tradotto con intelligenza e sensibilità ritmica. A 82 anni questa piccola musa di Lucio Dalla e di altri cantanti non si impanca in discussioni inutilmente pompose. Come la rosa è una rosa così Paola è tale nella sua naturalezza, che a me appare per le storie che mi racconta. 

Lei nel 1970 scrive una canzone considerata uno dei capolavori di Lucio Dalla, "4 marzo 1943" o "Gesù bambino". Come nacque il rapporto con Dalla?

«Ero appena tornata dalla Tunisia, dove trascorsi due anni con mio marito Stefano, chiamato a ideare piani regolatori. E ci stabilimmo a Bologna. Scribacchiavo le solite poesiole, spacciate per canzoni. Erano testi nati dal mio innamoramento per Brel, Brassens, Moustaki e il primo De André. Alcuni amici mi indirizzarono a Dalla per sottoporgli quei componimenti. La cosa buffa fu la naturalezza con cui Lucio mi ricevette la prima volta». 

Buffa in che senso? 

«Aprì la porta di casa in perizoma. Forse pensava che era la maniera più semplice per farmi fuggire. Lo conoscevo solo di nome. E mi sembrò del tutto naturale, visto che era estate, che girasse seminudo mostrando tutto il suo pelame».  

Una scena raccapricciante.

«Perché? Lui è stato un unicum non solo nella canzone ma anche nella vita, voglio dire nel comportamento. E comunque era a suo modo un genio e a uno così si permettono cose fuori dalla norma». 

A rimetterlo nella norma c'era una madre un po' invadente e protettrice, c'era l'ansia per un successo che stentava ad arrivare. C'era la stravaganza un po' naif nel vestire. La profonda fede cattolica e l'omosessualità. Come si mescolava tutto questo? 

«Con straordinaria naturalezza. In Lucio non c'era niente che stridesse o che potessi considerare fastidioso. Sapeva essere accogliente».  

Come accolse il testo di "Gesù bambino"? 

«Lui sostiene che era alle Tremiti e che una volta letto il testo cominciò a cantarlo alla maniera di un cantastorie. E gli piacque al punto di commuoversi. La verità è che ci vedemmo a Bologna nell'autunno del 1970 e leggemmo insieme il testo. Cosa che avevamo già fatto in passato. E non è vero, come qualcuno ha insinuato, che io glielo avessi spedito per posta».  

Ma perché Dalla avrebbe dovuto fornire una versione diversa?

 «Adorava raccontare bugie, reinterpretare i fatti alla sua maniera e sapeva essere convincente!».  

Si è detto anche che il testo della canzone lei lo abbia cucito sulla vita di Dalla. 

«Falso, anche questo. Scrivendolo mi ispirai a Lo straniero di Moustaki e certo non volevo raccontare la vita di Lucio, che oltretutto non conoscevo».  

Perché da "Gesù Bambino" la canzone divenne "4 marzo 1943", che è poi la data di nascita di Dalla? 

«Il motivo fu prescelto da una giuria speciale per partecipare a Sanremo. La Rai, allora diretta da Ettore Bernabei, stabilì che non ci dovessero essere riferimenti religiosi, a cominciare dal titolo. Quanto al testo, venne cambiato».

Nonostante la censura, la canzone fu accolta bene. 

«Arrivò terza, io vinsi un premio speciale che mi fu assegnato da una giuria presieduta da Mario Soldati, e Lucio andò incontro a un successo clamoroso». Anche la canzone successiva, che lei scrisse, "Il gigante e la bambina", fu osteggiata dalla censura. «Il gigante e la bambina era un dopo Sanremo cucito addosso a Dalla». Però in quel testo certe immagini potevano incoraggiare la critica più retriva. «Lei mi attribuisce intenzioni che non ho mai lontanamente avuto».  

Beh, c'era un fatto di cronaca, un bruto che rapisce una bambina. 

«Che ho cercato di trasformare in una favola. Volevo che chi ascoltava la canzone si concentrasse sul giudizio della gente, sulle paure, e le chiacchiere che si scatenano dopo un fatto violento. In quella canzone non c'è nessun stupro, come qualcuno ha interpretato. E suggerirei di leggere l'originale e non la versione adattata a Rosalino».

Rosalino sarebbe diventato Ron. Perché Dalla cedette a lui la canzone, cioè di fatto a un esordiente. Lei come reagì? 

«Fui travolta dalla rabbia. Non sono mai entrata nelle sue scelte musicali. Ma con quella decisione Lucio, a cui il testo era piaciuto tantissimo, favorì il suo "cocco" che non aveva né l'età né tantomeno la visione del mondo per affrontare una canzone che richiedeva una sensibilità e un'esperienza ben diverse».  

Fu rottura? 

«Totale. Si ricompose anni dopo quando mi telefonò per dirmi che la sera prima aveva cantato la versione originale di Gesù Bambino».  

Nonostante altre canzoni il vostro rapporto professionale si esaurì. Perché?

«Onestamente non lo so e non ne abbiamo mai parlato. Credo che negli anni in cui non ci siamo sentiti Lucio avesse trovato una sponda felice in Roberto Roversi e, d'altro canto, io avevo tutti i miei impegni con l'università». 

Però ha continuato a scrivere per altri artisti, come Branduardi.

«Ho scritto solo occasionalmente, non considerando quella del paroliere una professione. E poi per fare il paroliere devi avere un musicista e nessuno mi cercava seriamente».  

Nella storia della canzone italiana lei è una curiosa presenza, come si collocherebbe?

«Direi da outsider».  

Il prossimo anno è il decennale della morte di Dalla. Avrebbe una canzone da dargli o qualcosa da dirgli? 

«I fantasmi non cantano, né scrivono musica. I fantasmi sono la nostra memoria che rivestiamo di quello che abbiamo vissuto. Per Lucio ho provato cose belle e intense. Glielo direi, ancora oggi. È troppo tardi, ma che importa. Ho beneficiato del suo talento e forse lui un po' del mio. Gli direi che mi manca e, accidenti, gli direi anche che per quella canzone Il gigante e la bambina non doveva farmi lo scherzo di non cantarla».  

Ma poi l'ha cantata. 

«Sì, ma è stato come un dono girato prima ad altri. Ma gli direi anche che non importa più. In fondo è stato lui il dono più sorprendente per me e ancora lo conservo gelosamente nel cuore».

Marco Molendini per Dagospia il 16 aprile 2021. Lucio Dalla è nato due volte. La prima data è nota: 4/3/43. La seconda è 17/4/71, segna l'inizio della settimana in cui Lucio esordisce in testa alla hit parade e il giorno in cui rinasce con la canzone che si doveva chiamare Gesù bambino. Un mese e mezzo dopo Sanremo, dopo tante illusioni e porte sbattute in faccia, il successo gli spalanca la strada. Dalla diventa un altro, un talento che matura poco a poco fino a esplodere alla fine degli anni 70 e a realizzarsi pienamente negli anni 80, gli anni di canzoni pazzesche dettate dalla fantasia liberata, da un estro musicale, dal gusto, dalla prosa fertile, dalla voracità, dalla capacità di assorbire tutto. E per anni Lucio ha assorbito. Con il suo dono naturale, il suo sentirsi diverso in tanti modi. Era un tipo buffo, pieno di entusiasmi, cucinatore di balle senza misura, simpatico a volte ruvido. Mi piaceva Lucio. L'ho conosciuto per lavoro, frequentato per lavoro, so che a unirci, al di là degli interessi professionali, lui musicista io giornalista, c'era la bolognesità e c'era la passione comune per il jazz. Lucio l'ho visto per la prima volta proprio per il jazz. A uno di quei favolosi festival che organizzavano Alberto Alberti e Cicci Foresti, nella nostra città, festival pieni di grandi nomi, Charles Mingus, Dexter Gordon, Keith Jarrett, Cecil Taylor. Me lo ricordo benissimo, anche se non sapevo chi fosse. Ma era impossibile non notare fra le poltrone del teatro Comunale quel tipo strano, incolto, l'aria da barbone che se ne stava tutto solo e seguiva ogni concerto con vorace attenzione. Impossibile pensare che sarebbe diventato uno dei maggiori protagonisti della nostra musica e probabilmente il più originale. Eppure Dalla, a quel tempo, già ci provava a diventare Dalla. Aveva fatto canzoni che avevano avuto una qualche risonanza come Pafff.. bum e Quando ero soldato, dopo che Gino Paoli l'aveva spinto fuori dai Flippers e a cercare la carriera solitaria. Ma c'era ancora da pedalare,. E Lucio pedalava. Ha pedalato fino a quando non ha scritto quel pezzo dal sapore autobiografico, anche se il testo era di Paola Pallottino, e che ammiccava alla sua storia fin dalla copertina del 45 giri con una freccia che indicava la casa pugliese a Manfredonia dove passava le estati (Renzo Arbore ricorda di averlo conosciuto fin da allora perché Iole Melotti cuciva i vestiti di sua madre). Con Gesù bambino ribattezzata 4/3/43, Dalla torna a Sanremo dove finalmente non viene bocciato: al debutto del '64 al Cantagiro con Lei (non è per me), cover di una canzone di Bessie Smith, Careless Love, era stato preso a pomodorate, al Festival del '66 mandato via subito, mentre a quello del '67 era diventato trasparente perché Bisogna saper perdere divenne un successo dei Rokes. Nel '71 riesce ad arrivare terzo (quell'anno vinse Il cuore è uno zingaro cantata da Nada e Nicola Di Bari, davanti a Che sarà dei Ricchi e poveri, terzo Dalla, davanti a Celentano e Modugno). E' la svolta. E dire che quella canzone aveva contravvenuto a una delle regole sacre del regolamento sanremese, l'essere inedita. Perché Dalla già l'aveva cantata in pubblico qualche tempo prima, come testimonia un cd pubblicato anni fa da un'etichetta indipendente e che propone quel pezzo registrato dal vivo in un locale bolognese prima del Festivalone. Ma chissenefrega. E' un capolavoro. Proprio a Sanremo ho rivisto Lucio l''ultima volta, pochi giorni prima che se ne andasse, a 69 anni da compiere. La notizia arrivò di mattina: «L'ultimo scherzo di Lucio: l'addio silenzioso e improvviso, in punta di piedi per uno come lui che in punta di piedi non c'è mai stato» ho scritto sul Messaggero. Lo ricordo con un aristocratico bastoncino da passeggio che lo faceva assomigliare un po' a Charlot, a cui si appoggiava per i postumi di una caduta e che abbandonava solo per salire su un podio di perspex da cui dirigeva l'orchestra e sottolineava con rari gorgheggi Nanì, la canzone del suo ultimo protegè Pierdavide Carone. E ricordo le nottate nel dopo festival privato al bar dell'Hotel Londra a chiacchierare e tirare tardi con l'aria sorridente, mestamente soddisfatta (non era il solito Lucio inarrestabile), anche di quel suo nuovo ruolo, seminascosto. Tanto a giorni sarebbe poi di nuovo ripartito per un giro di concerti europei, il viaggio che lo ha portato anche a Montreux, per la sua ultima tappa. Se ne è andato così, di mattina lasciando il corredo prezioso dei suoi pezzi, capaci di essere sofisticati, cantautorali, essenziali, dotati di una scaltrezza veloce, decisamente popolari. A volte ultrapopolari come Attenti al lupo e come la stessa Caruso, la più conosciuta, canzoni ritratto del magistrale talento di un singolare personaggio, in magico equilibrio fra l'essere geniale e l'essere sbruffone.

·        9 anni dalla morte di Donna Summer.

Mattia Marzi per “Il Messaggero” il 26 dicembre 2021. Per interpretarla ci sarebbe stata la fila. Le sue eredi si sarebbero date battaglia per provare ad aggiudicarsi il ruolo principale. D'altronde non sono poche le popstar di nuova o nuovissima generazione che devono gran parte del loro successo a Donna Summer: da Rihanna e SZA a Doja Cat e Ariana Grande. Reginette indiscusse di classifiche (e di provocazioni). Ma accanto alla statura della vera regina, anche una come Beyoncè avrebbe corso il rischio di sembrare piccolissima. E così, alla fine, piuttosto che realizzare l'ennesimo biopic con attori ce ne sono fin troppi in giro, ormai: nei prossimi mesi arriveranno nelle sale e sulle piattaforme quelli sulla vita di Elvis, Madonna, Whitney Houston, tra gli altri i produttori e i familiari della indimenticata cantante statunitense hanno preferito puntare su un documentario più canonico. Quello che racconterà la parabola umana e artistica di LaDonna Adrian Gaines, questo il vero nome di Donna Summer, uscirà nel 2022. Giusto in tempo per le celebrazioni legate al decimo anniversario della scomparsa della cantante: aveva solamente 63 anni quando nel 2012 si arrese dopo una lunga battaglia contro un cancro ai polmoni. Polygram Entertainment, il braccio cinematografico e televisivo di Universal Music Group, che come rivelato da Deadline, sito sempre attendibilissimo per tutto quello che succede a Hollywood sta lavorando al progetto, ha messo al servizio della storia della Queen of Disco una squadra di fuoriclasse. Il documentario, che non ha ancora un titolo, sarà diretto dal 59enne regista afroamericano Roger Ross Williams, vincitore di un Oscar nel 2010 con il cortometraggio Music by Prudcence, sulla cantante dello Zimbabwe Prudence Mabhena, la cui storia soffre di artogriposi, una patologia che comporta una limitazione del movimento degli arti commosse il pubblico internazionale. La storia di Donna Summer, partita da bimba prodigio che la domenica incantava con la sua voce i fedeli durante le funzioni in chiesa e diventata negli Anni '70, complice l'incontro con il geniale Giorgio Moroder, sensualissima popstar da milioni di copie vendute con hit come Love to Love You Baby (gli orgasmi, 22 in tutto, emessi dalla cantante nel brano diedero scandalo), I Feel Love, Hot Stuff e Bad Girls, Ross Williams dice di conoscerla bene: «Da adolescente fui folgorato dalla musica di Donna Summer. Aveva una voce che parlava alla mia anima, sulla pista da ballo. Poter raccontare la sua storia da una prospettiva molto personale e farlo con l'aiuto di sua figlia Brooklyn è un sogno che diventa realtà». Accanto a lui ha infatti voluto esserci a tutti i costi la figlia di Donna Summer, Brooklyn Sudano, 40 anni: «Era importante per me parlare non solo dell'eredità artistica di mia madre, ma anche della sua vita. Volevo sottolineare la complessità del suo talento, che va oltre la disco music», ha detto. Tra i produttori ci sono Julie Goldman, Carolyn Hepburn e Christopher Clements, nominati agli Oscar e agli Emmy Awards, già al lavoro sull'acclamato The Velvet Underground. In questi dieci anni trascorsi dalla sua prematura morte, Donna Summer che continuò a fare musica finché ebbe le forze: il suo ultimo album, Crayons, uscì nel 2008, quattro anni prima della scomparsa non è stata mai dimenticata. Beyoncè l'ha omaggiata più volte dal vivo cantando Naughy Girl, la canzone che nel 2003 realizzò per il suo album d'esordio da solista Dangerously in Love riprendendo proprio il motivetto iniziale di Love to Love You Baby. Giornalisti e appassionati le hanno dedicato decine di autobiografie non autorizzate. Tra il 2017 e il 2018 un musical sulla sua vita, realizzato con il permesso del marito Bruce Sudano, co-autore di molte delle sue hit, fu portato in scena a San Diego e a Broadway. Eppure nessuno finora aveva mai pensato di realizzare un film sulla sua vita. Quello voluto da Polygram Enterainment che negli ultimi mesi ha lavorato anche a una serie su Frank Sinatra, appena acquistata da Netflix, che la distribuirà, e sta lavorando a un biopic sui Kiss e a uno su Ozzy Osbourne e sua moglie Sharon conterrà parecchio materiale inedito, tirato fuori dagli archivi per l'occasione. Immagini, video e canzoni che daranno ai fan l'opportunità di rivedere ancora una volta la regina sul trono. 

·        8 anni dalla morte di Little Tony.

Little Tony, le drammatiche accuse della figlia Cristiana: "Solo io so quanto ho sofferto, chi era davvero mio padre". Libero Quotidiano il 24 giugno 2021. La figlia di Little Tony si toglie qualche sassolino dalla scarpa. Memore dei concerti del cantante, Cristiana Ciacci racconta che "quando ero piccola, in casa non c’era quella atmosfera rassicurante. Io sola so quanto ho sofferto". Cristiana imputa a padre e madre la colpa di non essere "mai stati un granché come genitori". Al centro del loro pensiero il tenersi testa: "Mia madre era una donna affascinante e libera - confessa in una lunga intervista al settimanale Oggi -. Come figlia l’ho anche detestata, ma era un inno all’indipendenza in una società più maschilista di quella di oggi. Era gelida e bollente al tempo stesso. Se mio padre la tradiva, lei lo ripagava scomparendo per una settimana con qualche amico speciale". Quello però che più ha fatto soffrire la donna è stata l'assenza di entrambi: lui impegnato nelle tournée, lei da hostess nei suoi viaggi internazionali. Visto il complicato rapporto con la madre, Cristiana ha tentato di vivere con il padre. Ma l'esito non è stato dei migliori: "Tornava dai tour con un sacco di regali, era felice di rivedermi. Mi abbracciava, era pieno di entusiasmo, ma dopo dieci minuti non sapeva più cosa fare di me e così andava in camera sua e io restavo con la governante. Anche quando stavamo insieme per qualche giorno non cambiava nulla. Alle ore dei pasti faceva preparare un buffet. Ognuno si riempiva il piatto e mangiavamo separati. Spesso portava a casa qualche ragazza. Nessuna diva: erano tutte poco impegnative e molto più giovani". Cristiana ammette che tutte quelle donne "le odiavo: stavano lì solo per avere soldi e regali". Poi il tempo è passato anche per lei che è diventata mamma e con la bella notizia è arrivato qualcosa che mai - a suo dire - potrà dimenticare: "Quando ho annunciato a mio padre che aspettavo il primo figlio mi ha detto 'Che tragedia'. Diciamo che, tra tutti e due, per la mia autostima non hanno fatto molto". E infatti il libro da lei appena scritto dal titolo Mio padre Little Tony è stata una terapia: "Ora chiudo il cerchio. Mio padre era un uomo generoso e buono. Mia madre una donna intelligente e forte. Nessuno dei due era adatto a fare il genitore. Non è colpa loro se ho sofferto. Non è colpa mia se non mi sono sentita amata". 

·        8 anni dalla morte di Ottavio Missoni.

Daniela Fedi per "il Giornale" il 14 febbraio 2021. Alla domanda «chi è il creatore tra lei e sua moglie?» Ottavio Missoni detto Tai rispondeva «io sono il creatore, ma Rosita ha creato me». Nato a Ragusa l' 11 febbraio 1921, quest' uomo diretto e simpatico, bello come il sole e creativo come pochi, compirebbe 100 anni domani se il suo cuore non si fosse fermato nel maggio del 2013, quattro mesi dopo la tragica scomparsa del figlio Vittorio nelle acque di Los Roques. La famiglia ha deciso di festeggiare il centenario del capostipite per tutto il 2021, anno in cui anche Rosita compirà 90 anni. I due si sono conosciuti nel 1948 a Londra dove lei, appena sedicenne, stava seguendo un corso d' inglese, mentre lui partecipava alle Olimpiadi con la squadra di atletica leggera. Lucidissima, e giustamente fiera di quanto ha costruito con il marito e i tre figli, la signora ci racconta una storia che in un certo senso coincide con quella del nostro Paese che vince anche quando perde perché tutto si basa sull' individuo e sulla capacità di essere singoli in un plurale molto speciale.

È vero che ha visto sfilare suo marito come portabandiera dell' Italia e ha deciso di sposarlo?

«Non proprio. Prima mi ha colpito perché era italiano e aveva la maglia 331. La somma fa 7 che era il numero fortunato dei miei nonni materni nati entrambi nel 1877. Poi Tai era anche alto, bello ed elegantissimo: aveva un portamento straordinario. Comunque sia il vero incontro avvenne il giorno dopo sotto la statua di Cupido in Piccadilly Circus dove ci si doveva trovare per poi andare in treno a Brighton. Mi aveva invitata a questa gita Ivana Testa un' amica il cui padre era Presidente della Società Ginnastica Gallaratese. Durante il viaggio la mamma della mia amica mi sussurra in un orecchio: Hai visto Rosita che bel giovanotto? Io alzo gli occhi e in quel momento li alza anche Tai: credo di esser diventata di tutti i colori».

Quando vi siete innamorati?

«Io credo subito, lui non me l' ha mai detto ma è stato tenace nel farmi la corte. Quando è mancata mia madre tra le sue cose ho trovato una cartolina di Tai che diceva: È la terza volta che ti vengo a trovare e non ti trovo, sei sempre a sbrindolo. Credo che la mamma l' avesse intercettata e nascosta per calmare le acque».

Chi dei due ha parlato per primo di matrimonio?

«Veramente l' ha fatto mio suocero e lui deve avergli allungato un calcio sotto il tavolo».

Eppure sembravate proprio predestinati...

«Altrochè: io sono nata il 20 novembre, Sant' Ottavio. E lui per i miei 80 anni mi ha fatto uno dei suoi biglietti fantastici con la scritta: Auguri dal tuo sposo Sant' Ottavio. Io ho sempre detto: il Missoni mi è simpatico. E lui di questo era molto fiero».

Non era fiero anche delle sue avventure belliche?

«Più che altro era felice di aver portato a casa la pelle. Raccontava di aver partecipato alla battaglia di El Alamein dormendo. La cosa ci faceva molto ridere perché lui amava dormire e non si svegliava facilmente. Per cui è plausibile che quella notte di ottobre del 1941 si sia accucciato in una buca per proteggersi dalle bombe e abbia finito per dormire».

E al risveglio cosa ha fatto?

«Si è diretto verso dei soldati incolonnati che gli facevano cenno di avvicinarsi. Erano neozelandesi di stanza in Africa con le truppe di Sua Maestà che l' han tenuto prigioniero per quattro anni».

Lui aveva proprio scelto di essere italiano, vero?

«A scegliere alla fine della prima guerra mondiale fu mio suocero, lui non era ancora nato quando nel 1920 fu ratificato il trattato di Rapallo con cui Ragusa divenne Dubrovnik. La famiglia si trasferì a Zara per permettere a Tai e a suo fratello di fare le scuole italiane. Un loro zio scelse invece di essere jugoslavo e divenne giudice dell' ex Yugoslavia. A Dubrovink c' è stata un' intera generazione di giudici con il cognome Missoni. Uno, tra l' altro, è una specie di eroe contemporaneo perché durante le guerre d' indipendenza cominciate dopo la morte di Tito decise di rimanere in città sotto i bombardamenti dei serbi per mettere in salvo quel che restava della storia di Ragusa».

Quando comincia la sua carriera atletica?

«Prestissimo. Comincia dal nuoto e diventa subito campione di dorso. Però a Zara correvano tutti e lui con quelle gambe lunghe era perfetto. A soli 16 anni corre i 400 metri piani in 48,8 decimi entrando nel Guiness dei primati perché nessun atleta italiano di quell' età ha mai fatto un record del genere».

Ma è vero che ha anche posato per un fotoromanzo?

«Come no, s' intitolava Cuori nella tempesta. Lo fece per comprarsi un cappotto ma non so bene come mai alla fine ha comprato un ombrello».

E l' inizio con la moda?

«Ha iniziato lui facendo tute da ginnastica con un amico che era commissario tecnico della Nazionale. A Londra nel 48 ben tre squadre italiane indossano le loro tute: pallanuoto, basket e atletica».

Lei lo affianca subito nella produzione delle tute?

«Sì. Avevamo un piccolo laboratorio sotto la nostra prima casa a Gallarate. Un anno dopo il matrimonio nasce Vittorio, nel 56 arriva Luca e alla fine del '58 è la volta di Angela. Abbiamo sempre avuto casa e bottega insieme, è stata la nostra forza. Quando abbiamo costruito la casa e l' azienda a Sumirago ci dicevano tutti che eravamo matti: le aziende si fanno a Milano, in campagna si va per il weekend. Tai diceva che se proprio doveva lavorare lo faceva in campagna e nel weekend andava a Milano».

Ma come è stato il passaggio dalle tute alla moda?

«Io ho messo subito in produzione anche dei golfini da donna. Poi è arrivato tutto il resto. La prima sfilata è stata nel 1966 al Teatro Gerolamo. Siamo in passerella da 55 anni, un' enormità».

Si aspettava tutto questo?

«Francamente no, nel bene come nel male. Mio figlio Luca sta raccogliendo il materiale per una mostra che faremo a Venezia nell' ambito di Missoni 100, le manifestazioni del centenario.Sono contenta di ricordare tutto. E di chiedermi ancora cosa ci riserva il futuro».

·        6 anni dalla morte e 100 anni dalla nascita d Mario Cervi.

Mario Cervi, una vita per il giornalismo. Nato cento anni fa, fu una colonna del nostro quotidiano. Moderato, elegante, pungente. Luigi Mascheroni - Mer, 31/03/2021 - su Inside Over il 30 marzo 2021. Una volta, nelle redazioni dei giornali, potevano accadere fatti strani. Anche di incontrare grandi giornalisti. La prima volta che incontrai in redazione Mario Cervi, grande giornalista e persona adorabile, era proprio il giorno in cui si dimetteva da direttore del Giornale. Era il 25 marzo 2001: Cervi, che aveva retto il quotidiano nel vuoto di potere provocato dall'uscita di Vittorio Feltri, lasciava a Maurizio Belpietro i pieni poteri, riservandosi il ruolo di editorialista. Io, invece, al Giornale ero appena entrato, assunto da sole tre settimane. Cervi quel 25 marzo compiva 80 anni. Aveva salito, con coerenza e senza presunzione, tutti i gradini della professione: reporter, cronista, inviato, commentatore, direttore. Io ne avevo 30 ed ero fermo al primo gradino, più o meno dove sono oggi. Comunque, a proposito del giorno della staffetta Cervi-Belpietro. Forse è un caso, o forse la memoria selettiva con il tempo ha imparato a funzionare secondo la consuetudine giornalistica che sceglie non i ricordi più veri ma quelli più romanzeschi, sta di fatto che il mio personalissimo album fotografico della giornata ha archiviato l'immagine di un distinto signore avanti con gli anni, capelli d'argento e una montatura degli occhiali leggermente più pesante di quanto la moda è disposta a concedere, che con un velo di commozione negli occhi stringeva la mano, in un simbolico passaggio delle consegne, a un uomo molto più giovane, sebbene con i capelli già dello stesso colore. Fra i due giornalisti quello più soddisfatto, innegabilmente, era il secondo. Il secondo, Belpietro, mi assunse. Il primo, Cervi, sarebbe diventato il mio maestro. Semel abbas, semper abbas. Una volta direttore, lo resti tutta la vita. E per tutta la vita ho continuato io, e con me tutti i giovani del Giornale, quelli che hanno cominciato il mestiere sui computer e non sulle macchine per scrivere - a chiamare Mario Cervi «direttore». Che poi. Lo ammetteva lui stesso: quello di direttore - carica che pure ricoprì con coerenza rispetto alla linea editoriale, con fedeltà all'eredità montanelliana e con un'esemplare capacità di equilibrio - non era il suo ruolo. A Cervi, lo sa chi lo conosceva bene, interessava il mestiere: andare a vedere le cose, scrivere, raccontare. Non la cucina e le grane operative, ma portare a casa il pezzo. Dava la caccia alle notizie, meno ai posti di potere. Anche se quando serviva sapeva, eccome, comandare. Del resto fu ufficiale durante la Seconda guerra mondiale, in Grecia. Paese cui lo legava una profonda cultura classica, la moglie - la sua bella ragazza greca - e le vacanze. Ancora ben oltre i 70 anni faceva sci nautico lungo le coste dell'Eubea. Capite che poi duellare con magistrati, politici e colleghi giornalisti, per lui era una passeggiata. Non lo fu invece il passaggio dal Corriere, dove era rimasto trent'anni, al nuovo foglio fondato da Indro Montanelli nel '74, perché il percorso fra via Solferino e piazza Cavour, prima sede del Giornale, è parecchio accidentato, e si può percorrere solo in un senso, mai in quello inverso (Montanelli escluso naturalmente). Cervi era uno dei gioielli di famiglia del Corriere. Là era una firma. Inviato. Grandi processi - nella Giudiziaria iniziò come vice di Dino Buzzati, per dire - e Esteri: guerra di Suez, golpe dei Colonnelli in Grecia, quello di Pinochet in Cile, cose così. Ma alla fine, quando Montanelli e gli altri fondatori, in quell'estate di caldo e di piombo, glielo chiesero, disse «Sì». Da corrierista a 24 carati divenne la bandiera del nostro Giornale.

Grazie. Sono tanti i grazie che dobbiamo a Mario Cervi. Soprattutto quello di aver dimostrato, giorno dopo giorno, pezzo dopo pezzo - mezzo toscano fra le labbra, visione completa delle cose in testa - che si può fare un ottimo giornalismo «di battaglia», controcorrente, d'opposizione, fuori dal coro - chiamiamolo come vogliamo - senza per forza strafare, senza sprofondare nella volgarità ma surfando sull'ironia, senza diventare feroci ma rimanendo composti, senza caricare a testa bassa ma scartando di lato. Usando il fioretto, evitando il bastone. Mario Cervi anche nello scrivere era un gentleman. Pacato, rifletteva prima di scrivere. Garbato, pungeva con affetto. Moderato, evitava la polemica per la polemica. Mario Cervi, che amava il bridge, le automobili, il tennis e l'Ispettore Derrick, telefilm che come tutti i prodotti tedeschi non era elegante dal punto di vista estetico ma inappuntabile da quello logico (e qualcosa vorrà pur dire se piaceva così tanto a lui e a Montanelli), non era un giornalista da tifoseria e da polemiche. Ma di analisi. Non da ritratto velenoso, ma da profilo in chiaroscuro. Non da editoriale: che è come correre i cento metri in apnea, 50 righe di colpo, senza distinguo o sfumature, o è bianco o è nero: serve a convincere il lettore. Ma da approfondimento: che è come fare una passeggiata per riflettere, 100 righe meditate, vagliando diverse ipotesi, perché la vita spesso è fatta di grigio: utile per far riflettere il lettore. Poi, certo. Cervi era straordinario nei reportage, precisissimo nelle interviste (gente come Indira Gandhi o Lech Walesa, peraltro), imbattibile nei pezzi storici (i dodici libri della Storia d'Italia scritti con Montanelli erano la sua personalissima Wikipedia), strepitoso nei profili (si legga quello di Dario Fo, ad esempio, o di Pietro Ingrao...). Giornalismo di altissima qualità. Le qualità del direttore Cervi non erano poche. Averle. Al di là dello stile, era molto veloce. Ricordo che io stesso, più volte, a ore non semplici, tipo le 19, o le 20, gli abbia telefonato a casa per chiedergli pezzi non meno complicati. Arrivavano dopo un'ora. Perfetti. Poi, essendo lettore straordinario di giornali e di libri, raramente c'era un argomento che non conoscesse. E aveva una memoria strepitosa: io devo andare su Google anche per ricordarmi in che anni l'Italia ha vinto i Mondiali di calcio; Cervi sapeva anche le date di nascita e morte del presidente del Consiglio che presenziava alla finale. Dei grandi eventi e personaggi del '900, da Giolitti a Berlusconi, dal fascismo all'Euro, sapeva fatti, antefatti, aneddoti e citazioni. E poi possedeva un dono di cui i grandi commentatori non possono fare a meno. Che non è quello di avere un'idea chiara su tutto, sempre; ma quello di metterci cinque minuti, quando serve a scrivere un articolo, per farsela. Si chiama giornalismo. Per il resto, Mario Cervi - grammatica ineccepibile, prosa pulita, ragionamento limpido - non era solo un grande giornalista. Il che sarebbe già abbastanza. Mario Cervi era una persona per bene. E questa, nel giornalismo, è una cosa ancora più preziosa della bravura.

·        6 anni dalla morte di Anita Ekberg.

Fabiana Giacomotti per il Foglio il 29 novembre 2021. “Quando mi hanno proposto questo documentario su Anita Ekberg mi sono domandata: perché io?“, osserva Monica Bellucci, con quella voce soffice e cremosa che non è cambiata con gli anni e che è parte integrante del suo status di seduttrice. Se lo chiede anche in un passaggio del film, “The girl in the fountain”, la ragazza nella fontana, che verrà presentato fra pochi giorni al Festival di Torino e che poi uscirà nelle sale per tre giorni, secondo la nuova scansione distributiva che si è data questo genere cinematografico molto in ascesa anche sulle piattaforme. (..) Sulla scheda di produzione si legge anche del contributo della Regione Lazio, che suona un po’ come un risarcimento tardivo verso la Ekberg quando, ridotta in povertà, chiese il supporto economico previsto per i casi come il suo dalla legge Bacchelli e le venne negato perché non aveva mai preso la cittadinanza italiana. “Mi sono appassionata alla storia di Anita”, dice Bellucci: “In particolare, alle riflessioni che suscita sulla condizione delle donne nell’industria del cinema”. Noi spettatori la seguiamo nella sua progressiva scoperta della vicenda umana della Ekberg, oltre quella maledetta fontana dove l’abbiamo lasciata nel 1960. Ci piaceva saperla lì, con la cascata di capelli biondi a bagnarsi per sempre sotto la cascata d’acqua in quella specchiatura di simbologie sessuali donnesche; ci rassicurava vederla muoversi con lo strascico del vestito di Fernanda Gattinoni sul braccio (dettaglio: la sartoria ne realizzò due modelli, in caso la scena si fosse dovuta ripetere e così non fu, ma l’abito che viene mostrato adesso nelle esposizioni è comunque una riproduzione in un velluto molto contemporaneo e molto leggero). Wikipedia, sempre ottima sugli elenchi, mostra che, dopo “La Dolce Vita”, quella donna incapace di gestire il successo che le era zampillato addosso partecipò a quasi altri quaranta film. Molti delle vere schifezze d’accordo, ma davvero troppi perché il mondo ne abbia notati giusto due, “Boccaccio 70” e “l’Intervista”, sempre Fellini, dimenticando perfino la sua partecipazione ai “Clown” che passò sulla Rai la sera di Natale del 1970 e dove Anita interpretava se stessa, già sciupata, già gonfia, perché gli svedesi reggono bene l’alcol, come dice un’amica nel filmato, ma non è che alla lunga la bottiglia non lasci tracce. La Ekberg morì nel gennaio del 2015, in una casa di cura a Rocca di Papa. La villa dove abitava ai castelli e dove andava a trovarla Gianni Agnelli, la “grande avventura sentimentale della mia vita”, come trovò finalmente il coraggio di dire alla morte dell’Avvocato e come, in fondo, tutti sapevano e ogni tanto perfino il solertissimo ufficio stampa Fiat non si curava di smentire, sapendo che per anni lui si era occupato anche economicamente di lei, era stata svaligiata e poi aveva subito un incendio. Marco Giusti andò al funerale e scrisse - lo dice anche nel doc - che del mondo del cinema non si era presentato nessuno. Molti erano semplicemente già morti; per molti lo era già anche lei. “Divorata dalla sua stessa icona”. Jacobbi l’aveva conosciuta cinque anni prima a Roma cioè nel 2010, alla serata di presentazione della Dolce Vita restaurata con i soldi di Gucci, cioè all’epoca della direzione creativa di Frida Giannini che oggi nessuno nomina più, nemmeno nella chiosa testuale di “House of Gucci” che non è prodotto da Gucci ma dove gli sceneggiatori passano lo stesso a pié pari da Tom Ford ad Alessandro Michele, dieci anni di lavoro azzerati in una damnatio memoriae collettiva che ha dell’incredibile. Ricorda adesso Paola che quel donnone bistrato, pesante, appoggiato al bastone, la colpì molto: “Era devastata. I fotografi le chiesero di mettersi in posa davanti al manifesto originale del film. Lei lo fissò e, con una voce da strega, gracchiò beffarda: “Chi è quella lì?” Odiava quel film, diceva che le aveva rovinato la vita”. Lo disse anche a Salvatore Quasimodo quando, nel 1962, la rivista Tempo gli chiese di curare una serie di incontri con i grandi personaggi del momento (Mina e Luchino Visconti, Claudia Cardinale e Alberto Moravia; quello con Anita venne racchiuso due anni dopo in un sontuoso volume fotografico di Paolo Di Paolo ristampato dalla Ghibli nel 2015). Il poeta di Modica si recò molto compiaciuto a conoscere la diva del momento, che lo accolse su una terrazza di Noto in una giornata quasi estiva, cercando tenacemente l’esposizione al sole: “Le piace l’estate, vero? Ha ragione”, concesse lui: “La primavera è retorica”. Lei, che non conosceva ancora bene l’italiano: “Retorica? Cos’è la retorica?”. E Quasimodo, sornione, in affondo: “E’ una figura primaverile”. Nonostante l’impasse linguistico e quel siciliano attempato che, certo per figure ed eleganti ellissi, ma un po’ ci provava, Ekberg uscì benissimo dal colloquio, sapendo cogliere ogni spunto per tentare di ribaltare la propria immagine pubblica di sirena sfasciafamiglie. Affermò di avere avuto solo tre uomini, di amare la vita domestica e il cibo frugale, come si conveniva insomma a una donna famosa ma onesta finita nel boom economico italiano e desiderosa, almeno in quel momento, di restarci. Bellucci prova a riprendere quel dialogo, imitando la voce di Anita, in un gioco di rimandi fra vero e falso, fra filmati storici e ricostruzioni: “Io stava sotto contratto in America, mio produttore non voleva che io faccio La Dolce Vita, allora io liberarmi di questo contratto”, e pare sorridere, ma si torce le mani. La Ekberg non era una scoperta di Fellini: miss Svezia 1950, approdata a Hollywood con la protezione di Howard Hughes, aveva vinto un Golden Globe nel 1956 come attrice emergente per “Hollywood o morte” di Frank Tashlin, certo non un film indimenticabile ma che la presenza del potentissimo Dean Martin rendeva tale e che infatti l’aveva portata al centro della ribalta. Erano seguiti altri film senza importanza, un ruolo in Guerra e Pace di King Vidor e poi un “sandalone”, “Nel segno di Roma”, girato nella nuova Mecca del Cinema, Roma, dove Anita interpretava la regina Zenobia con l’eye liner steso ad ala di rondine. Fellini l’aveva notata lì: centotre-cinquantotto-novantatre, circa un metro e settanta di altezza, amministrati con oculatezza. Negli studios hollywoodiani era nota come “l’iceberg”. Nell’ Italia già soggiogata dalle gemelle Kessler sarebbe subito diventata la “prepotente bionda bellezza svedese”, cioè un concentrato di cliché da letto.  “Preferisce che non era così”, e l’avrebbe ripetuto fino alla fine: uno, dieci, vent’anni dopo. Nel 1978 la intervista Maurizio Costanzo a Bontà Loro ed è già entrata nel modello Norma Desmond di Viale del Tramonto: Una volta ero grande. “Io e Fellini abbiamo costruito insieme questo personaggio”. Resta da capire, e non lo sapremo mai, perché quella donna che poteva avere tutto, e che sciocca non era, sia finita nelle mani di due mariti attaccabrighe come Anthony Steel e Rick Van Nutter (“è arrivata a Roma l’attrice Anita Ekberg, celebre ai tavoli di via Veneto per i continui sganassoni del marito”, annuncia garrulo un cinegiornale di fine Anni Cinquanta, cioè degli anni del matrimonio con “l’uomo dalla pistola d’oro”),e si sia lasciata scivolare nella Dolce Vita fino a trasformarla in realtà dalla figura retorica che voleva essere...La villa ai castelli è finita alla badante della Ekberg, che pare abbia vuotato il sacco su cose molto fantasiose, di certo inconfutabili, e dunque non compare nel documentario. Nel giardino staziona in via permanente la roulotte di una famiglia rom. 

·        6 anni dalla morte di Laura Antonelli.

Da icona sexy a reclusa folle. La parabola di Laura Antonelli. Fu lanciata da "Malizia" e per Visconti era "la più bella" Philippe Brunel ne racconta vita (e morte) da romanzo. Claudio Siniscalchi - Mar, 23/03/2021 - su Il Giornale. Correva l'anno di grazia 1973 e sugli schermi italiani apparve un film a dir poco esplosivo. La protagonista era una profuga istriana, nata a Pola nel 1941, diplomata all'Istituto superiore di educazione fisica a Roma, apparsa piuttosto svestita in alcune commediole erotiche del tempo. Il film era Malizia e la protagonista Laura Antonelli. Il regista di Malizia, Salvatore Samperi, può essere considerato il progenitore dell'erotismo cosiddetto all'italiana, grazie al suo Grazie zia. Girato nell'anno fatidico il 1968 Grazie zia mise in scena la passione tra una donna matura (Lisa Gastoni) e il giovane nipote (Lou Castel, icona del cinema della ribellione). Ma Samperi non aveva la vocazione autoriale. Il suo desiderio non era rinchiudersi nella nicchia, ma aprirsi al cinema popolare. L'ossatura pruriginosa di Grazie zia fu mantenuta in Malizia. L'ambientazione venne spostata alla sonnolenta Acireale della fine degli anni Cinquanta. La giovane cameriera Angelina (Laura Antonelli) piomba nella vita di un rispettabile e attempato benestante, da poco vedovo (Turi Ferro), con tre figli. Il quattordicenne Nino (Alessandro Momo) è profondamente turbato. Guarda Angelina, nel cui corpo scopre il richiamo travolgente della sessualità. Il pubblico letteralmente impazzì per Malizia. La scena di Angelina su una scala che mostra le calze sorrette dal reggicalze allo sbalordito Nino, è un passaggio indimenticabile. Da quel momento Laura Antonelli venne avvolta nella mitologia. A tal punto che il grande Luchino Visconti la volle nel suo ultimo lavoro, ambientato nella Roma umbertina di fine Ottocento, tratto da D'Annunzio, Il piacere (1976) con Giancarlo Giannini. La profuga istriana in soli tre anni era passata dalla commedia sexy al grande cinema d'autore. Era la stella lucente di un firmamento apparentemente privo di confini, senza dimenticare il fidanzamento burrascoso con Jean-Paul Belmondo. Il futuro sembrava sfavillante per l'ex insegnante di educazione fisica. Invece...L'invece lo racconta il giornalista e scrittore Philippe Brunel nel romanzo, appena uscito da Grasset, Laura Antonelli n'existe plus (194 pagine, 18 euro). Brunel è un grande conoscitore del ciclismo (Gli ultimi giorni di Marco Pantani, Rizzoli 2011), innamorato dell'Italia. Un suo precedente romanzo è dedicato alla morte di Luigi Tenco (Ciao amore. Tenco e Dalida, la notte di Sanremo, Rizzoli 2012). L'intreccio del racconto parte da una telefonata che il narratore riceve da un produttore. Gli propone un viaggio a Roma e una storia esemplare. Visconti definì Laura Antonelli il più bel volto femminile del mondo. Quel volto in poco temo si trasformò nel suo opposto, in qualcosa di mostruoso. Dunque, bisogna ricostruire gli avvenimenti non di una caduta rovinosa, ma di un vero e proprio sprofondare nelle viscere più oscure dell'esistenza. Laura Antonelli da attrice di successo si trasforma in uno zombie, un morto vivente delirante. La storia d'amore con Belmondo si chiude definitivamente nel 1980. E da quel momento è un lento scivolare dell'attrice. Viene spinta sempre più ai margini del mondo dello spettacolo. Poi, all'improvviso, la giostra sembra rimettersi in moto. Samperi la vuole per il prolungamento del suo successo, Malizia 2000 (1991). Come accade alla protagonista di Viale del tramonto (1948) di Billy Wilder, Laura Antonelli monta sulla macchina del tempo della chirurgia estetica. Quel volto misterioso, splendente, ammaliante, ha bisogno di ritocchi. Malizia 2000 è un bidone. Ma non è niente. L'elisir di nuova vita per l'attrice è un calvario. Invece di ringiovanire è invecchiata. Una Dorian Gray al contrario. Al danno chirurgico si unisce la beffa del destino. Nel 1991 nella sua bella villa di Cerveteri Laura Antonelli viene arrestata. L'accusa è grave: spaccerebbe polvere bianca. La gogna mediatica esplode. E letteralmente deflagra la vita di Laura Antonelli. Viene prima condannata: spacciatrice. Poi in seguito assolta: consumatrice. Il titolo di un'altra pellicola di cassetta interpretata dall'ex simbolo erotico appare profetico: Mio Dio come sono caduta in basso (1974). Nel film finiva per «abbassarsi» su un pagliaio. Ora non ragiona più. Parla con Dio. Ha perso tutto. Vive da reclusa, in un universo monastico. Ha addirittura bisogno di un tutore legale per gestire le misere entrate. Muore d'infarto il 22 giugno 2015 a Ladispoli. In una modesta dimora. Sola. Aveva proprio ragione il produttore. Roma vale bene una messa. Brunel ha ripercorso le tappe della caduta di un angelo dello schermo in maniera esemplare. Il ritmo della narrazione degli eventi impone al lettore di non abbandonare il romanzo, per poi riprenderlo. Si deve arrivare sino in fondo, pur se il finale è ben noto. Il racconto si apre con queste parole: il trascorrere del tempo sfuma i ricordi. L'attrice, volontariamente reclusa, ad un giornalista intento a chiederle chi fosse, aveva risposto di lasciarla stare, di dimenticarsi di lei: Laura Antonelli non esiste più. Alla «divina creatura» fu riservato un destino crudele. I lineamenti angelici si tramutarono in demoniaci. Il prezzo pagato fu davvero alto. Ma il nostro presente vive nel nostro passato. E proprio per questo Laura Antonelli continua ad esistere.

·        5 anni dalla morte di Prince.

Dagotraduzione dal New York Post il 25 agosto 2021. Per il suo tour di supporto all'album "Purple Rain", Prince aveva pianificato di cantare una canzone mentre era seduto in una vasca da bagno a 3 metri da terra. Durante le prove in un'arena del Minnesota, la vasca da bagno si è rotta, facendo precipitare Prince sul pavimento. «È caduta da 3 o 4 metri con lui dentro. Non mi sono mai mosso così velocemente in vita mia», ricorda Alan Leeds, all'epoca tour manager di Prince, nel nuovo libro "Nothing Compares 2 U: An Oral History of Prince", di Touré (Permuted Press, 24 agosto). «Dopo di che, la schiena gli faceva male ogni giorno. Poi a Los Angeles è scivolato e si è fatto male al ginocchio. Ha preso delle medicine e ha finito il tour, ma non credo che la sua anca e la sua gamba siano mai state completamente normali dopo». Questi incidenti, come ricordano persone vicine alla superstar, hanno segnato l'inizio di una vita di dolore per Prince, portandolo molto probabilmente alla dipendenza che lo ha ucciso. Prince è morto nel 2016 per un'overdose accidentale di fentanil, un oppioide sintetico. Per coloro che lo conoscevano e lo amavano, il modo in cui è morto è stato particolarmente ironico: Prince era fortemente contrario alle droghe fin dall’adolescenza. «Non era affatto alla moda. Prince era uno quadrato», ha detto il cugino di Prince, Pepe Willie, a proposito dell'adolescenza del musicista. «Uscivamo, ci fumavamo una canna e tornavamo di sopra, e lui diceva: 'Oohhhh, ooohhh, guardati! I tuoi occhi sono rossi! Guardati, guardati!». Durante la sua adolescenza, Prince ha sperimentato le droghe solo una volta, sorprendendo il buon amico e futuro frontman del Time, Morris Day con una richiesta di funghi psichedelici. Il viaggio non è andato bene. «Ho preso dei funghi e li abbiamo provati entrambi. Siamo andati in un club e ha iniziato a dare di matto», ha detto Day a Touré. «La cosa successiva che ho visto è stata lui con la testa tra le mani che continuava a ripetere: “Non farò mai più questa merda con te”». Anche negli anni '80, pieni di cocaina, Prince a volte registrava in studio per oltre 24 ore. Un lavoro "alimentato" non dalla droga, ma dai dessert. «Nelle sue maratone, mangiava torte. Amava la torta, per lo più alla vaniglia con glassa al cioccolato», ha detto Susannah Melvoin, ex fidanzata e cantante di Prince. «La facevo regolarmente per lui e questo lo faceva andare avanti. Risaliva dallo studio, prendeva un'altra fetta, tornava giù. È così che ha continuato ad andare avanti». Prince non tollerava l'uso di droghe da parte dei membri della sua band, e Touré scrive che gli amici di Prince hanno affermato che ha persino rotto la relazione con la cantante Vanity perché le piaceva sballarsi. «Se avesse visto due ragazzi in un angolo con l'aria sospetta, mi mandava a controllare», ha detto Leeds. «Aveva la paranoia di aver intorno qualcuno drogato». Quindi è stato uno shock per tutti intorno a lui quando, intorno al periodo del fallimento commerciale dell'album del 1988 "Lovesexy", Prince ha iniziato a prendere ecstasy e allucinogeni, secondo un'ex fidanzata. «Ha iniziato a prendere allucinogeni con la sua allora fidanzata Ingrid Chavez e guardando indietro ora, per me, questa è una bandiera rossa», dice Jill Jones, una vocalist che lo ha frequentato negli anni '80. Le droghe hanno persino influenzato le decisioni chiave riguardanti la sua musica. Prince avrebbe dovuto pubblicare un album intitolato "The Black Album", che Touré descrive come un «disco osceno e aggressivo», ma lo ha annullato inaspettatamente. «Aveva una brutta sensazione riguardo all'album mentre si faceva di ecstasy con l'allora fidanzata Ingrid Chavez e ha deciso di accantonarlo all'ultimo minuto», ha scritto Touré. Mentre si dilettava con queste droghe, Prince stava anche affrontando il dolore costante causato dalle ferite del tour. Touré scrive che Prince, che non amava i medici, potrebbe essersi automedicato «già all'inizio degli anni '90». Morris Hayes, tastierista di Prince per quasi due decenni, crede che Prince abbia avuto un periodo di riabilitazione nel 1994. Dopo aver sentito che Prince si stava drogando e credendo che stesse trattando la band in modo ancora più duro del solito - Prince era sempre un severo sorvegliante - Hayes lo affrontò nervosamente. «Ehi amico, non intendo causare problemi», disse al suo capo, «[ma] sei stato davvero strano ultimamente. In giro si dice che stai facendo uso di droga». «Oh, amico. Non sto facendo niente del genere», rispose Prince, secondo Hayes. «Sto lavorando, sto facendo cose. Non è niente del genere. È fantastico». Hayes fu sollevato fino al giorno successivo, quando Prince non si presentò per le prove. Questo era straordinariamente insolito per un uomo che non aveva altra vita che registrare musica. Prince tornò una settimana dopo. E raccontò a Hayes che aveva trascorso l'intera settimana, per la prima volta dall'adolescenza, senza suonare la chitarra o scrivere una canzone. «Mi sono preso un po' di tempo per rilassarmi», ha detto Prince, «e apprezzo che tu sia venuto qui e abbia detto qualcosa». A Hayes, questa spiegazione sembrava incompleta. «Il fatto che non abbia suonato o scritto per un'intera settimana è stato davvero un grosso problema. Non ho mai visto Prince passare un giorno senza fare qualcosa di musicale, figuriamoci una settimana», dice Hayes. «Ero tipo, 'Beh, cosa ha fatto?' Non abbiamo avuto sue notizie; nessuno nella band l'ha fatto. Non so cos'altro avrebbe potuto fare se non andare da qualche parte dove era stato sequestrato. Penso che sia andato in riabilitazione. Spero che sia andato in riabilitazione. Penso che avesse a che fare con un problema e spero che sia quello che ha fatto». Nei suoi ultimi anni, Prince faceva affidamento sugli oppiacei per tenere a bada il suo dolore. «Penso che la cosa che lo controllava fosse la sua dipendenza dalla droga», dice Wendy Melvoin, sorella gemella di Susannah e chitarrista della band di Prince, i Revolution. «Il suo uso di pillole per il dolore è stato probabilmente più lungo di quanto forse alcuni di noi avrebbero potuto pensare perché, quando ha iniziato a soffrire di dolori, penso che ci abbia davvero fatto affidamento», ha aggiunto. «Penso che con il tempo la situazione sia peggiorata per lui». «Sento che l'intera faccenda del fentanyl era solo una via di fuga dal dolore dall'anca e gli è sfuggito di mano», ha detto Mark Brown, il bassista dei Revolution che Prince ha battezzato Brown Mark. «[Aveva bisogno] di qualcosa per togliere quel dolore, ma poi è arrivato al punto in cui la dipendenza si è stabilizzata, ma la teneva nascosta perché la cosa per cui viveva era, 'Non lasciare mai che nessuno ti veda sudare'». Prince è morto il 21 aprile 2016, all'età di 57 anni. Secondo Wendy Melvoin, Prince, che pesava circa 63 chili quando era sano, era sceso a circa 48 quando è morto. Jones ha notato che quando è morto, c'erano «migliaia di pillole in tutto l'edificio». Sebbene nulla di Prince fosse convenzionale, dal suo talento a uno stile di vita che escludeva tutto tranne fare musica, alla fine, il modo tragico in cui è morto è stata la cosa più normale di lui. «Non si drogava come una rock star edonista», ha scritto Touré. «Faceva uso di droghe come tanti americani della classe operaia che hanno bisogno di pillole».

·        5 anni dalla morte di Silvana Pampanini.

Cesare Lanza per "la Verità" il 10 maggio 2021. Di Silvana Pampanini mantengo un ricordo piacevole, incancellabile. Più di vent' anni fa ebbi l'incarico di intervistarla e scriverne a lungo. La invitai a cena. Era un settembre ancora tiepido, il mite congedo, a Roma, dal violento caldo di agosto. Quando arrivammo al ristorante Il Bolognese, in piazza del Popolo, frequentato dalle persone famose e come sempre da tante altre che vogliono vedere a due passi di distanza le persone famose, sentii gli occhi di tutti su di noi. Che importa l' età? Silvana Pampanini è stata una delle donne più belle del mondo, miss Italia nel 1946, interprete di decine di film che hanno turbato (senza nudo e senza volgarità) i desideri segreti di milioni di maschi vogliosi. E quel giorno, come sempre, era una diva: perché, come è noto, divi si nasce. Alta e forse altera, magra, imperiosa, ingioiellata, un imponente casco di capelli, gli occhi enormi incuriositi da tutto, sorrideva, salutava e si muoveva come se fosse in palcoscenico, con le luci dei riflettori accese sulle sue memorabili curve. L' avevo appena conosciuta e già ne ero conquistato. Mi invitò a darci subito del tu. Silvana era una donna allegra, coinvolgente, di simpatia irresistibile. Liquidò le ordinazioni rapidamente. Adorava il bollito, ma rinunciò perché non c' era la testina, di cui era soprattutto ghiotta. Intanto spazzolava via, con prese rapide e regali, un piatto di mortadella, in quadratini, che Il Bolognese offre ai suoi clienti, per ingannare l' attesa (e, siccome ero occupato a prendere appunti, si scusava e ironizzava per i miei sguardi invidiosi). Pasta, carne e lambrusco freddo. E mai un' intervista è filata via, come quella volta, libera e sincera, tra la suggestione dei ricordi, le battute, le staffilatine alle rivali di ieri e alle eredi del momento, la voglia di togliersi fastidiosi sassolini dalle scarpe: con coinvolgente allegria e qualche inevitabile attimo di malinconia. Se ricordo bene - era una mia curiosità da sempre - le chiesi subito chi l'avesse chiamata, per primo, Nini Pampan.

«II direttore del Figaro, che voleva fare un titolo scherzoso. I giornali mi volevano bene. Mio padre, Francesco, era direttore della tipografia dove si stampava Il Momento sera di Realino Carboni, un quotidiano popolare di Roma, spesso irriverente. Ai miei esordi pubblicarono una recensione simpatica su di me, poi i giornalisti dissero a mio padre: "Non sapevamo che fosse tua figlia, non sapevamo che avessi una figlia cosi bella!". E mio padre, che era stato anche un grosso pugile, agitò le mani: "Se ne aveste scritto male, avreste dovuto fare i conti con queste". Il bello è che mio padre non voleva che facessi spettacolo. Papà non voleva, mamma nemmeno, come dice la canzone, e al concorso di Miss Italia, che allora si teneva a Stresa, arrivai timidamente: per la prima volta, pensa un po', con i tacchi alti e le calze lunghe. Una ragazzina che scatenò un finimondo». Ecco cos' era successo: una giuria aveva premiato un' altra ragazza e il pubblico si scatenò per protesta: pugni, spintoni, le sedie che volavano Furono costretti a rifare il verdetto e a proclamare Silvana vincitrice ex aequo, ma neanche questo bastò a riportare la calma.

Silvana ha fatto girare la testa a milioni di uomini, ma non si è mai sposata.

«Vedi, io penso che il matrimonio sia una cosa seria. E bisognerebbe sposarsi solo per amore e io ho avuto tanti corteggiatori, ma non li ho mai né sfruttati né accettati».

Chissà che ebbrezza e che senso di potere, sentire sempre il desiderio degli uomini.

«Non posso negarlo. A parte gli attori e i produttori, quelli dell' ambiente, mi corteggiavano anche alcuni capi di Stato Mi viene in mente Jimenez, il presidente del Venezuela. E Fidel Castro».

Fascinoso?

«Macché. Troppa barba».

Nell'ambiente, però, chissà quanti flirt.

«Mai».

Vorresti dire che hai frequentato gli attori più attraenti e brillanti e non hai mai avuto un flirt?

«Che vuol dire flirt? Se dici fare l' amore, avere una storia: mai. Se dici un bacetto, una cosetta: vabbè, si».

È incredibile!

«Senti: io sono di una famiglia per bene, di principi sani e antichi, come si dice. E Ii ho mantenuti. Ho pubblicato un libro sulla mia vita e ho voluto dargli questo titolo: Scandalosamente per bene. Avrò fatto tanto scandalo, ma sono per bene».

Mica fare l' amore con un attore amico significa essere per male.

«Ah, no. L' amore si fa solo se si è innamorati. E io mi sono vietata di fare l' amore con personaggi dello spettacolo, di innamorarmi di loro, perché capivo subito che si trattava di cose fragili.... Ho avuto i miei innamoramenti, i miei amori. Ma mai fino al punto di sposarmi. Una sola volta sono arrivata al limite del matrimonio».

Ho voluto saperne di più.

«Lui è morto, un mese prima delle nozze. Era gelosissimo. Ma di Silvana, di Silvanella come mi chiamavano gli intimi, non della diva. Ho sempre in mente i suoi occhi con i riflessi verdi».

Le chiesi anche se ci fosse un personaggio che ammirasse, in politica.

«Andreotti. Un mio grande ammiratore: questa ragazza, diceva, andrà lontano. Ed è stato l' unico a farsi vivo, di un certo tipo di mondo, quando sono mancati i miei genitori».

Hai conosciuto tutti, le dissi. Vorrei quindi i tuoi giudizi sui protagonisti dello spettacolo: visti da vicini, nella quotidianità, fuori dal lavoro. Alberto Sordi, per cominciare.

«Un fratellone, un po' tirchio, anzi molto tirchio, ma buono. A proposito di matrimonio una volta lui ha detto che non si è sposato perché io gli ho detto no».

Marcello Mastroianni.

«Un bambinone capriccioso. Sapevo tutto di lui e lui mi supplicava di tenere il silenzio sulle sue avventure».

Federico Fellini.

«Grande. Ma anche sporcaccione, con un' idea fissa. Voleva che facessi le porcherie con lui».

Porcherie?

«Cosi diceva. Accattivante. E io: non le faccio perché sei uno stronzo. Affettuosamente, s' intende».

Mai coinvolta in un' orgetta, una festicciola? Anche solo per curiosità?

«Ma insomma, lo vuoi capire o no che tipo di donna sono stata? Io la sera non dormo se prima non dico le preghiere. Nei miei contratti c' è sempre stata una clausola: il nudo, mai.

Tanto, per sedurre, basta uno sguardo, un pagliaccetto, mostrare e non mostrare. E a certe ragazze di oggi, anziché scoprirsi, sarebbe conveniente coprirsi. Orge? Anche nel cinema ero attenta: quando girammo Margot di Bourgogne, le orge si sprecavano, ma il corpo non era mio, c' era una controfigura. Se vuoi parlare di nudo, parla con la Sandrelli. Io i film di Stefania Sandrelli non sono mai andata a vederli, ma lei di nudo ne ha fatto tanto».

Orge a parte, come sei, quando fai l' amore?

«Se sono innamorata, parlo di amore vero e naturale, ci sono tante cosine belle da fare».

Fiera della tua bellezza?

«Credo di essere una bellezza rara: di brune come me c' è stata solo Ava Gardner».

Andiamo avanti con i ricordi.

Luchino Visconti?

«Aveva una villa a lschia vicina alla mia. Un marpione di classe».

Alain Delon?

«Sentimentale, ma un po' carogna. Spregiudicato. Quanto soffriva Romy Schneider, per il suo rapporto con Visconti».

Ma se Delon ha detto di avere avuto solo due rapporti, con Visconti.

«Sì, ciao! Lasciamo stare. Parliamo dell' amore tra Alain e Romy, ch' era stupendo, e lui innamoratissimo. Le è sempre stato vicino, fino alla fine».

Roberto Rossellini?

«Seduttivo, sprecone nei regali: gioielli, pellicce, giocattoli».

Totò?

«Mi amava tanto. Sono arrivati a dire che Malafemmena l' ha scritta per me. Mi diceva che avrebbe voluto sposarmi.. e, da vecchio gentiluomo, ne parlò anche con mio padre. Era un rubacuori Totò. Uscivamo spessissimo a cena, ma sempre con mio padre e mia madre. Non ha mai cercato di baciarmi».

Vittorio De Sica?

«Simpatico, buono, meraviglioso. E quanto giocava, se entrava in un casinò».

Ugo Tognazzi?

«Era un gran bravo attore, ma si era montato la testa. Mi dispiace dirlo, ora che non c' è più. Una volta, dopo Il Bixietro, fece finta di non riconoscermi mi guarda... non mi saluta. E io penso: questo è impazzito. E dire che, se quando giravamo un film, io avessi detto: Tognazzi non lo voglio, lui non avrebbe lavorato».

E gli scrittori? Alberto Moravia?

«Schivo, riservato. Era difficile avere un dialogo».

Pasolini?

«Requisito dalla corte dei suoi amici».

Sofia Loren?

«Faceva la comparsa con me. Fui io a farle avere la prima particina, perché me lo chiese Carlo Ponti. Comparse: come Silvana Mangano, Gina Lollobrigida».

Ecco, la rivalità con la Lollo.

«Gina si sente, anche adesso, la più grande, la più bella. Ma da quando si è lasciata con il marito, Milko Skofic, non ha più fatto niente. Per la Bella di notte, erano previste scene di nudo, mio padre e io dicemmo di no e io consigliai: chiamate Gina».

Scusami, ma mi sembra che delle tue ex rivali parli con un po' di aria di superiorità «Dico le cose come stanno. Gina era una comparsa e la feci prendere io, era vestita da ciociarella, nel Segreto di Don Giovanni. Ma con me Già d' altezza la sovrasto. E se ha fatto La Bersagliera, lo deve a me».

Gratitudine?

«Non scherziamo. Certo le persone corrette ci sono: Valentina Cortese: grande classe, amicizia leale, una signora vera, intelligente. Quanto alle altre. gratitudine! Non ridiamo. Anche Lynda Christian deve a me il fatto di aver potuto sposare Tyrone Power.

Perché io magnanimamente gliel' ho lasciato».

E com' era, Tyrone Power?

«Due occhi stupendi e una sola cosa infelice: la pelle grinzosa delle mani, come uno scimpanzé. Peccato».

Torniamo alle rivali. Silvana Mangano?

«Ha fatto quattro figli meravigliosi. Non capisco come un uomo importante e intelligente, De Laurentiis, possa averla lasciata senza pensare al suo avvenire.

Per i mezzi economici. Almeno cosi mi hanno detto. Dino mi faceva una corte spietata.

Mi mandava a prendere con una limousine pazzesca, per farmi impressione. Una volta c' era Silvana e l' ho pregata di mettersi in mezzo, cosi Dino non poteva fare il furbo». Allungava le mani?

«Tutti allungavano le mani. Il peggiore, Orson Welles: una volta a Roma, gli ho mollato due bei ceffoni in faccia, per farla finita».

Ce ne sarà stato uno almeno, educato.

«William Holden. Il più bello. Lui portava i pantaloni all' italiana, e non come fanno gli americani, ridicoli, quasi allo stinco!».

Accompagnandola a casa, prima di salutarla, le chiesi se avesse un desiderio finale. E lei, seriamente, mi rispose: «Mi piacerebbe, quando arriverà quel giorno, avere accanto qualcuno che mi curasse come io ho curato il mio lui come ho curato i miei genitori. Qualcuno che mi vesta, come io ho vestito loro, che mi prepari, che mi accomodi nell' ultima casa».

Le sussurrai: «Che bel pensiero. E non hai paura della morte?».

«Certamente no. Pensa, quanti amici troverò. E pensa alle folle che mi aspetteranno anche lassù, i fotografi, la televisione».

Quel giorno, quello per cui mi aveva confidato il suo ultimo desiderio, è arrivato il 6 gennaio 2015. Silvanella si è spenta a Roma, dov' era nata il 25 settembre 1925, a ottantanove anni.

·        4 anni dalla morte di Hugh Hefner.

DAGONEWS il 25 febbraio 2021. Il libro del 2015 “Down the Rabbit Hole” dell’ex coniglietta Holly Madison diventerà una serie tv della Sony in cui si rivela il lato oscuro del mondo intorno a Hefner. Alle giovani donne venivano somministrate droghe e venivano incoraggiate a prendere parte a orge regolarmente con Hefner in cambio dell'affitto nella villa di lusso. Le conigliette facevano sesso di gruppo due volte alla settimana con il fondatore della rivista. Madison è stata la compagna più duratura di Hefner dopo essersi trasferita nella villa nel 2001 a soli 21 anni, mentre lui ne aveva 75. Durante quel periodo è diventata una delle star di Girls Next Door, un reality show che ruota attorno a lei e alle altre due amiche conviventi di Hefner, Bridget Marquardt e Kendra Wilkinson. Madison era considerata la sua "fidanzata principale" e dichiarò apertamente che voleva sposarlo e avere figli. Tuttavia la coppia alla fine si lasciò nel 2008. Madison ha raccontato di aver vissuto un "inferno" durante il quale ha persino pensato al suicidio. Nel libro lei descrive in dettaglio il loro primo incontro a Hooters nel 2000, quando dopo una serata in discoteca con le sue "amiche", si rese conto che ci si aspettava che andasse a letto con lui. Hefner  le offrì del  Metaqualone e le disse: «Di solito non approvo le droghe, ma sai, negli anni '70 chiamavano queste pillole “apri cosce”». Di quella prima notte ha raccontato di come Hefner si masturbava mentre le conigliette intorno a lui recitavano scene lesbiche mentre porno hardcore venivano riprodotti su due schermi TV. Lei era una delle tante donne che vivevano con lui e tra le conigliette la rivalità era devastante. Gli incontri sessuali avevano "intimità zero" ed erano «così brevi che non riesco nemmeno a ricordare come ci si sente ad avere un corpo pesante sopra il mio». Le orge si svolgevano dopo le serate in discoteca ogni mercoledì e venerdì e le ragazze dovevano anche rispettare il coprifuoco e rinunciare al loro lavoro regolare. Madison ha scritto: «Non potevo andarmene perché mi sentivo giudicata dopo aver vissuto lì. Avevo un'enorme lettera scarlatta sulla fronte. Hefner faceva commenti regolari sul mio aspetto e non mi ha permesso di vedere un terapista quando ho iniziato ad avere problemi di salute mentale, che mi hanno portato a pensare di suicidarmi».

Da "comingsoon.it" il 25 febbraio 2021. Samara Weaving, apprezzata attrice vista recentemente nella miniserie Netflix Hollywood di Ryan Murphy, ha scelto il suo prossimo ruolo. Sarà la star dei reality nonché ex coniglietta di Playboy Holly Madison in una miniserie in sviluppo a Sony Pictures Television. Intitolata provvisoriamente Down the Rabbit Hole, la miniserie - che non ha ancora un network di riferimento - è basata sul libro di memorie Down the Rabbit Hole: Curious Adventures and Cautionary Tales of a Former Playboy Bunny scritto dalla stessa Madison. Stando alla descrizione ufficiale diffusa, la serie "andrà oltre la facciata scintillante del marchio Playboy per descrivere le storie viscerali, spesso profondamente drammatiche delle donne che hanno iniziato a lavorare per il marchio con tanti sogni, per poi trovarsi manipolate, controllate e abusate dal sistema". La serie sarà scritta dalla sceneggiatrice australiana Marieke Hardy e includerà, come produttori esecutivi, la stessa Holly Madison, Will Gluck, Richard Schwartz e Judith Verno. Oltre che in tv (dove l'abbiamo vista anche in SMILF e Picnic at Hanging Rock), Samara Weaving si è fatta apprezzare anche al cinema in film come Finché morte non ci separi e Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Per quanto riguarda Holly Madison, invece, ricordiamo che è stata tra le protagoniste del reality di E! The Girls Next Door che seguiva proprio le vite di alcune delle conigliette di Hugh Hefner.

·        4 anni dalla morte di Jake La Motta.

Riccardo Signori per “il Giornale” il 14 febbraio 2021. «Vi giuro che se non ero mai passato attraverso un inferno, quella fu la volta buona». Lo chiamarono il massacro di San Valentino, 14 febbraio 1951, 70 anni fa. Jake La Motta non lo scordò mai. Ray Sugar Robinson fu il suo inferno di pugni, ma provò anche altro. «Ore e ore di bagni di vapore, non ne potevo più. Dentro e fuori, dentro e fuori: due chili da smaltire la sera prima del peso. Avevo sete. Volevo acqua. Sennò, dissi, non sarei mai salito sul ring. Mi diedero da leccare un cubetto di ghiaccio». Un cubetto di ghiaccio per dissetarsi e lo stomaco vuoto per affrontare Ray Sugar Robinson: ci voleva coraggio. Jake La Motta ne aveva da vendere, ma non bastò. Il sesto, e ultimo, incontro fra Jake il Toro del Bronx, che si portava perfino a letto la cintura di campione mondiale dei medi, così raccontava Vikki, la seconda moglie, e Sugar l' artista, il diavolo nero campione del mondo dei welter, passò alla storia dello sport come un massacro. Lo paragonarono a quello di 22 anni prima, nel famoso garage sulla Clark street di Chicago: là vennero impallinati sette uomini. Qui, sulla West Madison Street, non molto lontana dal garage, un mercoledì notte, Robinson scaricò mitragliate di uppercut e ganci su quell' uomo. I cassieri contarono 14.802 spettatori per un incasso di 180.619 dollari: lo spettacolo valse il prezzo del biglietto. Decine di milioni di americani davanti alla tv. «Nessuno ha mai messo al tappeto Jake La Motta. Figlio di puttana, non sarai tu a farlo», si ripeteva il Toro chiedendo aiuto alle gambe esili, un testone nero e ricciuto che Rocky Graziano definiva testa di pietra, un naso deformato, una faccia rossa di sangue colante. Scrisse Al Buck, giornalista di fama del New York Post: «Sanguinante, livido e malridotto, il Toro del Bronx restò in piedi ma nessuno avrebbe mai più voluto vedere una tal macelleria». Del resto è boxe, allora come oggi. «Un rito manicheo dove regnano il bene e il male, il vincitore e il perdente» scrisse Albert Camus. Così questa vicenda. Sei puntate nelle quali Sugar vinse 5 volte e quest' ultima lo avrebbe incoronato come nessuno fino allora: possedere in contemporanea i mondiali dei welter e dei medi. Robinson era la tempesta calma, freddo, lucido, implacabile. L' unica sconfitta con il Toro avrebbe interrotto una imbattibilità di 40 incontri. Poi la serie riprese per altri 9 anni: in 123 match Ray perse una volta e inflisse 78 ko agli avversari. L'ultima sfida con La Motta gli procurò qualche problema. Frankie Carbo, mister Grey, la mano di velluto della mafia americana, avrebbe gradito un ultimo trittico vinci-perdi-vinci con La Motta. Sugar picchiò duro, chiuse il conto e lasciò gli States per qualche tempo, andando a cercare danaro e avversari in Europa. Da nove anni Jake e Ray si scambiavano cazzotti, cominciarono nel 1942: Robinson aveva 22 anni, La Motta 21. Ora ne avevano 9 in più. «Con Zucchero ho combattuto così tante volte, da meravigliarmi di non essere diventato diabetico». Jake aveva la battuta pronta. Così quando sconfisse Tiberio Mitri. «Eri un tal bel ragazzo, che non sapevo se con te dovevo boxare o ballare». Lo riempì di botte, ma gli accordi pre-match erano diversi. Sul ring del Chicago stadium, Robinson dimostrò quello che raccontava Dan Parker, giornalista del Mirror. «La più grande combinazione di cervello, bravura tecnica e muscoli che un pugile moderno abbia mai avuto». Soffrì nei primi round, tornò all' angolo con il naso sanguinante. Fu una battaglia di astuzia contro audacia, testa contro cuore, abilità contro coraggio. Dal 9° round Robinson cominciò un selvaggio martellamento, i guanti da 6 once facevano più male: sconciò la faccia e le forze dell' avversario. La Motta pagava il peso sbagliato, l' idea di bere del brandy prima del match per darsi coraggio. Gli ultimi 7 minuti furono una carneficina, Ray scagliò 56 colpi di fila, i fans urlarono di fermarsi. Guardò l' arbitro, ma quello non interveniva. Il Toro stava in piedi aggrappandosi ai calzoncini dell' avversario, un occhio chiuso, l' altro con un torrente di sangue. «Quando l' arbitro si intromise fra noi, stavo in piedi solo perché avevo il braccio attorcigliato attorno alle corde». L' immagine del groggy che Robert De Niro interpretò in Toro scatenato, il film che riportò al mondo il ricordo della notte di San Valentino. «No, Ray, avevo troppo cuore e coraggio per essere il tuo San Valentino». Il match fu interrotto a 2 minuti e 13 secondi del 13° round. Jake si lasciò cadere sullo sgabello: svenne. Al rientro nello spogliatoio gli diedero l' ossigeno. Robinson sorrise, calmo. Al 12° round il cartellino dell' arbitro Sikora diceva: 63-57. Quelli dei giudici: 65-55, 70-50. Il pubblico delirava per Sugar Ray. Ma quando Jake lasciò il ring intonò: «For he' s a jolly good fellow» («Perchè lui è un bravo ragazzo, perché lui è un bravo ragazzo...»). Un coro d' addio alla grande boxe. Robinson tirò avanti fino a 44 anni.

Boxe, LaMotta-Robinson: settanta anni fa il massacro di San Valentino. Luigi Panella su La Repubblica il 14 Febbraio 2021. Il 14 febbraio del 1951 il Toro del Bronx fu sconfitto, titolo mondiale dei medi in palio, da uno dei più grandi della storia del pugilato. Ne uscì un match brutale, che fu ribattezzato, visto il giorno e il luogo (Chicago), prendendo spunto dalla strage ordinata da Al Capone ai tempi del proibizionismo. Il massacro del giorno di San Valentino: 14 febbraio 1929. Chicago è infiammata dalla rivalità tra gangster italiani e, soprattutto, irlandesi: tutti arricchiti dalla legge che proibisce produzione e vendita di alcolici negli Stati Uniti. ‘’Milk’’, latte, c’è scritto su una marea di camion: dentro però tanto liquore. La richiesta è enorme e il giro di quattrini è proporzionale. Al Capone sta prevalendo nel controllo di questo giro illegale, ma vuole dare al rivale irlandese George ‘Bugs’ Moran (che tre anni prima ha cercato senza riuscirci di toglierlo di mezzo), il colpo di grazia. Nel giorno degli innamorati, il gangster italiano si trova a Miami per essere interrogato da un giudice federale: è il miglior alibi per organizzare l’agguato ai rivali. Un garage, dove è prevista la consegna di una partita di liquore e dove finti poliziotti disarmano la banda di Moran, viene trasformato in un mattatoio. Si salva solo Moran: tra gli ammazzati uno gli somiglia tantissimo e lui, arrivato tardi per una violenta nevicata, ha tempo per sparire. Morirà 28 anni dopo, sopravvivendo di 10 proprio a Capone, finito in galera dopo essere stato incastrato dal fisco. Quando Jake LaMotta e Ray Robinson, nel 1951, firmano il contratto per il loro sesto incontro, forse neanche ci fanno caso che saliranno sul ring proprio a Chicago, e proprio il 14 febbraio. E soprattutto non sanno che la loro sfida ruberà i titoli dei giornali proprio a quel giorno da gangster. Il loro primo match nell’ottobre del 1942 al Madison Square Garden di New York: vince Robinson, che però l’anno dopo, a Detroit, deve subire proprio da Jake la prima sconfitta da professionista. Poi altre tre volte, e sono sempre verdetti ai punti per Robinson, a volte contrastati. Jake LaMotta si sveglia la mattina del giorno di San Valentino da campione del mondo dei pesi medi. E’ un personaggio popolare ed eccessivo. Sposato con Vicky Beverly Thailer, la seconda delle sei mogli, ma anche nel giorno della festa degli innamorati il romanticismo fa posto ad una gelosia morbosa. Vicky è una modella splendida, lo sarà ancora per molti anni, se è vero che, passati i 50, poserà senza veli per Playboy. Ma quello della gelosia è solo uno dei tanti demoni di LaMotta. Questione di Dna: lotta sempre contro tutti e tutto sin da ragazzino, quando su ‘consiglio’ del padre, emigrato nel Bronx dalla Sicilia, gira con un punteruolo per rompere il ghiaccio da usare come arma di difesa contro chi vuole sopraffarlo. E’ esagerato in tutto, anche nello svelare se stesso. Lo farà come show man nei locali sui quali investe parte dei suoi quattrini, lo farà raccontandosi nella sua biografia, Toro scatenato: è lo stesso titolo del film con cui Martin Scorsese e Robert De Niro (che lo interpreta) ne fanno un personaggio planetario. Il filo conduttore ovviamente è il ring: il ‘Toro scatenato’ avanza, sempre. Non è un modello di stile, ma l’aggressività che sfocia spesso nella ferocia lo porta al titolo mondiale. Non riesce a sfilarglielo il pur grandissimo Tiberio Mitri, fallisce la missione anche Laurent Dauthuille: il francese è praticamente certo della vittoria ai punti prima di essere scaraventato fuori dal ring a 13 secondi dalla fine. E poi non va mai giù, non ci è andato neanche nei 5 precedenti contro il suo eterno rivale. Anche Walter Smith Jr. ha un talento naturale per lo spettacolo. Usa meno le parole, molto più quel gioco di gambe che farà la sua fortuna sul ring: praticamente la totalità degli esperti di boxe lo mette nel podio dei migliori di sempre, spesso anche sul gradino più alto. Nasce a Detroit, poi si forma a New York, ad Harlem, dove si trasferisce con la madre dopo il divorzio dei genitori. E mentre nel Bronx, l’altro fa a pugni con la vita, Smith la cavalca facendo di tutto e di più. Balla il tip tap sui marciapiedi di Broadway per racimolare qualche dollaro, ma vende anche la legna, fa il lustrascarpe, combina qualche guaio di troppo, finisce in risse fra bande rivali, si sposa a 16 anni. E soprattutto inizia a far vedere grande pugilato: lo sport glielo ha fatto entrare nel sangue il suo idolo, qualche anno più grande di lui, il campione del mondo dei pesi massimi Joe Louis. La sua boxe è elegantissima, dolce come lo zucchero. Ma prima ancora di diventare ‘sugar’ (alias che condividerà con un altro artista del ring come Ray Leonard), Walker Smith diventa Ray Robinson: è l’identità di un suo amico barista, perché 15 anni sono pochi per salire sul ring e gli servono generalità false ma adeguate. “Il ritmo, nel pugilato, è tutto. Qualsiasi movimento tu faccia, nasce dal cuore: o questo ha il ritmo giusto, o sei nei guai”, ama ripetere Robinson. Spesso una orchestrina jazz lo aiuta durante gli allenamenti, diventerà amico di Miles Davis. Ritmo, eleganza, ma nella notte di San Valentino anche tanta violenza. Il match è facilmente reperibile in rete e merita di essere visto. La prima parte vive più o meno sull’equilibrio, ma nella seconda c’è solo Robinson. Colpi veloci, precisi e potenti: LaMotta incassa tutto ma avanza, sempre. Sembra trovare quasi compiacimento in quella sofferenza. Al tredicesimo round, l’arbitro Frank Sikora, anche lui di Chicago, pone fine al martirio. Stravince Robinson, eppure l’orgoglio di LaMotta si gonfia a dismisura. Perché, come sussurra a Ray ,‘’non mi hai buttato giù…”. Dopo quel match, Robinson combatterà ancora tantissimo, fino al 1965. In tutto 174 incontri (ma in quel 14 febbraio il record, incredibile, è di 128 vinti, uno perso e due pareggiati), tanti pugni dati, ma anche tanti ricevuti. E quando gli viene diagnosticato l’Alzheimer in molti mettono in relazione le due cose. Muore nel 1989, a soli 68 anni, ma la brillantezza del ring aveva abbandonato il suo sguardo da tempo. Il LaMotta pugile, dopo il massacro di San Valentino non sarà più lo stesso. Si trascina fino al 1954 sul ring, poi si mette a fare altro, a raccontarsi, meglio di quanto faccia Robinson, che come show man non avrà lo stesso appeal. Di frasi celebri del ‘’Toro del Bronx’’ ce ne sono a bizzeffe, ne scegliamo una. “Ho salvato la mia testa. Ho perso i miei denti, ma ho salvato la mia testa”. Se ne è andato nel settembre del 2017: da 2 mesi aveva compito 95 anni.

·        4 anni dalla morte di Pasquale Squitieri.

Antonello Piroso per “La Verità” l'11 dicembre 2021. Ottavia Fusco, attrice diretta da Giorgio Albertazzi, cantante e oggi anche scultrice, nel 2013 divenuta moglie di Pasquale Squitieri, a quattro anni dalla sua scomparsa ha scritto un libro, 'Nu piezzo 'e vita, che ripercorre la storia del rapporto con il regista e sceneggiatore napoletano, uomo dalla personalità complessa, «ma soprattutto un irregolare insofferente a ogni dogmatismo, una persona libera, onesta con sé e con gli altri e che in ogni confronto anche duro non ha mai tirato indietro la gamba». Squitieri: il «regista con la pistola», il «guappo» polemista implacabile, il «reazionario», «il marito di Claudia Cardinale», anche se i due non si sono mai sposati (un fantasma più per Fusco che per Squitieri, tanto che «in un momento di cazzeggio volevo intitolare il volume La moglie del marito della Cardinale, ma il mio avvocato me l'ha sconsigliato», ride adesso).

Sedici capitoli, ciascuno corrispondente a una lettera del nome e cognome di suo marito, dall'iniziale P con «Provocazioni» alla finale I con «Infinito».

«Ho voluto raccontare, attraverso un mio personale dizionario, il mio legame, viscerale e "di testa", con Pasquale. Conosciuto nella torrida estate del 2003. Io ero seduta all'interno del bar Rosati a piazza del Popolo a Roma, a studiare con il beneficio dell'aria condizionata il copione per lo spettacolo Peccati d'allegria che avrei portato in scena con Lina Wertmuller. 

C'era un solo altro tavolino occupato: Pasquale con Tony Renis. Mentre se ne stava andando, passò davanti al mio e io tesi la mano per presentarmi, chiamandolo Maestro».

E lui le chiese il numero di telefono.

«No, chiesi io il suo ad Albertazzi, e una sera, dopo una cena di lavoro noiosa e inconcludente, e forse anche un bicchiere di troppo, gli telefonai. Ci vedemmo e... non ci lasciammo più». 

Con l'«incubo», è lei a fotografarlo così, della presenza dell'assente Claudia Cardinale, ormai parigina d'adozione, madre di Claudia junior, detta Claudine, avuta proprio da Squitieri.

«Non c'era intervista in cui lei, diva indiscussa, carriera e bellezza folgoranti, non segnasse il territorio parlando del loro amore mai finito e di come lui non avesse altra donna all'infuori di lei. Per me ogni volta era una coltellata, mi si attorcinavano letteralmente le budella». 

Squitieri come la consolava?

«A Pasquale in fondo non dispiaceva calarsi nel ruolo dell'uomo conteso, e cercava di rassicurarmi. Finché, constatando la mia frustrazione, organizzò il nostro incontro». 

Però. Come finì il chiarimento?

«Non cavai un ragno dal buco. Claudia mi parlò di tutto, tranne che di Pasquale, e ogni volta che io cercavo di portare il discorso su Pasquale, lei svicolava con una risata, quasi come se si trattasse di un dettaglio marginale. Un genio!». 

In fondo, però, le deve essere grata: dopo l'ennesima intervista, e conseguente litigata con Squitieri, lui le fece la proposta di matrimonio.

«A modo suo. Si accese una sigaretta e mi disse: "Ci penso da mesi: io e te ci sposiamo. Voglio che porti il mio cognome". Fine. E così fu».

Il maudit Squitieri amava dare scandalo. Una volta in radio spiegò che «la verginità per le donne è solo una rottura di scatole e prima se ne liberano e meglio è, anche se sono ancora minorenni». Un'altra volta, parlando di Tangentopoli arrivò a sostenere che Antonio Di Pietro andasse soppresso fisicamente!

«Aveva il gusto del paradosso, amava provocare e spiazzare l'interlocutore, ma mi creda: era una persona ironica e intrisa di profondo senso del sacro, aveva un padre spirituale che ora è il mio, don Sergio Mercanzin, non andava a messa ma sentiva il bisogno di entrare in una chiesa e di raccogliersi in preghiera».

Ma la storia dello schiaffo a Sandro Pertini, nei giardini del Quirinale alla festa della Repubblica il 2 giugno, è vera? Per me è un inedito assoluto.

«Stando al racconto di Pasquale, sì. Era uscito da poco il suo film Claretta, sull'amore disperato della Petacci e Benito Mussolini che, al solito, aveva scatenato clamori e polemiche, con gli pseudo intellettuali di sinistra che, irridenti, l'avevano stroncato, e con quelli veri, come Alberto Moravia, a difenderlo.

È Pertini che si avvicina, seguito da due guardie del corpo: "Buonasera Squitieri, come va?". "Tutto bene presidente, grazie. Ha visto il mio film?". "No, mi hanno detto che è un film brutto". "Ah, non l'ha visto ma gliel'hanno detto? Si vergogni!", e via con il ceffone». 

E la scorta del presidente come avrebbe reagito?

«Si unirono anche due corazzieri che lo presero di peso e lo accompagnarono all'uscita. Squitieri giurava di aver incrociato in quel frangente Federico Fellini, che si era rivolto a quei due armadi: "Ma che state facendo? Mettetelo giù"». 

Sembra più la scena di un film che un episodio di vita davvero vissuto. Ma poi, scusi: Pertini non gli aveva concesso la grazia? 

«Vero, ma aveva rimediato a una situazione kafkiana, con una molto discutibile carcerazione. Conosce la vicenda?». 

Sì, gliene chiesi conto durante un'intervista. Mi spiegò di essere stato accusato di aver avallato un assegno di 20.000 lire poi rivelatosi falso, quando nel 1966 lavorava in banca. Vicenda non provata, secondo lui, e che doveva risultare prescritta. Si ritrovò nel carcere di Rebibbia con il cattivo maestro Toni Negri e Ali Agca, l'attentatore del Papa.

«Tutto questo ha contribuito ad alimentare la leggenda dell'Uomo Nero, un mezzo criminale, rissoso, irascibile e amante delle armi. Come nella vicenda delle pistolettate ai paparazzi, ingigantita per la notorietà di Pasquale e di Claudia. Ma lui non avrebbe mai ucciso nessuno». 

E vorrei pure vedere.

«Sparò per spaventarli. Avendo un'ottima mira, se avesse voluto non ne sarebbero usciti illesi. Non dimentichi che erano stati loro a violare la proprietà della villa in cui lui e Claudia vivevano. Pasquale fu denunciato, negli Usa non sarebbe successo: sarebbe stata giudicata più grave la violazione di domicilio». 

Squitieri di destra, suggestionato dal mito del superomismo di Friedrich Nietzsche.

«Ma quando mai. Una volta mi accompagnò a una festa dell'Unità, dove dovevo partecipare alla presentazione del libro di un caro amico giornalista, Marco Politi, e sentì alle sue spalle qualcuno commentare: "Anvedi, il fascistone!". Al che tornò indietro: "Fascistone lo dici a tua sorella", si mise a confrontarsi con i "compagni" e dopo un po'' quelli gli davano ragione. Perché Pasquale proveniva dall'estrema sinistra, aveva sottoscritto gli appelli per Lotta Continua, lavorato a Paese Sera...». 

Eletto senatore con Alleanza Nazionale...

«Perché come ripeteva lui: "Gianfranco Fini me l'ha proposto. Fausto Bertinotti no". Bertinotti era un suo caro amico, a cui anni dopo, a casa di Vittorio Cecchi Gori, rifilò una battuta urticante delle sue. Bertinotti lo abbracciò e lo rimproverò con tono scherzoso: "Ah, Pasquale, Pasquale, quando torni con noi?". 

E lui: "Ti risulta che io abbia cambiato idea?". "Be', no", rispose un perplesso Bertinotti, che non capiva dove si stesse andando a parare. "Ecco, vedi? Sono solo passato a un fascismo più moderato". Bertinotti stette alla battuta, ma masticando amaro. Pasquale era fatto così, coltiva il gusto della provocazione. E non rinunciava mai alle sfide, neppure con la propria salute. Pensi che è riuscito a guarire da un cancro al polmone inoperabile, senza mai smettere di fumare». 

E allora, mi perdoni, di cosa è morto?

«Per le conseguenze di un incidente d'auto, dopo un anno e mezzo di sofferenze che l'avevano inchiodato sulla sedia a rotelle. Del resto, la sua vita e il suo destino era stati segnati dalle auto».

In che senso?

«Da giovane fu protagonista di una tragedia: guidava un'auto su cui c'erano anche due giovani atleti che, come lui, dovevano partecipare ai campionati nazionali di scherma, e due ragazze. 

A Migliarino di Pisa, di notte, andarono a sbattere per l'asfalto sdrucciolevole e dissestato. Morirono tutti tranne lui. Una catastrofe che lo segnò per sempre e che si portava dentro». 

Dopo la scomparsa di Squitieri, perché si sottopose a quello che lei descrive come un calvario, una tournée teatrale di otto mesi con Claudia Cardinale ne La strana coppia?

«Perché era un progetto ideato da Pasquale e da me. Pasquale era convinto che sarebbe stato lo spettacolo che avrebbe confermato il mio talento e le mie qualità. Non si sbagliava, perché nel 2018 mi è stato assegnato il Premio Flaiano, dalle mani del presidente Masolino D'Amico. Ma caro mi è costato».

Come mai?

«Senza più Pasquale a sostenermi, Claudia aveva imposto clausole contrattuali a suo favore, io non avevo pressoché voce in capitolo sulla campagna promozionale, lo svolgimento delle prove, e via dicendo. Finito lo spettacolo, molto spesso cenavo da sola.

Una tensione continua che mi provocò una dermatite da stress».

Così in seguito le sue giornate - «tutte», lo precisa lei - finirono per ruotare intorno alla bottiglia. Per un anno.

«Trascorsi il Capodanno 2019 da sola, e sembravo avviata verso una china irreversibile. Mi salvò la mia amica musicista Cinzia, che mi portò quasi di peso alla clinica alcologica dell'ospedale Umberto I di Roma, un centro d'eccellenza per la cura dalle dipendenze da alcol. Sono tornata alla vita, lo dovevo a me stessa e a Pasquale». 

Le manca tanto?

«Nella quotidianità delle piccole cose sì, ma so che è ancora con me. Mi piace pensare che quando è morto sia cominciato il resto della nostra vita insieme. Come ha scritto Sant' Agostino: "Coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dov' erano, ma sono ovunque noi siamo"».

·        4 anni dalla morte di Paolo Villaggio.

Paolo Villaggio, la figlia Elisabetta: «Era un po’ impacciato, in privato gli dicevamo: papà, così sembri Fantozzi». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 2 ottobre 2021.

Il primo ricordo di suo padre? 

«Io e mio fratello eravamo piccolini e dovevamo aspettarlo fuori dai locali mentre faceva cabaret. Ricordo queste lunghe attese che non sopportavo. Di giorno faceva l’impiegato, un lavoro che gli aveva trovato il nonno quando mia madre era rimasta incinta di me. Però era un assenteista, la sera tirava tardi, gli piaceva stare in compagnia. Una volta avevo avuto la febbre e non ero andata a scuola e mi aveva colpito che anche lui fosse a casa e che dormisse fino a tardi».

L’ultimo ricordo? 

«Stava già male, era ricoverato e cercavo di trascorrere più tempo possibile con lui. A un certo punto mi disse: “Sai che ho sempre pensato di essere matto? Da quando sono nato”. Era davvero preoccupato e questa cosa mi colpì perché con la sua follia, invece, era riuscito a tirar fuori personaggi che hanno fatto ridere tutti».

Elisabetta Villaggio, regista e scrittrice, non ha mai amato essere considerata «la figlia di» (Paolo, Fracchia, Professor Kranz). Quando da piccola glielo chiedevano, lei ribatteva che il suo papà era un omonimo. E se proprio l’interlocutore non mollava la presa, lei contrattaccava: e a te che effetto fa essere figlio di tuo padre? Oggi non è più così. E lo dimostra con Fantozzi dietro le quinte. Oltre la maschera. La vita (vera) di Paolo Villaggio (Baldini+Castoldi, 164 pp., 16 euro), un libro affettuoso in cui racconta lavoro, amici, passioni e curiosità di quel padre fuori dagli schemi scomparso il 3 luglio del 2017 eppure così vivo nell’immaginario di tutti.

Che padre è stato? 

«Sui generis, molto speciale. Sono fiera di essere sua figlia. Non è mai stato banale».

Litigavate? 

«Ci siamo sempre scontrati! Su certe cose abbiamo un carattere molto simile. Lui era un grande organizzatore, e io pure, ma non volevo farmi dire da nessuno cosa fare in una giornata e men che meno nella vita. Era molto pretenzioso: per lui essere felici significava sposare il presidente degli Stati Uniti, essere bella come Cindy Crawford, essere ricchi come uno sceicco. Aveva aspettative troppo alte! Alla fine ho capito che questi erano modi per spronarmi a ottenere di più e a migliorare».

Com’è stato dover condividere il suo papà privato? 

«Non facile. Lo fermavano di continuo per chiedere autografi, baci, abbracci, e poi spuntava sempre una macchina fotografica. Quando abbiamo lasciato Genova e ci siamo trasferiti a Roma, agli inizi del ‘68, ha avuto questa botta di notorietà. Dopo è diventato normale anche per me, ma per un lungo periodo ho detestato i fotografi che ci invadevano casa, mi dicevamo fai così, mettiti là...».

Le vacanze com’erano? 

«Quelle, bellissime. Perché all’estero nessuno lo conosceva e ci lasciavano tranquilli. Siamo stati in tantissimi posti. Una volta a New York andammo a vedere un musical, la protagonista aveva avuto un malore e fu sostituita da Liza Minnelli: papà impazzì. A Parigi mi portò in un ristorante dove si mangiavano solo formaggi: io, come lui, ne ero ghiottissima; quella notte stetti male per quanti ne avevamo mangiati».

Quando scoprì il diabete non fece nulla per curarlo. Fino a ritrovarsi in sedia a rotelle. Non le faceva rabbia?

«Certo! Ma con il cibo era incontrollabile e poi non dava retta a nessuno. Quando fu costretto a muoversi in sedia a rotelle si prese un autista: andava in giro con lui, fin dal mattino, per il primo cappuccino con i cornetti...».

Nel libro scrive che suo padre era un cialtrone. 

«Lo definivano così gli amici, affettuosamente. Paolo Fresco, con cui aveva fatto il liceo, mi raccontò di quando gli diede appuntamento a Cortina senza farsi trovare».

Fabrizio De Andrè? 

«Era uno di famiglia. I genitori di De Andrè e i miei nonni erano amici: papà e Fabrizio si conoscevano da sempre.

Quando veniva a Roma stava a casa nostra. Ricordo le sere a cantare Carlo Martello e La canzone di Marinella».

Cos’aveva in comune con ? «Beh, mio padre era un uomo coltissimo. Mi fece leggere Marcuse quando ero adolescente, e non capii nulla. Anche mio figlio Andreas, che adorava, lo ha sempre trattato da adulto: a lui faceva leggere Kafka. Detto questo, non aveva alcuna manualità, non ha mai cambiato una ruota, non sapeva usare il computer, men che meno gli smartphone. Ogni tanto era un po’ impacciato, tant’è che in privato gli dicevamo: guarda papà che così sembri Fantozzi. Però con il suo personaggio più amato penso che avesse in comune soprattutto la tenacia».

Vi siete mai detti ti voglio bene? 

«Eh, su queste cose prevaleva il pudore... Però, forse, nell’ultimissimo periodo ce lo siamo detti».

·        3 anni dalla morte di Bernardo Bertolucci.

Arianna Finos per “la Repubblica” il 14 marzo 2021. La casa di Bernardo e Clare a Trastevere è zeppa di ricordi di cinema e di vita. Il cane di porcellana a grandezza naturale di Io e te accoglie gli ospiti all' ingresso, la gatta Maya è accoccolata sul divano beige, che arriva dal set di La luna . Vicino c' è un tavolino basso e una lampada antica, Clare Peploe l'accarezza con lo sguardo, «l' abbiamo presa la prima volta che sono andata a Parigi per stare con Bernardo». Poi aggiunge: «È stato un grande amore». Davanti alla parete bianca che all' occorrenza funge da schermo, il tavolo dei caffé con Bertolucci, che voleva sempre sapere tutto di tutti, e ricordava tutto e tutti. Se n' è andato il 26 novembre di due anni fa. Il prossimo 16 marzo avrebbe compiuto 80 anni e Clare sorride: «Gli piaceva essere ricordato e celebrato. Bernardo avrebbe voluto una grandissima festa e non so come avrebbe preso la zona rossa».

Il vostro primo incontro?

«Fu alla proiezione di La strategia del ragno , mi colpirono il film e il suo modo di parlare di cinema. Era l'epoca in cui si andava, cinefili, in gruppetto a Londra o a Parigi per vedere un film di Raoul Walsh. Allora il cinema era una religione, comprare un biglietto era un impegno, la sala aveva qualcosa di sacrale. Tutto questo non esiste più, oggi c' è uno tsunami di altri format».

Lei ha sempre spinto Bernardo a viaggiare e a scoprire cose nuove.

«Mi piaceva portargli le cose da vedere, facevo scouting. Abbiamo fatto tanti viaggi insieme, sì, il più difficile e interessante, anche se legato a un fallimento è stato quando siamo andati in America per cercare una distribuzione per Novecento. Il film era troppo lungo, gli studios volevano tagliarlo e lui resisteva, era troppo comunista, Bernardo non si rendeva conto di cosa volesse dire la bandiera rossa in America».

Il film a cui è più legata?

«Forse Novecento, Maamo La strategia del ragno con cui l' ho scoperto, come quel mondo della Bassa, di Parma, quel tipo di pianura, i pioppi. Un film classico e sensuale nel parlare di cibo, di godimento del paesaggio. Bernardo mi ha aiutato anche, ha prodotto Il trionfo dell' amore . Si divertiva con le mie sceneggiature, è venuto a Londra sul set. Ma era anche un uomo dei suoi tempi e che è cambiato nel tempo. Anche verso le donne Mi dispiace molto quando gli fanno delle accuse che non sono messe nel contesto del periodo in cui è vissuto. Anch' io ho accettato cose - lavorativamente e socialmente - che oggi non accetterei, valeva per gli uomini e per le donne. Lo sguardo, allora, era sempre del maschio sulla donna, non era mai sulla donna. Bernardo si era reso conto del cambiamento».

Diceva di essere stato troppo figlio per diventare padre. Che significava stargli al fianco?

«Dovevo spesso andare via per non essere troppo presa dai suoi bisogni, mangiava tutto. Anche per nutrirmi. Anche lui mi nutriva ma io avevo bisogno di scoprire le cose. Andavo a Londra, a volte mi seguiva, ma c' erano periodi di separazione difficili, avevamo entrambi il senso di abbandono».

Quando ha capito che era necessario separarsi per ritrovarsi?

«Quando lui ha fatto La tragedia di un uomo ridicolo sono andata a Londra e sono stata fuori per un periodo. C' è stato il rischio che non si tornasse più insieme e il bisogno di un matrimonio. Noi da soli al Campidoglio, con i genitori di Bernardo, senza mia madre, e i testimoni Enzo e Flaminia Siciliano».

Fu un' idea di Bernardo?

«Tutto nacque da un' esigenza pratica. Io non vedevo il matrimonio in modo romantico, i miei genitori non sono mai stati felici insieme, era triste, invece per Bernardo era una cosa felicissima, e dopo l' ho capito anche io. Per me dopo è diventato qualcosa di profondo. Bernardo aveva grande calore e generosità. Mia madre che lo adorava, ricambiata, diceva che era leale, legato a chi aveva intorno, non sapeva intrecciare rapporti di comodità o interesse».

Anche sul set seguiva l' istinto.

«Sì, non progettava l' inquadratura ma la cercava, come in un balletto, come stesse scrivendo. Aveva interiorizzato la sua straordinaria padronanza della macchina da presa. E si muoveva con una sensualità verso gli oggetti, le stoffe, una faccia. Lì trovava l' espressione: un colore, una forma, una battuta, che arrivava in quel momento ed era invenzione».

Cosa rendeva felice Bernardo?

«Il cinema, parlarne con amici con cui condivideva il linguaggio.Gli piaceva sapere tutto, anche i gossip, era curioso. E amava tanto la politica, il Partito comunista che aveva sostituito la figura paterna, qualcosa contro cui ribellarsi, ma che era una forza. Poi è arrivata la disillusione».

Molto è cambiato con la malattia.

«Sì. Bernardo aveva una grande forza, fino alla megalomania. Non accettava i cambiamenti del suo corpo. Sul set di Il tè nel deserto aveva difficoltà a camminare sulle dune, ma lo nascondeva e di certo non cercava l' inquadratura più facile. Il suo lavoro lo salvava, gli faceva scordare i dolori e la sedia a rotelle».

Ha scritto l' ultimo film con Ludovica Rampoldi e Ilaria Bernardini.

«Pensava che avrebbe potuto girarlo, gli dava la l' idea della vita che continuava. Lavorare con loro due gli dava forza e gioia. Era così felice di aver finito la sceneggiatura, quell' estate del 2918...».

Aveva una grande voglia di vita.

«Fino alla fine. Fu scioccato quando gli dissero all' ospedale che non avrebbero continuato il trattamento ai polmoni. Tirò fuori uno spinello e se lo fumò lì, in ospedale. C' erano stati tanti momenti in cui avrebbe potuto capire che era vicino alla fine, ma non aveva voluto. In quel momento è stato obbligato. Tre settimane dopo se ne è andato».

"The Echo Chamber" si farà?

«Il Covid ha rallentato tutto, ma spero di sì. C' è un regista internazionale che è interessato, sarebbe bello se lo facesse. È un film sullo stato d' animo di Bernardo nell' ultimo periodo, sulla morte e sul vivere la vita, una struttura molto interessante. Non posso dire di più».

L' urna di Bertolucci è qui.

«Dovremo portarlo a Casarola, anche Giuseppe sarà lì. C' è la casa di Attilio e Ninetta che vogliamo trasformare in un posto per workshop. Nel paese ci vive quasi più nessuno. Ma ricordo che Bernardo andò al cimitero di Tokyo dove era sepolto Ozu e mi piace pensare che Casarola sia il posto dove i giovani possano trovare Bernardo».

·        3 anni dalla morte di Fabrizio Frizzi.

Tre anni senza Fabrizio Frizzi, il sorriso che manca a tutti. Silvia Fumarola su La Repubblica il 25 marzo 2021. Il 26 marzo 2018 moriva il conduttore. Aveva 60 anni. Il pubblico è cresciuto con i suoi programmi, da "Pane e marmellata" a "L'eredità". La Repubblica il 25 marzo 2021. Un lutto collettivo. Un’ondata di dolore che travolse tutti: quando è morto Fabrizio Frizzi, il 26 marzo di tre anni fa, ognuno gli ha riservato un pensiero, una preghiera, un saluto, una carezza. Ognuno a suo modo. Perché quel ragazzone gentile, morto a 60 anni, dopo aver combattuto con la malattia, era diventato “uno di famiglia” per milioni di italiani. Il sorriso, il garbo e l'ironia lo hanno reso uno dei volti più popolari della tv e di Rai1. Il 5 febbraio Fabrizio Frizzi compie 60 anni: un compleanno speciale, che arriva dopo il malore che lo scorso ottobre lo ha costretto a un ricovero. Dal 15 dicembre è tornato al timone dell'Eredità, che conduce alternandosi a Carlo Conti, suo grande amico. Il suo nome è legato a Miss Italia che ha presentato per sedici edizioni tra il 1988 e il 2012, la Partita del cuore e Telethon. Sua la voce di Woody nella saga Disney-Pixar Toy Story, nel 2009 è stato protagonista di una storia di Topolino in versione Paprizio Sfrizzi. Ha anche partecipato in veste di concorrente in programmi come Ballando con le stelle e Tale e quale show, in cui ha stupito tutti interpretando Piero Pelù. Era impossibile non volergli bene. Un uomo d’altri tempi, diceva che ha lavorato con lui, umile, garbato, sorridente, anche nei momenti più difficili. Negli studi Rai che oggi portano il suo nome, Frizzi è rimasto nel cuore di chi gli ha voluto bene. È il 23 ottobre 2017 quando viene colto da un malore, un’ischemia, durante la registrazione di una puntata del quiz L'Eredità. Viene ricoverato al Policlinico Umberto I di Roma e dimesso alcuni giorni dopo. Girano voci preoccupanti, lui torna in tv a dicembre. "L'Eredità è una gioia, fa bene anche al fisico - scherza con Vincenzo Mollica annunciando che riprende il programma - Sento che l’adrenalina mi aiuta a stare meglio". Fabrizio Frizzi, uno dei volti più popolari della televisione italiana, è morto nella notte. Aveva 60 anni. L'eterno ragazzo della tv ha condotto alcuni dei principali programmi di intrattenimento della Rai, a partire dagli anni Ottanta prima con 'Il barattolo' poi con la trasmissione per ragazzi 'Tandem' e infine 'Pane e marmellata' con la futura moglie Rita Dalla Chiesa. In quasi quarant'anni di televisione ha condotto moltissimi programmi: Cominciamo bene, I soliti ignoti, Miss Italia, Tale e quale show e L'eredità. Dopo il malore Frizzi era tornato in onda per condurre il suo programma. Credeva nella ricerca, non mancava mai alle maratone di Telethon, combatteva per la moglie Carlotta Mantovan e per le piccola Stella (nata nel 2013), il suo capolavoro. Insieme sull’altalena, al parco giochi. “Perché sono diventato padre da grande” raccontava “e me la voglio godere”. Ne parlava con l’amico Carlo Conti, anche lui diventato papà, anzi “babbo” di Matteo, da adulto. “Stella mi chiama Babboconti, come se fosse tutto attaccato. Mi chiamava così anche Fabrizio, adesso continua a farlo lei”. Di amici ne aveva tanti, la definizione più usata da chi l'ha conosciuto, è la stessa: “Una persona perbene”. Senza retorica, lo era. Settantatre programmi – da Pane e marmellata a I fatti vostri, da Scommettiamo che? a Luna park, Miss Italia, Tale e quale - non bastano per raccontarlo. Perché Fabrizio era speciale in tv ma prima nella vita, grato di quello che aveva avuto e pronto a restituirlo. Nel 2000 con un gesto nobile e generoso, la donazione del midollo osseo, salva la vita a Valeria Favorito di Erice (Trapani), all'epoca bambina. “Un'esperienza bellissima e particolare che lascia un segno molto profondo e ti rende consapevole di quanto importante sia il dono della vita'' disse il conduttore, testimonial dell'Associazione donatori di midollo osseo (Admo). Ha sempre vissuto con pudore il suo impegno. Per Valeria, nata nell' '88, la vita ricominciò dopo la diagnosi di leucemia mieloide acuta. Anni di attesa per un donatore compatibile, finalmente da Roma arriva la conferma. Qualcuno dichiara: “Sono pronto”. È Fabrizio Frizzi. C’è l’Italia che lo seguiva tutte le sere, in fila, a rendergli omaggio nella Sala degli arazzi della Rai, in Viale Mazzini, dove viene allestita la camera ardente. Anziani e studenti, colleghi, nonne, nipotini e i figuranti, il pubblico dell’Eredità che era seduto in studio, ad applaudirlo e incoraggiarlo. Le persone che gli erano state vicine, lo avevano visto stringere i denti, sorridere e gli ultimi tempi, stanco, sempre più affaticato. Un dolore corale, come l’abbraccio.

·        3 anni dalla morte di Marina Ripa di Meana. 

Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera” il 16 maggio 2021. Volerebbero stracci se non stessimo parlando di Marina Ripa di Meana. E così volano gioielli. Tra i figli: Lucrezia Lante della Rovere, nata dal primo matrimonio, e Andrea Ripa di Meana Cardella, figlio adottivo di Marina e Carlo. Per la verità è stato quest' ultimo che ha affidato alle agenzie il suo sconcerto per la decisione di mettere all'asta i gioielli della madre, una vendita all'incanto confermata dalla casa Pandolfini per il 23 giugno prossimo a Firenze. «Sono i gioielli a cui Marina teneva più di tutti, mai e poi mai li avrebbe dati all'asta per poche centinaia di euro. Erano gioielli di famiglia, voleva che rimanessero alla famiglia. C'è in particolare un anello che mai avrebbe venduto», ha dichiarato Andrea all'Ansa. Interpellata dal Corriere della Sera , Lucrezia Lante della Rovere non ha voluto rilasciare dichiarazioni, un po' come avvenne nel 2019, quando Andrea criticò la sua decisione di conservare in casa le ceneri della madre, morta nel 2018: nemmeno in quella occasione l'attrice rispose. E così, come in un romanzo ibrido tra Evelyn Waugh e Balzac, nel nome di Marina tornano a incrociarsi diamanti e onoranze funebri, figli e vecchie ruggini parentali. Passare dalla spilla colonna con onice e diamanti che andrà all'incanto - stima: tra duemila e tremila euro - ai ricordi sugli ultimi giorni della «Libertina Felice», come la chiamava Lietta Tornabuoni, è una folata di vento. Ma di queste folate di vento si nutriva Marina, che litigava regolarmente con la famiglia sui giornali perché «così rimane tutto scritto». Marina che era capace di commuoversi in pubblico per la bellezza e per la bravura della sua Lucrezia e, una folata di vento dopo, dichiarare «non ho quella mentalità borghese, quella mitologia della maternità in nome della quale i figli vengono prima di tutto, anche di sé stessi», come fece in un'intervista rilasciata a Vanity Fair nel 2010. Andrea Ripa di Meana Cardella mette l'accento sul fatto che quei gioielli hanno un valore molto superiore a quello dell'asta, ma nella sua vita lunga e tumultuosa Marina si è sempre presa gioco del denaro in una danza obliqua e divertita: un abbraccio e uno sberleffo. Quando l'industriale Roberto Gancia si innamorò di lei, subito lo ribattezzò «Sgancia». Nel libro Colazione al Grand Hotel racconta di quando viveva in albergo e cercava di aiutare l'amante di allora, l'artista Franco Angeli, che era sempre nei guai. Ecco perché il catalogo dell'asta Pandolfini, a guardarlo oggi, sembra il romanzo minerale della sua vita: i diamanti e i fermagli consumati, la collana in ebano e l'anello con brillante, il Rolex maschile e il bracciale (meraviglioso) che porta il suo nome, «Marina», il gioiello che più di ogni altro ha fatto risplendere. Anche quando mostrava le cicatrici della malattia («Sembro la moglie di un lanciatore di coltelli», confidò a Paola Jacobbi), anche quando si mise a litigare con Fabrizio Corona in televisione perché la malattia la angosciava e aveva bisogno di fare qualcosa. Ha sempre fatto qualcosa. Che fosse un vestito, un libro, un litigio, una foto nuda contro le pellicce di origine animale.  Molti dei gioielli al centro della contesa sono «d'artista», dunque hanno un taglio e un disegno unico ed è un altro dei motivi per cui il figlio adottivo si dice «fuori di sé» all'idea dell'asta. Ma la disinvoltura con cui Marina portava il suo «carico di cognomi» (parole sue) era la stessa con la quale mescolava cappelli e dipinti, intellettuali e diseredati. Le cene con Moravia e le liti con Sgarbi. Ecco perché i preziosi che andranno all'incanto hanno qualcosa in più. Raccontano di una donna che ha tolto peso a tante cose, compreso il dolore. Quello dei figli però resta una cosa privata, una cosa che nessun reality potrà mai raccontare.

·        3 anni dalla morte di Davide Astori.

Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport il 4 marzo 2021. La ricorrenza, il peso di questa data non lo avvertiamo. Quando superi la soglia del dolore, il 4 marzo è uguale al 5 aprile, al 6 giugno. Nostra madre, che è la saggia della famiglia, lo ripete spesso: Davide non c’è, la vita adesso è altro, non ci si scuote più». Marco e Bruno Astori al telefono. Sono i fratelli di Davide, morto nel sonno in una camera del Là di Moret di Udine nella notte tra il 3 e il 4 marzo 2018. Marco ha 45 anni, è ingegnere; Bruno quasi 40 («li compio a dicembre»), è architetto e anche il portavoce degli Astori. Marco ascolta, i silenzi di entrambi dopo ogni domanda sono lunghi e descrivono le sensazioni che provano meglio di qualsiasi risposta. Ogni tanto Marco interviene, ma solo se richiesto. «Lui è il più serio dei tre» chiarisce Bruno «tutti geometri, almeno in partenza. Io e Davide lo facevamo diventare cretino». «Togli questo pilastro, togli quest’altro muro, mi dicevano», ricorda Marco «e il palazzo o l’appartamento non stavano più in piedi». Di nuovo Bruno: «Davide era pieno di fantasia e di curiosità. Il tempo libero lo impiegava per soddisfarle. Io lo prendevo per il culo perché non sapeva disegnare, ma aveva gusto. Si era impratichito anche con un software in 3D. L’interior design la sua specialità, era un maestro. Ricordo quando ci segnalò delle piastrelle che aveva scovato in rete e che acquistammo in Marocco, oppure dei divani della Baxter, un’azienda della Brianza che fa pezzi bellissimi. Un giorno Davide la citò in un’intervista e ricevette i ringraziamenti dei titolari che lo invitarono in sede. Non ci andò mai». I ricordi, anche quelli minimi, si inseguono e aiutano, emulsionando tutto in un racconto di emozioni. Bruno: «Cosa mi manca di Davide? Lui era il parere più autorevole, quello che inseguivo in continuazione per le cose importanti, ma anche per le cazzate. Era il confronto che cercavo quasi con ostinazione. Davide era più giovane di me di cinque anni, ma aveva un equilibrio, una sensibilità e una maturità impressionanti. Il nostro capitano. Ho detto autorevole, non è il termine giusto. Provo a essere più preciso: ecco, quello di Davide era il parere che mi interessava di più, l’unico che ascoltavo». «Noi tre eravamo molto uniti e complementari» prosegue Bruno. «Ora mi ritrovo senza il contraltare più naturale, l’altro io, e allora provo a immaginare cosa mi avrebbe detto Davide, come si sarebbe comportato in quella determinata occasione. Marco (e lo dice con un sorriso, nda) è l’unico sano del terzetto, io e Davide un po’ folli e disinvolti. Ma quando tanto Marco quanto Davide dovevano chiedere uno sconto ai fornitori passavano l’incarico a me. Immancabilmente ». «Eravamo talmente uniti» spiega Marco «che Davide provava un filo di gelosia nei confronti addirittura di mia moglie. Mi sono fi danzato da giovane, avevo appena diciotto anni, quando veniva a trovarci si metteva sempre in mezzo, come se volesse evitare il contatto fisico tra me e lei». «Provava a salvarti» interviene Bruno. Che aggiunge: «Vedi, vorrei riuscire a spiegarti cosa significa per noi una perdita come quella di Davide, ma non so se ci riesco. O forse sì. La sua morte è lo spartiacque tra due vite: c’è un prima del 4 marzo 2018 e c’è un dopo, è come se quel giorno fossi morto anch’io, non una parte di me. Adesso so, sappiamo che non potremo più ambire alla felicità piena della vita precedente. Nostra madre sintetizza tutto con una sola parola: altro. Superato un dolore simile, gli imprevisti, i problemi, le tensioni quotidiane sono idiozie vissute come tali. La morte come spartiacque, è così. Io ho una moglie, un figlio, gli amici, il lavoro e un pensiero che si ripresenta costantemente nel cervello e che mi rappresenta: l’assenza. Vivo in un mondo senza il suo sorriso. Questa chiacchierata con te non ha nulla di preparato, ma io e Marco prima di accettare ci siamo chiesti se a Davide avrebbe fatto piacere. Tu l’hai conosciuto bene eppure scommetto che non sapresti rispondere». In effetti è così. Confesso che all’inizio rimasi sorpreso dall’impatto che la notizia della sua morte ebbe sull’opinione pubblica. Mi perdonerete se vi dico che sulle prime mi sembrò addirittura eccessivo. «Non era Maradona, né Pelé» è ancora Bruno che parla. «Davide è stato un ottimo calciatore, non un campione di rilevanza mondiale, ma trasmetteva valori e questo la gente, anche i tanti che non l’avevano mai incontrato, l’ha percepito. Probabilmente ha colmato un vuoto emotivo. Era il Maradona o il Pelé dei valori umani. Davide era fortemente empatico. A questa tempesta di buoni sentimenti hanno contribuito anche i compagni che l’avevano conosciuto, la dolcezza e la spontaneità delle loro parole. Penso a Milan (Badelj, nda) che sentiamo ancora, a Buffon, De Rossi, Totti, Antonelli, Sirigu che con Davide ha condiviso pezzi di vita e di carriera. La gente di Firenze, poi, ha fatto il resto. I fiorentini sono pieni di passione, speciali, vivono di pancia ogni cosa, ogni rapporto. Davide era rimasto quando tutti gli altri erano fuggiti, su di lui la Fiorentina impostò la ricostruzione. Da quel momento Firenze l’ha adottato, l’ha sentito suo. Davide era campione di valori grazie soprattutto al lavoro dei miei genitori, a quello che gli avevano insegnato. I calciatori, a meno che non siano fi gli d’arte, provengono in massima parte da famiglie semplici, con un basso tenore di vita, e si ritrovano catapultati in una realtà “irreale”. Per reggere l’urto e non restarne schiacciati irrimediabilmente devono possedere una struttura morale, una formazione solida…Davide solido lo era e stava pianificando il suo futuro dopo il calcio, leggeva, studiava, si applicava, aveva individuato il percorso da seguire. Spendeva in viaggi, ma per il resto era attento». La compagna, la fi glia le sue priorità. «Io Davide lo vedo tutti i giorni » conclude Marco. «Lo vedo e lo sento». Bruno mi avverte: «Da questa chiacchierata» mi dice «dipende il futuro del tuo numero di telefono nella mia rubrica». Li saluto, passano soltanto dieci minuti e ricevo un messaggio di Marco: «Tu sei uno dei pochissimi giornalisti con i quali ogni tanto parliamo ed è sempre un piacere farlo, anche per il rapporto che avevi con il mio fratellino. Ti chiedo di ricordare solamente le cose belle. E devi dire a Linus che lo ascolto sempre». Cose brutte solo dopo Davide, e appartengono alla giustizia ordinaria.

·        25 anni dalla morte di Marcello Mastroianni.

Roberto D’Agostino per Vanityfair.it il 29 dicembre 2021. Siccome sono nato nell’antico 1948, una buona parte della mia cultura sensuale ed erotica deriva dal cinema. È al cinema che venni a sapere cos'è un bacio, prima di impararlo nella vita. È al cinema che nel ruolo di voyeur, al buio, provai una liberazione ineguagliabile, una sfida alle proibizioni di ogni tipo. È al cinema che incontrai Mastroianni. 

Era Marcello Rubini, un giornalista specializzato in cronaca mondana, ma con l'ambizione di diventare un romanziere. Me ne stavo là, davanti al lenzuolo bianco de “La dolce vita”, autorizzato a tutte le proiezioni possibili, a ogni identificazione, senza la minima costrizione. Era un tipo di emozione completamente fisica da quella della lettura, che lasciava in me una sorta di fascinazione ipnotica: essere Mastroianni.  

A 25 anni dalla sua scomparsa, mi manca questo attore in grado di affascinare, di stabilire quell'oscuro contatto di emozione e commozione tra sua immagine ingigantita sullo schermo e lo spettatore, senza sentire il gigionismo della recitazione, senza darsi un’immagine intellettuale. 

La sua perfomance era calcolata per sottrazione, una interpretazione “neutra” rispetto a quella di tanti divi di una sola smorfia o di un sol guizzo che non recitano ma farfugliano, portando sullo schermo tutta la concentrazione drammatica di uno spot per la castità e la pubblicità grottesca della tristezza fisica. I nostri divi di oggi sono talmente anonimi e impacciati e sonnolenti che suscitano una sola passione: uscire dal cinema. 

Marcello, invece, sapeva fare Cechov, Scola, Fellini, Visconti, Monicelli, Taviani, Bellocchio, De Sica, Antonioni, Garinei e Giovannini. Sapeva fare tutto: il seduttore, il sedotto, l'impotente, l'incinto, il giovane, il vecchio, la mezza cartuccia, il grottesco Fefé di "Divorzio all'italiana" e il Guido smarrito di "Otto e 1/2". In riassunto: un'epoca, un’icona, un'indolenza italiana. Italianissima. 

Il suo profilo da francobollo rappresentava l'uomo più bello del Belpaese, e il meno narciso. Un attore perfetto che recita se stesso, come una entità autonoma. E lo spettatore scopre improvvisamente sulla bocca stretta di Marcello la piega amara di chi si domanda: "Qual è il mio posto, se ancora non si è trovato un ordine per il mondo?". Qui abita il suo talento. 

Non è un tipo o una maschera proveniente dalla commedia dell'arte, perché rappresenta quella zona metafisica sospesa fra l'essere e il recitare; non i caratteri e le macchiette (l'industrioso lombardo, il pungente toscano, il tonto veneto, lo sbruffone romano, l'imbroglione napoletano) ma l'impossibilità di essere normali, i piccoli personaggi che sorprendono sempre per quella loro aria inventata eppure plausibile, gesti ridotti al minimo, come di una persona qualunque sorpresa nella sua naturalezza. 

Con quella ‘’faccia anonima da svizzero" (Fellini) e la mentalità da ciociaro di Fontana Liri (Frosinone), Mastroianni ha sempre ubbidito al gusto dell'ironia, del disincanto, di chi conosce troppo la fragilità dell'animo umano, non smettendo mai di celebrare i propri difetti e di dimenticare le sue virtù.  

Cena di Capodanno, 1972. Mastroianni stava con Catherine Deneuve. Arriva ogni bendidio. E lei, schizzinosa: “Je ne pas…”. Al terzo o quarto “Je ne pas”, Marcello esplode: “Non te piace niente, pijatela ner culo”. Dick Cavett Show, 1977: ''Cos'è un latin lover? Innanzitutto dev'essere un formidabile 'scopatore'. E io non lo sono! Sono normale. Non sono infallibile, anzi molto fallibile''.  

Allora Marcello ci appare di nuovo come lo scolaro in castigo che facendo cenni alle spalle del maestro tiranno ridà una speranza di ironia bonaria e fascino dolce alla scolaresca annoiata e ammosciata.

·        25 anni dalla morte di Dario Bellezza.

Il ricordo dello scrittore. Dario Bellezza, 25 anni fa moriva il poeta amico di Pasolini. Daniele Priori su Il Riformista il 31 Marzo 2021. Addio cuori, addio amori sono i versi che corredano la sua tomba nel cimitero dei poeti, l’acattolico di Testaccio, a Roma, giardino all’ombra della Piramide Cestia. È lì che da venticinque anni riposa Dario Bellezza, ucciso dall’Aids, a soli 53 anni, il 31 marzo del 1996. Poeta scoperto da Enzo Siciliano e Alberto Moravia, Dario fu poi ammirato da Pier Paolo Pasolini che nel 1971, in occasione della silloge d’esordio Invettive e licenze (Garzanti), lo acclamò come «il miglior poeta della nuova generazione». Le parole incise sul sepolcro sono tratte dal Proclama sul Fascino (Mondadori) opera uscita postuma nell’aprile del 1996. «Diceva Dario Bellezza che non avrebbe più scritto versi. Non è stato così» annotava Luciana Sica su Repubblica quaranta giorni prima della scomparsa del poeta. E proprio quell’incipit, diventato poi la sua epigrafe, era di fatto il suo “addio alla vita”. Apprezzato come eccezionale traduttore dell’opera omnia di Arthur Rimbaud, è stato narratore enfatico, a tratti verboso, di una Roma che in quegli anni, a cavallo tra i Settanta e i Novanta, iniziava ad ammalarsi di realtà, perdendo l’innocenza e quel sogno d’eternità. La poesia di Bellezza, in tal senso, può ben sembrare una profezia neo-decadente di quello che la società e il mondo dopo di lui sarebbero diventati. Secondo lo scrittore e poeta Aldo Onorati, testimone tra quelli coi quali Dario condivise le frequentazioni della società letteraria capitolina del secondo Novecento, «la scomparsa di Bellezza ha in effetti segnato la fine di un ciclo». La morte fu uno dei topoi letterari prediletti sin dalla giovane età da parte dell’autore romano. Nel 1976 con la raccolta di versi dal titolo Morte Segreta (Garzanti) Bellezza vinse il prestigioso Premio Viareggio. «Così, senza sapere mai/ cosa stato sarei più che poeta/ se non m’avesse tanta morte/ dentro occluso e divorato/ da me prendo infernale commiato» scriveva nel componimento manifesto dell’opera. Nel 1972 aveva destato scalpore la pubblicazione del romanzo epistolare a tematica omosessuale Lettere da Sodoma (Garzanti) dal quale secondo Massimo Consoli, tra i fondatori del movimento gay italiano e primo amico di Dario già dalla metà degli anni Sessanta, «il dato che emerge è che la vita è brutta, indegna d’essere vissuta. Devo dire – sottolineava lo studioso – che riprendendo tra le mani questo libro dopo anni emerge ancor di più come lui fosse realmente pessimista di natura. All’epoca c’era l’entusiasmo di vivere insieme e raccontare quelle storie, scherzando e ridendoci sopra». Massimo Consoli annotava questi ricordi nel 2006, decennale della morte di Bellezza, in un volume “omaggio insolito” intitolato ironicamente Diario di un mostro (Anemone Purpurea) che lo storico aveva iniziato a scrivere proprio in parallelo alla stesura del romanzo bellezziano. «Dario è morto», confidava Consoli. «Subito dopo se ne è parlato perché aveva fatto scandalo la sua malattia e la sua fine ma poi è stato dimenticato. Un passaggio che potremmo definire fatale perché in effetti è accaduto lo stesso anche con autori più celebri. È come se debba esserci un periodo di decantazione, poi l’oblio, quindi il recupero». Nel 2015, infatti, pochi mesi prima del ventennale della scomparsa, è avvenuta la rinascita editoriale del fenomeno Bellezza, grazie a uno splendido Oscar Mondadori Tutte le poesie, raccolta completa dell’opera poetica bellezziana curata da Roberto Deidier. Tra i principali sostenitori di questo recupero necessario, il critico Antonio Debenedetti il quale in una intervista, riportata sempre nel Diario di un mostro ricordava: «Quando morì, la giornalista Giulia Massari mi disse che Dario ci sarebbe mancato molto e ciò che di più ci sarebbe mancata sarebbe stata la sua voce al telefono». Una voce che Debenedetti ricorda come «particolare, bella, abbastanza pungente, penetrante della quale mi giovavo molto durante le lunghe telefonate che avevano sempre come oggetto la letteratura. Non c’era volta che lui non parlasse di Elsa Morante. Era quasi ossessionato dall’idea di questa grande scrittrice. Probabilmente la amava molto e ne era molto intrigato. Probabilmente Elsa, con quel modo misterioso lo stimolava a superarsi, a essere più bravo di quanto già non fosse». Il poeta Elio Pecora lo definisce «erede della Morante ma anche di Baudelaire e dell’Ottocento. Nella sua poesia sono presenti anche delle grandi retoriche: parla di bellezza, virtù, colpa, rimorso, tutto in maiuscolo». Un Bellezza che secondo l’amica scrittrice Dacia Maraini è stato un uomo «innocente, perso e povero che faceva parte del mondo degli angeli. Qualche volta si è anche definito angelo e in un certo senso davvero lo è stato». Come nelle ore in cui il suo mentore Pasolini veniva assassinato all’Idroscalo di Ostia e Dario, da Barletta, aveva pronta una cartolina che poi non inviò mai, sorpreso dalla tragedia sopraggiunta. Sarebbe servita a rassicurare l’amico con una frase: «Non tutto è perduto! Qua ancora la gente sorride!». Lontano dalla loro Roma incupita e al sicuro dentro le parole nelle quali i poeti continuano a nascondersi e così a esistere.

·        2 anni dalla morte di Luciano De Crescenzo.

Michela Tamburrino per “la Stampa” il 18 agosto 2021. Senza Napoli? Non sarebbe successo. C'entra e non c'entra niente, forse sarebbe successo lo stesso tra persone d'amore. L'amicizia tra Luciano De Crescenzo, Renzo Arbore e Marisa Laurito, rigorosamente citati in ordine d'apparizione, ha radici partenopee lontane, non antiche, un modernariato da intenditori, proprio come è la storia dei tre. Il bello della loro unione, "sempre amici, mai amanti" precisa Arbore, si gioca sul filo del gioco, ironia, sottile sfottò. Correva la metà degli anni Settanta, Laurito faceva provini su provini dopo aver abbandonato il teatro di De Filippo. E così tentò anche per La Mazzetta scritta da De Crescenzo. Scritturata. Le prove si svolgevano a casa di Manfredi ed è lì che lei ha conosciuto questo signore dall'aria simpatica. Simpatizzarono subito. Flash back: con Arbore, De Crescenzo era già amico. Si erano conosciuti a Roma però le loro gesta erano già leggenda, amplificate da una bella ragazza che concedeva i suoi favori ai due, tanto l'ingegnere abitava a Roma, il giovane musicista a Sorrento e lei si organizzava senza troppi problemi. Anche lì, scoperta la coabitazione, colpo di fulmine di simpatia. «Luciano - racconta Arbore - era un incredibile raccontatore. Furono Roma e Capri testimoni delle nostre imprese che grazie a lui assumevano un valore letterario. "I fattarielli", li chiamava, storie affascinanti, in parte inventate e in parte vere. Ne parlai con Maurizio Costanzo, gli dissi che esisteva un bravissimo ingegnere che sapeva raccontare in modo esilarante. Costanzo aveva fame di questi personaggi che rimpolpavano una intera leva di umoristi preziosi per i suoi show. Figure oggi scomparse, sostituite da professionisti dello stand up. Luciano e io, amici fuori e dentro il set, due film insieme, programmi televisivi, tante risate, mai una lite». E siamo a Marisa Laurito che con De Crescenzo presto conosce Arbore. «Fu corrispondenza immediata, diventammo presto un trio - racconta Laurito -, le cene insieme, le canzoni al pianoforte. Avevamo lo stesso modo di giocare. Ovvero, per me era gioco e per Renzo erano i prodromi dell'improvvisazione televisiva. Comunque la nostra modalità di vita e di amicizia. Finalmente stavo trovando la mia strada professionale con un enorme riconoscimento, prima donna al Bagaglino, un contratto triennale meraviglioso. Ma Arbore mi propose Quelli della notte e io decisi per il sì, di pancia e non di cervello. Ninni Pingitore fu tanto signore da sciogliermi dal contratto del Bagaglino e io mi infilai nell'avventura televisiva che mai avrei abbandonato. Mi sono fortificata, con gli altri della trasmissione ci muovevamo come un gregge, gran divertimento». E poi i viaggi. «Partire con Renzo, al contrario di quanto avveniva con Luciano, era divertentissimo. Mai visto un uomo adorare i mercatini più di me, curiosare, comprare. Lui si definisce un urban explorer ed esplora anche i quartieri dimenticati. Arbore è uomo dai mille colori, comprende un'infinità di sfaccettature. Se porti Renzo in profumeria, ci resta più di te, prova, annusa, compra. Mi accompagnava a cercare stoffe ed era curiosissimo». De Crescenzo in viaggio? Un guaio passato. Prosegue Laurito: «Luciano non era allineato nei viaggi, era insopportabile. In Africa cercava i giornali alle 6 del mattino quando non si trovavano neppure nel pomeriggio. Mi chiamava all'alba: "E io che faccio, presto per la colazione, presto per i giornali. Mi annoio", un incubo. Però, che uomo affascinante, e che cultura e che simpatia». Insieme erano innamorati di una Napoli bella, dei mandolini, del Vesuvio, come forse non era di moda essere. Insieme perché fondamentalmente uguali. «Parlavamo lo stesso linguaggio - puntualizza Arbore - che si rifaceva alla tradizione napoletana che tutti cercavano di sconfessare. Parlavamo della "Napoli sì", imbevuta di amicizie, letteratura». Il peggior difetto di Marisa? «Spesso s' innamora di imprese faticosissime. Il pregio, la spontaneità, il sorriso?». E di Renzo? «S' intestardisce a fare il gateau di patate come dice lui, con il prezzemolo. E non esiste. La vera ricetta è la mia ma lui non si dà per vinto. Il pregio è il gran senso dell'amicizia. Una volta in viaggio in Spagna io mi ammalai. Una banale influenza che mi costrinse a letto. Lui prese una sedia e si mise ai piedi del letto con un libro. E non si mosse di lì. Io a pregarlo di uscire, di divertirsi, a giurare di non essere moribonda. Ma nulla, lui rimase lì, sulla sedia vicino a me». E come fa un foggiano a farsi napoletano? «Renzo ha studiato a Napoli, ha il cuore e lo spirito di Napoli. Ha un suo chic e una sua eleganza napoletana infinita. Quando andammo a cena in casa Agnelli, io e Luciano, più strafottenti e meno attenti alle regole lo facevamo disperare: "Non ci facciamo riconoscere", diceva a tutti noi. E a me specificatamente: "E tu non fare la napoletana!". Non ho mai capito che volesse dire. Io non faccio la napoletana, io sono napoletana, gli rintuzzavo ridendo». Allora i tre amici rimasti in due, hanno deciso di imbarcarne un quarto per rendere omaggio al terzo che non c'è più. Con il famoso sociologo Domenico De Masi, Arbore e Laurito stanno scrivendo un libro su De Crescenzo, ognuno raccontando il suo Luciano. Arbore s' infervora parlando dell'amico scomparso: «De Crescenzo era tanto ma la gente conosce solo l'umorista. Era stato un motonauta vincitore a più riprese della Napoli-Capri di velocità, era il cronometrista di Livio Berruti, era un raffinatissimo divulgatore di filosofia, soprattutto greca. È stato tra i primi conoscitori del computer tanto che spesso ci litigava, per spiegare la confidenza che aveva con la macchina. Era amatissimo dalle donne, bello, biondo, colto, sportivo. A Capri era idolatrato». E tanta idolatria è tornata, nei giovani. «Sono felice che stia vivendo una riscoperta. Ha venduto milioni di copie di tutti i suoi libri ed è uno degli autori più tradotti nel mondo ma è stato snobbato dalla critica e questo l'ha fatto soffrire. Sono felice che la Mondadori abbia insistito per questo omaggio che sarà, visto che ognuno di noi non sa che cosa scriverà l'altro. Luciano si sarebbe divertito», sostiene Arbore.

·        2 anni dalla morte di Jeffrey Epstein.

Dagotraduzione dal Daily Beast il 30 dicembre 2021. Lo sbalorditivo verdetto di colpevolezza contro Ghislaine Maxwell mercoledì è di cattivo auspicio per le possibilità del suo buon amico, il principe Andrea, di uscire indenne nel caso avviato contro di lui dalla vittima di Jeffrey Epstein Virginia Roberts Giuffre. 

Una fonte vicina ad Andrea, tuttavia, ha insistito sul fatto che il verdetto schiacciante, che probabilmente vedrà Maxwell incarcerata per decenni, «non dovrebbe influenzare affatto le prospettive del caso di Andrea». In effetti, secondo il Mirror, mentre gli avvocati di Andrea sono «bloccati in colloqui di emergenza» a seguito del verdetto di Maxwell, sembrano più determinati che mai a dipingere la stessa Giuffre come un fattore chiave degli abusi supervisionati da Epstein.

Il principe Andrea, dicevano già la settimana scorsa fonti a lui vicine, si sente «ottimista» sulla mozione presentata per archiviare il caso che sarà ascoltata la prossima settimana: «Andrea ha argomenti forti e crede nelle sue possibilità». 

Ma una fonte vicina a Giuffre ha detto al The Daily Beast: «Questo verdetto ovviamente rende il suo caso molto più difficile. La sua tesi è essenzialmente la stessa di Maxwell, cioè che queste giovani donne abbiano inventato tutto per soldi, che in realtà fossero tutte solo amiche e non ci fosse alcun traffico sessuale e che quindi le ragazze che fanno queste affermazioni sono bugiarde e cercatrici d'oro. È lo stesso copione. incolpare le vittime. Questo verdetto dimostra che non è possibile oscurare la schiacciante quantità di prove con queste cortine fumogene e che i giurati non sono preparati a incolpare la vittima».

Giuffre sta facendo causa ad Andrea e sostiene che lei stessa è stata oggetto di traffici sessuali con lui a casa di Epstein (e per il suo tramite). Andrea nega fermamente l'accusa e ha detto di non ricordare di aver mai incontrato Giuffre, nonostante la fotografia ampiamente diffusa di lui con il braccio intorno alla vita della donna quando era un'adolescente. 

«Questo non può essere un bene per Andrea», ha continuato la fonte di Giuffre. «Ma è difficile sapere cosa accetta e cosa no. Nessuna persona sana di mente sarebbe andata in televisione come ha fatto lui, negando semplicemente quella prova fotografica e mostrando una totale mancanza di rimorso». 

L'avvocato di Andrea, Andrew B. Brettler, ha presentato una mozione chiedendo che il caso federale contro il principe venga interrotto perché, dice, Virginia Giuffre è domiciliata in Australia. Ma fonti nel campo di Giuffre hanno liquidato la mozione come «roba piuttosto disperata».

La fonte di Giuffre ha dichiarato: «La domanda non è se vive o meno in America, la domanda è se ha mantenuto un legame con il Colorado. Lo ha fatto chiaramente; lei ha una patente di guida del Colorado, per esempio». 

Inoltre Giuffre è registrata per votare in Colorado, anche se i documenti legali di Andrew depositati questa settimana bollano la cosa come "sospetta": «Sembra che prima di presentare questa azione, ma ben dopo essere tornata in Australia, la signora Giuffre si sia registrata per votare per la prima volta in Colorado usando l'indirizzo di casa di sua madre a Penrose. La tempistica della registrazione degli elettori della signora Giuffre è sospetta e sembra essere una mossa calcolata nel tentativo di sostenere la sua pretesa di cittadinanza in Colorado nonostante si sia trasferita in Australia almeno un anno (se non quattro anni) prima».

Una fonte vicina a Giuffre ha detto che la sua squadra era ben consapevole della sistemazione di Giuffre, aggiungendo: «Questa è roba piuttosto disperata, mostra la mancanza di fiducia che hanno nei loro argomenti. Questo è un argomento stupido. Questo non è un argomento serio. Non credo che abbiano niente». 

Tuttavia, i legali di Andrea hanno reagito riversando disprezzo sulle affermazioni secondo cui la loro ultima mossa non era ben fondata, ridicolizzando come affermazioni inconsistenti da parte di Giuffre che fattori come il fatto che avesse una patente di guida del Colorado dimostrassero che aveva mantenuto un legame con lo stato.

In anticipo rispetto all'udienza della prossima settimana, il tribunale ha disposto che siano resi pubblici i termini dell'accordo tra Epstein e Giuffre nel 2009. Brettler ha costantemente sostenuto che i termini di quell'accordo liberano Andrea da ogni pericolo legale. 

Gli avvocati di Giuffre stanno prendendo molto più seriamente l'impatto potenziale dell'accordo del 2009 rispetto all'argomento sul domicilio, che può essere opaco. «Se si classificano i loro argomenti, penso che il peggiore sia che lei non vive in America. È sciocco. Il loro migliore è l’accordo del 2009. Non è molto buono, ma è il meglio che hanno», ha detto la fonte, «Il rilascio non è un argomento stupido. Non è corretto, ma è il tipo di argomento che piace fare agli avvocati».

La fonte di Giuffre ha detto che Giuffre era preoccupata per il processo Ghislaine Maxwell. «Come la maggior parte dei sopravvissuti, è molto concentrata sul processo Maxwell. È una giovane donna molto coraggiosa e determinata [che è stata] oggetto di numerosi attacchi da parte di persone facoltose e politicamente influenti. Si è alzata straordinariamente bene». 

Sebbene Giuffre non sia stata chiamata come testimone nel processo a Maxwell, il suo avvocato David Boies ha dichiarato al Daily Beast: «Questo è un grande risultato. È un grande giorno per Virginia e per tutti i sopravvissuti di Epstein e Maxwell. È anche un grande giorno per la giustizia e il sistema giudiziario. Il verdetto della giuria conferma il coraggio e l'impegno di tutti i sopravvissuti di Epstein e Maxwell, che contro ogni previsione per molti anni, si sono alzati per assicurarli alla giustizia. Questo è il loro verdetto, questa è la loro vittoria». Un portavoce del principe Andrea ha rifiutato di commentare.

Figlia prediletta, ereditiera innamorata, procacciatrice di ragazzine: le tre vite di Ghislaine (prima della caduta). Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 30 dicembre 2021. Nel 1991, a 30 anni, dopo la morte del padre, si era trasferita a New York per una svolta. Qui l’incontro con Epstein apre un nuovo capitolo nella sua esistenza. Fino a ritrovarsi pluricondannata per reati a sfondo sessuale. 

Alta, bella ricca, erede di una grande fortuna dalle dubbie origini, brillante studentessa di Oxford, poliglotta con tre passaporti, ora pluricondannata per una serie impressionante di reati a sfondo sessuale (potrebbero esserci altri procedimenti simili in arrivo). Ghislaine Maxwell, sessant’anni appena compiuti in carcere il giorno di Natale, in carcere è destinata a restare a lungo, ultimo strano capitolo della sua vita molto strana.

Papà ebreo (Robert Maxwell, carismatico self-made man dell’editoria e della finanza dai legami molto discussi con l’intelligence), mamma ugonotta, entrata di diritto per nascita e censo negli ambienti più ristretti e influenti del Regno Unito, reginetta delle discoteche londinesi anni ’80, amica single delle «Sloane Ranger» di Chelsea in cerca di mariti ricchi, Ghislaine lavora per papà Robert fino alla di lui morte, in circostanze misteriose, nel 1991 (annegato poco lontano dal suo yacht battezzato «Lady Ghislaine» in onore della figlia prediletta), presunto suicidio che lei considerò sempre, almeno in pubblico nelle rare interviste, un omicidio. 

Così nel 1991, a trent’anni, finisce la prima vita di Ghislaine Maxwell, con la morte del padre e il volo – sul Concorde, noblesse oblige – che la porta a New York, sua nuova casa.

A New York conosce il secondo uomo della sua vita, dopo suo padre. Chi si interessa di psicologia o semplicemente ha letto i classici greci non può non notare che Ghislaine Maxwell sceglie, tra mille uomini, un carismatico self-made man della finanza dai legami molto discussi con l’intelligence, Jeffrey Epstein che in qualche anno da supplente di matematica in un liceo di lusso di Manhattan (pur senza essere laureato, uno dei tanti misteri) diventa finanziere di lusso e superconsulente di una lista ottima e abbondante di miliardari. 

La coppia Epstein-Maxwell diventa subito famosa: frequentano i ricchi (Bill Gates, Trump), i nobili (il principe Andrea), i potenti (Bill Clinton), gli intellettuali, i grandi giuristi. Molto paparazzati, poco inclini alle interviste.

Lei nelle immagini ha sempre un mezzo sorriso un po’ leonardesco, enigmatica per abitudine visto che lavorare per papà Maxwell richiedeva discrezione assoluta anche per fare slalom tra gli scandali (i fondi pensioni dei dipendenti svaniti nel nulla per esempio). 

La storia d’amore Epstein-Maxwell a un certo punto finisce, ma lei continua a lavorare per lui con mansioni non chiare (come non chiari sono i rapporti di Epstein con molti ambienti) ma di sicuro, ci dice la verità processuale, lei funge anche da procacciatrice di ragazzine per le numerose case di Epstein – la grande palazzina nell’Upper East Side di New York con il mitico marciapiede riscaldato anche d’inverno, la villa di Palm Beach dove secondo le testimonianze dello staff succedeva di tutto, quella del sesto arrondissement a Parigi, la maxiresidenza nelle Isole Vergini a Little St. James. 

Ghislaine è inestimabile collaboratrice professionale, al di là del rapporto personale, perché sa muoversi in mondi molto diversi, la finanza e quello una volta si chiamava il jet-set, sicura nei modi, l’accento inglese da scuola di lusso (agli americani fa molto effetto) così diverso da quello di Jeff nato e cresciuto a Brooklyn (che rispetto a Oxford e allo yacht dei Maxwell sta proprio in un’altra galassia). 

E’ l’ambasciatrice del miliardario, e lo rimane anche nel 2005 quando per abusi su 36 ragazzine Epstein riceve in Florida una condanna grottesca a 13 mesi (avvalendosi di condizioni detentive talmente lasche, grazie ai permessi di lavoro e alla benevolenza dei secondini, che nessuno riesce tuttora a documentare effettivamente quante notti Epstein passò in carcere).

Dal 2006 Maxwell continua a lavorare per lui, ma è difficile vederli in pubblico insieme: sono gli anni della paziente ricostruzione – o meglio, del tentativo di ricostruzione – dei contatti con gli amici di «prima». 

Ma dal 2015 Ghislaine scompare dagli eventi pubblici, impegnata a gestire con i suoi legali le cause (Virginia Giuffre v. Maxwell del 2015, Sarah Ransome v. Epstein and Maxwell del 2017, e altre ne seguiranno) che presentano il conto, inizialmente soltanto in sede civile perché negli Usa non c’è l’obbligatorietà dell’azione penale come da noi, dei massaggi e delle feste private degli anni ‘90. 

Decenni di impunità finiscono di schianto: forse il mondo è (un po’) cambiato, forse qualcuno che li proteggeva dall’alto ha smesso di farlo. Difficile dirlo. Prima cade lui, arrestato nell’estate 2019 appena sceso dall’aereo che lo riporta a New York da Parigi (gigantesco errore dei suoi legali) e trovato morto nella sua cella il 10 agosto, ufficialmente è suicidio tramite impiccagione del detenuto più famoso d’America ma la scandalosa negligenza dei carcerieri e la mancanza provvidenziale di immagini video non finirà mai di alimentare teorie alternative.

Pochi giorni dopo l’ennesimo momento surreale: Maxwell viene fotografata in una tavola calda di Los Angeles, mentre legge «The Book of Honor: The Secret Lives and Deaths of CIA Operatives», saggio sugli agenti segreti che alimenta ulteriormente tutto quello che di brutto molti pensavano da decenni su suo padre e sul suo ex compagno (magari si trattò soltanto di una scelta infelice, però insomma). Nel 2021 tocca a lei. Il processo, la condanna, e altri guai appaiono all’orizzonte. Scrisse Hemingway: «Come sei andato in bancarotta?” In due modi. A poco a poco, poi all’improvviso».

Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 31 dicembre 2021. Un brivido di paura si è levato ieri dall'aula di tribunale a New York nella quale Ghislaine Maxwell è stata giudicata cinque volte colpevole per reati legati allo sfruttamento sessuale di ragazze minorenni. I primi a sentirlo sono stati i familiari della ex partner, nella vita e nel crimine, di Jeffrey Epstein, l'uomo per il quale ha reclutato e gestito per anni un racket di giovani vittime. Fuori dal palazzo però il gelo è sceso su una nutrita schiera di uomini, molti di loro potenti e famosi, che a quell'harem potrebbero aver attinto invitati da Epstein, il quale usava le ragazze per ottenere favori e soldi. 

Ghislaine è la prima dell'entourage del finanziere a prendere la via del carcere. Il giudice l'ha rispedita ieri nella stessa odiatissima cella a Brooklyn nella quale la donna ha atteso per quattro mesi la celebrazione del processo, e nella quale è stata costretta il giorno di Natale a passare il suo sessantesimo compleanno. E sotto osservazione stretta per evitare che si suicidi, come riuscì a fare Epstein dopo il suo arresto nell'estate del 2019. A breve sarà trasferita in una prigione molto più comoda in Connecticut dove sconterà la pena.

Nell'attesa che il giudice decida la durata della carcerazione, Ghislaine potrebbe essere tentata di attenuare la durezza della sentenza in cambio di alcune indiscrezioni sui clienti dei tanti love hotel che ha gestito con il suo ex socio. Mercoledì in aula è stata vista conversare durante le pause del processo con giornalisti della Abc, e le immagini hanno immediatamente dato il via ad illazioni. 

A New York i primi ad aver recepito il messaggio di allerta sono i legali del principe Andrew, figlio della regina Elizabeth e nono in fila nella successione al trono. Il suo nome è stato fatto solo due volte durante le udienze del processo Maxwell, ma in entrambi i casi le citazioni riguardavano la sua frequentazione di Virginia Giuffre, la donna che lo accusa di averla stuprata quando aveva sedici anni.

Martedì prossimo un tribunale civile di Manhattan dovrà stabilire se il reale britannico dovrà rispondere alle accuse che la Giuffre, oggi 38enne, gli muove dall'Australia, dove nel frattempo è andata a vivere. Gli avvocati che difendono Andrew opinano che il procedimento è illegittimo, in quanto per avviarlo la donna ha dichiarato un indirizzo in Tennessee al quale non vive da troppo tempo. Oltre il tecnicismo della decisione, un eventuale dibattito in aula, così vicino alla condanna della Maxwell, è molto pericoloso per l'accusato.

Quando la polizia fece irruzione nella villa del New Hampshire dove Ghislaine si era nascosta, trovò cassetti pieni di fotografie, tra le quali alcune che ritraevano la donna e Epstein in una dependance del castello scozzese di Balmoral, ospiti di Andrew, insieme ad un gruppo di giovani ragazze. Epstein amava esibire le sue conoscenze. Le pareti della villa di Miami erano decorate con foto che lo ritraevano accanto a Giovanni Paolo II e a Fidel Castro. Il pilota del suo aereo privato Larry Visoski, che l'ha servito per 25 anni, ha appena testimoniato di aver fatto volare sul Lolita Express in diverse occasioni Bill Clinton, Donald Trump e Kevin Spacey.

La lista si allunga con l'ex astronauta e senatore John Glenn, con il violinista Itzhak Perlman e il celebrity chef losangelino Adam Perry Lang, e molti altri componenti maschili del jet set internazionale. Donald Trump ha già messo le mani avanti: «Sicuramente non mancherà chi cercherà di gettarmi addosso anche l'accusa di pedofilo». Bill Clinton è rimasto in silenzio, anche quando si è saputo che Epstein ha firmato 17 volte in occasione di altrettante visite il registro della Casa Bianca durante il suo mandato. Il verdetto di mercoledì potrebbe essere solo la pietra miliare di una strada ancora lunga e tutta da percorrere.

(ANSA-AFP il 31 dicembre 2021) - Il giorno dopo la sentenza contro Ghislaine Maxwell, giudicata colpevole a New York per traffico sessuale di minori, la giustizia americana ha annunciato ieri sera l'archiviazione del procedimento contro le guardie carcerarie che non avevano sorvegliato il suo complice, il finanziere americano Jeffrey Epstein, la notte del suo suicidio nel 2019. 

In un ordine giudiziario del tribunale federale di Manhattan, il pubblico ministero Damian Williams ha firmato una "caduta d'accusa" contro Tova Noel e Michael Thomas. Le due guardie penitenziarie di un carcere di New York erano state incriminate tre mesi dopo la morte di Epstein per impiccagione nella sua cella il 10 agosto, prima del suo processo per crimini sessuali. I due agenti erano accusati di non aver effettuato il giro di sorveglianza nella notte tra il 9 e il 10 agosto 2019 e di essere rimasti nel loro ufficio, inchiodati su internet.

Da ansa.it il 30 dicembre 2021. Ghislaine Maxwell è colpevole: ha cospirato per anni insieme a Jeffrey Epstein per reclutare e abusare sessualmente di minorenni. Dopo quasi 40 ore di camera di consiglio la giuria chiamata a decidere il destino dell'ex socialite britannica ha raggiunto il verdetto. E ora Maxwell rischia di trascorrere decenni dietro le sbarre. 

I 12 giurati hanno rinvenuto l'ex compagna di Epstein - milionario morto suicida in carcere dove si trovava con l'accusa di sfruttamento minorile e pedofilia - colpevole di cinque dei sei capi di accusa mossi nei suoi confronti. L'unico su cui è stata graziata è quello di aver adescato una minorenne - che ha testimoniato sotto il falso di 'Jane' - e di averla fata viaggiare per motivi sessuali.

Alla lettura del verdetto, Maxwell si è dimostrata impassibile: non ha rivelato alcuna emozione, ha continuato a guardare fissa davanti a sé. Poi ha sorseggiato dell'acqua in un bicchiere di plastica. Ha lasciato l'aula 318 del tribunale di New York rapidamente e senza parlare: si è limitata solo a guardare i suoi fratelli presenti in aula. 

«Potete andare», ha detto il giudice Alison Nathan ai 12 giurati senza però fissare una data per la sentenza. Prima di abbandonare il tribunale uno dei legali di Maxwell, Bobbi Sternheim, ha chiesto a Nathan se si potevano predisporre le circostanze affinché la sua assistita potesse ricevere la terza dose del vaccino per il Covid. Il giudice ha risposto ferma: nel carcere dove si trova è disponibile.

Il pubblico ministero non ha invece nascosto la sua soddisfazione per il verdetto. «La strada per ottenere giustizia è stata lunga. Ma oggi giustizia è stata fatta. Voglio ringraziare il coraggio delle ragazze ora donne adulte che hanno deciso di uscire dall'ombra e venire in tribunale. Il loro coraggio e la loro volontà hanno reso questo risultato possibile», ha commentato il pm del Southern District of New York, Damian Williams.

Il processo a Maxwell - accusata fra l'altro di sfruttamento della prostituzione minorile e abusi sessuali perpetrati su minori, in reati commessi fra il 1994 e il 2004 - si è aperto il 29 novembre e ha visto protagonisti decine di testimoni. Nel dipingere Maxwell l'accusa non ha mai avuto alcuna esitazione: «è stata il braccio destro di Epstein», «sapeva bene quello che stava facendo», ha detto il pubblico ministero nella sua arringa finale, descrivendo come chiave nell'organizzazione criminale del finanziare pedofilo la figura della figlia dell'editore britannico Robert Maxwell proprietario del Daily Mirror e morto misteriosamente nel 1991. La difesa ha cercato invece di far passare la linea dell'inconsapevolezza e di dissociare la donna dalla figura del finanziere.

Con il verdetto Ghislaine accantona ogni speranza e dice definitivamente addio al suo vecchio e sfarzoso stile di vita, che l'ha vista per anni protagonista del jet set internazionale con alcune figure di spicco, dall'ex presidente americano Bill Clinton al principe Andrea, che sta cercando di chiudere in via definitiva l'azione civile avviata nei suoi confronti da Virginia Giuffre, la principale accusatrice di Epstein. 

Per Ghislaine quei tempi sono ormai passati così come il suo famoso taglio di capelli e gli abiti firmati, che lasciano il posto alla divisa carceraria e alla sua identificazione con un numero. Fino al processo è stata la detenuta 02879-509. 

Epstein: legale Maxwell, 'delusi, lavoriamo a ricorso'. Da ansa.it il 30 dicembre 2021. «Crediamo fermamente nell'innocenza di Ghislaine. Ovviamente siamo delusi dal verdetto. Abbiamo già iniziato a lavorare sull'appello». Lo afferma il legale della Maxwell, Bobbi Sternheim. La complice di Jeffrey Epstein rischia fino a 65 anni di carcere.

La Maxwell condannata e quel dettaglio in aula: "Comincerà a fare i nomi?" Gerry Freda il 30 Dicembre 2021 su Il Giornale. Ghislaine Maxwell è stata notata in aula mentre sorrideva e sembrava prendere contatti con un giornalista di Abc News per un'intervista.

Ghislaine Maxwell, abituale frequentatrice del jet set newyorchese nonché vero e proprio braccio destro dell'imprenditore pedofilo suicida Jeffrey Epstein, è stata dichiarata dal tribunale di New York, dopo quasi 40 ore di camera di consiglio, colpevole di traffico di minori. Mercoledì, alle ore 16:50, i 12 membri della giuria hanno infatti riconosciuto l'imputata britannica, dopo 18 udienze, responsabile di cinque dei sei capi di accusa mossi nei suoi confronti. In particolare, la figlia dell'editore britannico Robert Maxwell è stata dichiarata responsabile di avere reclutato e offerto agli appetiti sessuali di Epstein centinaia di ragazzine e di giovani donne.

La Maxwell, nell'aula 318 del tribunale newyorchese, ha ascoltato la sua condanna mostrandosi impassibile, continuando a guardare fissa davanti a sé e senza apparentemente cedere alla benché minima emozione. Lei ha poi abbandonato il palazzo di giustizia limitandosi a guardare i suoi fratelli presenti in aula e infine incamminandosi rapidamente e senza parlare. Tuttavia, il giorno prima che la complice di Epstein venisse condannata e lasciasse il tribunale, la stessa ha compiuto un gesto che viene attualmente considerato dai media internazionali come estremamente importante.

Martedì, l'avvocato dell'imputata, Leah Saffian, è stata infatti vista in aula da un cronista del Miami Herald intrattenere contatti con James Hill, giornalista e manager dell'emittente Abc News. ll legale della famiglia Maxwell sembrava pronto, ricostruisce il giornale della Florida, a presentare Hill a Ghislaine e, azzarda la medesima fonte, quest'ultima avrebbe "sorriso" al giornalista e si sarebbe detta pronta a concedergli un'intervista in cui "farà i nomi". Secondo la ricostruzione messa a punto dal Miami Herald, la complice di Epstein sarebbe ormai convinta che parlare con i media e quindi rivelare le identità di tutti i personagggi influenti che hanno preso parte alle orge criminali promosse dall'imprenditore pedofilo le potrebbe fare ottenere dai magistrati uno sconto di pena.

La condanna a carico della Maxwell non è stata ancora determinata sul piano degli anni di carcere da scontare, né la Corte ha fissato l'udienza dedicata al calcolo di questi ultimi. Ciononostante, secondo le previsioni dei media Usa, gli anni di prigione che la donna rischia possono arrivare, sommando le pene massime associate a ogni suo capo di imputazione, anche a 65. Tuttavia, il periodo di detenzione potrebbe effettivamente accorciarsi qualora lei iniziasse a collaborare con i magistrati rivelando i nomi di altri soggetti famosi coinvolti nella rete criminale di Epstein. Finora, i vip sospettati di avere avuto durature amicizie con l'imprenditore suicida e di avere partecipato ai suoi festini a luci rosse sono Bill Clinton, Donald Trump, il principe Andrea di Windsor, il principe del foro Alan Dershowitz e il ofndatore del brand Victoria's Secret Les Wexner.

Gerry Freda. Nato ad Avellino il 20 ottobre 1989. Laureato in Scienze Politiche con specializzazione in Relazioni Internazionali. Master in Diritto Amministrativo. Giornalista pubblicista. Collaboro con il Giornale.it dal 2018.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 16 dicembre 2021. Nei giorni precedenti il suo suicidio, Jeffrey Epstein ha detto ai suoi compagni di prigione che «le azioni sono come le donne». Lo ha rivelato Bill Mersey, il compagno di cella del pedofilo miliardario. Il finanziere caduto in disgrazia «non era in alcun modo preparato a gestire» la vita in prigione e ha persino mangiato il suo ultimo pasto dal pavimento e dormito con un calzino arancione della prigione sugli occhi. Mersey ha dichiarato al New York Post : «La prigione era in fermento con il nuovo criminale. Ha parlato di finanza, dicendo: "Le azioni sono come le donne. Devi studiare per capire cosa le rende felici. Osserva la loro reazione alle notizie internazionali. Poi puoi prevedere i loro movimenti ed è così che vinci"». Mersey, che in precedenza ha condiviso dettagli su Epstein in prigione, ha ora rivelato di aver visto una volta il suo compagno di cella tornare con abrasioni al collo, come se avesse cercato di impiccarsi. «Mi è sembrato depresso. Suicida. Si è seduto sul pavimento nudo, con le spalle alla cuccetta, mangiando il cibo della prigione da un piatto di polistirolo». «Gli ho chiesto: "Cosa cazzo stai facendo? Perché mangi per terra?". "È solo più facile in questo modo". Come se quella notte fosse in qualche modo deciso ad andare incontro al suo destino. Gli era stata negata la libertà su cauzione e stava affrontando la realtà del resto della sua vita dietro le sbarre». Mersey ha detto che un altro prigioniero ha sentito il rumore di lenzuola strappate la notte in cui il pedofilo è morto, e dice che non ha dubbi che si è tolto la vita. Mersey ha prestato servizio per un anno al Metropolitan Correctional Center nella parte inferiore di Manhattan dopo essersi dichiarato colpevole di evasione fiscale federale. In prigione, si è iscritto come "accompagnatore detenuto" - un programma MCC in cui i detenuti completano quattro ore di addestramento e poi fanno turni 24 ore su 24 per osservare i compagni di cella in odore di suicidio, per il quale vengono pagati solo 12 centesimi all'ora. È stato il suo lavoro che ha portato Mersey a diventare una delle poche persone che hanno avuto contatti diretti con Epstein mentre era in prigione. Intanto oggi è ripreso il processo a Ghislaine Maxwell.

Il caso Epstein e il processo a Ghislaine Maxwell: vittima o carnefice? Tommaso Pellizzari su Il Corriere della Sera il 17 dicembre 2021. Quello dell’imprenditore miliardario newyorkese pedofilo e amico di molti potenti, trovato impiccato in prigione il 10 agosto 2019 è uno dei casi più discussi e indagati degli ultimi anni. Adesso alla sbarra è finita la sua storica compagna. Viviana Mazza e Marilisa Palumbo spiegano se nuove e decisive verità sono venute a galla (anche sul controverso rapporto tra i due) o se per le vittime è un’altra occasione persa per avere giustizia. Abusi sessuali, ricchezza, potere e una morte misteriosa: nella vicenda di Jeffrey Epstein non manca nulla. L’imprenditore miliardario newyorkese pedofilo, trovato impiccato in prigione il 10 agosto 2019 è uno dei casi più discussi e indagati degli ultimi anni. Per questo, il processo a Ghislaine Maxwell, sua storica compagna (ma anche molto di più) in corso a New York, è stato visto da molti come l’occasione per fare luce sui tanti aspetti che ancora restano da chiarire. Adesso che il dibattimento si avvia alla conclusione, Viviana Mazza e Marilisa Palumbo della redazione Esteri ci spiegheranno in questo episodio del podcast «Corriere Daily» se nuove e decisive verità sono venute a galla (anche sul controverso rapporto tra Epstein e Maxwell) o se, per le vittime degli abusi, si è trattato di un’altra occasione persa per avere giustizia.

Dagotraduzione dal Guardian il 16 dicembre 2021. Gli avvocati di Ghislaine Maxwell hanno chiesto al giudice di consentire a diversi testimoni della difesa di testimoniare in forma anonima nel suo processo per traffico sessuale, che riprenderà oggi nel tribunale federale di Manhattan. Il team legale di Maxwell ha affermato che alcuni testimoni potrebbero essere così restii a testimoniare che potrebbero non presentarsi a meno che non siano autorizzati a deporre sotto pseudonimi. L'avvocato difensore Christian Everdell ha dichiarato: «Siamo stati in contatto con un certo numero di nostri potenziali testimoni e stiamo già ricevendo richieste - e penso che queste siano richieste valide - che almeno alcuni di loro testimonino in modo anonimo». Everdell ha detto che senza l'anonimato assoluto, la loro testimonianza potrebbe essere «sotto una sorta di protezione, protezione del nome, che si tratti di uno pseudonimo o di un nome...». «Sappiamo tutti che questo caso ha ricevuto molta attenzione e che le persone che stanno testimoniando qui potrebbero ricevere molte attenzioni indesiderate, specialmente se testimoniano per conto della signora Maxwell», ha continuato. «E vorrebbero poterlo fare, almeno alcuni di loro, con una sorta di protezione anonima». Alla vigilia della ripresa del processo, quando la squadra di Maxwell dovrebbe iniziare a presentare il suo caso di difesa, non è chiaro come il giudice Alison Nathan si pronuncerà sulla questione. Bobbi Sternheim, il principale avvocato di Maxwell, ha dichiarato in una lettera del 12 dicembre: «La decisione della Corte su questo problema potrebbe influire sulla volontà di questi testimoni di testimoniare, compromettendo così il diritto della signora Maxwell di presentare la sua difesa...». Maxwell, 59 anni, è sotto processo per sei capi di imputazione in relazione al suo presunto coinvolgimento nell'abuso sessuale di ragazze adolescenti da parte di Jeffrey Epstein. È stata arrestata in una lussuosa tenuta del New Hampshire nel luglio 2020. Maxwell sostiene di essere innocente e nega ogni illecito. Epstein, condannato per reati sessuali, i cui influenti e ricchi associati includevano il principe Andrea e gli ex presidenti degli Stati Uniti Donald Trump e Bill Clinton, si è suicidato in una prigione federale di Manhattan più di due anni fa, mentre aspettava di essere processato. Gli avvocati di Maxwell hanno sostenuto che Nathan ha permesso a tre dei quattro accusatori di testimoniare in forma anonima o per nome. Nathan ha giustamente sottolineato che «non ha rotto nulla nel consentire l'anonimato» e che questo era «territorio ben solcato»: gli accusatori di abusi sessuali sono regolarmente autorizzati a testimoniare sotto forma di pseudonimo. Tuttavia, l'insolita richiesta di anonimato del testimone della difesa è in contrasto con i precedenti tentativi degli avvocati di dissipare l'idea che lei sia una figura sfuggente e di considerare Maxwell - la figlia del barone della stampa britannica Robert Maxwell - come normale rispetto al suo background e alle sue esperienze di vita. «Avete sentito molte cose negative su Ghislaine Maxwell e le prove mostreranno molte cose eccezionali su Ghislaine Maxwell - ben istruita, molti viaggi, laureata a Oxford», ha detto Sternheim nella sua dichiarazione di apertura. «Ha socializzato con persone straordinarie, sa pilotare un elicottero, parla numerose lingue e ha lavorato per tutta la sua vita da adulta». «Lei viene etichettata come la ragazza ricca, la socialite. Ma il background privilegiato, lo stile di vita confortevole, lo status: possono essere cose che possono facilmente spuntare la casella sbagliata, ma non sono crimini…» ha detto Sternheim. Sternheim ha affermato in una lettera che "molti" testimoni della difesa «provengono da località fuori dal distretto e dall'estero». La difesa voleva chiamare molti degli avvocati che rappresentano gli accusatori di Maxwell, per porre loro domande "pertinenti al movente e al pregiudizio". Sternheim ha anche affermato di aspettarsi che la presentazione del caso della difesa durerà fino a lunedì, il che significa che le discussioni conclusive potrebbero aver luogo già martedì. Gli avvocati di Maxwell hanno espresso preoccupazione per questa cronologia. Dopo le discussioni conclusive, Nathan dovrebbe istruire i giurati su come valutare il caso, il che significa che potrebbero iniziare le deliberazioni poco prima che ci sia una pausa natalizia di due giorni. «Mettere la giuria in una posizione in cui hanno praticamente quattro ore per deliberare prima dell'inizio delle festività natalizie è molto pericoloso...» ha detto Sternheim. «Capisco la preoccupazione. E vedremo dove saremo arrivati», ha detto Nathan. «Quello che non voglio sentire è che se le prove si chiudono lunedì, si pensi di arrivare fino al 27 per le discussioni conclusive. Sicuramente non accadrà».

Francesco Semprini per "La Stampa" il 4 dicembre 2021. «Ricordati di non sentire nulla, non vedere nulla e non dire nulla se non per rispondere a una nostra domanda». Era questo il rito intimidatorio con il quale Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell istruivano il personale che prendeva servizio nelle magioni del finanziere «predatore» a Palm Beach, New Mexico, New York e sull'isola privata nelle Isole Vergini americane. È quanto emerso nelle prime battute del processo alla sodale del finanziere 66 enne travolto da uno scandalo sessuale e accusato di abusi, sfruttamento della prostituzione e traffico di minori, trovato morto impiccato nella sua cella del Metropolitan Correctional Center di Manhattan, dove era recluso in attesa del processo. Nel quarto giorno del processo federale di Maxwell per sfruttamento della prostituzione minorile ed altri capi di imputazione per cui rischia sino a settanta anni di carcere, è stato ascoltato l'ex domestico di Palm Beach, Juan Alessi. Dal suo racconto emerge il profilo di Maxwell come una despota che faceva richieste quasi impossibili. Ordinava ai dipendenti della villa di tenere gli occhi bassi, di non parlare a meno che non fossero stati interpellati e di ripulire e mettere a posto i giocattoli sessuali sparsi per casa e di cui si faceva ampio uso. Nessun dettaglio veniva lasciato al caso, dall'assicurarsi che ogni scatola di fazzoletti fosse piena, al controllo dei buchi nella recinzione in modo che lo Yorkshire di Maxwell, «Max», non scappasse. La donna, prima fidanzata di Epstein e poi complice nel crimine, era il suo «numero 2» e gestiva le proprietà occupandosi di assunzione e licenziamento del personale. Per instillare ai sottoposti gli imprescindibili doveri aveva compilato un libretto di istruzioni di 58 pagine che includeva elenchi di controllo delle attività che dovevano svolgere ogni giorno per ogni singola stanza delle case. «Era degradante il modo in cui mi trattava», ricorda Alessi che ha lavorato per Epstein e Maxwell dal 1990 al 2002. L'uomo descrive un ambiente disfunzionale dove le donne andavano e venivano a tutte le ore del giorno e della notte e dove lui doveva cambiare asciugamani e lenzuola almeno tre volte al dì. Racconta di aver visto «centinaia» di donne passare per la villa di Epstein nei 12 anni di servizio. Prendevano il sole a bordo piscina in topless e venivano chiamate a turno per fare massaggi a Epstein, mentre la maggior parte sembrava avere più di 20 anni, Alessi ne ricorda due molto più giovani. Una era «Jane», pseudonimo utilizzato dall'accusa per una delle vittime di Maxwell da lei accusata di complicità in molestie. «Era una ragazza straordinariamente bella», ha detto l'ex dipendente, spiegando alla giuria che Jane inizialmente ha visitato la villa con sua madre, e poi ha iniziato a venire da sola. Alessi l'avrebbe presa a scuola e portata alla villa molte volte, oltre ad accompagnarla all'aeroporto, dove si imbarcavano sul jet privato di Epstein, il «Lolita» insieme allo stesso finanziere, a Maxwell e alla sua assistente di lunga data, Emmy Tayler. Un'altra ragazza che Alessi ricordava spesso presente a casa era Virginia Roberts, «sembrava avere circa 14 o 15 anni, ed era una visitatrice abituale». Così come Roberts Giuffre adescata per strada e reclutata nell'esercito delle sfruttate. La ragazza in precedenza aveva citato Maxwell in tribunale civile sostenendo che lei ed Epstein l'avevano fatta prostituire con uomini potenti, tra cui - dice - il principe Andrea e l'avvocato Alan Dershowitz. Entrambi gli uomini hanno negato le accuse. È però la lista di amicizie e frequentazioni illustri di Epstein a far tremare una serie di potenti dentro e fuori gli Stati Uniti. Personalità in alto come dimostrerebbe le almeno 17 visite alla Casa Bianca nei primi anni della presidenza di Bill Clinton, fatte dal finanziere. A rivelarlo sono i registri dei visitatori secondo cui in alcune occasioni Esptein è stato al 1600 di Pennsylvania Avenue anche due volte in un giorno. In un'occasione, il 29 settembre 1993, Epstein ha partecipato a un evento in cui è stato fotografato con Maxwell assieme a Clinton. Secondo il Daily Mail, Epstein è tornato alla Casa Bianca 12 volte nel 1994, ma dai documenti ufficiali sembra che il presidente, la maggior parte delle volte, non fosse in sede.

Gianni Riotta per "La Stampa" il 4 dicembre 2021. Che l'ex presidente Bill Clinton volasse sull'aereo privato dell'imprenditore Jeffrey Epstein, morto suicida in carcere negli Stati Uniti nel 2019 dopo gravi accuse di reati sessuali, non ha stupito la società del gossip a New York. Clinton, secondo la testimonianza del pilota Larry Visoski, sarebbe stato a bordo con Epstein, noto per un giro di ragazze, anche minorenni, molte delle quali gli imputano di esser state offerte come preda, a ignobili ospiti di alto rango, incluso il principe inglese Andrew, nel 2002 e 2003. La Fondazione che fa capo a Clinton nega ogni addebito, precisando che il presidente avrebbe solo fatto «autostop», usando il jet di Epstein per attività umanitarie. Con lui, una serie di vip, alcuni scomparsi, dal senatore e astronauta John Glenn, al leader democratico George Mitchell, all'attore Kevin Spacey, e da tutti smentite, sdegno, sorpresa, imbarazzo. Come sempre, quando la cronaca sessuale incontra la politica, giornali, tv, web si riempiono di pettegolezzi, insinuazioni, memorie, in Italia capitò con lo scandalo Montesi, che ruppe il plumbeo conformismo democristiano del dopoguerra, in Gran Bretagna con l'affaire del ministro John Profumo e della bellissima ballerina Christine Keeler, amante di una spia russa. Ora Washington torna a sfogliare il tomo «Sex with presidents» di Eleanor Herman, o il suo vicino di scaffale, «Sex lives of U.S. presidents» di Nigel Cawthorne e il risultato è eterno: una nazione nata puritana, che vive negli Anni Sessanta la liberazione sessuale della rivista Playboy dell'eccentrico Hugh Hefner, per poi affrontare un drammatico esame di coscienza, dal femminismo Anni Settanta, al movimento Lgbt, nato con la rivolta gay al bar Stonewall a New York, 1969. A lungo, si sussurrò che Eisenhower, amato presidente repubblicano 1953-1961, da generale a capo dello sbarco in Normandia, avesse avuto una relazione con la sua attendente, ma in quegli anni di silenzi, chi mai avrebbe osato discuterne in un talk show? I giornalisti della capitale erano al corrente di ogni avventura del senatore John Kennedy, eletto presidente nel 1960, alcuni, come il giovane Ben Bradlee, futuro direttore del Washington Post che costringerà Nixon alle dimissioni nel 1974, ne condividevano il libertinaggio, ma a patto di omertà maschile. Il successore di Kennedy, Lindon Johnson, texano, ruspante, più a suo agio in un ranch che non nel «Gucci Gulch», la Valle Gucci, soprannome di un corridoio del Senato Usa, affollato da lobbisti con ai piedi i mocassini di lusso italiani, non aveva certo i modi del Casanova. Al contrario, ricorda Robert Caro, lo storico autore di una monumentale biografia di Johnson, quattro volumi, tremila pagine e ancora incompleta, il presidente democratico chiamava il proprio pene «Jumbo», fiero delle sue dimensioni, esibendolo agli amici - come al vicepresidente Humphrey, seduto sul water del bagno - e, perfino in aula al Senato, non era alieno da manovre con le mani in tasca davanti ai colleghi. Di Clinton, la storia registra il sesso con la stagista Monica Lewinsky, con la saga dell'inchiesta repubblicana, e prima ancora le rivelazioni di Gennifer Flowers, fino ad accuse aperte di molestie da governatore dell'Arkansas. E anche il presidente Trump, finito in prima pagina per l'incitamento osceno «le donne van prese per», è stato bersaglio di titoli e inchieste per rapporti sessuali, riuscendo però, come Clinton, a non riceverne danni politici. Ma i tempi cambiano e il processo che si svolge ora a Ghislaine Maxwell, enigmatica compagna di Epstein, per decenni stella del jet set anglosassone, figlia dell'imprenditore Robert Maxwell, parlamentare britannico, sospettato di spionaggi e truffe, morto misteriosamente in alto mare, getta ombre sinistre sul giro bene tra Londra, Washington e Manhattan. Maxwell, che tante donne indicano come reclutatrice di minorenni per «massaggi» e rapporti indebiti con Epstein e la sua corte, avrebbe poi coinvolto il principe Andrea e Clinton, vedremo cosa il dibattimento chiarirà. L'occasione è troppo ghiotta per non citare l'amante misteriosa addebitata a Bush padre, i vizi privati del virtuoso in pubblico Wilson, i figli dei padri della Patria con le schiave, l'amante di Gerald Ford, forse spia tedesca, Andrew Jackson che invita due prostitute a una festa, scandalizzando la buona società in Nord Carolina, XIX secolo. La Storia a luci spente, resta sempre lì, a incuriosire i posteri. 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 3 dicembre 2021. Jeffrey Epstein è entrato alla Casa Bianca almeno 17 volte quando era in carica Bill Clinton. A rivelarlo è il Daily Mail, che ha ottenuto in esclusiva i registri dei visitatori della residenza del presidente. Epstein ha visitato la prima volta Bill Clinton all’Executive Mansion un mese dopo la sua elezione nel gennaio del 1993. I registri mostrano che il finanziere, morto suicida nel 2019, si è presentato altri 14 giorni diversi, e in tre diverse occasioni per due volte in un solo giorno. Epstein è stato invitato da alcuni dei più anziani consiglieri e aiutanti di Clinton. I documenti rivelano che la stragrande maggioranza di visite Epstein affermava erano alla West Wing, il che significava che c'era una forte probabilità che incontrasse Clinton. La rivelazione pone una nuova luce sull'amicizia di Clinton con Epstein, che era noto per aver fatto volare l'ex presidente sul suo jet privato - noto come "Lolita Express" - dozzine di volte dopo che Clinton aveva lasciato l'incarico. Quando Epstein si è impiccato in prigione dopo il suo arresto nel 2019, Clinton ha affermato di non sapere «niente dei terribili crimini» compiuti dal suo amico. I crimini di Epstein non sono diventati di dominio pubblico fino al suo arresto nel 2006, ma le visite alla Casa Bianca sarebbero avvenute nello stesso periodo di tempo in cui la sua presunta signora Ghislaine Maxwell è accusata di aver reclutato ragazze minorenni per lui. Maxwell, 59 anni, è accusata di essere il procuratore di Epstein tra il 1994 e il 2004, un periodo di tempo durante il quale il pedofilo sembrava essersi guadagnato la fiducia dell'uomo più potente della nazione. La storica vittoria di Clinton su George Bush nelle elezioni del 1992 gli ha aperto la strada per due mandati alla Casa Bianca e per diventare uno dei Democratici di maggior successo nella storia degli Stati Uniti. Nel frattempo Epstein si stava ancora affermando come manager finanziario e aveva lasciato la Towers Financial, un'agenzia di recupero crediti che sarebbe crollata nel 1993 a causa di uno schema Ponzi da 450 milioni di dollari, il più grande degli Stati Uniti all'epoca. Steven Hoffenberg, che gestiva l'azienda con Epstein, è stato incarcerato per 20 anni. Epstein non è mai stato arrestato né accusato.

Jacopo Iacoboni per lastampa.it il 2 dicembre 2021. È accusata di otto capi d'accusa per traffico di sesso e altri reati, comprese due accuse di spergiuro che saranno giudicate separatamente, rischia ottant’anni di carcere, c’è chi dice – non è confermato – che in carcere abbia subito lei stessa violenze e molestie, eppure, entrando in aula mercoledì mattina a New York, indosso un maglione a collo alto e pantaloni neri a tubo a coprire un volto ormai segnato, Ghislaine emanava ancora più di una scintilla della Ghislaine Maxwell che fu. “Ghislaine”, chiamata così, solo col nome, come un’ostentazione di appartenenza e un segno di potere: semplicemente, la donna più affascinante di Londra e di New York, e forse anche la più noir e inquietante. Ghislaine, che era amica del principe Andrea, Bill Clinton e Donald Trump. Ghislaine, figlia di un magnate dell’editoria ricchissimo e vicino ai servizi segreti di mezzo mondo, dal Mossad agli Stati Uniti, passando per la Russia, morto annegato in circostanze misteriose a Tenerife quando lei era appena maggiorenne, e volò da Londra alle Canarie per andare a riprendersi il corpo di quel padre che l’amava più di tutti gli altri suoi (numerosi) figli, e l’aveva allevata a stranezze e megalomanie, lasciando infine la famiglia nei guai finanziari dopo anni sfavillanti. Ghislaine Maxwell, che a un certo punto era diventata non si sa se la compagna o il guru o il mentore o, secondo le accuse, la procacciatrice di adolescenti, di Jeffrey Epstein, giovane finanziere rampante nella New York degli anni ottanta, e poi novanta, suicidatosi i prigione a 66 anni per sfuggire a un processo per traffico minorenni che ora, invece, è diventato il “processo a Ghislaine”, Ghislaine la senza morale, secondo quegli stessi tabloid che il padre possedeva (Robert Maxwell era stato, tra l’altro, editore del Daily Mirror). Se a New York volevi essere qualcuno, ha ricostruito Craig Unger in uno dei capitoli di Kompromat, non potevi non conoscere Ghislaine, soprattutto, e Jeffrey, talentuosi, belli, spregiudicati tardo-ventenni e poi trentenni che sapevano tutto della dolce vita newyorchese, come imporla, procacciarla, usarla. Dissero di lei: in qualunque stanza a New York, non importa quanto grande fosse la stanza, la più brillante e interessante e affascinante di tutti era sempre lei: Ghislaine. Era lei, dice l’accusa, che portava le ragazze a Epstein, e al suo giro di ricchi e potenti. Epstein, forse, raccoglieva anche dossier, filmando con telecamere, che erano ovunque nelle sue case, orge e sesso, e accumulando materiale per ricattare l’America oggi, quell’America che ora Ghislaine può portare con sé alla sbarra, nel processo che si è aperto ieri e sta facendo impazzire non solo i tabloid. È comparsa la prima testimone dell’accusa, “Jane” (nome inventato, si tratta di un’attrice ventiduenne ormai conosciuta, che vuole preservare la sua reale identità), che ha subito calato il racconto in quel mix di sesso, potere, orge, che tutti rigettano ma tutti bramano e si aspettano e in sostanza vogliono da quel che resta del mito di Ghislaine. “Jane” ha ricostruito in aula la prima volta che è stata abusata da Epstein, ha detto che era «congelata dalla paura», ha ricordato che la portavano – lui e Ghislaine – in una sala massaggi dove entrambi hanno approfittato di lei, a volte c’erano altre ragazze («non so di che età») c’erano «orge di sesso orale con altre giovani donne e Maxwell», ha aggiunto la testimone, nominando cinque ragazze, Ghislaine le strizzava i capezzoli, Epstein le chiedeva di «cavalcarle la faccia», e si masturbava strofinandosi su di lei nel divano con la piscina accanto, poi appena finito correva in bagno a pulirsi e tornava come se nulla fosse successo. Epstein, ha narrato “Jane”, la portò a Mar-a-Lago e la presentò a Donald Trump, non ancora presidente americano, quando la ragazza aveva 14 anni. La testimone giura che il principe Andrea (un noto amico di Ghislaine) era su un volo insieme a lei, in un aereo di Epstein, anche se non ha accusato né Trump né il principe di condotte improprie o di molestie. E però lei, la grande dama nera accusata di ogni orrore, nega di essere colpevole, e non ha mai piegato la testa anche in mesi di durissima detenzione. Maxwell si è dichiarata non colpevole, e i suoi avvocati hanno prima detto che i procuratori la stanno usando come capro espiatorio per i presunti crimini di Epstein, poi iniziato un contro-interrogatorio dal quale sono emerse incongruenze, reticenze, errori, nel racconto della testimone. È  stato un metodico esame incrociato. Hanno tirato fuori documenti dell'FBI del 2019 e 2020. Hanno detto che la ragazza aveva riferito al governo che la sua memoria era annebbiata, sul particolare se Maxwell fosse presente quando Epstein la molestava e se l'avesse mai toccata. Hanno prodotto altri documenti secondo i quali “Jane” ha affermato che nessun abuso si è verificato durante una visita al ranch di Epstein nel New Mexico. Jane però ha detto che queste sue frasi non le ricordava. Che non erano state registrate, «questa roba era solo qualcuno che prendeva appunti, e molti di questi non sono corretti». «Non ricordo di aver detto ciò che è scritto qui». La difesa di Ghislaine l’ha fatta apparire come un’attrice consumata, e oltretutto specializzata in ruolo di mentitrici o puttane. Come se la vita e i film coincidessero, come non ci fosse più distinzione tra ciò che fai e ciò che sei, figurarsi ciò che racconti vent’anni dopo. «Puoi essere dispiaciuto per qualcuno, e nello stesso tempo volere comunque che affronti la giustizia», ha detto John Sweeney, autore di un podcast investigativo su Ghislaine, Hunting Ghislaine, decisivo per capire la psicologia di Ghislaine, come sia stata cresciuta nel mito di un padre megalomane che lei adorava, unica riadorata tra i figli, a Headington Hill Hall, villa di 51 stanze vicino a Oxford, dove suo padre si era fatto raffigurare come Sansone che butta già i muri di Gaza. Il padre di Ghislaine, narra il podcast, che faceva la pipì dall’elicottero sul suo stesso edificio del Daily Mirror, e che quando riceveva le persone, per far capire quanto le disprezzasse, si faceva sentire mentre andava al bagno a evacuare. Ghislaine, nata e cresciuta nella convinzione sostanziale di potere tutto, non immorale, semplicemente: oltre, compreso resistere al carcere duro e alle accuse di essere la più grande maîtresse di adolescenti del mondo. 

Dagotraduzione dal Daily Mail l'1 dicembre 2021. Continua a New York il processo a Ghislaine Maxwell. Ieri, a testimoniare, è stata Jane, nome di fantasia per la prima donna ad aver sporto denuncia contro Epstein e Maxwell. La donna ha raccontato che il primo contatto sessuale con Epstein avvenne quando lei aveva 14 anni, e che Ghislaine Maxwell era nella stanza durante il presunto abuso. Jane ha raccontato al procuratore Alison Moe che Epstein le avrebbe «fatto cavalcare la sua faccia», «pizzicargli i capezzoli» e ha descritto il primo incontro sessuale, che è avvenuto nel 1994, durante il quale l’uomo l’avrebbe portata in piscina «continuando a masturbarsi su di me». Jane ha detto che Epstein le aveva chiesto cosa «volesse fare» della sua vita, lasciandole scegliere tra essere una cantante d’opera, un’attrice o una modella. «Ha detto: ‘conosco tutti, agenti, fotografi, posso far accadere le cose ma devi essere pronta per questo». «La conversazione – ha continuato Jane – è finita bruscamente, eravamo nel suo ufficio e lui ha detto: ‘seguimi’». A quel punto sono usciti fuori, ed Epstein si è messo seduto un divano sul lato destro della piscina. «Si è tirato giù i pantaloni, mi ha tirato su di sé e ha continuato a masturbarsi su di me. Poi si è alzato ed è andato in bagno, si è ripulito e ha agito come se non fosse successo niente». «Ero congelata dalla paura. Non avevo mai visto un pene prima, figuriamoci qualcosa del genere. Ero terrorizzata e mi sentivo schifosa. Mi sono vergognata». Nonostante quest’episodio ha continuato a passare del tempo con Epstein e Maxwell e poco dopo ha avuto il suo primo incontro sessuale con Maxwell. Epstein e Maxwell stavano parlando quando «all'improvviso hanno detto “seguimi" e l'hanno portata nella camera da letto di Epstein nella sua casa di Palm Beach. Sono entrati in camera da letto e si sono spogliati. Hanno iniziato ad accarezzarsi l'un l'altro e a ridacchiare casualmente», ha detto Jane. «Ero lì in piedi e lui mi ha chiesto di togliermi il top e poi le loro mani [erano] ovunque e Jeffrey ha iniziato a masturbarsi e Ghislaine lo stava strofinando, baciandolo e accarezzandolo».   Jane ha detto che Maxwell si è comportata «come se fosse del tutto normale». Ero confusa. Quando hai 14 anni non hai idea di cosa stia succedendo». Il pubblico ministero ha chiesto: «Maxwell ha toccato il tuo corpo?». «Sì», ha risposto Jane, dicendo che l'abuso sessuale è avvenuto «ogni volta che ho visitato la sua casa». Quando le è stato chiesto se Epstein l'avesse toccata, Jane ha risposto: «Sì. Da tutte le parti». La donna ha parlato con una voce forte, profonda, che ha vacillato solo quando ha descritto in modo dettagliato gli atti sessuali che Epstein e Maxwell avrebbero commesso nei suoi confronti.  Maxwell non sembra aver reagito a nessuna delle testimonianze della donna, neanche quando Jane l'ha indicata in tribunale per identificarla. Visto che le sue visite a casa di Epstein diventavano più regolari, Jane ha detto che sia Epstein che Maxwell l’hanno istruita su come massaggiarlo. Jane ha detto: «Gli piaceva molto forte, strofinarsi le spalle molto forte, torcere i capezzoli con forza», raccontando in particolare che a Epstein piaceva che gli strizzasse i capezzoli mentre abusava di lei. Alla domanda su come fosse il comportamento di Maxwell durante questi episodi, Jane ha detto: «Sembrava molto casual, era molto normale. Non era un grosso problema». Moe ha chiesto se Epstein usasse giocattoli sessuali, dicendole: «Mi dispiace chiedertelo, ma potresti per favore descrivere cosa è successo». Jane sembrava sul punto di piangere mentre diceva: «Gli piacevano i vibratori, erano di diverse dimensioni, persino un massaggiatore per la schiena. Me lo metteva sulla vagina, anche se gli dicevo che faceva male». Alla domanda su dove Maxwell l'abbia toccata, Jane ha detto che era «principalmente il mio seno». Moe ha chiesto dove a Epstein piacesse essere toccato e Jane ha detto che era «dalla testa ai piedi» e che questo accadeva durante «ogni visita a casa sua». Moe ha chiesto se ci sono stati momenti in cui altre persone hanno preso parte al sesso e Jane ha detto di sì, aggiungendo che di solito accadeva nella stanza dei massaggi o nella camera da letto della casa di Epstein a Palm Beach. Ha detto che Maxwell incoraggiava gli altri a «cominciare a spogliarsi, Jeffrey saliva sul lettino da massaggio e si trasformava in questa orgia». Jane ha detto: «Erano baci, sesso orale con l'altro, sesso orale con Jeffrey, pieno di rapporti sessuali». Moe ha chiesto il sesso delle altre persone nell'orgia e Jane ha detto: «Femmine». E alla domanda sulla loro età, ha detto: «Più grande di me ma non lo so». Moe ha chiesto con quale frequenza ha avuto luogo questo tipo di sessioni sessuali quando aveva tra i 14 ei 16 anni e lei ha detto: «Quasi ogni visita con lui. (Andavo) ogni due settimane». Jane ha detto che ha viaggiato con Epstein e Maxwell circa 10 volte quando aveva tra i 14 ei 16 anni e che è volata nelle sue case a New York e nel New Mexico. Ha trovato la sua villa di New York «inquietante» a causa di tutte le foto di ragazze nude sui muri, ha detto alla giuria.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 2 dicembre 2021. Jane, la prima accusatrice di Ghislaine Maxwell, a processo a New York con l’accusa di traffico sessuale, ha ripreso ieri la sua testimonianza raccontando come il miliardario Jeffrey Epstein l’abbia portata a 14 anni a Mar-A-Lago per incontrare Donald Trump. L’incontro sarebbe avvenuto nel 1994, molto prima che Trump diventasse presidente. All’avvocato di Ghislaine Maxwell, Laura Menninger, che l’ha interrogata sotto giuramento, ha raccontato anche di aver volato sugli aerei di Epstein con «un numero di individui» imprecisato, tra cui il principe Andrea. Jane ha però spiegato che non le è mai stato chiesto di fare sesso con nessuno degli amici di Epstein né le è stato chiesto di reclutare altre ragazze. Menninger ha poi chiesto a Jane di descrivere le altre donne che hanno preso parte alle “orge”, di cui ha parlato il giorno precedente. Jane ne ha nominate cinque, tutte consapevoli delle routine dei massaggi e coinvolte nei rapporti sessuali di gruppo. L’avvocato di Maxwell ha poi sottolineato le contraddizioni tra la testimonianza di Jane in tribunale e quella resa ai pubblici ministeri e all’Fbi negli anni precedenti.   

"Epstein e Maxwell mi portavano nella loro stanza da letto e toccavano ovunque". Rosa Scognamiglio l'1 Dicembre 2021 su Il Giornale. Continua il processo a Ghislein Maxwell, accusata di aver abusato di minori in complicità con Jeffrey Epstein. Sul banco dei testimoni, la prima donna che denunciò i presunti abusi. Continua a New York il processo a Ghislaine Maxwell, la presunta complice di Jeffrey Epstein, accusata di traffico di minore, spergiuro e istigazione alla prostituzione di minori. Ieri, sul banco dei testimoni, è salita Jane (nome di fantasia) che a raccontato di esser stata vittima di abusi da parte della coppia. "Mi hanno toccata ovunque, sentivo le loro mani su tutto il corpo", ha raccontato la ragazza che, all'epoca dei fatti, aveva 14 anni.

L'approccio con Epstein

Jane è stata la prima donna a sporgere denuncia contro Ghislaine Maxwell e Jeffrey Epstein. La ragazza ha raccontato al procuratore Alison Moe che il suo primo contatto sessuale con l'imprenditore statunitense sarebbe avvenuto nel 1994, all'età di 14 anni. L'incontro si sarebbe consumato nella residenza di Palm Beach: "Mi ha fatto cavalcare la sua faccia, voleva che gli pizzicassi i capezzoli", ha detto a proposito di Epstein. L'uomo le avrebbe chiesto cosa avesse voluto "fare da grande" se "l'attrice o la cantante lirica" poi, la conversazione si sarebbe interrotta bruscamente. "Eravamo nel suo ufficio, - ha raccontato Jane - lui mi ha detto 'seguimi'". Dunque, secondo il racconto della testimone, si sarebbero spostati in piscina. Epstein si sarebbe accomodato su un divanetto e calato i pantaloni: "Si è tirato giù i pantaloni, mi ha tirato su di sé e ha continuato a masturbarsi su di me. Poi si è alzato ed è andato in bagno, si è ripulito e si è comportato come se non fosse successo niente". "Ero congelata dalla paura. - ha ricordato - Non avevo mai visto un pene prima, figuriamoci qualcosa del genere. Ero terrorizzata e mi sentivo schifosa. Mi sono vergognata".

L'incontro con Ghislaine Maxwell

Subito dopo l'approccio con Epstein sarebbe avvenuto l'incontro con Maxwell. "Stavano parlando - ha spiegato Jane riferendosi alla coppia - All'improvviso, hanno detto 'seguimi'". Quindi si sarebbero spostati in camera da letto: "Si sono spogliati. - ha continuato la ragazza - Hanno iniziato ad accarezzarsi l'un l'altro e a ridacchiare casualmente", ha detto Jane. "Ero lì in piedi e lui mi ha chiesto di togliermi il top e poi le loro mani [erano] ovunque e Jeffrey ha iniziato a masturbarsi e Ghislaine lo stava strofinando, baciandolo e accarezzandolo". A questo punto, stando a quanto riporta il Daily Mail, il procuratore Moe avrebbe chiesto alla testimone se Maxwell l'avesse toccata. "Sì", è stata la risposta. Alla domanda su dove Maxwell l'abbia toccata, Jane ha precisato che era "principalmente il seno".

Le frequentazioni successive

Nonostante il primo episodio di presunto abuso, la giovane avrebbe continuato a frequentare la casa dell'imprenditore, a Palm Beach. "Ero confusa, a 14 anni non hai idea di cosa stia accadendo", ha precisato Jane. Gli incontri si sarebbero consumati, per circa due anni, ogni 15 giorni. La coppia avrebbe "istruito" la ragazza su come comportarsi durante i rapporti. "Gli piaceva molto forte. - ha detto a proposito di Epstein - Gli piaceva farsi strizzare i capezzoli". Circa il comportamento di Ghislaine Maxwell ha precisato: "Sembrava molto casual, era molto normale. Non era un grosso problema". Successivamente, agli incontri avrebbero partecipato anche altre persone: "Di solito accadeva nella stanza dei massaggi o nella camera da letto della casa di Epstein a Palm Beach", ha continuato aggiungendo che Maxwell incoraggiava gli altri a "cominciare a spogliarsi, Jeffrey saliva sul lettino da massaggio e si trasformava in questa orgia". A detta della ragazza, Epstein avrebbe utilizzato anche giocattoli erotici: "Vibratori. Gli piacevano i vibratori, erano di diverse dimensioni, persino un massaggiatore per la schiena. Me lo metteva sulla vagina, anche se gli dicevo che faceva male". Per tutto il tempo della testimonianza, secondo quanto riferisce la cronista del Daily Mail, Maxwell sarebbe rimasta in silenzio e impassibile.

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due

Dagotraduzione dal Daily Mail il 30 novembre 2021. È iniziato ieri alla Thurgood Marshall Courthouse di New York il processo a Ghislaine Maxwell, accusata di traffico sessuale in quanto complice di Jeffrey Epstein. L’aula era gremita, il pubblico si era messo in fila per partecipare già dalle 5 del mattino. Mentre il procuratore Lara Pomerantz l’accusa di «crimini atroci», Maxwell è rimasta in silenzio, ascoltanto attentamente, scarabocchiando su un taccuino e voltandosi di tanto in tanto a guardare la sorella. Pomerantz ha avvisato la giuria che nel corso delle sei settimane di processo potrebbe essere a disagio nell’ascoltare alcune testimonianze, ma che, a fine processo, avrebbero raggiunto l’unico verdetto possibile: colpevole. Secondo il procuratore, Maxwell era complice di Jeffrey Epstein e avrebbe escogitato uno «schema piramidale di abusi» in cui corrompeva le studentesse per reclutare le loro amiche. La giuria, composta da sette donne e cinque uomini, oltre a diversi sostituti, ha ascoltato come la figlia del magnate dei media Robert Maxwell si sia occupata di ragazze con «vite familiari difficili», spesso figlie di madri single, «promettendo loro il mondo». Maxwell e Epstein «hanno attirato le loro vittime con la promessa di un futuro più luminoso, poi hanno distrutto le loro vite». «Erano ricchi, potenti e ben collegati». Ma le ragazze sono state reclutate in un «incubo» di abusi. Tra il 1994 e il 2004 Maxwell avrebbe depredato ragazze vulnerabili, le ha manipolate e le ha preparato per gli abusi sessuali. Pomerantz ha poi raccontato la storia di Jane, nome di fantasia di una delle vittime della coppia Maxwelll Epstein. «Jane aveva solo 14 anni quando è stata presentata a un uomo e una donna in un campo estivo artistico. Dicevano di voler sponsorizzare giovani di talento. Quello che Jane non sapeva allora è che l’uomo e la donna erano due predatori. Chi era quella donna che prendeva di mira le ragazze per abusi sessuali? Era l’imputato: Ghislaine Maxwell». «Era la seconda in comando di Epstein. Per dieci anni l'imputata è stata la padrona di casa. Ha imposto regole. I dipendenti non dovevano sentire nulla, vedere nulla, dire nulla. C'era una cultura del silenzio. Questo è stato il progetto dell'imputato». Entrando in dettagli inquietanti, Pomerantz ha detto che Epstein «ha ordinato alle ragazze di massaggiarlo mentre si masturbava» e avrebbe ricevuto «sesso orale e talvolta penetrato le ragazze». Il pubblico ministero ha detto di Maxwell: «Sapeva esattamente cosa avrebbe fatto Epstein a questi bambini quando li ha mandati in questa sala massaggi». All'inizio, Epstein e Maxwell hanno trovato le vittime da soli, ma poi negli anni 2000 hanno trovato un «modo più conveniente», ha detto Pomerantz. «Hanno ideato uno schema piramidale di abusi», ha detto. «Hanno incoraggiato le ragazze a portare altre ragazze». Alle giovani venivano consegnate mazzette di denaro: «Queste ragazze non erano massaggiatrici professioniste, erano ragazzine abusate sessualmente». 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 3 dicembre 2021. Continua a New York il processo a Ghislaine Maxwell, imputata di traffico sessuale e altri cinque capi di accusa. A salire sul banco dei testimoni, ieri, è stato l’ex governante Juan Alessi, 72 anni, che ha lavorato nella villa di Palm Beach di Jeffrey Epstein tra il 1990 e il dicembre del 2002 come addetto alla manutenzione e direttore della casa. Alessi ha raccontato che tra i suoi compiti c’era anche quello di ripulire la stanza dopo i massaggi di Epstein, che a suo dire Maxwell programmava tre volte al giorno e che di solito si svolgevano nella sala da bagno. Interrogato dal procuratore Maurene Comey sullo stato dei luoghi, ha testimoniato di aver trovato una volta «un grande dildo», «un pene enorme con due teste». Indossando un paio di guanti, Alessi lo «ha fatto scorrere sott’acqua e ha messo il dildo nell’armadio della signora Maxwell nel suo bagno» all’interno di un cesto di vimini. Alessi ha anche raccontato di aver visto «nastri pornografici e un costume di pelle nera» nello stesso cestino. Ha detto che altre tre o quattro volte ha trovato altri due giocattoli sessuali: uno sembrava un «cuscino» mentre l’altro somigliava a «un braccio» con una parte vibrante di gomma all’estremità, oggetti che ha sistemato nel comò di Epstein. Alessi ha detto che il suo ruolo era assicurarsi che la casa sembrasse un «hotel a cinque stelle» ogni volta che Epstein arrivava, che doveva sistemare banconate da 100 dollari in ciascuna delle sue auto, e che aveva una lunga lista di compiti da svolgere su ordine di Maxwell ed Epstein che ha definito «molto degradante» e sufficiente per dieci uomini. Una delle regole sulla lista era: «Non vedi niente. Non dici niente». «Dovevo essere cieco e sordo per non dire nulla». E «non rivelare mai» la posizione di Maxwell ed Epstein. Alessi ha raccontato di aver incontrato Maxwell nel 1991. «Dal giorno in cui è entrata in casa ha subito preso il sopravvento. Mi ha detto che sarebbe stata la padrona di casa. Mi ha anche detto che era responsabile di altre proprietà di Epstein». Secondo Alessi, Maxwell era con Epstein durante le sue visite alla proprietà «il 95% delle volte», e l’ha definita «la fidanzata» di Epstein. Maxwell gli avrebbe anche detto di non parlare con Epstein a meno che lui non le rivolgesse una domanda, e «che a Jeffrey non piaceva essere guardato negli occhi». Alessi ha detto anche di ricordare due ragazze durante il suo lavoro con Epstein che sembravano minorenni, che poi ha identificato come Jane, la prima testimone del processo, e Virginia Roberts, la donna che accusa il principe Andrea di averla abusata. Ha anche confermato di aver visto il figlio della regina Elisabetta due o tre volte a Palm Beach, e lo ricorda bene perché è stato l’«unico degli ospiti a lasciarmi una mancia». 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 7 dicembre 2021. Nella nuova udienza del processo a Ghislaine Maxwell a New York, i pubblici ministeri hanno presentato come prove dozzine di foto mai viste prima dell’interno della villa di Jeffrey Epstein a Palm Beach. Tra le foto, ci sono la camera da letto e il bagno di Epstein, la cucina e il famigerato lettino dove secondo l’accusa il miliardario riceveva i suoi massaggi sessuali. Sulle pareti si vedono diversi disegni di donne nude, tra cui uno che ritrae Ghislaine Maxwell. Sulle scrivanie di Maxwell ed Epstein, si vedono le copie del famoso manuale di 58 pagine con le istruzioni per il personale della casa. Tutte le foto sono state scattate quando l’Fbi ha fatto irruzione nella villa di Epstein nel 2005. Nella foto però non si vedono i giocattoli sessuali di cui aveva parlato il domestico Juan Alessi durante la sua testimonianza la scorsa settimana, probabilmente perché si tratta di immagini segregate. Venerdì scorso il lettino da massaggio di Epstein è stato portato in tribunale e mostrato alla giuria. Il lettino, insieme a un sex toy “Twin Torpedo”, è stato sequestrato nella tenuta di Epstein a Palm Beach. Sul banco dei testimoni è salito oggi il direttore esecutivo di JP Morgan Chase, Patrick McHugh, che ha testimoniato di aver interrotto il flusso di soldi che dal 1999 al 2007 sono transitati da Epstein a Maxwell. In otto anni il miliardario ha trasferito alla sua sodale 30,7 milioni di dollari. Durante il controinterrogatorio, l'avvocato di Maxwell, Christian Everdell, ha suggerito che tali trasferimenti fossero tipici per un miliardario come Epstein. «Non è vero che individui facoltosi come questi hanno un sacco di risorse?» chiese Everdell. «Potrebbero», ha detto McHugh, che ha affermato che i trasferimenti da soli non indicano alcun gioco scorretto. La testimonianza di McHugh è arrivata dopo quella di una donna che si è presentata con lo pseudonimo di “Kate” e che ha detto alla corte che Maxwell l'ha presentata a Epstein a Londra quando aveva 17 anni. Interrogata dall’accusa, la voce di Kate a volte ha vacillato, ma ha parlato con una voce chiara con un accento britannico mentre descriveva di aver fatto sesso con Epstein e di avergli fatto massaggi sessuali. Kate non è una delle principali accusatrici nel caso di Maxwell, ma è stata chiamata come testimone dell'accusa. Ha affermato che Maxwell l'ha invitata nella sua residenza londinese nella ricca zona di Belgravia, dove Jeffrey Epstein indossava una vestaglia. Maxwell le ha detto che il massaggiatore di Epstein aveva cancellato l’appuntamento e le ha chiesto se poteva sostituirla. Kate ha affermato che Epstein si è tolto la vestaglia per rivelare il suo corpo nudo e Maxwell le ha passato l'olio per massaggi e ha chiuso la porta. Kate ha detto che Epstein ha avviato un contatto sessuale con lei. Dopo il massaggio, Kate ha affermato che Maxwell ha chiesto: «Com'è andata? Ti sei divertita? Sei una così brava ragazza». «Sembrava davvero contenta, e io ero contento che fosse contenta», ha detto Kate. «Più tardi Maxwell mi ha detto di trovare qualcuno che facesse sesso a Epstein», ha affermato Kate, e ha detto che Maxwell le ha detto che aveva bisogno di fare sesso «tre volte al giorno».

Dagotraduzione dal Daily Mail l'8 dicembre 2021. Una delle quattro accusatrici di Ghislaine Maxwell ha sostenuto ieri, nella nuova udienza del processo alla sodale del miliardario Jeffrey Epstein, di aver visto foto della donna nuda e incinta. Alla giuria però ieri sono state mostrate altre foto, tra cui un’immagine di Maxwell che massaggia i piedi di Epstein e un’altra in cui i due si baciano. L'accusatrice, Carolyn, ha detto sotto interrogatorio di aver visto una foto nella casa di Epstein di Maxwell «nuda e incinta». Maxwell non ha figli e in tribunale non sono stati forniti ulteriori dettagli sulla presunta gravidanza. Prendendo posizione martedì, l'analista dell'FBI Kimberly Meder ha identificato le foto trovate dall'FBI durante un raid del 2019 nella villa di Epstein a Manhattan. Alla corte sono state mostrate 19 foto di Epstein e Maxwell trovate su CD presi dalla casa di Manhattan. Le foto sono state rilasciate al pubblico in bozzetti giudiziari. Durante il controinterrogatorio, Meder ha detto di non sapere se le immagini fossero state alterate. La natura della relazione tra Maxwell ed Epstein è stata messa in discussione durante il processo di Maxwell, con i pubblici ministeri che li hanno caratterizzati come «partner in un  crimine» mentre altri hanno testimoniato che sembravano essere una coppia o avere una relazione d'affari. All'inizio della giornata di martedì, la corte ha ascoltato l'analista informatico dell'FBI Stephen Flatley che ha parlato con la giuria dei dischi rigidi sequestrati durante il raid dell'FBI del 2019. Nell’ottobre del 002, sul disco rigido di un documento registrato su un computer di Maxwell, è stato trovato un documento Microsoft Word. Non è chiaro per chi fosse il documento, ma sembra essere qualcosa che Maxwell stava scrivendo per qualcun altro. Il documento dice: «Jeffrey e Ghislaine sono stati insieme, una coppia, negli ultimi 11 anni. Sono, contrariamente a quanto la gente pensa, raramente a parte. Li vedo sempre insieme. Ghislaine è molto intelligente e di grande compagnia con un sorriso pronto e una risata contagiosa». Il documento afferma che Maxwell ed Epstein «condividono molti interessi reciproci e si divertono molto insieme», aggiungendo che entrambi avevano «menti curiose». Il documento diceva: «Jeffrey e Ghislaine si complimentano molto bene e non riesco a immaginare l'uno senza l'altro. Oltre ad essere ottimi partner, sono anche i migliori amici». Un altro documento Word sullo stesso disco rigido, anch'esso creato da Maxwell, era un annuncio che aveva scritto nel settembre 2001. Diceva: «Cercasi aiuto. Sei un massaggiatore? Lavoro a casa di Palm Beach. Ottima paga. Per lo più nei fine settimana. Si prega di chiamare il 351-1000. Lascia un messaggio». Lo stesso disco rigido conteneva messaggi di posta elettronica inviati da Maxwell nel maggio 2001 che rimproveravano il manager della casa di Epstein a Palm Beach, Juan Alessi, che lei chiamava John. Maxwell scrive a una donna di nome Sally che Alessi sta «facendo un lavoro davvero orribile». Maxwell si lamenta della «piscina sporca» e di come le «creme da massaggio» di Epstein non siano state riordinate. Maxwell dice che «non riesco a capire» come convincere John a seguire i suoi ordini. Maxwell chiede anche informazioni sullo stato di avanzamento del "manuale della famiglia", e sembra fare riferimento al libretto di 58 pagine con centinaia di elementi della lista di controllo per la gestione della residenza che era già stato ammesso come prova. Un altro documento del settembre 2002 creato da Maxwell era intitolato: "Palm Beach new shampoo and massage products". L'elenco conteneva 16 shampoo diversi e 13 prodotti per massaggi da utilizzare in casa, inclusi alcuni di marchi di fascia alta come Kiehls.

Dagotraduzione dal Sun il 9 dicembre 2021. Durante il processo a Ghislaine Maxwell, la strana relazione tra la donna e Jeffrey Epstein è stata sotto i riflettori di media e pubblico. Uno dei misteri riguarda l’affermazione di una delle accusatrici di Maxwell, Carolyn, che ha sostenuto di aver visto una foto di Maxwell «nuda e incinta». Poco dopo, ai giurati è stata mostrata una foto di Epstein e Maxwell in cui lui le tiene una mano sulla pancia. Maxwell è accusata di aver procacciato ragazze ad Epstein in modo che potesse abusarne, e avrebbe partecipato a sua volta ad alcune di queste aggressioni, cosa che lei nega. I pubblici ministeri li hanno descritti come «compagni di criminalità» nell’abusare delle giovani. Non sono state rilasciate ulteriori informazioni sulle nuove foto e se Maxwell fosse veramente incinta. Ma quello che si sa con certezza è che Epstein voleva dei figli, e non solo per avere una famiglia. L’altro giorno Carolyn, nome di fantasia di una delle accusatrici di Maxwell, ha sostenuto in tribunale di aver visto una foto della donna «nuda e incinta». Non si sa se Maxwell abbia mai avuto figli e in tribunale non sono stati forniti ulteriori dettagli sulla sua presunta gravidanza. Ma la coppia voleva usare una delle sue vittime come surrogato: Virginia Roberts, la donna che sostiene di essere stata abusata anche dal principe Andrea quando aveva 17 anni. Secondo Roberts Epstein le avrebbe chiesto di fargli da madre surrogata quando aveva 19 anni e ormai era troppo vecchia per le sue perversioni. In cambio le è stata offerta una villa dove portare a termine la gravidanza. Secondo l’avvocato di Roberts, Brad Edwards, Epstein e Maxwell «hanno detto a Virginia che si sarebbero presi cura di lei per il resto della sua vita se avesse accettato di dare un figlio a Epstein e Maxwell, anche se c’erano alcuni vincoli». «In particolare, avrebbe dovuto firmare un contratto in cui accettava che il bambino non fosse suo, ma il figlio legale di Epstein e Maxwell. È stata l’ultima goccia. Non poteva sopportare il pensiero che Epstein e Maxwell crescessero suo figlio. Sapeva che doveva scappare». Ma non solo Epstein desiderava che Roberts tenesse in grembo un bambino per lui e Maxwell, ma aveva piani grandiosi per i suoi figli. Secondo il New York Times Epstein voleva creare una fabbrica di bambini per diffondere il suo Dna, dove tenere 20 donne gravide alla volta. Avrebbe detto a scienziati e uomini d’affari che voleva trasformare il suo vasto ranch nel New Mexico nella sua personal fabbrica di bambini. Secondo quanto riferito, il miliardario ha iniziato a condividere la sua visione nei primi anni 2000. Lo scopo del baby ranch era quello di creare una «razza suprema» con il suo Dna. Epstein era affascinato da quello che è diventato noto come transumanesimo: migliorare la razza umana attraverso tecnologie come l’ingegneria genetica e l’intelligenza artificiale. È stato ampiamente riportato che Epstein ha parlato a scienziati e uomini d'affari delle sue ambizioni. Molte delle idee sono state discusse durante cene in cui alcuni ospiti erano donne attraenti con credenziali accademiche impressionanti. Uno dei presenti, Jaron Lanier, un autore prolifico fondatore della realtà virtuale, ha affermato che la sua impressione era che Epstein stesse usando i partiti per selezionare i candidati per avere figli.

Epstein ha raccontato della trama almeno due volte: nella sua villa di Manhattan nel 2001 e in una lussuosa conferenza scientifica che ha ospitato nelle Isole Vergini. Uno scienziato avrebbe detto a Lanier che Epstein è stato ispirato dalla controversa banca del seme, il Repository for Germinal Choice in California, rifornito tra il 1979 e il 1999 con il seme di maschi bianchi di alto livello, tra cui ben cinque premi Nobel. Secondo quanto riferito, il pedofilo era anche affascinato dalla scienza non dimostrata della criogenia, secondo cui congelando a temperature molto basse corpi o parte dei corpi in un futuro potranno essere riportati in vita. Epstein ha anche descritto di voler conservare il suo pene e la sua testa criogenicamente. Non ci sono prove che nessuno degli strani piani di Epstein si sia mai realizzato. Il condannato per reato sessuale si è suicidato mentre era in attesa di processo per ulteriori accuse di traffico sessuale nell'agosto 2019. Maxwell è stata arrestata improvvisamente nel luglio 2020 e da allora è stata trattenuta in prigione in quanto ritenuta a rischio di fuga.

Dagotraduzione da Vanity Fair il 10 dicembre 2021. Ghislaine Maxwell è sotto processo, ma il caso ha sempre riguardato qualcosa più di lei. Nel tentativo di mettere la disgraziata ereditiera britannica dietro le sbarre possibilmente per 80 anni, i pubblici ministeri mirano a riparare i fallimenti seriali del sistema giudiziario per punire i crimini del suo partner: il defunto pedofilo Jeffrey Epstein. Ecco perché è scioccante e tragico che il caso dell'accusa contro Maxwell appaia molto più debole di quanto molti si aspettassero. L'elenco dei passi falsi dell'accusa è lungo. Le vittime sono apparse impreparate al controinterrogatorio. I co-cospiratori di alto profilo non sono ancora stati chiamati a testimoniare sul presunto ruolo di Maxwell nell'operazione di traffico sessuale di minori di Epstein. Martedì, i pubblici ministeri hanno sbalordito i giornalisti nella sala di osservazione del tribunale annunciando che il governo intende sospendere il caso prima di venerdì, settimane prima del previsto. Prima che il processo si aprisse, mi consideravo tra i pessimisti che si aspettavano che il caso non fornisse un resoconto completo dei presunti crimini di Epstein o non esponesse gli uomini potenti che avrebbero partecipato al suo stile di vita depravato. Il mio punto di vista ha tenuto per tutto il processo. Sono rimasto costernato, ad esempio, che la dichiarazione di apertura del pubblico ministero Lara Pomerantz sia durata 35 minuti. Sono stato anche deluso dal fatto che i pubblici ministeri non abbiano prima chiamato una presunta vittima come primo testimone e invece si siano rivolti al pilota di Epstein, Larry Visoski. La percezione nella sala di osservazione era che Visoski avesse testimoniato più come un testimone della difesa, affermando di non aver mai visto atti sessuali con ragazze minorenni o attività sessuale sugli aerei di Epstein. La testimonianza delle presunte vittime di Maxwell è stata straziante. Martedì, la terza accusatrice ha testimoniato che Epstein ha abusato di lei sessualmente più di cento volte da quando aveva 14 anni. La donna, identificata con il suo nome Carolyn, ha raccontato che Maxwell programmava spesso i suoi massaggi con Epstein e una volta la palpeggiava mentre era nuda e diceva che aveva «un gran corpo per il signor Epstein e i suoi amici». (Carolyn ha detto che Maxwell sapeva che lei era sotto l'età del consenso). In un momento straziante, Carolyn è crollata e ha detto: «la mia anima è spezzata» a causa del presunto abuso di Maxwell. Sfortunatamente, i pubblici ministeri non hanno dato seguito al racconto e hanno chiesto a Carolyn di nominare gli amici di Epstein. La testimonianza straziante di Carolyn è stata anche minata da un'apparente mancanza di preparazione da parte dell'accusa. Durante il controinterrogatorio, uno degli avvocati di Maxwell, Jeffrey Pagliuca, ha rivelato incongruenze nei precedenti commenti di Carolyn sul caso. Pagliuca ha notato che Carolyn non ha menzionato il nome di Maxwell una volta durante la sua prima intervista con l'FBI nel 2007. Né Carolyn ha incluso il nome di Maxwell nelle successive cause che ha intentato contro Epstein e la presunta cospiratrice Sarah Kellen. Ecco come si è svolto uno dei tesi scambi:

Pagliuca: Le tue due cause legali che coinvolgono Jeffrey Epstein e Sarah Kellen non dicono nulla sulla signora Maxwell; corretto?

Caroline: Esatto.

Pagliuca: La tua testimonianza di deposizione nel 2009 non dice nulla sulla signora Maxwell, a parte le due parole che ha letto la signora Comey, giusto?

Caroline: Esatto. 

Ovviamente, l'assenza del nome di Maxwell non significa che la storia di Carolyn non sia vera. Le vittime di abusi sessuali o stupri spesso cambiano le loro storie mentre elaborano il trauma. Questo fatto è spesso usato dagli avvocati difensori per minare la testimonianza di una vittima. Ma i pubblici ministeri avrebbero dovuto preparare Carolyn ad affrontare la questione a testa alta.

Una dinamica simile si è verificata la scorsa settimana durante la testimonianza di una vittima identificata come Jane. Un altro avvocato di Maxwell, Laura Menninger, ha spinto Jane a commentare il motivo per cui la sua testimonianza differiva dalle sue precedenti interviste con l'FBI. Jane sembrava scossa dalle domande, ad un certo punto ha sostenuto che l'FBI aveva trascritto in modo errato i suoi commenti. Martedì, il governo ha subito un'altra imbarazzante battuta d'arresto quando la difesa di Maxwell ha rivelato che Jane ha chiamato suo fratello, anche lui testimone dell’accusa nel processo, e si è lamentata del controinterrogatorio. È una possibile violazione delle regole del giudice, e ora suo fratello non testimonierà più.

L'asse più debole nel caso dell'accusa, tuttavia, è stata la mancanza di testimonianze dalla cerchia più ristretta di Epstein. I pubblici ministeri non hanno chiamato l'accusatrice di alto profilo di Epstein, Virginia Roberts Giuffre, al banco dei testimoni, anche se il suo nome è stato più volte citato da altri testimoni. Nel frattempo, il controverso accordo di non processo di Epstein del 2007 elencava quattro presunti co-cospiratori: Sarah Kellen, Adriana Ross, Lesley Groff e Nadia Marcinkova (e il nome di Maxwell non era incluso). Queste donne plausibilmente potrebbero testimoniare sul ruolo di Maxwell nella presunta operazione di traffico sessuale. Perché il governo non ha ottenuto la loro collaborazione contro Maxwell? E se le donne non hanno collaborato, perché il governo non ha accusato anche loro? (Le donne hanno negato ogni accusa.) È possibile che il governo ne chiami una o più prima di mettersi a riposo.

Naturalmente, è impossibile prevedere come decideranno i membri della giuria, soprattutto perché le telecamere nella sala di osservazione non mostrano i loro volti. Ma data la posta in gioco del processo, il governo sperava sicuramente di aprire e chiudere il caso. Avevano più di 500 giorni per prepararsi, ma non l'hanno fatto. 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 10 dicembre 2021. A metà anni ’90, Jeffrey Epstein ha avuto una relazione con Celina Midelfart, la bionda ereditiera norvegese che è uscita anche con Donald Trump. Lo ha testimoniato l’ex pilota del Lolita Express, il jet con cui Epstein si spostava in tutto il mondo. I registri di volo hanno mostrato che Midelfart ha fatto almeno 13 viaggi sul jet privato di Epstein. Il pilota Dave Rodgers ha testimoniato che Maxwell ed Epstein inizialmente si stavano frequentando, ma poi si sono lasciati. Rodgers ha condotto la giuria attraverso i registri di volo dell'aereo privato di Epstein, noto come Lolita Express. Maxwell era su molti di quei voli, a volte con Virginia Roberts, che ha intrapreso azioni civili e penali sia contro Epstein che contro Maxwell. Ha detto di aver volato con Roberts per un totale di 32 volte nei primi anni 2000. Ha anche affermato di aver volato quattro volte con a bordo Jane, l'accusatrice di Maxwell. L'avvocato Christian Everdell ha chiesto a Rodgers di un certo numero di donne con cui Epstein usciva negli anni '90 e 2000. Rodgers ha confermato che tra le fidanzate c’era Shelley Lewis, una donna britannica che è uscita con Epstein tra il 1999 e il 2002, e Celina Midelfart, intorno al 1996. Si dice che Midelfart sia stata la donna che Donald Trump ha lasciato per uscire con Melania Trump, la sua terza moglie. L'ex presidente presumibilmente l'ha abbandonata nel 1998, dopo la sua relazione con Epstein. Trump e Midelfart erano a una serata fuori al Kit Kat Club di New York quando lui ha visto Melania e le ha chiesto il numero. L'ex First Lady ha rifiutato, ma Trump ha insistito e lei alla fine ha accettato. Midelfart è la nipote del fondatore dell'azienda di cosmetici Midelfart e nel 2000 è diventata presidente dell'azienda. Ora è sposata con un figlio, è cresciuta a Oslo, ha studiato alla London School of Economics e alla NYU. I suoi altri fidanzati sono stati la pop star Robbie Williams e Haakon, principe ereditario di Norvegia.    

"Fui molestata dalla Maxwell a 16 anni". Mariangela Garofano su Il Giornale l'11 dicembre 2021. Si è conclusa anche l’ultima testimonianza delle quattro vittime di Jeffrey Epstein al processo contro la sua complice, Ghislaine Maxwell. Le donne hanno accusato la dama dell'alta società di aver partecipato agli abusi nei loro confronti e di averle adescate quando erano minorenni. Nella giornata di venerdì è stato il turno di Annie Farmer, unica vittima a non aver testimoniato sotto pseudonimo. La 42enne americana ha raccontato di aver accettato un invito a passare un weekend nel ranch di Jeffrey Epstein in New Mexico nel 1996, dove avrebbe potuto "migliorare le sue abilità artistiche". Ma una volta arrivata nel lussuoso ranch Annie si rese conto che l’intento della coppia Epstein-Maxwell era molto lontano dall’aiutarla con i suoi studi. Fu Maria, la sorella, a presentarla al magnate, il quale, durante il loro primo incontro nella sua dimora newyorchese, le propose di finanziare i suoi studi. Quel giorno, si legge su Cbs News, il magnate si presentò ad Annie come “una persona semplice e amichevole”. Ma la vera natura del finanziere pedofilo si rivelò durante una serata al cinema a New York. "Mi sembrò così strano. Lui iniziò ad accarezzarmi un braccio, poi un piede. Fu una cosa bizzara”, ha raccontato al giudice la donna, la ha proseguito a raccontare che Epstein la invitò a trascorrere il fine settimana con lui e Ghislaine allo Zorro Ranch in New Mexico. Visto ciò che accadde al cinema, Annie accettò l’invito poco convinta, ma partì lo stesso forte del fatto che la Maxwell sarebbe stata presente. La coppia la portò dapprima a fare shopping, poi a vedere un film, infine una volta rientrati al ranch, la Maxwell le fece vedere come massaggiare i piedi di Epstein, e “insistette per farmi un massaggio e mi disse di spogliarmi”. La donna ha inoltre raccontato in tribunale che la Maxwell le massaggiò i seni, facendola sentire terribilmente a disagio. Ma non è tutto, una mattina l’allora sedicenne si ritrovò il finanziere nel letto, con la scusa di volerla “coccolare”. Il racconto di Annie Farmer si aggiunge a quelli delle altre vittime, che negli anni hanno rivelato lo stesso modus operandi della diabolica coppia. Ghislaine Maxwell e Jeffrey Epstein adescavano giovani minorenni, cercando di “normalizzare” dei veri e propri abusi sessuali. La figlia del barone dell’editoria Robert Maxwell è stata arrestata a luglio 2019 con l’accusa di complicità nel traffico di minori e per aver adescato e abusato di giovani minorenni con il suo “compagno di merende”, Jeffrey Epstein. La donna ha negato ogni accusa e i suoi legali hanno affermato che la loro assistita è solo “un capro espiatorio” dei crimini commessi da Epstein, morto nel 2019.

Anna Guaita per il Messaggero il 13 dicembre 2021. Aveva 22 anni quando approdò a New York, ansiosa di lasciarsi alle spalle una giovinezza di sofferenza nella natia Scozia, e di trovare la felicità nella Grande Mela. Ma Sarah Ransome ebbe l'immensa sfortuna di incappare quasi subito su Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell e di finire invischiata in un «inferno». Nel suo libro di memorie, «Silenced no more», Sarah, oggi 37enne, ricostruisce quei 9 mesi di incubo nel 2006, in cui Epstein la violentava con implacabile regolarità fino a tre volte al giorno, mentre Maxwell si preoccupava di tenerla in forma, mandandola dai parrucchieri più costosi e obbligandola a seguire diete draconiane fatte solo di pomodori e cetrioli.

LA TESTIMONIANZA

Sarah è di nuovo a New York, per seguire il processo contro Ghislaine. Non è inclusa fra i nomi delle quattro giovani che Maxwell è accusata di aver reclutato, due delle quali appena 14enni, per il piacere del suo amico ed ex-fidanzato. Fa invece parte di quel gruppetto che ha trovato un accordo extragiudiziale con Maxwell nel 2018, ma vuol comunque essere presente al processo per poter «guardare Ghislaine negli occhi se verrà condannata». Lo ha confessato in una lunga intervista al quotidiano londinese Daily Mail, concessa in occasione dell'uscita del libro. Il processo è in fase di riposo per qualche giorno, e riprenderà giovedì con la parte dedicata alla Difesa.

La 59enne ereditiera britannica rischia di finire in carcere per il resto dei suoi giorni. Dopo che il finanziere ha deciso di togliersi la vita, due anni fa, davanti alle accuse di stupro e sfruttamento della prostituzione minorile, è stata lei a ereditare i conti con la giustizia per la torbida vicenda. E Sarah nel suo libro insiste che la donna non era stata una vittima, ma aveva avuto un ruolo di direttrice dei lavori. 

La giovane scozzese ricorda che a contattarla per prima fu un'altra delle ragazze di Epstein, Natalya, in un night club. Da lì, Sarah sostiene di essere caduta facilmente nella rete, poiché era «una facile preda» in seguito ai suoi traumi giovanili. Epstein e Maxwell le promisero borse di studio e aiuto per la sua carriera nella moda. Sopravvissuta a due stupri a 11 e 14 anni, Sarah proveniva da una famiglia aristocratica scozzese sfasciata, con un padre assente e una madre alcolizzata. Era scappata a New York dopo che all'università di Edimburgo si era trovata con un fidanzato violento, e senza soldi.

IL VOLO AI CARAIBI

Sarah non finge di essere stata una innocente verginella, eppure racconta come nel suo primo viaggio a bordo del jet privato di Epstein, diretta con altre ragazze all'isola privata nei Caraibi, rimase sgomenta quando sentì che l'uomo si era appartato nel retro per fare sesso con una delle ragazze. Sesso che appena due giorni dopo pretendeva anche da lei: «Stasera ti farò diventare donna» le aveva detto sull'isola. 

Inutili i pianti e le resistenze, quella sera fu il primo di una serie di incontri, organizzati da Ghislaine. Disperata, al terzo giorno la giovane pensò di scappare a nuoto, incurante dei pescecani. Ghislaine la trovò e la riportò indietro, con tono dolce e materno. Questo il particolare più raggelante, a sentire Sarah: Ghislaine era capace di essere dolce e materna con le ragazze schiavizzate per il piacere del suo amico e poi una vera aguzzina, tanto che durante la permanenza sull'isola di Little St. James aveva confiscato alle giovani passaporto e cellulare.

Una volta tornata a New York, Epstein e Maxwell continuarono a tenerla «sotto costante controllo», con promesse, regali e minacce: «C'erano fotografie ovunque, di lui con presidenti, il Papa, leader mondiali, esponenti della casa reale. Avevo paura che se avessi parlato mi avrebbe fatto uccidere, come minacciava di fare». Per di più, Sarah è convinta che Epstein controllasse ogni suo movimento, con telecamere nascoste: «Un giorno mi rifiutai di andare a casa sua, e poco dopo, mentre camminavo per strada, mi si accostò accanto con la sua limousine».

Dopo 9 mesi, Sarah chiese aiuto alla madre, che le comprò un biglietto di ritorno in Scozia. La paura però dominò la sua vita, e fino al giorno del suicidio di Epstein la giovane cambiò residenza 47 volte, senza mai trovare pace.

Caso Epstein, parte il processo a Ghislaine Maxwell: rischia 80 anni. L'ereditiera britannica è accusata di aver adescato adolescenti per il magnate Jeffrey Epstein, morto suicida nel 2019. I legali: «Condizioni di detenzione inumane». Il Dubbio il 29 novembre 2021. Si apre oggi a New York, in un tribunale di Manhattan, uno dei processi più attesi degli ultimi anni, quello a Ghislaine Maxwell, l’ereditiera britannica accusata di aver adescato adolescenti per il magnate Jeffrey Epstein che poi ne avrebbe abusato sessualmente. Ad un anno dal suo clamoroso arresto, dopo diversi mesi di fuga, la procura vuole dimostrare che Maxwell aiutò Epstein – che si è suicidato in una cella di New York nell’agosto 2019 – a «reclutare, preparare e infine abusare» delle giovani vittime, alcune delle quali non avevano più di 14 anni. Secondo l’accusa, Maxwell si guadagnava la fiducia delle giovani, spesso scelte in ambienti economicamente e socialmente disagiati, portandole a fare shopping o a teatro e poi le persuadeva a massaggiare Epstein nudo in una delle sue residenze, prima di obbligarle a fare sesso con lui in cambio di denaro. Il sospetto è che la donna abbia partecipato a volte ai presunti abusi sia nella sua casa londinese che nelle case di Epstein a Manhattan, Palm Beach e New Mexico. Il caso ha ricevuto enorme attenzione mediatica perché ha coinvolto, anche se solo marginalmente, diverse personalità importanti del mondo della politica e dello spettacolo che erano legate ad Epstein, tra gli altri il principe Andrea, il terzogenito della regina Elisabetta II, Bill Gates e l’ex presidente Usa, Bill Clinton. Colta, abituata a frequentare il jet-set, ma probabilmente legata ad Epstein da un tossico rapporto di dipendenza, Maxwell, che era stata anche la compagna del finanziere, rischia un massimo di 80 anni di carcere se ritenuta colpevole dell’attività per soddisfare l’appetito erotico del compagno. La 59enne britannica è da mesi dietro le sbarre in una struttura detentiva, la Brooklyn Metropolitan Jail, dove è stata portata subito dopo il suo arresto, nel luglio 2020, in una villa nel New Hampshire dopo esser sparita per un anno dopo il suicidio di Epstein. Rampolla di una famiglia di editori, figlia del chiacchierato uomo d’affari proprietario del tabloid «The Daily Mirror», Robert Maxwell, l’imputata si è più volte dichiarata innocente ma le è sempre stato negata la cauzione perchè considerata ad alto pericolo di fuga, visto che ha contatti altolocati e tre nazionalità (britannica, francese e americana). Di recente, i suoi fratelli hanno denunciato in una lettera alle Nazioni Unite che la sua detenzione è «arbitraria», sostenendo che è tenuta «erroneamente in isolamento da circa 500 giorni», per cui sono stati violati il suo diritto alla difesa e la sua presunzione di innocenza. Il processo è cominciato ufficialmente il 16 novembre con la selezione della giuria, che il giudice del caso, Alison Nathan, ha deciso di rendere pubblica, nonostante i legali di Maxwell avessero chiesto che fosse fatta a porte chiuse per evitare di dare maggiore pubblicità a un caso già di altissimo profilo. Nathan, tuttavia, ha sostenuto che prevale il primo emendamento alla Costituzione, che tutela la libertà di stampa. La giudice ha respinto finora quasi tutte le richieste difensive, per esempio togliere l’anonimato alle vittime che testimonieranno in sala sotto pseudonimo; e per tutelare la loro identità ha anche vietato l’opera dei disegnatori di solito ingaggiati per fare gli schizzi di accusati e testimoni nei processi e dei quali non è possibile scattare fotografie. Gli avvocati di Maxwell, Francois Zimarra e Jessica Finelle, hanno denunciato pubblicamente in più occasioni le condizioni antigieniche e disumane in cui versa la loro assistita, che sarebbe sottoposta a una sorveglianza 24 ore su 24 che non gli permette di riposare: sostengono che è «percepita e trattata» come colpevole ancor prima del verdetto, anche perchè ci sono una sequela di documentari, libri e articoli, tutti che documentano le accuse contro di lei. Colta, abituata a frequentare il jet-set, ma probabilmente legata ad Epstein da un tossico rapporto di dipendenza, Maxwell, che era stata anche la compagna del finanziere, rischia un massimo di 80 anni di carcere se ritenuta colpevole dell’attività per soddisfare l’appetito erotico del compagno. La 59enne britannica è da mesi dietro le sbarre in una struttura detentiva, la Brooklyn Metropolitan Jail, dove è stata portata subito dopo il suo arresto, nel luglio 2020, in una villa nel New Hampshire dopo esser sparita per un anno dopo il suicidio di Epstein. Rampolla di una famiglia di editori, figlia del chiacchierato uomo d’affari proprietario del tabloid «The Daily Mirror», Robert Maxwell, l’imputata si è più volte dichiarata innocente ma le è sempre stato negata la cauzione perché considerata ad alto pericolo di fuga, visto che ha contatti altolocati e tre nazionalità (britannica, francese e americana). Di recente, i suoi fratelli hanno denunciato in una lettera alle Nazioni Unite che la sua detenzione è «arbitraria», sostenendo che è tenuta «erroneamente in isolamento da circa 500 giorni», per cui sono stati violati il suo diritto alla difesa e la sua presunzione di innocenza. Il processo è cominciato ufficialmente il 16 novembre con la selezione della giuria, che il giudice del caso, Alison Nathan, ha deciso di rendere pubblica, nonostante i legali di Maxwell avessero chiesto che fosse fatta a porte chiuse per evitare di dare maggiore pubblicità a un caso già di altissimo profilo. Nathan, tuttavia, ha sostenuto che prevale il primo emendamento alla Costituzione, che tutela la libertà di stampa. La giudice ha respinto finora quasi tutte le richieste difensive, per esempio togliere l’anonimato alle vittime che testimonieranno in sala sotto pseudonimo; e per tutelare la loro identità ha anche vietato l’opera dei disegnatori di solito ingaggiati per fare gli schizzi di accusati e testimoni nei processi e dei quali non è possibile scattare fotografie. Gli avvocati di Maxwell, Francois Zimarra e Jessica Finelle, hanno denunciato pubblicamente in più occasioni le condizioni antigieniche e disumane in cui versa la loro assistita, che sarebbe sottoposta a una sorveglianza 24 ore su 24 che non gli permette di riposare: sostengono che è «percepita e trattata» come colpevole ancor prima del verdetto, anche perché ci sono una sequela di documentari, libri e articoli, tutti che documentano le accuse contro di lei.

Quattro donne contro Ghislaine Maxwell, l’ombra di Epstein sul processo. Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 29 novembre 2021. La complice del finanziere in tribunale accusata dalle sue presunte vittime. Ghislaine Maxwell va a processo. E con lei una delle vicende più torbide degli ultimi anni. Una storia di abusi sessuali, di festini, di orge, di favori, di ricchezze ostentate, su cui galleggiano i nomi di due ex presidenti, Bill Clinton e Donald Trump; di Andrea d’Inghilterra, figlio della Regina Elisabetta; di uomini d’affari e professionisti noti come l’avvocato Alan Dershowitz. Il fondatore di questo mondo era il finanziere Jeffrey Epstein, suicidatosi il 10 agosto 2019 nel carcere di Manhattan. Ma la manager di quei traffici è stata Ghislaine Maxwell, oggi 59 anni, accusata con sei capi di imputazione, a cominciare dal traffico di minori che da solo può costarle fino a 40 anni di prigione. Secondo la procura di Manhattan Ghislaine «reclutava, plasmava e addestrava» le ragazze giovanissime da offrire a Jeffrey e ai suoi ospiti. L’impianto accusatorio si basa sulla testimonianza di diverse vittime, come quella di Virginia Giuffre, oggi 37 anni: «Ghislaine è la persona che abusava di me in modo sistematico. Era lei che mi aveva ingaggiata, spiegato che cosa dovessi fare, addestrata a diventare una schiava sessuale». Il dibattimento, iniziato ieri nella Corte Federale di Manhattan, si concentra sui fatti accaduti dal 1994 al 2004 e per ora coinvolge quattro presunte vittime, ma la giudice Alison Nathan ha precisato che consentirà al pubblico ministero di estendere il raggio degli accertamenti. Ghislaine è la figlia del controverso editore britannico Robert Maxwell. È l’ultima di otto tra fratelli e sorelle. Nata in Francia, è cresciuta in una villa con 53 stanze nella campagna di Buckinghamshire, in Inghilterra. Nel 1991, dopo la morte del padre, Ghislaine si sposta a New York. Si sistema in un appartamentino nell’Upper West Side di Manhattan, tra artisti e intellettuali, veri o presunti. Gli amici di allora la descrivono come «una personalità esplosiva, magnetica». Pesa molto anche il cognome. Incontra Epstein e in breve ne diventa la fidanzata e la complice inseparabile. Ghislaine comincia ad amministrare le proprietà immobiliari del partner, a Manhattan, a Palm Beach, in Florida, a Parigi, nel New Mexico e nelle Virgin Islands. Ma soprattutto, si legge nelle carte dell’accusa, la donna inizia a contattare ragazzine da inserire nel circuito dei «massaggi», delle orge cui partecipa attivamente. È in quel periodo, agli inizi degli anni Duemila, che la coppia frequenta i club esclusivi di Manhattan con l’allora costruttore Donald Trump; oppure scarrozza Bill Clinton sul «Lolita Express», l’areo privato di Jeffrey; o, infine, organizza party ad alto contenuto erotico nella Little St.James Island. Tutto ciò «in un contesto criminale», forzando la volontà di adolescenti, costringendole a subire assalti e abusi sessuali. Negli ultimi anni tutte le personalità più note, da Clinton ad Andrea di Inghilterra, hanno cercato di prendere le distanze da Epstein. Ci ha provato anche Ghislaine. Ha fatto causa al gruppo immobiliare dell’ex fidanzato, chiedendo «il risarcimento delle spese giudiziarie sostenute per la difesa da accuse ingiuste». Era il marzo del 2020: Epstein era morto da sette mesi. Non se ne fece nulla. Maxwell, nel frattempo, aveva cercato di tacitare le vittime con una serie di accordi stragiudiziali. Ma nel luglio del 2020 viene arrestata in New Hampshire, in seguito alle accuse di tre donne. Ghislaine ha atteso il processo nel Metropolitan Detention Center di Brooklyn, protestando in un’intervista per le «condizioni inumane»: «Vivo in isolamento, dormo con una luce sempre accesa che ha rovinato i miei occhi; la cella è infestata da scarafaggi e topi; il sistema fognario è rotto; sono stata aggredita dalle guardie».

"Epstein e la complice? Due predatori sessuali": prime rivelazioni al processo Maxwell. Mariangela Garofano il 30 Novembre 2021 su Il Giornale. Durante il primo giorno del processo a carico della Maxwell l'accusa si è focalizzata sulla coppia Epstein/Maxwell, definendoli "partners criminali". Si è aperto ieri 29 novembre il processo a carico della complice di Jeffrey Epstein, Ghislaine Maxwell. La ricca ereditiera britannica rischia fino a 80 anni di carcere per traffico di minore, spergiuro e istigazione alla prostituzione di minori. Data la gravità dei reati e dei personaggi coinvolti nello scandalo Epstein, il processo alla Maxwell sta avendo una risonanza mediatica così forte che il giudice Alison Nathan ha predisposto sei sale da cui il pubblico e la stampa possono seguirne l’andamento. Come riporta l'Agi, l'accusa, presieduta dal sostituto procuratore Lara Pomerantz, ha iniziato il primo giorno di processo analizzando la coppia Epstein/Maxwell e definendoli “partners criminali”. "Promettevano il mondo a queste ragazze, provenienti da famiglie disagiate”, ha affermato la Pomerantz. E ancora: “Immaginavano cosa desiderassero di più dal futuro e glielo promettevano. Le facevano sentire speciali, ma era solo una copertura”. La procuratrice ha poi spiegato alla corte come si svolgevano i tanto chiacchierati “massaggi” che le ragazze avrebbero dovuto fare a Jeffrey Epstein. "Quello che accadeva in quelle stanze non erano massaggi, ma abusi sessuali”. Ghislaine Maxwell è stata accusata dalle vittime di Jeffrey Epstein, tra cui Virginia Giuffre, di adescarle con la scusa di un lavoro da massaggiatrici. L’accusa ha definito il sistema che Epstein e la Maxwell hanno portato avanti dai primi anni '90 fino al 2004, “uno schema piramidale di abusi”, presentando alla corte il caso di Jane, la prima delle quattro vittime che testimonieranno al processo contro Ghislaine Maxwell, che all’epoca delle violenze subite aveva 14 anni. "Vi voglio parlare di una giovane di nome Jane”, ha affermato l’accusa, raccontando che la ragazza fu presentata al finanziere e alla sua complice ad un campo estivo, di cui Epstein era donatore. "Ciò che Jane non sapeva è che l’uomo e la donna erano predatori sessuali”, ha proseguito il sostituto procuratore, sottolineando che fu l’imputata, ovvero Ghislaine Maxwell, ad adescare Jane. La ricostruzione dei fatti della Pomerantz evidenzia quindi l’attività predatoria della coppia Epstein/Maxwell, i quali agivano secondo uno schema ben preciso, con il fine di attirare le giovanissime vittime all’interno di una rete fatta di abusi. Dal 2000 lo schema sarebbe cambiato, ha raccontato la Pomerantz, e alle ragazze venivano offerti soldi in cambio delle prestazioni sessuali. In risposta alla ricostruzione dell’accusa, l’avvocato difensore della Maxwell, Bobbi Sternheim ha voluto precisare di essere orgogliosa di difendere la Maxwell. La linea difensiva che la Sternheim ha messo in campo nel primo giorno di processo si basa sul far passare Ghislaine Maxwell da carnefice a vittima. Il legale ha infatti affermato che la sua assistita sarebbe il capro espiatorio di Epstein, e che le vittime che hanno accusato Ghislaine Maxwell lo avrebbero fatto per soldi. Ghislaine Maxwell, compagna e complice dei crimini di Jeffrey Epstein, potrebbe tirare in ballo diverse importanti personalità durante questo processo, come il suo intimo amico Andrea d’Inghilterra, accusato da Virginia Giuffre di aver abusato di lei a 17 anni, e offuscare per sempre la sua immagine già sbiadita.

Mariangela Garofano. Il giornalismo è la mia passione fin dai tempi dell’università. Per ilGiornale.it scrivo di cronaca e spettacoli. Recensisco romanzi per alcuni blog letterari da diversi anni. Da sempre appassionata di scrittura e libri, ho svolto il lavoro di correttore di bozze. Per amore della lettura, ho gestito anche una libreria a Bologna

DAGONEWS il 30 novembre 2021. Il "segugio" Donald Trump e il suo "gregario" Jeffrey Epstein si scatenavano insieme ai concorsi di bellezza. A rivelarlo è Jill Harth, truccatrice di celebrità ed ex organizzatrice di concorsi, che ha raccontato come Trump abbia tentato di violentarla e molestarla sessualmente durante un periodo di cinque anni, secondo una causa intentata nel 1997, che è stata successivamente abbandonata. Ora parla della stretta amicizia di Epstein e Trump: «Entrambi seducevano le donne con i loro soldi. Era un gioco per catturare le ragazze e vedere con chi dei due sarebbe andata. Erano in competizione tra loro. Erano entrambi a caccia». Secondo Harth, Trump era desideroso di essere coinvolto nei concorsi di bellezza, promettendo di ospitare e promuovere gli eventi che lei organizzava nei suoi hotel e casinò in tutto il mondo.  Per Harth, Epstein era un "gregario di basso profilo" e Donald un "uomo invadente": «Non ho mai sentito che Jeffrey fosse aggressivo. Trump era molto invadente e molto prepotente. Jeffrey non era così, non era una persona appariscente, non diceva molto. Jeffrey aveva contatti con Victoria's Secret e Donald si vantava: '”Conosci Jeffrey? Il mio amico può farti entrare in Victoria's Secret”. Lo ha fatto con tante ragazze. Quei due erano decisamente amici intimi, erano molto uniti, vivevano a due isolati di distanza a New York. Ora sta minimizzando perché, ovviamente, Epstein è considerato un pedofilo e non vuole essere messo nella stessa categoria. Hanno sempre avuto donne intorno a loro. Non erano tutte adolescenti - ho avuto alcuni adolescenti agli eventi, ma erano per lo più di età compresa tra 18 e 30 anni. C'erano alcune minorenni, ho sempre avuto problemi a prenderle, perché dovevo guardarle come falchi. Sono sicura che è questo il motivo per cui a Donald piaceva l'attività del concorso. Voleva solo avere la scelta libera nella cucciolata».

DAGONEWS il 24 novembre 2021. Jeffrey Epstein è stato un truffatore fino alla fine. Nelle ultime ore di vita ha chiesto di poter parlare al telefono con la madre che, in realtà, è morta nel 2004. La chiamata, invece, fu fatta alla sua fidanzata di allora, la bielorussa Katyna Shuliak, una 30enne che aveva aiutato a frequentare una scuola di odontoiatria. Era la sera del 10 agosto 2019: La telefonata durò 15 minuti e il miliardario non fece alcun accenno al fatto che voleva suicidarsi. Ma al responsabile dell’unità Epstein non rivelò la vera identità dell’interlocutore, dicendo che stava parlando con la madre. Dalle 2.000 pagine di documenti del Federal Bureau of Prisons (BOP) è emerso che Epstein “non aveva alcuna intenzione di togliersi la vita”. «Non ho alcun interesse ad uccidermi - disse a uno psicologo – Sono un codardo, non mi piace il dolore». Nel referto il medico scrisse che “era orientato al futuro”. Un mese dopo, il 10 agosto, Epstein venne trovato nella sua cella con un lenzuolo intorno alla gola.

DAGONEWS il 25 novembre 2021. Jeffrey Epstein ha trascorso i suoi ultimi giorni tormentato da un compagno di cella le cui incessanti chiacchiere gli impedivano di dormire, temendo un attacco dell’MS-13 e incapace di andare in bagno. I dettagli emergono dai documenti ottenuti dal Bureau of Prisons su richiesta del Freedom of Information Act. I documenti descrivono un uomo che, secondo gli atti del Bureau, aveva tentato il suicidio ripetutamente, ma era valutato dagli psicologi come sano, psicologicamente stabile e senza alcun rischio di farsi del male. Nel documento di valutazione psicologica del 1° agosto 2019 si legge che era rimasto stupito quando i Marshal gli avevano chiesto di firmare un modulo in cui affermava che aveva tendenze suicide. Invece si lamentava del fatto che, nonostante avesse un dispositivo per le apnee notturne, non riusciva a dormire perché il suo compagno di cella parlava molto e l'unità in cui era alloggiato era rumorosa. Ha rifiutato l'offerta dello psicologo per vedere se potevano farlo trasferire in una nuova cella. In una valutazione dettagliata, lo psicologo ha stabilito che Epstein era "psicologicamente stabile" e non aveva bisogno di essere sotto osservazione per il rischio di suicidio. Dai documenti emerge che il personale penitenziario si è dimostrato negligente o incompetente, tenendo in considerazione le parole di un “sociopatico” che diceva di non avere tendenze suicide, nonostante avesse tentato di togliersi la vita. 

Dagotraduzione dal Sun il 22 ottobre 2021. Una delle vittime di Jeffrey Epstein ha raccontato che il famigerato Zorro Ranch, la tenuta nel deserto del New Mexico appartenuta al miliardario, aveva tre sale computer «grandi quanto una casa» per spiare ospiti famosi, tra cui il principe Andrea. Secondo l’ex dipendente Maria Farmer, tra i filmati ci sarebbero anche le riprese del presunto soggiorno di sette giorni del duca di York.  Secondo quanto riferito, Epstein voleva usare il ranch per inseminare le donne con il suo sperma con l’obiettivo di creare una «razza superiore». Il proprietario della stazione radio locale Eddie Aragon ha ottenuto i progetti della tenuta risalenti al 1998, cinque anni dopo l’acquisto da parte di Epstein della proprietà. I piani, visionati da The Sun, mostrano un enorme piano interrato, di circa 2500 metri quadrati, dove sono disegnate sale per esercizi, massaggi e jacuzzi e successivamente trasformato in una zona piscina. Il progetto mostra anche tre «stanze meccaniche» insolitamente grandi. Secondo Maria Farmer erano piene di computer e apparecchiature video che servivano a Epstein e Ghislaine Maxwell per la loro rete di spionaggio. «Tutte le residenze di Epstein avevano queste stanze meccaniche e sistemi di tunnel. Lo so perché me lo ha detto Epstein. Queste stanze erano enormi, più grandi di una casa. Non ho idea del perché qualcuno abbia bisogno di così tanti computer in una stanza. C'erano telecamere stenopeiche per registrare tutto in ogni tenuta. Le telecamere erano onnipresenti. Non potevi vederle a meno che non ti venisse indicato». Epstein ha avuto molti ospiti nel suo ranch nel corso degli anni, tra cui il principe Andrea, che presumibilmente è andato in vacanza lì con la sua "amica" neurochirurga, la dottoressa Melanie Walker, che l'ex governante di Zorro Deidre Stratton ha descritto come «bella, giovane e brillante». Stratton in precedenza ha affermato di essere stata incaricata di prendersi cura del reale, che le ha chiesto del tè che lo avrebbe reso «arrapato», affermando: «Mi ha chiesto di trovarne uno che lo rendesse più arrapato, e che non fosse stato interessante per lei. Immagino perché ha capito che il suo lavoro era intrattenerlo». The Sun ha contattato Walker, che non ha mai commentato la sua relazione con il Duca. Il duca avrebbe anche trascorso due giorni da solo nel ranch di Epstein nel 2001 con la "schiava sessuale" del miliardario pedofilo Virginia Roberts, secondo i documenti del tribunale. Un manoscritto scritto dalla signora Roberts - che all'epoca aveva 17 o 18 anni - dice che si è «divertito molto» e che lei gli ha fatto «massaggi erotici», in seguito pagata «quasi mille dollari» da Epstein. Secondo l’architetto del ranch nel New Mexico, nel corridoio dell’ascensore del seminterrato era stato appeso un ritratto alto un metro e ottanta di Ghislaine Maxwell nuda, con le gambe aperte e un pugnale d’oro nella mano destra, ed era la prima cosa che gli ospiti, comprese le vittime, vedevano scendendo nel seminterrato. Farmer, 51 anni, ha lavorato come artista interna e receptionist presso la casa di Epstein a New York nel 1996 prima di essere trasferita nella tenuta di 23 stanze e 3.200 metri quadrati dell'uomo d'affari Les Wexner a New Albany, Ohio, dove afferma di essere stata abusata da Epstein e Maxwell.

"Le telecamere riprendevano gli abusi": la confessione choc inguaia il figlio della Regina. Mariangela Garofano il 22 Ottobre 2021 su Il Giornale. Maria Farmer, dipendente e vittima di Jeffrey Epstein, ha rivelato che nelle case del pedofilo erano presenti "enormi stanze" piene di computer e addirittura dei tunnel sotterranei. Il milionario pedofilo Jeffrey Epstein, morto suicida in circostanze misteriose nel 2019, continua a stupire con nuove rivelazioni sulle sue bizzarre abitudini. Secondo quanto riportato dall’ex dipendente e vittima del finanziere, Maria Farmer al Daily Mail, tutte le sue dimore in giro per il mondo possedevano enormi stanze, attrezzate con computer e telecamere. Delle vere e proprie centrali operative. La Farmer ha rivelato che nel sontuoso Zorro Ranch in Nex Mexico di proprietà del ricco magnate, vi erano stanze “più grandi di una casa” da cui Epstein era solito spiare i suoi facoltosi amici, tra cui il principe Andrea. Ogni proprietà del magnate possedeva telecamere nascoste ovunque, per riprendere tutto ciò che accadeva all’interno, con lo scopo di ricattare gli ospiti. “Tutte le case di Epstein avevano delle sale computer e un sistema di tunnel sotterranei”, ha raccontato la Farmer, che prosegue: “Queste stanze erano gigantesche, più grandi delle case stesse. Non ho idea del perché qualcuno dovrebbe avere così tanti computer in una sola stanza”. Tra tutte le dimore del finanziere, il misterioso Zorro Ranch possedeva elementi alquanto inquietanti al suo interno. Eddie Aragon, il proprietario di una radio locale, ha rivelato al Daily Mail che un architetto gli aveva fornito le planimetrie dell’enorme ranch. “Ogni camera da letto aveva un vestibolo, dove le vittime probabilmente attendevano l’arrivo di Epstein”, ha dichiarato Aragon. E ancora: “Le camere, le salette dove le ragazze dovevano aspettare e il gran numero di porte, erano usate per far sentire le vittime in trappola. Davano l’idea di non poter fuggire. Avete idea di come si sentivano delle giovani ragazzine? Vulnerabili e senza speranze”. Aragon ha rivelato infine il particolare più sconcertante di tutti che vide nel ranch: uscendo dall'ascensore che portava alla piscina, si trovava un dipinto raffigurante la complice di Epstein, Ghislaine Maxwell, nuda, con in mano un pugnale. "Questo", ha spiegato Aragon, "era stato progettato per intimidire le vittime e chiunque scendesse a quel piano". Il figlio prediletto della regina Elisabetta avrebbe fatto visita all’amico nell'ambiguo ranch in più occasioni. La prima volta insieme all’amica neurochirurgo Melanie Walker e nel 2001 trascorse in New Mexico due giorni in compagnia della “schiava sessuale” Virginia Giuffre, che lo ha denunciato recentemente per abusi sessuali su minori. E proprio durante il suo soggiorno allo Zorro Ranch, Maria Farmer ha affermato che il duca sarebbe stato ripreso di nascosto insieme alla Giuffre, che all’epoca aveva 17 anni. La 38enne americana in seguito raccontò alla polizia di essere stata pagata circa mille dollari per “intrattenere” il duca e praticargli dei massaggi erotici, durante quel weekend passato al ranch. Il principe ha sempre negato ogni illazione della Giuffre, sostenendo di non averla mai conosciuta. Ma la donna ha continuato ad affermare di essere stata “svenduta” al reale inglese, il quale è ora costretto ad affrontare la battaglia legale intentata dalla sua accusatrice, che ha offuscato sempre di più la sua immagine e quella della royal family. 

Mariangela Garofano. Il giornalismo è la mia passione fin dai tempi dell’università. Per ilGiornale.it scrivo di cronaca e spettacoli. Recensisco romanzi per alcuni blog letterari da diversi anni. Da sempre appassionata di scrittura e libri, ho svolto il lavoro di correttore di bozze. Per amore della lettura, ho gestito anche una libreria a Bologna

"Con i piedi spingeva sul mio seno": i retroscena choc sugli stupri. Mariangela Garofano il 28 Settembre 2021 su Il Giornale. Nuovi retroscena sul pedofilo americano accusato di aver abusato indisturbato di molte ragazze. Il documentario choc. A novembre inizierà il processo di Ghislaine Maxwell, la complice del milionario accusato di pedofilia, Jeffrey Epstein. In attesa di scoprire cosa avrà da raccontare ai giudici la ricca dama dell’alta società britannica, i racconti delle vittime del finanziere continuano a fare notizia. Domenica 26 settembre è andato in onda, in esclusiva per l’Italia su La7, il documentario “Surviving Jeffrey Epstein”, una raccolta delle testimonianze di alcune donne che hanno subito gli abusi del magnate, quando erano soltanto delle ragazzine. Tra le vittime che hanno deciso di raccontare i particolari più agghiaccianti delle violenze patite da Epstein troviamo Virginia Giuffre, che ha denunciato il principe Andrea per aver avuto rapporti sessuali con lei quando era minorenne, obbligata dalla coppia di aguzzini Epstein-Maxwell. C'è un fil rouge che accomuna le testimonianze: tutte le ragazze abusate provenivano da famiglie problematiche e tutte sono state adescate da altre donne. Sì, perché Jeffrey Epstein aveva creato un sistema piramidale in cui lui e la Maxwell erano, come le definisce nel documentario una delle vittime, Theresa Helm, "il re e la regina”. Sotto di loro altre ragazze eseguivano gli ordini, adocchiando le giovani adatte al loro "re". Theresa aveva 21 anni quando incontrò Sarah Kellen, una "collaboratrice" di Epstein, che diventerà da subito sua amica. “Entrai in contatto con Sarah Kellen”, racconta la Helm, che prosegue rivelando come la Kellen si fingesse sua amica per stabilire un rapporto di fiducia con lei. “Ci incontrammo a Santa a Monica e mi trovai subito bene con lei. Avevamo molto in comune, dall’età al colore dei capelli. Eravamo simili fisicamente. Ho pensato fosse proprio come me. Sarah mi mise in contatto con la signora Maxwell. Mi recai quindi a New York per incontrarla di persona”. A questo punto Theresa rivela che dopo aver fatto un massaggio a Ghislaine Maxwell, le venne ordinato di incontrare Epstein. “Dopo il massaggio mi disse che sarei dovuta andare ad incontrare anche il suo compagno, Jeffrey, per continuare il colloquio”. Le giovani passavano dalla Kellen alla Maxwell, che con i suoi modi da elegante signora dell’alta borghesia britannica, le manipolava e instaurava con loro un legame di fiducia. Le giovani, alcune appena quattordicenni, venivano svendute a Epstein da altre ragazze come loro, che invece di salvarle, le usavano per il piacere perverso del pedofilo. “Andai da Jeffrey quella sera”, racconta ancora Theresa Helm, “per fargli un massaggio ai piedi. Ma quando lui iniziò a spingere con il piede sul mio seno, mi alzai e lasciai la stanza. Ma lui mi seguì, mi immobilizzò e mi aggredì. Mi sentivo una stupida. Sapevano esattamente come fare perché ti fidassi di loro. Per loro era un gioco malato e perverso”. Ma com’è possibile che un abile truffatore e violentatore seriale del calibro di Jeffrey Epstein avesse amicizie altolocate anche dopo il suo primo arresto nel 2008? Dopo aver scontato la sua condanna, il magnate fu inserito nel registro dei predatori sessuali, ma i legami con gli uomini più potenti del jet set internazionale non cessarono. Da Bill Gates al principe Andrea di York, tutti sapevano delle sue perversioni, e avevano continuato a frequentarlo, ad andare alle sue feste. E soprattutto, a ricevere le sue cospicue donazioni. "Epstein aveva ideato un vero e proprio metodo per conquistare le persone. Era un campione di seduzione", ha raccontato l'ex ad della Towers Financial, Steven Hoffenberg. “In America il dollaro è tutto, funziona così”, ha affermato Friedman, spiegando che negli Stati Uniti per arrivare agli ambienti che contano basta avere molti soldi. A cascare nella rete del diabolico magnate fu anche l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, immortalato sul jet privato di Epstein, durante dei viaggi di lavoro. Ma non è tutto: ci sono testimoni che hanno rivelato di aver visto Clinton più volte nella villa ai Caraibi di Epstein. “Bill Clinton ha commesso un errore”, ha commentato Alan Friedman. Ma i soldi non possono essere l’unico motivo che spinse alcuni tra i più importanti uomini del pianeta a fare affari con un criminale. Astuto quanto diabolico, Jeffrey Epstein ricattava i suoi facoltosi amici. Nelle sue lussuose dimore, al momento del suo arresto furono trovate telecamere in ogni stanza e camere con molti monitor, da cui molto probabilmente il padrone di casa spiava i suoi ospiti per ricattarli con materiale compromettente. Jeffrey Epstein è stato trovato ad agosto 2019 impiccato nella sua cella nel carcere in cui era detenuto, portando con sé i segreti scottanti di molte personalità influenti.

 Mariangela Garofano. Il giornalismo è la mia passione fin dai tempi dell’università. Per ilGiornale.it scrivo di cronaca e spettacoli. Recensisco romanzi per alcuni blog letterari da diversi anni. Da sempre appassionata di scrittura e libri, ho svolto il lavoro di correttore di bozze. Per amore della lettura, ho gestito anche una libreria a Bologna

Dagotraduzione dal Daily Mail il 2 settembre 2021. Courtney Wild, una delle presunte vittime di Jeffrey Epstein, ha presentato ricorso alla Corte Suprema perché riveda le sue accuse contro i pubblici ministeri federali di Miami, che avrebbero violato i suoi diritti civili. Courtney Wild è stata tra le prime vittime di Epstein a farsi avanti: la donna, che oggi ha 33 anni ed è madre di due figli, aveva 14 anni e viveva come una senzatetto quando Epstein la reclutò nella sua squadra a Palm Beach, in Florida. Nel 2008 Epstein fu condannato a 18 mesi di carcere, ma riuscì ad ottenere di avere una propria ala, pagare le proprie guardie e lasciare la prigione durante il giorno per andare nel suo ufficio. L’accordo fu siglato senza consultare i suoi accusatori, e quell’anno Wild fece causa al Dipartimento di Giustizia per avere informazioni dai pubblici ministeri sulla loro indagine su Epstein. Per i successivi 13 anni Wild ha continuato a combattere. La sua azione legale ha costretto il governo ad ammettere che l’ufficio del procuratore degli Stati Uniti aveva raggiunto un accordo con Epstein diversi mesi prima, senza informare le sue presunte vittime. «Senza il nostro caso, probabilmente nessuno avrebbe visto l’accordo segreto, l’accordo di non processo» ha detto l’avvocato di Wild, Brad Edwards. «Senza quell'azione, nessuno avrebbe saputo quanto fossero cattivi [Epstein] e gli altri suoi co-cospiratori. Nessuno avrebbe mai capito tutta la storia». Ad aprile la Corte d’Appello ha però respinto il caso di Wild. «Nonostante la nostra simpatia per la signora Wild e altri come lei, che hanno sofferto indicibile orrore per mano di Epstein, solo per essere lasciati all'oscuro - e, così sembra, fuorviati - dagli avvocati del governo, ci troviamo costretti a negare la sua petizione». Gli avvocati di Wild stanno ora presentando una petizione alla Corte Suprema, sostenendo che, a meno che i giudici non intervengano, il governo sarà libero di mettere da parte le vittime mentre raggiunge accordi simili di non persecuzione con obiettivi di indagini sensibili. «Dato che la questione legale di fondo riguarda una pratica che il governo intende mantenere segreta, questa Corte potrebbe trovarsi di fronte a un'opportunità, ora o mai più, di considerare la questione presentata», hanno scritto gli avvocati di Wild.  «È stato solo a causa di circostanze insolite che l'NPA di Jeffrey Epstein è stato rivelato alle vittime - e al pubblico». «In casi futuri, non vi è alcuna garanzia che il governo riveli i suoi NPA clandestini, tanto meno li divulghi in un modo che consenta il tipo di contestazioni distrettuali e di corte d'appello che si sono verificate qui». 

"Aveva le ossa rotte. Epstein non si è suicidato". Mariangela Garofano il 12 Agosto 2021 su Il Giornale. Julie K. Brown, la reporter del Miami Herald che ha contribuito alla cattura del pedofilo Jeffrey Epstein, esprime tutti i suoi dubbi circa il suicidio del milionario. Le ombre sulla morte del milionario pedofilo Jeffrey Epstein sono tante, così come gli interrogativi riguardo a come sia sfuggito alla giustizia per oltre vent’anni. Incriminato per aver fatto prostituire una minorenne, nel 2008 il finanziere di Coney Island viene arrestato e il vaso di Pandora si apre. Le autorità della Florida scoprono che Epstein ha abusato di tante ragazze, alcune delle quali bambine di meno di 13 anni. Ma inspiegabilmente la polizia non riesce ad incastrarlo per i gravi reati di cui è sospettato. “Per l'intera durata delle indagini tutti sono restii a mandare Epstein in carcere”, si legge sul The Guardian, “e la polizia era sempre un passo indietro al suo bersaglio”. Quando la polizia arriva nella villa di Palm Beach del milionario non trova più nulla. Gli hard drive di sei computer sono stati portati via e mancano le registrazioni delle telecamere di sorveglianza della casa. Una persona accusata dei suoi crimini avrebbe ricevuto una condanna di almeno 20 anni, data la gravità dei reati commessi. Ma Epstein se la caverà con 18 mesi di prigione e ottiene l’immunità per sé e i suoi assistenti. Com'è riuscito un predatore sessuale del calibro di Epstein a cavarsela con così poco? È questa la domanda che la reporter del Miami Herald, Julie K. Brown, si è posta prima di iniziare ad investigare sui trascorsi del ricco finanziere. La giornalista rintraccia più di 80 vittime del pedofilo, le cui testimonianze verranno da lei raccolte per l’inchiesta pubblicata dal Miami Herald e grazie alla quale nel 2019 Jeffrey Epstein è stato arrestato. Intervistata dal Corriere Della Sera, la Brown ha espresso i suoi dubbi sul suicidio, dubbi che ha riportato in un capitolo del suo libro fresco di pubblicazione, “Perversion of Justice”. “Le autorità non hanno mai reso pubbliche le prove che dicono di avere”, ha affermato la reporter al Corriere, continuando: “Il fratello Mark Epstein e il patologo forense che fece l’autopsia per la famiglia non ci credono. Sono accadute diverse cose sospette: il cadavere è stato rimosso subito, anche se tutti sanno che non va alterata la scena del crimine, di cui peraltro non sono state scattate foto”. La Brown solleva poi altre due anomalie relative al giorno della morte di Epstein: "Era in cella con uno spacciatore che proprio quella notte fu inspiegabilmente trasferito", dichiara la reporter. E ancora: "I due guardiani che dovevano monitorarlo si sarebbero addormentati, contemporaneamente. Non c’era alcun biglietto d’addio". Un’altra incongruenza con la versione ufficiale fu riscontrata dal medico che effettuò l’autopsia sul cadavere del finanziere per conto dei familiari. Il collo di Epstein presentava diverse ossa rotte, come se fosse stato strangolato. “Un pedofilo è nel gradino più basso della gerarchia in carcere, ma lui era ricco", afferma la Brown al quotidiano. "Puoi pagare un detenuto per ucciderne un altro. E c’erano molte persone che lo volevano morto. Non significa necessariamente che sia stato assassinato, ma ci sono troppe domande cui le autorità non hanno risposto”.

L’inviata del Corriere pone poi l’attenzione sul materiale video che Epstein era solito registrate per ricattare i suoi facoltosi e influenti ospiti, che di sicuro non dormono sonni tranquilli. “C’erano sicuramente telecamere, e c’era chi faceva sesso con le ragazze in quella casa", sostiene la giornalista. "Se anche non sono state registrate, di certo le persone coinvolte sono preoccupate”. Per la Brown il suicidio di Epstein sarebbe quindi “anomalo". I segreti che il milionario custodiva sono stati sotterrati con lui, ma la sua complice Ghislaine Maxwell è ora in prigione e potrebbe fornire materiale scottante su personaggi del calibro del principe Andrea d'Inghilterra. Lunedì 8 agosto il principe Andrea è stato denunciato da una vittima di Epstein per abusi sessuali su minore. Jeffrey Epstein è morto, e come ha affermato Julie K. Brown, i misteri sui suoi crimini potrebbero restare tali, ma le autorità dovranno fare il possibile per trovare tutti coloro che vennero coinvolti negli abusi perpetrati da Epstein e la sua complice, Ghislaine Maxwell. La Brown ne è convinta: “Non era opera di due sole persone”.  

La giornalista Julie K. Brown riapre il caso. “Jeffrey Epstein non si è suicidato”, la bomba sul miliardario accusato di pedofilia morto in cella. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Agosto 2021. Jeffrey Epstein non si è suicidato. A sganciare la bomba è Julie K. Brown, giornalista del Miami Herald che attraverso la sua inchiesta aveva fatto emergere le accuse di traffico sessuale di minorenni a carico del consulente finanziario statunitense. Un caso che ha scosso la politica e la società americane. Epstein è morto il 10 agosto 2019, nel carcere di Manhattan. E Brown, a due anni dalla morte, pubblica un libro, Perversion of Justice edito dai tipi di Harper&Collins. Una trovata pubblicitaria o un pezzo mancante del puzzle di uno dei casi più sconvolgenti degli ultimi anni? Epstein era stato arrestato con l’accusa di aver creato una sorta di rete e di aver usato amici, potere, denaro e influenze, anche attraverso minacce e intimidazioni, per abusare di decine di ragazzine. Era stato arrestato il 6 luglio 2019. Aveva 66 anni. Brown aveva identificato 80 vittime passate dalle residenze del consulente a Manhattan, Palm Beach, Little St. James e New Mexico. Secondo le autorità il miliardario si è impiccato in cella con un lenzuolo. La giornalista ha invece intitolato un capitolo del libro in uscita “Epstein non si è suicidato”. E questa è una delle argomentazioni fornite da Brown in un’intervista a Il Corriere della Sera: “Le autorità non hanno mai reso pubbliche le prove che dicono di avere. Il fratello Mark Epstein e il patologo forense che fece l’autopsia per la famiglia non ci credono. Sono accadute diverse cose sospette: il cadavere è stato rimosso subito, anche se tutti sanno che non va alterata la scena del crimine, di cui peraltro non sono state scattate foto. Né è chiaro che fine abbiano fatto le riprese delle telecamere di sorveglianza. Era in cella con uno spacciatore che proprio quella notte fu inspiegabilmente trasferito. I due guardiani che dovevano monitorarlo si sarebbero addormentati, contemporaneamente. Non c’era alcun biglietto d’addio”. Sul caso Epstein non sono mancate negli anni versioni alternative e perfino teorie del complotto: le sue accuse avrebbero potuto travolgere anche politici e mondo dello spettacolo – era stato molto amico per esempio sia di Donald Trump che di Bill Clinton mentre Virginia Giuffe, 38 anni, ha appena fatto causa al principe Andrea di Inghilterra, figlio della Regina Elisabetta e del Principe Filippo, per abusi quando lei era minorenne. Anche il Washington Post scrisse nell’agosto del 2019, pochi giorni dopo la morte, che le ossa del collo rotte dell’uomo avrebbero fatto pensare più a uno strangolamento che a un’impiccagione. Ghislaine Maxwell, ex fidanzata del finanziere, erede del magnate britannico Rober Maxwell, è ancora in carcere, al Metropolitan Detention Center di Brooklyn, in attesa del processo. Le autorità la accusano di aver aiutato Epstein a organizzare l’intero sistema di abusi: avrebbe procurato le minorenni e anche partecipato agli abusi del miliardario. “Senza Ghislaine, Jeffrey non avrebbe potuto fare quello che ha fatto – ha osservato una delle presunte vittime in una dichiarazione durante l’udienza preliminare – era una predatrice, un mostro”. Per Brown tutta quella rete non poteva essere opera di sole due persone.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Viviana Mazza per il "Corriere della Sera" il 12 agosto 2021. Due anni dopo la morte di Jeffrey Epstein in un carcere di Manhattan il 10 agosto 2019, molte domande restano senza risposta. Usando amici potenti, denaro, minacce e intimidazioni, il consulente finanziario milionario che abusò di decine di ragazzine era riuscito in passato a sfuggire alla giustizia, ma il 6 luglio 2019, a 66 anni, fu arrestato con l'accusa di traffico sessuale di minorenni, grazie all'inchiesta di Julie K. Brown del Miami Herald, che aveva identificato 80 vittime passate dalle sue residenze a Manhattan, Palm Beach, sull'isola di Little St. James e in New Mexico. Brown, una delle persone che meglio conoscono il caso, ha appena pubblicato un libro, Perversion of Justice (Giustizia perversa) edito da HarperCollins, che racconta la vicenda - e i pezzi del puzzle che mancano ancora. Epstein fu trovato all'alba, le autorità dissero che si era impiccato in cella con un lenzuolo. Eppure un capitolo del suo libro si intitola: «Epstein non si è suicidato».

Pur prendendo le distanze da teorie complottiste (inclusa quella rilanciata da Trump che Epstein fosse stato ucciso per proteggere i Clinton), perché lei non riesce a credere al suicidio?

«Le autorità non hanno mai reso pubbliche le prove che dicono di avere. Il fratello Mark Epstein e il patologo forense che fece l'autopsia per la famiglia non ci credono. Sono accadute diverse cose sospette: il cadavere è stato rimosso subito, anche se tutti sanno che non va alterata la scena del crimine, di cui peraltro non sono state scattate foto. Né è chiaro che fine abbiano fatto le riprese delle telecamere di sorveglianza. Era in cella con uno spacciatore che proprio quella notte fu inspiegabilmente trasferito. I due guardiani che dovevano monitorarlo si sarebbero addormentati, contemporaneamente. Non c'era alcun biglietto d'addio».

Il 15 agosto il Washington Post scrisse che Epstein aveva diverse ossa del collo rotte, com' è più tipico nei casi di strangolamento che di impiccagione. Il patologo assunto dal fratello ha rilevato che il cappio ha lasciato una ferita al centro del collo e non sotto la mascella.

Secondo lei cosa è successo?

«Mi è difficile credere che uno come lui che aveva vissuto sempre al di sopra della legge abbia mollato così facilmente. Era già impegnato a manipolare il sistema carcerario; assumeva nuovi avvocati; pagava gli altri detenuti. Un pedofilo è nel gradino più basso della gerarchia in carcere, ma lui era ricco. Puoi pagare un detenuto per ucciderne un altro. E c'erano molte persone che lo volevano morto. Non significa necessariamente che sia stato assassinato, ma ci sono troppe domande cui le autorità non hanno risposto».

È possibile che esistano registrazioni video degli incontri tra ragazze e amici importanti a casa sua?

«C'erano sicuramente telecamere, e c'era chi faceva sesso con le ragazze in quella casa. Se anche non sono state registrate, di certo le persone coinvolte sono preoccupate».

Virginia Giuffre, che dice di essere stata «prestata» da Epstein ad altri uomini, ha appena intentato una causa civile a New York contro uno di loro: il principe Andrea.

Cosa può emergere?

«Per ora le uniche prove che ha contro di lui sono la sua parola e una foto insieme, ma chissà che in una causa civile non ne emergano altre. Giuffre non è l'unica: altre ragazze hanno detto di essere state vittima di abusi da parte di personaggi importanti, ma per ora non sono venute allo scoperto». 

Trump e Clinton erano amici di Epstein in un periodo in cui lui era chiaramente coinvolto con ragazze minorenni. Lei sottolinea che non ci sono prove contro di loro, ma si è pentita di non aver incluso nella sua iniziale inchiesta il caso di Katie Johnson che nel 2016, quando Trump era in corsa per la Casa Bianca, disse di essere stata violentata da lui e da Epstein all'età di 13 anni.

«Io non so se la sua storia sia vera o no, ma corrisponde al modus operandi di Epstein. Non è provato che sia coinvolto Trump, ma lei ha fatto causa e aveva un'altra testimone. È parte della storia».

Infine, c'è Ghislaine Maxwell, che ora è in carcere in attesa del processo.

«È evidente che Ghislaine Maxwell sa molte cose. Era sempre sugli aerei di Epstein, viveva nelle sue case e le autorità ritengono che lo abbia aiutato ad organizzare l'intero sistema di abusi sulle minorenni. Alcuni dei misteri su Jeffrey Epstein probabilmente resteranno tali a lungo, un po' come l'assassinio di Jfk. Ma le autorità devono indagare fino in fondo tutti coloro che erano coinvolti negli abusi e nel traffico di minorenni. Non era opera di due sole persone».

"Siamo entrambi dipendenti seriali dal sesso": il legame segreto fra Epstein e il figlio della Regina. Mariangela Garofano l'11 Agosto 2021 su Il Giornale. Il principe Andrea è stato denunciato formalmente da una vittima di Jeffrey Epstein per abusi sessuali. Ma cosa legava un principe di sangue blu a un finanziere sociopatico? Due anni e un giorno fa il milionario Jeffrey Epstein viene trovato impiccato nella sua cella del Metropolitan Correctional Center di Manhattan da due guardie. “Thomas e Noel trovarono Epstein privo di conoscenza” , si legge in “A convenient Death: The Dismise of Jeffrey Epstein", “impiccato alla sbarra del letto, con delle lenzuola di carta arancione". Nel libro, scritto da Alana Goodman e Daniel Shalper, i due autori cercano di far luce su una delle morti più misteriose degli ultimi anni. Epstein era un ricchissimo magnate amico dei più potenti uomini al mondo, tra cui il principe Andrea d’Inghilterra, oggi denunciato da una delle vittime di Jeffrey per abusi sessuali su minore.

Cosa non torna nella morte di Epstein. Accusato di aver portato avanti un traffico di prostituzione minorile indisturbato per anni, il perverso finanziere newyorkese viene arrestato a luglio 2019 e posto nel braccio 9-South, dove viene sorvegliato 24 ore su 24, perché considerato un soggetto a rischio suicidio. Ma ciò che rivelano gli autori nel libro mette in risalto come Epstein, un soggetto “sociopatico”, avesse tutto fuorché intenzione di togliersi la vita. “Il 9 agosto Jeffrey incontrò i suoi legali nella sala delle conferenze per discutere la strategia per il processo”, si legge nel libro. E ancora: “Era deciso a lottare, dava ordini ed era contento al pensiero di andare avanti”. I legali di Epstein avevano inoltre fissato un un nuovo appello per chiedere l’uscita su cauzione del loro cliente il lunedì successivo. Ma altri particolari significativi non tornano: il compagno di cella del milionario viene improvvisamente trasferito senza una motivazione in un’altra prigione la mattina del suo decesso. Le due guardie addette alla sorveglianza notturna di Epstein si addormentano proprio quella notte, svegliandosi quando ormai il prigioniero si era già tolto la vita. Infine, secondo l’autopsia commissionata dai familiari del defunto, il collo di Epstein presentava diverse ossa rotte, tipici segni di strangolamento. Il mistero sulla sua morte rimarrà molto probabilmente tale, ma una cosa appare chiara: Jeffrey Epstein conosceva i più intimi segreti di personaggi del calibro di Bill Clinton, Muʿammar Gheddafi e il principe Andrea.

L'amicizia con il principe Andrea. La lunga amicizia tra Jeffrey Epstein e il principe Andrea d'Inghilterra nasce grazie ad un altro personaggio chiave nella vita del milionario, Ghislaine Maxwell. Figlia del barone dell’editoria britannica Robert Maxwell, Ghislaine frequenta fin da giovanissima l’alta società internazionale, diventando intima amica di Andrea e volando da un ricevimento esclusivo all’altro. Sono i primi anni '90 quando Ghislaine presenta Andrea ad Epstein, assetato di potere e ansioso di stringere alleanze con i più influenti uomini del pianeta. Ma cosa lega un uomo d’affari senza scrupoli e uno degli esponenti della più potente famiglia reale al mondo? La risposta arriva direttamente da Epstein, che intervistato dal giornalista investigativo sotto mentite spoglie Ian Halperin, ha raccontato candidamente del suo rapporto con il principe. “Il principe Andrea è il mio più intimo amico. Lo chiamo Air Mails Andy perché viaggia in continuazione. È un vero mondano. Alcuni dei momenti più divertenti della mia vita li ho passati in sua compagnia”. Ma è soltanto in seguito che il ricco brizzolato confessa sornione cosa lo legava davvero al figlio della regina Elisabetta. “Siamo molto simili, entrambi dipendenti seriali dal sesso”, ammette in tono confidenziale Epstein nel libro di Halperin, dal titolo "Controversy: Sex, Lies and Dirty Money By The World's Powerful Elite". “È l’unica persona che io conosca più ossessionato dalle donne e dal sesso di me. Abbiamo condiviso le stesse donne e da ciò che mi hanno raccontato, è davvero un pervertito a letto. Gli piacciono cose troppo strane anche per me, che sono il re dei pervertiti!”. Il tono compiaciuto con cui il magnate rivela i suoi più intimi segreti ad Halperin, il quale li riporterà nel suo libro solo dopo la morte di Epstein, non lascia dubbi riguardo a cosa accomunava il vizioso principe allo “squalo” di Wall Street.

Le accuse di abusi sessuali contro il principe. Il legame tra il multi milionario, accusato di essere un predatore sessuale già nei primi anni 2000 e Andrea di York, finisce su tutti i tabloid quando una vittima del magnate rivela di essere stata una delle sue “schiave sessuali”, pronta a soddisfare ogni più sordido desiderio di Epstein e di essere stata “trafficata” a molti suoi amici, tra cui il principe Andrea. Ma la rivelazione più scioccante è che la donna, all’epoca dei fatti era minorenne. Virginia Giuffre, una ragazza dal passato difficile, viene adescata da Ghislaine Maxwell, complice nel traffico di minorenni di Epstein, con la scusa dell'offerta di un lavoro da massaggiatrice. La 36enne sostiene di aver intrattenuto rapporti sessuali con il principe di casa Windsor in diverse occasioni, la prima delle quali all’età di 17 anni, nella dimora londinese della Maxwell, costretta da quest'ultima e da Epstein. Spuntano testimonianze che narrano di party sfrenati nella villa caraibica di Epstein, a cui partecipava anche il principe, che avrebbe abusato di Virginia con la complicità degli altri invitati. L’immagine di Andrea si disfa sotto gli occhi di una royal family impotente, che questa volta non lo perdona, e a novembre 2019 lo costringe a ritirarsi dalla vita pubblica. Sebbene il duca ammetta di essere stato amico di Jeffrey Epstein, durante un’intervista per la Bbc nega categoricamente di aver mai conosciuto Virginia Giuffre. Una mossa infelice che viene vista come un goffo tentativo di scagionarsi dall’accusa di essere andato a letto con una ragazza che all’epoca aveva la stessa età delle figlie. La Giuffre non arretra di un passo e lunedì 8 agosto 2021 ha depositato una denuncia contro di lui per abusi sessuali, presso un tribunale di New York. A questo punto l’era dei festini a porte chiuse in giro per il mondo è finita e Andrea dovrà fornire la sua versione dei fatti in tribunale. “Lui sa cosa ha fatto, io so cosa ha fatto”, ha affermato la Giuffre, che conclude: “E' tempo che Andrea dica la verità”. E questa volta, a decidere chi dei due mente saranno gli inquirenti, dai quali “Andy Miles” sarà interrogato sotto giuramento.

Mariangela Garofano. Il giornalismo è la mia passione fin dai tempi dell’università. Per ilGiornale.it scrivo di cronaca e spettacoli. Recensisco romanzi per alcuni blog letterari da diversi anni. Da sempre appassionata di scrittura e libri, ho svolto il lavoro di correttore di bozze. Per amore della lettura, ho gestito anche una...

(ANSA il 14 novembre 2021) - Una vita di inferno nel carcere dove è detenuta e quasi nessuna speranza di un processo giusto. Ghislaine Maxwell, la complice di Jeffrey Epstein, parla per la prima volta da dietro le sbarre. Lo fa in un'intervista esclusiva al Daily Mail, che ne diffonde delle anticipazioni. Maxwell descrive condizioni della sua detenzione: è costretta a non farsi più la doccia ogni giorno a causa dell'"inquietante guardia" che la fissa. In seguito a una fognatura aperta nella sua cella un topo le ha fatto regolarmente visita. "L'ho detto alle guardie ma non hanno fatto nulla fino a che il topo non è saltato fuori e la guardia ha urlato terrorizzata. A quel punto la fognatura è stata chiusa", racconta al Daily Mail denunciando il "disumano" isolamento a cui è costretta. Lunedì inizierà la selezione della giuria per il processo di Maxwell, che si aprirà il 29 novembre ed è atteso durare sei settimane. 

DAGONEWS DA dailymail.co.uk l'1 maggio 2021. L'avvocato di Ghislaine Maxwell ha rilasciato la prima foto della socialite incarcerata dal suo arresto lo scorso anno. Il cosiddetto “super avvocato” Bobbi Sternheim ha condiviso lo scatto ravvicinato di Maxwell, 58 anni, giovedì mentre il suo cliente si trova in prigione con accuse di traffico e abusi sessuali su ragazze di 14 anni. Gli avvocati della britannica hanno incluso l’immagine in un rapporto presentato in tribunale giovedì, esprimendo le loro preoccupazioni sul trattamento di Maxwell al Metropolitan Detention Center di Brooklyn. Nella foto si vede con un livido sotto il suo occhio sinistro, mentre l’acconciatura corta e scura di Maxwell è cresciuta ed è punteggiata di capelli grigi. Nonostante affermi di non avere uno specchio, Maxwell sembra gestire un certo livello di manutenzione con le sopracciglia ben depilate chiaramente in mostra. Dopo il rilascio della foto, un giudice ha ordinato al governo degli Stati Uniti di spiegare perché le guardie illuminano ripetutamente la cella di la notte, un'azione che secondo i suoi avvocati potrebbe aver portato alle contusioni. Nel suo ordine di giovedì, il giudice ha chiesto al governo di scoprire se Maxwell sia effettivamente sottoposta a una sorveglianza continua con torce elettriche ogni 15 minuti durante la notte o qualsiasi altra sorveglianza atipica con torcia. In tal caso, il governo dovrebbe spiegare le basi per farlo e se a Maxwell può essere fornita un'adeguata copertura per gli occhi. Le affermazioni di Maxwell secondo cui è stata maltrattata durante la custodia non sono state sufficienti per convincere LA giuria di tre giudici della corte d'appello di New York a revocare la decisione di negare la sua cauzione. Maxwell, 59 anni, si è dichiarata non colpevole di traffico sessuale e altre accuse per il suo presunto ruolo nel procurare quattro ragazze adolescenti affinché Epstein abusasse tra il 1994 e il 2004. Rischia fino a 80 anni di carcere se condannata. Sta cercando di ritardare il processo previsto per il 12 luglio 2021DAGONEWS DA dailymail.co.uk il 23 aprile 2021. Ghislaine Maxwell ha citato in giudizio gli editori di un libro che la ritrae "già colpevole". L'azione legale contro “L'île de tous les vices” (L’isola dei vizi), volume apparso sugli scaffali francesi il mese scorso, arriva mentre Maxwell è in attesa di processo a New York. È incriminata per traffico sessuale di ragazze minorenni e adescamento di minori, ma il caso non è ancora stato dimostrato. È questo il motivo per cui ha citato in giudizio Albin Michel, la casa editrice di Parigi, per "grave violazione della presunzione di innocenza". Dopo la notizia, Albin Michel non ha rilasciato alcun commento. Il libro "L'île de tous les vices" è stato scritto dal francese Jean-Gabriel Fredet e si concentra sulla relazione di Maxwell con Jeffrey Epstein, il miliardario trovato morto  ad agosto 2019 nella sua cella IN prigione di New York, dove era recluso dopo la condanna per traffico internazionale di minorenni. Traffico in cui sarebbe stata coinvolta anche Ghislaine Maxwell, che dopo essere stata a sua volta arrestata, nel luglio del 2020, ha sempre negato tutte le accuse. Maxwell nega tutte le accuse, dopo essere stata arrestata dall'FBI nel luglio 2020. Il team legale di Maxwell chiede ai giudici di Parigi di distruggere tutte le copie esistenti del libro e di ordinare che eventuali copie future dichiarino chiaramente che la donna ha diritto alla presunzione di innocenza. Inoltre, Maxwell chiede anche un risarcimento finanziario.

DAGONEWS DA dailymail.com il 4 aprile 2021. Ghislaine Maxwell ha affermato che il suo trattamento in prigione sia così grave che sarebbe "adatto per Hannibal Lecter". La presunta signora di Jeffrey Epstein ha dichiarato che le condizioni della sua carcerazione sarebbero appropriate per il serial killer immaginario de "Il silenzio degli innocenti" ma inappropriati per una vecchia di 59 anni che non rappresenta una minaccia per nessuno. L’esposto è stato presentato in un documento di 31 pagine depositato presso la corte d'appello del Secondo Circuito di New York da parte degli avvocati di Maxwell mentre cercavano di ribaltare il rifiuto di un giudice riguardo il suo terzo tentativo di ottenere la libertà su cauzione. Nel film vincitore dell'Oscar "Il silenzio degli innocenti", Lecter, interpretato da Sir Anthony Hopkins, è detenuto nella sua cella al Baltimore Hospital for the Criminally Insane.  Nel film la cella aveva pareti di vetro rinforzate con fori in modo da poter parlare ai visitatori, con un tavolo per scrivere e dei materiali artistici che usava per fare disegni e appenderli alle pareti. Il giudice Alison Nathan all'inizio di questo mese ha nuovamente rifiutato le richieste Maxwell e ha detto che rimaneva il rischio di una fuga da parte sua. Gli avvocati di Maxwell si sono ripetutamente lamentati del suo trattamento nel Metropolitan Detention Center di Brooklyn, New York, dove è detenuta fino al processo che dovrebbe iniziare a luglio. Le ultime affermazioni sono state fatte in una lettera da David Oscar Markus, uno degli avvocati di Maxwell, dove ha definito le sue condizioni "da incubo". Markus ha detto che la sua cliente sta perdendo i capelli e peso perché, a detta dei documenti presentati al tribunale, il cibo della prigione è immangiabile, l'acqua dei rubinetti è torbida e inoltre Maxwell è tenuta in isolamento dove viene svegliata ogni 15 minuti da una torcia. L’avvocato ha continuato spiegando: “Sebbene sia una prigioniera modello che non rappresenta un pericolo per la società e non abbia fatto letteralmente nulla per sollecitare un trattamento “speciale”, Maxwell è tenuta in isolamento - condizioni adatte per Hannibal Lecter ma non per una donna di 59 anni.” Markus ha affermato in tribunale che gli uomini di alto profilo che sono stati detenuti dai pubblici ministeri federali sono stati trattati in modo molto diverso da Maxwell, accusandoli di sessismo: “La verità è che agli uomini ricchi accusati di reati simili o più gravi, molti dei quali hanno legami con l'estero, viene regolarmente concessa la libertà su cauzione in modo che possano prepararsi per il processo: Bernie Madoff; Harvey Weinstein; Bill Cosby; John Gotti; Dominique Strauss-Kahn; Adnan Khashoggi. La lista potrebbe continuare all'infinito. In ogni caso, il tribunale ha stabilito condizioni di garanzia ragionevoli e gli imputati sono apparsi, nonostante simili argomenti da parte del governo, che l'imputato doveva affrontare gravi accuse o che le prove erano solide o che aveva legami con l'estero o che aveva una grande ricchezza. La signora Maxwell ha diritto alla stessa opportunità degli imputati maschi per preparare la sua difesa”. Maxwell, che è accusato di agire come la “signora” di Epstein, trovandogli giovani donne da abusare e poi “addestrandole” a soddisfare i suoi desideri, è stata arrestata lo scorso 2 luglio, quasi un anno dopo la sua morte. Markus afferma che Maxwell stava "vivendo pacificamente" nella sua casa da 1 milione di dollari nel New Hampshire - che ha acquistato tramite una società anonima per mascherare la sua identità - quando è stata arrestata da una "squadra SWAT" dell'FBI nel luglio dello scorso anno. Aggiungendo che “l’effetto Epstein” aveva “offuscato il giudizio dei pubblici ministeri sull'accusa della signora Maxwell perché necessitavano di un capro espiatorio” dopo che Epstein si è impiccato in cella in attesa del processo. In un altro passaggio piuttosto sorprendente, la lettera di Markus dice: "Forse mai nella storia del sistema giudiziario statunitense gli imperativi di pubbliche relazioni del governo hanno consentito un trattamento così selvaggiamente inappropriato e incostituzionale di un essere umano innocente". In un linguaggio similmente iperbolico, Markus afferma: " La detenzione continuata della signora Maxwell sarebbe stata un errore in qualsiasi momento della storia di questa nazione, anche quando il furto di una tozzo di pane era considerato un crimine”. Aggiungendo che "ora è particolarmente ingiustificato" a causa della pandemia di coronavirus. Un aspetto positivo delle condizioni di Maxwell evidenziate dalla lettera di Markus è che la prigione stia riscaldando adeguatamente i suoi pasti al microonde, mentre in precedenza venivano surriscaldati, facendo sciogliere la plastica nel cibo e rendendolo immangiabile. All'inizio di questa settimana Maxwell è stata colpita da due nuove accuse di cospirazione per traffico sessuale e traffico sessuale di un minore. Ora deve affrontare otto accuse e si è dichiarata non colpevole per le sei precedenti. I suoi avvocati questa settimana si sono lamentati delle nuove accuse con l'avvocato Bobbi Sternheim definendole uno "scioccante e ingiusto abuso di potere" poiché si avvicina così tanto al suo processo.

Mariangela Garofano per "ilgiornale.it" il 31 marzo 2021. Sono passati quasi due anni dalla morte di Jeffrey Epstein, ma le vittime dei suoi abusi non smettono di farsi avanti. A rivelare nuovi particolari delle presunte violenze subìte, è un’agente immobiliare della Florida, che ha denunciato alle autorità competenti di essere stata stuprata dal milionario pedofilo di fronte al figlio di soli 8 anni. La rivelazione choc è emersa da una nuova causa intentata dalla donna e riguarda anche la complice di Epstein, la diabolica dama nera dell’alta società, Ghislaine Maxwell. La donna di origini turche, all’epoca dei fatti, nel 2008, aveva 26 anni. I particolari, contenuti in una nuova causa contro Epstein e la Maxwell, rivelano dettagli sconvolgenti riguardo agli abusi subìti per oltre 5 mesi dalla ragazza. Si legge sul Daily Mail che il magnate avrebbe costretto la giovane a sottoporsi ad un intervento chirurgico, al fine di apparire di nuovo vergine. L’inquietante rivelazione prosegue raccontando che l’operazione fu fatta in casa di “un ricco uomo dall’accento russo”, lasciando la giovane mutilata e con danni permanenti. La donna ha raccontato di aver conosciuto Epstein e la Maxwell nel 2006 ad un barbecue e che benché fosse più grande delle ragazze che il finanziere prediligeva, aveva l’aspetto di una ragazzina. Il suo capo le disse che Epstein era interessato ad affittare una proprietà a Palm Beach. Dopo aver trovato una villa di suo interesse, Epstein convinse la ragazza a lavorare per lui, “riempiendola di regali”, e promettendo, come da copione, di trovare per lei e il marito “un impiego di alto profilo”. Nei documenti depositati in tribunale si legge che dopo le richieste insistenti da parte del milionario, la ragazza accettò di recarsi nella sua dimora e tagliare i capelli a Epstein. Non appena arrivata, con l’assistenza della Maxwell, Epstein la stuprò, minacciandola con una pistola. Ma non è finita qui. La donna racconta di aver voluto chiamare la polizia, ma che la diabolica coppia la sequestrò assieme al figlio, portandola in un hotel a Naples, in Florida, dove fu abusata più volte davanti al bambino. Nonostante le violenze patite, la donna impaurita dalle minacce di morte, non ha sporto denuncia fino ad oggi, quando ha deciso di rivelare anche di essere stata "trafficata" a diversi uomini influenti, tra i quali un giudice della Florida. Le accuse della presunta vittima collimano con il modus operandi che Epstein e Ghislaine Maxwell usavano nei confronti delle altre donne abusate negli anni. Jeffrey Epstein è stato trovato impiccato nella cella del carcere in cui era detenuto, ad agosto 2019. La sua complice, Ghislaine Maxwell, è rinchiusa in un carcere di New York, con le accuse di adescamento, complicità nel traffico di prostituzione e abusi su minori. Il processo a carico della Maxwell si terrà a luglio 2021.

Da "liberoquotidiano.it" il 19 febbraio 2021. Da carnefice a vittima? Ghislaine Maxwell, l'ex fidanzata di Jeffrey Epstein, il miliardario accusato di pedofilia morto nell'agosto 2019, ha affermato tramite il legale che una guardia avrebbe abusato di lei fisicamente in un carcere federale a Brooklyn, a New York. Non solo. La donna sarebbe stata poi punita per essersi lamentata. L'avvocato Bobbi Sternheim ha scritto in una lettera a un giudice federale di Manhattan che la violenza è avvenuta di recente al Metropolitan Detention Center mentre Maxwell, in prigione perché ritenuta complice di Epstein, stava ricevendo una perquisizione nella sua cella di isolamento. "Quando la signora Maxwell si è ritratta dal dolore e ha detto che avrebbe denunciato il maltrattamento, è stata minacciata di un'azione disciplinare", ha detto Sternheim. La Ghislaine, che si è sempre dichiarata innocente, rischia fino a 35 anni di carcere con l'accusa di avere arruolato e addestrato molte minorenni per conto di Epstein. La donna ha negato di essere coinvolta negli abusi sessuali ma le testimonianze contro di lei delle donne vittime di Epstein sono impietose. "Senza Ghislaine, Jeffrey non avrebbe potuto fare quello che ha fatto", ha detto una di loro. 

DAGONEWS il 29 gennaio 2021. Nuovi bombastici documenti e testimonianze inchiodano Ghislaine Maxwell, l’ape regina di Jeffrey Epstein, accusata, tra l’altro, di aver “messo cento ragazze minorenni in una stanza, ordinando loro di ballare, baciarsi e toccarsi di fronte a lei e a Epstein". Non solo. Secondo la testimonianza di Rinaldo Rizzo, ex maggiordomo del finanziere, Maxwell aveva sequestrato il passato di una 15enne che si era rifiutata di fare sesso con il pedofilo. Maxwell ha sempre negato di aver reclutato ragazzine per Epstein, ma un testimone ha detto che lei lo chiamava “per chiedergli di portare le ragazze”.  Nei 112 documenti del tribunale, contenenti migliaia di pagine di prove, si afferma che nel 2004 Maxwell aveva lasciato un messaggio per Epstein per dirgli che una ragazza, all'epoca 14enne, era "disponibile martedì", aggiungendo che per l’indomani non aveva nessuno a disposizione. In un’altra inquietante nota, trovata in un bidone della spazzatura, si menzionava una ragazza minorenne che avrebbe visitato la casa di Epstein per un "addestramento". Un testimone ha anche raccontato “di aver visto Maxwell dirigere una stanza piena di ragazze minorenni alle quali ordinava di baciarsi, ballare e toccarsi a vicenda in modo spinto davanti a lei ed Epstein”.  Gli avvocati di Virginia Roberts, la donna che ha raccontato di essere stata costretta a fare sesso con il principe Andrea, credono che i documenti siano la “smoking gun” che incastra Maxwell: «Non ci sono solo i registri di volo che mostrano l'imputato [Maxwell] che volava con Epstein e Giuffre più di venti volte quando era minorenne; non ci sono solo i blocchetti di messaggi nella spazzatura che mostrano l'imputata organizzare gli appuntamenti delle minorenni per "l’addestramento". Ora ci sono prove di testimoni che convalidano le affermazioni di Giuffre». Tra i testimoni c’è anche l’ex maggiordomo Rizzo che ha raccontato: «Una ragazzina era in lacrime. Maxwell le aveva rubato il passaporto dopo aver cercato di farle fare sesso con Epstein e poi l'ha minacciata».

Dagotraduzione dal Daily Mail il 23 giugno 2021. Lady Victoria Hervey, figlia del VI marchese di Bristol ed ex fiamma del principe Andrea, duca di York, ha raccontato in un documentario che a istruirla su come praticare sesso orale fu Ghislaine Maxwell, presunta socia-compagna di Jeffrey Epstein. Nel nuovo film “Epstein’s Shadow: Ghislaine Maxwell”, l’aristocratica britannica ha detto che Maxwell «amava raccontare barzellette sporche» e le avrebbe «dimostrato come fare un pompino». Il documentario è il primo di una serie di film su Ghislaine Maxwell, 59 anni, che andranno in onda tra oggi e il giorno del verdetto. Ghislaine Maxwell è accusata tra l’altro di traffico sessuale di minori e spergiuro e sarà processata a ottobre presso la corte federale di New York. Anche la giornalista e scrittrice Anna Pasternak, che ha frequentato l'Università di Oxford con Maxwell, ha affermato di essersi «imbattuta in questa volgare estroversa e che dava la sensazione di essere disposta a tutto per compiacere un uomo». Durante gli anni '90 Maxwell ha frequentato Epstein, un ricco finanziere che stava accumulando un vasto portafoglio di proprietà e jet privati.  Ha anche lavorato come manager della casa di Epstein e, secondo le sue presunte vittime, era responsabile della prenotazione di ragazze minorenni ogni giorno per fargli massaggi sessuali. Nel 2009, quando Epstein è uscito di prigione dopo aver scontato 15 mesi come parte di un patteggiamento per aver fatto sesso con minori, Maxwell aveva bisogno di una nuova immagine pubblica. Epstein era già amico di Bill Clinton e lo aveva portato sul suo jet privato, noto come Lolita Express, in tournée in Asia e in Africa (uno degli ospiti di quel viaggio era l'attore Kevin Spacey).  Secondo il giornalista Barry Levine, Maxwell «ha iniziato davvero a concentrarsi sul coltivare il rapporto con i Clinton per cercare di forgiare il proprio percorso come attivista ambientale attraverso la sua organizzazione no-profit finanziata da Epstein, Terramar». «Lei (Maxwell) era molto amica di Bill Clinton. Ghislaine e Bill sembravano molto a loro agio l'uno con l'altro». Secondo il film, Maxwell e Clinton erano «nella stessa orbita» e lei era «nel suo elemento, questo è esattamente ciò a cui è abituata: jet privati e presidenti». Christopher Mason, un inglese che conosce Maxwell da decenni, afferma che la sua attrazione per Epstein quando si frequentavano negli anni '90 era «profonda». Ma l'autore Jesse Kornbluth ha dipinto un quadro diverso. Nel documentario dice: «Una persona che li conosceva entrambi abbastanza bene ha descritto il loro rapporto come tossico, quasi da scuola media. Era una sorta di codipendenza, una sorta di gelosia. Non ho avuto questa immagine di una relazione sana per nessuno di loro». Mason dice che, secondo gli amici che erano «molto, molto vicini a Maxwell», probabilmente la donna affermerà di essere stata una vittima come parte della sua difesa. Il film raccoglie i commenti di fonti vicine al caso, tra cui l'ex ufficiale della CIA John Kiriakou che ha pronisticato per Maxwell un patteggiamento, per via dei suoi legami con Epstein e con «troppe persone importanti». Dice che la sua argomentazione alla giuria sarà: «Ghislaine era stata ingenua, era innamorata di questo ragazzo, non aveva idea di quanto fosse profondamente depravato e Ghislaine era una vittima tanto quanto queste ragazze». Kiriakou, l'ex ufficiale della CIA, sostiene che Maxwell sosterrà che era «sotto l'influenza di questo uomo molto potente e ricco». Crede che gli avvocati di Maxwell diranno: «Epstein aveva un controllo psicologico su di lei e ha abusato di lei tanto quanto ha abusato di quelle ragazze». La prospettiva che Maxwell venga processata ha sollevato la possibilità che uomini ricchi e influenti che lei associava si presentassero durante il caso. Secondo Mason, se Maxwell ha «prove concrete» del fatto che il principe Andrea abbia fatto sesso con ragazze minorenni, potrebbe innescare un «contenzioso devastante» per la Royal family britannica. Levine dice: «Non c'è dubbio nella mia mente che persone potenti come il principe Andrew siano nervose per le prove che Ghislaine Maxwell potrebbe potenzialmente produrre. Più di chiunque altro il principe Andrea è un individuo di cui Ghislaine ha il numero». Kiriakou prevede che il caso si concluderà con un patteggiamento perché c'è così tanto in gioco per le élite a causa dei video di Epstein dei suoi amici maschi che fanno sesso con minori. Kiriakou dice: «Se andrà in tribunale, i nastri dovranno uscire e troppe persone importanti non vogliono che ciò accada, quindi il Dipartimento di Giustizia offrirà a Ghislaine Maxwell qualcosa con cui può convivere. Non saranno 30 anni, saranno 10 o 15 anni. Non sarà in un carcere di massima sicurezza, andrà in un carcere di bassa sicurezza». Maxwell è in custodia dal suo arresto lo scorso luglio e gli è stata negata la libertà su cauzione cinque volte. I suoi avvocati si sono lamentati del fatto che è stata soggetta a «condizioni particolarmente onerose» all'interno del cupo Metropolitan Detention Center di Brooklyn, New York.

DAGONEWS il 17 gennaio 2021. Il magnate di "Victoria's Secret" Les Wexner ha lasciato che l'ex amico Jeffrey Epstein abusasse delle ragazze nella sua gigantesca villa in Ohio. È l’ultima accusa emersa da un’esplosiva nuova causa depositata contro 83enne, finito più volte nel mirino per i legami con Epstein. La denuncia presentata martedì sostiene per la prima volta che il magnate e sua moglie Abigail, 59 anni, non solo conoscevano la condotta di Epstein, ma gli hanno permesso di "usare la loro casa per i rapporti con le vittime". Secondo le accuse Wexner era così vicino a Epstein che "sapeva o avrebbe dovuto sapere" che il pedofilo si stava atteggiando a reclutatore di modelle per Victoria's Secret per molestare le ragazze. Le accuse bomba fanno parte di una causa degli azionisti intentata contro la leadership senior di L Brands, il rivenditore di moda globale fondato e guidato da Wexner fino alle dimissioni lo scorso maggio. Secondo i documenti depositati presso la Delaware Chancery Court, lui e altri membri del consiglio non hanno fatto nulla per contrastare "la cultura misoginia, il bullismo le molestie e non hanno interrotto i legami con Jeffrey Epstein". Wexner ha assunto Epstein come suo gestore di denaro personale negli anni '90, ma l'anno scorso l’83enne ha affermato di “aver tagliato i ponti con il porcone nel 2007 dopo aver scoperto che lo aveva truffato, rubandogli almeno 46 milioni di dollari”.  Tuttavia, la nuova causa sfida l'idea che Wexner fosse all'oscuro degli abusi sessuali di Epstein, descrivendo la coppia come inseparabile. La causa, presentata da Nancy Lambrecht per conto degli azionisti di L Brands, afferma che nel luglio 2019 è stata avviata un'indagine interna sui collegamenti tra Epstein e i Wexner. I due si sono incontrati a metà degli anni '80 “tramite amici che lo garantivano e lo raccomandavano”. All'inizio degli anni '90, Epstein ha infine assunto la gestione delle finanze di Wexner che gli diede in mano la procura del suo impero. Questo ha autorizzato Epstein a prendere in prestito denaro per suo conto, firmando dichiarazioni dei redditi e facendo investimenti e acquisti. Una delle vittime  di Epstein, l'artista Maria Farmer, ha affermato in un affidavit di essere stata molestata dal finanziere e da Ghislaine Maxwell nella villa di Wexner a New Albany. La vittima, che all'epoca aveva 26 anni, ha affermato che Epstein una volta le disse: «Les mi ama, mi lascerà fare qualsiasi cosa». Virginia Giuffre, una delle principali accusatrici di Epstein, ha raccontato di essere stata indotta dal pedofilo a fare sesso con Wexner. Un'altra vittima di Epstein, Alicia Arden, ha raccontato che Epstein l'aveva attirata in un hotel di Santa Monica nel 1997, sostenendo che era uno scout di modelle per Victoria's Secret. Quando fu nella stanza, Epstein cercò di palpeggiarla e sollevarle la gonna. Alla fine è scappata dopo che Epstein venne distratto da una telefonata.

Marina Valensise per "Il Messaggero" il 21 marzo 2021. Robert Maxwell venne trovato cadavere al largo delle Canarie, ai primi di novembre del 1991. Il fondatore della Pergamon, la casa editrice nata nella Berlino occupata del dopoguerra, per distribuire i libri di Ferdinand Springer, era diventato il proprietario del Daily Mirror, tabloid ultrapopolare dopo una battaglia campale contro l'australiano Robert Murduch. Volendo espandersi in America, aveva fondato un conglomerato che spaziava da Toronto a Osaka e gli diede accesso ai grandi del mondo. Margareth Thatcher, pur essendo a capo di un governo conservatore, aveva un debole per quell'ex deputato laburista visionario; Michail Gorbaciov s' era messo in testa di fondare con lui un Istituto per la Tecnologia in America; Simon Peres e Yitzak Shamir l'accolsero come un eroe, quando, tornato alla religione dei padri, decise di investire in Israele.

SIMULAZIONE. La sua scomparsa fomentò le teorie più fantasiose: chi parlò di omicidio, chi di suicidio, chi di morte simulata, messa in scena per riscuotere il premio di 200 milioni di sterline dell'assicurazione sulla vita. All'epoca, grande fu l'emozione, ma in pochi sapevano dei romanzeschi raggiri sui cui poggiava la fortuna di quel miliardario venuto dal nulla. I grandi della terra fecero a gara nel benedirlo, ma solo in seguito si appurò che il suo impero aveva iniziato a disintegrarsi sotto il peso della sua stessa megalomania, che lo spinse a indebitarsi per 750 milioni di sterline e a precipitare nell'infamia per ripianarli attingendo senza scrupolo ai fondi pensione. Della rocambolesca avventura che fu la sua vita oggi sappiamo tutto: che era nato ebreo in una baracca di legno di uno villaggio della Rutenia, allora in Cecoslovacchia e poi passata all'Urss. A 15 anni, insofferente alla yeshiva, l'allora Ludvik Hoch scappa di casa a piedi per Budapest, salvandosi dalle razzie naziste. Per un pelo evita la condanna a morte per spionaggio, saltando da un furgone dopo essersi svincolato da una guardia col braccio amputato. Dai Balcani, arrivato a Beirut si arruola nella legione straniera, approda a Marsiglia, finisce in una divisione ceca nell'armée e dopo la ritirata a Sète sotto l'assedio nazista, s' imbarca per Liverpool, dove, rapito dai discorsi di Winston Churchill, entra in un corpo di ausiliari inglesi fino a conquistare una croce militare per il coraggio sul campo, dimostrato in Olanda, come luogotenente del V battaglione del reggimento della Regina, prima di finire a Berlino come censore nella zona inglese.

LA DELICATEZZA. Grazie a John Preston, di Maxwell sappiamo persino quello che non dovremmo sapere: come mangiava (male, da bulimico incontinente che spezza i lucchetti della dispensa e si servedai piatti dei commensali), come faceva l'amore (con foga e molto a lungo, e anche con delicatezza, pur trattandosi di sadiche avventizie), come bluffava (con faccia tosta e ingenuità, come quando si vantò con Murdoch per l'acquisto di un tabloid, facendoselo però sfilare sotto il naso). Avvincente come un romanzo d'appendice, la biografia di Preston rivela a ogni pagina la doppia faccia di un genio, spregiudicato e generoso nell'irretire soci e concorrenti, cinico e inetto nel fare sempre il passo più lungo della gamba.

IL MITOMANE. Gradasso e vanitoso nell'umiliare figli e dipendenti, violento e però tenero nel trattare le donne, mitomane ma infantile, fino a cadere nella disperazione quando scopre che l'amante ventiseienne rifiuta di sposarlo, perché ha una tresca col capo degli Esteri al Daily Mirror. Doveva essere un tipo insopportabile, ma irresistibile a giudicare dalla moglie francese che impalmò a 22 anni, gli diede nove figli e gli restò soggiogata anche se lui la maltrattava umiliandola in pubblico. E ora sappiamo anche perché: non si era mai perdonato di non aver sposato un'ebrea, per tutta la vita soffrì dei sensi di colpa per essere sopravvissuto ai genitori e ai fratelli gasati a Auschwitz.

·        2 anni dalla morte di Mattia Torre.

Il regista e sceneggiatore morto nel 2019. Chi era Mattia Torre, lo sceneggiatore vincitore del David di Donatello postumo ritirato dalla figlia: “Bravo Papà”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Maggio 2021. Mattia Torre ha vinto un David di Donatello postumo: lo sceneggiatore e regista, morto a 47 anni nel 2019, ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura originale per Figli. Alla premiazione dei 66esimi David è stata la figlia Emma Torre, accompagnata dalla madre Francesca, a ritirare il premio. “Volevo fare i complimenti a mio padre che è riuscito a vincere questo premio anche se non c’è più – ha detto – Volevo ringraziare tutti quelli che mi sono stati vicino. Dedico questo premio al mio fratellino Nico, che mi fa ammazzare dalle risate, e a mia mamma che non si arrende mai. Figli parla di famiglia, sole e di bambini che nascono, per questo ringrazio anche le ostetriche che fanno nascere nuove vite e i medici che si impegnano a non far volare via le persone. Bravo papà”. Le parole di Emma Torre hanno generato grande commozione in platea. In lacrime Valerio Mastandrea, protagonista del film Figli, amico e collaboratore di numerosi progetti di Torre, da Buttafuori a Ogni Maledetto Natale fino a La linea verticale. Figli è stato il suo ultimo film, diretto da Giuseppe Bonito, tratto da I figli invecchiano, interpretato da Valerio Mastandrea, Paola Cortellesi e Stefano Fresi. Lo sceneggiatore è morto nel 2019, poco prima dell’inizio delle riprese, dopo una lunga malattia.

CHI ERA – Mattia Torre era tra gli sceneggiatori italiani più brillanti della sua generazione. Una lunga gavetta nel mondo del teatro romano. Il più grande successo con la serie tv Boris, in onda dal 16 aprile 2007 su Fox. Un racconto ironico e cinico del mondo dello spettacolo attraverso il dietro le quinte di una soap opera televisiva, Gli occhi del cuore, e attraverso gli occhi di un giovane stagista. Boris è diventato un cult. A firmarla furono Torre con Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico. Prima del successo i tre avevano realizzato il film Piovono Mucche, premiato con il Premio Solinas, e quindi il film grottesco Ogni Maledetto Natale con protagonista Alessandro Cattelan. Torre è stato anche autore televisivo per Serena Dandini nei programmi Parla con me e The show must go off e per Corrado Guzzanti per la serie tv Dov’è Mario?. Tra i libri che ha scritto La linea verticale, edito da Baldini e Castoldi, dal quale è stata tratta la fortunata serie tv per la Rai, sulla sua malattia e degenza all’Ospedale Romano Regina Elena, e la raccolta di monologhi comici In mezzo al mare, pubblicato da Mondadori.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

·        1 anno dalla morte di Gigi Proietti.

Un anno senza Gigi Proietti, la figlia Carlotta: "La passione per il teatro è il suo dono. E mi resterà per sempre". Rodolfo di Giammarco su La Repubblica il 2 novembre 2021. "Mi manca non potermi confrontare. Lo vedo davanti a me come quando era nei panni di Kean autorevole e maturo". Un anno fa, il 2 novembre 2020, Gigi Proietti ha smesso di stare con noi, di parlarci, di sorriderci, di farci pensare. Se a noi amici e pubblico è venuto a mancare un compagno, figuriamoci lo stato d'animo di chi ha vissuto accanto a lui, la moglie Sagitta, le figlie Carlotta e Susanna.

Paola Cortellesi ai funerali di Gigi Proietti: "E' stato per noi tutti un faro, ci ha mostrato l'arte, il sogno". L'attrice durante il suo breve intervento oggi al Globe Theatre ha confessato: "Il teatro è la mia vita, senza saperlo la strada me l'ha indicata lui". La Repubblica il 5 novembre 2020. "E' stato per noi tutti un faro, ci ha mostrato l'arte, il sogno, a volte la strada da percorrere. Oggi è un esercito di persone, di 'noi altri' armato di riconoscenza che lo amerà sempre e non lo dimenticherà mai". E' questo il ricordo commosso di Paola Cortellesi durante il suo breve intervento oggi al Globe Theatre nel ricordo di Gigi Proietti.

Metà sonetto, metà orazione: l'addio di Enrico Brignano al funerale di Gigi Proietti. "Adesso non ci sei. Non ci sarai per molto, molto tempo non ci sarai... Lo vedi non ci riesco. Perdonami Gi', me conosci anche tu, ma io non ci riesco a dire la parola più". La Repubblica il 6 novembre 2020.

"Maestro mio,

È arrivato il momento dei saluti.

Se fossi bravo come te avrei composto un sonetto,

una poesia, per dire quello che sei stato veramente,

e quello che sei stato adesso, per tutta questa gente

Ti avrei descritto senza alcun timore

Giggi grande attore

Regista e mattatore

Cesellatore arguto umile stratega

artigiano felice nella sua bottega

Col tuo saper giocare ad inventar la vita a trasformarla

Rendendola leggera

gioco dopo gioco

sera dopo sera

E questa leggerezza quanto mi è servita

Veder l'abisso e dire sì io mi ci butto

Prendere il niente e trasformarlo in tutto

Ma io non lo so fa non sò capace

E allora lo faccio in prosa a modo mio...

Gigi Proietti e Sagitta Alter, 60 anni d'amore tra litigi e polpette di salmone. Alessandra Paolini su La Repubblica il 2 novembre 2020. "Il matrimonio? Il nostro obiettivo era una famiglia unita, e l'abbiamo raggiunto", raccontava l'attore. Le figlie: "Papà era molto divertente, a casa ridevamo tutto il giorno". Gigi Proietti e Sagitta Alter non si sono mai sposati. Cinquantotto anni d'amore da "antichi concubini", raccontava lui a chi gli chiedeva come mai con la sua "roccia", il suo "pilastro" non erano arrivati sull'altare. "In verità è che da giovani il matrimonio non ci interessava, e dopo pensavamo che l'obiettivo più importante l'avevamo centrato comunque, una famiglia unita".  

Fulvia Caprara per “La Stampa” il 2 novembre 2021. Il primo applauso, racconta la sorella Anna Maria, «lo ha preso a 3 anni, quando, nella notte di Natale, ha recitato una poesia sui gradini dell'altare. La gente applaudiva, lui prese coraggio, e continuava a ringraziare». In casa Proietti, prima a Via Giulia, nel cuore antico di Roma, e poi nel quartiere popolare del Tufello, l'umorismo era pane quotidiano, ma per suo figlio, il capofamiglia Romano aveva sognato un futuro diverso, da avvocato: «Mio padre voleva che studiasse, lo ostacolava, Gigi non diceva che avrebbe fatto tutt' altro, ma di fatto lo faceva». A un anno dalla scomparsa, quel 2 novembre della morte e della nascita («l'ultima mandrakata», era stato scritto), Gigi Proietti è presente come se non se ne fosse mai andato. Ogni sua entrata in scena provoca interesse e annuncia successo, che si tratti del documentario di Edoardo Leo Luigi Proietti detto Gigi, presentato alla Festa di Roma, o del film di Edoardo Falcone Io sono Babbo Natale, da mercoledì in sala. Merito di quella che Leo definisce «innata e coltivata capacità di parlare a tutti, realisti e surrealisti, colti e ignoranti». Nutrita dalla consapevolezza che «la comicità nasca dal conflitto degli opposti». Lui, Proietti, quegli opposti li aveva percorsi in lungo e in largo, dal teatro d'avanguardia ai night-club, dal doppiaggio (Gatto Silvestro, ma anche Donald Sutherland e Marlon Brando) alla collaborazione con Tinto Brass che lo volle per L'urlo e Drop out, dalla presa in giro dei cantanti country all'incontro con Fellini con cui, dice lui stesso, «ci siamo abbastanza capiti». Indagare il fenomeno di A me gli occhi, please, spiega Edoardo Leo, era il punto di partenza del documentario, poi la sua morte ha cambiato tutto: «Mi sono ritrovato in un film dove era necessario non solo ripercorrere la vita di Gigi, ma scoprire il segreto di un eroe dello spettacolo che, per più di mezzo secolo, ha unito comicità e poesia, alto e basso, pancia e sperimentazione». Una capacità che era stata oggetto di critiche e crucci inevitabili. Capitò a Proietti, e come lui ad altri, spiega Nicola Piovani, di «soffrire per non essere abbastanza riconosciuti e stimati dall'intellighenzia. Questo equivoco per me ha un connotato lessicale preciso: risale al momento in cui, al posto della parola arte, si è messa la parola cultura, due cose importanti, ma distinte». L'exploit in Alleluia brava gente, il passaggio dal teatro di ricerca alla commedia musicale, provoca reazioni scandalizzate: «Mi trovai spiazzato - ricorda Gigi - come un pesce fuor d'acqua. Da una parte il successo clamoroso la sera in teatro, dall'altra i miei vecchi amici e compagni di strada che mi guardavano con sarcasmo e sospetto, come si guarda un traditore, come se fossi Coriolano, uno che era passato al nemico». Su quel dualismo, sulla scelta di superarlo andando incontro all'amore degli spettatori, Proietti ha costruito il suo monumento: «Ha accontentato - dice Arbore - tutti i tipi di pubblico». E ha creato una schiera di seguaci, ammiratori, amici: «Avevo 5-6 anni - ricorda Paola Cortellesi - quando in macchina con mio padre ascoltavamo l'audiocassetta di A me gli occhi, please». Per Alessandro Gassmann, che lo ha diretto nel Premio, Proietti è un pezzo di famiglia: «Mio padre lo definiva una macchina teatrale perfetta». Il personaggio del Premio rievoca quello di Vittorio Gassmann: «Quando gliel'ho affidato, gli ho detto "fai mio padre, perché tu sai chi era e perché solo tu per me puoi fare quel ruolo veramente, come io lo immagino. E poi perché quel personaggio sei anche un po' tu». Tra gli ultimi a parlare di Proietti c'è Marco Giallini, che lo affianca in Io sono Babbo Natale: «Stiamo parlando di un atleta che ha recitato con un prostetico in faccia che ci vogliono 3 ore e mezzo per metterlo, con addosso una palandrana da 20 chili. Sul set ci siamo fatti un sacco di risate, quelle vere». Fino alla fine, quasi annunciata nel finale, quando Proietti-Babbo Natale dà le dimissioni, lasciando a Giallini il compito di prenderne il posto. Senza fare rumore, con un trolley e l'aria sollevata, Proietti chiude una storia che è destinata a continuare ancora, per chissà quanto tempo.

Gigi Proietti da rivedere, i film e gli spettacoli sulle piattaforme e in tv. A un anno dalla scomparsa del grande attore una guida per ricordarlo attraverso i titoli del cinema, delle fiction, degli show e del teatro. E il 3 novembre esce in sala il suo ultimo film, “Io sono Babbo Natale”. La Repubblica il 2 novembre 2021. Dire che c'è un modo, o un altro, per "ricordarlo" sarebbe ingiusto, ci sono mille modi di ricordare Gigi Proietti e soprattutto non c'è bisogno di ricordare chi non si dimentica. Ma a un anno dalla morte del grande attore, scomparso a Roma il 2 novembre del 2020, è giusto fermarsi e celebrarlo rivedendolo esattamente come ha vissuto: su un palco, davanti a una macchina da presa, in scena. Le tv propongono alcuni dei suoi titoli più famosi, ma sulle piattaforme è disponibile un'ampia scelta che va dalle commedie ai film d'autore alle fiction agli spettacoli teatrali.

E poi c'è il cinema: il 3 novembre arriva in sala Io sono Babbo Natale, la commedia di Edoardo Falcone con Marco Giallini ex detenuto impenitente che durante un furto si imbatte in un signore, anziano e distinto (Proietti), che gli rivela di essere, appunto, Babbo Natale.

Al "maestro fragile" ha dedicato un documentario Edoardo Leo, presentato alla festa del cinema di Roma: si intitola Luigi Proietti detto Gigi, tre anni di lavoro e le testimonianze dei familiari e dei colleghi per ripercorrere una lunga carriera e la genesi e il successo di uno spetacolo, in particolare, quell'A me gli occhi che rivoluzionò un certo modo di fare teatro.

In attesa di poterlo rivedere sul grande schermo, ecco qualche suggerimento per approfittare di quello che propongono le tv.

Proietti, Monica Vitti e Vittorio gassman in 'La Tosca' di Luigi Magni Il 2 novembre alle 19.15 su Rai Movie va in onda La Tosca di Luigi Magni (disponibile anche su RaiPlay), versione "romanesca" del dramma di Sardou reso celebre da Puccini. Proietti interpreta Cavaradossi, Monica Vitti è Tosca, Vittorio Gassman è il Barone Scarpia, nel cast anche Umberto Orsini, Aldo Fabrizi, Fiorenzo Fiorentini, Marisa Fabbri, Ninetto Davoli, le musiche sono di Armando Trovajoli. In prima serata tocca a Febbre da cavallo, il cult diretto da Steno nel 1979, protagonista l'indossatore cialtrone e squattrinato con il vizietto del gioco d'azzardo che condivide le sue disavventure con Er Pomata (Enrico Montesano), e Felice (Francesco De Rosa). Personaggi leggendari, sketch memorabili. Anche Rai Premium ricorda l'attore con lo speciale Techetechete - Grazie Gigi, alle 22.45, un montaggio dei suoi sketch più celebri. 

Ma sono le piattaforme a offrire la scelta più ampia di titoli, tra noti e meno noti, ai quali Proietti prese parte. A cominciare da RaiPlay che propone film, serie tv e registrazioni televisive di spettacoli teatrali. Come lo show Cavalli di battaglia, che nel 2017 segnò il ritorno in tv dell'attore, con i suoi repertori più popolari e altri inediti, i duetti con gli amici e i colleghi del mondo della televisione, del cinema e della musica. 

E ancora: Gigi Proietti in Edmund Kean, monologo che vede  protagonista lo stesso attore intento a provare la parte nel suo camerino, al Globe Theatre di Roma, e a riflettere sulle parole di Shakespeare. Oppure, più indietro nel tempo, Attore amore mio, 1982, regia di Antonello Falqui, in cui Proietti anima il palco con monologhi, performance canore e coreografie parodiando il mondo del teatro in compagnia degli allievi della sua scuola di recitazione come Giorgio Tirabassi o Paola Tiziana Cruciani. O il varietà Fatti e fattacci, anche questo diretto da Antonello Falqui, con due "cantastorie" d'eccezione, Gigi Proietti e Ornella Vanoni, e una compagnia di attori e saltimbanchi, in giro per le piazze di quattro città italiane delle quali cantano i "fatti" della tradizione popolare e i "fattacci" delle storie di malavita. II programma vinse il Premio Montreux per lo spettacolo. Ma su RaiPlay ci sono anche le fiction, come Il maresciallo Rocca, Il veterinario, Una pallottola nel cuore.

Se poi si volesse seguire un ordine cronologico per ricostuire fin dall'inizio la carriera cinematografica del grande attore, sono sempre le piattaforme a offrire un'ampia filmografia che possiamo dividere per decenni.

Proietti sulle piattaforme: il cinema tra gli anni 60 e gli anni 80

Infinity mette a disposizione degli abbonati Se permettete, parliamo di donne (1964), diretto da Ettore Scola, Le piacevoli notti (1966) di Crispino e Lucignani, Lo scatenato (1967) diretto da Franco Indovina, Brancaleone alle crociate (1970) di Mario Monicelli, Non ti conosco più amore (1980) di Sergio Corbucci.

Amazon Prime Video propone invece La matriarca (1968) di Pasquale Festa Campanile, Meo Patacca (1972) diretto da Marcello Ciorciolini, Bordella (1976) di Pupi Avati. La Tosca e L'eredità Ferramonti sono su RaiPlay, mentre La mortadella (1971) di Mario Monicelli è disponibile su Now.

Nel primo decennio degli anni 2000 Proietti è tra i protagonisti delle commedie di successo dirette da Carlo Vanzina. Un'estate al mare (2008) è disponibile su Infinity (on demand), Netflix e Tim Vision; Un'estate ai Caraibi (2009) su Infinity e Netflix; La vita è una cosa meravigliosa (2010) su Infinity, Netflix e Amazon Prime Video.

Relativamente più recenti Tutti al mare (2011), regia di Matteo Cerami, disponibile su TimVision (on demand) e RaiPlay, Ma tu di che segno 6? (2014) di Neri Parenti, su Amazon Prime Video, Il premio (2017), diretto da Alessandro Gassmann, disponibile su Infinity (on demand), Now e TimVision (on demand).

Tra gli ultimi fillm c'è Pinocchio di Matteo Garrone (2016) che affidò a Proietti il ruolo di Mangiafuoco: il film è disponibile su Now, TimVision (on demand) e Amazon Prime Video (on demand). Se invece si vuole regalare un po' di magia ai più piccoli, facendoli accompagnare dalla voce di Proietti, su Disney+ c'è Aladdin in cui Gigi presta la voce al Genio della lampada.

Il testamento di Gigi Proietti: "Io, Roma, e la più bella battuta della mia carriera". Da via Giulia a via Annia, da Villa Borghese al Tufello, l'intervista definitiva del grande attore sul legame con la città. I ristoranti, i teatri, gli amici e quelle passeggiate tra buche e sampietrini: "Amo anche la muffa delle fontane quando sono a secco". Paolo Boccacci su La Repubblica il 2 novembre 2021. “Sono nato a via Giulia, ma per favore non mi domandate niente di lì, perché non ricordo nulla. Sono andato via con la mia famiglia da quell'appartamento quando avevo nove mesi. Poi ci siamo trasferiti a via Annia, una stradina del Celio, accanto all'Ospedale militare. Lì andavo a scuola alle elementari alla Vittorino da Feltre e il primo ricordo che mi porto ancora appresso è un odore, l'odore dei libri, mescolato a quello della merendina che mia madre mi metteva dentro la cartella. Avevo due cartelle nere, rigide, di una fibra un po' strana, che si potevano anche mettere a tracolla. E mi viene ancora in mente, nonostante fossi piccolo, la vergogna di mettermi il grembiule e il fiocchetto, il fiocco insomma. Non l'ho mai sopportato. Ero un bambino e a Roma nella primissima mattina era consentito di passare addirittura davanti a piazza del Colosseo per andare sulla via del mare”. Gigi Proietti, il Grande Attore e Roma. Gigi Proietti si raccontava così in una delle ultime lunghe interviste sulla città tanto amata, rilasciata come testimonial della Guida di Repubblica ai Piaceri e ai Sapori di Roma e del Lazio del 2019. Ci eravamo incontrati sulla terrazza di un hotel al Pinciano, dove stava girando gli altri episodi di “Una pallottola nel cuore”, la serie tv di Rai 1. Davanti a noi a perdifiato la vista dei tetti.  “Da via Annia” ricordava nel suo ritorno al passato “abbiamo cominciato a girare e siamo andati ad abitare vicino via Veneto, in un appartamento di fortuna, dopo la guerra. Ci siamo stati due, tre anni e ho conosciuto un luogo che ricordo benissimo e che poi è uno strano ritorno, Villa Borghese, perché andavo al cinemetto, che si chiamava dei Piccoli o Topolino e stava vicino alla Casina delle Rose, dove d'estate facevano il varietà e da dietro un canneto, avevo nove anni, vidi tra le canne, c'era una specie di recinto di piante, Billi e Riva, che facevano lo spettacolo. Però non sentivamo bene. Un posto dove sono tornato adesso, dato che ho avuto la fortuna di incontrare un sindaco lungimirante, che era Veltroni, che capì l'importanza di mettere su un teatro a Villa Borghese, il Globe Theatre”. Ma a via Veneto non ebbe il tempo di annusare la Dolce Vita. “No, subito dopo eravamo andati ad abitare in periferia, al Tufello, perciò non avrei potuto assistere alla Dolce Vita, perché ero troppo piccolo. Ma Villa Borghese è importante, ero rimasto colpito dalle fontane e soprattutto da quella specie di muffa verde che fanno quando sono a secco. La vedo ancora adesso e anche le statue un po' sbrecciate della villa. Era molto affascinante per me perché non ne capivo tanto le ragioni, ma sono immagini che mi sono rimaste impresse. Come le fontane di piazza Farnese, che un tempo stavano dentro Caracalla, pochi lo sanno ma è così. Poi quando stavo al Tufello la vera Roma non l'ho più frequentata per un po' di anni perché praticamente la borgata era in costruzione ed era lontanissima. Oggi sembra molto più vicina, ma allora bisognava prendere due autobus per arrivare fino al Centro, il 36 e il 60, tutta via Nomentana”. Poi le storie del liceo: “L’ho fatto all'Augusto sulla via Appia, perché poi dal Tufello ci eravamo spostati con la mia famiglia nella zona dell'Appio Latino, quindi la scuola più vicina era l'Augusto, una scuola pubblica, e naturalmente era in un periodo che precedeva il '68, per cui non ho conosciuto le manifestazioni della contestazione. C'erano ancora professori educati all'era fascista, qualcuno ci sarà ancora credo”. Naturalmente non perdeva la battuta, l’aneddoto. “C'era un certo Collina che ai primi appelli che facevano all'inizio di scuola non rispondeva, perché non c'era. E questo Collina non è mai venuto. E allora c'era sempre qualcuno che, quando il professore chiamava “Collina”, diceva “presente”. Facevamo a turno. Oggi mi piacerebbe conoscerlo questo Collina”. E i sapori della Città Eterna? “Ricordo una cosa importantissima. Non mi vergogno di dirlo. Allora c'erano i fagottari. E anche la mia famiglia ogni tanto faceva la fagottara, quando andava fuori la sera. Mia madre diceva “stasera andiamo a cena fuori”, però la cena te la portavi. D'estate specialmente dove c'era la pergola. Si prendeva il vino e casomai forse un primo, se volevi, sennò portavi tutto da casa”. La trattoria si chiamava La Rosetta. “Era all'Appio Latino” ricordava l’attore “dove c'era un cartello: “Accettanzi cibbi propi” accettanzi con la zeta, cibbi con due b e propri senza una r. Ed era una grandissima festa. Mia madre faceva le cotolette panate, però col sugo, perché le doveva mettere dentro una pentola e se non c'era il sugo s'attaccavano. E allora venivano come una specie di pizzaiola, diciamo così, accatastate una sull'altra, e arrivava il momento di mangiare. A volte, quando eravamo particolarmente ricchi, ci compravamo la pizza e poi le cotolette panate, una per una, mi raccomando, diceva mamma. E c'erano anche famiglie di amici. Questo m'è mancato poi all'improvviso, la conoscenza di altre persone, la comunità, il senso della comunità”. Ma a Roma i Proietti non avevano parenti. “No, parenti a Roma io non ce l'ho. La mia famiglia viene dall'Umbria e dall'alto Lazio, siamo semiburini insomma. C'era mia sorella, ma ancora non era fidanzata, però c'erano altre famiglie con le quali si poteva andare a fare queste uscite, che sostituivano le gite fuori porta dell'Ottocento. Prima c'erano le osterie, poi, per darsi un tono, le hanno chiamate hostarie, con l'h davanti”. E poi il teatro, l’incontro con le scene. “Successe quando andavo all'università, ero un ragazzetto. Oggi ci sono tanti teatri, c'è la televisione, c'è una maggiora promozione dell'attività teatrale, anche se il teatro è sempre in crisi, ma comunque... Allora era una cosa molto lontana, anche dalla scuola. Non è che uno uscisse dal liceo sapendo qualcosa di teatro. Ma io andando all'università mi iscrissi al Centro universitario teatrale che si ricostituiva allora dopo la guerra, e mi presero, non so nemmeno perché. Onestamente, non sapevo fare proprio niente. E questa fu l'occasione che mi avvicinò poi al teatro perché ero incuriosito e ho cominciato ad andare a vedere degli spettacoli”. Ed ecco dove. “La nostra era una scuola di teatro di tutti i ragazzi e quindi c'era un attimo di contestazione al sistema teatrale tradizionale, come sempre succede, difatti da quella scuola uscì addirittura Leo De Berardinis, Calenda, insomma noi giovani di allora. Il primo spettacolo che ricordo non era proprio il primo che ho visto, ma quello che mi colpì molto, uno spettacolo di Carmelo Bene, del quale poi sono diventato amico e con cui abbiamo fatto ditta insieme. E mi colpì tantissimo, anche se non è che riuscissi a fare una critica interpretativa, però aveva un fascino, lo sappiamo benissimo, già da allora. Faceva il Caligola di Camus, e poi ho cominciato ad andare, ho visto tanti spettacoli. Però per un due tre anni dopo la scuola io non partecipai più, perché dovevo laurearmi. E intanto la notte cantavo. Ho cantato in tutti i nigth di Roma, meno che all'"84". Al Pipistrello, al Capriccio, alle Grotte del Piccione dei fratelli Gabrielli. Quando io cantavo, lì stava finendo la Dolce Vita e anche il night stava per diventare discoteca, a dir la verità ancora non discoteca, ma piano bar e poi discoteca. Vennero fuori i gruppi, i Beatles e tutto cambiò”. Ed ecco come era quella Roma. “Beh, una Roma abbastanza notturna, io l'ho odorata solo un po' la Dolce Vita, quando via Veneto era ancora illuminata e c'era il passeggio. Ma stava nella fase terminale della sua gloriosa vita. E a parte via Veneto, Roma ne ha cinque-sei di Centri, c'è il centro umbertino, c'è quello imperiale...”. E la Roma da vivere? “Mah, per viverci, per esempio un quartiere popolare ma simpatico è stato sempre Prati. Lì c'erano degli appartamenti con i soffitti alti che mi piacciono molto. Poi è chiaro che se ci mettiamo a vedere quali sono le zone migliori, uno non finisce più. C'è l'Aventino, che è molto elegante, un po' triste, però, insomma... Poi quando sono andato via da casa mia, non cacciato ma andato via in armonia perfetta, sono tornato in Centro storico, Campo de' Fiori, via dei Giubbonari, proprio davanti alla sezione di Regola Campitelli del Partito Comunista. E cominciava l'avventura del teatro professionale. Ancora non ero convinto, perché facevo l'università, si fa per dire, perché gli esami non li davo mai, per ritardare il servizio militare”. Ma a teatro arrivano i primi successi. “A Roma ci sono due momenti fondamentali, il primo è quello del musical che ho fatto con Garinei e Giovannini, che mi proposero “Alleluja brava gente”. E di lì a non molto, dopo quattro anni, lo spettacolo che mi porto ancora dietro, che è “A me gli occhi please”. E oltre al teatro c’è la buona tavola. “La Rosetta era una trattoria. “Accetto i cibbi propi” mi faceva proprio ridere. Da quando ho cominciato a fare il teatro, si frequentavano i ristoranti aperti nel dopo teatro. Non ce n'erano molti, per esempio da Dante, beh la notte si va da Dante. Io poi spesso vado all'Isola della pizza, ci tengono aperto. Io mangio proprio le cose che mi piacciono e poi siamo amici con i proprietari. Amo il convivio, non sono un grande mangione, mi piace stare insieme a cena, ci piace fare i pettegolezzi, bere il buon vino. Da giovane ero un mattiniero poi piano piano sono diventato giocoforza un nottambulo per il tipo di lavoro che faccio”. Non mancano gli incontri romani con gli amici: “Uno che ho frequentato era Gassmann, uno dei miei più grandi amici, anche se era più grande di me. Con lui abbiamo assaggiato parecchie cose. Ho una fotografia a casa in cui io e Vittorio facciamo una specie di ghigno e dietro stranamente, in un ristorante, non ce ne eravamo accorti, c'era la fotografia di Giovanni XXIII. E sembra che siamo in tre, è incredibile, è bellissima". Non è finita. C’è la storia del ristorante. “Anche io ho avuto il mio ristorante a piazza Fontanella Borghese. Mi era venuta perché volevo mettere su un posto per il dopo teatro, solo per il dopo teatro. La mia idea folle, da pazzi, era di fare questo ristorante per attori, registi, e lo volevo chiamare “Il leggio”, volevo mettere un grande leggio al centro e se qualcuno voleva recitare qualcosa magari gli davo il vino gratis, poi se faceva addirittura qualcosa di più, si guadagnava la cena. Non l'ho fatto più purtroppo, ma menomale perché mi sono accorto che in questo ristorante, che era fatto proprio con lo scopo di vedere i colleghi, gli attori nun so' mai venuti. Si, i miei amici venivano, ma insomma alla fine un giorno un collega sincero mi disse: “Ma sai, noi ci diciamo: che devo anda' a porta' i soldi proprio a Proietti?”. E allora capii che insomma.... Ma è andato avanti per parecchio tempo questo ristorante. Erano gli anni Ottanta. Anche se alla fine ho dovuto ammettere che ognuno deve fare il suo mestiere, che la ristorazione è un’arte, difficilissima. Per fortuna lo abbiamo venduto bene. Molti colleghi hanno avuto ristoranti. C'hanno provato in tanti, chissà perché. C'era Renzo Arbore che ha avuto un ristorante anche importante sopra piazza del Popolo. Tanti hanno tentato, perché andando a mangiare al ristorante uno vede l'effetto superficiale, non sa cosa c'è dietro. Coi cuochi che vanno via, che la sera dicono “me ne vado. Allora c'erano moltissimi egiziani, sono dei bravi cuochi. E a un certo punto magari trovavano qualcuno che li pagava di più e se ne andavano via all'improvviso. E te lasciavano così, con le scatolette”. Ma c’è anche la Roma più amata, quella da non perdere: “Non c'è che l'imbarazzo della scelta, come si fa? Poi vista dall'alto è una cosa, vista da sotto un'altra, un po' come Venezia, dove un conto è andare in gondola tra i rii, vedi un'altra Venezia. E così è Roma. Il piacere che avevo di girare una volta per Roma con un grande amico, che era Gigi Magni, era quello di passeggiare con una delle guide più preziose che la città potesse avere, addirittura sapeva tutto di ogni sampietrino, credo che conoscesse anche le date delle buche...E quindi io sono contento di stare qui e ho lavorato anche tanto per la città. Ho aperto addirittura tre teatri e una scuola di recitazione. Il Brancaccio, dove prima c'erano le ragnatele, il Brancaccino e il Globe Theatre Silvano Toti, che non esistevano. "Il Globe ha assunto un'identità nostra anche se è una copia di quello inglese. Sarà per il legno, il legno in mezzo agli alberi, sarà per questa specie di clima un po' favolistico e per il fatto che non c'è traffico, non c'è il problema del parcheggio. E' come stare dentro un'oasi nella città e se uno vuole rilassarsi un momento può sedersi al bar un attimo e si sta tranquilli. E poi volendo si sente pure una poesia di Shakespeare. Non tutti gli spettacoli vengono capolavori, ma alcuni sono importanti.  “Molto rumore per nulla” l'abbiamo recitata in italiano, in siciliano e in inglese. Il siciliano con la traduzione di Camilleri, che ha studiato la riscrittura con un siciliano antico”. In ultimo un finale alla Proietti sulla più bella battuta romana. “E’ una che capitò a me e che racconto sempre in scena. Prima di fare l'attore strimpellavo con la chitarra e cantavo una canzone che diceva: “So' stato carcerato pe' un capriccio, perché portavo in berta un coltellaccio”. Però tra “carcerato” e “capriccio” c'era una piccola pausa. Una volta l'ho cantata in una Casa del Popolo, c'era un pubblico..., insomma, un ambientino. E quando ho detto: “So' stato carcerato”, ho sentito una voce: “Poco””.

Gigi Proietti: “Tutto iniziò in un’osteria...”. Redazione su Il Giornale il 2 Novembre 2021. Un anno fa, il 2 novembre 2020, all’età di 80 anni, Gigi Proietti, ricoverato da giorni in clinica per problemi cardiaci, si spegne intorno alle 5.30. Una vita tra palcoscenici, set cinematografici e studi televisivi, ha lasciato un’eredità importantissima alla cultura italiana e non solo. Per ricordarlo in occasione dell’anniversario della scomparsa, vi proponiamo l’intervista che il grande attore concesse a OFF nel 2017 (Redazione)

Lei stupisce tutti col meraviglioso racconto della sua inimitabile vita…

Ha detto inimitabile? Ma la vita inimitabile è una prerogativa di D’Annunzio non mia che ho cominciato strimpellando una chitarra che mi era stata regalata a Natale mentre a mia sorella era toccata in sorte una fisarmonica”

Per davvero?

“Mi ascolti e tutto le sembrerà facile. Io con la chitarra cominciai ad esibirmi, per ridere, davanti a un gruppo di coetanei, appena iscritti come me alla facoltà di Legge. Ma dopo un po’ mi stancai di avere un uditorio così limitato e un po’ per scherzo un po’ per piacere personale cominciai a raccontare delle barzellette inframmezzate da piccoli intermezzi comici. Poi mi misi a canticchiare brani di celebri canzoni del passato nelle trattorie dove andavamo dopo aver faticato sui libri a gustarci una pausa ristoratrice”.

Ma allora il palcoscenico per lei è stato una seconda scelta?  

“No, è stata una meravigliosa avventura che mi è capitata addosso quasi senza volere perché una sera in una di quelle meravigliose trattorie romanesche, che oggi pur – troppo cominciano a scomparire, si presentò un grande attore e mimo come Giancarlo Cobelli. Che mi disse: “Ma lei caro, deve fare assolutamente del teatro”. Io gli risposi, che per fare teatro ci volevano gli attori. Io non sono un attore sono solo un povero pazzo che dice tre o quattro barzellette tra una lezione e l’altra all’università. Siamo un gruppo di amici che ambiscono soltanto a divertirsi. Al che Cobelli mi rispose piccato, mi dispiace molto perché lei dimostra un talento che s’ incontra di rado anche tra i giovani che frequentano l’Accademia d’arte Drammatica. Dopodiché facendomi un cenno di saluto se ne andò. Non lo rividi per qualche tempo”

E allora come andò a finire?

“Andò a finire che tra i miei incontri fortuiti ci fu quello con Vittorio Gassman. Che proprio all’università venne a raccontarci qualcosa della sua vita di palcoscenico.  Io andai ad ascoltarlo incuriosito dal fatto che un uomo così importante dalla vita bizzarra e tumultuosa, venisse a parlarne con noi”.

Cosa vi disse Gassman?

“Cosa ci disse non me lo ricordo. Ricordo soltanto che mi stupì per la sua umiltà quando gli chiesi come mai avesse trionfato così giovane allestendo testi che andavano da “Otello” a “Amleto”. Mi rispose che, ad aiutarlo, era stata la sua innata timidezza che non lo lasciava mai neppure quando uscì dall’Accademia. Ma dovevo pur cominciare a farmi valere. Così capii che la paura che mi aveva da sempre attanagliato era una falsa pista. Poi cominciò a dialogare con noi come se fosse appena tornato da un allenamento. Allora non sapevo che era stato anche un grande campione non mi ricordo più se di pugilato o di atletica leggera. Glielo chiesi e lui mi rispose: “Bisogna pur gonfiare i muscoli se si vuole recitare”. Così mentre gli ricordavo il mio piccolo curriculum di cantante attore lui mi rispose: “Perché non viene a trovarmi uno di questi giorni così vedrà come recitano i miei attori. E poi andiamo a berci una bella birra”. Fu cosi continuai a frequentarlo molto amichevolmente. A quel punto decisi che il teatro sarebbe stato la mia vita. All’inizio sia io che Gassman pensavamo che il mio lavoro teatrale dovesse incanalarsi in una carriera d’attore drammatico”

Quali sono stati i suoi primi ruoli da protagonista?

“Tra i miei primi ruoli ci fu un testo di Alberto Moravia intitolato “Il dio Kurt” che re-citai dapprima allo stabile dell’Aquila e subito dopo al Piccolo di Milano con Alida Valli e la regia di Antonio Calenda. Un testo di una drammaticità spaventosa in cui impersonavo un nazista che alla fine si redimeva. Ebbe un grande successo soprattutto tra gli addetti ai lavori. Avremmo potuto replicarlo anche per due stagioni se non fossimo stati incalzati dalle continue richieste di fare qualcosa di più commerciale. Intanto con l’avvento del sessantotto gli editori cominciavano a interessarsi alla drammaturgia. Dalle fumose librerie del centro Europa arrivavano i testi dei grandi autori polacchi che non avevamo mai sentito nominare come Witkiewicz. Io finii per innamorarmene al punto di persuadere i teatri, con cui avevo stabilito una fraterna collaborazione, di farmene interpretare qualcuno. Fu così che scoppiò il caso di “Operetta” di Gombrowicz un testo meraviglioso. Per la mia versatilità venni paragonato a Petrolini. Un attore che non ho mai potuto conoscere ma di cui ho visto alcuni spezzoni cinematografici interessanti. Sembrava un gigante e al tempo stesso un bambino capriccioso che arrampicatosi per caso all’ultimo piano di una gigantesca libreria si divertisse a saccheggiare un testo dopo l’altro. Fu a questo punto che mi ritrovai a soccombere a quel grande tentatore di Cobelli. Probilmente, oggi avrei esitato prima di dare il mio sì incondizionato a quella stranissima prova che stava per incombere su di me. Ovvero quello strano Music Hall che s’intitolava “La caserma delle fate”.  Che ebbe successo ma che per noi attori fu molto travagliato perché di un vero e proprio copione non si poteva parlare. Infatti da regista attore Cobelli aveva confezionato da sé il copione. Ma ogni giorno, a seconda di quelle che chiamava “intermittenze del cuore”, come quelle di Proust che stava leggendo in quel periodo, si divertiva ad aggiungere tre o quattro rime, dieci versi di una canzone inedita, cancellando battute su battute per sostituirle con altre. Tutto quanto poi era complicato dal fatto che anche Cobelli recitava con noi e come un invasato continuava ad andare su e giù dal palcoscenico cercando dei guizzi estemporanei per farli subito dopo ripetere a noi che non avevamo la sua esperienza.

Erano gli anni in cui nei suoi spettacoli cantava, insieme a Laura Betti, canzoni scritte da Missiroli, da Arbasino e da Piovene che noi avremmo dovuto far da coro. Fu comunque una grossa esperienza che mi insegnò che cosa fosse la disciplina di palcoscenico sforzandomi di non di non spezzare quell’incanto che mi legava al pubblico e al personaggio che in quel momento dovevo recitare. Fu la prima volta che qualcuno per la strada mi chiedeva l’autografo e si congratulava con me. Un’esperienza per me molto imbarazzante che avrei voluto andarmene subito a casa a pensare come avrei potuto migliorare le mie interpretazioni. Sono sempre stato una specie di maliardo della scena in cui ho sempre fatto tutto e il contrario di tutto finchè non mi sono reso conto che dovevo avere una linea precisa migliorandola sera dopo sera come accadde ai tempi del Teatro Tenda di piazzale Clodio”

E’ stata l’esperienza più interessante della sua vita: ce ne parli, la prego.

“Determinante fu l’incontro con il dramaturg Roberto Lerici un grande amico che purtroppo non c’è più e che ancor oggi mi manca tantissimo. Lerici mi diede l’opportunità di misurarmi con me stesso continuando ad esplicare la mia vena comica. Naturalmente c’erano di mezzo i suoi testi e la sua genialità di farmi interpretare brani della Commedia dell’Arte o del teatro francese e inglese dell’Ottocento. Tutti mescolati in un calderone che oggi farebbe paura persino a me riprendere con quello spirito giovanile che si perde nel corso degli anni e che alla fine si trasforma in mestiere. In quel teatro tenda per me confluiva tutto il mondo possibile e immagina-bile. Ho ancora il ricordo della gente che si assiepava e che si sedeva come se andasse alla Scala o al Piccolo Teatro e che condivideva con me il ruggito dei leoni. Perché il proprietario del tendone era un vecchio ex-domatore a cui erano rimasti soltanto quattro leoni spelacchiati che circolavano liberamente dentro un’enorme gabbia e che ogni tanto mandavano i loro ruggiti”

Veniamo adesso al teatro Sistina?

“Ad un certo punto venni chiamato da Garinei e Giovannini che di me avevano una grande stima. Avrei dovuto sostituire Modugno nel musical “Alleluia brava gente” insieme a Mariangela Melato. Fu una bellissima esperienza ma anche quella tran- sitoria. Perché non volevo prendere il posto dei grandi mattatori della scena del varietà. Il mio varietà era un’altra cosa”

E il cinema?

“Ricordo con grande piacere la “Tosca” che feci con Luigi Magni in compagnia di Mo-nica Vitti che era la cantante e di Vittorio Gassman che con l’occhialino seduto in poltrona come se fosse l’imperatore di Roma era il barone Scarpia. Pensi che Monica Vitti a chi le diceva: “Attenta signora, così rischia di cadere rispondeva: “Io non cado, mi butto”

Ma è possibile che il nostro Gigi non abbia ancora nella sua cornucopia altre meravigliose invenzioni?

“Sono molto fiero della scuola per attori che ho tenuto per nove anni al teatro Bran-caccio che poi si è trasformata a Villa Borghese nel teatro Globe il “doppio” del famoso teatro shakespiriano dove riprendo i capolavori del Bardo pieni di colpi di scena, di agnizioni e di delitti reinterpretati con spirito eversivo”.

·        1 anno dalla morte di Paolo Rossi.

L'Italia scorda Il Signor Rossi stregata dall'eroe maledetto. Tony Damascelli il 9 Dicembre 2021 su Il Giornale. Mesi a parlare di Maradona (più uno stadio dedicato) e soprattutto silenzio per Paolo che ci regalò un sogno. Non ci sono presepi e lacrime e raduni di nostalgici con il santino tra le mani. Non ci sono registi da oscar e letteratura epica. È il destino dei signor Rossi, su tutti di Paolo che li riunisce assieme. Il suo piede di Dio ci manca da quando aveva smesso di giocare a pallone, la sua assenza di uomo dura da un anno e sembra davvero un tempo lontano perché questi mesi e giorni sono stati occupati dall'idolo mondiale, dunque Diego Armando Maradona al quale hanno dedicato anche lo stadio di Napoli, sottraendolo al santo che se si fosse chiamato Gennaro avrebbe resistito a qualunque tentativo di scippo profano. Il nostro Paolo non è affatto santo è semplicemente Rossi, basta e avanza per tenerlo dentro la palla di neve, con tutti i ricordi che si porta appresso. E sono mille, dai giorni del collegio di Villar Perosa, alle giovanili della Juventus e poi il Vicenza di quel briccone di Giuseppe Farina e quel pescatore di sardo che si chiamava G.B Fabbri. Poi il Milan, la nazionale, senza trascurare Perugia e Verona e così annotando che, oggi, sarebbe andato a offrire i suoi numeri all'estero, chessò in Premier, o in Spagna dove lasciò un segno memorabile. Il ragazzo di Prato era timido ma furbo assai, in campo si faceva vedere per un movimento rapido, la finta di andare a sinistra e poi lo scatto immediato dalla parte opposta, lo consideravano poco e lui segnava tanto, non aveva fisico palestrato, nonostante quadricipiti duri e potenti e il senso del gol che qualunque attaccante dovrebbe avere e che Paolo ha da sempre posseduto. Fortuna sua e fortuna delle squadre che hanno potuto godere del suo lavoro. Quest'anno è scivolato via come se ci fossimo dimenticati di un campione del mondo, capita quando la campagna pubblicitaria è indirizzata altrove, il fuoriclasse argentino ad esempio, il ritiro di Valentino e dalla Federica, l'europeo di Mancini, gli ori, olimpici e mondiali degli azzurri un po' dovunque. Era dicembre del duemila e venti quando fummo scaraventati di colpo, tristemente, all'estate dell'Ottantadue, la Spagna, le notti strane di Vigo, quelle caldissime di Barcellona, infine quella bellissima di Madrid. Quarant'anni, ieri, riassunti dai gol di Paolo ridetto Pablito, hombre del partido, incubo dei brasiliani che, si disse, dopo il triplete rifilato loro dal centravanti di Bearzot, ogni volta che provavano a rompere un uovo vi trovavano tre rossi. Bei tempi, si usa dire, tempi di malinconia piena pensando che quel ragazzo se ne è andato via in silenzio, improvvisamente, con la stessa discrezione con la quale, in fondo, aveva vissuto una carriera grandiosa, vestendo le maglie tra le più illustri del football italiano, Juventus e Milan, guadagnando il giusto, sicuramente meno di certi fenomeni contemporanei. D'accordo, passò anche giorni acidi, nell'estate delle scommesse, coinvolto in storiacce che non mutarono il suo percorso di carriera. Un anno senza Paolo provoca anche rabbia e delusione, perché al di là del cordoglio e del dolore vero dei suoi famigliari e dei compagni di squadra di quel mondiale, il mondo italiano del football nulla ha fatto per onorarlo come si dovrebbe e come si sarebbe fatto in altri Paesi, l'Inghilterra innanzitutto dove la memoria non resta nei necrologi o coccodrilli dei giornali o nelle frasi di repertorio, nel lutto al braccio ma nelle manifestazioni istituzionali, negli stadi, nelle tribune d'onore, nelle curve dei tifosi. Abbiamo smarrito il senso del rispetto, Paolo Rossi è negli album delle figurine, in una statua un po' fredda nell'espressione del volto, situata nel piazzale della Cipressetta a Prato, lontano da tutto, come è stata l'ultima fetta di esistenza di Paolo, riservato nella malattia che lentamente lo stava rubando alla vita vera. Vicenza gli ha dedicato l'area davanti al Menti, Largo Paolo Rossi 9, i giovani che vivono di social si fanno raccontare chi mai fosse quell'attaccante che, con la maglietta a strisce biancorosse del Lanerossi, segnò 60 gol in novanta partite arrivando a far litigare Carraro, Farina e Boniperti per una busta all'interno della quale, Giussy, il presidente, scrisse miliardi due e milioni seicentododici, roba da far venire giù ministeri e banche: «Il calcio è arte e Paolo Rossi è la Gioconda», disse Farina che mai mise piede al Louvre ma sapeva di football come pochi. Quel calcio non esiste più, molte Gioconde sono falsi d'autore, il mondo corre troppo veloce e con una ferocia che finisce per stracciare i propri idoli. Un film su Paolo Rossi è difficile perché non comporta tragedie, esistenze disperate, storie di quartiere, dunque non ci sono registi furbastri pronti a sfruttare quest'uomo e la sua epoca comunque bella e vincente. Paolo è stato un campione normale, questo il suo limite, per me un privilegio. A chi ci lascia, diciamo che riposi in pace. Paolo in pace ha saputo vivere. Quest'anno, senza il suo sorriso, ci è sfuggito via di mano. Tony Damascelli

Da ilnapolista.it il 9 dicembre 2021. Paolo Rossi a un anno dalla morte. Bellissimo il ricordo di Italo Cucci oggi sul Corriere dello Sport. Cucci parte da un documentario visto recentemente in tv in cui hanno mostrato la celebre copertina del Guerin Sportivo dopo lo scandalo del calcioscommesse che coinvolse anche il centravanti della Nazionale di Bearzot. Italo Cucci credeva ciecamente in quella Nazionale, convinto che avrebbe potuto vincere il Mondiale. E così andò. Poi finì tutto, un paio di titoli di giornale, uno scandalo di verdurai malati di scommesse, il calcioscommesse, le camionette dei carruba in campo e a forza di tirar bestemmie ecco anche il nome di Paolo Rossi, generalità come si deve, mancava solo la foto difronte e di profilo. Ma lo sapevo innocente, quelli che lo conoscevano anche meglio di me erano pronti a morire per lui. Pochi ma buoni. E quel morire mi suggerì la copertina che ho rivisto l’altra sera: Paolino orizzontale sull’erba e un titolo suggeritomi da Francesco De Gregori: “HANNO AMMAZZATO PABLO, PABLO È VIVO”. Non mancarono gli idioti – a quel tempo -, molti non capirono soprattutto quando cominciai a scrivere che Pablo (guarda un po’…) non solo era vivo ma sarebbe diventato un grande del Mundial. Una volta lo stesso Bearzot si disse sorpreso delle mie certezze, per lui che non faceva il giornalista e non viveva di chiacchiere era un attimo più difficile saltare lo steccato dei dubbi; ma poi presero a volersi bene, lui e Paolino, come padre e figlio, e tutto andò a posto.

Dagospia il 9 dicembre 2021. Da I Lunatici Rai Radio2. Federica Cappelletti, moglie di Paolo Rossi, scomparso un anno fa, è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei, live anche su Rai 2 sempre dal lunedì al venerdì, dall'una e dieci alle due e quaranta circa. Federica Cappelletti è tornata ad un anno fa: "Tornando indietro di un anno, ripenso ad una notte devastante. E' stata la cosa più dolorosa che ho vissuto in vita mia. In quel momento ho perso una delle ragioni vere della mia vita. Il mio amore, mio marito, il padre delle mie figlie. Troppo e tutto insieme. Ho scritto un libro, 'Per sempre noi due, le nostre parole d'amore', scriverlo è stato un percorso difficilissimo, sono stati mesi di pianto, i ricordi faticavano a tornare alla mente, ho dovuto impiegare giornate intere, soprattutto mattinate, perché scrivevo quando le bambine non mi vedevano, ho pianto tanto. E' stato un po' come una catarsi". Sulla riservatezza di Paolo Rossi: "Abbiamo scelto di non parlare della sua malattia fino all'ultimo momento. Volevamo che Paolo vivesse con serenità anche i momenti della malattia. Le terapie, i momenti più delicati. E' stato faticoso mantenerla questa privacy, quando andavamo in ospedale, quando ci siamo trovati anche in ospedale nello stesso reparto di Alex Zanardi, quando ha avuto l'incidente. Ci siamo riusciti e Paolo è riuscito a vivere con la privacy che aveva chiesto". Sulla loro storia d'amore: "Come ci siamo conosciuti? Alla presentazione di un libro che avevo scritto io. A Perugia. Avevo chiamato lui per presentarlo perché era uno dei protagonisti, anche se non l'avevo intervistato io. Inizialmente mi disse di no, alla seconda telefonata accettò il mio invito. Per arrivare riuscì a prendere un aereo in un giorno di sciopero degli aerei da Sofia, dove stava disputando una partita di beneficienza. Arrivò con mezzora di ritardo alla presentazione del mio libro, ma comunque riuscì ad arrivare. Questa cosa mi colpì molto. Come il suo splendido sorriso. Il corteggiamento? Lo ha iniziato Paolo. Lui ha fatto il primo passo, ma devo dire che io l'ho seguito subito. La canzone che ha fatto da colonna sonora della nostra storia? 'A te' di Jovanotti. Me la dedicava spesso. Era la nostra colonna sonora. Le notti più belle della nostra vita? I primi tempi, quando la notte per noi era giorno. Tornavamo anche alle cinque del mattino, io stavo a Perugia e lui a Vicenza. Ci incontravamo in Toscana, sono state notti veramente magiche, che io ricordo con immenso piacere, tanto amore, tanta passione". Sul Paolo Rossi privato: "Lui era sempre sorridente, pacato, riusciva a vedere il lato positivo delle cose anche dove c'era qualcosa di negativo. Ogni tanto si arrabbiava, ma vederlo arrabbiato era rarissimo". Sul libro 'Per sempre noi due, le nostre parole d'amore': "Se c'è un momento in cui ho sorriso scrivendolo? Sì, quando ho pensato ai nostri momenti belli. A quando ci siamo detti ti amo per la prima volta. Eravamo alle Maldive. Oppure ripensando a quando sono nate le bimbe. Il primo ti amo è scattato alle Maldive. Il nostro primo viaggio, un viaggio in cui non sapevo come sarebbe andata a finire. In realtà lì ci siamo confessati il nostro amore. Le Maldive hanno aperto e hanno chiuso. Anche il nostro ultimo viaggio è stato alle Maldive". Sul furto subito a casa di Paolo Rossi qualche settimana dopo la sua morte: "Per fortuna non hanno rubato i cimeli perché avevo provveduto a toglierli da casa. Hanno portato via una cosa preziosa per Paolo, l'orologio che ha indossato negli ultimi tempi. Questo mi ha fatto male, non per il valore, ma per quello che significava. Una cosa del genere si vive male. Quando ti arriva una notizia del genere ti senti comunque violato. Non avevo neanche la forza di reagire. E' stato dolore nel dolore. Novità nelle indagini? Qualcosa, ma io non sono molto fiduciosa, perché purtroppo quando ci sono queste cose all'inizio c'è sempre tanto interesse, poi però...". Sull'ultimo desiderio di Paolo Rossi: "Se lui sapeva che se ne sarebbe andato? Aveva sicuramente capito, alla fine. Fino a qualche giorno prima della sua scomparsa c'era ancora speranza. Poi improvvisamente un medico mi ha detto che non c'era più niente da fare. Io non l'ho detto a Paolo, ma lui aveva capito. C'erano state delle avvisaglie, poi lo vedi quando il fisico inizia a sgretolarsi, a perdere dei pezzi. Però è rimasto sempre consapevole. Abbiamo parlato tanto, mi ha detto cose importanti, mi ha chiesto di fare cose. Il suo ultimo desiderio? A lui dispiaceva molto l'idea di non veder crescere le bambine. Aveva questo grande dolore. Mi ha chiesto di regalare loro ogni compleanno le rose, in base agli anni. Per restargli sempre accanto". Sulla possibilità che a Paolo Rossi venga intitolato lo stadio Olimpico di Roma: "La volontà c'è. Per noi famiglia è un grande desiderio. Sarebbe bello intitolare a Paolo qualcosa che lo rappresenti davvero. Speriamo che ci si possa riuscire".

Estratto dell'articolo di Andrea Di Carlo per "la Repubblica - Edizione Roma" il 14 dicembre 2021. Un'iniziativa che ha avuto l'effetto di spiazzare tutti, in particolar modo la città di Roma, divisa da sempre tra due fedi calcistiche così lontane e opposte, ma ora, più unita che mai, in un fronte comune per dire di no. A cosa? Alla proposta di intitolare lo Stadio Olimpico al bomber azzurro che fece sognare l'Italia intera nell'estate del 1982, Paolo Rossi. (...) Dino Zoff, storico portiere della nazionale azzurra e della Juventus, compagno di tante battaglie con il bomber azzurro, nonché leggenda dello sport italiano. «Beh, la proposta mi sorprende, senza dubbio, ma il nome di Paolo, secondo me, mette d'accordo tutti. Certo, non abbiamo vinto il Mondiale a Roma, in quel caso sarebbe stato quasi automatico, ma Paolo è davvero un nome universale». Ma Dino Zoff che dai primi Anni 90 vive a Roma conosce molto bene l'ambiente calcistico capitolino (ha allenato la Lazio per più stagioni) e non si sorprende affatto invece del sentimento popolare che si sta manifestando in queste ore, soprattutto sui social network. «Lo capisco, è infatti una questione molto delicata per Roma e Lazio. Stiamo parlando dello Stadio Olimpico, di un concetto molto più ampio, e soprattutto del loro stadio, che sentono e vivono come lo stadio di casa. Quindi capisco che i tifosi possano non esser d'accordo. Io, per esempio, se penso a Paolo in uno stadio lo vedo esultare con le braccia al cielo, dopo un gol, nel Comunale di Torino. Ma ripeto, Paolo Rossi può mettere d'accordo tutti: io sono assolutamente favorevole». È dello stesso avviso un altro eroe azzurro di quel Mondiale, l'urlo calcistico più famoso della storia: quello di Marco Tardelli. «Sarei molto contento di vedere uno stadio così importante con il nome di Paolo Rossi, la mia adesione a questa proposta è praticamente scontata ». Non così scontata quella dei tifosi che frequentano abitualmente l'impianto capitolino, come quelli di Roma e Lazio. Ma Tardelli non ci sta: «Ma cosa c'entra, non stiamo mica parlando delle singole squadre, parliamo dello stadio della Nazionale, dell'Italia, dove Paolo è stato un assoluto protagonista. Paolo ha girato tutti gli stadi d'Italia, ho tanti ricordi di lui, in ogni impianto della Serie A. Ma sarei molto felice di vedergli intitolato l'Olimpico per quello che rappresenta».

Paolo Rossi, la moglie: «Aveva capito tutto, mi abbracciava e piangeva. Io sono ancora arrabbiata con Dio». Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 27 Novembre 2021. Federica Cappelletti ospite di «Verissimo»: «Volle vedere le figlie poco prima di lasciarci. Ora regalo loro delle rose ad ogni compleanno, come Paolo mi ha chiesto» 

«Non abbiamo mai perso la speranza». Sono le parole, alla trasmissione «Verissimo» su Canale 5, di Federica Cappelletti, moglie di Paolo Rossi, che ha appena dato alle stampe un libro, «Per sempre noi due» in uscita il 30 novembre. Così a quasi un anno dalla scomparsa del centravanti della Nazionale campione del Mondo a Spagna 82 (e Pallone d’Oro di quell’anno), avvenuta il 9 dicembre 2020 all’età di 64 anni per un male incurabile, la moglie ha ricordato quei momenti dolorosi: «È cominciato tutto nel marzo del 2020, dopo che siamo tornati da un viaggio alle Maldive. Ho notato che Paolo era dimagrito molto. Siamo andati a fare degli esami che ci hanno dato purtroppo il verdetto che non avremmo mai voluto sentire. Ma non abbiamo mai perso la speranza, abbiamo combattuto fino a un mese dalla morte per cercare di vincere il nostro mondiale».

Un momento straziante quando Federica ha deciso di non dire tutto al marito circa il destino che lo attendeva: «Abbiamo scoperto una nuova intimità. Durante il lockdown eravamo sempre e soltanto noi due e lui si è affidato completamente a me. È stato faticoso, ma è stato bello poter vivere il nostro amore anche durante quel periodo. Lui aveva capito tutto, ma a un certo punto ho iniziato a raccontargli mezze verità, perché volevo vederlo sereno e positivo. Paolo non parlava molto, ma ogni tanto mi abbracciava e piangeva». Doloroso raccontare anche l’ultimo saluto alle due figlie, Maria Vittoria di 11 anni e Sofia Elena di 9: «Nell’istante in cui il medico mi ha confermato che non c’era più niente da fare, ho voluto portarle a salutarlo. Paolo quando le ha viste si è illuminato e tutti e tre hanno capito che quella era l’ultima volta che si vedevano. Le bambine sono delle guerriere, sono molto orgogliosa di loro».

Un anno dopo, il vuoto è ancora più incolmabile: «Lui è sempre dentro di me. Sono ancora arrabbiata con Dio, ma il Papa mi ha detto che è giusto così perché anche la sofferenza è una forma di preghiera. Mi conforta il fatto che Paolo sia stato felice e amato fino all’ultimo. Non si è mai sentito solo». 

Federica Cappelletti, vedova di Paolo Rossi: «La malattia rende egoisti, lui è rimasto generoso». Manuela Croci su Il Corriere della Sera il 4 dicembre 2021. La scoperta del tumore, il tracollo e il rapporto con le figlie («Eravamo in lockdown, ma hanno vissuto tutto fino alla fine»). La moglie del calciatore Paolo Rossi, scomparso il 9 dicembre 2020, racconta. È stato un amore assoluto, fatto di tutto quello che è un amore canonico, di cose belle, di gelosia, di momenti meno piacevoli. Soprattutto è stato costante nel tempo. Certo, si è modificato – come accade in tutti i rapporti – ed è cresciuto». Così Federica Cappelletti, moglie di Paolo Rossi, parla del suo matrimonio con il campione del mondo scomparso il 9 dicembre 2020 per un tumore che l’ha strappato all’affetto suo e delle figlie, Maria Vittoria e Sofia Elena, che avevano solo 10 e 8 anni. «La prova del nove è stata la malattia, lì mi sono resa conto che per me era sempre lui. Nel libro scrivo che anche quando non c’è stato più niente di bello, per me lui era ancora bello, era il mio amore grande. L’avrei tenuto per sempre anche così. Ho scoperto che pure nella malattia c’è un’intimità, lui si era completamente affidato a me e questo io l’ho trovato di una bellezza infinita. Per me questo è l’amore, qualcosa che va anche al di là di quello che è il rapporto quotidiano. Quando si sta bene è tutto più semplice. Paolo si è sentito amato fino in fondo e ha dimostrato il suo amore fino in fondo, è stato molto generoso nel dare, nel darsi. A volte la malattia ti porta a essere anche un po’ egoista, lui non lo è stato: questo, per me, è amore». (Guarda l’intervista video a Federica Cappelletti)

Poco dopo la sua morte, lei ha scritto: “Non se ne voleva andare, io l’ho abbracciato forte e gli ho detto: Paolo, adesso vai, hai sofferto troppo. Staccati, lascia questo corpo e vai”. Come si dice addio a una persona che rappresenta tutta la tua vita?

«Eravamo io e lui, lo vedevo trasformato, capivo che non se ne voleva andare, tremava. Mi sono detta: o continuo a tenerlo così e magari va avanti ancora qualche ora o lo aiuto ad andare via e sarà finita per sempre. È stata una scelta quasi disumana, hai la sensazione di avere la vita della persona che ami tra le tue mani, quella del padre delle tue figlie. Era una responsabilità enorme, però non ce la facevo più a vederlo soffrire. Rasserenarlo, fargli capire con quelle parole di lasciarsi andare: è stato un atto di amore. Gli ho detto: “stai tranquillo penserò io alle bimbe, a tuo figlio, tu vai”. Mi esplodevano il cuore, la testa».

Avete saputo della malattia di Paolo al rientro da uno dei momenti più felici della vostra storia: dopo un viaggio alle Maldive dove avevate celebrato per la seconda volta le nozze davanti alle vostre bambine. Cos’è successo?

«Paolo aveva un dolore alla schiena già prima della partenza, avevamo fatto degli accertamenti, ma tutti gli esiti erano negativi per cui si pensava a un’infiammazione dovuta all’artrosi causata dagli anni di professionismo. Però io avevo notato un suo dimagrimento e questa cosa non mi piaceva per niente, ho chiamato un medico a Siena. Gli accertamenti, la diagnosi. È stato un colpo durissimo. Ho cercato di dargli forza, ho parlato con tantissimi medici e specialisti in tutta Italia».

Questo succedeva in pieno lockdown, quando eravamo sempre tutti a casa insieme, adulti e bambini: come avete spiegato la situazione a Maria Vittoria e Sofia Elena?

«Le abbiamo messe di fronte alla verità accompagnandole in questo percorso. Giorno dopo giorno vedevano che papà stava male, che stavamo facendo di tutto per aiutarlo, che l’obiettivo era quello di riportarlo a stare bene, ma onestamente ho detto loro che non era l’unica cosa che poteva accadere. Con molta pazienza ho parlato tanto con le bambine, le lasciavo tanto con Paolo, tranne nei momenti più delicati. Alla fine facevo tutto da sola, quando dovevo cambiarlo, medicare le ferite, evitavo che fossero presenti perché quelle sono immagini che possono turbare un bambino. Piano piano hanno visto che non camminava, quando è stato operato al femore chiedevano se sarebbe tornato in piedi, rispondevo sempre che l’obiettivo era quello, ma non era detto che sarebbe andata così. Abbiamo fatto un percorso di nove mesi insieme».

«Quando in ospedale ci hanno spiegato che non c’era più nulla da fare, due giorni prima che se ne andasse, ho chiesto di portare lì le bimbe. I medici erano contrari, poteva essere pesante sia per Paolo sia per loro. Ho spiegato che li conoscevo bene tutti e tre, sapevo quello che facevo: ho messo Paolo su una carrozzina, l’ho portato fuori e lì si sono salutati. Paolo quando le ha viste sembrava avesse visto il sole e si è addormentato subito, le bambine hanno capito che sarebbe stata l’ultima volta che lo vedevano. Nel momento in cui lui se n’è andato, loro erano pronte. Questo non significa che non soffrano, anche adesso. Tutti i giorni continuo a parlare di lui, la camera da notte è diventata “la camera di papà”, facciamo delle cose insieme lì. Sarà un percorso lungo, però sono contenta. Le ragazze non hanno mollato mai, nemmeno a scuola. Certo, piangono ed è giusto piangere quando si vuole molto bene a una persona».

L’amore per Paolo è il cuore del libro Per sempre noi due.

«L’ho scritto per le bambine perché nonostante abbiano vissuto tanto amore arriverà un momento in cui alcune cose le perderanno, tutto si sfumerà. Voglio però che resti una testimonianza di questo legame forte tra mamma e papa, voglio che le accompagni per tutta la vita. E poi l’ho fatto per Paolo: quando era in ospedale gli avevo detto che mi sarebbe piaciuto raccontare in un libro la nostra storia. In certi momenti sembrava un bambino innamorato».

È stato subito amore il vostro?

«All’inizio ho quasi rinnegato questo sentimento, non la vedevo come una cosa possibile. Mi dicevo: è Paolo Rossi, il campione del mondo. Invece ho scoperto un Paolo fedele ai suoi sentimenti e questo ci ha fatto trovare e innamorare». (Guarda la clip in cui Federica Cappelletti racconta il loro primo incontro»

Quanto le manca il suo sorriso?

«Proprio ieri salivo le scale e dicevo pensa se adesso sbucasse da un angolo e riempisse l’aria con quella sua fragorosa risata… Quando capita che le bambine discutano con qualche amica o siano un po’ giù dico: pensa se ci fosse papà, ti farebbe una delle sue risate. E tutto passa. Ci manca tanto. Anche se io lo sento molto, sento la sua presenza. Non me lo so spiegare. È come se avessi una forza data da lui. Prendiamo molta ispirazione da Paolo in tutto quello che facciamo».

Com’era il rapporto con i suoi tre figli?

«Bellissimo con tutti. Alessandro è un uomo, tra poco compie 40 anni. Con lui c’era un rapporto più paritario, tra adulti. Maria Vittoria, la più grande, ha la sua stessa intelligenza e memoria, condividevano la musica. Sa anche cose che io non sapevo di Paolo, erano uniti nel profondo e lui la stimava molto. La piccina lo divertiva tanto, è riuscita a farlo ridere anche nei momenti peggiori, anche quando stava male. La cercava, diceva: dov’è Sofi? Lei arrivava e riusciva a strappargli sempre un sorriso».

Paolo Rossi con Enzo Bearzot, ct della Nazionale italiana campione del mondo a Spagna ‘82. Di loro Federica Cappelletti dice: «L’ultima volta che si sono incontrati si sono abbracciati e ho visto tutto l’affetto profondo che c’era tra loro. Mi piace pensare che l’abbiano fatto di nuovo e che Paolo si sia sentito ben accolto». 

C’è un altro rapporto forte, quello con i compagni dell’Italia che nell’82 ha conquistato il Mondiale. Dalle immagini del funerale traspariva la fratellanza che ha unito quegli ormai ex ragazzi che non hanno solo condiviso una vittoria, ma una parte della vita.

«Paolo mi raccontava sempre di questo rapporto speciale. Io l’avevo visto da vicino più che altro con Marco Tardelli e Antonio Cabrini, che erano gli amici più stretti. Dopo la scomparsa di Paolo ho toccato con mano questo affetto smisurato quando ci siamo ritrovati qui, in estate, a Poggio Cennina, per ricordare Paolo. Tra loro hanno una chat in cui tutti i giorni si scrivono. Ora vi sono entrata “quasi di prepotenza” visto che ho il telefono di Paolo. Si scambiano messaggi, si augurano buona notte, si girano le foto di Paolo, di Scirea, di Bearzot».

Qualche giorno fa è uscito un altro libro che vede Paolo protagonista insieme a Diego Armando Maradona, Il ritorno degli dei. In un passaggio molto toccante, l’autore Marino Bartoletti fa incontrare Rossi e Bearzot. Cosa si direbbero il ct e il suo pupillo?

«L’ultima volta che sono stati insieme, a Oronzo di Cadore, ho visto tutto l’affetto profondo che c’era tra loro. Mi piace immaginare che si siano dati ancora lo stesso abbraccio di allora, una cosa che vedi solo tra padre e figlio, ma tra un padre e un figlio innamorati, persi uno per l’altro. Mi piace pensare che abbia ritrovato Enzo Bearzot e anche Gaetano Scirea per cui nutriva un grande affetto. Li immagino stretti, tutti e tre. Mi piace pensare che Paolo si sia sentito ben accolto, anche da Diego».

Il 9 dicembre sarà un anno dalla sua scomparsa. In questi mesi avete fatto molte attività per tenere viva la sua memoria.

«Umanamente sono stati mesi difficili, ma abbiamo sentito un grande amore da tutta Italia. Ci sono state le due statue a Prato e Vicenza, Perugia gli intitolerà il settore giovanile, a lui sono stati dedicati palazzetti e vie, c’è un enorme murale a Foggia. Tutte le città si stanno muovendo. È stata solo l’anticamera di quello che accadrà nel 2022. Ci fa piacere perché Paolo è vissuto come un eroe nazionale, come una persona che ha unito. È la sua eredità e mi piace assecondare quello che viene proposto e portare le bambine perché scoprano quel papà che non hanno conosciuto. Per loro Paolo era l’uomo affettuoso che le coccolava, le faceva ridere, le riempiva di affetto; è giusto che conoscano anche quel Paolo Rossi che è appartenuto a tutti gli italiani. Sofia Elena, quando ha visto tutta questa esplosione di affetto mi ha detto: “mamma, solo adesso capisco quello che è stato papà”. Paolo non era una persona che viveva di passato, ma di presente e di futuro. Soprattutto di presente».

GIULIA ZONCA per la Stampa il 5 dicembre 2021. La valigia dell'ospedale non è esattamente il ricordo che ci si aspetta di conservare, ma quella di Paolo Rossi è intatta. A un anno dalla sua morte, la moglie Federica, ogni tanto, ancora la apre: «Per sapere che è vero». 

Scusi, non è un tormento?

«Non la tengo davanti agli occhi, ma mi capita di cercarla. Non mi va di mettere a posto quello che c'è dentro. Ho bisogno di emozioni forti, all'inizio bastava entrare in camera, poi le sensazioni svaniscono». 

Per questo ha scritto «Per sempre noi due»?

«Me lo ha suggerito lui. Negli ultimi mesi guardavamo le foto delle bimbe, dei viaggi e Paolo ha detto "è una storia da raccontare". Lo considero un testamento per le mie figlie: quando si ama davvero lo si fa nel bene e nel male». 

Ha svelato il vostro privato, ha persino pubblicato le lettere d'amore. Dopo una vita a non dire nulla, ora condivide tutto.

«L'affetto collettivo per Paolo non fa che aumentare. Per me lui non era il campione del mondo, lasciavo agli altri l'eroe nazionale e mi tenevo il mio amore. Quella separazione non c'è più. Ogni giorno ricevo lettere emozionanti e poi i comuni, anche i più piccoli, ci sommergono d'affetto con le iniziative per omaggiarlo». 

Mentre il Pallone d'oro si è scordato di lui.

«Da tre giorni "France Football" prova a organizzare un incontro. Non subito. Non fanno che chiedere scusa». 

Come?

«Così: "Signora è come quando si lascia un figlio in auto, non dovrebbe succedere mai". Sarà, ma ancora non capisco. Era un discorso preparato...».

In compenso la Fifa organizza una giornata al museo di Zurigo con i campioni del 1982.

«Sono diventati una famiglia, sono anche entrata nella loro chat, dove sto in disparte. Metto le comunicazioni, per il resto non mi intrometto. Guardo. Postano spesso foto di Paolo». 

Con che numero di telefono sta nella chat?

«Con quello di Pablito. L'ho tenuto, come la mail, io non butto nemmeno un suo capello se lo trovo in giro». 

Nel libro racconta una vostra visita a Bearzot ed è l'unico capitolo in cui lei sembra una spettatrice.

«Sì, ho capito che dovevano scambiarsi la memoria. Bearzot era malato, è stata l'ultima volta in cui si sono visti: si stavano confessando».

Scrive: «Ti avrei tenuto assopito, con le cannule e la maschera dell'ossigeno a toglierti la dignità». Lo avrebbe fatto davvero?

«Fino a 48 ore prima di andarsene era lucido e io quel Paolo, sì, me lo sarei tenuto e lo avrei amato in qualsiasi modo. Non gli avrei tolto gli occhi di dosso anche se non ci fosse stato più nulla da guardare». 

La discussione di queste ore su una legge per il fine vita l'ha fatto ripensare diversamente a quel giorno?

«No. Però quando lui è entrato in coma ho visto solo sofferenza. Lì ho detto basta, l'ho lasciato andare e il suo sorriso mi è rimasto stampato in testa». 

Le ragazze giocano a pallone?

«No, ma la più grande è diventata super appassionata. Tifa Juve e ovviamente nazionale, siamo andate a vedere le partite degli Europei. A casa commenta, fa le telecronache. Abbiamo guardato insieme Italia-Brasile, con i tre gol di Rossi. Le bimbe scoprono adesso il papà calciatore e credo che sia un modo per tenerselo vicino. In una lettera Maria Vittoria ha scritto: "Guardare una partita è come stare accanto a papà"».

Si è detto che l'Italia vincitrice dell'Europeo somiglia a quella del 1982. Vero?

«Sì, Paolo lo ha capito dopo le prime sfide con Mancini ct "fa squadra, come faceva Bearzot". Magari ci sono meno stelle, allora quel gruppo era popolarissimo ma questi hanno tempo». 

Lei è una giornalista, ha lavorato nello sport e suo marito ormai era una voce della tv. Che cosa ha pensato davanti alle molestie in diretta a Greta Beccaglia?

«L'ho conosciuta allo stadio, l'altra sera, per Perugia-Vicenza con dedica a Pablito. A lei va tutto il mio appoggio, gliel'ho detto e quel gesto è solo da condannare». Si sente un però... «Io le scuse le avrei accettate, senza giustificare nulla». 

Siamo ancora al dibattito sulle belle in tv?

«È la tv, sarebbe ipocrita pensare che l'immagine conti zero ma soprattutto è ridicolo supporre che una bella non possa essere brava. Se ci sono le due cose, perché no?». 

Paolo Rossi come avrebbe reagito in diretta?

«Chi lo sa. Avrebbe trovato il modo giusto, per lui la tv era un modo di arrivare alle persone che lo amavano e aveva un gran rispetto, degli spettatori e dei colleghi, della qualità che si vedeva intorno. Sempre pacato e competente e divertente. Nell'ultimo collegamento che ha fatto con l'i-Pad, non riusciva a stare neanche più seduto eppure quanto era bello ascoltarlo». 

Le lettere degli italiani a Paolo Rossi un anno dopo la morte: «Caro Pablito, ti scrivo...». Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 5 dicembre 2021. «Ha rappresentato la più bella gioventù...». «...Non riesco a farmi una ragione di questo dolore». Affetto, nostalgia e 10 mila messaggi: la gente continua a parlare con l’eroe del Mondiale del 1982. La moglie Federica: «Un grande aiuto per me e le ragazze». «Non so neppure io perché ti scrivo. Lo so bene che non ci sei più da quasi un anno. Ma ci tenevo comunque a farti sapere che ti sono ancora debitrice, per quell’estate meravigliosa, quando grazie ai tuoi gol tutto sembrava possibile e il futuro all’improvviso cominciò a farmi meno paura». Nel luglio del 1982 aveva appena compiuto diciott’anni, la signora di Mortara che pochi giorni fa ha scritto all’indirizzo dell’agriturismo Poggio Cennina di Bucine, l’ultima residenza terrena di Paolo Rossi. E quell’entusiasmo, quella gioia che provò insieme a tutti gli altri, a tutti noi, sono ancora un luogo dove rifugiarsi, con l’illusione di essere al riparo dalla malinconia, dalla solitudine, dalle scosse del tempo. Perché la vita non fa sconti a nessuno, non li ha fatti all’autrice della lettera, che racconta come il seguito della sua esistenza non abbia mantenuto le promesse di quel tempo ormai lontano. E neppure a lui, il nostro Pablito, che se ne andò nella notte tra il 9 e il 10 dicembre del 2020. «Queste saranno le prime feste senza la persona che avete amato di più» afferma rivolgendosi alla moglie Federica e alle figlie Maria Vittoria e Sofia Elena. «So come ci si sente, purtroppo. Ma voi non dovete sentirvi sole... anche se non potete vederci, siamo in tanti ad essere ancora grati al vostro Paolo, perché i bellissimi ricordi che lui ci ha regalato continuano a farci compagnia».

Nella loro casa

«Che bello. Siamo già in clima natalizio, le bimbe saranno felici». Federica mostra l’ultimo sms. Le aveva risposto dopo aver visto la foto delle decorazioni in casa. Era il 4 dicembre, era in ospedale, mancava poco. Oggi il salottino al pianterreno dove era stato allestito il suo giaciglio, stava troppo male per salire le scale, è arredato con un albero di Natale a testa per ogni membro della famiglia. Quello di sua moglie è una cascata di luce, quelli delle figlie sono piccoli e colorati. L’albero di Paolo è il più alto e il più tradizionale, quasi sobrio nella sua essenzialità. Ma i tanti colori non riescono a scacciare questa sensazione di penombra. «Le ragazze sono brave» racconta Federica. «Insieme, stiamo affrontando un percorso. E l’affetto incredibile che continuiamo a sentire intorno a lui ci aiuta molto». Nella stanza accanto, migliaia di lettere sono raccolte in tante scatole di cartone, ma anche nei cassetti della credenza all’ingresso, ovunque. La morte non è mai la fine, come cantava il suo amato Bob Dylan. Quando arrivò la notizia, e con essa un senso di smarrimento collettivo, si formò anche un’onda emotiva oggi più difficile da vedere, ma che non accenna a scendere. Caro Paolo, ti scrivo. Cara Federica, ti scrivo per consolarti e per ricordare Paolo. «Gentilissima Signora Rossi, non sa cosa ha significato per me perdere il mio mito di ragazzo. Paolo ha rappresentato la più bella gioventù, la felicità, la rivincita. Vorrei dirle che con mia moglie sono vicino a lei e alle sue creature. Ho un solo desiderio: sapere dov’è custodito il corpo del mio eroe. Se non potrà dirmelo accetterò la sua decisione ma mi creda, sarebbe un regalo per me. La abbraccio con affetto». «Cara signora Rossi, non passa giorno che non pensi al suo grande Paolo e al vuoto che ha lasciato. Mi piacerebbe portare fiori sulla sua tomba. Mi sa dire se devo venire a Bucine? La saluto con rispetto». 

In pellegrinaggio

La scorsa primavera, due pullman provenienti da Rivoli, provincia di Torino, si fermarono davanti all’agriturismo. Ne scesero quaranta persone, partite all’alba per andare in pellegrinaggio sulle tracce di Rossi. Quasi ogni giorno, qualcuno suona al campanello, chiedendo di poter scattare una foto davanti alla sua gigantografia che campeggia su un muro nel giardino. Non esiste una tomba che possa diventare simbolo visivo dell’affetto per quest’uomo e del nostro eterno bisogno di aggrapparci ai momenti belli, ai migliori anni della nostra vita. Le sue ceneri sono raccolte all’interno di una riproduzione della Coppa del mondo. Federica le custodisce in un posto segreto, perché la memoria del funerale di Vicenza, una cerimonia che divenne rito collettivo, dove si sentiva forte l’intensità di quell’affetto arrivato intatto fino a oggi, venne invece sporcata dal furto avvenuto in contemporanea nella casa di Bucine lasciata incustodita. L’assenza di un luogo fisico per il ricordo non ha interrotto un dialogo che è soprattutto autocoscienza, esercizio di nostalgia e di consolazione. Le lettere e le mail che continuano ad arrivare a Bucine sono ormai più di diecimila. Un dato sbalorditivo, che dice più di ogni altro attestato di stima. L’Italia parla ancora con Pablito. Gli scrive, invia messaggi al suo numero di telefono, divenuto chissà come di pubblico dominio, a Federica, alla sua famiglia. E leggendo, viene fuori una parte di Paese e di una generazione che non ama il proprio presente e cerca rifugio in un passato idealizzato, ma è composta da persone di buoni sentimenti.

«Lo immagino con Bearzot»

«Quando immagino Paolo lassù che ride e scherza con il vecio Bearzot e con il nostro grande Presidente partigiano» scrive un pensionato di Bologna, «sorrido anch’io, e questa almeno è una piccola consolazione, come lo fu per me il pensare a quella squadra fatta da persone vere durante alcuni miei anni molto difficili». Lettera da Noverasco, periferia milanese. «Gentile Federica, a distanza di mesi non riesco a farmi una ragione di questo dolore. Forse, il segreto di Paolo è quello di essere stato un ragazzo genuino, vero, normale, uno di noi. Spero che il Signore le dia sempre tanta forza». Ognuno ha un ricordo, una immagine personale che sente il bisogno di condividere con chi sente più di chiunque altro la sua mancanza. Alla fine, si torna sempre a quell’estate, a un momento della nostra vita che non vorremmo mai lasciare andar via. «Non sono più stato così felice come lo fui al fischio finale di Italia-Brasile 3-2» scrive un uomo di Ragusa. «All’epoca non potevo sapere che certe emozioni sono una cosa rara, da custodire nel cuore. Ma chi ha avuto la fortuna di provarle, sarà sempre grato a Pablito». Ormai è buio. Fuori, l’unica luce è l’insegna dell’agriturismo. Federica ripone le lettere in uno dei tanti scatoloni. Alcune non è riuscita neppure ad aprirle. Tra poco sarà un anno. Lei e le bambine sono richieste ovunque, questa sarà una settimana di celebrazioni. Dalla pila sul tavolo cade un altro foglio scritto a mano. È firmato dagli ex alunni di un liceo genovese. «La sua immagine con le braccia verso il cielo e la maglia azzurra ci ha fatto compagnia per tutti questi anni. Paolo Rossi hombre del partido, per sempre».

·        1 anno dalla morte di Diego Maradona. 

 

La maledizione dei fratelli Maradona, dribblati da un destino atroce. Piero Mei su Il Quotidiano del Sud il 29 Dicembre 2021. «Dovevi scartare anche il portiere!»: così Hugo Maradona rimproverò il fratello maggiore (in tutti i sensi) Diego la notte del 13 maggio 1980 quando l’Argentina campione del mondo sulle baionette dei suoi generali affrontò a Wembley l’Inghilterra e perse 3 a 1. Hugo aveva 11 anni allora, Diego neanche venti ma aveva già due palloni d’oro sudamericani. Maradona il grande quella sera prese il pallone a centrocampo (dove fosse fosse, lo prendeva sempre lui), dribblò mezza Inghilterra, si trovò davanti Clemence, l’ultimo inglese a difesa della rete e cercò di batterlo con uno dei suoi tocchi; il pallone beffardo scivolò giusto qualche centimetro fuori dal palo. Era il minuto 19.

“Dovevi scartare pure il portiere” gli fece Hugo, che già chiamavano “El Turco”, per via del colorito olivastro. Forse Diego se ne ricordò in quell’attimo in cui, qualche anno dopo, il 22 giugno 1986, un mezzogiorno di fuoco nello stadio Azteca di Città del Messico, quarto di finale mondiale, Argentina contro Inghilterra: era il minuto 55. Qualche attimo prima, al 51′, tutto il mondo, meno l’arbitro, aveva visto la “Mano de Diòs”.

Fu allora che Hector Henrique, detto “El Negro”, un indio che esordiva nell’Argentina, prese il pallone a centrocampo e lo passò a Maradona: piroettò, el Diez, lasciò sul posto la ronda inglese, Reid e Beardsley i loro nomi, fintò a rientrare su Butcher, lasciato sul posto, il che succede anche a Hodge. Diego ora è solo davanti a Shilton, il portiere. Stavolta Diego dribbla anche lui ed è il gol del secolo, che l’affannato rientrante Butcher cercò di impedirgli buttandoglisi sulla caviglia con il suo peso di 84 chili e la sua altezza di 1,90. “Barilete cosmico” urlò da re degli urlatori d’oggidì il telecronista argentino Victor Hugo Morales. “De que planeta veniste?”. Aquilone cosmico, da quale pianeta sei venuto?

Quel pianeta, magari, era soltanto il rimprovero dell’adolescente Hugo al fratello grande e Grande Fratello (lui sì…). E chissà quanti rimproveri belli e consigli buoni ha dato Hugo ai ragazzini che istruiva al calcio a Napoli, dove l’altro ieri mattina è morto a 52 per arresto cardiaco nella sua casa di Monte Procida, l’ultimo scampolo dei Campi Flegrei, proprio in faccia all’isola che sta per diventare la nostra capitale della cultura del 2022.

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Era lì, a Napoli, dove (ma non solo lì) “Maradona è meglio ‘e Pelè” ed hanno dedicato a Diego lo stadio, i murales, lo stadio e soprattutto il cuore che lui dedicò ai napoletani, che Hugo era tornato a vivere la sua seconda storia, quella di insegnante di calcio. Hugo era arrivato a Napoli la prima volta come “il fratello di”: era l’anno 1987. Diego aveva appena vinto il primo scudetto suo e del Napoli, l’ingaggio di Hugo era anche un riconoscimento, oltre che “non si sa mai”, tanto più che “El Turco” era già stato nel cerchio magico della Nazionale argentina, tra i vari “under”.

Per la verità il talento di Diego era tale che il destino, che ne aveva attribuito di tal livello soltanto a due o tre al mondo (Di Stefano, Pelè, Cruyjff o come diavolo si scrive), certo non poteva spargerlo a piene mani in famiglia. Hugo era sì un calciatore degno, ma un campionissimo no, e lo testimonia il suo vagare per il mondo in cerca di gloria: una partita con il Napoli, poi in prestito all’Ascoli (serie A, comunque), il passaggio al Rayo Vallecano in Spagna, quello al Rapid Vienna, quello in Venezuela al Deportivo Italia, il ritorno ad Ascoli, e poi il Giappone (l’Avispa Fukuoka, il Consadole Sapporo) e infine il Canada (Il Toronto Italia: sempre Italia nel nome e nel cuore di Hugo, napoletano ad honorem).

Ciò su cui il destino non ha invece risparmiato è stato su questa specie di “maledizione di famiglia”: Diego se n’è andato in giorni misteriosi poco più di un anno fa, il 25 novembre 2020, a sessant’anni appena; Hugo la mattina di mercoledì scorso, in questi giorni di festa, a 52. Un conto terribile alla fama di un cognome. C’è perfino la coincidenza che un ragazzo divenuto affine, il “Kun” Aguero, così chiamato dal nonno e poi da tutti per la sua somiglianza con un cartone animato popolare in Argentina, che era stato sposo di una figlia di Diego, Giannina, ha appena dovuto abbandonare la sua carriera di campione del pallone, appena passato al Barcellona, per problemi di salute cardiaca.

Hugo, a Napoli, aveva trovato la sua città e la sua dimensione; alle ultime elezioni comunali volevano anche candidarlo in una lista civica, ma la burocrazia della cittadinanza da ottenere rese impossibile questa pennellata di calcio per riverniciare la politica. Voleva crescere qualche Diego (ma ce ne saranno più?) e chissà se a qualcuno di quegli scugnizzi un giorno abbia detto (o avrebbe detto) “dovevi scartare anche il portiere”.

E’ morto Hugo Maradona.  Da fanpage.it il 28 dicembre 2021. Hugo Maradona, fratello di Diego Armando Maradona, è morto nella mattinata di oggi, 28 dicembre per arresto cardiaco. Il decesso è avvenuto alle 11.50 di questa mattina. L'uomo, 52 anni, viveva nella zona Flegrea, a Monte di Procida, provincia di Napoli. Hugo Maradona è deceduto nella sua abitazione, sul posto i sanitari del 118 che hanno constatato il decesso. Il decesso di Hugo Maradona arriva a un anno dal decesso di Diego Armando, avvenuto il 25 novembre 2020 in Argentina.

La sua carriera calcistica nell'ombra di Diego

Fratello minore di Diego, come lui e l'altro fratello Raul detto Lalo intraprese la carriera calcistica giovanissimo: a 18 anni fu acquistato dallo stesso Napoli, fresco Campione d'Italia, che lo girò in prestito all'Ascoli. I due giocarono anche da avversari, ma la carriera di Hugo intraprese poi altre strade: il Rayo Vallecano in Spagna, poi le esperienze in Austria e in Giappone, prima di tornare a Napoli e dedicarsi al calcio giovanile. Negli anni passati, allenò anche il Boys Quarto: Hugo differentemente dal fratello Diego poteva permettersi il lusso di vivere a Napoli e girare liberamente, nonostante il cognome pesante e l'incredibile somiglianza con il più noto fratello. Sposatosi a Bacoli nel 2016 con Paola Morra, non era raro incrociarlo negli stadi di provincia a guardare la sua grande passione: il calcio.

Hugo Maradona e la moglie Paola Morra

Nel 2018 Hugo si sottopose ad un check-up all'ospedale Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli, dove fu sottoposto anche ad un intervento chirurgico "di routine". Subito dopo, Hugo inviò una lettera di ringraziamento ai medici dell'ospedale, che l'Azienda Sanitaria Locale Napoli 2 Nord poi pubblicò sui propri profili social. "A loro il mio più profondo ringraziamento", concluse Hugo in calce alla lettera. 

"Diego era un secondo padre"

Lo scorso anno, Hugo Maradona ricordò il fratello Diego scomparso a fine novembre come "un secondo padre, che ora è con mamma e papà". In collegamento in diretta televisiva a Domenica In, Hugo Maradona aveva ricordato anche come Diego avesse avuto "tutti i problemi del mondo, si faceva male da solo, ma Diego era una persona buona", aggiungendo anche che di lì a poco "avremmo dovuto incontrarci a Natale".

MONICA SCOZZAFAVA per il Corriere della Sera il 29 dicembre 2021. Hugo Maradona non avrebbe voluto tanto clamore attorno alla sua morte. Se ne è andato in una mattina di dicembre, a 52 anni. In silenzio. Ma la notizia della sua prematura scomparsa, 13 mesi dopo quella del fratello celebre Diego, ha immediatamente fatto il giro del mondo, sino a raggiungere la sua famiglia argentina e i figli Nicole, Thiago e Melina, avuti dalla prima moglie, che vivono a Miami. Eppure, Hugo, famoso non lo era mai stato. Neanche quando il Pibe dopo aver vinto i Mondiali del 1986 raccontò al mondo intero che il gol del secolo all'Inghilterra lo aveva realizzato grazie a un suggerimento del fratello. Gliene fu grato, certamente. Ma continuò la sua vita nell'ombra. Umile e riservato. Amava stare tra la gente comune, non aveva avuto la fortuna di Diego e si dava da fare come poteva, sfruttando il suo mestiere di allenatore. Qualche minuto prima dell'arresto cardiaco che gli è stato fatale ha detto a sua moglie Paola di chiamare un'ambulanza. Ha guardato il mare dalla sua abitazione di Monte di Procida ma non ha fatto in tempo a vedere l'arrivo dei medici, a sperare che anche stavolta lo avrebbero salvato. Un destino tragico, simile a quello del fratello maggiore, scomparso la mattina del 25 novembre di un anno fa per una insufficienza cardiaca dovuta a un edema polmonare. Hugo soffriva di polmonite, ed era stato anche lui sottoposto a un intervento due anni fa. Conviveva con acciacchi influenzali più o meno intensi ma dopo la morte di Diego si era lasciato andare. Il dolore è stato insopportabile, quelli che gli sono stati vicino raccontano di un uomo diventato fatalista, quasi arreso a un destino triste che prima o poi avrebbe travolto anche lui. Con suo fratello Diego ha sempre avuto un buon rapporto, nonostante per gran parte della loro vita siano stati distanti. In una sua ospitata a Domenica In, a dicembre del 2020, raccontò gli ultimi tempi del loro rapporto: «Con lui è andato via un pezzo della mia vita. Non ci vedevamo da due anni, ma ci saremmo dovuti vedere a Natale. Per il Covid non sono potuto tornare in Argentina per i funerali». Era il più piccolo degli otto figli di don Diego e Donna Tota ma non aveva più rapporti con le sorelle Maria Rosa, Rita, Elsa, Ana Maria e Claudia e con il fratello Raul. Aveva sposato Napoli e i napoletani, si era battuto per ottenere la cittadinanza italiana ma pur provando ad affacciarsi in politica (voleva candidarsi con il centrodestra di Catello Maresca alle scorse elezioni comunali) non ci era riuscito per una serie di difficoltà burocratiche. Ed era il suo più grande rammarico, oltre a quello di non aver potuto salutare per l'ultima volta Diego. Un mese fa era allo stadio intitolato al fratello, tra i primi in tribuna a celebrare l'anniversario della sua morte e l'intitolazione della statua. Era cresciuto nei campi in Argentina prima di sbarcare a Napoli nel 1987, quando a 18 anni giocò una sola partita con i partenopei prima di andare in prestito all'Ascoli, e poi al Rapid Vienna e al Rayo Vallecano. Un centrocampista, Hugo Maradona, che metteva il suo talento in campo anche contro Diego, come ricorda l'Ascoli che ha pubblicato sul proprio sito una foto di Hugo che insegue il Pibe in campo in una sfida tra Napoli e i bianconeri marchigiani. Smesso il calcio giocato, cominciò come allenatore dei ragazzini in diverse scuole calcio. Per lui, tornato a Napoli dopo aver vissuto con i figli a Miami, era cominciata la sua vita vicino al mare partenopeo, a Monte di Procida, dove nel 2016 ha sposato la sua seconda moglie, Paola Morra, mentre i tre figli delle prime nozze vivono ormai da tempo negli Usa. Aveva continuato a fare il papà a tempo pieno dedicandosi ai due figli di Paola. Il ricordo del capitano storico del Napoli degli scudetti, Beppe Bruscolotti: «Un uomo semplice, gentile. Rispettoso. Qualche anno fa mi chiese di portarlo in albergo da Diego. Avevano litigato, quando si videro si abbracciarono forte. Piansi con loro».

Maurizio Nicita e Filippo Maria Ricci per gazzetta.it il 16 dicembre 2021. Avevamo lasciato Dalma Maradona in attesa di una risposta di Aurelio De Laurentiis. La “Hija de Dios”, come il titolo del documentario che sta girando, ha chiesto via whatsapp al presidente del Napoli di farla entrare a filmare allo stadio intitolato a suo padre. De Laurentiis non ha risposto direttamente a Dalma, che però ha ricevuto una mail: l’avvocato del presidente, Lorenzo De Sanctis, le ha confermato il diniego alla richiesta di ingresso allo stadio che porta il suo stesso cognome, giustificando il nuovo no con una trattativa in corso con una piattaforma internazionale per la registrazione di una serie. 

Pochi indizi. E poche parole, che però hanno preso forma quando ieri pomeriggio ha parlato De Laurentiis: “Abbiamo scritto e stiamo registrando 30 episodi, prodotti da una piattaforma internazionale, e riguarderanno la storia del Napoli a partire da Giorgio Ascarelli nel 1926 fino ai tempi nostri. Se non ci fosse stata la morte di Maradona avremmo già cominciato a girare”. Dalma ci è rimasta molto male, ma dall’Argentina hanno chiesto alla Bronx, la casa di produzione che si occuperà delle scene napoletane de “La hija de Dios”, di sondare il terreno con il Comune di Napoli, proprietario dello stadio. De Laurentiis ha anche annunciato che il 20 dicembre andrà alla Farnesina dal Ministro degli Esteri Luigi Di Maio per presentare l’idea dell’organizzazione di una partita annuale dedicata a Diego Maradona.  La prima, idealmente il 24 maggio, giorno del compleanno di Aurelio De Laurentiis, sarà un Napoli-Argentina.

Diego, Diego, sempre Diego. Film, serie, maglie, ricordi, omaggi, partite. Maradona è un patrimonio, e attorno alla sua figura è in corso una guerra di vari mondi. Al momento ci sono cinque figli riconosciuti, Diego Junior, Dalma, Gianinna, Jana e il piccolo Diego Fernando.  Una richiesta di paternità negata a Magalì Gil, altre due in attesa, quelle di Santiago Lara e Eugenia Laprovittola, e la possibile incorporazione dei figli cubani, che inizialmente erano tre, i gemelli Joana e Lu e Javielito, e ora sono cinque visto che si parla anche di Harold e Johanna. La giudice che segue la successione ha dato tempo fino al febbraio del 2022 ai possibili eredi di farsi avanti. Questa dozzina di giovani tra gli 8 e i 35 anni hanno diritto, o lotteranno per aver diritto, alla spartizione del patrimonio di papà Diego Armando, attorno al quale è partito un complesso e intricato iter giudiziario che sta strozzando la battaglia per l’eredità Maradona. In campo un esercito di avvocati, e lo stesso giudice che si occupa della successione che è cambiato quattro volte perché i vari figli avevano presentato domanda di eredità in luoghi differenti. Ora almeno i cinque ufficialmente riconosciuti si sono riuniti sotto la guida di Sebastian Baglietto, storico legale di Claudia Villafañe, l’avvocato scelto dal giudice per curare la successione. Gli eredi, in attesa di capire forma, entità, geografia e dimensioni del patrimonio, hanno iniziato una guerra legale. Prima di addentrarci nei conflitti economici va citata la causa penale per negligenza legata alla morte di Maradona avviata contro l’entourage medico (sette persone fra medici e infermieri) che ha curato Diego nei giorni che hanno portato alla sua morte il 25 novembre 2020. 

In ambito finanziario, gli eredi contestano il contratto per la gestione dei marchi legati a Maradona (compresi i suoi soprannomi, tipo “La Mano de Dios”) e ai diritti d’immagine. Poche settimane prima della morte, Maradona aveva firmato un accordo con la Sattvica, una società gestita dall’argentino Matias Morla, avvocato e persona vicina a Diego sin dal 2012, e con l’italiano Stefano Ceci, da oltre vent’anni amico del Pibe e da tempo suo uomo di fiducia in questioni economiche e d’immagine, i cui interessi sono tutelati dall’avvocato Claudio Minghetti e dal professor Sandro Censi in Italia e dallo Studio Uckmar a Baires. Gli eredi hanno impugnato questo accordo e hanno intrapreso diverse azioni legali per bloccarne l’utilizzo.

In Argentina hanno avviato una causa penale per circonvenzione d’incapace, procedimenti civili per la rescissione del contratto e una denuncia contro Morla per amministrazione fraudolenta. In Italia gli avvocati nominati dagli eredi, Francesco Caroleo Grimaldi, Antonella Tomassini e Federico Sinagra, hanno presentato una denuncia penale alla Procura di Napoli per truffa aggravata nei confronti di Ceci e una diffida in sede civile allo stesso Ceci e al Napoli per l’utilizzo del marchio Maradona: in entrambi i casi è tutto legato all’operazione commerciale che ha portato alla produzione della maglia che il club partenopeo ha usato per tre gare.  A margine Claudia Villafañe e le sue due figlie, Dalma e Gianinna, hanno querelato Ceci per diffamazione presso la procura di Roma a seguito di un’intervista rilasciata a La Repubblica.

In Italia la partita legale è appena cominciata, in Argentina va avanti da tempo e il risultato resta molto incerto. A La Plata il giudice incaricato per la successione il 23 novembre ha risposto affermativamente alla richiesta interposta da Ceci di poter continuare a gestire l’immagine di Maradona, un altro giudice a Buenos Aires 6 giorni dopo, pur dichiarandosi incompetente, sul tema ha dato ragione alla richiesta di sospensione avanzata dagli eredi. Ci vorranno mesi, forse anni, perché Maradona possa riposare in pace. 

Da ilnapolista.it il 16 dicembre 2021. Sulla Gazzetta dello Sport una nuova puntata della querelle Dalma Maradona-Napoli per il documentario su Diego Armando. Fino a qualche giorno fa, sembrava che alla figlia del Pibe de Oro fosse stato concesso, dal Comune di Napoli, il permesso di girare allo stadio, anche se il presidente del club, Aurelio De Laurentiis, aveva negato il suo ok. Ma adesso pare non sia più così: Dalma verrà in città, ma non potrà effettuare riprese all’interno dell’impianto. “Ieri al momento di chiudere data e ora, dal Comune hanno fatto sapere di non poter aprire le porte agli argentini. Dalma arriva mercoledì, ma fino a venerdì allo stadio ci sarà un’ispezione. Sabato e domenica non c’è nessuno che possa farla entrare, da lunedì il campo entra nella giurisdizione del Napoli in vista della sfida con lo Spezia di mercoledì. A quel punto Dalma sarà già ripartita per Buenos Aires, teoricamente senza poter essere entrata al Maradona. Dal suo entourage trapela sdegno e non mollano la presa”. 

Dagospia il 27 dicembre 2021. E' morto in solitudine, in una piccola e malmessa casa in Argentina nonostante la carriera unica e le ingenti ricchezze. D'altronde Diego Armando Maradona è sempre stato l'uomo degli ossimori e delle situazioni contraddittorie. Il campione di calcio più forte e ammirato della storia che ha dovuto, in vita, combattere contro le tante voci alcune fondate, altre strumentalmente distorte, altre ancor del tutto inventate - che ne macchiavano l'immagine, dalla droga agli agganci con la camorra fino all'accusa di evasione fiscale. Inseguito dalla giustizia e dal moralismo, nessuno aveva voglia di credergli. Per la narrazione era utile solo vedere le ombre di un grande campione e giudicare il suo comportamento. In realtà Diego Maradona è stato soprattutto un uomo buono, generoso con un approccio alla vita a volte infantile ma mai votato a fare del male alle persone. Amava la sua famiglia, la mamma ed il papà che ha portato fuori dalle favelas argentine con il primo contratto nella serie A del suo Paese, a sedici anni, con l'Argentinos Junior. Amava soprattutto i suoi figli, di cui l'ultimo riconosciuto Diego Jr, è quello che gli assomiglia di più. Amava le donne e la vita in tutte le sue sfumature. Angelo Pisani è l'avvocato di Diego Maradona e ne fu anche amico, colui che pochi mesi fa è riuscito a fare assolvere il campione argentino dal reato di frode fiscale. Una sentenza che ha ridato, ex post, dignità a Diego. Pisani parla del campione al presente, raccontando aneddoti di vita vissuta con una certezza: se Maradona fosse rimasto a Napoli, non sarebbe morto.

GIOVANNI TERZI per Libero Quotidiano il 27 dicembre 2021. E' consuetudine, quando si parla di Diego Armando Maradona, raccontare della personalità con luci ed ombre. Le luci del talento e del campione di calcio più forte di tutti i tempi, le ombre di un uomo alla ricerca di un punto di equilibrio all'interno della propria persona. Tutto vero: mai però ci si chiede quale sia il tratto comune che lega inesorabilmente il campione all'uomo. Parlando con Angelo Pisani, l'avvocato amico del campione argentino, emerge con chiarezza che Diego Armando Maradona è stato un uomo generoso, dal cuore buono e sempre attento a difendere i più deboli, i bisognosi. Un esempio fu la presentazione ufficiale allo stadio San Paolo di Napoli, nel 1984. Napoli aspettava Diego come il Messia, e queste furono le sue parole durante quella famosa conferenza stampa: «Voglio diventare l'idolo dei ragazzi poveri di Napoli, perché loro sono come ero io a Buenos Aires». «Maradona era così, generoso e prodigo verso gli ultimi- inizia a raccontare l'avvocato Pisani, - e se c'è una cosa che avrebbe voluto fare delle sue ricchezze è esattamente il contrario di quello che sta avvenendo». 

Cosa avrebbe voluto Maradona, avvocato?

«Diego più volte mi disse che avrebbe sperato che vincessero i valori veri e che le sue ricchezze, scaturite dall'utilizzo del marchio Maradona, fossero utili a sostenere le persone povere. Purtroppo non solo questo non sta accadendo, ma la battaglia legale rischia di compromettere la bontà di un simbolo dalla potenziale ricchezza inestimabile» 

A che punto è la battaglia legale?

«Siamo alle fasi iniziali di una lunghissima partita, dove a giocare sono tutti contro tutti e dove il vero rischio è che nessuno vincerà e l'unico sconfitto sarà il nome di Diego Maradona» 

Perché dice tutti contro tutti? Chi si sfida in questa guerra per l'eredità del "Pibe de oro"?

«In gergo calcistico, possiamo dire che ci sono due squadre: da una parte gli agenti e gli avvocati argentini di Diego capitanati dall'avvocato Morla, dall'altra la famiglia con tutti i figli del campione uniti»   

Maradona avrà lasciato qualche scritto, prima di morire...

«Maradona forse si faceva organizzare la giornata quando era in vita, mai però avrebbe permesso ad alcuno di farlo dopo la sua scomparsa, e certo non pensava di morire abbandonato. Probabilmente Morla e il suo gruppo avevano cercato di organizzare, prima della morte, la gestione dei beni del campione argentino. Era però impossibile che Diego facesse gestire la sua eredità da qualcuno».

In questa situazione i figli sembrano tutti uniti. E le loro mamme ?

«Le mamme non sono per nulla unite, ma non hanno titolo sull'eredità di Maradona. Diego Jr. e le sorelle fanno squadra assieme»

Che questa disputa rischi di portare ad un deterioramento del "marchio" Maradona è confermato dall'ultima asta che si è svolta, on line, il 19 dicembre scorso, e che è stata tutt' altro che un successo. Cinquanta oggetti appartenuti a Diego, tra cui case, automobili, attrezzi per allenarsi, oggetti decorativi, immagini del Pibe e abbigliamento sportivo che più di 1.500 persone in tutto il mondo hanno voluto conservare per ricordare il più grande calciatore di tutti i tempi. Secondo l'agenzia di stampa Afp, l'operazione ha fruttato solo 23mila euro, e sono rimasti invenduti beni per un milione e 400mila euro.

Anche in questo caso, una beffa la battaglia per l'eredità di Maradona?

«Certamente sì. Come quella che riguarda l'evasione fiscale: l'11 marzo di quest' anno, dopo trent' anni, Diego è stato assolto» 

Quindi tutte le accuse che lo hanno perseguitato sono cadute ?

«La legge, con una sentenza della Cassazione, ha sancito che Maradona non ha evaso il fisco italiano, come avevo sempre sostenuto riportando Diego a Napoli. Lei pensi quante parole fuori posto in questi anni e quanta persecuzione per il campione argentino che non poteva nemmeno tornare in Italia perché veniva umiliato e trattato peggio di Totò Riina. Con questa sentenza è stata ridata dignità a una persona innocente e quindi c'è, da una parte, grande gioia ma anche tanta amarezza, per questo importante traguardo che purtroppo non abbiamo potuto condividere con lui». 

Come avrebbe reagito se fosse stato in vita?

«Avrebbe chiamato i figli per dire loro che il loro papà si è sempre comportato bene. Sicuramente se la starà ridendo lassù, perché ancora una volta ha combattuto e vinto per la verità, anche se dispiace che in tutti questi anni la burocrazia e il sistema non abbiano mai voluto ascoltare le ragioni di chi difendeva Maradona, cioè gli avvocati. Un atteggiamento incomprensibile». 

Tra le pagine oscure del campione c'è il suo rapporto con la camorra e soprattutto con il clan Giuliano. Cosa conosce lei di questa vicenda?

«Io dico che era il clan Giuliano a volere far credere che ci fosse un rapporto e che Maradona mai l'ha cercato, né conosceva quelli che lo tiravano anche per i capelli: anche in quel caso qualcuno avrebbe dovuto difenderlo e assisterlo 

E per quanto riguarda la droga?

«Questa triste vicenda deve essere raccontata non come un fatto di cronaca, ma come una vera e propria malattia da cui Diego uscì solo grazie all'amore per i figli e ad una persona». 

A chi, avvocato Pisani?

«A Fidel Castro, che riuscì a organizzarne le cure e convincerlo a farsi disintossicare»

Lei raccontava quanto Maradona avesse a cuore i più deboli e che per loro volesse sempre lottare...

«Negli ultimi lui si rivedeva. Riconosceva la sua infanzia e le radici di una vita cresciuta nelle baracche popolari dove i genitori si spaccavano la schiena, dalla mattina a sera, per portare a casa da mangiare. Così fu anche per il gol con la mano in Argentina-Inghilterra. ai Mondali del Messico: si giocava non solo una partita di calcio ma la rivalsa di un Paese attaccato e sconfitto dagli inglesi nella guerra nelle Isole Falkland».

I Mondiali per Maradona rappresentavano davvero tanto e quando Il 30 giugno 1994, dopo la seconda partita dei Mondiali negli Stati Uniti, venne squalificato per doping in quanto positivo all'efedrina, questa fu la sua dichiarazione: «Mi hanno ucciso quando volevo rientrare per dimostrare alle mie due figlie che posso lottare con dei ventenni. Nel Paese della democrazia non mi hanno lasciato parlare, e non mi hanno permesso di dire ciò che sento. Con la mia uscita dal Mondiale è uscito anche un intero Paese e sono usciti anche quelli che mi vogliono bene. Avevo detto che la Fifa mi aveva tagliato le gambe. Adesso dico che mi ha finito di tagliare il corpo, mi ha ucciso».

Un rapporto sempre conflittuale con i poteri del calcio: quale era quello con Ferlaino, il presidente del Napoli?

«Ferlaino era il presidente del Napoli calcio e Maradona quello di tutti i napoletani». 

Maradona e Papa Francesco: che incontro fu?

«Eravamo insieme e lo ricordo benissimo. Diego era emozionato di poter incontrare il Papa argentino e infastidito dalle ricchezze della Chiesa. Ma fu proprio Papa Francesco a farmi vincere la mia missione di indurlo a riabbracciare suo figlio DiegoJr. Così accadde, e Diego Jr divenne quel figlio che sempre è poi rimasto accanto al padre: è stata una delle mie grandi soddisfazioni. Con Maradona ho segnato anch' io qualche goal, tra cui quello nella partita contro l'ingiustizia e quello per l'amore con il figlio, Diego Jr, che ho fatto rincontrare e che posso dire ha le caratteristiche di generosità e sensibilità più simili più al padre»

Gabriele Santoro per "il Messaggero" l'1 dicembre 2021. Carlos Bilardo, il selezionatore dell'Argentina campione del mondo nel 1986, ripeteva che un calciatore argentino dovrebbe vivere dalla mattina alla sera con un pallone attaccato ai piedi. Il perfezionamento della tecnica era la sua ossessione. Un giorno, a Berlino, Diego Armando Maradona uscì palleggiando dalla stanza dell'allenatore, entrò nell'ascensore, si sedette a tavola e iniziò a mangiare nel ristorante dell'albergo senza far mai toccare il pavimento alla sfera di cuoio. Un sorriso disegnò il volto di Bilardo che si rivolse ai compagni di squadra: «Avete visto? Per questa ragione è Maradona». La memoria dell'episodio rimase impressa a Jorge Valdano che l'ha donata per restituire la ricerca di senso del bambino di Villa Fiorito. Il re degli ultimi (Ultra, 17.50 euro, 344 pagine), scritto dal giornalista Enzo Beretta, nel ripercorrere la relazione complessa tra Maradona e Napoli, parte proprio dall'amore incondizionato per il gioco.  Non sfugge al paradosso decisivo di questa storia: il sogno di una vita che ha realizzato le aspirazioni non solo del suo protagonista e il dramma di non riuscire a destreggiarsi dentro a un destino così generoso e ingombrante. «Quando entri in campo, la vita scompare, scompaiono i problemi, tutto scompare...», sosteneva Diego. Ascoltarlo nella lingua madre suona ancora meglio, perché il ritmo della frase assomiglia all'estetica del fantasista che fuggiva e schivava i colpi degli avversari nel terreno di gioco: «Cuando vos entrás a la cancha, se va la vida, se van los problemas, se va todo...» Dagli intrecci della trattativa per prenderlo dal Barcellona ai due scudetti conquistati in sette anni (1984-1991), plasmando l'anima di una squadra che sopravviveva in zona retrocessione, l'autore esplora l'essenza gioiosa e gli stravolgimenti dolorosi, devastanti come la dipendenza dalla cocaina e i rapporti compulsivi con le donne, della mimetizzazione con Napoli. Emerge la solitudine di chi è costretto dal proprio talento a spingersi oltre i limiti preclusi ai mortali. Questa unicità equivale all'isolamento nel teatro delle corti dei miracoli che cercano il genio per accreditarsi. Il preparatore atletico personale Fernando Signorini, che non l'ha mai abbandonato, disse: «Seguirei Diego in capo al mondo. Non accompagnerei Maradona all'angolo della strada». Lo ribadisce in una ricca intervista che conclude il testo: «Non porto proprio niente di Maradona nel cuore, ma solo Diego con i tanti momenti vissuti insieme, i sorrisi e le lacrime. Nietzsche dice che non si può parlare dell'amicizia, perché le parole rovinano il vero senso di un sentimento così bello. La nostra amicizia si vede nei fatti». Il titolo del libro associa Maradona alla figura di leader terzomondista, che tra i padroni e gli oppressi ha scelto sempre di parteggiare per questi ultimi. Pur sapendo inventare un'altra vita dall'infanzia segnata dalla povertà, per loro è rimasto credibile. Beretta conduce i lettori nel risvolto politico della rivoluzione che sovvertì la geografia calcistica in Italia dal vertice del potere industriale del Nord a Napoli. Il rapporto tra Maradona e le masse, che non è riducibile alle vittorie sportive, sarà senz' altro il futuro filone di indagine più interessante sulla sua figura. A patto di lasciare spazio al mistero della forza ed energia del corpo di un eterno ragazzo.

Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 24 novembre 2021. «Gli amici sono persone che ti fanno anche regali», e Maradona era suo amico «anche se non l'ho mai conosciuto», perché «regalava arte». E che fosse un artista «non c'è dubbio: regalava arte calcistica come Pino Daniele regalava arte musicale e Massimo Troisi arte cinematografica. Perciò sono stati e restano amici di tutti quelli che li hanno amati». E Paolo Sorrentino, al pari del Fabietto Schisa di È stata la mano di Dio, Maradona non soltanto lo ha amato, ma lo ha anche aspettato e sognato. E poi lo ha visto: al San Paolo, dove poteva vederlo chiunque avesse l'abbonamento o il biglietto, ma anche altrove. Perché in quei sette anni tra il 1984 e il 1991 Napoli si divideva tra chi Maradona l'aveva visto per strada e chi sperava di vederlo. E lui lo aveva visto. A un incrocio tra due strade che forse nemmeno tutti i napoletani conoscono, ma se le ricorda benissimo: «Era all'angolo tra corso Europa e via Piave. E chi se lo dimentica più». Di quegli anni e di quel campione, Sorrentino ha ricordi condivisi e ricordi personali. Dei primi fa parte il clima di Napoli, «città che ha per indole stare sempre al centro dell'attenzione, e lui fece sì che l'attenzione fosse per qualcosa di positivo», e offrì ai napoletani un motivo per gioire, festeggiare, sognare un traguardo irraggiungibile da sempre. Ma della memoria collettiva fa soprattutto parte l'incanto di veder giocare Diego: «Fu chiaro da subito che avesse un altro passo, e questo lo pose in una posizione semidivina. Faceva cose che ancora non hanno una spiegazione». Il gol contro la Juventus su punizione dall'interno dell'area, per esempio. Un colpo che nessuna legge fisica riterrebbe possibile. «Quello è il più famoso, ma c'è anche altro. Ricordo certi pallonetti in cui la traiettoria non era quella di una parabola, ma il pallone saliva e poi scendeva prendendo la direzione della porta. Come se disegnasse due cateti di un triangolo». Condiviso è anche il ricordo della fisicità di Diego, «che pure lo rendeva mitico perché completamente in contrasto con la straordinarietà dei gesti», e quello della «dimensione tragica dell'uomo fuori dal campo», che però non condizionava il calciatore: «Per me la differenza è tra chi desta meraviglia e chi no. E Maradona ha sempre destato meraviglia». Ma nei ricordi personali neppure uno come l'argentino riesce a essere fonte di gioia, di entusiasmo, di festa. «In effetti me lo sono goduto davvero nei suoi primi anni a Napoli, quando ogni domenica andare allo stadio era una esperienza entusiasmante già prima di arrivarci. Scendevamo a piedi dal Vomero fino a Fuorigrotta, attraversando rigorosamente una scorciatoia di campagna. E lungo la strada passavamo a prendere una signora che di calcio non capiva niente ma avevamo eletto a nostro portafortuna, e quindi ogni volta doveva esserci anche lei con noi. È stato sempre così, dall'84 fino all'87». Ma non nel giorno dell'apoteosi, quel 10 maggio che segnò la vittoria del primo scudetto e una intera città si colorò di azzurro e di felicità. «I miei genitori erano morti da circa un mese. Non partecipai alla festa, in quel periodo non pensavo al Napoli né a Maradona». E neppure il secondo scudetto, quello della stagione 1989-90, lo avrebbe coinvolto più di tanto. Paolo Sorrentino, ormai si sa, deve la vita a un incrocio del destino che ha a che fare proprio con la passione e la fede calcistica. Se non avesse già avuto in programma di seguire il Napoli in trasferta a Empoli, sarebbe andato con i genitori a Roccaraso, e probabilmente il monossido di carbonio sprigionatosi dal camino della casa di montagna avrebbe ucciso anche lui. Quella improvvisa tragedia segnò inevitabilmente sotto molti aspetti il percorso della sua esistenza e segnò anche la sua storia di tifoso. «Il Napoli era una cosa che condividevo soprattutto con mio padre. Senza più lui me ne allontanai. E poi lasciai la città, cambiai vita. E quindi nemmeno la vittoria del secondo scudetto la sentii con particolare intensità. Perciò sto ancora aspettando che il Napoli diventi per la terza volta campione d'Italia. Per goderne come avrei voluto tanti anni fa». Se accadrà, stavolta Diego Armando Maradona sarà soltanto il nome dello stadio che un tempo si chiamava San Paolo. Ma solo per gli almanacchi e gli annuari. Non per il cuore dei tifosi. Non per il cuore del tifoso Paolo Sorrentino: «Maradona resta sempre, e il suo ricordo fa parte di quelli dai quali non si esce mai. In realtà nella vita si rincorre per anni l'età adulta e poi a un certo punto ci si ferma, ed è in quel momento che si ritorna puntualmente all'assillo del ricordo e al dolore per un passato che non c'è più. E la nostalgia di Maradona in fondo è proprio questo: ricordo di gioia e dolore che non ci sia più».

Da corrieredellosport.it il 25 novembre 2021. A Villa Fiorito, accanto a quei muri scrostati che un mese fa sono stati dichiarati dal presidente dell'Argentina Alberto Fernandez “lugar historico nacional”, partirà il lungo ricordo di Diego Armando Maradona. Oggi, anniversario del primo anno dalla morte del Diez, la cerimonia più suggestiva comincerà proprio da quell'umile casa (in stato di semi abbandono, anche se c'è il progetto di trasformarla in museo) nel quartiere dove nacque e crebbe il Pelusa prima di diventare leggenda. Ma non si contano in Argentina le iniziative per il “miglior giocatore di tutti i tempi” come lo ha definito la Liga Profesional de Futbol che durante la 22ª giornata di campionato (si concluderà oggi) dagli altoparlanti di tutti gli stadi manderà una canzone per un ulteriore omaggio. Maradona riposa nel cimitero privato Jardin Bella Vista di Buenos Aires e nessuno, oltre a parenti stretti e personale, può avvicinarsi alla tomba. C'è un totale silenzio, il contrario di quello che si può ascoltare fuori, fin dal giorno della sua morte. Dalma (34 anni), Gianinna (32), Jana (25) poi i maschi Diego Junior (35) e Diego Fernando (8) sono i figli riconosciuti, gli eredi universali. Ma ce ne sarebbero anche a Cuba (Joana, Lu, Javielito e forse Harold) e Argentina (Santiago Lara e Magalì). E se ancora non si sa esattamente a quanto ammonti la somma e i beni che i cinque eredi si dovranno dividere, prima di qualsiasi spartizione si attende l'esito delle cause con i test del DNA presentati da almeno altri due presunti figli. Ecco perché l'asta in programma il 19 dicembre con case, auto, effetti personali che furono del Diez, servirà solo per pagare le spese, nulla andrà ai figli fino a quando non verrà determinato quanti sono in realtà. Ci sono anche altre cause pendenti a cominciare dalla disputa per il brand commerciale “Diego Maradona”, da una parte Dalma e Gianinna e dall’altra tre sorelle del padre (Cali, Kitty e Ana) rappresentate da Matias Morla, che fu avvocato del Diez e che ha anche un secondo giudizio sempre contro le figlie di Diego e Claudia Villafañe. 

Diego Armando Maradona, ad un anno dalla morte emerge la sua immortalità. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 25 Novembre 2021. Ai conoscenti di Diego Armando Maradona basta sentire il suo nome per vederselo davanti; aggiungo che qualsiasi descrizione può soddisfarli, purché non smentisca grossolanamente la ben definita immagine che si attendono. Ad un anno dalla morte statue si inaugurano e nuovi film ne traggono narrazione. Ma quello che emerge è la sua immortalità a prescindere delle opere che lo celebrano o lo raccontano. Dice Ernesto Sabato che l’anima per mostrarsi ai nostri occhi ha bisogno di un corpo. L’anima di Diego per mostrarsi a donne e uomini non ha bisogno del suo corpo. Poeta del calcio dagli occhi penetranti e dal tocco di piede fatato, vestito in campo di biancoceleste, azzurro Napoli, blaugrana, azul y oro del Boca, che aveva iniziato a toccare il pallone di pezza in periferia. Maradona era di Fiorito, barrio tra Lomas e Lanus, provincia di Buenos Aires. Ebbene la mia buona sorte, mi ha permesso grazie a mio nipote Sebastiano Leporace, sindacalista che si adopera per quei poveri, di andare a Fiorito dove l’effige di Diego sta nel cartello d’ingresso. Uno dei posti più poveri della terra, uguali a quelli dell’Africa dove i ragazzini conoscevano negli anni Ottanta solo l’immagine del Papa polacco e di Maradona. Ho conosciuto il suo compagno di squadra Fernando. Oggi fa ancora il cartoleros ma a chi va a Fiorito mostra le foto sgualcite di una squadra di ragazzi e di lui abbracciato a Diego. A Fiorito accanto ai murales di Diego c’era quello che ricorda otto ragazzini del barrio uccisi a freddo dalla polizia. Walter, Matias, Hugo, Carlos, Micheal, Leo, Chaco erano ben orgogliosi di essere cresciuti nello stesso barrio dove si era forgiato il talento del più grande calciatore di tutti i tempi. Maradona ha sempre avuto la consapevolezza di provenire da un rione povero. Essere poveri suppone un più immediato possesso della realtà, un immergersi nell’originario gusto aspro delle cose, una conoscenza che sembra mancare ai ricchi. I fatti della sua vita, pur essendo infiniti e incalcolabili, sono in apparenza facili da elencare. La mano de Dios che si vendica delle Malvinas, lo scudetto e l’arrivo a Napoli, la partita di beneficenza nel fango di Acerra, campione del Mondo, il genio assoluto e la sregolatezza massima. Ma nel mio ricordo una successione cronologica non si può applicare a Maradona. Catalogarlo, seguire l’ordine dei suoi giorni mi sembra impossibile. Meglio andare alla ricerca della sua eternità, del suo ripetersi. Solo una descrizione senza tempo può restituircelo. Denigrava i potenti del calcio e della politica ignorando il dubbio. Dicono somigliasse ad un personaggio delle cronache scritte da Hormiga Negra quello che dice: “Son del Basso e non mi abbasso!”. Nel talento di Diego c’erano le pugnalate nelle balere e agli angoli di strada, le storie di fuoco che fanno ricadere la gloria su chi le racconta. Il suo calcio evocava i cortili del vicinato, i balli, le veglie funebri, i guappi napoletani e argentini, i luoghi di perdizione, la loro carne da galera e da ospedale. Noi, appassionati di calcio di tutto il mondo, lo abbiamo sempre guardato affascinati, come se ci raccontasse le favole di un paese lontano. Lui si sapeva fragile e mortale, ma i muri della Boca e del San Paolo erano lì a sostenerne la resistenza. Le sfocate immagini di campagne, cavalli, tanghi, barras bravas, Che Guevara che costituiscono la sfondo memoriale degli argentini non potevano mancare in Maradona. Il fatto di essere trovato a viversi in certi posti, la ricerca dell’avventura e del successo, alla fine la tenerezza maledetta formano le immagini che perpetueranno la sua memoria. Io spero che Maradona, morto nello stesso giorno di George Best, l’abbia intesa così, con allegria e rassegnazione, in una delle sue ultime notti vagabonde. Io immagino che il miglior calciatore di tutti i tempi sia permeabile alla morte, che la sua imminenza lo consegni alle luci eterne, alle tensioni miracolose e ai buoni presentimenti. A Diego El mas grande.

Pasquale Tina per "il Messaggero" il 24 novembre 2021. Un anno con Diego. Perché da quel maledetto' 25 novembre Napoli ha reso immortale il suo legame con Maradona. Ma non solo qui. A Buenos Aires organizzano pacchetti viaggio dedicati al suo culto. La facciata dello stadio dell'Argentinos Juniors, da un mese, è un enorme ritratto del Diez, da quando ragazzino palleggiava a Villa Fiorito, alle ultime immagini, un Vía Crucis maradoniano l'ha definito La Nacion. Certo, poi vedi Napoli e trovi Diego. Ovunque. Nei discorsi della gente, nelle maglie numero 10 indossate dai ragazzini che giocano a calcio e sulla facciata dei palazzi. I murales sono diventati un tributo alla passione infinita per il capitano dei due scudetti e della Coppa Uefa. Il più famoso è ai Quartieri Spagnoli: c'è una cappella votiva per il culto (laico) del più grande calciatore di tutti i tempi. Il pellegrinaggio è stato costante in questo periodo: tanta gente comune, molti turisti e personalità del calcio. Diego è anche a San Giovanni a Teduccio, quartiere di grande passione calcistica, con la firma di Jorit, a Miano (è stato l'ultimo maxi murale ad essere inaugurato), a Quarto e a Frattamaggiore. Città e provincia nel segno di un amore smisurato. Il 30 ottobre, la sua data di nascita, si è trasformata in un Natale calcistico. E' stato ricordato un po' ovunque: i tifosi hanno illuminato con i fumogeni le sue gigantografie sparse per la città e poi si sono dati appuntamento allo stadio che adesso porta il suo nome per un minuto di raccoglimento. Le scene si ripeteranno domani e parteciperanno pure circa 200 appassionati provenienti dall'Argentina. La torcida del Boca Juniors ha organizzato, in collaborazione con l'Ambasciata, un vero e proprio pellegrinaggio per onorare Diego nella città che l'ha amato forse più di Buenos Aires. L'arrivo è previsto per oggi e c'è un itinerario davvero molto preciso: si comincia proprio da San Giovanni a Teduccio, poi i Quartieri Spagnoli e la stazione della Cumana nel quartiere Fuorigrotta (quello dello stadio) dedicata proprio al Diez. E' prevista pure la visita ad una delle tante mostre a tema Maradona: una è in programma a Pollena Trocchia, nel Vesuviano, l'altra a Carinaro, in provincia di Caserta, organizzata da Vega Food con l'esposizione di tantissimi cimeli del Cammarota Antonio Museum che possiede la camiseta' indossata da Diego nelle giovanili dell'Argentinos Juniors (le famose cebollitas), la prima squadra dell'ex Pibe de Oro, cui ovviamente è stato dedicato lo stadio proprio come accaduto a Napoli. E' terminata pure la polemica delle due statue realizzate per Maradona. Ci sarà spazio per entrambe. La prima sarà inaugurata domani alle 13.30 dal Comune. Sarà piazzata nel piazzale antistante all'ingresso dei Distinti ed è stata donata dall'artista Domenico Sepe. L'altra sarà svelata domenica prima del match contro la Lazio: è stata commissionata da Stefano Ceci, amico e manager di Maradona.  Il piede sinistro e la mano de Dios sono proprio quelli di Maradona, realizzati con un calco nel 2018 e riproposti con una stampa tridimensionale successivamente: «L'idea spiega Ceci è del 2017 e per questo motivo ho deciso di mantenere la promessa fatta al mio amico». E da oggi è in sala E' stata la mano di Dio', l'ultimo capolavoro di Paolo Sorrentino che per Maradona ha una vera e propria venerazione. Perché Diego a Napoli è ovunque. E lo sarà per sempre.

Giulia Zonca per "la Stampa" il 25 novembre 2021. Quando Maradona ancora aveva un cuore leggero da portarsi a spasso saltava sul palco piazzato dentro al campo dello stadio Amalfitani. El Fortin, casa del Velez Sarsfield, profanata tante volte dal giovane strabordante Diego che la notte dell'8 marzo 1981 faceva oscillare la folla. Doveva ancora succedere tutto eppure il meglio era già lì da guardare, da ricordare e, come capita raramente, erano tutti attenti a custodire la memoria di ogni singolo istante. Forse per questo oggi, a un anno dalla morte del 10 più famoso al mondo, a 30 anni (e un giorno) dalla scomparsa del cantante più trascinante che si sia mai visto, la foto di loro insieme sbuca ovunque, si moltiplica, si impone. Come a fissare l'età dell'innocenza, ammesso che ce ne sia mai stata una. Quella ci andava di sicuro molto vicina: era l'Argenta ancora ubriaca dei Mondiali ospitati tre anni prima, non c'era più Videla ma c'era ancora la dittatura militare e quel concerto trasgressivo era un pezzo di libertà in un Paese imbavagliato. Tre date, tutte esaurite e l'ultima con la sorpresa più travolgente. Freddie Mercury dice: «Vi presento il vostro grande amico» e Maradona, ancora al Boca Juniors e subito idolo, viene accolto da un urlo infinito.  Agita il microfono nel saluto senza una singola parola di inglese, traduce pure il titolo del pezzo che deve lanciare, «Otro muerde el polvo» che sta per «Another one bite the dust». Mercury non è mai impazzito per il calcio ma è impazzito per Diego, lo ha visto un anno prima in un'amichevole persa dall'Argentina contro l'Inghilterra e lo ha riconosciuto. Talento evidente, come lui, carismatico, quanto lui, fragile e con il rischio di restare solo o di circondarsi di gente che ti sta intorno per le feste, per la cocaina, per le porte che si aprono. Ognuno ha declinato in modo molto diverso un vissuto comune. Quella notte Mercury si esibisce con la maglia dell'Argentina addosso, Maradona se ne infila una con la Union Jack quando è il momento di conoscere la band. Alla guerra delle Falkland manca un anno, alla mano di Dio altri quattro, ma è tutto lì. Steso su quel palco. Le bandiere, il fascino, le tensioni, i desideri, le promesse e le infinite possibilità. Il cuore batte di entusiasmo. Maradona un cuore non ce l'ha più e non solo perché è morto. È stato sepolto senza, glielo hanno tolto sul tavolo dell'autopsia, con i reni e il fegato. Prassi quando le cause del decesso sono incerte, così come è abitudine conservare gli organi per dieci anni in caso di inchieste. E il fascicolo è ancor aperto. Si sa che quel cuore malandato era pieno di cicatrici dovute a infarti pregressi, si sa che pesava 503 grammi, il doppio di uno sano. All'inizio era conservato nel dipartimento di anatomopatologia, sezione scientifica della polizia di Buenos Aires, però gli hinchas del Gimnasia, gli ultrà dell'ultimo club allenato da Maradona, hanno provato a sequestrarlo e così è finito in un luogo nascosto, sicuro. Chissà se in dieci anni di esami scopriranno che cosa era successo a quel cuore. A un certo punto, Maradona lo ha massacrato ed è diventato il personaggio controverso che è: il dio del pallone, il triste maschilista che si lascia dietro una sequenza di situazioni malate. Due giorni fa Mavys Alvarez, che ha incrociato Maradona a 16 anni, ha denunciato le violenze subite: drogata, spinta a rapporti sessuali in un'età in cui si dovrebbe scegliere solo che cosa mettersi. Bastava guardare le foto con la bambina bionda stretta all'uomo di grande fama e nessuna coscienza per sentirsi a disagio. Non sembrava la stessa persona salita sul palco dei Queen. Non era solo invecchiato, il cuore lo aveva già perso. Più passa il tempo e più Freddy Mercury diventa icona, più passa il tempo e più Maradona diventa uomo, ma quello scatto insieme, li lega in un momento che riesce a non passare mai.

Da ilnapolista.it il 24 novembre 2021. Il Messaggero intervista Ottavio Bianchi, l’allenatore del Napoli del primo scudetto. Il tema è Diego Armando Maradona.

«Gli dicevo: Diego adesso basta allenamento, vatti a fare la doccia, siamo qui da due ore. E lui niente. Dicevano che Diego si allenasse poco e male: frottole. Semmai il contrario. Non voleva uscire mai dal campo, si divertiva troppo. E pur di non tornare negli spogliatoi, si metteva in porta a parare. Anche se pioveva a dirotto e c’era tutto fango, anzi meglio, si tuffava con più gioia: me lo voglio ricordare così, allegro, che si rotola nelle pozzanghere mentre è quasi buio, e ride felice col sua palla, almeno lì lontano dalle pressioni mostruose che aveva. Il mio povero Diego».

Continua:

«Avevo un bel rapporto col suo preparatore Signorini, con lui provai a parlare a Diego, erano colloqui serrati, tentavo di dissuaderlo, di dirgli che se avesse percorso quella strada poi avrebbe avuto tanti problemi nella vita… Finché un giorno, senza guardarmi negli occhi e mangiandosi le unghie, mi disse a bassa voce: mister, lei ha ragione, ma io non posso che vivere così, devo avere sempre il piede sull’acceleratore. Mi sentii enormemente solo e sfiduciato, capii che non contavo più niente e sarei dovuto rimanere al Napoli ad assistere allo scempio, così decisi di andarmene. Da Napoli e da Diego». 

Le pressioni che Maradona era costretto a sostenere erano enormi.

«Maradona aveva pressioni insostenibili, pazzesche è dir poco, nemmeno una persona con una grande preparazione culturale le avrebbe sopportate. Ma ho avuto la fortuna di godermelo, e me lo ricordo così, nella sua genuinità. Con me e con i suoi compagni era un uomo eccezionale, spontaneo. Bastava dargli il giocattolo, la palla, e andava in estasi, era pura gioia. Non gli ho mai, dico mai, sentito rimproverare un compagno, nemmeno le riserve, mai ostentava la sua superiorità che era enorme. Era un genio e un uomo semplice. E si allenava da matti, perché più uno è un asso più lavora, come i grandi musicisti. Voi avete visto i suoi gol celebri, da metà campo o su punizione, di mano… ma non sapete che non erano gesti estemporanei, erano cose che noi vedevamo tutti i giorni, il colpo a effetto non era casuale ma frutto del lavoro. E ci trascinò a quelle vittorie indimenticabili, trovando anche una squadra disposta a seguirlo, con fame di vincere. E con un allenatore, io, che per 4 anni visse recluso e isolato in hotel, e mangiava in due ristoranti al massimo, spesso coi camerieri, per non essere influenzato dalle passioni della città. Andò bene, direi. Anche perché c’era il mio Diego».

Maradona accusato di violenza da Mavys Alvarez: “Mi ha stuprata quando avevo 16 anni”. Chiara Nava il 23/11/2021 su Notizie.it. Ad un anno di distanza dalla morte di Diego Armando Maradona arriva l'accusa di violenza da parte di Mavys Alvarez. A distanza di un anno dalla morte di Diego Armando Maradona arriva l’accusa di violenza sessuale da parte di Mavys Alvarez. Mentre prosegue l’inchiesta per fare chiarezza su quanto accaduto nei giorni precedenti al suo decesso, ci sono accuse molto infamanti nei confronti del Pibe de Oro. Mavys Alvarez, donna cubana di 37 anni, ha avuto una relazione con Diego Armando Maradona 20 anni fa. Ha testimoniato davanti ad un tribunale del ministero della Giustizia argentino che sta indagando sulle sue accuse di “traffico di esseri umani” contro l’ex entourage del campione, per eventi accaduti quando aveva 16 anni. La donna ha dichiarato che Maradona l’avrebbe violentata quando era adolescente “rubandole l’infanzia“. L’accusa riguarda un viaggio fatto con Maradona in Argentina nel 2001, quando il calciatore aveva 40 anni e lei ne aveva solo 16. Mavys Alvarez ha raccontato di aver incontrato Maradona poco prima del viaggio, quando era a Cuba per un trattamento per la tossicodipendenza. La donna ha raccontato quello che è accaduto nella clinica a L’Avana, con la madre che era nella stanza accanto. “Mi ha coperto la bocca, mi ha violentato. Non voglio pensarci troppo. Ho smesso di essere una ragazza, tutta la mia innocenza mi è stata rubata. Smetti di vivere le cose innocenti che una ragazza di quell’età dovrebbe sperimentare” ha dichiarato durante una conferenza stampa. La Alvarez aveva descritto inizialmente la relazione con Maradona come consensuale, ma ha poi dichiarato che il calciatore l’aveva violentata. La sua famiglia aveva dato il benestare al suo rapporto con Maradona, nonostante la grande differenza d’età, a causa dell’amicizia tra il campione e Fidel Castro. “La mia famiglia non l’avrebbe mai accettato se il governo cubano non fosse stato coinvolto. Sono stati costretti in un altro modo ad accettare una relazione che non andava bene per loro o per nessuno” ha dichiarato la donna, che ha spiegato di aver deciso di denunciare “per aiutare tutte le donne, tutte le vittime di tratta, di criminalità“. Per il momento non ci sono state dichiarazioni da parte della famiglia di Maradona o dei suoi legali. 

 Emiliano Guanella per "la Stampa" il 19 novembre 2021. Nel club dove è iniziato tutto, hanno preferito, ad un anno di distanza, ricordare la vita e non la morte di Diego Armando Maradona. Argentinos Juniors è stata la casa del Pelusa. Le due ore in autobus da Villa Fiorito fino al quartiere della Paternal erano piene di speranza all'andata e gonfie di gioia al ritorno. Le Cebollitas del mitico Francis Cornejo da queste parti nessuno le ha scordate. Javier Romisier di professione fa il medico di famiglia e da un anno e mezzo ha corso non poco nelle case della gente del quartiere alle prese con il Covid. Ogni minuto libero lo dedica all'Argentinos, di cui è lo storico ufficiale. Percorrere con lui il piccolo museo interno è come scorrere la prima meravigliosa parte della storia maradoniana. «Non direi che Diego è diventato calciatore da noi, perché lui è nato già con questo dono. Non gli si doveva insegnare niente, a nove anni la sua visione del gioco era oltre ogni limite. Francis ha avuto la capacità, questo sì, di inserirlo in una squadra che ha vinto di tutto». Lo stadio "Diego Armando Maradona", oggi, è una galleria a cielo aperto, gli Uffizi della vita del Diez. Le pareti esterne sono piene di faccioni del Diego, un piccolo ripostiglio è diventato il santuario dove ogni giorno vengono in molti a lasciare un ricordo, una maglietta, anche a pregare per lui. Lo hanno trasformato in luogo del culto profano tre giorni dopo la sua morte, quasi per caso. «C'erano tantissime cose appoggiate ai portoni di ingresso. Era previsto un forte temporale, abbiamo messo tutto in questa stanza che dava sulla strada. In due giorni, grazie a tre muratori volontari del quartiere, abbiamo costruito la "chiesa"». Tutta la Paternal, del resto respira Diego. I vicini hanno dipinto le pareti delle loro case, appena finito il lockdown, che a Buenos Aires è durato quasi sei mesi, sono arrivati i tour organizzati, all'inizio con turisti argentini, adesso con i primi stranieri. La Società ha deciso di non organizzare nulla per l'anniversario della morte, il 25 novembre, ma si prevede che ci sarà moltissima gente. Il 30 ottobre, che sarebbe stato il compleanno numero 61, è stata organizzata una partita tra vecchie glorie del club e gli ex campioni del 1986. Subito dopo è stata proiettata la prima puntata della serie maradoniana di Amazon, pensata e prodotta quando Diego era ancora vivo. Sono quattro gli attori che lo interpretano, dagli esordi fino alla quasi morte di Punta del Este, il primo grande pericolo scampato. Juan Palomino, un passato da star delle telenovelas argentine, interpreta il Diego in fin di vita in Uruguay. Grasso, in balia della droga, perso disperatamente nel labirinto delle sue contraddizioni. Ha dovuto prendere 20 chili per avvicinarsi al personaggio, oggi conserva il look con barba e pizzetto grigio dei mondiali in Sudafrica, che farà parte della seconda stagione. La somiglianza è stupefacente, Palomino arriva all'intervista con occhiali scuri e cappellino: non si sa mai che qualcuno pensi al miracolo di una reincarnazione e svenga per strada. «Diego è stato enorme in quello che ha saputo conquistare, ma ci ha mostrato i suoi lati più oscuri. Era gloria, ma anche rovinose cadute. La cosa positiva di questo lavoro è che lo abbiamo mostrato nel contesto storico in cui ha vissuto e di cui lui, in fondo è stato uno dei protagonisti. Il gol agli inglesi dopo la guerra alle Malvinas, il peronismo con tutte le sue contraddizioni, gli scontri con il potere del calcio, ad iniziare dalla Fifa. Era un ribelle per antonomasia ed un controsenso in essere; l'uomo più famoso del mondo, ma che per molto tempo è stato tremendamente solo». Maradona come metafora dell'Argentina o forse il contrario, fatto sta che è impossibile non parlare di lui, soprattutto adesso che non c'è più. «In America - spiega Ezequiel Fernandez Moores - si parla ancora di Mohammed Ali perché è un modo per parlare dei grandi problemi irrisolti del Paese». Gli anniversari sono le occasioni ideali per nuovi libri, biografie, film. Con Diego tutto è ancora più forte. «La sua morte ci ha sconvolti ma non sorpresi. Che Maradona si stesse autodistruggendo da almeno venti anni lo sapevano tutti, oggi quel vuoto è riempito da nuove suggestioni che sembrano infinite, perché la sua vita è piena di angoli ancora da esplorare». Le strade di Buenos Aires in primavera sono fantastiche, alla bellezza dei jacaranda in fiore oggi si aggiungono ovunque i ritratti maradoniani. E come sempre, tutto è trasversale; dai quartieri ricchi della zona Nord, che si affacciano sulla parte più bella del Rio della Plata, alle villas miserias nel putrido Riachuelo, un gigantesco altare votivo a lui dedicato. Diego sorridente o arrabbiato, con la maglia del Boca o del Napoli, con la coppa alzata al cielo dell'Atzeca o il gessato da tecnico della seleccion. Tanti 10, tanti D10S, tanti 1960 che si proiettano all'infinito, là dove gli idoli non muoiono mai. Victor Hugo Morales ricorda come fosse ieri il «barrilete cosmico» e il gol di mano agli inglesi; non ha mai smesso di ringraziare Diego per quello che è stato l'apice della sua carriera. Con Maradona ha condotto un programma per l'emittente chavista Telesur, pochissimo budget ma invitati di lusso. «Ai calciatori, anche quelli più celebri, bastava sapere che c'era lui e venivano di corsa in studio. Era molto facile lavorarci insieme. A Diego si poteva chiedere di tutto e lui amava disquisire su qualsiasi cosa, i giornalisti ne approfittavano perché sapevano che la polemica era servita. Io, invece, lo facevo parlare solo di calcio, cosciente che non c'era niente al mondo che gli piacesse quanto il pallone». Morales, come molti a Buenos Aires, sente che un pezzo di lui se ne è andato. «Ho 73 anni e ho sempre avuto una salute di ferro, mai un problema serio. Negli ultimi mesi mi hanno messo uno stent, sento peggio di prima, mi dà fastidio la luce. Sicuramente è l'età, ma a volte credo che è perché lui non c'è più». Non è l'unico a pensare che le cose, forse, non succedono per caso. Maradona è morto nell'anno horribilis della pandemia: è dopo la sua scomparsa che l'Argentina è riuscita a vincere di nuovo qualcosa. La Coppa America conquistata a luglio nel Maracana contro il Brasile non solo ha messo fine ad un digiuno di titoli di 27 anni, ma ha anche segnato il primo trionfo biancoceleste dell'erede designato, Lionel Messi. L'espressione che si usa in Argentina è togliersi la "mochila", uno zaino pesante come piombo per uno dei Paesi più calciofili al mondo. La giornalista Veronica Brunati ha accompagnato Messi fin dalla Masia ed è stata testimone di diversi incontri fra i due. «Come tutte le relazioni maradoniane - spiega- è una storia non lineare. All'inizio c'è stato un grande affetto, Diego ha capito fin da subito il valore di Lionel e lo ha appoggiato moltissimo, quasi fosse un padre. Poi, quando Messi ha raggiunto l'apice, qualcosa è cambiato; forse un po' di gelosia, qualche commento fuori luogo, ma non c'è mai stata una rottura. Noi tutti, Lionel compreso, sappiamo che Diego è irraggiungibile, soprattutto per gli argentini. Rappresenta tutto quello che siamo, il genio e l'irriverenza, il senso di rivincita, ma anche la superbia, che tanto ci allontana dai nostri cugini sudamericani. Lionel, invece, è sempre stato visto come il prodotto perfetto di un grande club europeo. Un grande campione argentino, certo, ma molto distante dall'immaginario collettivo con cui ci identifichiamo». Sorprenderà, forse, ma nei mille club di barrios argentini, dove il calcio è un momento centrale nella vita di quartiere, il fascino di Maradona non è mai tramontato. I ragazzi hanno vestito la maglia di Batistuta, Riquelme o di Tevez, oggi vestono quella di Messi, Cristiano Ronaldo o Dybala, ma quando si chiede chi è il "más grande" la risposta è una sola. Al «Defensores de Olivos», dove i più piccoli hanno sei anni, il credo maradoniano è rimasto intatto da tre generazioni. «Noi - spiega il coordinatore Leo Chichou - ci svegliavamo alle sette la domenica per vedere il Napoli, i nostri figli o i nipoti lo rivedono su YouTube. Una delle poche certezze che abbiamo qui in Argentina è che non ci sarà mai uno migliore di lui».

Diego Maradona Jr: “Quest’anno senza papà è stato terribile, non sono riuscito a salutarlo”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 19 Novembre 2021. Diego Armando Maradona Jr il figlio di: inevitabilmente, e per tutta una vita così, per gli altri soprattutto. Che della vita del padre, il Pibe de Oro, ha preso e subito lo slancio, il rinculo, le derapate di una vida tombola, straordinaria e spericolata, l’esistenza sulle montagne russe del più grande calciatore di tutti i tempi, un uomo nato povero e ricco di un talento sproporzionato per un essere umano solo. Quel peso – quello di essere il figlio di una leggenda, un nome diventato lemma e sinonimo, icona pop e bandiera dei Sud del mondo applicata al pallone – lo ha portato e lo porta anche lui addosso, almeno in parte: lo porta da quel servizio al telegiornale con la madre Cristiana Sinagra che lo presentava al mondo dal letto in una stanza di un ospedale di Napoli come “il figlio di Diego Armando Maradona”. Era il settembre del 1986: el Pibe de Oro era appena diventato campione del mondo con l’Argentina quando nasceva il suo primo figlio. Prima dei successi con il Napoli, prima ancora del riconoscimento arrivato nel 2007, molto tempo prima della tragica morte un anno fa: quel 25 novembre 2020 che ha sconvolto Napoli e paralizzato l’Argentina e riempito le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Chissà quante volte Diego Jr non si sarà sentito libero di essere scontroso, con la luna storta, non sempre disponibile per tutti i curiosi e per tutti gli invadenti altrimenti: quello è un montato, chi si crede di essere, se la tira solo perché è il figlio di. E per gli stessi sarà stato sempre per quello che ha giocato nelle giovanili del Napoli, che ha partecipato al reality Campioni, al Ballando con le Stelle argentino e che oggi allena perfino. Chissà quante ragazze si saranno avvicinate. Quizás. Maradona Jr tiene ben presente che per molti, forse quasi tutti, sarà sempre il figlio di: è comunque pienamente cosciente di chi è lui, da dove viene, quello che vuole fare, le persone che contano intorno e lontano.

Da quest’anno allena il Napoli United, ex Afro Napoli, la squadra che nei fine settimana incendia il Vallefuoco di Mugnano. Domani arriva la Puteolana, prima della classe a 5 punti di distanza. L’obiettivo resta quello di vincere il girone B, Eccellenza. Dicono che a centinaia vorrebbero arrivare in Italia, allo United, dall’Argentina per farsi allenare da lui: sempre per lo stesso motivo, un nome marchiato a fuoco. Diego Jr, 35 anni e due figli, Diego Matias e India Nicole avuti con la moglie Nunzia Pennino, commenta lo sport per Radio Crc e allena, allena con le sue idee chiare: un calcio pulito e moderno, a uscire da dietro palla a terra, buttarla mai, 4 3 1 2 con il trequartista, il numero 10: non poteva essere altrimenti.

Giovedì 25 novembre sarà un anno dalla morte di suo padre.

È stato un anno molto difficile. Stavo male, avevo il covid ed ero ricoverato all’Ospedale Cotugno. Non sono potuto essere lì. Non potemmo andare neanche al compleanno dei 60 anni (il 30 ottobre, ndr). E dopo due giorni risultammo positivi al covid tutti: io, mia moglie e i bambini. Parlai con lui il giorno dopo l’operazione che fece al cervello a inizio novembre, in videochiamata. Stava bene, fece un paio di battute, ma poi io mi sono aggravato e non l’ho più sentito. E non sono ancora riuscito ad andare in Argentina.

Come aveva vissuto suo padre la pandemia?

Era stata durissima per lui. Aveva paura, per via della sua storia clinica, e perché a lui le cose che non gli lasciavano libertà lo destabilizzavano: doveva fare le cose che diceva lui e basta.

Qual è il primo ricordo che ha di suo padre?

Non ricordo un momento in particolare. Mia madre mi ha sempre raccontato la verità, è stato tutto molto naturale. Ricordo bene i mondiali del 1994 negli USA: la squalifica per l’efedrina, un’infamità. Ci rimasi malissimo. Fu atroce. Ho avuto comunque un’infanzia felice. La famiglia di mia madre è stata meravigliosa. Mio nonno è speciale: lui mi ha cresciuto, mi portava all’Edenlandia, allo Zoo, allo stadio. È stato mio padre, in sostanza, senza nulla togliere al mio vero padre. L’adolescenza è stata un po’ più difficile, perché le sofferenze sono amplificate e perché è un momento in cui ti stai costruendo come persona, ma tutto sommato è andata bene.

Com’è stato crescere a Napoli?

La cosa migliore che mi potesse succedere nella vita. Sento un grande senso di appartenenza alla città e credo che i suoi pregi superino di gran lunga i suoi difetti.

E com’è stato crescere come il “figlio di Maradona”?

Per la gente posso essere il “figlio di” ma io sono sempre stato Diego. Quando mi rendo conto che una persona si avvicina solo perché sono “il figlio di” lo allontano automaticamente. Ma non perché non lo sono: lo sono con orgoglio, però le persone ti devono apprezzare per quello che sei.

La prima volta che ha incontrato suo padre è stato a Fiuggi: su un campo di golf dove è riuscito a entrare con uno stratagemma.

Fu gentile. Mi disse delle belle cose ma non ci fu un seguito. Lui in quel momento non era pronto, non stava bene, per la droga. La seconda volta invece, quando ci siamo visti in Argentina, ho trovato un uomo diverso, un uomo cambiato che già non faceva più uso di stupefacenti. La maggior parte della giornata lucido.

“Eri l’idolo di mio figlio”, gli disse un poliziotto quando lo arrestarono in Argentina nel 1991. “Coglione, l’idolo di tuo figlio dovevi essere tu”, rispose Maradona.

È il mio idolo calcistico, come di tutti noi napoletani e di tutti gli amanti del calcio. Poi qualche volta è partito anche a me il cervello per tutta la situazione. Ma sono sempre stato consapevole che se l’avessi cercato l’avrei trovato, prima o poi, e che l’avrei dovuto perdonare, altrimenti non aveva senso.

Cosa facevate insieme?

Guardavamo tanto calcio. A dispetto di quello che dicono gli piaceva stare in casa, anche perché non aveva tanta scelta: quando usciva lo assediavano. Non poteva scendere a bere un caffè o a comprare un giornale. Non era una persona qualunque, era l’”eletto” e quella celebrità è stata il prezzo che ha dovuto pagare. Insieme guardavamo calcio, bevevamo mate. Sono stato bene con papà.

I suoi figli l’hanno conosciuto?

Diego Matias se lo ricorda, è stato battezzato da papà che invece non ha visto India, per la pandemia. Diego quando vede per strada una macchina con l’adesivo indica il nonno: “Papà, c’è il nonno!”, dice. E lo associa sempre al calcio naturalmente. Ma spero che non giochi a calcio: una parte dentro di me lo desidera perché ogni padre spera di condividere una passione con i figli. Dall’altra parte però questo non è più lo sport che amavo io quando ero bambino: gli osservatori guardano più quanto sei strutturato fisicamente e non se sai giocare a calcio; i genitori spesso sono insopportabili. E spero che mio figlio non debba sentirsi tutte le cattiverie che mi sono sorbito io. Mio nonno veniva a vedere le partite e non ha mai detto una parola, con tutta la merda che mi hanno buttato addosso negli anni. Si arrabbia più adesso che ha 80 anni e faccio l’allenatore.

Ha imparato a sopportare le cattiverie che le hanno detto?

Quelle non finiscono mai, e non solo per me. Poi un raccomandato non credo che se ne stia sei anni senza allenare, con il patentino, e che riparta dall’Eccellenza. Mi ci sono abituato alle cattiverie.

Com’è stato giocare nelle giovanili del Napoli?

Ho capito quanto ci schifa tutta l’Italia, da Nord al Sud. Ovunque andavamo erano sputi e ombrellate. Però è stato bellissimo vestire la maglia del Napoli, meraviglioso, forse gli anni più belli della mia vita. Sbaglia chi dice che la maglia del Napoli ce l’ha cucita addosso: per me è cucita dentro, è una specie di anima.

Qual è il suo rapporto con la società, la SSC Napoli?

Un buon rapporto ma niente di particolare. Voglio un gran bene a Edo (Edoardo de Laurentiis, figlio del Presidente Aurelio de Laurentiis e vicepresidente, ndr), un ragazzo per bene. Gli faccio vincere le partitelle di calcetto il mercoledì.

La maglia omaggio del Napoli, con il volto di suo padre, è stata realizzata in virtù di un contratto con il manager Stefano Ceci: “Diego Maradona mi ha conferito una licenza per 15 anni più altri 10 post mortem – ha detto a Canale 21 – e il 50% di questi diritti andrà agli eredi. Il Napoli ha pagato per la maglia omaggio”. 

Non ho querelato il Napoli, e non tutti l’hanno capito. Noi successori abbiamo una causa contro Stefano Ceci: per noi questo contratto non c’è più. Non so per quale motivo il Napoli abbia dato retta a questa persona. Si sono mossi male. Su due aspetti soprattutto.

Quali?  

Hanno fatto una maglia con la faccia di nostro padre e non ne hanno mandata neanche una né a me né alle mie sorelle. E non siamo stati coinvolti in nulla: non stiamo presi in considerazione nemmeno per un parere. E poi la maglia omaggio si gioca e si conserva: queste maglie sono state vendute, quindi non è un omaggio. Per una maglia omaggio non c’è bisogno di un contratto. Se mi prendono in giro mi dà fastidio, anche perché quello sulla maglia è mio padre. Detto ciò, se nel caso un giorno gli altri successori dovessero scegliere di agire contro il Napoli io rinuncio al mio compenso: il Napoli deve comprare i giocatori non deve mica deve dare i soldi a me.

Stefano Ceci ha invitato tutti gli eredi alla partita con la Lazio, il 28 novembre, allo Stadio Maradona per l’inaugurazione della statua che ha fatto realizzare in onore di suo padre.

Con le magliette si è dimenticato e con la statua si è ricordato? E ci mancherebbe. Comunque non ci andrò, ovviamente.

Sulla morte di suo padre è in corso un’inchiesta in Argentina. 

Ho un’idea, ed è anche un’idea abbastanza strutturata, su quello che è successo. C’è un’inchiesta e non ne posso parlare. In Argentina tra l’altro stanno lavorando molto bene. Noi naturalmente siamo parte lesa. Fosse l’ultima cosa che farò nella vita, devo sapere quello che è successo

Com’è il rapporto con le sue sorelle, gli altri successori?

Ho un buonissimo rapporto con Jana, la vedo frequentemente. Con Gianina e Dalma ogni tanto parliamo, è un rapporto normale, umano. Dalma non l’ho mai vista.

Domani il big match con la Puteolana. Come sta andando la sua prima esperienza sulla panchina di una prima squadra?

La Puteolana è una squadra forte, che ha ambizioni di alta classifica e vuole vincere il campionato. Per noi sarà un bel banco di prova perché veniamo da una brutta sconfitta. A me piacciono queste partite, mi motivano. Ho sempre pensato, anche quando giocavo, che un giorno mi sarebbe toccato questo ruolo. Lo vivo forse con troppa ansia. Il giorno è di 24 ore e io ci penso 26 ore. Quest’anno ho un bel gruppo, un allenatore senza i ragazzi è ben poco.

Cos’è per lei il calcio?

La mia più grande passione, la mia quotidianità. La prima cosa che penso quando mi alzo e l’ultima prima di andare a dormire, appena dopo la mia famiglia. E nessuno me l’ha inculcata questa passione. Anche da piccolo il mio giocattolo preferito è sempre stato il pallone.

Dove vuole arrivare?

Sono appena alla mia prima esperienza, ci vuole tempo. Ma il mio sogno è lo stesso sogno di quando ero bambino, quando sognavo di giocare con la maglia del Napoli allo Stadio San Paolo.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Maurizio De Giovanni per “La Stampa” il 25 novembre 2021. Il cuore enorme. Ovunque tu sia, starai sorridendo. Di quel tuo sorriso che coinvolgeva tutta la faccia, e gli occhi da bambino rotondi di meraviglia e allegria; venati da quel velo di malinconia di chi ha conosciuto la miseria, quella vera, e mai l’ha dimenticata. Sorridi di certo, perché starai pensando a quanto ancora si parli di te, e a quanto si sia restii quaggiù a lasciarti in pace. Penserai di essere in quel ristretto novero di personaggi di cui la morte è talmente inaccettabile che si prova ad alzare veli che non esistono, per essere voyeurs fino alla fine e oltre, per scavare all’interno degli eventi alla ricerca di misteri e dolori che non hanno riguardato che te, come Elvis e come Marilyn, come JFK e come Michael Jackson, perché a fornire macabri dettagli e pretesi scandali funebri si trova sempre qualcuno interessato. Aspettiamo un articolo o una foto sfocata sulla base dei quali si dirà che non sei morto, in realtà, che è tutta una montatura per vedere che combinano gli eredi o per non pagare le tasse, e scappare in un paradiso tropicale con sigaro e tequila. E adesso, il cuore. Avevamo accettato l’idea dell’autopsia, anche se non ci piaceva immaginare il tuo corpo, che tanta gioia sfrenata aveva regalato a milioni di appassionati, oggetto di una dissezione anatomica. Avevamo saputo che avevi smesso di respirare così prima del tempo, che non avremmo più potuto immaginare e desiderare di rivederti, piccolo e gigantesco com’eri, magari sulla tribuna di quello stadio che giustamente si chiama come te, perché è stata casa tua e lo rimarrà per sempre. Avevamo saputo quello che c’era da sapere, e il dolore era stato immenso, come quando ti dicono che un fratello, un amico, qualcuno dei pochi che ti toglie l’amarezza della vita di dosso al solo pensiero, se n’è andato per sempre. E adesso il cuore. Ci arriva la notizia, perfidamente, inutilmente, dannosamente diffusa che nella cassa dove dormi non c’è il tuo cuore. Che quello è stato, per dir così, trattenuto altrove per delle ricerche, che probabilmente può ancora fornire elementi che chiariscano le modalità della tua morte. E, tra le pieghe di questa informazione triste, ci dicono anche che il tuo cuore pesava trecento grammi in più di un cuore normale. Starai sorridendo, scuotendo un po’ il testone magicamente tornato, lassù, pieno di una selva di riccioli neri, perché le anime hanno l’età che si meritano e la tua sarà per sempre quella dell’angelo che eri anche da questa parte. Be’?, chiederai. Non lo sapevate che il mio cuore era enorme? Non eravate al corrente del fatto che era pieno di bambini, di palloni che rotolavano, di sorrisi e di urla di gioia? È davvero una notizia, per voi, che il mio cuore conteneva quell’oceano che separa le mie due case nel sud del mondo, quella del mio barrio miserabile e innocente e quella immersa nell’azzurro sotto la montagna piena di fuoco? È una sorpresa scoprire che il mio cuore era gigantesco, perché stracolmo del coraggio di guardare il potere in faccia e dirgli con chiarezza quello che pensavo, di chiamare corrotti i corrotti senza la paura di uno dei mille agguati con cui mi hanno ricompensato? Immaginavate davvero che avessi un cuore normale, io che ho vinto dove non ha vinto nessuno e che ho pagato ogni colpa al doppio del prezzo che a volte, e non sempre, pagano quelli che hanno il cuore del giusto peso? Giocate pure con quel pezzo di carne, dirai da lassù sorridendo. Perché il mio cuore, quello vero, l’ho lasciato in eredità a tutti i bambini che nei cortili volano a braccia alzate verso una curva immaginaria. E loro, credete a me, se lo terranno stretto. Grande com’è. 

Da ilnapolista.it il 22 novembre 2021. “C’era un piano, una cospirazione, poi sventato, per rubare il cuore di Maradona”. A quasi un anno dalla morte di Diego Armando Maradona, il medico e giornalista Nelson Castro ha pubblicato un libro intitolato "La salute di Diego: la vera storia" in cui svela i dettagli medici della sua morte e non solo. Castro ha avuto accesso a file secretati, ha intervistato testimoni che fino ad ora non avevano parlato e ha fatto uso di documenti inediti. Mancanza di controllo nel mangiare, routine disastrose, dipendenze da tutto e 25 ore senza alzarsi”, di tutto questo parla nel libro. Il medico ha spiegato che con una condizione medica simile “altri sarebbero morti molto tempo prima” e che Maradona “purtroppo, aveva una componente di dipendenza da tutto ciò che era distruttivo per lui. Maradona era dipendente da tutto. Aveva un corpo privilegiato in termini di resistenza, con quella cardiopatia dilatativa altre persone sarebbero morte molto prima. Il problema è che non ha mai voluto recuperare”. 

Si dice in giro che Maradona sia stato seppellito senza cuore… 

“C’era un gruppo che progettava di irrompere e trafugare il cuore di Diego. Il piano non è andato a buon fine. Il suo cuore è stato estratto per studiarlo perché era importante nel determinare la causa della morte. Poi è passata l’informazione che è sepolto senza cuore”. Durante il suo colloquio con Juana Viale a ‘El Trece’, il dottor Nelson Castro ha spiegato che “il cuore di Maradona pesava mezzo chilo, era un cuore molto grande. Di solito pesa 300 grammi, ma il suo era più grande non solo perché era un atleta ma per l’insufficienza cardiaca che aveva”.

"C'era un piano degli ultras per rubare l'organo". “Maradona è stato seppellito senza il cuore”, la rivelazione sconvolgente dall’Argentina. Antonio Lamorte su Il Riformista il 22 Novembre 2021. Diego Armando Maradona è stato seppellito senza il cuore. È la rivelazione grottesca e sconvolgente che ha rilasciato Nelson Castro, giornalista e medico argentino, che ha raccontato la storia del Pibe de Oro nel suo libro La Salute di Diego. Castro avrebbe avuto accesso a importanti informazioni mediche e riservate sul campione, ex calciatore e allenatore di calcio, morto all’improvviso e tragicamente a 60 anni il 25 novembre del 2020. “Aveva un corpo privilegiato in termini di resistenza, altre persone sarebbero morte prima. Il suo cuore – ha raccontato il medico giornalista alla trasmissione tv La Mesa de Juana Viale – è stato estratto per studiarlo perché era molto importante nel determinare la causa della morte. Ovviamente ora Diego è sepolto senza cuore”. Maradona è sepolto accanto ai genitori nel cimitero Jardin Bella Vista di Buenos Aires. Il suo feretro era stato esposto in una camera ardente allestita all’interno della Casa Rosada, il Palazzo Presidenziale, a Buenos Airs, salutato da migliaia di persone in fila per l’ultimo commiato allo sportivo celebrato come un eroe nazionale. Il mese scorso l’ex avvocato di Diego Armando Maradona, Matias Morla, aveva raccontato che “le cure mediche che Maradona ha ricevuto sono state pessime, ecco perché è morto. Ci sono stati troppi errori, è per questo che Diego è morto, si è gonfiato e gonfiato, poverino, fino a quando il suo cuore è esploso”. Secondo Castro Maradona, al momento della morte, aveva un cuore “dilatato” che “pesava mezzo chilo quando normalmente pesa 300 grammi. La sua patologia cardiaca era stata diagnosticata nel 2000 a Punta del Este, quando di sentì male”, e quando venne salvato dal dottor Jorge Romero. L’organo era così grande “per vari motivi, per esempio a causa del suo scompenso cardiaco e a causa della malattia cardiaca che aveva”. Le rivelazioni del giornalista e medico argentino, autore del libro in promozione, sono al momento difficili da verificare. Non esistono altre dichiarazioni e conferme sul dettaglio al momento. Per Castro il cuore sarebbe stato espiantato in quanto sarebbero in corso studi all’interno dell’indagine. Dettaglio ancora più grottesco: Castro sostiene che ci sarebbe stato un piano messo a punto da un gruppo di ultras del Gimnasia y Esgrima La Plata, l’ultimo club che El Pibe de Oro aveva allenato, di rubare il cuore. Una missione fallita dalla “barra brava”, il gruppo organizzato della tifoseria. Per Castro Maradona “era affetto da molte patologie, la più importante erano le dipendenze. Da tutto. Anche dal sesso. Era di una voracità sessuale impressionante”. Le persone imputate per il presunto omicidio volontario (le pene previste vanno da 8 a 25 anni di carcere) sono sette operatori sanitari: gli infermieri Ricardo Omar Almirón e Dahiana Gisela Madrid, il loro coordinatore Mariano Perroni, il medico che ha coordinato il ricovero domiciliare dell’ex calciatore Nancy Forlini, lo psicologo Carlos Ángel Díaz, la psichiatra Agustina Cosachov e il neurochirurgo Leopoldo Luque, designato come medico di base di Diego. Maradona è morto per “edema polmonare acuto secondario a insufficienza cardiaca cronica esacerbata”. Agli inizi di novembre 2020 era stato sottoposto a una delicata operazione al cervello per la rimozione di un ematoma subudurale di origine traumatica.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Salvatore Riggio per corriere.it il 3 novembre 2021. Dall’Argentina arrivano novità importanti sull’eredità di Diego Armando Maradona. I beni del Pibe de Oro andranno all’asta il 19 dicembre e il ricavato andrà ai cinque figli: Diego junior, Dalma e Giannina, Jana e Dieguito Fernando. Tutto questo al netto dei debiti lasciati dal fuoriclasse argentino e in attesa delle istruttorie per il riconoscimento della paternità di altri tre figli. Questo è quanto ha deciso il giudice Susana Tedesco, che ha dato il via libera alla richiesta degli eredi, a quasi un anno dalla scomparsa di Maradona, avvenuta il 25 novembre in un appartamento a Tigre. Così se da una parte procede il lavoro della magistratura per chiarire i lati oscuri della morte del fuoriclasse argentino, dall’altra il Tribunale sta cercando di mettere d’accordo gli eredi, che potranno così usufruire dei soldi ricavati dalla vendita di due Bmw (una ha la firma dell’ex giocatore del Napoli incisa sul parabrezza e ha un prezzo di partenza di 142 mila euro), la lettera di Fidel Castro con il quale Diego aveva un forte legame d’amicizia, nata mentre si trovava a Cuba per superare le sue dipendenze, la casa che il Pibe de Oro ha regalato ai propri genitori (780 mila euro), pacchetti azionari, un appartamento a Mar de Plata (57 mila euro) e altri oggetti personali (quadri, tapis roulant, maglie, scarpette, una chitarra, cravatte, bretelle e cappellini). Naturalmente, da questa vendita sono esclusi i beni con valore affettivo, come le casacche donate da altri giocatori ai funerali di Diego. Come funzionerà l’asta? Sarà organizzata da Adrian Mercado, agenzia della capitale argentina e sarà internazionale e via streaming. Si possono presentare offerte fino al 15 novembre. Per accertare il reale patrimonio di Maradona c’è voluta la collaborazione di governi stranieri, come Venezuela e Cuba, luoghi nei quali l’ex fuoriclasse di Maradona possedeva beni immobili, azioni societarie e partecipazioni ad attività imprenditoriali.  Già nella cassaforte di Buenos Aires (più facilmente rintracciabile rispetto alle due di Dubai) erano custoditi contanti, una preziosa collezione di orologi e l’anello da 260 mila euro che Maradona ricevette in dono dal proprietario della Dinamo Brest, club della Bielorussia, al tempo della nomina da presidente onorario. In sostanza, Maradona era una sorta di impresa che dava lavoro a molte persone tra specialisti, amici e uomini di fiducia.

"L'idolo infranto": un libro-inchiesta sulla morte di Maradona. Gianluca Zanella il 6 Novembre 2021 su Il Giornale. A un anno dalla morte di Maradona, un libro-inchiesta ricostruisce quel sistema calcio che ha stritolato tra i suoi ingranaggi l'idolo di milioni di tifosi. Diego Armando Maradona, il Pibe de Oro, è stato probabilmente il più grande calciatore della storia, ma anche un campione scomodo, in campo e fuori. Nei suoi 7 anni a Napoli, Diego trionfa sul campo e sfida i potenti del calcio, spesso battendoli e sbeffeggiandoli. Fuori, però, Maradona è un uomo fragile, soffocato dalla sua stessa celebrità, costretto a cercare nella droga e nei vizi una via d’uscita. Entra in un dedalo di relazioni pericolose con la criminalità, con ambienti opachi. La cocaina lo renderà ingestibile, facendogli sentire ancora di più il peso di quello “show must go on” che è chiamato a mettere in scena ogni domenica. Tra il 1989 e il 1991, comincia un processo di disgregamento dell’idolo Maradona che si concretizza con la squalifica per doping. Una strana squalifica, che arriva dopo una serie di scontri e vertenze col Napoli, pochi mesi dopo che la sua Argentina ha eliminato l’Italia nella semifinale del Mondiale italiano, persa ai rigori in un San Paolo in cui in tantissimi tifano Argentina. Proprio da questo evento prende le mosse “L’idolo infranto – Chi ha incastrato Maradona?”, scritto dal giornalista Marcello Altamura (Ponte alle Grazie, 224 pagine), un’inchiesta rigorosa, che però si legge con l’emozione del thriller e l’indignazione di chi, tifoso e no, vuole riscattare la memoria del più grande giocatore di ogni tempo. È la storia di un uomo dalla generosità debordante e dai numerosi difetti, circondato da «amici» ma tremendamente solo. Dotato di un talento incredibile e diventato un idolo per milioni di persone: un idolo che qualcuno, come spiega Marcello Altamura, ha provato ad abbattere. Abbiamo intervistato l'autore, cercando - senza fare spoiler - di capire cosa aspettarsi dalla lettura di questo libro.

Altamura, partiamo dal titolo del libro: chi ha incastrato veramente Maradona?

“Ovviamente non c’è un colpevole unico, l’assassino del giallo di Agata Christie. Piuttosto c’è un sistema, il sistema calcio, che in tutte le sue componenti ha sfruttato il campione ignorando le esigenze e le fragilità dell’uomo. Teniamo presente una cosa: gli anni di Maradona al Napoli sono gli anni del boom economico del calcio italiano. In quegli anni, il calcio a livello globale si trasforma da sport a business. E Maradona era essenziale a quel meccanismo economico. Perciò sin quando è servito, lo hanno idolatrato e ‘coperto’, salvo scaricarlo quando non è più servito”.

Il campione e l’uomo: quanto erano distanti le due dimensioni di Maradona?

“Diego è stato raccontato solo con il bianco o il nero; o il campione o il drogato e l’amico dei camorristi. Invece per raccontare la vera essenza di Diego bisogna tenere presente che l’uomo era fragile e che fu schiacciato dal peso di essere Maradona, il campione ‘globale’, la macchina da soldi, la star. Sino all’avvento di Diego un solo sportivo, Muhammad Alì, era stato capace di travalicare i confini della sua disciplina, la boxe, per assurgere al ruolo di personaggio mediatico”.

Il suo libro prende le mosse dalla squalifica per doping di Maradona alla fine di Napoli-Bari del 17 marzo 1991: che cosa successe veramente in quel controllo fatale?

“Senza spoilerare il libro, posso dire che ci fu più di un’ombra: i dubbi sul sorteggio, le perplessità sulle modalità delle controanalisi, effettuate in un laboratorio del Coni dell’Acquacetosa, che io definisco “il laboratorio dei misteri”, condotte da uno staff che, pochi anni dopo, nel 1998, sarà coinvolto in un clamoroso scandalo sul doping. Quella squalifica per 15 mesi per doping segnerà un punto di non ritorno: il calciatore, salvo un paio di partite ai Mondiali di Usa ‘94, non tornerà più ai suoi livelli, ma soprattutto l’uomo imboccherà il viale del tramonto, fisico e morale, con la depressione e tutti i suoi tragici anni seguenti. Quando gli hanno tolto il pallone su un campo di calcio, la sua più grande felicità, una parte di lui è morta”.

Ma chi voleva veramente Maradona fuori dallo show business del calcio?

“Diego era un capopopolo, un re che non si sedeva sul trono ma scendeva in mezzo ai suoi sudditi. Maradona portò una squadra di medio livello del Sud, il Napoli, a vincere in Italia, interrompendo l’egemonia delle squadre del nord. Basti pensare a un dato: dal 1991 a oggi, quindi oltre 30 anni, solo Roma e Lazio per un anno a testa hanno spezzato l’egemonia dell’asse Milano-Torino sul campionato. Non solo: Diego aveva sfidato i potenti del calcio, li sbeffeggiava. C’è stato un accerchiamento del sistema nei confronti di Maradona, un accerchiamento contro di lui che durava da un po’ di anni e che mi ha fatto scoprire una rete di connivenze di silenzi”.

In che senso una rete di silenzi?

“Ho toccato con mano e con dolore che non solo i nemici ma anche gli amici, sodali ed ex compagni, hanno eretto un muro di silenzio, che spesso coinvolge anche chi si dice oggi suo amico o fratello. L’importante era che lui andasse in campo e facesse gol. Del resto, della difficoltà di un uomo dipendente dalla cocaina, non importava a nessuno, tranne forse a Fernando Signorini e qualcun altro”.

Nel suo libro affronta anche il tema della droga e dei rapporti con la camorra: che idea si è fatto?

“Per sua stessa ammissione, Maradona ha cominciato a drogarsi molto giovane. Nel documentario a lui dedicato dal regista Emir Kusturica, lui stesso si fa una domanda: quanto sarei stato forte se non avessi preso la cocaina? Peccato che questa domanda, negli anni d’oro della sua carriera, non se la siano fatta quelli che gli erano intorno. Tutti ciechi, sordi, indifferenti. Salvo poi puntare l’indice accusatore, da moralizzatori dell’ultim’ora, sul drogato, sull’amico dei camorristi, sulla mela marcia che aveva guastato il cesto. Nulla di più falso. Certo, Maradona frequentò malavitosi ma questo non basta a fare di lui un camorrista”.

Ma allora se è così, se il sistema calcio ha sempre saputo dei vizi di Maradona, perché ha aspettato il 1991 per gettarlo nella polvere?

“Maradona era troppo importante per lo show business del calcio, era una macchina da soldi. Però a un certo punto era diventato ingestibile, sia in campo che fuori. Il Mondiale di Italia ’90 segnò poi un punto di non ritorno. L’eliminazione dell’Italia nella semifinale di Napoli per mano della sua Argentina è stata la goccia che ha fatto traboccare un vaso che era già pieno sin da due anni prima, quando Diego si era battuto per andare al Marsiglia, in un campionato più tranquillo. Ma il Napoli non volle e iniziò una guerra fredda tra ripicche e dispetti. Perciò la squalifica per doping del 1991 non fu una sorpresa”.

A quasi un anno dalla sua morte, cosa resta di Maradona?

“Diego ha sempre dichiarato: ‘Io voglio giocare le partite, faccio di tutto per stare in campo la domenica’, ma non accettava di buon grado il ritiro e l’allenamento al mattino. Era felice solo con un pallone in campo. Il sistema aveva capito questa cosa e gli ha tolto questa gioia. Ma hanno ucciso l’uomo, non l’idolo. Quello, davvero, non s’infrangerà mai”. Gianluca Zanella

Da ibs.it il 2 Novembre 2021. Questo libro getta una luce sui tanti misteri irrisolti degli anni napoletani di Diego Armando Maradona: dall’estate del 1984, con la presentazione trionfale allo stadio San Paolo (oggi intitolato a lui), alla primavera del 1991, con la fuga solitaria, di notte in una macchina scura, verso Roma, Fiumicino, l’Argentina. Ciò che è successo in quelle sette stagioni è nella storia dello sport. E, in parte, in quella giudiziaria. Ma molto è ancora da chiarire, e Marcello Altamura, fra i massimi esperti di Maradona e giornalista di razza, in questo libro indaga a fondo nella vita di Diego, in quella Napoli e in quel Napoli: l’esistenza sregolata del campione, i suoi vizi, i suoi contatti con la malavita; un «sistema calcio» capace di fingersi cieco e sordo finché c’è da spremere, e all’improvviso severo e moralista quando il succo è finito. Che cosa è successo davvero? L’idolo infranto è un’inchiesta rigorosa, che però si legge con l’emozione del thriller e l’indignazione di chi, tifoso e no, vuole riscattare la memoria del più grande giocatore di ogni tempo. È la storia di un uomo dalla generosità debordante e dai numerosi difetti, circondato da «amici» ma tremendamente solo. Dotato di un talento incredibile, è diventato un idolo per milioni di persone: un idolo che qualcuno, come spiega Marcello Altamura, ha provato ad abbattere.

ESTRATTO DEL LIBRO "L'IDOLO INFRANTO - CHI HA INCASTRATO MARADONA" DI MARCELLO ALTAMURA il 2 Novembre 2021. Il primo provvedimento è l’immediata sospensione dall’attività agonistica per violazione dell’articolo 32 del Codice di giustizia sportiva, «per aver prima della gara Napoli-Bari assunto cocaina, sostanza vietata dalle vigenti disposizioni in materia». Un’accusa che non lascia speranze e che tuttavia è imprecisa. Perché la cocaina, Maradona, non l’ha mai assunta per migliorare le prestazioni sportive. E infatti, lo abbiamo già visto, quello di Maradona è un processo lampo, concluso il 6 aprile 1991 con la squalifica per 15 mesi. Una sentenza attesa, non solo Italia. I giornali argentini riportano di contatti del presidente della Federcalcio Matarrese con Grondona, il suo omologo argentino, e Havelange, presidente della FIFA. Diego intanto rompe il silenzio: mi hanno sottoposto a 25 antidoping ma perché proprio l’ultimo è risultato positivo? L’obiettivo è raggiunto: Maradona stava pagando il conto. Davvero non si poteva far nulla per difendere Maradona dall’accusa di doping? L’avvocato Vincenzo Maria Siniscalchi era il legale del campione e fu presente anche al processo sportivo: "Quello che mi colpì e che mi rimane impresso dopo tutti questi anni è l’atteggiamento del Napoli in udienza. Mi sarei aspettato che il club facesse carte false per difendere Diego, il suo giocatore più forte, il capitano della squadra. Invece, nulla, il Napoli partecipò al processo in maniera acquiescente. È solo una mia sensazione, sia chiaro, ma mi venne da pensare che fosse indifferente alla sorte del calciatore". Maradona è difeso anche dal professor Giovanni Verde, docente universitario di Diritto civile e successivamente membro del Consiglio Superiore della Magistratura. Il professor Verde ricorda molto bene il processo del 1991: "Sono stato il legale di Maradona in tutta la vicenda doping e la mia difesa era basata su un fatto preciso, e cioè che i residui di cocaina trovati nelle urine dell’atleta risalissero ai giorni precedenti la partita. Questo rappresentava la prova che la droga non era stata assunta dal calciatore per migliorare o alterare le prestazioni sportive ma per uso personale slegato rispetto alla sua attività. Una tesi che in effetti fu accolta nel giudizio e infatti Maradona fu condannato non per doping ma per la slealtà sportiva e tutto sommato ebbe una pena lieve, il minimo previsto per casi del genere. Ricordo che il professor Donike aveva insistito sulla questione dei macchinari e delle provette ma il collegio non la considerò particolarmente". Il professor Manfred Donike, direttore del laboratorio antidoping di Colonia, massimo esperto mondiale in questa materia, è uno dei periti di parte di Maradona, insieme al professor Angelo Fiori. Riletta oggi, a trent’anni di distanza dai fatti, la loro relazione è un’anatomia del complotto che incastrò Maradona. Donike, infatti, sottolinea che la provetta di Diego contenente l’urina usata per le controanalisi, quelle decisive per la squalifica, non era chiusa ermeticamente: i sigilli di piombo si potevano sfilare e richiudere tranquillamente. Una condizione, questa, che avrebbe potuto come minimo esporre a un rischio di inquinamento i campioni. Ma non è tutto: Donike e Fiori scrivono anche che il trasporto e la conservazione della prima provetta, quella cioè contenente l’urina di Maradona prelevata dopo Napoli-Bari, sono avvenuti in maniera diversa da quella prescritta dalla procedura. Il secondo campione, quello utilizzato per le controanalisi, sarebbe stato conservato meglio. Impossibile qui non pensare alle accuse di Gianni Minà anche per una notizia curiosa, riportata da La Gazzetta dello Sport il 9 marzo 1991 in breve: "Nuovi contenitori antidoping. La Figc li importa dal Brasile". Dunque, con tempismo perfetto, la Figc introduce nuovi contenitori per i flaconi d’urina dei calciatori proprio otto giorni prima di Napoli-Bari. Il trafiletto parla di una striscia di plastica per sigillare i flaconi, mentre nella relazione Donike e Fiori parlano invece di sigilli di piombo. Le provette contenenti l’urina di Maradona sono diverse da quelle federali? Le corrette procedure non sono seguite sin dall’inizio del controllo? Nella relazione di Donike e Fiori c’è anche dell’altro. Confrontati, i risultati dei due esami dell’urina di Diego sono diversi. Nel primo test, infatti, si parla solo di cocaina, nel secondo di cocaina e dei suoi metaboliti. I due controlli sono stati eseguiti con metodiche e tecnologie diverse, circostanza sufficiente per invalidarli del tutto. Non solo: in sede di controanalisi, il professor Donike chiede di effettuare una gascromatografia per stabilire proprio la corrispondenza tra il risultato dei due test. Nella relazione, si mettono a confronto gli esiti dei due test e si evidenzia che le tracce di cocaina e dei suoi metaboliti non sono costanti, sembrano apparire per poi scomparire e infine riapparire nell’ultimo esame, quello decisivo. Come può essere? Nella relazione, i periti parlano di «possibile contaminazione della colonna», cioè di una componente del macchinario utilizzato per effettuare le analisi. Torniamo nel laboratorio del Coni all’Acqua Acetosa, dove siamo entrati all’inizio della nostra storia. Donike e Fiori, dopo le controanalisi, confermano tracce di cocaina, chiedono un test di prova su un campione ‘pulito’, cioè non appartenente a Maradona. Incredibilmente, anche questo segnala tracce di cocaina. Com’è possibile?

Da ansa.it il 31 ottobre 2021. Anche Pelé ha voluto ricordare Maradona nel giorno in cui El pibe de oro avrebbe compiuto 61 anni. "Dio gli ha dato il genio. Il mondo - ha scritto O rei su Instagram, pubblicando una foto che lo ritrae in un abbraccio con l'argentino - gli ha dato il suo amore. Oggi è il compleanno di Diego. Per sempre, in questo giorno, chiunque ami il calcio ricorderà cosa faceva con la palla. Quanto a me, personalmente, ho la possibilità di ricordare con affetto la bellissima amicizia che abbiamo avuto. Questi ricordi sono un vero regalo". Pelé ha festeggiato una settimana fa i suoi 81 anni, a meno di un mese dalle dimissioni dall'ospedale Albert Einstein di San Paolo, dove era stato operato per un tumore "sospetto" al colon, scoperto durante gli esami di routine.

Gianmaria Tammaro per “La Stampa” il 29 ottobre 2021. I calciatori sono i nostri nuovi eroi. Riempiono il piccolo e il grande schermo; sono ricercatissimi e desiderati dalle produzioni, sono esempi, sono leggende viventi, e sono la nostra nuova epica. Le loro vite sono racconti perfetti, pieni di successi e di cadute, e pieni di piccole rivalse e di incredibili vittorie. Hanno fatto, visto, provato; e hanno vinto e hanno perso. Un calciatore deve convivere con il fallimento, e dal punto di vista della finzione, della messa in scena, questa cosa è perfetta: è potentissima. In Speravo de morì prima di Sky, Totti diventa Roma e Roma diventa Totti: le loro storie si accavallano, si abbracciano e si trasformano in una cosa sola. Non è banalmente la loro somma, ma qualcos' altro: dentro ci sono la nostalgia e la poesia. Ma Speravo de morì prima è sempre una comedy, e quindi i toni, così come la regia e la sceneggiatura (basata sul libro scritto da Paolo Condò e dallo stesso Totti, Un capitano), sono a metà: perennemente sottili, insinuanti, pronti a dissacrare e a ribaltare il punto di vista. E la narrazione funziona proprio per questo motivo. Poi ci sono i film, come Il Divin Codino di Netflix, che provano a raccontare la vita dei fuoriclasse. Si concentrano sugli alti e bassi, sui grigi, sui chiaroscuri; vogliono la redenzione e il riscatto; si cibano di aneddoti assurdi e impensabili, eppure così stupendi da sentire e da ripetere. Quella su Baggio è un'operazione riuscita solo in parte. C'erano tante belle intuizioni, e soprattutto c'era l'incredibile lavoro del cast. Serviva però più tempo, e servivano anche più idee. Forse, con certi personaggi e certe storie, la cosa migliore è il documentario: un linguaggio che non vuole forzare, che non insiste; ma che vuole sfruttare la realtà per quello che è. Con Diego Maradona, Asif Kapadia ha ripercorso la vita del Pibe de oro utilizzando materiali inediti, d'archivio, e costruendo un racconto incredibile: epico ed eccezionale nella sua verità. In questo modo, ha usato Maradona per parlare di attualità e di politica, di crisi e pregiudizi: l'Italia nella sua concretezza e nelle sue contraddizioni. Ma Maradona non può essere costretto nello spazio ridottissimo di un film: perché è troppo grande e troppo amato. E allora, da oggi, su Amazon Prime Video arriva Maradona: sogno benedetto, una serie tv che prova a tracciare una linea chiara tra passato e presente, mettendo insieme gli inizi, le polemiche, le sfide e gli innumerevoli sforzi. È divisa in parti, e ogni parte si concentra su un periodo particolare della vita di Maradona. È un prodotto di finzione: alcuni particolari e alcuni passaggi sono stati riscritti e cambiati. Edoardo De Angelis ha diretto gli episodi napoletani (il sesto e il settimo, disponibili dal 5 novembre; e l'ottavo, in streaming dal 12 novembre), e ha avuto la fortuna, dice, di essere libero: «Di essere semplicemente me stesso». Più o meno due anni fa, all'ex-stadio San Paolo, oggi stadio Maradona, ha fatto rivivere il Diego gladiatore, il Diego invincibile e fragilissimo, voce ed eroe di una città intera. «Maradona - spiega - non è mai stato solo un calciatore, ma un demiurgo di sogni e di miracoli, e in una città come Napoli, così affezionata e attaccata all'idea di miracolo, significa molto: significa, anzi, tutto». Maradona ha permesso alla città di vivere un sogno, aprendo uno squarcio profondo tra cronaca e realtà. Nei corridoi dello stadio, pieni di persone, di sedie, di camere e di microfoni, sono bastati pochi passi, pochi momenti, per tradurre la finzione di una serie tv in qualcosa di più: l'istantanea di un tempo passato che forse non tornerà più. Quando Paolo Sorrentino ha parlato di Maradona, per ricordarlo, è stato capace di catturarne non solo l'essenza di calciatore, ma pure l'importanza di simbolo. Con lui eravamo tutti Napoleone, ha scritto il regista. E quello che succede sul piccolo schermo o in sala è esattamente questo. Ricordiamo queste storie, e usiamo questi personaggi, proprio perché vogliamo rivivere un tempo andato della nostra vita e nella nostra memoria ancora meraviglioso. I calciatori sono i nuovi eroi, certo, e il calcio e lo sport sono la nostra nuova epica: assolutamente. Ma poi ci sono le emozioni e i sentimenti; e c'è tutto quello che, per un campione, abbiamo provato. Insomma, ci siamo noi. E per chi vuole intrattenere, questo è tutto. Perché abbiamo bisogno di storie, sì, ma soprattutto perché abbiamo bisogno di poter essere di nuovo felici.

Dagospia il 29 ottobre 2021. Da I Lunatici Radio2.  Giuseppe Bruscolotti, ex calciatore, capitano del Napoli di Maradona, è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei, live anche su Rai 2, sempre dal lunedì al venerdì notte, più o meno dall'una alle due e quaranta.

Bruscolotti è stato uno dei migliori amici di Diego Armando Maradona: "I ricordi? Partendo dall'arrivo, mi torna in mente una città in delirio, pronta ad abbracciare il più grande il campione al mondo. Tra e me Maradona il primo incontro fu in albergo. Andai in qualità di capitano, per illustrarci la società e la città di Napoli, per parlargli dei pro e i contro di questa città. Poi col tempo siamo diventati amici veramente. La scintilla è scoccata perché entrambi parliamo chiaro, non la mandiamo a dire. E quando c'è una certa sincerità è facile diventare amici. C'è sempre stata franchezza, in tutte le cose. Questo ha reso il rapporto più facile".

Ancora Bruscolotti su Maradona: "Lui come gioiva in mezzo al campo aveva anche tanta voglia di vivere fuori. Ma la sua popolarità non glielo permetteva. C'era tanta pressione, non godeva di una piena libertà, quella libertà che uno tante volte cerca. Però fa parte del gioco, se sei un divo devi pagarne lo scotto. Credo che anche se ha avuto delle difficoltà per questo, credo che a chiunque poi faccia piacere questo affetto e questo calore. Purtroppo quando si è popolari c'è l'altra faccia della medaglia, ci sono i pro e i contro. Però l'affetto che si è creato con Napoli non morirà mai".

Sul rapporto con Maradona nello spogliatoio: "Gelosia nei confronti di Maradona? Assolutamente, mai! E' stata un'amicizia schietta e pulita e tutto il gruppo amava Diego. Eravamo amici. I calciatori che sono gelosi di un compagno che va al di sopra di tutte le cose sono stupidi. Se giochi con un fuoriclasse non puoi essere geloso, devi essere solo contento. Se è vero che Maradona si allenava meno degli altri? E' una diceria. Anche se arrivava venti minuti dopo, finiva un'ora dopo di noi. Stava lì ore ad allenarsi, a calciare, nonostante la sua classe immensa lui non è che non si allenasse. Le punizioni, quel modo di calciare particolare, lo allenava per ore".

Bruscolotti sui prepartita di Maradona: "Fughe dall'albergo, donne e fan in delirio? C'è tanta fantasia su questo. Molti cronisti ci hanno giocato, tante cose sono inventate. Ma fa parte del gioco, anche questo. Per festeggiare le vittorie, invece, spesso andavamo a cena a casa mia e cucinava mia moglie. Maradona adorava la sua pasta aglio e olio". 

Sulla morte di Maradona: "Per me non è stata una doccia fredda. Pensavo che potesse accadere qualcosa. Negli ultimi tempi alcune notizie mi facevano pensare tante cose. Ultimamente lo avevano isolato, quindi era difficile parlare con lui. Non c'era più il passaggio diretto, era tutto filtrato. La cosa era diventata difficile". 

Bruscolotti era uno dei migliori marcatori italiani ma in Nazionale non ha mai avuto spazio: "All'epoca c'era prevenzione verso chi non giocava in certe squadre. C'erano i blocchi che non permettevano a chi non giocava in certe squadre di avere spazio in Nazionale. Io mi sono trovato in questa situazione ed è stato un grande dispiacere. Perché non mi sono mai sentito inferiore a nessuno nella mia epoca. Perché non nascono più difensori di un certo tipo? E' un problema di scuola, mancano proprio i fondamentali, tante volte vedo i difensori affrontare gli avversari di pancia, non si sanno posizionare. L'allenatore che più mi è rimasto impresso? Vinicio. Era uno che ha avuto le sue idee e le ha messe in campo, con ottimi risultati. Faceva un calcio totale. In Italia il calcio totale l'ha portato lui. Oggi in tanti scoprono l'acqua calda". 

Sul campionato di oggi: "Il Napoli è partito molto bene, le milanesi sono tornate, vedo una lotta a tre. Ci sono tanti goal, non so se sia così divertente, per me alla fine i tifosi vogliono vincere, non segnare tantissimo. E' un calcio che a taluni diverti, altri invece ricordano con tanta passione e tanto amore il nostro calcio. 

Da corrieredellosport.it il 26 ottobre 2021. "Le cure mediche che Maradona ha ricevuto sono state pessime, ecco perché è morto". È passato quasi un anno dalla morte di Diego Armando Maradona ma continuano a emergere nuovi dettagli sui suoi ultimi giorni. Stavolta a rivelarli è Matias Morla, ex avvocato del Pibe de Oro, che nella sua ultima testimonianza giudiziaria punta il dito contro i medici. "Ci sono stati troppi errori, è per questo che Diego è morto, si è gonfiato e gonfiato, poverino, fino a quando il suo cuore è esploso", ha detto alla stampa Morla mentre lasciava l'ufficio del procuratore di San Isidro, alla periferia nord di Buenos Aires, dopo aver rilasciato una testimonianza di oltre tre ore. Continua senza sosta il processo per fare luce sulle cause della morte di Maradona. Il caso analizza la responsabilità di sette operatori sanitari, tra i quali il neurochirurgo Leopoldo Luque, indagato per omicidio colposo, reato che prevede pene da 8 a 25 anni di reclusione. Morla ha definito "folle" la decisione della famiglia di curare Maradona a casa. "È pazzesco perché secondo i medici Diego non poteva lasciare la clinica Olivos". L'accusa parte dal presupposto che il Diez ha ricevuto cure "insufficienti" dai membri dell'equipe medica che, pur sapendo che avrebbe potuto morire, non avrebbero fatto nulla per impedirlo. La commissione medica di 20 esperti ha stabilito che Maradona è rimasto in stato agonizzante per ore ed "è stato abbandonato al suo destino", mentre ha stimato che l'équipe medica guidata da Luque ha applicato un trattamento "inadeguato, carente e avventato". Morla ha raccontato che l'ultima volta che ha visto Maradona, il 16 novembre, "aveva una voce strana, robotica, molto acuta e intermittente". "Ho informato tutti coloro che erano in casa dello stato in cui si trovava Diego. Ho capito solo più tardi che era a causa della quantità di acqua che il corpo aveva trattenuto", ha concluso.

Mario Canfora per gazzetta.it il 29 settembre 2021. Carlos Bilardo, “El narigon” (il nasone), è ancora probabilmente l’unico al mondo a non sapere della morte di Diego Armando Maradona, avvenuta il 25 novembre 2020. Non gli è mai stato detto, per evitargli un dolore tanto grande quanto probabilmente difficile da sopportare alla luce delle sue precarissime condizioni di salute. L’ex tecnico, infatti, già da tempo combatte con la sindrome di Hakim-Adams, una malattia neuro-degenerativa che incide in maniera importante anche sulla sua lucidità, e dunque sui suoi ricordi. I due erano legatissimi. Per Bilardo, Diego era il figlio maschio mai avuto. Oltre a condividere lo spogliatoio a Siviglia e al Boca Juniors, hanno vinto il Mondiale del 1986, quello della famosa gara contro l’Inghilterra e del gol con la “Mano de Dios”. Un sodalizio proseguito anche dopo, quando Maradona è diventato selezionatore dell’Argentina, e Bilardo lo “accompagnava” come dirigente. Ora, però, secondo il portale argentino “La Voz”, i membri della squadra nazionale argentina che ha vinto la Coppa del Mondo a Messico del 1986, a partire da Ruggeri e Burruchaga, hanno pensato di riunirsi tutti insieme per comunicare a Bilardo la morte di Diego e di Alejandro Sabella, altro ex allenatore argentino scomparso lo scorso dicembre. I giocatori hanno riferito la loro volontà al fratello di Carlos, Jorge. Resta ora solo da decidere quando avverrà quest’incontro, sicuramente difficile da affrontare per tutti. Sarà doloroso, ma Bilardo continua a vedere partite di calcio e a domandare di Diego soprattutto quando negli stadi vengono inquadrate tante bandiere col volto del “Pibe de Oro”.  “Ma dov’è?”, ha chiesto recentemente al fratello. Evasiva la risposta: “E che ne so? Forse in Europa...”.

Il calcio ai tempi di Diego: Minà racconta Maradona. Simone Savoia il 3 Giugno 2021 su Il Giornale. Viaggio nella vita e nelle imprese sportive del più grande giocatore di tutti i tempi. “Maradona: "Non sarò mai un uomo comune". Il calcio ai tempi di Diego”, di Gianni Minà, Minimum Fax, pagine 187. La vera arte è sottrazione, non aggiunta. Questo è ciò che viene in mente dopo aver letto il libro di Gianni Minà su Diego Armando Maradona. Nella sterminata bibliografia sul Pibe de Oro prodotta sin qui e ancora da prodursi, il lavoro di Minà spicca perché raggiunge un equilibrio coinvolgente tra narrazione giornalistica e impatto emotivo. Minà ha conosciuto e compreso appieno i due sportivi più importanti del Novecento, coloro che hanno influenzato l’opinione pubblica mondiale come nessun altro sportivo ha fatto: il pugile Cassius Clay Muhammad Ali (1942- 2016) e appunto Diego Armando Maradona (1960-2020). In che senso l’arte è sottrazione e non aggiunta? Nel senso che Gianni Minà partiva da una sterminata memoria personale di aneddoti, racconti e retroscena su Maradona per una lunga e consolidata frequentazione personale (la sua ultima intervista al Diez è del 2013). Ma nelle pagine del libro si trova appena una traccia di tutto questo, come se fosse una spezia a insaporire il piatto. Perché come ingrediente portante Minà offre al lettore la contestualizzazione del calcio che vide Maradona sul tetto d’Italia e del mondo, soprattutto durante la seconda metà degli anni Ottanta. Un calcio che già si stava trasformando in una spettacolare industria, in un ingranaggio per spremere fino all’ultimo i campioni, in un moloch divoratore bisognoso quasi quotidianamente di nuovi personaggi da adorare o da dannare, in un’incubatrice permanente di nuovi modelli di business. Da questo punto di vista per Minà due sono gli eventi focali della parabola del Maradona calciatore: la finale mondiale in Italia persa contro la Germania a causa di un rigore inesistente dopo aver eliminato la predestinata Italia in semifinale (8 luglio 1990) e la cacciata di Maradona dal mondiale americano, mano nella mano con un’infermiera in tuta bianca, perché un controllo antidoping rilevò nel suo sangue tracce di efedrina, sostanza contenuta in un medicinale che Diego aveva assunto per curarsi una bronchite (25 giugno 1994). Furono gli eventi che consacrarono Maradona come eroe “contro” dello sport contemporaneo, un divo anti-sistema. Poi un altro filone del libro riguarda il Maradona politico. Le sue prese di posizione sull’Argentina dei generali, sui desaparecidos vittime della dittatura militare, sulla geopolitica dell’America Latina, sul rapporto con Cuba e con Fidel Castro. Prese di posizione complesse e a volte contraddittorie, figlie anche della concezione latinoamericana del pueblo, del popolo, ma sempre ragionamenti pubblici e di cui Maradona si è assunto per intero la responsabilità. Come del resto ha fatto nel rapporto di tossicodipendenza da cocaina che ha rovinato unicamente se stesso, come calciatore e come uomo. Molto interessanti le pagine del rapporto tra Maradona e Napoli. Il 5 luglio 1984 l’allunaggio del Pibe de Oro allo stadio San Paolo avrebbe cambiato per sempre la percezione del popolo napoletano non solo nei confronti della dimensione calcistica, ma anche nei confronti della propria stessa identità collettiva. Un amore totale, soffocante, da cui Maradona non riuscì a liberarsi anche per scelta dell’allora presidente della SSC Napoli Corrado Ferlaino, che si rifiutò di cederlo all’estero. Ultima considerazione è lo spazio che giustamente viene dato nel libro all’incredibile saliscendi a cui Maradona ha sottoposto la sua intera esistenza di uomo e di calciatore: discese ardite e impetuose risalite, l’altare la polvere e poi di nuovo l’altare, addii malinconici e trionfali ritorni in campo, vittorie clamorose e sconfitte rovinose. Un’eterna araba fenice che ha conquistato i Sud del mondo e le periferie sociali come la natìa Villa Fiorito. Diego Armando Maradona è stato protagonista da calciatore di 3 Mondiali (1986, 1990, 1994), di uno da allenatore (2010), di altri due da spettatore e testimonial (2014 e 2018). Ha fatto vincere una squadra, il Napoli, che prima di lui non aveva mai conosciuto e nemmeno immaginato simili trionfi nazionali e internazionali. Ha denunciato le distorsioni della società dei consumi e dello spettacolo, si pensi alle sue dichiarazioni dopo la tragica morte del ciclista Marco ‘Pirata’ Pantani, il 14 febbraio 2004. Per raccontare un personaggio così complesso e straordinario c’era bisogno di uno dei più importanti giornalisti italiani, testimone diretto del suo percorso: ecco perché l’accoppiata Gianni Minà - Diego Armando Maradona rende questo libro imperdibile. Ha scritto il grande Eduardo Galeano: “Giocò, vinse, pisciò, fu sconfitto”. Ma in mezzo, ci permettiamo di aggiungere, ci sono moltissime altre cose da raccontare e da ricordare. E per le quali si parlerà di Maradona anche tra cent’anni.

Simone Savoia. Napoletano, ma anche apollosano caudino, ma anche un pochettino piemontese. Annata 1976. Quotidiani e tv locali a Napoli, poi a Milano. Dal 2008 collaboratore di Videonews Mediaset, con Mattino Cinque e Dritto&Rovescio. Uditore enologico con i degustatori dell'Associazione Italiana Sommelier, munito di videocamera e microfono per vigneti e cantine d'Italia. Tifoso del Napoli e della Polisportiva Apollosa 1981. In emotiva partecipazione anche per il Benevento Calcio. Troppo ottimista per essere pessimista. Troppo pessimista Giuseppe Smorto per “il Venerdì di Repubblica” il 3 giugno 2021. «Giani llámame», chiamami. Nessuno ha più il coraggio di riascoltare quell' audio WhatsApp. Il suo amico Diego sta male: biascica, si blocca nel discorso, respira male e poi chiude il messaggio: Gianni Minà pensa di richiamarlo, ma prima deve passare dal cardiologo Colivicchi, quello che gli ha messo i quattro stent, così stacca il cellulare. Torna a casa e trova le telecamere sul pianerottolo: Diego Armando Maradona non c' è più. Minà manda via tutti, fa un breve post su Facebook e chiede il silenzio. Lui lo conosceva bene, questa è la sua versione. Quasi sei mesi dopo quel 25 novembre, dice: «È morto in solitudine perché è sempre stato solo, visto come uno da sfruttare». Non c' è commozione nelle sue parole, dice che i cronisti devono trattenere le emozioni: «Non ho mai pianto, e se piango non lo dico a un giornale. Sono antico e me ne vanto». Però l'occhio si fa lucido davanti ai due gol al Belgio nell''86 («rallenta un attimo, belli come quelli all' Inghilterra»), o a certe foto che rimandano un'amicizia forte. Come quella volta che Minà portò lo scrittore Osvaldo Soriano nel ritiro dell'Argentina, ed el Diez si mise a palleggiare con un'arancia. Triste, solitario y final come il romanzo, il titolo con cui tutto il mondo ha salutato Maradona. La sua vita tombola, canta Manu Chao. «E Diego ha sempre cercato un posto in cui ripararsi». Spesso in fuga, niño de oro braccato, a testa alta davanti alla xenofobia sottile di Barcellona o dei baschi che gliel' avevano giurata, con le gambe massacrate e il cortisone, magro e sovrappeso, con Napoli per mano, 22 chili da perdere per fare i Mondiali '94, drogato, forse dopato, padre di un numero imprecisato di figli, un bypass gastrico per dimagrire, allenatore, nonno, venerato e odiato, perseguitato e solo, intontito di psicofarmaci, cuore e fegato a pezzi, abbandonato alla fine anche dal suo medico. «Solo anche in campo: l'unico che poteva cambiare una partita. Quello che ci metteva la faccia sempre, sincero fino all' autolesionismo. Diceva: "Non voglio finire male come Masaniello"». Quante vite. Gianni Minà da un anno stava scrivendo un libro su Diego.Non sarò mai un uomo comune esce ora per minimum fax. In quelle pagine sono fissati alcuni faccia a faccia, momenti segreti di un'esistenza in prima fila, per raccontarla tutta ci vorrebbero I miserabili, scene prima di un addio senza pace. Come ai Mondiali del '90. A Napoli Maradona trascina un'Argentina stanca, piena di botte, esordienti e pensionati, tirando il rigore decisivo contro l'Italia. A Minà, che lo aspetta sempre in un sottopassaggio, dietro l'angolo o nella stanza dei massaggi, dice: «Ho festeggiato, poi mi sono calmato, perché ho visto la tristezza sui volti di molti amici». Negli spogliatoi palleggia con una saponetta, lo portano di peso sotto la doccia. Minà gli suggerisce: «In finale gira lontano dall' arbitro, cercheranno di impallinarti». Dopo il labiale più famoso del calcio - quel «hijos de puta» mormorato al maxischermo, quando l'Olimpico fischia l'inno argentino -una partita orrenda e sbilanciata. Celebrata la vittoria mondiale, i tedeschi vanno uno a uno ad abbracciare Diego. Come quella notte in un motel di Boston, la squalifica per efedrina ai Mondiali del '94 per un errore del medico, nella partita in cui prese 24 falli. Per la stessa infrazione, il messicano Calderé era stato squalificato per una giornata nel 1986. Questo è il racconto di uno scoop, ma prima si parla di amici. «Dopo l'esclusione dai Mondiali, Maradona è furioso e mi chiama: "Giani, voglio dire tutto". Arriva dal Texas con il preparatore Fernando Signorini. Che è una delle poche persone che non lo ha spremuto, uno che non si è fatto ricco e campa ancora facendo il maestro di tennis». Ecco quindi Diego a Boston, asciugato dal dolore. Dice: «Sono stato tradito, la Fifa aveva bisogno di me per salvare i Mondiali negli States. Abbiamo giocato a orari infernali, è stato un massacro». Oggi Minà sorride: «Facemmo il giro dei network con quella cassetta Bvu, i francesi ci presero per imbroglioni. Poi hanno guardato l'intervista e l'hanno acquistata, loro come le tv di tutto il mondo». Ernesto, Fidel e cuba Ma Diego era anche un burlone, dice Minà, che lo ha visto soprattutto dietro le quinte. Al gran gala della Fifa del 2001 per il calciatore del secolo, uno scherzo dei suoi. Diretta Rai, parterre di campioni. Vince Maradona, i dirigenti della Fifa non hanno calcolato il voto popolare: inventano nel panico per il designato Pelé un premio parallelo. El Pibe si presenta sul palco e dice: «Dedico questo premio all' argentino più famoso del mondo». Eccolo, il solito, si sente dio, mormorano dalle prime file i benvestiti del calcio internazionale. Diego studia la pausa e aggiunge: «L' argentino più famoso, Ernesto Che Guevara». Qui è forse il caso di ricordare i suoi tatuaggi - Fidel sul polpaccio sinistro, il Che sul bicipite destro - e il suo rapporto con Cuba. Solo un anno prima, Maradona vuole curare la sua dipendenza dalla cocaina, dopo una crisi cardiaca molto grave: «Il Barba (come gli argentini chiamano Dio ndr) aveva paura che facessi casino lassù, continuerò a fare casino sulla Terra». Fidel Castro, intuendo anche la portata propagandistica dell' operazione, lo invita all' Avana: «Questo ragazzo che ha dato tanto al football e all' allegria dei tifosi è venuto a chiedere aiuto per la sua salute. Stupisce che pochi gli abbiano voluto dare una mano. Visto che non ci ha pensato il mondo del mercato, lo facciamo noi». E poi arriva anche Minà. È l' ennesima rinascita di Diego, che poi vince il premio Fifa, va a ballare e cantare in tv. Non dimentica i diritti umani, dice no all' indulto per i generali assassini: «La dittatura ci aveva nascosto tutte le sue infamie. Fu nei viaggi con la Nazionale argentina che scoprimmo i loro crimini, fu sconcertante e mortificante». È il Maradona fuori campo che continua a far paura, ma è una potenza fragile, un uomo che non vede all' orizzonte la sua salvezza. Sullo sfondo, l' amore per Napoli: quegli anni hanno cambiato la sua vita? Minà si irrita: «Provò la cocaina per la prima volta in Catalogna, e mi diceva: "Maledico quel giorno. Io non l' ho mai comprata. Me l' hanno sempre portata". Ferlaino doveva liberarlo. Platini resistette cinque anni nel calcio italiano. Diego era in gabbia, prigioniero dei suoi eccessi e del calcio. Ma ha fatto male solo a se stesso». Resta una storia grottesca che Minà ci tiene a raccontare: Maradona evasore fiscale, accolto da 40 agenti della Finanza a Fiumicino, gli sequestrano anche un orecchino, poi ricomprato da un tifoso. «L' 11 marzo del 2021 la Cassazione ha sentenziato che non era debitore al fisco italiano, i suoi contratti erano uguali a quelli di due compagni di squadra». Pubblica l' intera sentenza nel libro, Diego è morto senza saperlo, condannato in partenza dalla famosa opinione pubblica. Con una certa ostinazione, Minà aggiunge: «Lui era umano, come Ali, come Mennea, le mie stelle ribelli. Oggi lo sport vuole robot, non persone. Mi diceva: "Ho paura come tutti. Io non sono Superman, io non sono Batman, gli eroi degli americani che non muoiono mai"». Ma se oggi lo stadio di Napoli porta il suo nome, vuol dire che anche Diego Armando Maradona continua a volare.

Francesco De Luca da ilmattino.it il 9 giugno 2021. Per Maradona non c'è pace, neanche a quasi sette mesi dalla sua morte, avvenuta il 25 novembre a Buenos Aires. Non bastassero le polemiche sulla sua fine, con un'inchiesta della magistratura, e sulla sua eredità, adesso emerge lo scontro tra alcuni dei figli eredi, o dei loro legali rappresentanti, sull'asta due appartamenti, tre auto e una serie di oggetti sistemati in un deposito di Beccar, città della provincia di Buenos Aires. La proposta...

Cristiano Tarsia per "il Messaggero" il 3 giugno 2021. Si sarebbero messi d' accordo i cinque figli di Diego. Via gran parte del suo tesoro: ricordi, premi, regali, attestati. Tutto venduto all' asta, dalle magliette al pallone Fifa come miglior giocatore del secolo, alla lettera che Fidel Castro scrisse a Maradona. E poi anche case, ville, auto. Tutto convertito in soldi, da dividere tra i cinque figli, unici eredi secondo la giustizia argentina. Una liquidazione vera e propria, con tempi e modalità non ancora precisi. Ma che parte dalla volontà dei figli, Diego Junior, Dalma e Gianinna, Jana e Dieguito Fernando, di arrivare a un accordo e di finire la guerra che si stava appena scatenando dopo la morte del Diez. La notizia rimbalza dall' Argentina. Caratteri cubitali, visto che, come scrivono in Sud America, a Diego è riuscito in morte quello che non aveva fatto da vivo: vedere i cinque fratelli vivere in pace. C'è da aggiungere che gran parte degli oggetti erano chiusi in un container alla dogana di Buenos Aires. Un vero e proprio scrigno dei tesori del Pibe de Oro, con magliette autografate di calciatori di ogni squadra e palloni, anche del Napoli. Oggetti che Maradona portò da Dubai. Lo ha confermato l' avvocato Mariano Baudry, tutore del minore dei figli dell' ex Campione, Diego Fernando. Ad occuparsi dell' asta sarà il gruppo Adrian Mercado. E già filtrano indiscrezioni, nonostante alla fine non sia stata neanche ufficializzata, sull' asta. Che diventerà un vero e proprio spettacolo. L' intenzione è di chiamare a fare il banditore Victor Hugo Morales, giornalista sportivo, scrittore e saggista uruguaiano. Una celebrità in Sud America. Dipende, scrivono i giornali argentini, dalle sue condizioni di salute. L'avvocato Baglietto resta in attesa che il collega Matias Morla completi la consegna dei documenti relativi ai conti bancari e ai contratti delle società di Maradona, da lui gestite. Perché la parte spettacolare sarà pure rappresentata dagli oggetti - che comunque compongono la vita e la carriera di Diego - ma la sostanza è data anche dai conti in banca e dalle proprietà immobiliari sulle quali faticosamente si sta facendo luce. Anche questi da dividere rigorosamente per cinque. Mario Baudry ha confermato in tv che l' idea di indire un' asta è venuta dall' amministratore Adrian Baglietto e che tutti i figli hanno subito acconsentito alla proposta. Come spiegato, il giudice responsabile della successione, Susana Tedesco del Rivero del Tribunale civile e commerciale n. 20 di La Plata, deve autorizzarlo. Lunedì gli avvocati si incontreranno con lei per discutere di questo e di altri temi. Secondo il rappresentante legale di Dieguito Fernando, l' idea è che l' asta sia tenuta e organizzata dal Gruppo Adrián Mercado: «Tutti gli eredi sono d' accordo e l' idea è che una terza parte lo faccia, quindi nessuno contesta. Una volta che il giudice autorizza, Mercado organizza». I prezzi base degli oggetti da mettere all' asta non sono ancora stati determinati. Al di là della cifra che possono raggiungere, si prevede che questa aumenterà, proprio a causa del loro valore storico. Tra le vetture saranno venduti un camion Mercedes Benz e due Bmw, una coupé M4, uno degli ultimi modelli guidati dal campione. E poi Villa Devoto, che il calciatore regalò ai suoi genitori negli anni Ottanta. E dove Maradona riconobbe, nel 2016, pubblicamente per la prima volta Diego junior, il figlio napoletano.

Da leggo.it il 20 maggio 2021. Sette persone sono state ufficialmente accusate di omicidio volontario nell'ambito dell'inchiesta sulla morte di Diego Armando Maradona. Lo riporta il quotidiano 'La Nacion' che ha appreso la notizia da fonti giudiziarie. I sette dal 31 maggio saranno chiamate a deporre; si tratta degli infermieri Ricardo Omar Almirn e Dahiana Gisela Madrid, il coordinatore Mariano Perroni, il medico che ha stabilito il ricovero domiciliare, Nancy Forlini, lo psicologo Carlos ængel Daz, la psichiatra Agustina Cosachov e il neurochirurgo Leopoldo Luque, medico di base di Maradona. Per il reato di cui sono accusati sono previste pene da 8 a 25 anni.  Dal rapporto di cui 'La Nacion' ha preso visione, e rilanciato anche da altri media locali, emerge che, secondo i magistrati, le cure prestate dell'équipe sanitaria che ha assistito Maradona negli ultimi giorni di vita sono state «inadeguate, carenti e spericolate» e hanno affidato «al caso la salute del paziente». In più Luque è accusato anche di «uso di documento privato falso». Ciò perché , sempre secondo l'accusa, il medico avrebbe falsificato la firma di Maradona per chiedere una copia della 'storia clinicà del paziente alla struttura dov'era stato operato per un ematoma al cervello. L'accusa ha chiesto anche agli indagati venga proibito di lasciare il paese, e quindi che vengano ritirati i loro passaporti.

Maradona, il legale dell'infermiera personale: "E' stato ucciso dai medici". La Repubblica il 17 giugno 2021. Dahiana Gisela Madrid, 36 anni, è una delle sette persone sotto inchiesta per omicidio colposo. L'avvocato dell'infermiera accusata di trascurare l'icona del calcio Diego Maradona durante gli ultimi giorni della sua vita ha accusato i medici di aver "ucciso" il calciatore. Dahiana Gisela Madrid, 36 anni, è una delle sette persone sotto inchiesta per omicidio colposo dopo che una commissione di esperti che esamina la morte di Maradona sostiene che el Pibe de oro avrebbe ricevuto cure inadeguate ed è stato abbandonato al suo destino per un "periodo prolungato e angosciante". La leggenda del calcio è morta di un attacco di cuore lo scorso novembre all'età di 60 anni, poche settimane dopo aver subito un intervento chirurgico al cervello per un coagulo di sangue. Un'indagine è stata aperta a seguito di una denuncia presentata da due dei cinque figli di Maradona contro il neurochirurgo Leopoldo Luque, che incolpano del deterioramento delle condizioni del padre dopo l'operazione. Nella sua prima deposizione, Madrid aveva menzionato che era una delle persone che ha trovato Maradona senza segni vitali e ha cercato di rianimarlo, mentre allo stesso tempo ha detto che non ha eseguito i controlli di routine all'inizio del suo turno per far riposare il paziente. Allo stesso modo, Madrid scrisse un rapporto ai suoi superiori affermando che aveva cercato di controllarlo, ma che Maradona aveva rifiutato. L'infermiera ha ammesso che il rapporto era falso e che è stato il suo superiore a chiederle di farlo.

Pelé a Che tempo che fa: “Maradona mi diceva di essere il migliore, ma io ci scherzavo su”. Marco Beltrami su Fanpage.it l'11/4/2021. Edson Arantes do Nascimento, meglio conosciuto come Pelé, è intervenuto nelle vesti di ospite di Fabio Fazio, in occasione della trasmissione Che tempo che fa. La leggenda del calcio, è apparso in buona forma dopo i problemi di salute che avevano tenuto in apprensione tutto il mondo del pallone. Un'occasione unica per il classe 1940 per rivivere i momenti più belli della sua carriera. Dai Mondiali, al rapporto con Maradona, dal feeling con la maglia numero 10, fino all'attualità e alla necessità di vaccinarsi. Direttamente dal Brasile, Pelé è intervenuto nella popolare trasmissione TV per rispondere alle domande di Fabio Fazio. Tornando indietro nel tempo, impossibile non sottolineare il legame indissolubile tra O Rei e la Seleçao: "I momenti più belli con il Brasile? Difficile rispondere. Il primo Mondiale, quello del 58, nessuno conosceva il Brasile e da quel momento è stato conosciuto ovunque. Ero giovane e sono stato un giovane campione. Oppure se è stato il terzo, l'ultimo a cui ho partecipato. Devo ringraziare Dio perché tutti i momenti sono stati importanti". Quello che è certo è che dopo di lui la maglia numero 10 ha avuto un peso specifico diverso nel mondo del calcio: "Il numero 10 è diventato un simbolo con me? Sì, quando scherzo dico sempre che il 10 una volta, quando un alunno andava bene a scuola non gli davamo molta importanza. Ma dopo il Mondiale e Pelé è diventato molto importante". E a proposito di numeri 10, non poteva mancare un ricordo di Diego Armando Maradona, con il quale si scherzava sul chi fosse il più forte: "A volte ci incontravamo anche se non avevamo un'amicizia intima. Scherzavamo l'uno con l'altro e lui mi diceva "dicono che sono migliore di te", e io rispondevo "tu sei anche migliore, ma io faccio gol di destro, di sinistro e di testa e tu no". Scherzavamo sempre. Sul fatto di chi fosse il migliore, ma per Dio siamo tutti uguali". Facendo un bilancio della sua carriera, Pelé ha voluto lanciare un messaggio ai più giovani: "Tutto quello che ho cercato di fare è stato per ringraziare gli altri. Molti erano tristi quando segnavo contro la loro squadra, quando segnava il Brasile. Ma tutti noi siamo esseri umani e dobbiamo rispettarci a vicenda". Ottimismo e fiducia nel futuro dunque da parte di Pelé che recentemente si è sottoposto alla vaccinazione anti-Covid: "Mi sono vaccinato. Grazie a Dio sto bene. Ho avuto la possibilità di passare il messaggio della vaccinazione a tutti. Non sappiamo il perché ma dobbiamo credere in Dio e sperare che tutto vada bene".

La città del Pibe de Oro. Mappa di Maradona a Napoli: tutti i luoghi di Diego da vedere in città. Antonio Lamorte su Il Riformista il 24 Marzo 2021. Maradona è stato per Napoli più di quello che John Lennon è stato per New York, poco meno di quello che Che Guevara è stato per Cuba. In sette anni tutte le dimensioni del campione e dell’uomo: una promessa, la rivelazione, il capo-popolo, la vittoria, la bella vita, la malavita, la droga, l’amore, un figlio di nome di Diego Jr, il culto, la repulsione, la fuga, l’addio. Quando è morto, all’improvviso, il 25 novembre 2020, i napoletani sono scesi in strada a realizzare e a piangere. Si sono incontrati nei luoghi dell’idolo – al murales nei Quartieri Spagnoli e allo Stadio San Paolo soprattutto –, dentro e lungo le tracce che una delle icone del ‘900 ha lasciato in città. Le scalette dello Stadio sono state il limes che il fenomeno e Napoli hanno attraversato insieme entrando in un’altra dimensione. Un warmhole. Il 5 luglio del 1984 erano in 70mila a Fuorigrotta. Mille lire il costo del biglietto. Mai vista un’accoglienza simile. In 58 anni di storia in azzurro erano arrivati Attila Sallustro, Antonio Vojak, Hasse Jeppson, Omar Sivori, José Altafini, Ruud Krol, Beppe Savoldi. Tutti ridotti a comparse: ci sarebbe stato solo un avanti e un dopo Diego. La città era quella del dopo terremoto del 23 novembre 1980, della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, e quindi della Nuova Famiglia, una decina d’anni prima l’epidemia di colera. Maradona fuggiva da Barcellona: come ha detto Daniel Gamper, filosofo e nipote del fondatore dei blaugrana Hans Gamper, la metropoli catalana “è stata un luogo di riposo per il ritorno allo specchio transatlantico di Buenos Aires: Napoli”. “Questo ragazzino con l’aria di scugnizzo napoletano …”, aveva preannunciato Giacomo Mazzocchi su Tuttosport nel giugno 1979, costò 13 miliardi e mezzo di lire. Uno scandalo, secondo molti, per un 24enne con la faccia da Mapuche e un’elasticità alla Nureyev, in una città a pezzi, in crisi. È diventato Capitano di Napoli, non del Napoli, ha scritto Gianni Mura. Due Scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa Italiana, una Coppa UEFA. “È la cosa più grande della mia vita”, disse a Galeazzi dopo il primo Scudetto nel 1987. L’anno prima aveva conquistato da solo o quasi il Mondiale in Messico con l’Argentina. Ha vinto a Napoli come sa vincere Napoli: con la sfrontatezza e con l’estro. Il San Paolo stesso è cambiato nel frattempo, e non solo per gli interventi in vista di Italia ’90: è diventato un luogo di festa, di spettacolo, dopo anni di delusioni. La città riscattata da uno scetticismo cronico, un popolo che si sfiziava e che si arricreava. Fabrizia Ramondino ha scritto che i gol di Maradona hanno avuto la funzione del miracolo di San Gennaro: una ricostruzione dell’identità. Un campione, anche nel senso di simbolo, di parte, un rappresentante della napoletanità. E quindi tutta la retorica sul riscatto, la rivincita sui club del Nord, del Sud del mondo sul Nord del mondo, fino alle parole prima della semifinale dei Mondiali del ’90 con l’Italia: “Dopo che per 364 giorni all’anno li chiamano terroni, appestati, terremotati. Dopo averli presi a schiaffi in tutte le maniere possibili, ora dicono che anche i napoletani sono italiani”. Scoppiò un caso. Alla fine il San Paolo tifò per l’Italia; molti napoletani tifarono comunque per lui, per Isso, el diez, dios, Dieco, Tièco, Tiechìto, e l’Argentina arrivò in finale, poi persa con la Germania. L’ultima partita a Fuorigrotta, con l’assist per il gol vittoria di Gianfranco Zola, il 17 marzo 1991, contro il Bari. Dopo il test anti-doping positivo alla cocaina, la squalifica di un anno e mezzo. E il numero 10 se ne tornò a Buenos Aires, senza il tempo per i napoletani di dirgli grazie. Senza quel congedo in molti rimasero ad aspettarlo, per anni. La mappa di Maradona a Napoli percorre i luoghi del mito. Quelli attraversati, quelli vissuti, le tracce in collezioni private e musei al momento improvvisati o poco più, i luoghi di una devozione sempre condita da ironia, e comunque additata da bacchettoni e moralisti. Il capello, la boccetta con le lacreme napulitane, le statuette dei maestri presepai, i murales – gli street artist si sono fatti prendere la mano, a partire dal primo nei Quartieri Spagnoli dopo il secondo Scudetto nel 1990, ragion per cui si invita a segnalare altri omaggi – si progettano statue e monumenti. Tutti effetti collaterali di una malia, una malatia; un patrimonio materiale e immateriale straordinario che il Comune ha annunciato di voler capitalizzare con il Maradona Experience. Chissà. Quando l’11 maggio del 1991 un gruppo di intellettuali si riunì per il convegno Te Diegum in onore del campione argentino, i soliti moralisti e bacchettoni si affrettarono ad additare la celebrazione di un pessimo esempio di vita; un mito che doveva essere mito in ogni dimensione, altrimenti che scandalo, e jamm. Questo mentre la città – forse non se ne accorgeva – ma usciva da sette anni che erano stati come vivere dove combatteva Muhammad Alì ogni domenica, dove Frida Kahlo esponeva puntualmente, dove Andy Warhol animava la sua Factory. Alla fine di otto ore di dibattito, quegli screanzati e irresponsabili di intellettuali si strinsero in lacrime guardando un video con le magie del Pibe de Oro al San Paolo – che giustamente oggi si chiama Stadio Diego Armando Maradona – sulle note di Ancora di Eduardo De Crescenzo. Se i napoletani hanno smesso di aspettarlo, non hanno smesso di cercarlo, di interrogarlo forse. E non solo i napoletani.

Le parole dell'autore dei comics. “Oliver Hutton era Maradona”, la rivelazione dell’autore di Holly e Benji. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Marzo 2021. Diego Armando Maradona ha ispirato il personaggio di Oliver Hutton, meglio conosciuto come Holly, il protagonista della più riuscita, emblematica, iconica serie di fumetti e cartoni animati dedicati al mondo del calcio della storia: Holly e Benji. La rivelazione da parte di Yōichi Takahashi, l’autore dei manga, che in un’intervista a Revista Libero, media spagnolo, ha confessato come “c’è molto di Maradona nella mia opera”. Capitan Tsubasa è stata tradotta come Holly e Benji. È diventata un cartone animato di grande successo: 128 episodi, la prima messa in onda nell’ottobre 1983, in Italia per la prima volta nel 1986. L’ispirazione dal Mondiale Under-20 del 1979 in Giappone, il primo torneo organizzato dalla FIFA in Asia. L’Argentina si laureò campione, Maradona fu eletto miglio giocatore della competizione. In Giappone non esisteva ancora un campionato professionistico. “Non riuscii ad essere allo stadio, ma ho seguito tutto il torneo in televisione. Conoscevo Maradona, avevo un’idea di quanto fosse incredibile, ma le sue prestazioni al Mondiale mi sconvolsero. Aveva un’aura travolgente – ha detto il mangaka – Quello che ha fatto Maradona ha avuto un grande impatto su Holly e Benji. Ho perfino creato Juan Diaz, un genio argentino del calcio. Oliver Hutton era proprio Maradona. Nonostante Holly sia stato sempre più serio di Maradona”. “Era molto speciale per me. Abbiamo la stessa età, perciò la sua morte mi ha sconvolto. Credo che ci saranno sempre grandi stelle nel calcio, ma non credo che ci sarà qualcuna capace di ispirarmi come ha fatto lui”. El Pibe de Oro ha giocato tre volte negli anni ’80 in Giappone: con il Boca Juniors nel 1982, con una squadra di stelle sudamericane nel 1987, con il Napoli nel 1988 per un’amichevole contro la nazionale locale. Apparizioni che fecero innamorare i giapponesi. “Maradona si è espresso a livello internazionale per la prima volta proprio qui. Ha rappresentato una rivelazione per tutto il movimento calcistico e per tutti i tifosi. Non avevamo un campionato professionistico ma abbiamo goduto del meglio”, ha raccontato Yoshihiro Iwamoto, giornalista sportivo. Alla fine dei mondiali in Italia del 1990 il PJM Futures, attuale Sagan Tosu, provò a portarlo in Giappone per il lancio del torneo professionistico, la J. League. Stesso intento perseguito senza successo dal Nagoya Grampus. Al Sagan Tosu arrivarono però Hugo Maradona, fratello del Pibe, e Sergio Batista, campione del mondo con l’Argentina nel 1986. A Maradona, e all’Argentina, fu negato l’ingresso nel Paese per la Kirin Cup nel 1994, per i suoi precedenti con la Giustizia per l’uso di stupefacenti, e quindi nel 2000 quando il Boca Juniors vinse a Tokyo la finale di Coppa Intercontinentale con il Real Madrid. Ai Mondiali del 2002, grazie a un intervento del governo, face da commentatore e da ambasciatore del Turismo e dello Sport.

Il fervore rivoluzionario di Maradona foraggiato da bonifici e lingotti d'oro. Molti interessi dietro la lealtà militante di Diego per la dittatura di Caracas. Apriva mercati da lobbista per una società italiana. Paolo Manzo - Sab, 27/03/2021 - su Il Giornale. San Paolo. Chávez e Maduro hanno sempre riconosciuto Maradona come un amico «rivoluzionario», usandolo come testimonial per diffondere nel mondo le bontà di un modello, quello del socialismo del secolo XXI, che in realtà ha distrutto il Venezuela. Del resto i tatuaggi del Che e Fidel calzavano a pennello per giustificare la retorica castrochavista di Maradona, che arrivò persino a dire che avrebbe indossato la divisa da soldato per difendere la rivoluzione bolivariana da una fantomatica invasione yankee. Occupazione tanto sbandierata dalla dittatura (e da molti media) quanto impensabile. Viene però fuori adesso che tanto «fervore rivoluzionario» del Pibe de Oro era dovuto, anche o soprattutto fate vobis, dai soldi che negli ultimi anni della sua esistenza gli arrivavano proprio dal Venezuela di Maduro. L'inchiesta della magistratura argentina che indaga sulla morte e sul patrimonio dell'eredità del Diez infatti conferma come dietro la lealtà, militante e militaresca, di Diego nei confronti della dittatura di Caracas ci fossero anche tanti soldi e, lo si è saputo ieri grazie al portale Infobae, anche dei lingotti d'oro. In uno degli audio resi noti nelle ultime ore a Buenos Aires, infatti, si sente l'avvocato Matías Morla che mentre parla con Maradona lo rassicura, garantendogli che il suo oro era pronto per essere ritirato quando fosse tornato in Venezuela a fare uno dei suoi soliti show pro dittatura. L'ultimo fu tristissimo, all'inizio dello scorso anno, poco prima dello scoppio della pandemia di Covid19. «Là stanno effettuando pagamenti in oro perché hanno tutti i conti bloccati ma a Dio piacendo risolveremo i contratti, in modo che tutto rimanga lo stesso», si sente dire dall'avvocato di Maradona in uno degli audio diffusi che risalgono al marzo 2019, quando Diego era ancora Direttore Tecnico della squadra messicana di Sinaloa, città nota più che per il calcio per l'omonimo cartello narco. Poi Morla spiega al Diez: «La questione del blocco è molto complicata e loro pagheranno con l'oro, poi ti dirò di persona qual è lo schema». Maradona, che da Maduro aveva già incassato svariati milioni di dollari tramite la tv Telesur - canale di regime dove Diego aveva un programma dal titolo emblematico, «De Zurda», che in italiano significa «Di Sinistra» - avrebbe incassato quest'oro perché, rivela Infobae, operava anche come lobbista per una società italiana. L'azienda, rivela il quotidiano argentino Clarin, è la barese Casillo, e aveva già legami con Maradona sin dal suo soggiorno a Dubai. Solo da questa azienda, l'ex giocatore recentemente scomparso riceveva 300.000 dollari al mese. In cambio, il suo compito era di «aprire i mercati» nei paesi in cui Diego poteva avere un'entrata forte, come Cuba, dove El Diez ha altre proprietà oggetto dell'eredità, Nicaragua e Venezuela. Il debito del regime di Maduro con l'azienda Casillo, dedita alla produzione agricola, supera oggi i 73 milioni di dollari. Dietro il sostegno di Maradona alla dittatura di Maduro c'erano insomma anche i lingotti d'oro del regime venezuelano e un fiume di dollari. Che Diego riceveva da un'azienda che lo aveva ingaggiato «anche perché convincesse Maduro a pagare i suoi debiti scriveva ieri il PanAmPost. O forse Diego davvero era testimonial della revolución chavista solo perché stava dalla parte dei poveri, che il modello del socialismo di Maduro ha decuplicato? Ai posteri l'ardua sentenza.

Da corrieredellosport.it l'11 marzo 2021. Il lungo braccio di ferro tra Diego Armando Maradona e il fisco italiano è finalmente terminato. La Suprema Corte, con un verdetto pubblicato oggi e discusso in udienza a porte chiuse lo scorso 20 ottobre, ha infatti decretato la vittoria post mortem in Cassazione per l'argentino, scomparso lo scorso 25 novembre. Secondo la sentenza, il Pibe de Oro ha diritto al condono concesso al Napoli Calcio e convalidato dalla Commissione tributaria centrale di Napoli nel 2013. Grazie a questa decisione degli 'ermellini' si potrà dunque chiudere la gran parte del contenzioso fiscale di Maradona, valore stimato di circa 40mln di euro, e adesso la Commissione regionale della Campania dovrà valutare, nell'interesse degli eredi, se ci sono pendenze non condonabili.

Maradona, i motivi della lite con il fisco italiano. Per quanto riguarda i motivi della diatriba legale tra le parti, il fisco ha sostenuto che il Napoli Calcio aveva pagato per diversi anni compensi al nero a Maradona, Careca e Alemao, per svariati miliardi di lire, e gli importi sottratti all'erario erano stati contestati con sei avvisi di accertamento emessi a carico del Pibe de Oro, e altri sei per gli altri due calciatori brasiliani: quattro per Careca e due per Alemao. Secondo l'Agenzia delle Entrate, "il Napoli Calcio aveva pagato 'in nero' parte dei compensi dei tre giocatori, utilizzando fittiziamente alcune società estere, che si occupavano della gestione dei diritti pubblicitari degli atleti; poichè la società di calcio aveva acquistato una cospicua percentuale di tali diritti, ma nel corso degli anni non aveva mai ricevuto alcuna somma dalle società che si occupavano di diritti pubbilcitari, l'Agenzia aveva ritenuto che l'acquisto dei diritti, in realtà, celasse, dei pagamenti in nero di parte dei compensi per le prestazioni dei calciatori". Tutti quanti provvedevano a impugnare le cartelle fiscali, eccetto Maradona al quale rocambolescamente il fisco italiano riuscì a recapitare tre avvisi di mora nel 1993 tramite il Consolato di Siviglia, nel 1998 presso l'aeroporto di Milano Malpensa e l'ultimo nel 2001. Questo fu l'unico avviso contestato dai legali del Diez. Dopo alterne vicende, alla fine, nel 2004 il Napoli Calcio fallisce e la curatela della società - nonostante i giudici tributari nel 1994 avessero fatto marcia indietro ritenendo non provato l'accordo trilaterale tra calciatori, società straniere e il Napoli - decide di chiudere tutta la partita e voltare pagina e aderisce al condono fiscale pagando il 10% delle somme contestate. Anche Maradona chiede in seguito di aderire al condono concesso al Napoli, ma nel 2014 la sua richiesta viene respinta data la lunga 'latitanza' davanti al fisco, si estinguono invece le pendenze di Alemao e Careca che avevano presentato dichiarazioni dei redditi integrative. Adesso invece gli 'ermellini' hanno stabilito che "la definizione agevolata cui ha aderito la società Calcio Napoli può allora estendersi al calciatore Maradona" per effetto della "solidarietà passiva". "Se si negasse a Maradona la possibilità di intervenire nel giudizio dinanzi alla Commissione tributaria centrale, per poter beneficiare del condono cui ha aderito la società, vi sarebbe una palese assenza di tutela "effettiva" del contribuente, che non avrebbe altra possibilità di far valere le proprie ragioni in altra sede, con il verificarsi di una vera e propria "denegata ingiustizia"". Ora tutto il fascicolo torna nelle mani della Commissione regionale della Campania che dovrà verificare "una volta esteso il condono" anche a Maradona "la sua posizione tributaria per il debito residuo nei confronti dell'Agenzia delle Entrate". Calcolando che il primo avviso risale al 1985, sono quasi 40 anni che Maradona continua a dribblare tasse e cartelle.

La gioia del presidente Ferlaino. "È stata una cattiveria non so di chi, o forse invidia continuare negli anni con questa storia del fisco contro Maradona, visto che sia Careca che Alemao sono stati assolti tempo fa". Queste le parole dell'ex presidente del Napoli Corrado Ferlaino, che continua: "Maradona non ha potuto firmare quelle carte perché non era in buone condizioni di salute ed era lontano dall'Italia. È una notizia che può apparire inutile, vista la scomparsa recente di Diego, ma che mi rende felice. Si fa giustizia e si ristabilisce così una situazione che ha fatto molto soffrire Maradona".

Renica: "Chi ha parlato male di Maradona ora si dovrebbe tappare la bocca". Sulla vicenda è intervenuto anche l'ex compagno Alessandro Renica che, salvo il primo anno, ha giocato con Maradona per tutta la sua avventura partenopea: dal 1985 al 1991. "Stare ancora dietro dopo 30 anni a queste domande di Maradona legate al fisco non se ne poteva più. Onestamente visto il disinteresse di Diego per il denaro, per tutti noi era innocente a prescindere. Non lo abbiamo mai considerato colpevole. Al massimo avrebbe potuto essere ingenuo, ma chi lo ha conosciuto sa bene che persona onesta era Diego, mai attaccato al denaro. Almeno adesso si tapperanno la bocca le persone cattive che approfittano e hanno approfittato negli anni per parlare male di persone per bene come Maradona".

Le parole dopo la sentenza. “Maradona ha vinto in Cassazione, ora deve essere risarcito”, parla l’avvocato Pisani. Redazione su Il Riformista il 15 Marzo 2021. Maradona è riuscito a dimostrare di non essere mai stato un evasore fiscale troppo tardi, solo tre mesi dopo la sua morte. La sezione tributaria della Corte di Cassazione gli ha dato ragione pochi giorni fa, mettendo fine a una storia giudiziaria iniziata nel 1989 dopo un accertamento fiscale nei confronti del Napoli e dei suoi tre giocatori di punta, Careca, Alemao e – appunto – il Pibe. L’asso argentino era accusato dall’Agenzia delle entrate di aver evaso tasse per tre milioni di euro, a cui negli anni si erano aggiunti altri 36 milioni e mezzo fra interessi, spese e sanzioni. La società Napoli Calcio, Careca e Alemao li impugnarono subito, Maradona invece no. Nel 1994 la Commissione tributaria, in secondo grado, accolse l’appello della società e di Careca e Alemao, stabilendo che non ci fossero irregolarità fiscali. La società pagò un condono, che chiuse la partita anche per gli altri due calciatori, ad eccezione del campione argentino. “Quel provvedimento andava esteso anche a Maradona”, dice l’avvocato del Pibe de Oro Angelo Pisani. “La cassazione ha messo fine a una storia trentennale – aggiunge – stabilendo che non è mai stato un evasore. Maradona continua a fare gol e fa vincere la verità, che noi abbiamo sempre conosciuto. Adesso dovrà essere risarcito per tutte le strumentalizzazioni che ha subito in questi anni”. “Diego e io – prosegue l’avvocato – dedichiamo questa vittoria ai tanti contribuenti vessati e ai cittadini che col fisco hanno perso la macchina, la casa. Persone che hanno sofferto per ingiustizie e violazioni. A loro va il nostro pensiero e il nostro affetto, la dedica di questa vittoria”. Pisani punta a una completa riabilitazione mediatica del suo assistito, e annuncia ricorsi: “La burocrazia risponderà dei danni che ha fatto, Maradona è stato strumentalizzato, usato solo perché aveva un nome altisonante. Siamo orgogliosi di aver tifato per la verità, continueremo a difendere le vittime innocenti di questo sistema”, conclude.

Dopo la morte di Maradona c'è il via libera al condono fiscale. La Suprema Corte ha stabilito che l'ex Pibe de Oro poteva beneficiare del condono fiscale per i 40 milioni pretesi dal fisco italiano. Antonio Prisco - Gio, 11/03/2021 - su Il Giornale. Vittoria post mortem in Cassazione per Diego Armando Maradona: la Suprema Corte, con un verdetto pubblicato oggi e discusso in udienza a porte chiuse lo scorso 20 ottobre, ha stabilito che l'ex Pibe de Oro - morto il 25 novembre 2020 - ha diritto al condono concesso al Napoli Calcio e convalidato dalla Commissione tributaria centrale di Napoli nel 2013. La Cassazione ha accolto il ricorso presentato nel 2014 da Maradona e, con un'ordinanza depositata giovedì 11 marzo, ha disposto un nuovo esame della controversia fiscale, relativa a circa 40 milioni di euro, e ha stabilito che l'argentino poteva beneficiare del condono fiscale. La Camera di Consiglio si era riunita lo scorso 20 ottobre, dunque circa un mese prima della morte di Maradona. Grazie a questa decisione si potrà chiudere la gran parte del contenzioso fiscale con la Commissione regionale della Campania chiamata a valutare, nell'interesse degli eredi, se ci sono pendenze non condonabili. "La Cassazione ha confermato quello che abbiamo sempre detto: Maradona non è mai stato un evasore fiscale" commenta soddisfatto l'avvocato Angelo Pisani, difensore di Maradona nella lunga vicenda giudiziaria relativa a una presunta evasione fiscale legata al pagamento degli stipendi della società partenopea. "L'evasione fiscale - sottolinea Pisani - non è mai esistita, così come è stato per Careca, Alemao e per il Calcio Napoli, che era il datore di lavoro".

Il caso. Un'annosa vicenda quella tra il fisco italiano e Maradona, debitore per una somma, finita per superare i 40 milioni di euro, dai circa 15 miliardi iniziali. Rapporti burrascosi ed episodi, di cui Diego si dichiarò sempre vittima, destinati a lasciare il segno come il sequestro del Rolex e dell'orecchino avvenuti nel 2006 e nel 2009 al suo rientro in Italia. La querelle ebbe inizio addirittura negli anni '80 quando era già consuetudine per i club, al fine di garantire uno stipendio netto ai calciatori versare parte degli emolumenti a società di sponsoring offshore per lo sfruttamento dei diritti d’immagine – come la Diego Armando Maradona Productions Establishment di Vaduz – che poi li riversavano agli atleti. Questa prassi solleticò le indagine della Procura, con l'ipotesi che queste operazioni fossero un’interposizione fittizia di persona per non pagare Irpef, ritenute alla fonte e contributi sociali sugli emolumenti dirottati verso le società offshore. Tutto terminò però con una richiesta di archiviazione. In parallelo partì una verifica fiscale che portò l’Agenzia delle Entrate ad emettere nei confronti di Maradona, dei suoi compagni di squadra Careca ed Alemao e della Ssc Napoli, una serie di avvisi di accertamento relativi al periodo 1985–1990. Ed è proprio da questo momento che nascono per il campione i problemi con il fisco italiano.

Se la vicenda si chiuse in maniera indolore nel 1994 per Careca, Alemao e per la società di Corrado Ferlaino con l'accoglimento dei ricorsi da parte della Commissione tributaria di Napoli così non fu per Maradona. Gli avvisi di accertamento notificati a Diego e mai impugnati divennero definitivi per mancata opposizione e quindi la pretesa del fisco proseguì, attraverso l’iscrizione a ruolo delle somme pretese e la notifica degli avvisi di mora. Resta famoso quello da 39 milioni di euro notificato a Maradona nell'ottobre 2013 a Milano in hotel. La battaglia legale è poi proseguita in questi anni tra rivendicazioni e carte bollate fino alla pronuncia di oggi, che accoglie il ricorso presentato da Maradona nel 2014 e chiude gran parte del contenzioso fiscale. Ora la Commissione regionale della Campania dovrà valutare, nell'interesse degli eredi, se ci sono delle pendenze non condonabili.

Maradona batte il fisco. Maradona scagionato: non è un evasore. Dopo 30 anni finisce la persecuzione ma lui è morto. Viviana Lanza su il Riformista il 12 Marzo 2021. Se fosse stato ancora in vita avrebbe accolto la decisione della Cassazione con uno dei suoi sorrisi più grandi, avrebbe abbracciato il suo avvocato Angelo Pisani e gioito per una delle vittorie che considerava più importanti. Diego Armando Maradona teneva a dimostrare al mondo di non essere mai stato un evasore fiscale e la sentenza emessa ieri dalla sezione tributaria della Corte di Cassazione gli dà ragione. Peccato che sia arrivata dopo un iter giudiziario durato trent’anni e a tre mesi dalla morte del campione. «Per Diego la battaglia contro il Fisco è stata molto più dolorosa di quella contro la droga», racconta l’avvocato Pisani che, insieme all’avvocato Angelo Scala, ha difeso Maradona in questa storica battaglia contro il fisco italiano. Il Pibe de oro era accusato dall’Agenzia delle entrate di aver evaso tasse per tre milioni di euro, a cui negli anni si erano aggiunti altri 36 milioni e mezzo fra interessi, spese e sanzioni. Anno 1989: la storia giudiziaria comincia dopo un accertamento fiscale fatto al club azzurro e ai suoi tre giocatori di punta. Il Napoli ha appena vinto la Coppa Uefa e l’Agenzia delle entrate arriva a sospettare che la società abbia pagato “in nero” parte dei compensi di Careca, Alemao e Maradona utilizzando fittiziamente alcune società estere deputate alla gestione dei diritti pubblicitari degli atleti. Scattano sei avvisi di accertamento. La società Napoli Calcio, Careca e Alemao li impugnano subito, Maradona invece no. In quel periodo il Pibe sta male, è impegnato a superare i suoi problemi con la droga e impugnerà solo nel 2001 l’unico atto di cui viene a conoscenza. Nel frattempo, però, ci sono novità sulle posizioni degli altri: nel 1994 la Commissione tributaria, in secondo grado, accoglie l’appello della società e di Careca e Alemao e stabilisce che non ci furono irregolarità fiscali. Mentre l’Agenzia delle entrate impugna la decisione dinanzi alla Commissione centrale, la società Napoli Calcio fallisce e la curatela, nonostante l’intervenuto annullamento dei sei avvisi di accertamento, opta per la definizione delle liti fiscali pagando il 10% del valore complessivo dell’obbligazione tributaria. Si estingue così il giudizio relativo alla società sportiva, a Careca e ad Alemao. Non quello relativo a Maradona. A quel punto il Pibe chiede alla Commissione centrale tributaria l’estensione in suo favore degli effetti del condono concesso alla società e agli altri due calciatori ma, con sentenza del 2013, la Commissione rigetta la richiesta. Comincia così la lunga battaglia giudiziaria di Diego Armando Maradona che si fa assistere dagli avvocati Pisani e Scala. Sarà una battaglia giudiziaria lunghissima, combattuta a suon di ricorsi e impugnazioni. Maradona è costretto a difendersi non solo dalle accuse dell’Agenzia delle Entrate ma anche dalla gogna giustizialista. Muore il 25 novembre 2020, prima di poter assistere alla lettura dell’ordinanza con cui la Cassazione mette un punto al suo calvario giudiziario, stabilendo la sua innocenza. «La Corte ha dichiarato che Maradona non era debitore del fisco italiano avendo diritto all’estensione del condono effettuato dal Napoli Calcio circa 20 anni fa – afferma l’avvocato Pisani – È una sentenza che finalmente restituisce onore e dignità a Diego, il quale mai più potrà essere etichettato come evasore fiscale». Accanto alla soddisfazione per il risultato ottenuto in sede giudiziaria, Pisani non può non esprimere la profonda tristezza per l’assenza di Diego: «Ora se la starà ridendo perché, ancora una volta, aveva combattuto per la verità – conclude Pisani – Dispiace solo che, in tutti questi anni, gli uffici dell’amministrazione finanziaria non abbiano mai voluto ascoltare le ragioni della difesa di Maradona, negando ogni istanza in autotutela per un innocente perseguitato e strumentalizzato».

Tommaso Lorenzini per “Libero quotidiano” il 12 marzo 2021. Chissà se le migliaia di argentini che in queste ore hanno manifestato nelle strade di Buenos Aires, gridando «Verità e giustizia per Maradona» abbiano mai considerato il fatto che, se tutta questa mobilitazione di amore/ossessione ci fosse stata nei momenti opportuni, oggi Diego avrebbe magari potuto essere ancora vivo, dopo essere stato abbandonato al suo destino. Diego Armando Maradona è stato un campione del mondo nel 1986 e vicecampione del mondo nel 1990 con la nazionale argentina Operato all' inizio di novembre per un ematoma alla testa, intervento dal quale sembrava essersi ripreso con tanto di video sui social, il campione del mondo a Messico 1986 è morto a soli 60 anni poche settimane dopo, il 25 novembre, a causa di un «edema polmonare acuto secondario e insufficienza cardiaca cronica esacerbata». Aveva lottato come un leone, Maradona, per andarsene da dove era nato, una baracca di Villa Fiorito dove «l' acqua corrente era quella che entrava dal tetto»; ha chiuso gli occhi in un' altra catapecchia, a San Andres di Tigre, altro sobborgo di Baires, in una stanza con il bagno chimico e il materasso per terra, senza alcuna assistenza per un paziente non autosufficiente. Ma Diego «non è morto, l' hanno ucciso», accusano gli organizzatori della marcia a cui hanno partecipato l' ex moglie, Claudia Villafane, e due delle sue figlie Dalma e Gianinna, che quando sono arrivate all' obelisco di Piazza della Repubblica, storico sito di ritrovi pallonari, hanno dovuto rifugiarsi in un hotel nei paraggi per sfuggire all' assalto parossistico dei circa 3000 tifosi, quasi tutti con mascherina epperò belli ammassati: ma questo non fa più notizia. Un delirio, fra petardi, mortaretti, dichiarazioni di fede per «un uomo che non era solo un calciatore, ma ha dato tanto al popolo argentino», esclamano. Mentre l' inchiesta caldeggiata dal ministero della Giustizia, va avanti, intorno a Diego si continua a litigare. Avevano iniziato a farlo col cadavere ancora caldo (vedi le foto del corpo scattate dall' addetto alle pompe funebri, licenziato e minacciato di morte) e da allora ogni giorno è buono per un' indiscrezione, un' uscita sopra le righe, come in fondo lo è stata tutta la vita di Diego che andrà avanti eterna, come una telenovela, struggente come un tango di Gardel.  Al momento sono sette le persone sotto inchiesta per omicidio colposo: Leopoldo Luque, ultimo medico personale di Diego; la psichiatra Augustina Cosachov; lo psicologo Carlos Diaz, gli infermieri Dahiana Madrid e Ricardo Almiron; infine Nancy Forlini e Mariano Perroni, la prima dirigente della compagnia assicurativa che si occupava dell' assistenza medica domiciliare dell' ex capitano del Napoli, il secondo coordinatore degli infermieri che assistevano Maradona nella casa di Tigre. In più, la figlia Dalma se l' è presa anche con Matias Morla, legale di Maradona, dopo la diffusione di un audio in cui sosteneva il dottor Luque: «Tu e tutti quelli che lo difendono... Se la verità trionfa sempre, voi due andrete in prigione. Non mi fermerò». Dalma e Giannina sono poi impegnate sul fronte dell' eredità, inizialmente quantificata in centomila euro, poi in sole tre auto, poi in 75 milioni di euro. Mistero. Il 6 marzo, il Tribunale Civile di La Plata ha stabilito chi sono i cinque figli (e non 11, come contati dai media argentini o auto-dichiaratisi) legalmente riconosciuti che hanno diritto alla successione: Dalma (32 anni) e Gianinna (30 anni), figlie del matrimonio con Claudia; Diego Junior (34 anni), nato dalla relazione con Cristiana Sinagra ai tempi del Napoli; Jana (23 anni), figlia di Valeria Sabalain; Diego Fernando, 7 anni, avuto da Verónica Ojeda. È stata quest' ultima a condividere l' atto sui social con un messaggio a corredo: «Ora Dieguito ha diritto di avere ciò che gli è stato rubato». Tanto per spiegare il clima disteso intorno al defunto Diego sr., visto che anche il già citato Morla ha chiesto la sua parte, incassando da Dalma e Giannina la richiesta di spiegazioni in merito alla pletora di gente che viveva a carico di Maradona negli ultimi anni. Tra di loro anche la sorella e il cognato dello stesso Morla. Non una novità.  Intanto da Napoli arrivano notizie. Il Comune ha indetto un concorso per la realizzazione di una statua del Pibe da piazzare davanti allo stadio San Paolo a lui intitolato da poco (peccato che nella giuria, accanto a esperti, agli sportivi Bruscolotti e Oliva, e Diego jr, sia finito anche un ultrà indagato: la Digos ha aperto un' indagine, l' assessore alla cultura Eleonora De Majo si è dimessa), mentre la Cassazione, con un verdetto pubblicato ieri e discusso in udienza a porte chiuse lo scorso 20 ottobre (un mese prima della morte di Diego), ha stabilito che Maradona ha diritto al condono chiudendo così l' annosa questione di circa 40 milioni di evasione fiscale. L' ultimo colpo della Mano de Dios.

Tutte le bugie dopo la morte. Maradona, perizia raccapricciante: poteva essere salvato, controlli medici superficiali. Giovanni Pisano su Il Riformista il 27 Aprile 2021. Maradona e il medico che lo ha operato al cervello Leopoldo Luque. Diego Armando Maradona poteva essere salvato se solo avesse ricevuto cure adeguate dai medici che lo hanno seguito. E’ quanto emerge dalla perizia medica chiesta dalla dai pm Patricio Ferrari, Cosme Iribarren e John Broyad per chiarire i dubbi lasciati dall’autopsia dopo la morte dell’ex capitano del Napoli e dell’Argentina, deceduto lo scorso 25 novembre. A rivelarlo il sito argentino TN Noticias, entrato in possesso della documentazione prodotta dai medici forensi che hanno partecipato alla Consulta Medica. Maradona soffriva di insufficienza cardiaca, renale e di cirrosi. I medici hanno inoltre confermato che la morte è stata causata proprio dalle malattie cardiache preesistenti. Nessuno si è accorto che il suo cuore non funzionasse a dovere perché, secondo la perizia, il campione argentino non aveva controlli medici adeguati. Dalla perizia si evince anche che Diego è morto tra le 4 e le 6 della mattina del 25 novembre mentre dormiva. Anche questi dati sono di vitale importanza. Il paramedico della compagnia Más Vida, arrivato con la prima ambulanza al lotto 45 di San Andrés de Tigre, aveva certificato la morte intorno alle 13.15, dopo 45 minuti in cui hanno cercato di rianimarlo, sebbene la mascella era già rigida e il suo corpo freddo. La data del decesso contraddice quindi le prime affermazioni che indicavano che Maradona si fosse alzato la mattina e rimette in discussione, soprattutto, la dichiarazione dell’infermiera Daiana Madrid. L’assistente, uno dei 7 imputati, deve ora chiarire perché ha mentito e rivelare se ha eseguito degli ordini. La perizia complica ulteriormente la posizione anche dei medici curanti di Maradona, Leopoldo Luque e Agustina Cosachov, come si definiscono nel fascicolo. Nessuno di loro ha notato i sintomi o li ha minimizzati.

Da corrieredellosport.it il 28 aprile 2021. "Imperizia" e "Segnali ignorati". Questo il risultato della perizia sulla morte di Diego Armando Maradona (avvenuta il 25 novembre scorso) che verrà consegnato ai pm Patricio Ferrari, Cosme Iribarren e John Broyad) e sarà reso pubblico il prossimo 3 maggio.

Cause e ora del decesso.  Ad anticipare alcuni passaggi del rapporto è il sito argentino 'TN Noticias', entrato in possesso della documentazione prodotta dai medici forensi che hanno partecipato alla Consulta Medica. Nelle loro conclusioni i periti spiegano che Maradona soffriva di insufficienza cardiaca, renale e di cirrosi e confermano che la morte è stata causata proprio dalle malattie cardiache preesistenti. "Nessuno ha notato i sintomi o li ha minimizzati" si afferma poi nel rapporto che complica così ulteriormente la posizione di Leopoldo Luque e Agustina Cosacho, che nel fascicolo si definiscono i "medici curanti" del 'Diez' e per i quali, secondo quanto rivelato invece da 'Pagina 12', si ipotizza l'accusa di omicidio colposo, che prevede una pena da otto a 25 anni di reclusione. "I suoi occhi sono gonfi come un seno", aveva riferito a Luque il 22 novembre, tre giorni prima del decesso, una delle persone che accudiva Maradona. Il gonfiore era il segnale che Maradona era in una condizione di ritenzione idrica dovuta all'insufficienza cardiaca, sottovalutata dai medici che lo avevano in cura, che ne ha causato poi la morte. Nessuno si è accorto che il suo cuore non funzionasse a dovere perché, secondo la perizia, l'ex capitano dell'Argentina "non aveva controlli medici adeguati". Dalla perizia si evince inoltre che Diego è morto tra le 4.00 e le 6.00 della mattina del 25 novembre mentre dormiva, in contraddizione con le prime affermazioni secondo cui Maradona si era alzato al mattino. Un dato che rimette così in discussione la dichiarazione dell'infermiera Daiana Madrid, tra i 7 imputati, che sarà ora chiamata a chiarire perché ha mentito e se è stata spinta a farlo.

Errori e omissioni. Nella relazione - si legge ancora su 'Pagina 12' che ne ha a sua volta fornito alcuni passaggi - si evidenzierebbe che la morte di Maradona era evitabile e che c'è stata negligenza. In primis l'argentino, dopo l'intervento alla testa per l'asportazione di un ematoma subdurale, "è stato portato in un posto inappropriato quando avrebbe dovuto essere ricoverato sotto controllo. Nella casa di Tigre non c'era nemmeno un defibrillatore per un'emergenza cardiaca". Inoltre gli "è stato somministrato un farmaco controindicato per i pazienti con disturbi cardiaci, un antidepressivo che non viene somministrato ai pazienti con aritmia e non sono state prese misure elementari". Nella relazione si punta poi il dito sulle omissioni dei medici come quella relativa agli avvertimenti sulla ritenzione di liquidi, per la quale "non è stato fatto nulla. Maradona trascorreva intere giornate senza alzarsi e non ci fu reazione di alcun genere a questa anomalia". L'imputazione per Luque e Cosachov pare scontata, ma i due potrebbero non essere gli unici. Non è chiaro se l'accusa sarà anche per lo psicologo Carlos Díaz, che ha preso decisioni, e sembra probabile che anche gli infermieri saranno accusati ma di reati di livello molto inferiore a quello di omicidio. I pubblici ministeri stanno valutando la situazione dell'avvocato e rappresentante Matías Morla, perché ritengono che avesse un certo controllo della situazione, e avesse scelto i medici per l'argentino.

Adriano Seu per gazzetta.it il 15 aprile 2021. Altre ombre su Leopoldo Luque e Agustina Cosachov. A complicare le cose per i due specialisti al centro delle indagini sulla morte di Diego Armando Maradona è una nuova registrazione (una delle oltre 1.400 tra sms e audio al vaglio degli inquirenti) da cui emerge un inquietante episodio risalente a metà novembre, pochi giorni prima del decesso del Diez. Nell'occasione, attraverso una conversazione tra Gianinna Maradona e Nancy Forlini, la responsabile del personale sanitario che assisteva il Diez durante il ricovero domiciliare di Benavidez, emerge la superficialità del neurochirurgo e della psicologa nel gestire un malore dell'ex Pibe de Oro. "Dimmi cosa devo fare, perché gli infermieri hanno già chiamato l'ambulanza a causa di quegli attacchi di vomito. Ma subito, perché l'ambulanza sta partendo". Così Forlini incalza la figlia del Diez contattandola su WhatsApp dopo un malore accusato dall'argentino. Forlini aggiunge anche che "sarebbe il caso di fargli dare un'occhiata. Però dimmi tu cosa fare". Gianinna risponde pochi istanti dopo, riferendo le istruzioni e le rassicurazioni ricevute. "Tranquilla Nancy, ho consultato Luque e Cosachov e mi hanno detto che è tutto risolto, che mio padre già dorme e sta riposando senza problemi. Dicono di aspettare fino a domani, che adesso non c'è bisogno di medici". A Forlini non resta dunque che richiamare l'ambulanza, pur mettendo le cose chiaro. Giusto a scanso di equivoci, forse perché il timore di possibili, future grane già si stava facendo strada. "Ok, se ritenete più opportuno aspettare domani, annullo la richiesta d'intervento e richiamo l'ambulanza. La nostra indicazione era di farla intervenire per stare più tranquilli, ma fa niente. Se non volete, non possiamo imporci", taglia corto Forlini. La rilevanza dell'episodio in questione sarà valutata dalla commissione medica nominata dalla magistratura proprio per chiarire se ci si siano state negligenze nel gestire il complicato quadro clinico del Diez. Nel frattempo, sottolineano fonti giudiziarie, emerge l'evidente mancanza di coordinamento e di comunicazione tra il personale sanitario che assisteva Maradona (quasi) 24 ore su 24 e la coppia Luque-Cosachov, a cui spettava l'ultima parola su ogni decisione relativa alle cure e al trattamento da riservare al Diez.

Da corrieredellosport.it il 25 marzo 2021. "Mi succhia il c..." . Questo è uno degli insulti che il neurochirurgo Leopoldo Luque avrebbe rivolto a una delle figlie di Maradona tramite nota vocale nel corso di una chat WhatsApp. Come rivelato dal programma "A dos voices" del canale TN, sarebbero infatti emerse nuove conversazioni e audio che coinvolgono il medico e Víctor Stinfale, che era l'avvocato di Maradona e da quanto si deduce era ancora legato all'ambiente dell'ex calciatore. Nel corso del programma è stato trasmesso un discorso tra Luque e Stinfale, risalente all'11 novembre 2020, due settimane prima della morte di Maradona. Stinfale: “Occhio che la guerra è cominciata. Bomba".  Luque risponde, apparentemente alludendo a Dalma o Gianinna: “Mi succhia il c.... Devono farmi un monumento. Voglio che facciamo un patto. Diego smette di bere e ricevono solo l'amore del padre. Continuo a lavorare. Lascia che le grassone continuino a parlare. Dimentica papà. "Applausi di Stinfale. Poi la conversazione, da testuale, prosegue tramite messaggi audio. Stinfale: "È meglio per te, amico mio. Le grassone sono idiote. Tutto funziona per te. Cosa ho detto? Chi ti porta una cover di Clarín con Maradona? Hai sentito? Clarín con Maradona. Cover di Clarín con Maradona. Lo sapevi?. Il discorso poi prosegue e ad un certo punto Stinfale sembra suggerire a Luque come comportarsi: "Ora devi essere più tecnico. Adesso non sei più così amico di Diego. Ora cominci ad usare un linguaggio come quello di oggi ma meno tecnico (...) Adesso devi fare il dottore perché così sei uscito in Italia, su tutti i giornali ..."

Manifestazioni in Argentina: «Maradona è stato ucciso, giustizia per Diego». Ilaria Minucci su Notizie.it l'11/03/2021. In Argentina, sono state organizzate manifestazioni che invocano giustizia per Diego Armando Maradona, la cui scomparsa viene considerata un’uccisione. La prematura scomparsa di Diego Armando Maradona, il calciatore più talentuoso di tutti i tempi, ha sconvolto l’opinione pubblica argentina e internazionale. Per questo motivo, in Argentina, si sono susseguite alcune manifestazioni attraverso le quali la popolazione ha chiesto che vengano chiarite le dinamiche della morte del Pibe de Oro.

Morte di Maradona, le indagini della magistratura argentina. In seguito al decesso di Maradona, sono stati diffusi molteplici audio e conversazioni avvenute tra gli esponenti dello staff del calciatore che hanno suscitato sgomento e ribrezzo nell’opinione pubblica. Simili sentimenti sono stati causati dal cinismo e dalla noncuranza mostrati da familiari e dipendenti nei confronti di un uomo malato: atteggiamenti che rivelano il totale disinteresse nei confronti del campione, rimarcando interessi esclusivamente economici. A proposito dell’improvvisa dipartita del giocatore argentino, sta indagando la magistratura di San Isidro, intenta a individuare i responsabili delle scelte che hanno provocato la morte dell’uomo, negandogli cure essenziali a livello medico e psicologico. Mentre vengono svolte le dovute indagini, tuttavia, l’Argentina ha deciso di reagire e far sentire la propria voce, invadendo le piazze.

Argentina, manifestanti chiedono “condanna sociale”. In difesa di Diego Armando Maradona, il popolo argentino ha organizzato una manifestazione attraverso la quale sta chiedendo che venga emessa una «condanna sociale» nei confronti del medico Luque, dell’avvocato Morla e di altri cinque soggetti implicati nella drammatica vicenda. Il punto d’incontro scelto per la manifestazione, alla quale hanno partecipato in molti, era l’Obelisco, situato nel cuore della città di Buenos Aires. Gli eventi si sono svolti all’insegna del caos, tanto da costringere l’ex-moglie del calciatore, Claudia Villafane, e due figlie, Dalma e Giannina, ad allontanarsi frettolosamente da Plaza de la Repubblica mentre i fan del Pibe de Oro le rincorrevano accompagnati dai media.

I cori e gli slogan della manifestazione. Durante il corteo, inoltre, la folla ha intonato cori ripetendo pedissequamente sempre lo stesso messaggio: «Maradona è stato ucciso, giustizia per Diego». Il riferimento è al mix di droghe, alcol e pasticche con il quale il leggendario calciatore è stato stordito per anni, senza ricevere dal suo staff e dai suoi familiari le cure e il sostegno necessari per risolvere i problemi di dipendenza e le patologie di cui soffriva, tra le quali figura anche quella cardiaca. Altri slogan, poi, rafforzavano la tesi dell’uccisione con le parole «Maradona non è morto, lo hanno ucciso», seguite da pensanti accuse indirizzate soprattutto all’avvocato Morla e al medico Luque.

La testimonianza dell’ex-compagna di Maradona. Alla manifestazione di Buenos Aires, ha partecipato anche l’ex-compagna di Diego Armando Maradona, VerónicaOjeda, con il figlio Dieguito Fernando, molto amato dal defunto. In questa occasione, la donna ha rilasciato alcune dichiarazioni ai giornalisti presenti, affermando: «Ho fiducia nella giustizia». Accanto alla Ojeda, il marito e avvocato Mario Baudry, che ha ribadito: «Siamo convinti che si tratti di un omicidio doloso e non colposo. Lo hanno lasciato morire. Ciò che conosciamo è appena l’un per cento di tutto quello che c’è nel fascicolo giudiziario. Quando la gente saprà tutto… quando saprà…».

Le considerazioni di Baudry, quindi, lasciano intendere che la magistratura abbia tra le mani ulteriori registrazioni che potrebbero incriminare Luque e Morla e altri componenti dello staff di Maradona, colpevoli di aver scientemente condotto il Pibe de Oro verso la morte.

Da ilmattino.it l'8 marzo 2021. Su disposizione della magistratura di San Isidro, la commissione deve accertare le responsabilità di medici e infermieri che avrebbero dovuto assistere l'ex campione nell'appartamento dove era stato trasferito dopo l'operazione al cervello presso la clinica Olivos il 3 novembre. Per ora ci sono sette indagati, a cominciare dal neurochirurgo Leopoldo Luque, ritenuto il medico di fiducia di Maradona, e le indicazioni di questa commissione saranno decisive per accertare le loro responsabilità e formalizzare le accuse per l'eventuale processo. Dalma e Gianinna Maradona, le due figlie di Diego e Claudia Villafane, hanno nominato un consulente: il cardiologo Sergio Victor Perrone, che aveva visitato l'ex campione un anno fa. I risultati del lavoro della commissione saranno resi noti entro due-tre settimane.

Da ansa.it il 5 marzo 2021. Un tribunale argentino ha stabilito che i cinque figli riconosciuti da Diego Armando Maradona saranno gli unici eredi dei beni del Pibe de Oro, su cui è in corso una controversia giudiziaria. La risoluzione della corte ha stabilito che gli eredi definiti della stella del calcio mondiale sono Diego Junior, nato in Italia da una relazione con Cristina Sinagra ai tempi del Napoli; Dalma e Giannina, nate dal matrimonio con Claudia Villafañe; Jana, figlia di Valeria Sabalain; Diego Fernando, figlio di 8 anni nato dalla relazione con Veronica Ojeda. Pertanto, i cinque figli riconosciuti di Maradona sono gli unici eredi nella successione dei suoi beni. La decisione è del giudice civile e commerciale di La Plata, Luciana Tedesco del Rivero, che ha riconosciuto la paternità di Maradona di ciascuno dei figli nati da diverse relazioni amorose nel corso della sua vita. Tuttavia, secondo quanto riferito dal quotidiano argentino Ambito Financiero, la dichiarazione degli eredi potrebbe essere ampliata nel caso in cui qualcuno si presentasse come figlio di Maradona, cosa che dovrebbe essere provata a livello giudiziario. Con la decisione odierna, si chiude una prima fase della vicenda e potrebbe iniziare la ripartizione dei beni di Maradona, che sono causa di disputa tra i sui figli, ma anche con l'avvocato Matías Morla che è stato amministratore e legale del "Diez". Giorni fa, le figlie Dalma e Giannina hanno chiesto all'avvocato Morla di riferire sul contratto che lo legava all'ex calciatore, i suoi compensi e che tipo di mansioni svolgeva, e quanto e per quale servizio veniva pagata la cerchia di persone che ha vissuto con Maradona negli ultimi anni, tra cui la sorella del legale, Vanesa Morla, il cognato Christian Pomargo e altri.

Francesco Caruana per “la Repubblica” il 2 marzo 2021. Il lungo addio a Diego Armando Maradona, scomparso il 25 novembre, da dolore sportivo è diventato un giallo intricato. Tanti elementi non tornano. Troppa gente orbita intorno a ciò che resta del Diez . C' è un patrimonio difficile da quantificare - almeno 100 milioni di dollari - e da spartire. E ci sono già sette indagati per omicidio colposo. Maurizio Crosetti cerca di dare un ordine al caos in Quando uccisero Maradona (Piemme, 176 pp.), in libreria da oggi per Piemme. La grande firma di Repubblica , che ha seguito a Buenos Aires i giorni drammatici dopo la scomparsa di Diego, sostiene la tesi che la morte sia «naturale fino a un certo punto». Perché il medico che lo seguiva, quel Leopoldo Luque che in tv abbiamo visto affranto ma che in un messaggio vocale diceva «il grassone sta morendo», forse avrebbe potuto seguire meglio quel «paziente impossibile» dimesso troppo in fretta dopo un' operazione alla testa. Perché chi nell' entourage del Diez doveva trovargli un luogo in cui riprendersi, anziché affidarsi a una struttura riabilitativa aveva affittato una casa nel quartiere Tigre in cui l' ex campione non poteva nemmeno recarsi in bagno. Perché a Maradona fu prescritto un cocktail di farmaci ma nulla per tenere a bada il suo cuore notoriamente ipertrofico e affaticato da una vita di eccessi. Nel libro di Crosetti ci sono le voci di chi il Pelusa lo conosceva bene: César Luis Menotti («il mio miglior allenatore», Diego dixit), i compagni della nazionale campione del mondo 1986. Ma anche il pueblo , il popolo: il giornalaio Mario, che nel suo chiosco ha un piccolo reliquiario del Diez , e il tassista Gabriel, che spiega: «Io di Maradona mi ricordo tutto, anche quello che non ricordo». Nel luoghi simbolo del Pibe de oro troviamo lo stadio dell' Argentinos Juniors, suo primo club, e quello del Boca; la Casa Rosada, dimora presidenziale che ha ospitato la camera ardente, e il cimitero di Bella Vista, dove Diego riposa accanto agli amati genitori. E c' è anche il complesso di Tigre in cui Maradona ha concluso ingloriosamente i propri giorni. Un luogo che ricorda, in un sinistro parallelismo, il residence di Rimini dove nel 2004 si spense da solo un altro grandissimo come Marco Pantani. «Probabilmente - scrive Crosetti - nessuna delle due morti era inevitabile».

Francesco De Luca per ilmattino.it il 7 aprile 2021. Le offese di Matias Morla, avvocato di Diego Armando Maradona negli ultimi anni, non potevano lasciare indifferente Cristiana Sinagra, la madre di Diego Junior, nato nel 1986 e per la prima volta abbracciato dal padre ventinove anni dopo. «Diego diceva a Diego Junior: so che tua madre è stata con i miei fratelli», aveva dichiarato Morla nell'intervista esclusiva ad America Tv.

LA REPLICA DEL FIGLIO. B.M. per il Messaggero il 7 aprile 2021. I veleni sulla morte di Maradona e tutto quello che c'è stato dopo, non si fermano. Nemmeno a distanza di tanti mesi oramai da quel 25 novembre scorso. A fare rumore, adesso, sono le dichiarazioni rilasciate da Matias Morla, l'avvocato di Buenos Aires che ha curato gli affari di Diego negli ultimi anni. Morla è anche l'uomo che aveva creato e gestito il «cerchio magico», il perfido «entorno», che isolò il Campione in pieno decadimento fisico, molto prima degli ultimi tragici mesi. Morla è stato intervistato da Jorge Rial, un'esclusiva nel programma Tv Nostra su America Tv. Tra i tanti argomenti toccati anche quello relativo a Diego Junior, il figlio napoletano di Maradona. «Ha sofferto prima di essere riconosciuto. Diego gli diceva: So che tua madre è stata con i miei fratelli». Parole durissime alle quali lo stesso Diego Junior replica con fermezza. «È semplicemente patetico. Mi sembra un argomento talmente fuori discussione che non c'è davvero niente da dire. Sono maldicenze che mi accompagnano da quando sono nato, ma non ho mai dato peso a certe cose. D'altra parte, quando fai un processo di paternità, soprattutto a questi livelli di fama, devi dimostrare le cose nei minimi particolari e mia mamma non ha mai perso una causa».

LA POLEMICA. E non solo. La posizione di Diego Maradona Junior è chiara, soprattutto nei confronti di Morla. «È una persona alla quale si sta stringendo il cappio al collo ed è disperato. Mi meraviglio solo che in Argentina ci possa essere ancora qualcuno che gli da credito e continua a dare spago a una fandonia del genere. Per altro tutto ciò è assolutamente irrispettoso nei confronti di una signora come mia mamma». A proposito di Cristiana Sinagra, anche lei ha postato un messaggio molto chiaro sul proprio profilo Instagram. «Prima o poi, tutto torna», ha scritto la madre di Junior insieme a un post con la frase: «Non si sfugge al karma: il dolore che causiamo torna in dietro prima o poi». Come se non bastasse, ad aumentare ulteriormente la polemica, nelle sue dichiarazioni, l'avvocato Matias Morla ha anche lanciato un'altra frecciatina nei confronti del figlio napoletano di Maradona. « Perché ora Diego Junior mi attacca? Prima mi telefonava, gli ho comprato una Mercedes Benz e una casa».

LA REPLICA. E anche a tal proposito Diego Junior ci ha tenuto a fare subito chiarezza. «Morla non mi ha comprato proprio niente. E ci tengo che si sappia. Ho ricevuto solo una macchina, ma quello è stato un regalo da parte di mio padre. E in ogni caso, questi non sono affari di Morla. Non tutti forse ricordano che io sono stato l'unico dei figli che per 30 anni non ha avuto niente da mio padre». Insomma un ennesimo attacco frontale dall'Argentina all'Italia, dall'avvocato Matias Morla a Diego Maradona Junior, che intanto ha ricevuto da poco la cittadinanza argentina, dimostrando il suo grande attaccamento alla patria di suo padre Diego. Intanto la polizia argentina ha fatto irruzione in casa di Matías Morla e gli ha proibito di usare i marchi di Maradona registrati a suo nome. L'accusa è di truffa per amministrazione fraudolenta. Mentre una delle case di Mar de la Plata dove abitava la sorella di Diego, Lili, è stata liberata per farla entrare nell'asse ereditario.

La verità dell'avvocato di Maradona, l'ultima arringa. Lucia Esposito su Libero Quotidiano il 03 febbraio 2021.

Lucia Esposito. Da grande volevo fare la giornalista e così, diversi anni fa, da Napoli sono arrivata a Milano per uno stage di due mesi. Non sono più tornata. Responsabile Cultura di Libero, accumulatrice seriale e compulsiva di libri e pensieri. Profondamente inquieta, alla ricerca costante di orizzonti in cui ritrovarmi (o perdermi).

L'ultima arringa in difesa di Diego Armando Maradona, a poco più di due mesi dalla sua morte, la fa - anzi la scrive - il suo avvocato napoletano Angelo Pisani. Dieci capi di imputazione incombono sul Pibe de Ore e l'avvocato riesce con dieci ragionamenti in punta di diritto e di penna a dimostrare l'innocenza di Maradona.  L'avvocato del D10S (Log, 14 euro, 159 pp) è un libro che ripercorre l'epopea del grande campione per le sue prodezze calcistiche ma anche per tutto quello che - nel bene e nel male - gli è accaduto nella vita.  La droga. I rapporti con le donne. I guai con il fisco. E poi il famoso gol di mano contro gli inglesi. Pisani ci consegna la fragilità di Maradona messo in ginocchio da mille accuse e dal circo mediatico che lo accerchiò fin dal giorno del suo arrivo a Napoli. <Ho creduto di essere io il suo avvocato, quando invece è stato probabilmente il contrario>, scrive Pisani che ci fa conoscere la complessità del Maradona uomo. Scrive: <Ho conosciuto un Maradona che m'ha chiamato di notte, a volte in lacrime, il Maradona che più volte m'ha abbracciato dicendomi che senza di me non avrebbe nemmeno avuto la forza di affrontarle, le sue battaglie. Ma ho conosciuto anche il Maradona distaccato, quello da cui impari a non aspettarti nessuna riconoscenza, perché Diego è Diego, e lui a volte sembra dare per scontato che la folla che lo circonda sia ai suoi piedi>.  Questo libro è un'appassionata difesa di un tifoso, certamente, ma anche di un avvocato che  ha constato l'accanimento della giustizia sportiva e fiscale nei confronti di Maradona. L'avvocato ce l'aveva fatta a dimostrare l'innocenza di Diego, ma Equitalia ha presentato ricorso e così <di rinvio in rinvio per ora il fischio finale lo lancia la giustizia divina che fa inginocchiare Equitalia e tutti i nemici di Diego (...) Ora il gesto più bello degli avversari in giacca e cravatta potrebbe essere il riconoscimento a Diego di non aver mai tolto una lira agli italiani, e chiedere scusa per tutti i falli commessi>. Un libro che ci porta per mano nella vita di un uomo vittima e burattinaio. Un grande campione ma anche un uomo fragile. Nato poverissimo e diventato ricco. Adorato dalle donne  ma anche sfruttato dalle stesse che giuravano amore eterno,  Un uomo esagerato, in campo e nella vita.  Capace di buttare la palla in porta e il cuore oltre l'ostacolo.  Ma quando  si parla di Diego Armando Maradona nulla è normale. L'avvocato Pisani riesce nel suo intento: anche il Tribunale più severo assolverebbe il Pibe de oro da tutte le accuse.  Ma adesso che non c'è più anche i suoi più acerrimi nemici, anche chi saliva sul banco dell'accusa, non può che tacere e riconoscere l'immensità di questo campione. La prefazione del libro è di Maurizio De Giovanni,  Contributi di Gianni Minà e Nicola Graziano. 

Da corrieredellosport.it il 4 febbraio 2021. La morte di Diego Armando Maradona non ha solo privato il mondo del calcio di uno dei suoi campioni leggendari ma ha anche scatenato una guerra senza quartiere e senza precedenti tra i membri della sua numerosa famiglia. Stavolta al centro del dissidio ci sarebbe un famoso e costosissimo anello che il Pibe de Oro aveva ricevuto in regalo in Bielorussia nel 2018, quando era stato nominato presidente onorario della Dinamo Brest. Il gioiello, con un diamante blu incastonato, era uno dei preferiti dell'argentino, tanto che lo indossava anche quando allenava il Gimnasia.

L'anello di Maradona: quanto vale e dov'è. Il costo del prezioso? Astronomico ovviamente: l'anello preferito di Maradona era stato valutato ben 300 mila euro. Ma dov'è finito? Secondo il giornalista argentino Luis Ventura, si trovava nella cassaforte che Maradona aveva sotto il letto in cui era morto. Sull'argomento è intervenuto anche Mario Baudry, avvocato dell'ultimogenito del Diez, Dieguito Fernando, e compagno di Verónica Ojeda. "Ho una chat con Monona - la sua cuoca - che ammette a chi l'ha consegnato e anche le riprese dell'assistente di Diego, dove si vede che lo mette in macchina una delle figlie". "Sì, si tratta di Gianinna - ha aggiunto l'avvocato - La scorsa settimana si era offerta di aprire la cassaforte ma, siccome non era una questione importante, abbiamo deciso di non farlo. L'importante ora è il procedimento penale". Le dichiarazioni hanno suscitato le ire della secondogenita di Maradona, che ha scelto Twitter per dire la sua. "Se mi uccidono cercando un anello che non ho, sono tutti complici - ha scritto in una serie di tweet - Non possono provare quello che dicono: sono il risultato della merdaa che consuma il nostro Paese". La guerra dei Maradona sembra molto lontana dalla sua fine.

Francesco De Luca per ilmattino.it il 27 gennaio 2021. Una foto con Diego accanto alla carta di identità. Maradona Damaris Alejandra nata il 30 dicembre 1984, quindi sei mesi dopo l'arrivo del campione a Napoli. «Sono la prima figlia di Maradona ma non cerco pubblicità né voglio l'eredità», ha spiegato la ragazza argentina intervenendo in un programma televisivo condotto a Buenos Aires dal giornalista Andres Ventura. E ha precisato di aver chiuso il suo profilo Instagram dopo la pubblicazione di quella foto perché accusata di voler speculare. «Sono povera, come lo era mio padre. Non ho neanche l'auto, ma non cerco soldi. Ho solo i ricordi dei bellissimi momenti trascorsi con papà, il suo sangue e il suo cognome: sono stata riconosciuta da lui e non chiedo altro», ha spiegato la donna, che adesso ha 37 anni e non ha dato indicazioni sulla madre. È stata concepita quando Maradona giocava già in Europa, negli ultimi mesi della sua esperienza a Barcellona. Si tratterebbe della primogenita di Diego perché Diego Armando junior, successivamente riconosciuto, è nato il 20 settembre 1986 a Napoli. «Avrei voluto prendermi cura di mio padre quando è stato male - ha aggiunto Damaris Alejandra - ma sono stata allontanata. L'eredità non mi interessa: la conservino Claudia Villafane, le sue figlie e gli altri fratelli che probabilmente ho». E dopo questa rivelazione ha chiesto di non essere più cercata dai giornalisti, «che odio come mio padre». Andres Ventura aveva rivelato nelle scorse settimane l'esistenza di un'altra donna che afferma di essere figlia di Maradona, Eugenia Laprovittola, 25enne che venne data in adozione dalla madre. Il giornalista argentino ha spesso polemizzato in queste settimane con Dalma e Gianinna, le figlie di Diego e Claudia Villafane, anche a proposito dell'eredità che non è stata ancora definita. Della successione, oltre alle due donne, fanno parte i figli successivamente riconosciuti, Diego jr e Jana, e Diego Fernando, nato dalla relazione con Veronica Ojeda. Il patrimonio dell'ex capitano del Napoli e della nazionale argentina, scomparso il 25 novembre, è in via di definizione. Il suo avvocato e amministratore Matias Morla ha presentato in tribunale una serie di documenti su beni e conti correnti, al vaglio dell'avvocato Sebastian Baglietto, scelto dai cinque eredi per la successione.

Da blitzquotidiano.it l'11 gennaio 2021. Spunta un’altra presunta figlia di Diego Armando Maradona. La notizia, circolata a fine dicembre, è stata confermata durante un programma televisivo dell’emittente America dal giornalista Luis Ventura. Si chiama Eugenia Loprevittola, 25 anni. La ragazza era stata data in adozione dalla madre biologica che dopo la morte del campione argentino, ha voluto incontrarla per rivelarle che Maradona era suo padre.

Chi è Eugenia, la presunta figlia di Diego Armando Maradona. Come riporta Il Mattino, la ragazza è nata l’11 luglio 1995 nell’ospedale Evita di Lanus, proprio l’ospedale dove nacque Maradona nel 1960. Vive a Berisso, nella provincia di Buenos Aires, lavora presso una farmacia e gioca a calcio. Secondo il giornalista Ventura, Eugenia vorrebbe “sapere se Diego era suo padre. Non le interessa l’eredità“. L’ex campione inoltre era venuto a conoscenza dell’esistenza di questa figlia nell’ultimo periodo della sua vita, quando allenava il Gimnasia La Plata. Come ha spiegato l’avvocato Sebastian Baglietto, scelto dai cinque eredi legittimi di Diego Armando Maradona come amministratore, i presunti figli devono chiedere il test del Dna ed è quanto ha fatto Magalì Gil. Eugenia Loprevittola invece vorrebbe soltanto sapere chi era il suo padre biologico e non immischiarsi in una battaglia legale che sembra sempre più una soap opera. (fonte IL MATTINO)

Adriano Seu per gazzetta.it il 27 gennaio 2021. Da una parte le indagini per appurare le cause del decesso del Diez, dall'altra le ricerche minuziose per ricostruire il patrimonio del fuoriclasse argentino in modo da poter quantificare e definire l'eredità destinata alla nutrita schiera di figli, parenti ed ex compagne. In Argentina si procede su entrambi i fronti e, se l'inchiesta della magistratura ha subito un'importante svolta pochi giorni fa con la scoperta di alcune firme contraffatte dal dottor Luque (il neurochirurgo di Maradona), l'ultima novità sul patrimonio dell'argentino riguarda la scoperta di due casseforti dal contenuto misterioso custodite a Dubai. I due forzieri sono ancora sigillati e, conoscendo le abitudini del Diez, potrebbero contenere oggetti o cimeli dal valore inestimabile, andando ad accrescere un'eredità che fa già gola a tanti. Ritratti, numeri 10, autografi e altri ricordi del Pibe de Oro diventati indelebili. "Il dolore è stato enorme per la città e le richieste sono aumentate. Per noi il tatuaggio di Maradona era già un'icona da anni ma ora sta succedendo qualcosa di diverso", ha raccontato Enzo Brandi, noto tatuare napoletano. Stimare esattamente il patrimonio del fuoriclasse argentino al momento del suo decesso, avvenuto lo scorso 25 novembre, è ancora un'impresa difficile. Le ricerche, sostengono i legali al lavoro, potrebbero richiedere mesi e mesi. In molti casi sarà necessario chiedere anche la collaborazione di Governi stranieri, come già accaduto con le autorità venezuelane e cubane (dove Maradona possedeva beni immobili, azioni societarie e partecipazioni ad attività imprenditoriali). Al momento, da una stima approssimativa, il patrimonio del Diez dovrebbe ammontare a circa 500 milioni di dollari, ma il puzzle è ancora incompleto. L'ultima scoperta in ordine di tempo riguarda due misteriose casseforti ancora sigillate, che si trovano a Dubai insieme a due bolidi (una Rolls Royce e una Bmw) dal valore totale di circa 350 mila dollari. "Là dentro potrebbe esserci qualsiasi cosa, nessuno lo sa con esattezza. L'unico a conoscerne il contenuto era lo stesso Diego", ha rivelato una fonte vicina ai familiari. Per farsi un'idea, basti sapere che nella cassaforte della casa di Buenos Aires era custodito un bel gruzzolo di contanti, una preziosa collezione di orologi e l'anello da 300 mila dollari che Maradona ricevette in dono dal proprietario della Dinamo Brest quando venne nominato presidente onorario. La fortuna di Maradona comprende beni immobili (almeno una decina), auto di lusso (tra cui un blindato in edizione limitata), una serie infinita di cimeli (tra indumenti, ricordi e regali) e un corposo gruzzolo spalmato in svariati conti bancari (cinque quelli emersi finora tra Dubai, Argentina e Messico). C'è di tutto tra i tesori del Diez, compresi oggetti per i quali è impossibile stabilire un preciso valore, come ad esempio una lettera scritta da Fidel Castro. Molti di questi tesori sono da tempo oggetto di contesa con l'ex moglie Claudia Villafane, che - secondo alcuni maligni - starebbe architettando non ben precisate manovre finanziarie per evitare la dispersione del patrimonio tra i tanti che ne reclamano una fetta. Come emerso nella prima fase delle indagini e delle ricerche, Maradona era un'impresa che dava lavoro a una quarantina di persone tra specialisti, amici e uomini di fiducia (o presunti tali). Secondo le stime degli inquirenti, le spese mensili di Maradona per mantenere tutto l'entourage al suo servizio ammontavano a qualcosa come 10 milioni di pesos, l'equivalente di quasi 95 mila euro al cambio attuale. Tutto ciò senza contare le saltuarie elargizioni e i regali di cui beneficiavano figli, amici ed ex fidanzate (tra cui figurano anche due appartamenti per Veronica Ojeda e Rocio Oliva, le ultime due compagne dell'argentino). Maradona, in parole povere, rappresentava una sorta di miniera d'oro dal valore ancora non ben precisato. Una miniera attorno da cui tanti contano di attingere a piene mani. Le indagini hanno già sollevato i primi sospetti in merito, complici alcuni movimenti e flussi di denaro giudicati "sospetti". Gli inquirenti hanno evidenziato "operazioni sostanziose e corposi trasferimenti di denaro dai conti di Maradona" a opera ad esempio di Matias Morla, legale e socio del Diez. Ma nelle ultime ore sono emersi movimenti strani anche su alcune carte di credito intestate al fuoriclasse argentino: su tutti, diversi pagamenti effettuati da Rocio Oliva nei giorni successivi al decesso di Maradona per acquisti di varia natura.

Dagospia il 5 gennaio 2021. Comunicato stampa. Arriva il 6 gennaio su discovery+, il nuovo servizio streaming del gruppo Discovery, Maradona Morte di un Campione, un esclusivo documentario che racconta la verità dietro la morte di uno dei volti sportivi più amati . Maradona, durante la sua carriera calcistica è sempre stato soggetto a dipendenze: dalle iniezioni di cortisone e gli antidolorifici per tenerlo in campo, alle sue dipendenze da cocaina, alcol e cibo e, nell’ultimo periodo dalle pillole che prendeva per combattere la depressione ed i forti dolori. Questo documentario parte dalla sua storia in campo indagando sui farmaci che gli sono stati somministrati ufficialmente e quelli che lui stesso ha scelto di prendere per stare meglio. Partendo dagli eventi che hanno segnato la sua carriera di giocatore e attraverso le interviste con  i medici che lo hanno seguito e le persone a lui più vicine costruiremo un quadro clinico del calciatore più costoso del mondo. Uno studio sulla personalità di Maradona aiuterà gli spettatori a capire cosa lo spingeva a fare affidamento sui farmaci, cosa probabilmente lo portava a non poterne più fare a meno. Dal momento in cui il suo talento calcistico è stato riconosciuto per la prima volta quando aveva 11 anni, Maradona è stato assistito dai medici della sua squadra che cercavano di creare un personaggio. Al culmine della sua abilità calcistica è stato inesorabilmente ferito dagli avversari che cercavano di fermarlo. Spesso gli venivano somministrate iniezioni antidolorifiche pre partita. Ma fuori dal campo Maradona faceva uso di cocaina, motivo per il quale venne sospeso dal Napoli, per il quale fu espulso dalle partite internazionali della Fifa e che a lungo portò alla fine della sua carriera da giocatore. All'età di 40 anni, dopo un terribile attacco di cuore indotto dalla droga era riuscito a smettere di fare uso di cocaina grazie anche all’aiuto di Fidel Castro. Per due volte nella sua vita si è sottoposto a chirurgia bariatrica per combattere l’obesità, ha sofferto per tanti anni di artrite e la depressione è stata sua compagna per tanto tempo. La sua condizione clinica e la sua vita di eccessi hanno inevitabilmente portato Maradona verso la sua fine ma sicuramente il suo mito e il ricordo del suo talento rimarranno nella storia. Fra le persone coinvolte nella storia Jon Smith, agente di Maradona fra il 1986  e il 1991, quando il calciatore era all’apice del suo successo,  Jimmy Burns, che ha pubblicato la sua biografia “The Hand of God” (La Mano di Dio) seguendolo lungo il corso della sua carriera. Dan Abrahams, psicologo sportivo, che ha tracciato un profilo del calciatore rispetto al suo stato mentale in relazione all’uso costante di droghe. Il Professor Atholl Johnston, Professore di Farmacologia Clinica all’Imperial College. Beppe Bruscolotti, capitano del Napoli  quando Maradona era in squadra e suo amico di lunga data.  Massimo Vignati, creatore del Maradona Museum a Napoli. Federica Di Criscio e Eleonora Goldoni, calciatrici professioniste e il Dr Luis Pintos medico della squadra quando Maradona aveva 21 anni. Ma anche il Professor Fernando Signorini personal trainer di Diego Maradona dal 1983 al  1994 e il Dr Alfredo Cahe, medico personale del calciatore per ben 30 anni che lo ha accompagnato nella sua lotta contro la dipendenza da cocaina e l’obesità e fino alla fine della sua battaglia. E’ proprio lui ad accusare il suo ultimo medico Leopoldo Luque di non essersi preso cura di lui.

Da leggo.it il 18 febbraio 2021. Diego Maradona non trova pace neppure da morto. Quasi ogni giorni vengono fuori nuove rivelazioni sui giorni precedenti la sua fine, e su come viveva nella casa dov'era ricoverato dopo l'operazione al cervello. Il tutto nell'ambito dell'inchiesta della magistratura penale sulla morte dell'ex fuoriclasse e il modo in cui veniva assistito. Questa volta l'agenzia Noticias Argentinas ha diffuso stralci della testimonianza della psicopedagoga Griselda Morel, che seguiva Dieguito Fernando, otto anni, ultimogenito dell'ex capitano del Napoli, e lo accompagnava in ogni sua visita al padre. I due erano molto legati e il bambino sta avvertendo in modo particolare la perdita del papà. «Monona (la cuoca di Maradona, ndr) mi ha più volte raccontato di come il personale di sicurezza - è la testimonianza della Morel - sciogliesse delle pillole nella birra, per fare in modo che lui stesse buono durante la notte. Lo facevano prima che Maradona andasse a dormire, in modo da tenerlo a bada. A volte era lui stesso a chiedere le pillole, perché soffriva di insonnia, e loro facevano qualsiasi cosa. Se Diego si alzava alle 9 del mattino con il desiderio di una birra, loro gliela davano». Sempre secondo la Morel, «già a settembre-ottobre Diego aveva problemi per via dell'alcol, beveva vino e birra. Era così tutti i giorni, tanto che una delle ultime volte che sono stata a visitarlo con Veronica (la ex compagna, e madre di Dieguito n.d.r.) era così gonfio in volto da essere quasi irriconoscibile». «Ma una volta abbiamo trovato il 'Diez', e questo è il massimo - ha aggiunto - in una stanza che parlava al telefono...solo che l'apparecchio non c'era, stava nella sua immaginazione». La donna ha puntato il dito anche contro i due fisioterapisti che si alternavano nell'assistenza a Diego. «Gli offrivano continuamente da bere e lo intontivano per fare i loro comodi - è l'accusa della dottoressa -. Quella casa era ridotta uno schifo, con tanta sporcizia e un frigorifero pieno esclusivamente di alcolici». «Diego si lamentava che il bagno era al piano di sopra, e allora loro lo lavavano con un tubo di gomma», è un altro brano della testimonianza.

Morte Maradona, una nuova testimone: "Lo drogavano con pillole nella birra". Sono stati pubblicati gli stralci di una testimonianza di Griselda Morel, la psicopedagoga di Dieguito Fernando, l'ultimo figlio del fuoriclasse argentino: "Lo intontivano prima che andasse a dormire. Una volta l'abbiamo trovato che parlava a un telefono immaginario. Quella casa era uno schifo, Diego veniva lavato con un tubo di gomma". La Repubblica il 17 febbraio 2021. Le rivelazioni sulla morte di Diego Armando Maradona continuano a occupare le prime pagine delle cronache argentine. L'agenzia "Noticias Argentinas" ha diffuso alcuni stralci della testimonianza di Griselda Morel, la psicopedagoga che seguiva l'ultimo figlio del fuoriclasse, Dieguito Fernando, e che lo accompagnava in ogni visita al padre. Nel racconto di Morel, emergono alcune rivelazioni di Monona, la cuoca di Maradona, secondo cui "il personale di sicurezza scioglieva delle pillole nella birra per fare in modo che lui rimanesse buono durante la notte. Lo facevano prima che Maradona andasse a dormire, in modo da tenerlo a bada. A volte era lui stesso a chiedere le pillole perché soffriva di insonnia e loro facevano qualsiasi cosa. Se Diego si alzava alle 9 di mattina con il desiderio di una birra, loro gliela davano". I problemi di alcol di Maradona non sono esplosi all'improvviso: "Già a settembre-ottobre - prosegue Morel - Diego aveva problemi per via dell'alcol. Beveva vino e birra. Era così tutti i giorni, una delle ultime volte che sono stata a visitarlo con Veronica (la madre di Dieguito Fernando) era così gonfio in volto da essere irriconoscibile. Una volta l'abbiamo trovato in stanza che parlava al telefono, ma l'apparecchio non c'era, se lo stava immaginando". La psicopedagoga prosegue nella descrizione di uno scenario da incubo: "I fisioterapisti gli offrivano continuamente da bere e lo intontivano per fare i loro comodi. Quella casa era ridotta uno schifo, con tanta sporcizia e un frigorifero pieno esclusivamente di alcolici. Diego si lamentava perché il bagno era al piano di sopra, e allora loro lo lavavano con un tubo di gomma".

Da gazzetta.it il 2 febbraio 2021. Era la cuoca del Pibe de Oro. Ed è stata con lui fino agli ultimi istanti della sua vita nella casa del Barrio San Andrés, quartiere Tigre, dove Diego è morto il 25 novembre scorso. “Per me, si era stancato di tutto - ha raccontato Romina Milagros Rodriguez detta “Monona” ad America Tv, nel programma “Los Escandalones” - Se vogliamo dire le cose come stanno, faceva dei miracoli. Ma era stanco. Voleva stare da solo, riposare e stare tranquillo. Ha detto basta, la gente intorno lo faceva diventare matto". “Con Diego c’erano sempre il personale della sicurezza, un suo nipote e io. Poi il segretario, e a volte veniva un fisioterapista - racconta -. Mi indigna il fatto che tutti dicevano di essere amici di Diego. Parlano in tanti, ma nessuno è stato lì. Piangevano alla camera ardente, ma era tutto una bugia. Quando ha cominciato a venire Veronica Ojeda (ex compagna di Diego, ndr) portava il loro figlio, Dieguito Fernando (di 7 anni, ndr), e quando arrivava il bambino, l’umore del padre cambiava. Giocavano insieme, andavano al patio, avevano un bellissimo rapporto”. La cuoca ricorda gli ultimi istanti della vita di Maradona. “L’ultima volta che gli ho parlato è stata la sera del 24 novembre, quella precedente la morte. Gli ho chiesto se voleva mangiare ma mi ha risposto di no. Allora, gli ho detto che gli avevo preparato dei panini e del tè”.

Maradona, Diego Jr. contro i vocali dello scandalo: “Papà avrai giustizia, te l’ho promesso”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 2 Febbraio 2021. Anche Diego Armando Maradona Junior dice la sua sui messaggi vocali che stanno scatenando polemiche e indignazione, prima in Argentina, poi in tutto il mondo, sulla morte del padre. “Il ciccione sta per morire”, si sente nei messaggi diffusi dal media Infobae, e la voce è di Leopoldo Luque, neurochirurgo, medico di Diego Armando Maradona, il campione argentino morto lo scorso 25 novembre, all’improvviso, a 60 anni. Luque è al centro della bufera. I messaggi alla psichiatra Agustina Cosachov, altra indagata, per le probabili negligenze o disattenzioni nella cura del Pibe de Oro che avrebbero potuto influire sul decesso. Maradona era stato dimesso da poco dopo una delicata operazione e viveva in una villa di Tigres, Buenos Aires, senza diversi confort. “Avrai giustizia, io te l’ho promesso”, ha scritto in una stories sui social il primo figlio del Pibe de Oro nato dalla relazione con Cristiana Sinagra nel settembre 1986 a Napoli. Reazione più dura da parte di Dalma Maradona, figlia del campione e della prima moglie Claudia Villafane. “Ho appena finito di ascoltare gli audio fra Luque e la psichiatra. E ho vomitato. L’unica cosa che chiedo a Dio è che venga fatta giustizia e che paghino tutti coloro che devono pagare”. Dalma ha criticato anche a Matias Morla, l’avvocato che avrebbe presentato Luque al padre. Proprio il testamento, con le indagini sulla morte di Maradona, è al centro delle attenzioni dei media e della Giustizia. L’amministratore della successione Sebastian Baglietto qualche settimana fa ha dichiarato che l’eredità più bella di Maradona sarebbe “la gioia che ha regalato al mondo”. Diego Jr non ci sta: “Ho un avvocato in Argentina, Luis Enrique Rey, con il quale mi sento anche cinque volte al giorno – ha detto a Il Mattino – Ho piena fiducia in lui ed è l’unico che porta avanti la mia situazione del punto di vista legale: anche io sono rimasto sorpreso dal fatto che finora l’avvocato Morla abbia dichiarato soltanto tre auto facenti parte del patrimonio di papà. Ci sono molti lati oscuri, voglio vederci chiaro”. Diego Jr, allenatore di calcio e commentatore per Radio Crc, ha aggiunto che il padre aveva sempre detto di voler lasciare tutto ai suoi figli. Sollevano perplessità le dichiarazioni che Baglietto negano l’esistenza di qualsiasi testamento. “Intendo capire perché Morla non tiri fuori le carte in suo possesso” e “vi sembra possibile che papà possedesse soltanto tre auto?“, ha lamentato Diego Jr. Maradona Jr. si è sempre espresso con moderazione su tutta la vicenda, da sempre contrario, qui con più durezza, alla riesumazione della salma del padre. “Troppe cazzate dette mi hanno fatto male – ha detto in un’intervista a Chi – Tutti abbiamo le nostre debolezze, io non ho mai giudicato papà. L’unico che ci deve giudicare è Dio. Ha fatto degli errori, ma era il primo a dirlo. Ma chi si è riempito la bocca sparando merda su papà erano gli stessi leccaculo di cui non si ricorderà nessuno”. Aspetta di andare in Argentina, il 34enne, innanzitutto per portare un fiore e un bacio alla tomba del padre. I figli, quelli riconosciuti – ai quali si è aggiunta una lista di pretendenti alla paternità, quasi mai credibili – si sono avvicinati ulteriormente dopo la tragedia dello scorso 25 novembre. Lo ha confermato lo stesso Diego Jr. che ha sempre avuto un buon rapporto con Jana. Nei vocali di Luque anche un riferimento proprio a Jana, “una stronza di merda, vuole ricoverarlo”. Una proposta che non è stata presa in considerazione. Quello che si imputa a chi doveva curare Maradona sono proprio il mancato ricovero, le troppe disattenzioni, la degenza in un appartamento senza alcuni confort, senza defibrillatore, bombole di ossigeno, flebo, secondo quanto emerso. El Pibe de Oro, secondo quanto rivelato da Olé dopo l’autopsia, è morto dopo una lunga agonia, da solo nella sua stanza, a causa di un “edema polmonare acuto” e di una “insufficienza cardiaca cronica aggravata”. Nessuna traccia di alcol e droghe, com’era stato invece ipotizzato in un primo momento; rilevata invece la presenza di psicofarmaci come antidepressivi e antiepilettici.

Diego Maradona morto, tre nuovi indagati: lo psicologo e i due infermieri, un quadro inquietante. Libero Quotidiano il 09 febbraio 2021. Tre nuovi indagati nell'inchiesta sulla morte di Diego Armando Maradona. Come spiega la Gazzetta dello sport, si tratta dello psicologo Carlos Diaz (aveva in cura il Pibe de Oro dallo scorso settembre) e di Ricardo Almiron e Dahiana Gisela Madrid, gli infermieri che assistevano Diego nella sua abitazione dopo l'operazione al cervello. Tutti e tre sono stati iscritti nel registro degli indagati insieme al neurochirurgo Leopoldo Luque e alla psichiatra Agustina Cosachov, i primi indagati per sospetta imperizia. Diaz, secondo quanto ricostruito dai media argentini, era perfettamente al corrente del tipo di trattamento medico a cui Maradona era sottoposto e lui stesso aveva prescritto una terapia a base di farmaci che avrebbe dovuto tener conto del quadro clinico estremamente complesso dell'ex numero 10 di Napoli e Argentina. Secondo l'agenzia Telam, i pm ritengono il ruolo di Diaz "preponderante" per capire gli ultimi mesi di vita di Diego e cosa possa essere andato storto nelle cure. Almiron e Madrid, invece, sono indagati per falsa testimonianza perché nel corso del primo interrogatorio hanno assicurarono di aver controllato i parametri vitali di Maradona intorno alle 9.30 del mattino in cui è morto, cambiando però versione successivamente e confessando di aver visitato la stanza di Maradona solo la notte precedente. 

Diego Maradona, il video che precede di poco la morte: "Come sono ridotto", altre ombre sui medici. Libero Quotidiano il 03 febbraio 2021. Non c’è pace per Diego Maradona. A quasi tre mesi dalla sua morte è spuntato un nuovo video dell’argentino, che risale a qualche giorno prima del decesso. “Sono ammaccato, ma va tutto bene”, sosteneva il Pibe de Oro, rivolgendosi tra l’altro a Leopoldo Luque, il medico finito nell’occhio del ciclone e indagato per presunte negligenze nelle cure dell’ex calciatore del Napoli. Maradona era stato ripreso dalla cucina dell’appartamento di Tigre, lo stesso in cui è stato trovato senza vita, e aveva ancora la medicazione alla testa dopo l’operazione per la rimozione di un ematoma subdurale al cervello. “Sai che non mi piacciono le intimità ma quando sono con gente buona esco dalla mia tana”, dice Diego nel video, salutando poi il suo medico. Stando a quanto riportato dal quotidiano Olè, gli investigatori avrebbero acquisito altri audio che confermerebbero la figura controversa di Luque, arrivando a definire “terrificante” il quadro generale che starebbe emergenti. Nel frattempo si sprecano le interviste dei familiari: il nipote Johnny Esposito è stato ospite di un programma argentino e ha dichiarato che Maradona “non desiderava più nulla”. “Non voleva più vivere - ha aggiunto - non si sarebbe lasciato aiutare. Non capisco perché, forse perché non riusciva più a calciare un pallone”. Altra figura controversa è invece quella della psichiatra Agustina Cosachov, accusata di falso ideologico: avrebbe falsificato un certificato nel quale attestava che il suo paziente era “attento, orientato nella persona, nel tempo e nello spazio”. È poi emerso che nulla di tutto ciò corrispondeva al vero.

Maradona, l’ultimo video prima della morte: “Sono ammaccato, ma tutto bene”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. È un Maradona visibilmente provato quello che compare nell’ultimo video prima della morte, lo scorso 25 novembre, all’improvviso a 60 anni. “Sono ammaccato, ma tutto bene”, dice El Pibe de Oro. Pochi minuti di video messaggio, registrati dalla villa di Tigres, nella grande Buenos Aires, dove il campione argentino stava passando la sua convalescenza dopo un’operazione delicata al cervello. “Lei sa che non mi piace mostrarmi nella vita intima – dice a Leopoldo Luque, il suo medico – ma quando sto con persone buone esco dal guscio”. Il video è registrato in cucina. Maradona sta mangiando quella che sembra una minestra. Il messaggio è girato dalla sua ex compagna Veronica Ojeda, seduta accanto al campione. Si vede anche la cuoca, Romina Milagros Rodriguez mentre traffica vicino ai fornelli. Il video è stato diffuso da Cronica Tv ed è stato presentato in Argentina come l’ultimo del Pelusa in vita. Un altro video era stato definito l’ultimo, diffuso pochi giorni dopo la morte, nel quale si vedeva Maradona in stampelle, all’esterno della villa, che si ferma per salutare un bambino da lontano. Secondo quanto rivelato da Olé dopo l’autopsia, il campione sarebbe morto dopo una lunga agonia, da solo nella sua stanza, a causa di un “edema polmonare acuto” e di una “insufficienza cardiaca cronica aggravata”. Nessuna traccia di alcol e droghe, com’era stato invece ipotizzato in un primo momento; rilevata invece la presenza di psicofarmaci come antidepressivi e antiepilettici. All’inizio del mese l’ex calciatore e allenatore era stato ricoverato e operato alla clinica Los Olivos per un ematoma subdurale che aveva generato un coagulo in una regione del cervello. Visibile infatti nel video il cerotto sulla testa di Maradona. Non si placano le polemiche e il gossip intorno alla morte del campione argentino. Da una parte le questioni legate all’eredità, dall’altra le indagini sulla morte. Poteva essere evitata? Al centro delle indagini proprio quel Leopoldo Luque salutato nel video da Maradona e la psichiatra Agustina Cosachov. Scalpore e indignazione hanno generato in tutto il mondo i vocali emersi tra i due. “Il ciccione sta morendo”, dice la voce di Luque che riserva anche offese alla figlia del calciatore Jana, chiamandola “stronza di merda” perché insisteva per il ricovero del padre. Il quotidiano argentino La Nacion ha scritto che Cosachov è stata accusata di falso ideologico. Avrebbe, a quanto si legge, falsificato un certificato nel quale attestava che il suo paziente era “attento, orientato nella persona, nel tempo e nello spazio”. Quello che viene imputato a chi doveva curare Maradona sono il mancato ricovero, le troppe disattenzioni, la degenza in un appartamento senza confort, senza defibrillatore, bombole di ossigeno, flebo, secondo quanto emerso. Non è esclusa per i due l’accusa di omicidio colposo.

Chat su Maradona: “Birra e spinello per sbarazzarsi di lui”. Chiara Nava su Notizie.it il 03/02/2021. Le conversazioni del dottor Luque con lo staff dimostrano che Diego Armando Maradona non è stato curato in modo adeguato. I dettagli emersi sugli ultimi giorni di vita di Diego Armando Maradona sono davvero molto inquietanti. I messaggi e i vocali del dottor Luque, che sono stati resi pubblici, mostrano le terribili condizioni in cui si trovava il campione. La realtà che emerge da queste chat è davvero orribile. In Argentina sono state rese note le conversazioni private tra il dottor Luque, la psicologa Cosachov e le persone che si prendevano cura di Diego Armando Maradona, morto il 25 novembre a 60 anni. Le parole del medico sono a dir poco vergognose. Quando è stato avvertito di quello che stava accadendo all’ex calciatore, ha dichiarato: “Il ciccione sta morendo“. Si è scoperto che lo stesso Luque si era precedentemente opposto al ricovero di Maradona proposto dalla figlia Jana, che è stata apostrofata in brutto modo in un’altra conversazione. Il dottore, in una chat con alcuni membri dello staff, ha apertamente dichiarato che all’ex campione venivano dati alcol e marijuana, nonostante le sue condizioni di salute. Da due mesi gli inquirenti argentini stanno lavorando per scoprire se Maradona è stato curato nel modo adeguato. Gli audio che sono emersi mettono in cattiva luce Luque. Il medico che era in casa con Diego in una chat ha spiegato che il calciatore si alzava con i postumi di una sbornia, che aveva fumato e preso le pillole bevendo vino. Luque risponde immediatamente e le parole che usa sorprendono, perché non pena al divieto assoluto di assumere alcol e marijuana ma pensa all’autopsia che avrebbero fatto in caso di morte. “L’ho detto a Maxi che ci sarà un’autopsia e da quella può saltare fuori tutto” ha scritto. Maxi Pomargo era il segretario di Maradona e cognato di Matias Morla, l’avvocato che rappresentava il calciatore. In un’altra chat con un altro medico, Luque ha scritto che non potevano gestire Maradona, ma solo dare suggerimenti. “Non sopporto più la situazione. Charly gli dà la marijuana, mi sono arrabbiato e gli ho detto che l’avrei affrontato se questa cosa sarebbe uscita nell’autopsia” ha scritto un altro medico, ma Luque ha risposto immediatamente anche in questo caso. “La marijuana non causa danni a un particolare organo da poter sospettare. Lo posso supporre, ma se non lo cerco non lo analizzo. Dal punto di vista medico non è una responsabilità. Sarebbe una responsabilità medica se gli dessi la cannabis, si ubriacasse e morisse” ha risposto. Il medico che vive con il calciatore continua a scrivere a Luque, spiegando come si viveva in quella casa. “Ho molta fiducia in Monona, ieri mi ha detto che Charly si è organizzato e ha fatto entrare una donna in casa e per sbarazzarsi di Diego gli ha dato una birra e uno spinello, lo ha mandato in mille pezzi. Ho trovato tracce di marijuana tritata ovunque e un forte odore in casa. Il ragazzo ‘scopava’ nella stanza di servizio, Monona e la guardia giurata vedendo che Diego non si alzava non hanno dormito affatto” sono le parole del medico in casa con Maradona.

Chiara Nava. Nata a Genova, classe 1990, mamma con una grande passione per la scrittura e la lettura. Lavora nel mondo dell’editoria digitale da quasi dieci anni. Ha collaborato con Zenazone, con l’azienda Sorgente e con altri blog e testate giornalistiche. Attualmente scrive per MeteoWeek e per Notizie.it

Adriano Seu per gazzetta.it il 23 gennaio 2021. Si stringe il cerchio attorno a Leopoldo Luque, finito al centro delle indagini sulla morte di Diego Armando Maradona lo scorso 25 novembre. La posizione del neurochirurgo che aveva in cura l’argentino si è complicata nelle ultime ore in seguito ai risultati degli esami calligrafici eseguiti su alcuni documenti requisiti nel suo ufficio e nella sua abitazione. La perizia degli esperti incaricati dalla magistratura, secondo quanto riferisce Clarin, ha stabilito che le firme di Maradona presenti nei suddetti documenti sono state in realtà opera di Leopoldo Luque. Lo specialista avrebbe dunque contraffatto la firma del Diez, così come sospettato in un primo momento dagli inquirenti dopo aver visionato il modulo consegnato alla clinica Olivos per richiedere la cartella clinica dell’argentino. L’unico autorizzato a richiedere la cartella clinica in questione era il paziente stesso, vale a dire Maradona, ma la perizia ha dimostrato che la firma apposta sul modulo incriminato non è opera del Diez. Stando alla legge, per Luque si configura il reato di manipolazione di documenti privati, per cui il codice penale argentino prevede una pena da sei mesi a due anni di reclusione. Il sospetto degli inquirenti è che, impossessandosi della cartella clinica di Maradona, Luque abbia cercato di nascondere qualche dettaglio scomodo relativo al quadro clinico dell’argentino. Dettagli che, magari, potrebbero rivelarsi utili per stabilire se ci sia stata davvero negligenza e imperizia da parte di chi lo aveva in cura, Luque in primis. Il nuovo capo d’accusa, inoltre, complica anche la posizione del neurochirurgo nell’ambito dell’indagine aperta per omicidio colposo. 

Maradona, audio shock del medico: "Il grassone sta morendo". Il Corriere della Sera l'1/2/2021. "Il grassone sta morendo". Un audio schock sulla morte di Diego Armando Maradona, avvenuta lo scorso 25 novembre scorso, è stato diffuso dal portale argentino "Infobae". Si tratta di audio Whatsapp scambiati tra il dottor Leopoldo Luque, medico personale dell'ex Pibe de Oro, e altre persone, tra cui Augustina Cosachov, la psichiatra dell'ex fuoriclasse. I due sono sotto indagine con l'accusa di omicidio colposo.

"Il grassone sta morendo". Gli audio di cui si parla si riferiscono infatti agli ultimi minuti di vita di Maradona. In particolare, in uno Luque dice: "Pare che abbia avuto un arresto cardiorespiratorio e che stia per morire il grassone - avrebbe detto a un contatto che gli chiedeva informazioni dopo le prime notizie apparse in tv - Non ho idea di cosa abbia fatto. Ci sto andando". Luque ha poi scambiato degli audio e dei messaggi di testo con la Cosachov, già a casa di Maradona: "Ora è con i sanitari dell'ambulanza, lo stanno rianimando e lo intubano - raccontava la psichiatra -. Ma lo stavamo facendo da dieci, quindici minuti noi perché l'ambulanza non arrivava. Siamo entrati nella stanza ed era molto freddo. Abbiamo iniziato a rianimarlo e lui si è ripreso un po' e, diciamo, ha recuperato un po' la temperatura corporea. Non ci dicono come è la situazione. Me ne sono andata e non mi hanno detto niente".

Luque: "Sono pazienti difficili". E Luque risponde: "Così è. Abbiamo fatto quello che dovevamo, Agustina. La famiglia era a conoscenza di tutto. Sono pazienti così, molto difficili. Niente, ti chiedo solo che tu mi faccia sapere se vanno via, così io vado direttamente. Ovviamente, se sopravvive. Perché la situazione è complicata". Luque è anche il neurochirurgo che aveva operato Maradona qualche settimana prima della morte per un edema cerebrale. La Procura di San Isidro continua intanto ad analizzare il materiale sequestrato e nei prossimi giorni sia Luque che la Cosachov potrebbero essere risentiti.

L'audio choc su Maradona: "Il grassone sta per morire". "Pare che abbia avuto un arresto cardiorespiratorio e che stia per morire", sarebbero queste le parole pronunciate in un audio whatsapp da Leopoldo Luque, medico personale di Maradona. Marco Gentile, Lunedì 01/02/2021 su Il Giornale. "Il grassone sta morendo", è questo l'audio choc riferito a Diego Armando Maradona, deceduto lo scorso 25 novembre all'età di 60 anni nella sua casa di Tigre. La frase in questione sarebbe stata pronunciata dal medico di fiducia egrande amico del Pibe de Oro, Leopoldo Luque, finito fin da subito nel registro degli indagati per la morte dell'ex campione di Boca Juniors, Napoli e Barcellona. Questo audio è stato diffuso dal portale argentino Infobae ed è destinato a far discutere per la portata e la gravità del contenuto. Queste quattro semplici ma crude parole sarebbero state pronunciate da Leopoldo Luque all'interno di una conversazione su whatsapp tra il dottore di Maradona e altre persone tra cui Augustina Cosachov, la psichiatra dell'ex fuoriclasse del Napoli. Entrambi sono finiti sotto indagine con l'accusa di omicidio colposo. Luque tra l'altro è anche il neurochirurgo che aveva operato Maradona qualche settimana prima della morte per un edema cerebrale.

Audio da brivido. "Pare che abbia avuto un arresto cardiorespiratorio e che stia per morire il grassone", avrebbe detto Luque ad un contatto presente in quella conversazione whatsapp che gli chiedeva informazioni sul Pibe dopo le prime notizie apparse in televisione. "Non ho idea di cosa abbia fatto. Ci sto andando", le parole del medico personale di Maradona. Luque e la Cosachov sono finiti subito nei guai e ora rischiano che la loro posizione si aggravi ulteriormente dopo queste conversazioni delicate sullo stato di salute del Pibe. I due, tra l'altro, si sarebbero scambiati alcuni messaggi sempre su whatsapp proprio mentre la psichiatra era nella casa dell'agonizzante Maradona: "Ora è con i sanitari dell'ambulanza, lo stanno rianimando e lo intubano", il racconto della Cosachov. La psichiatra di Maradona ha poi spiegato a Luque cosa stava avvenendo in casa poco prima dell'arrivo dell'ambulanza: "Lo stavamo rianimando noi da dieci, quindici minuti perché l'ambulanza non arrivava. Siamo entrati nella stanza ed era molto freddo. Abbiamo iniziato a rianimarlo e lui si è ripreso un po' e, diciamo, ha recuperato un po' la temperatura corporea. Non ci dicono come è la situazione. Me ne sono andata e non mi hanno detto niente". L'ultima parola a Luque che risponde freddamente al racconto dalla collega: "Così è. Abbiamo fatto quello che dovevamo, Agustina. La famiglia era a conoscenza di tutto. Sono pazienti così, molto difficili. Niente, ti chiedo solo che tu mi faccia sapere se vanno via, così io vado direttamente. Ovviamente, se sopravvive. Perché la situazione è complicata".

Adriano Seu per gazzetta.it il 31 gennaio 2021. Nuovi dettagli gettano ulteriori ombre su Leopoldo Luque e Agustina Cosachov, neurochirurgo e psichiatra indagati per la morte di Diego Armando Maradona. Stavolta, dopo la scoperta di alcune firme contraffatte in seguito a perizia calligrafica disposta dalla magistratura, emergono anche alcuni estratti di conversazioni e messaggi audio scambiati da Luque con alcuni collaboratori e colleghi durante le concitate ore di quel 25 novembre in cui l’ex Pibe de Oro si è spento. Le parole e il tono utilizzato da Luque appaiono a momenti surreali e persino oltraggiose. Lo specialista che aveva in cura il “Diez”, inoltre, pare molto più preoccupato della possibile reazione dei familiari e chiede a Cosachov di “avvisare subito sui loro spostamenti”. A diffondere gli audio e i messaggi incriminati è stato Infobae, precisando che il materiale fa parte delle prove al vaglio degli inquirenti. “Tranquilla Agustina, abbiamo fatto tutto ciò che potevamo. La famiglia era al corrente della situazione, sapeva che si trattava di un paziente difficile. L’unica cosa che adesso ti chiedo è di avvisarmi nel caso siano arrabbiati e di dirmi quali siano i loro spostamenti”, riferisce Luque a Cosachov dopo aver appreso degli inutili tentativi di rianimazione sul corpo di Maradona. Luque, messosi al volante appena appresa la notizia per recarsi a casa di Maradona, appare più che altro preoccupato per la reazione dei famigliari del Diez, ma la parte più sconcertante arriva in seguito. Terminata la conversazione con Cosachov, Luque risponde a un collega che gli chiede conferme dopo aver appreso la notizia dal telegiornale. “Il gordo si fregherà da solo morendo” (“El gordo se va a cagar muriendo”), ribatte Luque con tono quasi irridente prima di rivelare che “pare abbia avuto un arresto cardio respiratorio, io sto andando lì”. Alla luce del materiale raccolto finora, sostengono i media argentini, Luque e Cosachov potrebbero essere sottoposti a un nuovo interrogatorio nei prossimi giorni. La prima a reagire pubblicamente dopo la diffusione dell'audio è stata Dalma Maradona. La primogenita del Diez si è sfogata attraverso Twitter, raccontando di aver vomitato dopo aver sentito l'audio tra Luque e la Cosachov. Ma non si è fermata qui, perché ha anche puntato il dito contro Matías Morla - avvocato di Maradona nell'ultimo periodo - al quale imputa la responsabilità di aver scelto proprio Luque per occuparsi della salute del padre. Dalma pretende giustizia per il Diez.

Il Doping. Massimo Calandri per repubblica.it il 13 gennaio 2021. Dal primo gennaio di quest' anno, un atleta sorpreso ad aver fatto uso di droga (cocaina, eroina, ecstasy, cannabis) dopo un controllo rischia una squalifica di soli 3 mesi, riducibili addirittura a 30 giorni se dà prova di essersi pentito e partecipa a un programma di recupero. Campione o meno, professionista o dilettante, può sniffare, bucarsi, inghiottire una pasticca o fumare fino alla mezzanotte prima della gara. Per la Wada, l' agenzia mondiale anti-doping, la cosa importante è che quella droga non abbia alterato in alcun modo il risultato della competizione. Calcio, tennis, basket, nuoto, motorsport: vale per tutte le discipline. Fino a 2 settimane fa, in caso di positività alla cocaina lo stop poteva essere fino a 4 anni: pena ridotta a 2 anni se l' assunzione era accaduta lontano dal contesto sportivo. Per sballarsi, insomma, ma non per doparsi. Ma due anni sono comunque un blackout nella carriera di un atleta, una macchia, l' interruzione di un percorso. Tre mesi, anzi uno, diventano un buffetto. L' innovazione appena entrata in vigore nasce in realtà da lontano. L' impianto normativo è stato varato dalla Wada nel novembre 2019 ed è arrivato dopo due anni di discussioni e lavori, rese in parte noti nell' agosto scorso. Adesso sono in vigore, e lo sport deve farci i conti. L' atleta positivo può dimostrare che l' assunzione è non è legata alla prestazione sportiva ed è avvenuta "fuori dalla competizione". Lo stop di tre mesi "può essere ridotto ad un mese, se l' atleta completa in modo soddisfacente un programma di trattamento approvato dall' agenzia antidoping". In un documento allegato, la Wada indica le cosiddette substances of abuse ("perché di esse si abusa frequentemente nella società al di fuori del contesto sportivo"): cocaina, diamorfina (eroina), metilenediossimetanfetamina (mdma/ ecstasy), tetraidrocannabinolo (Thc). Ma cosa vuole dire "fuori dalla competizione"? L' intervallo di tempo va dalla mezzanotte del giorno di gara fino al termine della competizione stessa e al prelievo antidoping. In altre parole: dal primo gennaio 2021, se un calciatore di A sniffa cocaina quando manca un minuto alla mezzanotte del sabato, poi gioca domenica a mezzogiorno e al termine del match viene trovato positivo all' antidoping, può cavarsela con un mese, al massimo tre. «Alla Wada evidentemente interessa solo il risultato in gara: non la salute dell' atleta, e soprattutto l' esempio che quell' atleta può dare a tutti, in particolare ai giovani»: Antonio De Rensis, avvocato noto per aver difeso molti campioni italiani dall' accusa di doping, ammette di essere sbalordito. «La punizione è ridicola, il messaggio etico gravissimo: drogati pure di eroina, rischia la tua vita e quella degli altri; ma guai a te, se prendi steroidi o anabolizzanti. Ma come: i governi di tutto il mondo investono miliardi e strutture nel combattere la produzione e il consumo degli stupefacenti, e poi vengono veicolati questi messaggi? Lo sport dovrebbe allontanare il pericolo della droga per i ragazzi: invece così il centravanti della mia squadra magari viene nella mia scuola, mi racconta che gli dispiace di aver preso della cocaina sabato scorso, e poi tra un mese torna in campo. Surreale». L' agenzia mondiale ha rivisto il codice a fine 2019 introducendo anche nuove norme per proteggere i 'pentiti' del doping e pene più severe per chi prova a falsificare le prove che lo accusano: nell' agosto scorso aveva reso noto le direttive in caso di assunzioni di "droghe ricreative", a settembre ha comunicato l' elenco delle substances of abuse , dal primo gennaio sono scattate le nuove regole. Quasi trent' anni fa, Diego Armando Maradona, fu trovato positivo alla cocaina dopo un Napoli-Bari: era il 17 marzo del 1991. Giocò la sua ultima partita in maglia azzurra la settimana dopo, a Genova con la Sampdoria: arrivarono i risultati delle controanalisi e la lunga squalifica, l' addio all' Italia. Se fosse successo oggi, avrebbe perso 4 partite al massimo.

·        1 anno dalla morte di Stefano D'Orazio.

Stefano D'Orazio morto di Covid, la lettera di Robby Facchinetti al Corriere della Sera: "Dopo un anno, lo devo dire". Libero Quotidiano il 06 novembre 2021. Un anno dopo, le lacrime di Roby Facchinetti per Stefano D'Orazio. Lo storico batterista dei Pooh è morto nel 2020 per Covid, un dramma che ha sconvolto la famiglia della più celebre band del pop italiano e i suoi milioni di fan. , Eccoci qui, il sei novembre è arrivato. Non è un giorno normale per me", scrive il fondatore in una lettera pubblicata dal Corriere della Sera. "Ancora non mi sono abituato alla tua assenza, te l'ho già detto troppe volte". Le parole di Facchinetti per l'amico D'Orazio sono strazianti: "Sono tanti i ricordi che affiorano, sai? Tanti momenti con i Pooh, l'ultimo periodo lavorando al nostro Parsifal , quando mi chiedevi: «Scrivi un brano alla Facchinetti, ci vuole una delle tue alzate d'ingegno, qui». Le lunghe chiacchierate e le tavolate dove tenevi banco fra racconti e battute, la tua fantasia e le nostre risate". Quindi un pensiero molto privato: "Pensavo a quando mi aiutasti - tu solo - in un momento per me difficile, l'unica porta che allora trovai aperta fu la tua, e non so neppure se in quel momento ebbi la lucidità di ringraziarti. Lo faccio ora, so che hai capito di cosa sto parlando". D'Orazio, considerato il "collante" dei Pooh nonché l'anima più squisitamente "commerciale" di un gruppo diventato ben presto una fabbrica-azienda di successi senza tempo, ha lasciato un vuoto non colmabile: "Stefano manchi tanto, a me, ai tuoi amici per sempre, a chi ti ha conosciuto, ai fan che non perdono occasione per ricordarti, alla tua dolce Tiziana". Tutto prevedibile, perché era "un'anima bella da conoscere e sentire vicina, un fuoco di idee che per raccontarti ci vorrebbero pagine e pagine". Facchinetti sta per debuttare con l'opera-spettacolo Parsifal, ispirata al capolavoro anni Settanta dei Pooh, a cui ha lavorato lo stesso D'Orazio prima di venire stroncato, nel giro di pochi giorni, dal Coronavirus nel pieno della seconda ondata. "Sono convinto ti sarebbe piaciuto. Anzi, penso che mi sarebbe valso il tuo: «E bravo, Facchinetti!». Del resto, cambiare a volte i nostri percorsi è bello e tu lo sai bene, perché in questo sei sempre stato coraggioso, avanti anni luce". 

Il romanzo postumo di Stefano D'Orazio. L'amore passa dalle parole di sua moglie. Una lunga chiacchierata con Tiziana Giardoni, moglie dell'amatissimo Stefano D'Orazio, che ha deciso di far uscire "Tsunami", l'ultimo romanzo postumo dell'artista. Roberta Damiata - Lun, 22/03/2021 - su Il Giornale. Uno tsunami sconvolge la vita di Walter, 56 anni pubblicitario di Milano. È lui il protagonista di Tsunami, l’ultimo romanzo postumo di Stefano D’Orazio (La Corte edizioni) che racconta le seconde possibilità che la vita può regalare. La storia di un pubblicitario che ha dedicato tutta la vita al lavoro mettendo da parte la famiglia e gli affetti più cari per votarsi al successo. Arriva però un momento della sua vita in cui sembra che tutta l’esperienza e il talento che lo hanno sempre caratterizzato, non gli bastino più. Decide allora di lasciare tutto e fuggire in Polinesia, alla ricerca di nuovi stimoli, di un paradiso che spera lo possa accogliere e cambiarlo. La barca è sempre stata la sua passione e proprio con questa decide di intraprendere questo lungo viaggio. Ma il destino lo attende e lo travolge facendolo scontrare con uno tsunami che cambia i suoi piani. Sarà così costretto su un'isola deserta con la sola compagnia di un gatto clandestino, e sarà obbligato a mettersi completamente in gioco e ad affrontare il suo passato, le sue paure più profonde, e ad avere un cambiamento totale. Un romanzo molto d’impatto e potente che mostra una scrittura più matura per Stefano D’Orazio, la cui morte improvvisa per Covid ha lasciato un vuoto incolmabile nel mondo della musica e non solo. Abbiamo parlato di questo ma anche di molto altro, con la moglie Tiziana Giardoni. Tiziana ha deciso di pubblicare il romanzo dopo la sua scomparsa per onorare l’impegno a cui Stefano aveva dedicato l’ultimo anno della sua vita.

Il pubblico ha amato da sempre Stefano come artista. Lei che lo conosceva bene che uomo era?

“Una persona molto allegra, divertente, schietta, senza nessun tipo di artefatto. Per questo era amatissimo dal pubblico da cui traeva ispirazione per tutte le cose che faceva. Tutti lo ricordano come una persona molto empatica”.

Come ha preso la decisione di far uscire questo romanzo postumo e cosa rappresenta per lei e per tutti quelli che amano Stefano?

“Letteralmente ad occhi chiusi perché sapevo quanto Stefano ci tenesse. Ha passato moltissimo tempo a scrivere questo romanzo, come del resto tanti altri lavori che sono nel cassetto e che prima o poi farò uscire. Lo dovevo a lui e al pubblico che lo ha sempre seguito e apprezzato. Ultimamente io per prima mi sono resa conto di quanto fosse amato. Il libro doveva uscire a novembre, ma per motivi che sappiamo, legati al Covid e anche alla salute di Stefano, è stato rimandato. In quel periodo stava facendo fisioterapia perché stando molto a casa era un po’ fuori forma e lui ci teneva tantissimo a farsi vedere al meglio”.

Stefano era molto prolifico nella la scrittura. A parte i testi delle canzoni, prima di “Tsunami”, aveva scritto altri due libri molto personali e intimi. Che differenza c’è con questo?

“È una scrittura completamente diversa rispetto agli altri, anche se c’è sempre l’ironia che ha cateterizzato la scrittura di Stefano. Però questo è un libro più maturo, completo, se vogliamo un’evoluzione rispetto ai precedenti”.

Perché aveva deciso di scrivere proprio un romanzo?

“Amava mettersi in discussione e trovare motivi per far sapere alle persone, ai suoi amici e a sé che poteva fare molto di più di “suonare sui tamburi” come diceva lui. Era l’essenza della sua vita. Lo ha dimostrato quando nel 2009 lasciò i Pooh. Fu una scelta molto complicata, difficile, e maturata negli anni, perché si era reso contro di non aver dato tutto quello che poteva nella sua vita, oltre la musica. Io a volte non capivo forse perché sono arrivata nella sua vita nel 2007, e già in quel periodo lui pensava di poter fare altro. Mi diceva spesso: “Il mio è stato un bellissimo mestiere, un’esperienza di vita che rifarei mille volte, ma ho bisogno e sento di poter fare anche altro”.

Questo desiderio così forte si comprende bene anche nel romanzo. Lei lo ha aiutato in qualche modo nella stesura?

“Non nella scrittura però io sono stata il suo primo lettore. Ogni volta che finiva un capitolo mi faceva sedere e voleva che lo ascoltassi. Me lo leggeva perché voleva vedere nei miei occhi e nelle mie espressioni il mio riscontro. Se io mi emozionavo, se rimanevo lì appesa alle sue parole, significava che stava funzionando. La stessa cosa succedeva per i testi delle canzoni. Lui ha lavorato in contemporanea anche su Parsifal, un grandissimo progetto insieme a Roby Facchinetti per cui ha scritto la sceneggiatura, le liriche e il libretto. Ogni volta che finiva un testo e Roby lo rimandava con la musica, me la faceva ascoltare: “Se piangi allora significa che funziona”. Era il suo modo per mettermi alla prova”.

Dove ha tratto Stefano l’ispirazione per la storia di “Tsunami”?

“Dentro il romanzo c’è molto di autobiografico. Lui era una persona curiosa, che sapeva ascoltare le persone e proprio dalle esperienze degli altri traeva spunti ed ispirazione. Era una spugna. Dentro questo romanzo c’è un pezzo di ogni esperienza che aveva fatto o che ascoltava dagli altri”.

Lei dov’è all’interno del libro?

“Questa è una cosa che non gli ho mai chiesto. Però leggendo il libro credo di rappresentare la nuova compagna che Walter, il protagonista, che trova durante questo viaggio. Probabilmente si riferisce a quando lui lasciò i Pooh e decise di intraprendere una nuova esperienza di vita dove c’ero anche io. Anche per la gatta con il muso schiacciato che incontra durante il viaggio, si è ispirata alla nostra gatta”.

Il titolo “Tsunami” evoca la distruzione con una conseguente nuova vita. È andata così anche nella vita di Stefano?

“Non è proprio perché Stefano ha amato moltissimo la sua vita precedente, forse più di ogni altra cosa. In questo caso lo tsunami è qualcosa che è servito al protagonista di questo racconto per ritrovare se stesso. Perché lo ha costretto in un’isola deserta a scontrarsi con i suoi fantasmi del passato, con gli errori che ha fatto come quello di aver trascurato la sua famiglia, e quindi ad affrontarli per vivere un nuovo presente”.

Stefano è stato un uomo che non si è mai legato, mi viene quindi da pensare che lo tsunami sia stato proprio lei. Si è mai chiesta come sia riuscita a cambiarlo in questo modo?

“Eravamo molto simili nel modo di vedere il mondo. Dico eravamo, perché la sua scomparsa mi ha indurito moltissimo e in me vedo un cambiamento molto importante. Insieme amavamo ridere e ci emozionavamo anche per le piccole cose. Due persone generose che amavano la famiglia. Lui adorava la sua, aveva un rapporto molto stretto con sua sorella, ma anche la mia. Non siamo mai stati tipi mondani. Ci piaceva rimanere a casa a mangiare una pizza piuttosto che andare a cene o a party. Lo facevamo quando dovevamo, ma non era una cosa così scontata”.

Parlava prima di altri progetti lasciati nel cassetto...

“A parte Parsifal che con Roby Facchinetti faremo uscire non appena la pandemia finirà, c’è un altro lavoro che ho adorato. È uno scritto sul Tevere, con spunti non soltanto dettati dalla sua fantasia, ma anche da alcuni fatti reali. Un lavoro bellissimo che non so ancora se uscirà come romanzo o come sceneggiatura di un film. Inoltre c’è un progetto che Stefano aveva fatto con il regista Fausto Brizzi che ha i diritti in Italia di “Big” il film con Tom Hanks. Aveva scritto una sceneggiatura per farne un musical. In ogni caso di progetti ce ne sono tantissimi, perché nel corso degli anni Stefano, anche quando era nei Pooh, lavorava anche su altre cose. Sono tutti in un cassetto e devo capire piano piano, come farli uscire. Ci vuole del tempo per me. Però lo farò perché oltre ad amarlo, io lo ammiravo tantissimo, proprio come una fan. Mi incantava anche soltanto sentirlo parlare”.

Tralasciando la polemica di Sanremo dove non è stata ricordata la sua memoria, avete pensato, magari insieme agli altri componenti dei Pooh, ad un omaggio per lui?

“Ne abbiamo parlato ancora prima di Sanremo e sicuramente qualcosa faremo. Quando e come è un po’ presto per dirlo, ma di sicuro ci sarà perché glielo dobbiamo. Per quanto riguarda Sanremo alla fine è andata meglio così. Avere un passaggio alle 2 di notte forse sarebbe stato poco rispettoso per la memoria di un grande artista come lui. Credo comunque che la polemica non esista più, perché sia Amadeus che Fiorello sono stati molto carini, mi hanno chiamato e si sono scusati e questo non era dovuto”.

Tutti parlano del vostro come un grande amore. Come vi siete conosciuti con Stefano?

“Nel dicembre del 2007 in occasione della cena di una nostra amica comune. Mi ha colpito subito perché era una persona molto divertente e ha fatto battute per tutta la sera. Eravamo a tavoli diversi ma durante la serata ci siamo scambiati i numeri di telefono. Il giorno dopo alle 7 di mattina mi ha scritto un messaggio meraviglioso che conservo ancora e che mi ha allietato tutta la giornata. Poi ci siamo sentiti al telefono e quando ci siamo visti la prima volta a cena, ho capito che persona meravigliosa fosse”.

Per lui è stata un vero colpo di fulmine...

“Sicuramente ma anche per me, dopo aver letto il messaggio che mi aveva mandato”.

Questa è un’ulteriore prova della potenza che aveva Stefano con la scrittura...

“Esattamente. Lui aveva una grande forza nella scrittura lo hanno dimostrato i testi delle canzoni, e ce ne sono ancora molte nel cassetto, ma anche i suoi libri. È stato capace di farmi innamorare con un solo messaggio”.

·        1 anno dalla morte di Ezio Bosso.

Ezio Bosso: ti ricordo così. Giorgio Verdelli il 3/10/2021 su Vanityfair.it. A un anno e mezzo dalla scomparsa esce «Le cose che restano», un docufilm sulla vita e la carriera di Ezio Bosso firmato da un musicologo che lo conosceva bene. E che, solo a noi, svela qualcosa che non è mai stato raccontato sul grande direttore d'orchestra. Il percorso musicale di Ezio Bosso è stato sempre strettamente connesso al suo pensiero e alla sua vita che somiglia a un romanzo russo del primo Novecento piena com’è di «discese ardite e di risalite» che si riflettono in un’attitudine musicale sempre più affinata nonostante le patologie che lo affiggevano. Incontrarlo era una vera Epifania sia per il carisma che emanava sia per l’acutezza delle sue osservazioni, tutto ciò ben prima di essere diventato un personaggio pubblico. In realtà Ezio era già un «personaggio» sin da giovanissimo per l’ambiente musicale, quello che oggi definiremmo «crossover» ovvero coloro che cercavano una contaminazione di generi ai fini di esplorare nuovi paesaggi musicali. Ezio era in prima fila tra questi esploratori delle note che avevano un loro codice in cui Ezio era considerato una sorta di guru. Non a caso durante la sua vita si è lanciato spesso in forme ibride di narrazione e musica, perché il suo approccio, anche se lo incontravi al bar, era davvero poliedrico. Se ti trovavi davanti a buon bicchiere di vino decostruiva tanti pregiudizi culturali per trasmettere con infinito entusiasmo la sua passione fondamentale: la Musica, quella con la M maiuscola. A me è capitato di incontrarlo in fasi molto diverse della sua vita e ogni volta ne uscivo con un tassello diverso di una personalità complessa ma affascinante. Era capace di contaminare il quotidiano con l’aulico: un ragazzo di famiglia operaia diventato polistrumentista e compositore, capace di passare dalla direzione dell’Incompiuta di Schubert all’arrangiamento di un brano rap come Cappotto di Legno insieme a Lucariello. Intorno al 2002, il mio amico Enzo Decaro, compagno di Massimo Troisi e Lello Arena ne La Smorfia, realizzò il progetto «Poeta Massimo» musicando le poesie scritte dal giovane Troisi e mi parlò di questo arrangiatore e contrabassista che aveva conosciuto nel gruppo di Uto Ughi dove suonava il violino una sua fidanzata dell’epoca: si trattava proprio di Ezio! Ci trovammo una sera a cena a Roma e praticamente non mangiai assorbito dalla sua straordinaria capacità affabulatoria capace di passare da Frank Zappa a Bach passando per Astor Piazzolla, Roberto De Simone e i Led Zeppelin con una competenza degna di un grande musicologo. «Sai che dovresti fare un programma di divulgazione musicale», gli dicevo. Ma lui si scherniva, preso com’era dalla sua foga di compositore e arrangiatore. Poco dopo venni a sapere che stava collaborando con Pino Daniele (sembra strano ma, almeno nella mia esperienza con Ezio, Napoli è ricorrente…) e una sera diresse un bel concerto di Pino al teatro Ambra Jovinelli di Roma: era una serata di beneficenza e Pino reinterpretava le sue canzoni in chiave madrigalistica. La grinta di Ezio era al solito eccezionale e ci fu anche chi rumoreggiava perché a volte «copriva» Pino e qualcuno non riusciva a vederlo bene, ma come hanno testimoniato tutti coloro che hanno diviso il palco con lui, era un protagonista naturale e «rubava» la scena non per calcolo ma per passione. Purtroppo non ci sono testimonianze di quel concerto – né foto né riprese – perché eravamo in epoca pre-social. Anzi, invito chiunque ne avesse una pur minima a farsi avanti. Qualche anno dopo ci fu una nuova occasione in cui lo vidi live al Porto Antico di Genova per l’Mtv Day nel 2009 in cui suonò con il suo «Quartetto di Torino» Cappotto di Legno che aveva scritto per Lucariello su un testo di Roberto Saviano: la loro performance fu qualcosa di atipico e intrigante tra tutto il rock possibile degli anni ’90. Dopo il concerto, quando cercai di far avere dallo staff i miei complimenti a quel curioso ensemble, mi dissero che era stato molto meglio il dietro le quinte dove Ezio aveva improvvisato una versione per archi di Whole Lotta Love dei Led Zeppelin! Quando nel 2016 stavo realizzando il docufilm su Pino Daniele cercando anche delle testimonianze inedite, Alessandro il figlio di Pino mi disse che in realtà c’era stata una loro collaborazione discografica e anche delle foto in studio per la preparazione dell’album Passi d’Autore. Il progetto poi non si era concretizzato perché Ezio era stato chiamato da Gabriele Salvatores per la colonna sonora di Io non ho Paura, ma era rimasta una grande stima reciproca. La notizia mi intrigò moltissimo poiché nel frattempo, dopo la celebre performance a Sanremo, Ezio Bosso era diventato un grande personaggio mediatico. Ma soprattutto mi piaceva far raccontare Pino da una diversa angolazione, totalmente inedita. Contattai subito Ettore Caretta che lavorava con lui in quel periodo e mi disse subito che Ezio su Pino era assolutamente disponibile aggiungendo che, nel caso, sarebbero stati all’Hotel Locarno dopo qualche settimana. Con l’audacia dei folli declinai l’invito spiegando che avrei voluto fare una vera ripresa posata magari col suo pianoforte, ma Ettore mi disse che in ogni caso Ezio avrebbe fatto l’intervista ma non avrebbe suonato: io decisi di correre il rischio aspettando la nuova data. Passarono quasi due mesi e stavo chiudendo il film che sarebbe stato presentato al Teatro San Carlo il 19 Marzo, compleanno ed onomastico di Pino: dopo varie sollecitazioni, finalmente, a metà gennaio Ettore mi prese l’appuntamento a Bologna, avvisandomi che lui non sarebbe venuto e che Ezio era disponibile solo per un’ora nel pomeriggio. Organizzai subito la troupe e, alle 16.30, bussammo a casa di Ezio che ci accolse con grande cortesia: parlammo di Pino, di Enzo, del San Carlo dove era in contatto con la Sopraintendente e gli spiegai cosa volessi fare. «Va bene mi metto al pianoforte, ma non ho intenzione di suonare», mi disse. «Non c’è problema», risposi. «Ma un pianoforte è sempre lo sfondo migliore per un musicista, come insegnano Antonello Falqui e Leonard Bernstein…».

Rise e aprì la tastiera giochellerando con il suo splendido Steinway personalizzato. «Bellissimo suono», osservai complice. «Davvero», rispose sorridendo. Poi, accennò la melodia di Rain, che i miei ripresero subito.

«Va beh, ma le domande?», mi guardò con severità.

«Se sei pronto giriamo».

«Fammi vedere l’inquadratura».

La vide e ne fu molto soddisfatto così cominciammo parlando di Gesualdo da Venosa, di Pino Daniele, delle contaminazioni musicali e di quegli anni di sperimentazioni con una passione e una tenerezza che ci conquistarono tutti. Concluse così: «D’accordo allora la suono Rain, mica vuoi usare quella schifezza che avete ripreso prima?».

E la suonò con grande delicatezza. Fu l’ultima intervista che feci per il docufilm su Pino e la prima che ho fatto per quello di Ezio. Ma, all’epoca, non lo sapevo ancora.

Dagospia il 2 maggio 2021. Testi di Ezio Bosso estratti dal libro “Faccio musica” e pubblicati da La Repubblica. C' è un vecchio detto degli afro-americani: «Non puoi controllare quello che gli altri dicono di te. Ma devi sempre assicurarti che scrivano almeno correttamente il tuo nome». E anche se spesso il mio nome viene scritto male - Enzo, Enzio, Ezzio -, penso sia un concetto bellissimo. Non è facile, ve lo assicuro. Perché quello che sto facendo porta anche ricordi dolorosi, perché è difficile scegliere cosa è essenziale e cosa no, quando sei consapevole che lo è tutto, soprattutto il respirare. E poi perché io scrivo davvero male. Ma di una cosa sono sicuro. Ciò che ho fatto, ciò che ho raggiunto e ottenuto, esiste grazie al famoso concetto dell'«essermelo guadagnato» in ogni piccolo passo e dall' indiscutibile fatto di essere un essere fortunato, anche se chi vede le ruote o il mio corpo tende per pregiudizio a non pensarlo. E soprattutto dall' esigenza della musica nella mia vita. Dall' avere desiderato la musica da sempre, e forse oggi azzarderei anche di essere evidentemente stato desiderato da essa da sempre. La mia famiglia non era abbiente e sono nato in un quartiere della Torino operaia degli anni Settanta. Questa è la chiave per entrare in una parte di cosa ha definito la mia carriera, perché vi chiederete? Perché la mentalità di un operaio, specialmente del Nord Italia, nei confronti dei suoi figli era solo quella di riuscire a dargli un futuro un poco migliore del suo, a farlo studiare. *** La musica rende belli Qui vorrei dire che la musica ci rende belli. Io per esempio sono bruttino, ma quando dirigo sembro bellino. E mi sento anche bellino, supero i complessi estetici del mio stato, come dico sempre, trascendo me stesso anche esteticamente. E sono giunto alla conclusione che se un direttore è bello quando dirige abilmente è anche bravo e da ascoltare, perché in quella bellezza ottenuta all' abbandono alla musica, alla trascendenza del sé, c' è già un sintomo di approccio corretto. *** La malattia non migliora nessuno È come un fiume carsico, per un po' scompare, ti sembra scomparso, poi riaffiora e spesso non dai nemici, ma proprio dagli amici, anche quelli che nel fondo lo sai che ti vogliono bene. Fa rabbia. Mi fa rabbia. Razionalizzo, mi dico che se per secoli per essere più buoni, ci siamo messi il cilicio, ci siamo fustigati, abbiamo digiunato, rinunciato alle cose belle della vita, allora è impossibile estirpare questa idea che il dolore redima, migliori, ci renda esseri superiori, come se la vita, che tanto veneriamo, in sé fosse peccato. E chi sono io per negare una convinzione radicata nei millenni, per dire che gli stiliti non erano migliori solo perché emaciati. Che il dolore innervosisce, e nessuno è più buono se soffre. Anzi. Il dolore, come la paura, non migliora nessuno, di certo non me; questo equivoco ricorrente, che mi insegue strisciante, detto e non detto, a volte secondo me manco si accorgono che lo dicono, gli scappa proprio con la disinvoltura d' abitudine di un «ciao». Per alcuni nemici poi il dolore sembra un privilegio: ha successo perché soffre. Bestialità. Svilimento di ciò che faccio. Nessun rispetto, per se stessi in primis. Ma poi, anche lì, chiunque non stia bene si espone, lo dice, comunicati stampa di gente, di «artisti» che parlano di malattia invece che di ciò che fanno. La lista è lunga. Ci marciano. E allora perché io dovrei essere diverso da quelli. C' è una logica. Pessima. Ma pur sempre logica.

·        1 anno dalla morte di Roberto Gervaso.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 19 giugno 2021. Oggi per me e tanti colleghi scribacchini è una giornata triste. Il nostro maestro Roberto Gervaso, morto recentemente dopo averci regalato perle letterarie di grande valore, viene seppellito al Vittoriale (sul bellissimo Lago di Garda) accanto a Gabriele D' Annunzio. Un traguardo meritato per ciò che egli è stato capace di fare in vita, solo miracoli. La sua mirabile produzione giornalistica per gli intenditori del genere è qualcosa di speciale. Roberto aveva un talento strepitoso che ha fatto di tutto, senza riuscirci completamente, per nascondere. Ora rammentiamo soprattutto i suoi programmi televisivi puntuti e divertenti, le battute folgoranti, gli aforismi (sua specialità) che in alcune parole fotografavano la realtà e i nostri stati d' animo. Ma la bravura mostruosa di Gervaso non si ferma qui. E io gli voglio rendere giustizia. Era famoso per le cose minori che ha scritto, mentre per quelle importantissime pochi lo citano. Non tutti, anzi una minoranza, sa che questo genio assoluto ha steso di suo pugno i sei o sette libri firmati da Indro Montanelli sulla storia d' Italia, una serie che ebbe un successo strepitoso e che vendette una montagna di copie. Roberto vergava centinaia di pagine, faticando da giovane come un mulo, Indro rileggeva la prosa magnifica del ragazzo collaboratore, vi aggiungeva alcuni toscanismi efficacissimi, poi l'elaborato sudato da Roberto veniva dato alle stampe. Ogni volume, un trionfo grandioso. In copertina figuravano le firme di entrambi gli autori, ovviamente, ma nel cranio dei lettori è rimasto solo quella del fuoriclasse di Fucecchio. Cose che succedono nel nostro mestieraccio. Uno lavora da padre terno e l'altro raccoglie la gloria. D' altra parte sappiamo perfettamente che il fondatore del Giornale era così abile e intelligente da sapersi scegliere aiutanti di notevole spessore, se non erano di prima qualità manco li avvicinava. Ignoro come e dove conobbe Gervaso, però so che lo ha sfruttato con la stessa forza con cui si spreme un limone. Voglio sperare che almeno dal punto di vista economico Roberto abbia avuto soddisfazione. La stessa sorte toccò a Mario Cervi, defunto pure lui alcuni anni orsono, il quale scrisse come un forsennato una serie di testi sulle più recenti vicende italiane che in libreria andarono a ruba. I tomi curati con perizia dal giornalista, eccellente ma meno noto del principe, recano la firma anche di Montanelli, garanzia di ottimo risultato. In due righe: Indro sull' altare, con merito, Gervaso e Cervi sotto, sui gradini.

·        1 anno dalla morte di Ennio Morricone.   

C’era una volta Ennio Morricone.   Culturaidentità.it il 10 Novembre 2021. Oggi avrebbe compiuto 93 anni. Un anno fa ci lasciava Ennio Morricone. Lo ricordiamo con questo tributo di Manuel Fondato (Redazione) 

Scena uno: Roma, 1937-una terza elementare di Trastevere è in posa per la foto di classe che suggella la fine dell’anno scolastico. I bambini, tutti maschi, sono ben pettinati e ordinati nei loro grembiulini azzurri con fiocco bianco.

Nella fila in alto; partendo da sinistra, Sergio è il secondo, Ennio il quarto. Tra loro si frappone un compagno di classe.

Ennio è nato a Roma ma la sua famiglia è originaria di Arpino in provincia di Frosinone. Il padre Mario è un trombettista che lavora con diverse orchestre, mentre la madre Libera ha una piccola industria tessile. Anche Ennio ama la musica e inizierà presto a suonare la tromba. Con Sergio ha un normalissimo rapporto tra compagni di classe, non strettissimo ma cordiale, terminato il ciclo delle elementari i due prendono strade diverse e si perdono di vista.

Scena due: Siamo sempre a Roma, nel 1964. Sono passati quasi trent’anni dalla foto di fine anno della terza elementare di Trastevere. Ennio si è sposato con Maria dalla quale aspetta il terzo figlio, si è diplomato come trombettista al Conservatorio di Santa Cecilia e, come il padre, ha iniziato ad esibirsi in varie orchestre della capitale. A inizio degli anni’60 ha arrangiato dei brani che sono diventati degli enormi successi, riproposti dalle radio e cantati a squarciagola dalla gente, come sinonimo di estate e spensieratezza: Pinne, fucile, occhiali, Guarda come dondolo e Abbronzatissima di Edoardo Vianello e Sapore di Sale di Gino Paoli.

Un pomeriggio ha appuntamento a casa sua con un regista emergente, che nel 1961 ha esordito dietro la macchina da presa con Il colosso di Rodi e vorrebbe affidargli la colonna sonora del suo prossimo film. Ennio quando si trova davanti quel corpulento uomo dalla folta barba, scorge in un movimento del labbro inferiore qualcosa familiare, qualcosa del suo ex compagno delle elementari Sergio.

Non può tenersi quel dubbio e gli domanda a bruciapelo:“Ma tu sei Leone delle elementari?” ricevendo la risposta: “E tu Morricone che veniva con me a Viale Trastevere?”.

I due si riabbracciano, Ennio tira fuori quella vecchia foto di trent’anni prima ormai impolverata. Una cena a Trastevere è il giusto coronamento di un pomeriggio passato in compagnia di nostalgia e ricordi. Sergio parla a Ennio di un film del maestro giapponese Akira Kurosawa La sfida dei Samurai, invitandolo a vederlo.

Da questa pellicola ha in mente di mutuare la struttura aggiungendovi ironia, acidità e durezza per creare un nuovo genere di film western.

Ha già in mente il titolo”Il magnifico straniero” e una colonna sonora che ricordi il Deguello (pronuncia Degueio) un canto funebre messicano che il regista aveva ascoltato e apprezzato nei film Un dollaro d’onore e La battaglia di Alamo.

Il 12 settembre di quel 1964 il progetto vede la luce nelle sale cinematografiche. Non si chiama più Il magnifico straniero ma Per un pugno di dollari.

Ennio, non troppo d’accordo con la scelta del Deguello ha risolto riutilizzando una sua vecchia ninna nanna, scritta per uno spettacolo teatrale, suonata con una tromba. Il risultato è un pezzo musicale memorabile, che contribuirà non poco al successo del film e all’inaugurazione di un nuovo filone cinematografico destinato a entrare nella storia: gli spaghetti western.

Scena tre: siamo a Los Angeles, il 26 febbraio 2016.

Sergio Leone non c’è più da molti anni, è scomparso improvvisamente il 30 aprile 1989, lasciando un’impronta indelebile nella storia del cinema. Tra i registi contemporanei chi più si è abbeverato alla sua filmografia, prendendone spunti e omaggi è Quentin Tarantino, vero e proprio cultore di Leone e degli spaghetti western. Per il suo omaggio a questo genere, The Hateful eight, ha voluto affidare la colonna sonora a Ennio Morricone, ancora in piena attività ad 87 anni compiuti.

Per 20 anni: dal 1964 con Per un pugno di dollari al 1984 con C’era una volta in America, ha accompagnato con le sue musiche l’intera produzione del maestro Leone.

La sua colonna sonora per Tarantino rinverdisce il filone degli spaghetti western che ormai nessuno realizza più da molti anni. Viene premiato con l’Oscar, il suo secondo, dopo quello alla carriera del 2007, ma il primo per una colonna sonora, dopo 5 nomination in film come La palma nel cielo, Mission, Gli Intoccabili, vince anche un Golden Globe e un BAFTA.

Sempre il 26 febbraio, gli viene attribuita la stella numero 2574 nella celebre Hollywood Walk of Fame.

·        1 anno dalla morte di Kobe Bryant.

Da gazzetta.it il 24 ottobre 2021. La deposizione di Vanessa Bryant in vista del processo contro i pompieri che fecero circolare le foto dei corpi straziati di Kobe e della figlia Gianna, è stata l’equivalente di rigirare il coltello nella piaga. Non c’erano ferite da riaprire, quelle non si rimargineranno mai. La mattina del 26 gennaio 2020, un consulente della famiglia bussò alla porta di casa Bryant per informarla che Kobe e Gianna erano stati coinvolti in un incidente con l’elicottero che li stava portando alla partita di basket della primogenita. L’uomo le lasciò accesa però una speranza: “Cinque persone si sono salvate” disse. Vanessa era certa che i suoi cari erano tra i sopravvissuti e che in quel momento stavano aiutando le altre vittime. Ma mentre cercava di chiamare Kobe, sul cellulare iniziarono ad apparire messaggi dai social con la scritta: “Riposa in pace Kobe”. “La mia vita non sarà mai più la stessa” ha detto la donna durante la deposizione. Passarono ore prima che Vanessa scoprisse la verità. Tutti dettagli venuti alla luce ieri per la prima volta in un’aula di tribunale di Los Angeles. Uno dei punti più controversi del processo, è la decisione del giudice se accettare le richieste della difesa che vuole sottoporre Vanessa a una perizia psichiatrica, perizia che giustamente i legali della signora Bryant ritengono crudele. Dato però che la causa è per sofferenza emotiva, la contea sostiene che sia un procedimento di routine in casi come questo. Dopo aver appreso di non potersi recare a sua volta in elicottero sul luogo dell’incidente, Vanessa si incontrò con Rob Pelinka, gm dei Lakers ed agente di Kobe durante la sua carriera da giocatore, che l’accompagnò in auto dalla casa di Malibu alla collina dove Kobe e Gianna avevano perso la vita. Un’ora e 45’ di agonia nel traffico di L.A. Nell’ufficio dello sceriffo Alex Villanueva nessuno voleva dirle se Kobe e Gianna erano vivi o morti. Dopo una lunga attesa, arrivò un prete, accompagnato dallo sceriffo stesso e da un suo addetto stampa. Solo in quel momento le venne comunicato che non c’erano sopravvissuti. Alla domanda di Villanueva se ci fosse qualcosa che potesse fare, Vanessa rispose: “Se non può ridarmi mio marito e mia figlia, si assicuri che nessuno scatti foto dei loro corpi”. Lo sceriffo glielo promise. La vedova ora chiede giustizia: “Non mi capacito come qualcuno, davanti a una tragedia simile, possa pensare a scattare delle foto di corpi straziati per il suo divertimento”. Quando gli avvocati della difesa le hanno chiesto di guardare sul monitor immagini apparse sui social media dei cadaveri di Kobe Gianna, per dimostrare che non solo le forze dell’ordine erano venute in possesso di quegli scatti, Vanessa si è coperta gli occhi con una mano, dicendo di non aver mai voluto guardare i social in quei giorni proprio per timore di incappare in quelle immagini. “Mi hanno restituito i vestiti che indossavano quel giorno - ha poi detto - Dalle condizioni in cui erano posso solo immaginare in quale stato si trovassero i loro corpi. Come può venire in mente a qualcuno di fotografarli? Di trattarli come fossero carcasse di animali?”. Il giudice si esprimerà sulle mozioni delle parti in due udienze, previste per venerdì prossimo e il 5 novembre.

Davide Chinellato per gazzetta.it il 27 febbraio 2021. La foto del corpo senza vita di Kobe Bryant, dilaniato dall’esplosione dell’elicottero in cui ha perso la vita, compare all’improvviso sul cellulare che quell’uomo mostra al barista. Le telecamere di sicurezza lo mostrano chiaramente mentre allarga l’inquadratura, mentre si assicura che il tizio che gli ha servito un paio di drink si renda conto di quello che sta vedendo. “Hey! Ho appena visto le foto di Kobe Bryant morto. Da bere per tutti” si vanta il barista ad alta voce. Sono i nuovi, agghiaccianti dettagli, rivelati dalla causa che Vanessa Bryant ha mosso al dipartimento di polizia di Los Angeles. Lo sceriffo Alex Villanueva le aveva assicurato, nelle ore immediatamente successive all’incidente che il 26 gennaio ha sconvolto il mondo, che Kobe, la figlia Gianna e le altre 7 vittime dell’incidente sulle colline di Calabasas, poco fuori LA, sarebbero stati trattati con la massima privacy. Invece non solo i suoi uomini hanno violato quella promessa, immortalando non per ragioni di indagine i corpi delle vittime. E quelle foto per giorni sono circolate all’interno del distretto e della caserma dei pompieri, venendo anche mostrate in pubblico. Proprio quello che Vanessa, ancora in lacrime per la morte del marito e della figlia, voleva che non succedesse. Vanessa ha da tempo citato in giudizio il dipartimento di polizia di Los Angeles, chiedendo un risarcimento per negligenza e invasione della privacy, sostenendo che poliziotti e pompieri hanno scattato foto non autorizzate dei copri senza vita di Kobe, di Gianna e delle altre vittime, condividendole poi con colleghi che nulla avevano a che fare con l’inchiesta e con civili. Come il barista del locale di Norwalk. La moglie di Bryant ora chiede che i nomi dei quattro poliziotti che più degli altri hanno fatto circolare le foto vengano resi noti, cosa che invece lo sceriffo Villanueva vuole evitare. Nella richiesta, però, sono inclusi dettagli agghiaccianti di quello che ha fatto indignare Vanessa. Di come quelle foto siano diventate non solo motivo di vanto all’interno del distretto, qualcosa di cui vantarsi durante un momento di pausa o per rompere la noia di un giro di pattuglia. Di come lo sceriffo, una volta saputo quello che stava succedendo, abbia dato ai suoi 48 ore per fare sparire le foto, in modo che l’incidente rimanesse nel segreto del distretto, qualcosa di cui non parlare mai più. Secondo quanto sostengono gli avvocati di Vanessa, rivelato dal Los Angeles Times, sarebbe stato un solo poliziotto a scattare le foto dei cadaveri, con l’idea di condividerle con i colleghi. Assegnato al luogo dell’incidente, ne avrebbe scattate tra le 25 e le 100, cominciando immediatamente a condividerle col resto del dipartimento. Nel giro di 48 ore, la maggior parte degli agenti di Villanueva aveva visto o ricevuto le immagini dei corpi senza vita di Kobe e delle altre vittime, le foto dei resti umani, alcuni riconoscibili come quelli di Kobe, scattati sulla collina di Calabasas. Anche diversi pompieri, tra i primi soccorritori quel 26 gennaio, avrebbero scattato foto coi loro smartphone e avrebbero iniziato a farle girare tra i colleghi. Uno dei poliziotti assegnati alla postazione alla base della collina, quella che doveva tenere lontano la gente accorsa sul luogo dell’incidente, avrebbe ricevuto diverse foto di Kobe e le avrebbe immediatamente condivise con altre due persone, due civili, tenendole nella memoria del suo telefono fino all’indagine degli affari interni, quella che lo sceriffo Villanueva voleva tenere segreta. Un altro, sentito che le foto stavano circolando all’interno del distretto, le avrebbe richieste più volte e una volta ricevute avrebbe condiviso gli scatti del corpo senza vita di una ragazzina con un amico con cui gioca ai videogiochi online. Il comportamento più grave, secondo i dettagli della causa presentata dagli avvocati di Vanessa, è quello dell’allievo poliziotto che le ha mostrate al barista di Norwalk. Era assegnato a sorvegliare l’imbocco del sentiero che porta al luogo dell’incidente, avrebbe ricevuto diverse foto dei corpi di Kobe e della figlia e avrebbe iniziato a farle girare. Due giorni dopo l’incidente, le ha mostrate orgoglioso alla nipote. Quella stessa sera, l’allievo va a farsi una bevuta in un bar. Per impressionare una donna, cliente del locale come lui, tira fuori il cellulare e le mostra le fotografie del luogo dell’incidente, del corpo di Kobe dilaniato dall’esplosione. Poi si avvicina al bancone del bar e comincia a parlare col barista. Le telecamere di sorveglianza lo immortalano mentre tira fuori il cellulare, apre la galleria delle foto e comincia a scorrerle mostrandole all’uomo dietro il bancone, ingrandendole e rimpicciolendole in modo da dare una vista migliore al suo interlocutore. Una delle foto visibili attraverso le telecamere di sicurezza mostrano il corpo senza vita di una ragazzina. Quella successiva ritrae chiaramente i resti di Kobe. Poco dopo, il barista si vanta con tutto il locale di quello che ha appena visto. E’ stato proprio questo episodio a far scattare l’indagine degli affari interni, a far scoprire allo sceriffo quello che stava succedendo nel suo dipartimento, a dare ai suoi uomini 48 ore di tempo per far sparire quegli scatti rubati. È proprio quello che Vanessa non può perdonare.

Da gazzetta.it il 9 febbraio 2021. Dopo oltre un anno, il presidente della National Transportation Safety Board, Robert Sumwalt, ha ufficialmente ricostruito cosa accadde all’elicottero su cui viaggiavano Kobe Bryant, sua figlia Gianna di 13 anni, e altre sette persone (tutte decedute nell’incidente), prima dello schianto. Una conferma di ciò che le indagini avevano già stabilito nel corso di questi mesi. Non ci fu un guasto meccanico al motore del velivolo, ma il pilota Ara Zobayan quel 26 gennaio 2020 volò in mezzo alla nebbia e nuvole basse, nonostante le norme federali standard lo proibissero (per i voli a vista, senza strumentazione), e perse l’orientamento. Secondo le statistiche dell’Ntsb dal 2010 al 2019 gli incidenti aerei causati dal “disorientamento” del pilota sono stati 184 e 20 hanno coinvolto gli elicotteri. Mentre si dirigeva da Orange County alla Mamba Sports Arena in Ventura County, il centro di allenamento della squadretta della figlia di Kobe, Zobayan prima impennò l’elicottero verso l’alto per perdere poi improvvisamente quota e schiantarsi sulle colline sottostanti di Calabasas. In questi mesi c’era stata una serie di cause civili per risarcimento danni. La vedova di Kobe, Vanessa Bryant, aveva incolpato di negligenza proprio Zobayan e la compagnia di elicotteri con cui suo marito aveva volato. Il fratello del pilota aveva replicato affermando che Bryant conosceva i rischi di quel volo in condizioni non ottimali. Ci sono ora forti pressioni affinché venga reso obbligatorio per legge, lo strumento chiamato “Terrain Awarness and Warning Systems” che avverte il pilota quando l’elicottero si trova in prossimità di un ostacolo. Molti sostengono, però, che quel meccanismo a bordo non avrebbe evitato lo schianto.

Morte Kobe Bryant, errore del pilota causò lo schianto dell'elicottero: "Aveva perso l'orientamento". La Repubblica il 9 febbraio 2021. Depositata la perizia del National Transportation Safety Board. Secondo il rapporto, ad Ara Zobayan era stato proibito di attraversare la perturbazione, ma lui la mattina del 26 gennaio 2020 ignorò l'ordine. Nell'incidente oltre al campione Nba persero la vita la figlia Gianna e altre sette pesone. Fu un errore del pilota a provocare lo schianto nel quale morì Kobe Bryant. Questa la conclusione a cui è arrivata la perizia eseguita dal 'National Transportation Safety Board', l'ente dei trasporti Usa. Nell'incidente del 26 gennaio 2020, oltre al campione americano, persero la vita la figlia Gianna e altre sette persone. Secondo il rapporto, al pilota Ara Zobayan era stato proibito di attraversare la perturbazione in corso infilandosi tra le nuvole. Ma lui ignorò l'ordine, perdendo poi l'orientamento. Subito dopo lo schianto a Calabasas, sulle colline californiane avvolte da una fitta nebbia. 

Non sapeva da che parte stava". Il presidente della Ntsb Robert Sumwalt ha detto che Zobayan stava volando secondo le regole del volo a vista, ma il "pilota ha continuato il suo volo nelle nuvole". A Zobayan era stato "legalmente vietato" di volare attraverso la copertura nuvolosa, ma lo ha fatto comunque, ha detto Sunwalt. L'aereo non era in uno schema di volo controllato quando si è schiantato contro la collina vicino a Las Virgenes Road e Willow Glen Street alle 9:45 di quel 26 gennaio. Secondo gli investigatori federali Zobayan, pilota esperto che spesso ha volato con Bryant, potrebbe aver "percepito male" gli angoli in cui stava scendendo e virando, cosa che può verificarsi quando si è disorientati in condizioni di scarsa visibilità. Inoltre gli investigatori hanno anche accusato Zobayan di aver virato a sinistra invece di salire dritto mentre cercava di uscire dal maltempo. Infine un controllore di volo aveva proibito al pilota di proseguire il volo mentre procedeva nella nebbia. Secondo gli investigatori, il controllore avrebbe interrotto il collegamento perché il radar non poteva essere mantenuto all'altitudine in cui stava volando l'elicottero. 

Le accuse dei parenti. Il verdetto sulle cause dell'incidente arriva sulla scia delle accuse della vedova dell'ex stella Nba. Vanessa Bryant e i parenti delle altre vittime hanno accusato la società proprietaria dell'elicottero, sul quale non era installata la scatola nera, non necessaria. Il fratello del pilota, morto nello schianto, non ha incolpato Bryant ma ha dichiarato che fosse a conoscenza dei rischi nel volare in quelle condizioni.

Contratto da modella per Natalia Bryant. Dagli Stati Uniti arriva anche un'altra notizia sulla famiglia Bryant: Natalia, la figlia maggiore di Kobe, 18 anni, è entrata a far parte della squadra di una delle agenzie di modelle più importanti al mondo, la Img, che ha già messo sotto contratto Ella Emhoff, 21 anni, figliastra della vice presidente degli Stati Uniti Kamala Harris, e Amanda Gorman, 22 anni, la giovane poetessa invitata al giuramento del presidente Joe Biden. Dall'agenzia è invece uscita dopo 22 anni, Gisele Bündchen, moglie di Tom Brady, il qb dei Tamba Bay Buccaneers fresco vincitore a 43 anni del settimo Super Bowl in carriera.

Come è morto Kobe Bryant, la ricostruzione dopo un anno: fatale l’errore del pilota. Fabio Calcagni su Il Riformista il 9 Febbraio 2021. A oltre un anno dalla tragica morte dell’ex campione Nba Kobe Bryant, della figlia Gianna e altre 7 persone, è stata finalmente resa nota la ricostruzione dell’incidente in elicottero che ha privato il mondo dello sport di una delle sue stelle. I funzionari statunitensi per la sicurezza hanno dichiarato che il pilota che guidava l’elicottero in cui hanno perso la vita Kobe Bryant e altre otto persone ha violato le norme federali e, probabilmente, ha perso l’orientamento poco prima che il mezzo si schiantasse sulle colline californiane, avvolte da una fitta nebbia. Il verdetto sulle cause dell’incidente avvenuto il 26 gennaio scorso arriva sulla scia delle accuse della vedova dell’ex stella Nba, che ha perso la vita insieme alla figlia Gianna e altre 7 persone. Vanessa Bryant insieme ai parenti delle altre vittime, hanno accusato la società proprietaria dell’elicottero, sul quale non era installata la "scatola" nera, non necessaria. Il fratello del pilota, morto nello schianto, non ha incolpato Bryant ma ha dichiarato che fosse a conoscenza dei rischi nel volare in quelle condizioni. Nel corso di una prima indagine, l’agenzia federale indipendente che indaga sugli incidenti aerei aveva rivelato che sull’elicottero Sikorsky S-76 di Bryant non c’era anche un dispositivo che segnala quando un velivolo è in pericolo di schianto. Tuttavia, l’investigatore incaricato dell’NTSB, Bill English, ha detto martedì che il sistema, noto come TAWS, probabilmente non sarebbe stato utile nello scenario in cui l’elicottero di Bryant si è schiantato. Il terreno collinare, combinato con il disorientamento spaziale del pilota tra le nuvole, sarebbe stato “un fattore di confusione”, ha detto English. “Il pilota non sapeva da che parte stava”, ha aggiunto l’esperto. Secondo gli investigatori federali Ara Zobayan, pilota esperto che spesso ha volato con Bryant, potrebbe aver “percepito male” gli angoli in cui stava scendendo e virando, cosa che può verificarsi quando si è disorientati in condizioni di scarsa visibilità. Inoltre gli investigatori hanno anche accusato Zobayan di aver virato a sinistra invece di salire dritto mentre cercava di uscire dal maltempo. Infine un controllore di volo aveva proibito al pilota di proseguire il volo mentre procedeva nella nebbia. Secondo gli investigatori, il controllore avrebbe interrotto il collegamento perché il radar non poteva essere mantenuto all’altitudine in cui stava volando l’elicottero. Lo schianto è avvenuto sulla San Fernando Valley a nord di Los Angeles, sulle colline di Calabasas sottostanti.

Morte Kobe Bryant, il post della moglie Vanessa. Notizie.it il 26/01/2021. Vanessa Bryant ricorda la morte del marito Kobe e della figlia Gigi pubblicando una lettera in un post su Instagram. A un anno esatto dalla tragica morte del marito Kobe e della figlia Gigi, Vanessa Bryant su Instagram pubblica in un post una lettera scritta da una delle migliori amiche della figlia: “Mi manca la mia bimba. Ancora non mi capacito di quello che è successo. Rendi sempre orgogliosa la tua mamma”. È passato un anno esatto dalla scomparsa di Kobe Bryant e della figlia Gigi, e la moglie Vanessa li ha voluti ricordare in un post su Instagram. Questa volta la moglie di Kobe ha pubblicato una lettera scritta da un’amica di Gigi. In descrizione alla lunga lettera, una commovente descrizione di Vanessa. Ecco cosa dice la didascalia: “Oggi ho ricevuto questa dolce lettera da una delle migliori amiche di Gianna, Aubrey. Ti amo Aubz (come ti chiamerebbe la mia Gigi). Grazie mille per aver condiviso meravigliosamente alcuni dei tuoi ricordi della mia Gigi con me e per avermi permesso di condividerli qui sul mio profilo Instagram. La mia Gigi è INCREDIBILE e apprezzo davvero la tua premurosa lettera. Ti amo così tanto. Mi mancano così tanto anche la mia bambina e Kob-Kob. Non capirò mai perché e come sia potuta accadere questa tragedia a esseri umani così belli, gentili e sorprendenti. Non mi sembra ancora vero Kob. Gigi, rendi ancora orgogliosa la mamma. Ti amo!” Esattamente il 26 gennaio 2020, Kobe Bryant e la figlia Gigi sono rimasti vittime di un incidente con l’elicottero in California. L’elicottero perse quota a causa della fitta nebbia e si schiantò a terra, prendendo fuoco. In seguito gli accertamenti certificarono la presenza di Kobe e della figlia a bordo dell’elicottero.

Un anno senza Kobe, eroe del basket. Bryant era leader o tiranno? Il libro di Simone Marcuzzi sulla vita privata e sportiva di uno dei più grandi sportivi di sempre. Giuseppe De Lorenzo, Martedì 26/01/2021 su Il Giornale. L’ha cercata per tutta la vita, l’immortalità cestistica. E poi è successo quello che solo Omero aveva capito davvero fino in fondo: che l’eternità, tragicamente, la si conquista solo morendo. È abbandonando la terra che si ottiene il cielo della fama assoluta. “Se resto sotto Troia è precluso a me il ritorno, ma avrò gloria immortale - diceva Achille nell’Iliade - Se invece tornassi nella cara terra dei padri, sarebbe perduta per me la nobile gloria”. Possibile fosse questo il destino di Kobe? Che il podio più alto, che il record mai battuto neppure da Jordan, fosse quello di lasciare un ricordo reso indelebile dal suo abbandonarci prima del tempo? Le comete, splendide, hanno vita breve. Kobe Bryant un po’ Achille lo è stato. Non tanto, o non solo, per quel tendine che l’ha tradito quando sperava di raggiungere l’agognato sesto anello. Certo non perché ha scelto di morire tra le lamiere di quel maledetto elicottero, come Achille scelse di perire sotto le mura di Troia. Ma perché tutta la sua esistenza è stata un’infinita lotta per battere un mostro interiore - l’ossessione di essere il migliore, la gloria eterna - che l'ha consumato al punto da portare il fisico ai limiti del possibile. È la sua storia a parlare per lui. “Cantami, o Diva, del pelide Kobe l’ira funesta”. L’ira funesta del mito giallo-oro l’ha cantata egregiamente Simone Marcuzzi nel suo "Kobe. La meravigliosa, incredibile e tragica storia del Black Mamba" (Piemme, 228 pagine, 16,50 euro). Un viaggio a ritroso nel Bryant bambino, quello che con le calze di papà finge di sfidare gli dei del basket scambiando la cameretta per l’arena e il cestone dei panni sporchi per il canestro della vittoria. Un viaggio nel Kobe ragazzo, nel Kobe uomo. Nell’atleta che si sveglia alle 4 del mattino per perfezionare la perfezione. Il leader solo. La stella venerata e al tempo stesso malvista, odi et amo. Kobe che indossa il maglia numero 8. Braynt che sceglie la 24. I passaggi dolorosi, le liti con la famiglia, i tradimenti alla moglie, il quasi divorzio, le accuse di stupro. E poi la rinascita, i 5 anelli, le vittorie. Un anno fa scrissi che anche chi non l’ha amato lo ha di certo ammirato. Per la sua dedizione, per il talento cristallino, per i record infranti. Anche se troppo egoista, anche se troppo solo, anche se troppo e basta. Tre, due, uno. Kobe non c’è più. Un anno dopo riguardo ancora le immagini di quell’elicottero fumante e mi chiedo come sia possibile. Non è vero. Non è normale. E perché Gianna? Quale dannato poeta distruggerebbe una fiore che deve ancora sbocciare? Rileggere meraviglie e difetti, ascese e cadute di Kobe è come percorrere i viali alberati dei cimiteri. Ti viene il magone. È come svegliarsi di colpo da un bel sogno: perché è già finito? Kobe era il nostro sogno. Il ragazzino un po’ italiano che dal campetto minors di Reggio Emilia raggiunge l’Olimpio Nba. Il bimbo che incanta il mondo al pari di quei giganti che osservava giocare da adolescente. Marcuzzi racconta un episodio emblematico: alle giovanili, durante una partita, Kobe si fa male al ginocchio. Piange disperato. “Il capitano della squadra lo consola, non sembra nulla di male, ma Kobe lo zittisce. Afferma che quell’infortunio potrebbe precludere il suo approdo in Nba”. Sembra la classica frase sognante di un ragazzino, ma per lui era “un annuncio solenne”. E così è stato. Ci ha donato un basket indivuduale bello, puro. Fatto di esplosività, fantasia, eleganza. Il basket che non si accontenta di uno step back o di una gara a chi segna da più lontano. “Sublime bellezza tecnica”. Probabilmente non ha mai trovato il modo per fondere davvero il suo gioco personale con quello dell’intera squadra. Ma cosa importa, ormai? Per chi è cresciuto a pane e palla a spicchi tra il 1996 e il 2016, il 26 gennaio diventerà una sorta rito annuale immancabile. È come se Kobe avesse fissato con noi un appuntamento: se non fosse un freddo indicibile, oggi qualcuno di noi prenderebbe il pallone per passare qualche istante al campetto ad imitarne malamente i movimenti. Il libro di Marcuzzi va letto perché racconta bene in cosa Kobe fosse “diverso”. L’etica del lavoro, certo. L’approccio scientifico, ovviamente. L’idea che ogni sconfitta abbia “il sapore del tradimento”. Ma anche la “bestia feroce” che lo divora internamente. Kobe è al tempo stesso “Bryant” fuori dal campo e “Black Mamba” dentro. Il serpente velenoso che uccide pur di arrivare lassù, più in alto degli altri. L’ossessione per la vittoria, l’ardore degli 81 punti, la follia dei 60 nella partita d’addio. Ma anche la morte incarnata che rischia di rovinare tutto: Kobe non era un esempio nella vita, non va santificato perché pieno di difetti. Ma resta un idolo sportivo, ed è ben diverso. Marcuzzi fa poi una scelta intelligente. Scrive che Kobe sul parquet ricordava Michael Jordan, ma non li mette mai davvero a confronto. Non lo fa neppure con LeBron James, stella degli odierni aspiranti cestisti. Inutile chiedersi chi sia il più forte tra loro: rappresentano tre momenti di basket diversi. Forse Kobe per le sue debolezze e per la quantità di lavoro profusa è più “eroe” e meno “dio”: non ha il talento perfetto di MJ e neppure il fisico da alieno di King James. Ma ha raggiunto comunque l’Olimpo. Tutto merito della Mamba mentality, si dirà, di quella dedizione totale che ti permette di andare in lunetta su una gamba sola nonostante il tendine distrutto. Quella volta assicurò: tranquilli, Kobe tornerà. Lo abbiamo sperato anche osservando il fumo salire da quell’elicottero, 365 giorni fa. “Kobe tornerà”, ci dicevamo increduli. Invece no, non stavolta. Mamba out. Per sempre. O almeno fino al prossimo 26 gennaio: perché ormai la gloria immortale gli appartiene. Come per Achille.

Ward, l'amico reggiano di Kobe. "Vivere all'italiana l'ha valorizzato". Un anno dopo, il ricordo italiano più tangibile di Kobe Bryant è stata l'intitolazione di una piazza in suo onore. Sergio Arcobelli, Mercoledì 27/01/2021 su Il Giornale. Un anno dopo, il ricordo italiano più tangibile di Kobe Bryant è stata l'intitolazione di una piazza in suo onore. Da ieri, a Reggio Emilia, c'è Largo Kobe e Gianna Bryant (la figlia morta insieme a lui nell'incidente in elicottero a Los Angeles), vicino al PalaBigi di via Guasco. Una scelta anche simbolica: lo spazio, infatti, si trova proprio dove gioca la Pallacanestro Reggiana, la stessa squadra in cui militò dall'89 al '91 papà Joe Bryant, mentre il figlio cresceva nelle giovanili del club. Un atto d'amore verso un campione legato alla città del Tricolore e all'Italia. «Così rimaniamo legati a lui per sempre, come un legame a vita»: a dirlo è Christopher Ward, l'ex compagno di squadra nelle giovanili reggiane e grande amico di Bryant. «Dobbiamo essere orgogliosi di aver fatto parte del suo percorso da leggenda. Lui amava il nostro Paese. Qui ha fatto la scuola dalle suore, ha imparato l'italiano ancora prima dell'inglese. Reggio è stata una tappa fondamentale della sua infanzia, quella che ricordava più facilmente. Un luogo a misura di bambino: era normale per noi due andare in giro a piedi o in bici, era normale vivere all'italiana e molto poco all'americana: un valore aggiunto che si è portato poi negli Usa. Questa città lo accoglieva, lo coccolava, ma in modo discreto. Quando tornava, la gente, per strada, gli dava la pacca come fosse ancora il bimbo di allora». Chris ci ha rivelato che sta scrivendo un libro sulla vera amicizia con Kobe: «Sono per metà americano, fu spontaneo legarsi, noi due e le nostre famiglie. Ci legava la passione per il basket ma non solo. Ci vedevamo ogni estate e c'ero il giorno della sua ultima partita. Gli sono sempre stato amico». In serata, è intervenuto dagli Usa Nicolò Melli, il reggiano dell'Nba: «Kobe era il mio idolo d'infanzia. Non l'ho mai conosciuto ma quando in America scoprono che sono di Reggio Emilia, tutti pensano a lui. Questa piazza è il sigillo ufficiale del suo rapporto con la città». Un pensiero da Gigi Datome: «Dicono che i campioni vanno e vengono, ma le leggende vivono per sempre».

Emanuela Audisio per “la Repubblica” il 16 gennaio 2021. Ognuno ha il suo Kobe. L' Italia ne ha molto. Kobe. La meravigliosa, incredibile e tragica storia del Black Mamba di Simone Marcuzzi (Piemme) in uscita il 19 gennaio lo ricorda e anzi fa di più, suggerisce un altro finale a quell' ultimo volo di un anno fa. Cosa ha avuto di diverso il gigante Kobe dagli altri? Intanto di essere cresciuto fuori dall' America, attorno al campetto di Cireglio, in provincia di Pistoia. Suo padre Joe "Jellybean" Bryant, 2 metri e 08, giocava a Pistoia in A2. La famiglia si trasferisce a Reggio Emilia, Joe passa in A1 e Kobe nella squadra giovanile. È già fissato con il basket. Nel '91 quando Magic Johnson a 32 anni annuncia il ritiro a causa della sua sieropositività, Kobe si mette a piangere e non mangia per giorni. I Bryant tornano a Philadelphia, Kobe a 11 anni si esercita nei playground, ma alla sua prima partecipazione alla Sonny Hill League non segna nemmeno un punto. È diverso: ha modi garbati, non capisce lo slang, non viene dal ghetto. La scuola che frequenta, Lower Merion, è a maggioranza bianca e la sua squadra di basket, Aces, non vince un titolo dal 1943. Kobe ragazzino è già un perfezionista: si allena fuori orario, ripete i tiri, le sfide continuano nel giardino di casa con papà Joe. Ma a 16 anni non c' è più gara: è Kobe il più forte. Scrive, si interessa alla musica, alla quarta stagione porta Lower Merion al titolo. Niente college, vuole subito il grande palcoscenico, figurarsi gli altri: lo accusano di «troppo ego». E aggiungono: «Overrated». Sopravvalutato. Nel '96 annuncia il passaggio tra i professionisti. È il più giovane giocatore della storia a entrare nell' Nba. A 18 anni Kobe va a Los Angeles dove il titolo manca del 1988 e dove c' è già l' ingombrante Shaquille O' Neal. La famiglia Bryant si trasferisce in una villa a Pacific Palisades, ma lui si rompe un polso giocando a Venice Beach. Nessuno la prende bene: «Esuberante e figlio di papà». Lega solo con il massaggiatore Gary Vitti che gli fascia caviglie e dita. Nel '98 nell' ultimo All Star Game di Michael Jordan, vince l' Est, ma Bryant non abbassa gli occhi, anzi chiede al campione suggerimenti sul tiro fade-away. Come si permette? Kobe si stacca dalla famiglia, ai Lakers arriva Phil Jackson, ex coach di Jordan, 6 titoli con i Chicago Bulls. Con lui anche lo psicologo George Mumford, esperto di meditazione e Tex Winter, storico assistente del gioco offensivo. Kobe sbaglia scelte: il padre lo convince a comprare il 50% dell' Olimpia Milano, ma l' affare non va bene e ci rimette. Male anche nella musica (hip-hop): il singolo dove duetta con l' attrice Tyra Banks è imbarazzante. E a lui fischi (e fiaschi) non piacciono. Durante le registrazioni incontra in studio Vanessa Laine, di origine messicane, quattro anni più giovane di lui. That' s ammore . Nel 2000 con la maglia numero 8 vince il titolo Nba che torna ai Lakers dopo 12 anni, ma Kobe si scontra con la madre contraria a Vanessa che non vuole firmare l' accordo prematrimoniale. Si sposa lo stesso, è rottura, i genitori rientrano a Philadelphia, ma è armonia in campo, Kobe vola sempre più a canestro. Secondo e terzo titolo consecutivo, three-peat . Nasce Natalia Diamante, la prima figlia. Nel 2003 l' accusa di stupro: lui è in Colorado per sottoporsi ad un' operazione al ginocchio, ha 23 anni, è appena diventato padre, pagherà (milioni) per far archiviare il caso. Non è un bel gesto, né una bella immagine. Coach Jackson se ne va, ma le sue parole restano: «Kobe è inallenabile, ne chiedo la cessione». Tornerà nel 2005 e troverà un Kobe cambiato, meno esibizionista: non più Showboat, ma Black Mamba, il serpente più velenoso del mondo. Gianna Maria-Onore, Gigi, nasce il primo maggio 2006, dopo la crisi matrimoniale. Kobe cambia numero (24), c' è l' astro LeBron, sei anni più giovane, che si sta affermando. Nel 2007 ai Lakers arriva Pau Gasol, Kobe gli parla in spagnolo e all' una di notte gli bussa alla porta: «Meglio rivedere alcune clip su come difendono i Celtics sui pick and roll». I particolari, appunto. Ormai è un uomo immarcabile, l' allenatore Doc Rivers si rassegna e avvisa: «Non preoccupatevi di cosa fa Bryant, fermate tutti gli altri». Arriva il quinto titolo, cosa significa? « I just got one more than Shaq ». Ne ho uno più di Shaq, ma uno meno di Jordan. Però le ginocchia di Kobe sono a pezzi, per scendere in campo serve una complicata procedura di risveglio articolare e muscolare. Crisi anche in famiglia: Vanessa nel 2011 chiede il divorzio per tradimento, Kobe viene cacciato da casa. Un anno dopo, il 21 maggio 2012, la sua ultima partita dei playoff: « I' m not fading into shadows ». Non sto svanendo nell' ombra. E infatti prepara i Giochi di Londra allenandosi alle 4.45 del mattino. Kobe e Vanessa si riconciliano, ma lui a quasi 35 anni si rompe il tendine d' Achille della gamba sinistra. « If you see me in a fight with a bear, pray for the bear ». Se mi vedete lottare con un orso, pregate per l' orso. Tradotto: io vittima mai. Kobe torna, ma prima avvia una battaglia legale contro sua madre Pamela che per quasi mezzo milione di dollari di anticipo ha venduto i suoi cimeli (più di cento). Quel contrasto non si chiuderà mai, Kobe si sente tradito, i contatti futuri saranno scarsi, anche Vanessa litiga con la madre Sofia che le farà causa per avere «18 anni di pagamenti arretrati come tata». La figlia sbotta: «Vuole solo estorcermi denaro ». Nel 2013 è in Italia: nostro Kobe perché non resti? Il suo rientro in campionato dura appena 6 partite, si frattura il piatto tibiale del ginocchio sinistro. Nel 2014 con 32.292 punti sorpassa Jordan in classifica, nel 2015 si fa male alla spalla, nuova operazione chirurgica. Last Dance anche per lui. Dear basketball è pubblicato il 30 novembre 2015 su «Player' s Tribune ». Caro basket, ti devo tutto, ma non ce la faccio più. «Troppo dolore, il mio fisico non regge». Il 13 aprile 2016 allo Staples, in quella che è casa sua, la cerimonia di addio con un successo su Utah. Ora tutti danno la palla al ragazzo che non la passava mai. Nessuno vuol essere fuori da quella storia. «Mamba out». Kobe esce per sempre dal campo: dopo 20 anni di Nba, 220 partite di playoff, oltre 30 mila tiri in gare ufficiali. Dear basketball , con la sua voce, nel 2018 vince l' Oscar come miglior cortometraggio. Kobe è andato oltre. Lui ringrazia moglie e bimbe in italiano: «Vi amo con tutto il cuore ». Altre due figlie: Bianka Bella nel 2016 e Capri Kobe nel 2019. C' è sempre molta Italy nei nomi e nei pensieri. Ora è un papà che accompagna la sua erede tredicenne alla partita. Sì perché quando gli chiedono del suo successore, lui indica Gianna. «Ma è una donna» «E allora? ». Il 26 gennaio 2020 è con lei all' aeroporto John Wayne di Orange County per andare in elicottero alla Mamba Sports Academy. 40 minuti più tardi, alle 9.45, la nebbia sulle colline di Calabasas ingoia il passato (Kobe), il futuro (Gianna), e il presente (sette amici). E tutta quell' Italia che avrebbe voluto che Kobe non andasse mai via.

·        Le Frecce Tricolori.

Frecce al settimo cielo. La Pattuglia acrobatica festeggia i 60 anni: "Siamo il simbolo dell'Italia migliore". Chiara Giannini - Lun, 01/03/2021 - su Il Giornale. Da sessant'anni il Tricolore squarcia il cielo regalando momenti di orgoglio tutto italiano accompagnato dal rombo di dieci aerei. La Pattuglia acrobatica nazionale oggi festeggia l'anniversario, 60 anni, della sua costituzione. Ma questa storia, fatta di amore per il volo, per l'Aeronautica e per l'Italia, ha il suo inizio ben prima, sul finire degli anni Venti, quando sull'aeroporto di Campoformido, in provincia di Udine, pochi chilometri ad est della base di Rivolto, i primi pionieri del volo acrobatico dimostrarono come l'acrobazia aerea costituisse l'essenza stessa della caccia militare e il suo esercizio fosse in grado di migliorare le prestazioni nel combattimento aereo. Da lì prese vita una tradizione di volo che culminò con le formazioni acrobatiche collettive degli anni Cinquanta, individuate a turnazione annuale presso i reparti operativi dell'Aeronautica militare: Lancieri Neri, Diavoli Rossi, Tigri Bianche, Tonanti e Cavallino Rampante. E fu proprio all'interno di quest'ultima pattuglia di riserva nel 1960 e successiva titolare nel 1961, che fu individuato il nucleo di piloti che andarono a costituire un gruppo che rappresentasse in tutti gli eventi in patria ed all'estero l'Aeronautica Militare e tutta l'Italia. Il 1° marzo 1961 giunsero a Rivolto, provenienti dalla 4a Aerobrigata di Grosseto (oggi 4° Stormo, base della Difesa Aerea nazionale su velivolo Eurofighter) i primi 6 velivoli F-86E «Sabre» con la livrea della pattuglia del «Cavallino Rampante» che recava l'emblema dell'asso Francesco Baracca (simbolo ceduto a Enzo Ferrari). Nasceva così sull'aeroporto di Rivolto, dove ancor oggi ha sede, l'Unità Speciale Acrobazia che dal 1° luglio 1961 avrebbe assunto la denominazione ufficiale di 313° Gruppo Addestramento Acrobatico. Oggi le Frecce Tricolori sono un'unità composta da circa 100 militari; donne e uomini, ufficiali, sottufficiali, graduati dell'Arma azzurra. La formazione di 10 velivoli (9+solista) è composta da piloti che provengono dai reparti operativi di volo dell'Aeronautica Militare. Il capo di Stato Maggiore dell'Aeronautica, generale di Squadra aerea Alberto Rosso, chiarisce: «Le Frecce Tricolori sono conosciute, apprezzate e portano in tutto il mondo il nostro Tricolore. Sintetizzano tutto quello che è tecnologia, passione, capacità, competenza e professionalità che l'Italia è in grado di esportare e portare nel mondo». L'ex comandante della Pan, il generale di brigata aerea Marco Lant, racconta: «Stare nelle Frecce è un po' come essere in vetrina e dare uno sguardo sul mondo dell'Aeronautica. Volare sugli MB-339, che tra qualche anno saranno sostituiti dai nuovi M-345 e vedere il Tricolore in cielo è come avere un legame fisso con casa. Anche quando sei a migliaia di chilometri di distanza. Sai che porti l'orgoglio italiano e i valori della Patria nel mondo». Il posto più bello che ha sorvolato? «Sicuramente casa - tiene a dire -. Io abito a pochi chilometri da Rivolto». L'attuale comandante, il tenente colonnello Gaetano Farina, sottolinea come «il fattore umano all'interno della Pattuglia Acrobatica Nazionale sia fondamentale. Non parliamo di singoli, ma di squadra». L'anniversario, quest'anno, cade in un momento particolarmente difficile, in cui si rinnova e rafforza l'importanza di restare uniti e fare squadra. Proprio con questo intento, a fine maggio del 2020, la Pan ha compiuto un sorvolo storico di tutti i capoluoghi di regione italiani, l'Abbraccio Tricolore, culminato con il sorvolo di Roma il 2 giugno, Festa della Repubblica. Un simbolo nel cielo che ha lasciato un messaggio importante: anche nei momenti peggiori si può orgogliosamente volare alto.

·        Chi erano Stanlio e Ollio.

La coppia Laurel & Hardy. Chi erano Stanlio e Ollio, la storia del duo comico più famoso di tutti i tempi al cinema. Antonio Lamorte su Il Riformista il 9 Ottobre 2021. Due miti, due icone immortali, indimenticabili. Stanlio e Ollio: senza alcun dubbio la coppia comica più famosa di tutti i tempi e tra le più longeve. Stasera la loro storia sarà su Rai1, in prima serata, con il film omonimo, Stanlio & Ollio, diretto dal regista Jon S. Baird, presentato alla festa del cinema di Roma nel 2018. Fu accolto positivamente sia dal pubblico che dalla critica. I loro nomi per davvero: Stan Laurel e Oliver Hardy. La coppia nacque il 3 dicembre 1927. Avevano già recitato insieme in un cortometraggio, Cane fortunato, nel quale interpretavano personaggi diversi da quelli che li avrebbero resi famosi e consacrati nella storia del cinema. E ancora non si chiamavano Stanlio e Ollio. Laurel era nato in Inghilterra e aveva cominciato con il vaudeville e poi aveva provato la strada sulla scia di mostri sacri del cinema muto e comico come Buster Keaton e Charlie Chaplin. Hardy era nato invece ad Harlem, in Georgia, e da giovane si era dedicato soprattutto al canto prima di arrivare al teatro. Si conobbero che avevano fatto già diversi film. A intuire le loro potenzialità il produttore di quel corto, Hal Roach, che li mise insieme in Metti i pantaloni a Philip. Fu l’inizio del successo. Non soffrirono affatto il passaggio al sonoro. Girarono in tutto oltre 100 film tra corti e lunghi. Laurel si occupava anche della regia, della scrittura e della produzione. In scena era quello sbadato, al contrario del serioso e preciso Ollio. I film erano pieni di gag. Fuori dall’Italia erano noti così come Flip i Flap in Polonia, El Gordo y el Flaco in Spagna, Dick und Doof in Germania, Steini og Olli in Islanda. Star planetarie Ollio venne quasi sempre doppiato da Alberto Sordi in italiano. La loro famosa musichetta, The Cuckoo Song, arrivò nel 1930. Il grandissimo successo Muraglie nel 1932. Per il corto comico La scala musicale vinsero un Premio Oscar nel 1932. Il loro ultimo film lo girarono nel 1951, Atollo K, e uscì tre anni dopo e fu un flop. Il film di Baird comincia dalla tournée teatrale in Inghilterra della coppia nel 1953. Una reunion. I due, dopo gli anni ’30 e ’40, che furono per loro dei veri e propri anni d’Oro, si erano separati. E avevano lavorato separatamente per alcuni anni. Per riavvicinare il pubblico alle loro esibizioni partirono dunque in un tour che riaccese la loro ispirazione comica. Un viaggio all’insegna dell’arte e dell’amicizia velato di tristezza e malinconia per la salute sempre più cagionevole di Oliver. Hardy morì dopo quattro anni da quella tournée, nel 1957 a 65 anni. Fu colpito da un attacco di cuore nel 1955 e l’anno dopo da un ictus che lo portò alla paralisi totale. Stan Laurel non riuscì ad andare al suo funerale per i suoi problemi di salute. “Babe avrebbe capito”, disse. Morì otto anni dopo, nel 23 febbraio del 1965, a 74 anni. Aveva sofferto di diabete. Dopo la scomparsa dell’amico si rifiutò di lavorare a qualsiasi altro film con altri attori. A interpretare i protagonisti nel film di Baird Steve Coogan e John C. Reilly, candidati al premio Oscar per Stanlio & Ollio. Nel cast anche Shirley Henderson, Danny Huston e Nina Arianda.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

·        I Queen.

La leggenda e il mito: trent'anni senza Freddie Mercury. Il Quotidiano del Sud il 22 novembre 2021. IL 24 novembre sono trent’anni dalla morte di Freddie Mercury, il leader dei Queen idolatrato in ogni parte del mondo e che morì, a causa dell’Aids, nel 1991, a soli 45 anni. Lo straordinario successo del film “Bohemian Rapsody” (quattro Oscar tra cui quello per il miglior attore protagonista Rami Malek, un incasso da un miliardo di dollari a fronte di un investimento di 52 milioni) ha dato nuovo vigore al suo mito e commosso i fan. Quello che si chiamava Farrock Bulsara, nato a Zanzibar con ascendenze parsi e indiane, con la sua band, i Queen, fondata nel 1970 insieme a Brian May, John Deacon e Roger Taylor aveva trovato la sintesi della sua personalità di rocker: esplosivo e curioso, eccentrico e geniale. Un uomo di grande curiosità musicale che amava mescolare i generi, capace di intuizioni all’inizio anche osteggiate come “Bohemian Rapsody”. Un’icona che continua a essere venerata da un pubblico trasversale e che ha lasciato alle spalle un’impressionante serie di hit, da “We Are The Champions” a “Radio Ga Ga”, da “Love of My Life” a “Under Pressure”, da “Somebody To Love” a “Love of My Life”, “Crazy Little Thing Called Love”, “WeWill Rock You” per citare solo qualche titolo. Era un performer vero, autentico. Il palco come luogo dove superare le proprie fragilità di uomo e le catene delle proprie dipendenze. Un artista straordinario e che nella sua morte fece capire quanto fosse pericoloso l’Aids, una minaccia che non guardava in faccia nessuno men che meno le star o i campioni dello sport (di quegli stessi anni il caso della sieropositività di Magic Johnson): fece diffondere un comunicato nel quale informava il mondo sulle sue condizioni di salute. Il male che lo affliggeva lo stroncò appena ventiquattro ore più tardi. Dopo la sua morte è toccato a Brian May e a Roger Taylor il compito di mantenere vivo il ricordo dell’amico e compagno. La produzione del film ha anche sostenuto alcune delle iniziative lanciate da Mercury quando era ancora in vita: l’anteprima mondiale venne proiettata il 23 ottobre 2018 a Londra, alla Wembley Arena, di fronte al Wembley Stadium dove si tenne il celebre concerto Live Aid, votato come la migliore esibizione di tutti i tempi; l’incasso è stato devoluto alla Mercury Phoenix Trust, un’organizzazione che cerca di combattere l’AIDS in tutto il mondo. La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio.

Marinella Venegoni per "la Stampa" il 22 novembre 2021. Erano 72 mila gli spettatori a Wembley, stipato come non mai, il giorno di Pasquetta del 1992, 20 aprile. Mezzo miliardo di telespettatori nella diretta mondiale, tutte le star che ci si poteva aspettare. Un omaggio così affollato e sincero a un angelo che se n'era andato non s' era visto da nessuna parte: dagli U2 a Elizabeth Taylor, da Bob Geldof ai Guns' N Roses, da Robert Plant a George Michael, da Elton John fino ai Queen, naturalmente. Un altro angelo nel suo completo azzurro impeccabile, David Bowie, salì sul palco, s' inginocchiò e nel silenzio delle note recitò il «Padre Nostro» accompagnato dal mormorio della folla. Un'emozione forte, che ancora non dimentico, mentre con il computer sulle ginocchia, in tribuna, raccontavo ciò che avveniva. Freddie Mercury è ancora uno dei performer più amati, in verità ben più degli interi Queen: un uomo nato per il palco, era morto l'anno prima a 45 anni, il 24 novembre 1991, giusto 30 anni fa, e quella di Wembley era la sua sepoltura rock di massa; mentre le ceneri ancora oggi nessuno sa dove siano, tranne la sua vecchia fidanzata Mary Austin, che le ebbe in consegna e da lui stesso ricevette l'ordine di tacere, per il timore che aveva la star della possibilità di gesti sconsiderati da parte di persone poco lucide. Freddie mai dimenticato, e anzi più famoso oggi, più citato e ascoltato che non all'epoca della sua fine. È stato come riportato in vita dall'attore Rami Malek, premio Oscar per il film Bohemian Rapsody diretto da Bryan Singer nel 2018. «È possibile che ti manchi una persona che è morta prima che tu fossi nato?», si chiede un ragazzo in un commento sotto il video del concerto su Youtube, dopo esser stato alla proiezione. Non così appassionati erano i commenti tra la gente e sui media inglesi, quando egli era sparito dalla circolazione. Erano i mesi nei quali andava spegnendosi per l'Aids, del quale si parlava spesso in termini di castigo divino, finché le cure arrivate dopo 30 anni di decessi (si parla di 35 milioni di morti) non misero la parola fine alle superstizioni imperanti. Il 10 novembre Freddie aveva smesso di prendere le medicine che lo tenevano in vita, assumendo solo antidolorifici. Era stanco e stufo. Due giorni prima di andarsene poi, nella sua villa di Logan Place a Londra, aveva voluto rilasciare una dichiarazione pubblica nella quale ammetteva di avere l'Aids, e spiegava di aver taciuto per proteggere la privacy di coloro che lo circondavano. «Da quel momento - raccontò il suo assistente Peter Freestone - Freddie è cambiato, non era più teso, si è rilassato. Non c'erano più segreti, non doveva nascondersi. Se non avesse parlato, si sarebbe potuto pensare che lui ritenesse l'Aids una cosa sporca, da nascondere». Brian May, il chitarrista dei Queen, nei numerosi sentieri mediatici che ha percorso alla vigilia dell'anniversario, ha parlato di Mercury come di un guerriero davanti al pubblico, che nascondeva un'anima fragile: «Era timidissimo e aveva enormi insicurezze». Vai a credergli, quando ti capitano davanti i filmati dei concerti e ascolti il divino in canottiera che sembra trastullarsi mentre affronta il bislacco repertorio dei Queen, e che classe, che divertimento dentro quella Bohemian Rapsody che con quarant' anni di anticipo racchiude dentro di sé tutte le derive che ha poi preso la musica, dal rock al glam alla lirica, facendosene gioco. Gli artisti possono anticipare la storia, Freddie lo ha fatto: è stato anche il primo a cimentarsi in una canzone fusion con il belcanto, Barcellona, insieme con il soprano Montserrat Caballé ai Giochi del 1988. Era un assoluto uomo di spettacolo dal quale hanno attinto centinaia di discendenti (non ce lo vedete Freddie, dentro tante mattane anche dei Maneskin?). Brian May nei suoi giri doverosi per il tempo dell'anniversario, ha anche raccontato di quando registrarono il brano, nel 1975: «Negli anni ha lavorato molto al suo stile e all'autocontrollo, è diventato un metronomo, lavorava sul raggiungimento della perfezione. Se fosse vivo, suonerebbe ancora con la band. Quando sono sul palco, sento la sua presenza». Intanto la BBC, in occasione del trentennale, manda in onda Freddie Mercury: The Final Act, il documentario che racconta gli ultimi giorni della star, che non smise mai di creare e di scrivere brani. «Non voglio fare altro che continuare così - aveva dichiarato ai suoi compagni di band - Voglio continuare a fare musica il più a lungo possibile. Non soffermiamoci su questo e andiamo avanti». E il Greatest Hits, l'album più venduto nella storia inglese, ristampato per festeggiare i 40 anni della pubblicazione, è tornato ai primi posti nella hit inglese.

Morgan per "la Stampa" il 22 novembre 2021. Ho fatto due sabati fa a Ballando con le stelle una esegesi di Bohemian Rapsody, spiegando quali sono le ragioni perché questa canzone e i Queen sono molto amati. Questa mia performance di coreografia e ballo è stata unita da tutto un lavoro musicale fatto dalla Rai. Freddie Mercury, con una tragica esistenza, stroncato giovanissimo da un morbo che sembrava punire i peccatori, è stato trattato male. Troppo facile essere adesso allineati dietro questo stravagante provocatore fuori dagli schemi, che ha subito un sacco di pregiudizi, ostacoli e ingiurie, anzitutto dal gruppo stesso che a un certo punto, come spesso accade, si è quasi coalizzato contro la sua presunta follia: cosa che è successa ai Pink Floyd, agli Stones con Brian Jones, agli stessi Bluvertigo. Molto facile poi essere tutti d'accordo che l'artista creativo e bizzarro è un grande, ma in realtà si pretende che schiacci «off» nel momento in cui vive ed esprime un'opinione, e diventi una persona conformista, dentro le regole. L'artista è stravagante e creativo originale e diverso dagli altri: ma la condanna che la società spietata riserva agli artisti quando sono in vita, una sorta di quotidiani stillicidi fatti di diffamazione e calunnia, quando poi muore tragicamente, tutti dicono «è il mio idolo». Questa cosa è assolutamente deprecabile. Bohemian Rapsody si apre con la domanda: è vera vita, o è solo fantasia? La domanda è legittima in ogni contesto dove c'è la rappresentazione della vita, come in un palcoscenico televisivo dove sia lo spettatore che l'attore si chiedono se quello che stanno vivendo sia realtà o illusione, se sia vero o finto, se esista davvero o sia evanescenza, se sia materia solida o un riflesso di luce su vapore. Il «poor boy» è il personaggio protagonista, il ruolo in cui ci si identifica, sarebbe un povero ma forse più un ragazzo semplicemente sfortunato nel senso di normale, comune, non un figlio d'arte o un aristocratico, uno come tutti. Anche in We Will Rock You c'è il tema del riscatto dalla disgrazia, da una vita di fatiche e dolori offerto dalla prospettiva narrativa di chi subisce. È la stessa poetica che si trova in De André, è l'attenzione agli uomini che soffrono e restano vittime della società: quasi tutti i personaggi delle canzoni di De André sono perdenti o uomini e donne ingiustamente sfavoriti e puniti dal destino, ma in tutte le canzoni c'è anche il loro riscatto. Ecco perché si origina l'identificazione del pubblico, e anche la mia.  Questo è il vero motivo della grandezza che porta i Queen ad essere il più grande gruppo rock di tutti i tempi, e questa canzone ad essere la musica più ascoltata del ventesimo secolo. È questa la risposta alla domanda del perché hanno cosi tanto successo, e vale anche per De André: l'identificazione morale degli esseri umani semplici, che sono i più numerosi. Nelle canzoni dei Queen c'è una chance per tutti, una speranza per i disperati. Questo dovrebbe essere il compito di tutte le canzoni, e a volte riesce ad esserlo veramente: rappresentare la libertà, non dell'uomo, ma per l'uomo. 

Vacanza nella suite mitica dove viveva il cantante. Massimiliano Parente il 24 Novembre 2021 su Il Giornale. È a Montreux, costa 1400 euro a notte e in teoria è rimasta come quando c'era il leader dei Queen. Il 24 novembre di trent'anni fa è morto Freddie Mercury. Non so se mi spiego. Io e Emilio Pappagallo, il geniale direttore di Radio Rock e mio migliore amico, ci troviamo a Montreux, in Svizzera, al Fairmont Le Montreux Palace, nella suite dove Freddie Mercury ha trascorso gli ultimi mesi di vita, che gli svizzeri hanno chiamato Freddie Mercury Suite, e costa 1400 euro a notte (paga comunque tutto Emilio, perché è il mio migliore amico e guadagna molto più di me). Solo che siccome sono svizzeri ci hanno deluso subito, perché appena entrati nella mitica suite ci sono venuti dei dubbi, tutto troppo nuovo, e abbiamo chiamato la reception per chiedere: «Scusate, ma è rimasto tutto uguale da quando c'era Freddie?», e loro «non vi preoccupate, è stato tutto rinnovato, non c'è rimasto niente». Non vi preoccupate? Questi sono pazzi. In pratica non c'è niente che possiamo toccare che abbia toccato Freddie. «Ma il pavimento almeno, sarà quello?». «Mah». Comunque siamo usciti sul balcone, per guardare il lago da dove lo guardava Freddie, appoggiandoci alla balaustra dove si appoggiava Freddie, e non abbiamo chiamato la reception per paura ci dicessero che avevano rifatto pure il balcone. È come andare a vedere la camera di Proust e sentire il custode che ti rassicura: «Non si preoccupi, quei vecchi mobili li abbiamo buttati, è tutta rifatta con mobili Ikea». Qui, in questo paesino svizzero pieno di svizzeri, è successo tutto ciò che non avete visto nel film Bohemian Rhapsody, per noi freddiemercuriani il più brutto film che potessero fare, tant'è che io non posso vedere più neppure Rami Malek, torni a fare Mr. Robot che è meglio. Con Emilio, speaker liberale che dirige una radio comunista (sentite il suo morning show, non ci sono analoghi nelle radio italiane, e tra l'altro oggi tutto il palinsesto è dedicato a Freddie, lo ha ordinato Emilio ai comunisti), ma che i comunisti non possono licenziare perché la dirige lui, li sottomette, li bullizza con la sua intelligenza. Siamo andati a vedere la statua di bronzo di Freddie, bruttissima (ma esistono statue di bronzo belle?), e anche la sala di registrazione dove sono stati registrati gli ultimi due album, non ci crederete, tutta ricostruita anche quella, perfino il mixer, cosa avranno nella testa questi qui (e pure Roger Taylor e Brian May, che da trent'anni continuano a suonare come Queen arruolando questo o quell'altro cantante, non avendo capito che i Queen sono finiti il 24 novembre del 1991; John Deacon lo ha capito, e si è ritirato, unico intelligente, e infatti gli altri Queen dicono che è impazzito). Qui a Montreux c'è pure una placca d'oro per terra dove Freddie, malato, ha registrato le ultime canzoni, come The show must go on e perfino tutte quelle uscite postume, registrate solo usando la drum machine («potete salire sulla placca», ma se lui non ci è mai salito, l'avete messa voi, maledizione). Mentre ci ubriachiamo in un baretto svizzero pensando a Freddie, cerco di prendere appunti su cosa scrivere, ma cosa posso scrivere in un breve racconto commemorativo? Chi è per me Freddie Mercury? Per me l'unica divinità non inventata dall'uomo, e lo amo da quando avevo sedici anni, è l'unico love of my life. Tant'è che con Giulia Bignami sto scrivendo il mio ultimo romanzo, Volevo essere Freddie Mercury, che uscirà a fine anno prossimo con La nave di Teseo. Ultimo nel senso che non ne scriverò altri. Il mio romanzo più superficiale e più profondo. È per questo in fondo che sono diventato uno scrittore, perché Freddie Mercury nella musica c'era già, io nella letteratura no. Freddie aveva la più bella voce che io abbia mai sentito, i più begli occhi, i più bei denti, i più bei baffi, il taglio di capelli corti più bello (dopo il 1986), il più bel corpo, un carisma unico, e perfino in punto di morte, scarnificato, è riuscito a restare leggendario. Guardate i video di I'm going slightly mad e These are the days of our life per rendervene conto. D'altra parte lui stesso diceva: «Non voglio essere una rockstar, diventerò una leggenda». Paolo Bonolis ha raccontato che una volta a Londra Freddie ci provò con lui e lui non c'è stato perché era etero, scemo pure lui, come uno svizzero. Come fai a non andare con Freddie, qualsiasi orientamento sessuale tu abbia? Meritava di restare a Bim Bum Bam tutta la vita. Freddie rimase qui fino a giugno 1991, poi tornò a Garden Lodge, la sua casa londinese, e smise di prendere i farmaci tranne gli antidolorifici, perché aveva capito che era finita. Un minuscolo virus, l'Hiv, ha ucciso lui, Freddie Mercury. Ne ha uccisi anche tanti altri, ma degli altri non mi frega niente. Scoprì di essere malato nel 1987 (non nel 1985, anno in cui si conclude il bruttissimo film, dove Freddie sembra serioso come Mick Jagger, mentre era spiritosissimo), e da quel giorno ha dato fondo a tutto se stesso incidendo canzoni da brivido fino all'ultimo, due album incredibili The miracle (1989) e Innuendo (1991) e appunto le canzoni uscite postume. «Sì ma cosa scrivi?» mi chiede Emilio. Non lo so. Guardando il lago di Ginevra cerco di pensare agli ultimi pensieri di Freddie, agli ultimi pensieri di un dio. È difficile pensare a cosa pensa un dio quando sta morendo. Neppure un dio sarà felice di morire. Sebbene Freddie abbia cantato la colonna sonora di Highlander, l'ultimo immortale, dove c'è la canzone Who wants to live forever, che dice «Who wants to live forever when love must die». Ma Emilio mi suggerisce di risentire l'ultima canzone rimasta incompiuta, uscita postuma, l'ultima strofa incisa, prima che da Montreux tornasse a Londra per morire. E l'ultima strofa incisa dal dio, dopo un acuto incredibile e straziante, dice così: «Mama please, let me back inside». Ecco cosa pensa un dio quando sta morendo. Ma con la forza di cantarlo come solo Freddie sapeva fare. Mamma, ti prego, riprendimi dentro. Io piango, anche perché l'alcol mi fa piangere facilmente, poi guardo Emilio e gli chiedo: «Perché non piangi?». Lui fa: «Perché ci sei già tu che piangi». Il solito stronzo. Massimiliano Parente

·        I Beatles.

Ray Dagg, il poliziotto londinese che fermò l’ultimo concerto dei Beatles: «Facevo solo il mio dovere». Andrea Marinelli su Il Corriere della Sera il 12 Dicembre 2021. All’epoca aveva 19 anni e costrinse i Fab Four a interrompere l’esibizione a sorpresa sul tetto di Apple Records a Savile Road. Oggi, a 72 anni, parla per la prima volta e ammette: «Mai avuto un loro disco, preferivo Simon & Garfunkel».

«Era solo lavoro, e ora ne sta venendo fuori un pandemonio. È assurdo, davvero non capisco». Dopo oltre cinquant’anni di anonimato, ormai in pensione nella campagna inglese, l’ex poliziotto londinese Ray Dagg si è ritrovato all’improvviso sui giornali di tutto il mondo, trasformato in un personaggio di culto da Get Back, apprezzatissimo documentario sui Beatles di Peter Jackson che segue le prove e la registrazione dell’ultimo album della band di Liverpool, Let It Be, pubblicato nel 1970.

Nella serie — otto ore di immagini divise in tre episodi, disponibili in streaming su Disney+ — Dagg appare solo pochi istanti, che bastano però a consegnargli un ruolo fondamentale nella storia della musica: fu lui, all’epoca appena 19enne, a interrompere l’ultima esibizione dal vivo dei Beatles, che il 30 gennaio 1969 stavano tenendo un concerto a sorpresa sul tetto degli studi di Apple Records, al 3 di Savile Road, la strada londinese dei sarti. L’agente Dagg persuase il road manager del gruppo Mal Evans con la minaccia di un arresto per disturbo della quiete pubblica: la stazione di polizia di West End, gli disse, aveva ricevuto 30 reclami nel giro di pochi minuti.

«Era solo un bluff. All’epoca però non sapevo che non avrebbero mai più suonato insieme», ammette oggi Dagg, 72 anni, parlando per la prima volta in un’intervista al Times di Londra. Quei 42 minuti sul tetto della casa discografica furono infatti gli ultimi in cui John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr si esibirono in pubblico tutti insieme: l’anno successivo il gruppo si sarebbe sciolto e i componenti avrebbero preso ognuno la propria strada da solista, ad eccezione di qualche sporadica collaborazione.

«Non è un male essere ricordato per questo, sono milioni le persone che vengono dimenticate. Almeno da qualche parte resterà un film che mostra l’agente Dagg mentre silenzia i Beatles», dice al quotidiano londinese il 72nne, che non ha rimpianti e ammette di non aver mai posseduto un album dei Fab Four: preferiva Simon & Garfunkel. Sei anni dopo essersi scontrato con la Storia per un istante, Dagg lascerà la polizia, dove era entrato seguendo le orme paterne, e lavorerà come venditore ed esportatore, prima di ritirarsi nelle campagne attorno a Warwick.

Nessuno avrebbe più sentito parlare di quel bobby londinese se non fosse stato per l’opera di Jackson, già vincitore di tre Oscar con Il Signore degli Anelli, che ha attinto a 60 ore di girato mai rese pubbliche di Michael Lindsay-Hogg, autore nel 1970 del documentario Let It Be. All’epoca la polizia di Londra concesse l’autorizzazione per diffondere il filmato e a Dagg fu offerto un compenso di 3 mila sterline per la comparsata involontaria, il doppio del suo stipendio annuale, che fu costretto a devolvere al fondo per le vedove e gli orfani degli agenti. A distanza di 50 anni, invece, quelle immagini hanno trasformato Dagg in «una stella improbabile della nuova Beatlemania», come ha scritto il Times, che per primo ha cercato di scoprire che fine avesse fatto il giovane poliziotto.

Nel documentario si vede Dagg entrare nella casa discografica, ripreso da una telecamera nascosta dietro a uno specchio. «Dissi al mio collega Ray Shayler di fare attenzione, perché ci stavano filmando», ricorda. Ci volle mezz’ora per arrivare al tetto, dove la band stava ancora suonando: nel vedere gli agenti, McCartney si lasciò andare a un sorriso. La trattativa con il manager proseguì ancora un po’, fino alla minaccia di arresto per intralcio della strada, dove si erano radunati i fan, e degli agenti. Fu a quel punto che Evans staccò l’amplificatore della chitarra di Harrison, proprio durante Get Back: furono le ultime note dal vivo suonate dai Beatles.

Quando l’8 dicembre di 41 anni fa John Lennon fu ucciso. Da lastampa.it l'8 dicembre 2021. Oggi è il giorno della ricorrenza della morte di John Lennon. L’8 dicembre di 41 anni fa morì l’ex Beatles, assassinato davanti all’ingresso della sua abitazione a Central Park sulla 72esima strada, New York. Lennon stava rientrando a casa assieme alla moglie Yoko Ono e fu raggiunto da quattro colpi sparati da una calibro 38 impugnata da Mark David Chapman, uno suo fan al quale Lennon poche ore prima di morire, aveva regalato una copia del disco “Double Fantasy” con tanto di autografo (nel 2017 la copia del disco fu messa in vendita al prezzo di un milione e mezzo di dollari (1,3 milioni di euro) dalla Casa Moments in Time, specializzata nel commercio di manoscritti, autografi e foto autografate).

Lennon morì in ospedale

Quella sera l’ex Beatles, dopo essere stato raggiunto dalla raffica di proiettili, fu portato, gravemente ferito, al Roosevelt Hospital e qui dichiarato ufficialmente morto. I medici dell'ospedale dichiararono che nessuno sarebbe potuto sopravvivere più di 5 minuti dopo aver sostenuto tali ferite. Poco tempo dopo, delle stazioni radio locali diffusero la notizia della morte dell'ex Beatles, e una folla di suoi ammiratori si riunì nei pressi del Roosevelt Hospital e davanti al Dakota. Il corpo di Lennon fu cremato al Ferncliff Cemetery di Hartsdale (New York), due giorni dopo il decesso; le sue ceneri furono consegnate alla moglie, che scelse di non far celebrare nessun funerale. Il primo annuncio televisivo della morte di Lennon venne dato dal telecronista sportivo Howard Cosell, sulla rete ABC durante una partita di football americano trasmessa in diretta su Monday Night Football. Chapman ammise la responsabilità nell'omicidio di Lennon e venne condannato a una pena compresa fra 20 anni e l'ergastolo; non è mai uscito in quanto gli è stata ripetutamente negata la richiesta di libertà vigilata; sono state promosse campagne contro la sua scarcerazione. Poche ore prima della tragedia, la mattina di quel triste giorno, la celebre fotografa Annie Leibovitz era stata a casa di John Lennon e Yoko Ono, e per la copertina della rivista musicale Rolling Stone aveva scattato una delle immagini più famose di ‘amore e perdita’ della storia. In cui lui, completamente nudo e rannicchiato in posizione fetale, abbraccia e bacia lei, tutta vestita di nero. Ancora oggi, a distanza di 41 anni John Lennon rimane una delle più potenti icone della cultura popolare. 

Marco Molendini per Dagospia l'8 dicembre 2021. La pistola di Mark David Chapman mi ha svegliato di mattina presto. Presto per i miei orari di giornalista. Un risveglio brusco, il telefono di allora aveva uno squillo penetrante, che uccide.

«Pronto...».  Dall'altra parte c’è una voce flebile che conosco, è quella del mio amico e allora mio caposervizio Gigi Vaccari, ha un tono funeralizio e non mi dice nemmeno ciao: «Marco, hanno sparato a John Lennon».

Gigi, non mi prendere in giro, sto dormendo.  «Corri al giornale» insiste. No, non sta scherzando.

Ma è morto? «Si, un pazzo gli ha sparato sotto casa. Vieni che dobbiamo organizzare le pagine, saranno almeno due». Non è un fatto abituale, a quei tempi, fare due pagine per le cose di musica.

Ma l'assassinio di John Lennon non è un fatto di musica, c'è di tutto dentro: musica, certo, costume, politica, violenza, turbamenti psichici. C'è l'idolo che viene abbattuto, c'è la storia dei Beatles, c'è il pacifismo di John e Yoko, c'è il fan che diventa assassino. Ci ritroviamo in redazione in quattro, Gigi, io, Paolo Zaccagnini e Fabrizio Zampa. Fabrizio, per allentare il clima, spara subito: «Ho già il titolo: Una pistola, ma non per Ringo».

Ma ci dobbiamo dare da fare sul serio. E lo facciamo dando inizio, noi come gli altri quotidiani, a una nuova epoca del giornalismo musicale. Da allora riempire le pagine sarà più facile. Non c'entra direttamente l'assassino di John, ma l'evento segna uno spartiacque. C'è il dramma, c'è la reazione collettiva, anche questa inedita e destinata ad aprire una stagione. Si scatena il flusso emotivo. 

Debutta un genere: il funerale diffuso, con il pellegrinaggio al luogo dell'assassinio e la trasformazione di quel luogo in una sorta di santuario. Succederà di nuovo da allora in poi, molte volte. Il rito funeralizio si trasforma in uno spettacolo e non smetterà più di esserlo. E, intanto, John Lennon diventa un mito. Forse lo era già, ma quei cinque colpi sciagurati, sparati da uno sballato lo hanno reso immortale. 

Immaginiamolo oggi a 80 anni, stanco, invecchiato, non tinto come il suo partner Paul McCartney, che forse prova ancora a fare qualche disco. Immaginiamolo coi capelli bianchi e la mascherina anticovid che accudisce la moglie Yoko Ono, più grande di lui di sette anni, e che oggi ha bisogno di assistenza continuata. Immaginiamolo e riascoltiamolo, riandando a quel giorno tremendo che in Italia era ancora notte.

Un giorno pieno di impegni nella vita dei Lennon. John si è alzato di buon umore quella mattina, la sua ultima mattina. Alle 11 Anne Leibovitz bussa all’appartamento con quattro camere da letto e uno splendido affaccio sul parco, al settimo piano del Dakota building. 

È armata di macchine fotografiche. Deve fare un servizio per la rivista Rolling Stone. Un servizio destinato a diventare storico, non solo perché precede di poche ore il tragico epilogo, ma perché contiene uno degli scatti più celebri della storia del rock: Lennon nudo che abbraccia la moglie steso sulla moquette del pavimento.

Alle 12 Paul Goresh, un amico di John, si presenta al Dakota e scambia due parole con uno strano tipo che si è piazzato all'ingresso dell'edificio con in mano una copia di Double fantasy, il disco appena uscito: è Mark David Chapman. 

Alle 12,40 arriva una troupe della Rko radio per intervistare Lennon a proposito del nuovo album.

Alle 16,30 John e Yoko escono da casa con la troupe della Rko per andare al Record Plant studio a Midtown dove devono lavorare al singolo Walking on thin ice, destinato a un album di Yoko.

Chapman, che è ancora lì ad aspettare, si avvicina a Lennon, con la sua copia di Double Fantasy Paul Goresh lo spinge fisicamente e lo incita: "Dai, è il tuo momento. Sei qui che aspetti da tutto il giorno, sei venuto dalle Hawaii… vai a prenderti il tuo autografo!”. Lennon orende il disco, lo firma, alza lo sguardo e dice a Chapman: “E’ tutto? Vuoi qualcos’altro?”. Intanto, Paul Goresh scatta un paio di foto di Lennon e del suo assassino.

Alle 17 i Lennon arrivano agli studi e si mettono a lavorare alla nuova canzone con il producer Jack Douglas. John partecipa suonando le parti di chitarra con la sua storica Rickenbacker 325, lo strumento usato nelle registrazioni di Please Please Me, From Me To You, She Loves You. Il testo, scritto da Yoko, dice: Posso piangere un giorno/ma le lacrime si asciugheranno comunque/ e quando i nostri cuori ritorneranno cenere/ questa sarà solo una storia». 

Alle 22,50 il lavoro in studio è finito, John e Yoko scendono da una limosuin che li ha riaccompagnati al Dakota, hanno deciso di fare ritorno a casa invece di andare direttamente a cena per dare la buonanotte a Sean prima di recarsi allo Stage Deli sulla settima. Chapman è ancora lí, li aspetta con il disco in mano, ora autografato. 

Appoggia Double Fantasy su una fioriera, tira fuori una pistola Charter Arms 38 special, comprata sei settimane prima in una svendita, e spara cinque volte. Colpisce John quattro volte, tre proiettili trapassano il polmone sinistro e l’arteria succlavia sinistra. Il quarto resta conficcato nell’aorta.

John, ferito, fa qualche altro passo, cerca riparo salendo cinque gradini all’interno del palazzo, grida “I’m shot, I’m shot”, poi crolla a terra lasciando cadere i nastri con la registrazione appena fatta al Record plant. Yoko, terrorizzata, grida «Hanno sparato a John». Il portiere chiama la polizia mentre un’ambulanza trasporta Lennon al vicino Roosevelt hospital sulla 59 ma strada. Chapman dichiarerà: «Ho sentito qualcuno nella mia testa che diceva fallo, fallo, fallo. Volevo essere importante, volevo essere qualcuno».

Alle 11,15 il responsabile del pronto soccorso si avvicina a Yoko e le comunica che ogni tentativo di rianimare John è fallito, all'ospedale è già arrivato morto. Lei ha una crisi, rifiuta di accettare la morte del marito: «Non è vero, non ti credo, sei un bugiardo», fa al medico. Poi superata la crisi chiede ai dottori di aspettare ad annunciare la morte di Lennon per darle tempo di preparare Sean. 

Alle 11,32 (le 5,32 in Italia) La notizia viene resa pubblica dalla Abc interrompendo una partita di football americano. 

Roberto D’Agostino per “Vanity Fair” l'1 dicembre 2021. Nell'esatto momento in cui si arde dal desiderio di essere perfettamente sordi, stufi di canzoncine buone solo per smuovere il contocorrente, storditi da stornellatori coinvolti in una fiera di espedienti e drittate con la muffa al posto della qualità, nauseati da schiere di chitarrosi che sventolano la cultura pop come puro gioco di idee senza ideali; ecco, di colpo, s'ode uno "squillo di tomba": i Beatles! Sì, proprio come in quella paurosa poesia della nostra lontana gioventù scolastica che Giovanni Berchet dedicò a Garibaldi: “Si scopron le tombe, si levano i morti; I martiri nostri son tutti risorti: Le spade nel pugno, gli allori alle chiome, la fiamma ed il nome…”. Il miracolo ha per titolo “Get back” e va in onda su Disney+: tre puntate da due ore e mezza l’una, montate e dirette con certosina passione dal premio Oscar Peter Jackson, tratte dalle 60 ore di registrazioni video e dalle 150 ore di nastri audio girati nel 1969 da Lindsay Hogg in uno studio di registrazione di Londra, per documentare l’ultimo disco del gruppo e che poi diventerà “Let It Be” e il loro ultimo concerto assieme. Lo smarrimento che ti prende, mentre ti immergi nella ‘’resurrezione’’ di una delle più grandi storie musicali di tutti i tempi, è indescrivibile. E’ come spiare Leonardo da Vinci al suo cavalletto o Michelangelo brandire il suo scalpello da scultore. E’ come vedere un pulcino schiudersi dall’uovo. E’ come entrare nella macchina del tempo mentre creano, ripetendola decine e decine di volte, “The long and winding road”. Davanti ai tuoi occhi, le pennellate casuali alla chitarra di McCartney si trasformano in “Get Back”, poi il brano si allarga a Ringo, George e John, e infine trova la sua soluzione con l’ingresso del piano elettrico di Bill Preston. Tra la nona e la tredicesima prova di ‘’Don't Let Me Down’’, ecco il timido George Harrison che fa ascoltare ai compagni una melodia ancora abborracciata che poi diventerà il capolavoro di “Something”, ma è bloccato sulle parole e chiede aiuto a Lennon. E davanti allo loro creatività subito si soccombe con la medesima voluttà con cui l'insetto cerca il fischio dolce della carta moschicida. ‘’Get Back’’ si trasforma anche in uno studio intimo sull'amicizia tra John e Paul. Specialmente quando cazzeggiano, cantano vecchi successi rock’n’roll, ballano nello studio come dervishi ubriachi, tra i due ragazzi di Liverpool scoppia una chimica che deflagra dolcemente come qualsiasi attrazione sessuale o romantica. La connessione tra i due è così intima, gli sguardi condivisi pieni di tale comprensione, che quando suonano ‘’Two of Us’’, ti rendi conto che l'amore che quella canzone celebra è il loro – anche se non lo sapevano. E' la folata definitiva, quella che lucida a specchio il nostro sguardo e svela: non possiamo perderli senza perdere noi stessi. Quindi le voci dei Beatles planano nel nostro animo, lo adescano, rivoltando il tessuto connettivo della memoria, diventano testimonianza di una felicità di vivere, di aver vissuto. Succede quando la vita e la morte si scontrano: le nostre esperienze precedenti ci tornano in mente con abbagliante intensità. Siamo invasi dalle medesime emozioni che abbiamo sentito la prima volta che un certo avvenimento si è verificato. A volte è la sofferenza a risvegliarsi, e chiede di essere sanata: anche i difetti e i misfatti gravi del passato, anche i vizi beneficiano dell'indulgenza e di una certa commossa allegria. Altre volte invece la gioia che proviamo ci conferma la riuscita della nostra esistenza. Una foto. Un fiore. Un disco dei Beatles. E più gira e rigira lo spiffero di “Let it be” e più la testa diventa una cipolla con le orecchie, ti assale un groppo alla gola e ti viene da piangere. Come bambini privati di qualcosa che si è disperso irragionevolmente in un evento inaspettato e nemico. Perché sappiamo cosa non sanno: che il concerto sul tetto sarà la loro ultima esibizione insieme e che, poco più di un decennio dopo, John Lennon sarà morto. Una parte di te è invasa di amarezza: vuoi spronare loro quattro a trovare un modo per andare avanti, anche solo per un po' di più; e ti struggi per tutte le canzoni che non sono state scritte e cantate. Staccando l'ombra da terra, scopri che il canzoniere Lennon-McCartney è come una riserva d'acqua, ammucchiata in un bacino di montagna e lì tenuta in casi d'emergenza. Come riserva per la sete. Ma è appunto su un'acqua così ferma e anche così splendente che i loro brani più famosi non sono solo da canticchiare ma riflessioni sulle strade che non abbiamo intrapreso, sui baci che non abbiamo dato, sui desideri mancati, sulle nostre fragilità. Una creatività che ha permesso a John, Paul, George e Ringo di trascendere un'epoca, di unire il mondo di padri e figli e nipoti, e a parlare a noi intimamente oggi come ieri. La memoria, si sa, si sconta cantando. Il nostro passato si allontana da noi nel momento in cui nasciamo, ma lo sentiamo passare solo quando termina una canzone dei Beatles. 

Alessandra Levantesi per "la Stampa" il 29 novembre 2021. Come da titolo con lo Sneak Peek presentato a Torino Peter Jackson offre un assaggio delle tre puntate della sua miniserie The Beatles: Get Back, trasmessa in streaming dalla Disney in questi giorni, dando un'idea del lavoro compiuto sulle 56 ore di filmato girato da Michael Lindsay-Hogg nel gennaio 1969, durante le sedute di registrazione del gruppo raccolte poi nell'album Let it Be. Vale a dire l'ultimo album dei Beatles, uscito mestamente subito dopo il loro scioglimento nel maggio 1970; in concomitanza con l'omonimo film che di quelle tre settimane di riprese (originariamente previste per la tv) racchiudeva solo il famoso «RoofTop Concert» al numero 3 di Savile Row. Messo di fronte all'enorme mole di materiale inedito conservato negli archivi della Apple Corps, Jackson si è impegnato a tagliare e rimontare, conferendo nuovo smalto alle immagini e al sonoro; ma a «sbirciare» le due giornate di sedute più il concerto sul tetto mostrati al festival, ci accorgiamo che da vero cineasta qual è ha fatto molto di più: ha riscritto il finale (o sottofinale) della storia della band e, soprattutto, ha restituito alla vita un irripetibile momento creativo. Se l'intenso ritmo di giornate trascorse fra prove e ripetizioni a cercare il riff, la tonalità, il testo e la parola giusti provoca qualche episodio di attrito, a prevalere è la felicita di ritrovarsi a suonare insieme, la voglia buffonesca di scherzare sull'onda ludica della giovinezza. Ogni tanto appaiono la Yoko di John o la Linda di Paul, ai quattro in corso d'opera si aggiunge il tastierista Bill Preston, il grande George Martin presiede ogni fase; e noi spettatori, tuffati in quell'atmosfera anni '60 che resta unica, abbiamo l'incredibile sensazione di essere lì mentre vengono alla luce capolavori come The Long and Winding Road, Let it Be e, naturalmente, Get Back. fine. 

I Beatles rimontati da Peter Jackson li avevamo già visti. Ma non c’è niente da fare, non si resiste. Stefano Pistolini su L'Inkiesta il 29 novembre 2021. Nel nuovo documentario dedicato all’epilogo della band (sono otto ore di filmati d’epoca e lo si trova su Disney+), i colori freddi e strappati di “Let It Be” hanno assunto nuances tutte nuove. E si ha sempre un po’ di ritegno nel ripercorrere le stesse emozioni con il senno di poi. Ma poi si finisce sprofondati nei cuscini e si entra in questa potente macchina del tempo. Un film su quella famosa giornata del gennaio ’69 e sugli eventi che avevano condotto la band più famosa della storia a chiudere la carriera con un concerto in terrazzo a ora di pranzo nella scicchissima Savile Row, già c’era e l’avevamo visto da ragazzi, nella penombra di un cinemino d’essai milanese. Si chiamava “Let It Be” e ci sembrò una magia che, solo a pochi mesi dagli eventi e al modico prezzo d’un biglietto, ci venisse permesso di penetrare nell’intimità degli idoli incontrastati, di percepirne gli umori e osservarne i tic e le dinamiche. Il film non era allegro, ci tirava un’evidente aria di dismissione, si capiva che era la cronaca più o meno volontaria d’un epilogo, che nel frattempo si era pubblicamente consumato. I Beatles non esistevano più, già circolavano i quattro album dei loro esordi solistici (bellissimi), ma noi eravamo pazzamente orfani, anzi, vedovi. Ripensando a quella visione, il più delle cose apparivano chiare: il meccanismo della fratellanza s’era logorato, il tempo della magica sincronia era clamorosamente trascorso e adesso i Beatles erano – e apparivano – grandi, adulti, diversi, così fighi, alla moda, charmant, ciascuno a modo suo, così vissuti, così “post”, come si sarebbe detto dopo. Eppure, anche loro un po’ orfani, come noi, dopo aver assistito con impotenza alla fine della parte eroica della loro esistenza, che aveva saputo sorprenderli, sconvolgerli, travolgerli. Di quel film si ricordavano i colori acidi e sbavati, i mugugni sparsi nei tempi morti delle prove, le esitazioni, lo scarso livello empatico, eppure la reciproca conoscenza definitiva, che rendeva superflue le parole. E poi l’esplosione situazionista di quel concerto, sgangherato e meraviglioso, grondante umidità e londinesità, le facce onorate ed entusiaste degli spettatori casuali, il flusso d’amore consolidato, i vocals tirati là con forza e rabbia, senza l’antica ricerca delle harmonies, il suono rauco, maturo, consumato, si potrebbe dire assoluto, non rivedibile. Da lì, passa mezzo secolo, una vita. Adesso, che siamo nell’epoca del Covid (se ce l’avessero detto allora…) torniamo sul luogo del delitto con gli strumenti della modernità che – sempre se ce li avessero annunciati uscendo da quel cinema milanese – ci sarebbero sembrati fantascienza: lo streaming personale degli spettacoli, un film di 8 ore consumabile su un telefono portatile, un servizio che somiglia a una tv, ma col marchio di Disney, quello di “Dumbo” – che diavolo c’entra coi Beatles? Ebbene, nel novembre 2021 l’archeologia sentimentale della pop culture festeggia un altro dei suoi avvenimenti. E su Disney+ sbarca – in esclusiva e a pagamento – l’opera di Peter Jackson, l’architetto del “Signore degli Anelli”, che ha soddisfatto la sua passione adolescenziale, rimontando con cura certosina, gusto da collezionista e maestria da uomo di cinema, quella stessa storia, ovvero le sessanta ore di pellicola girata in occasione della registrazione dell’ultimo disco dei Beatles, in coincidenza con la dissoluzione della band. Risultato: tre puntate lunghissime, per un totale di otto ore di visione. Un’immersione in un passato emotivamente esigente, una prova non così scontata per chi c’è stato, o per chi ha vagheggiato quelle vicende e l’epoca di riferimento. E per coloro che hanno avuto la ventura di vivere entrambi i capitoli di questa storia, dall’uscita di “Let It Be” (1970) a quella di “Get Back” di questi giorni, il primo choc sarà inaspettatamente di ordine cromatico. Adesso i colori freddi e strappati che si conservavano nella memoria, grazie alla magia tecnologica del restauro e della colorimetria, hanno assunto nuances diverse, che abbracciano l’intero lavoro e sono morbide, pastellate, piene di dolcezza e grondanti d’una punta di fastidiosa nostalgia, che l’urgenza nervosa della contemporaneità non poteva di sicuro contemplare. Ma ora tutto è passato, i morti sono sepolti, i vivi sono pacificati, questa è storia di un secolo già in archivio, i Beatles sono un monumento stilizzato, forse perfino “un’esperienza”, certamente un’eco che non smette di risuonare. Perciò, seppure con ritegno e con una certa ritrosia (siamo sicuri che, oltre il voyeurismo, la visione ci procuri rivelazioni o una comprensione più ampia di quella in presa diretta?), insomma si finisce sprofondati nei cuscini e si entra in questa potente macchina del tempo. Dunque Twickenham, gli enormi studi cinematografici, un capannone freddo e cavernoso, dove i Fab Four si sono dati convegno per preparare uno special tv che deve andare in onda appena tre settimane dopo, perché l’azienda deve lavorare, anche se perde colpi, e alle viste c’è un live album di inediti. Ma gli studi sono un postaccio, nessuno ha voglia di starci, tutti arrivano in ritardo o fanno sega e a frantumare l’intimità ci sono presenze permanenti, ben oltre a quella perenne e storicizzata di Yoko (John: «Mi piacerebbe ci fosse un quinto Beatle». Paul: «Le cose vanno già abbastanza male in quattro»). Per esempio c’è spesso Linda, laconica e smagliante futura signora McCartney, con Heather, figlia adottiva che è una peste, più perniciosa dell’odiata giapponese, ci sono degli Hare Krishna amici di George, c’è un’organizzazione di gente preoccupata. Il restauro della saga architettato da Peter Jackson si apre qui, su questo quadro di malessere generalizzato. Michael Lindsay-Hogg, ragazzo di buona famiglia dai modi così antipatici da essere buffi – lo stesso che ha girato il “Rock’n’Roll Circus” degli Stones – ha l’incarico di guidare i filmati per lo special, che secondo lui (ma solo secondo lui – i Beatles lo pigliano per i fondelli quando ne parla), dovrebbe culminare in un concerto della band in un antico anfiteatro di Tripoli. Non è aria di esotismi, si vede lontano un miglio, la temperatura psicologica è polare. La caduta del tempio è dietro l’angolo e si tratta solo di stabilire a chi tocchi buttar giù la prima pietra. Eppure, c’è un dolore diffuso, un senso di cacciata dal paradiso, ci sono i nervi a fior di pelle e poi dei momenti di magica, giovanilistica riconnessione, quando viene voglia a tutti di risuonare i classici del rock’n’roll, di cui non sono mai sazi. Paul e George sono alle strette («Ho sempre l’impressione di annoiarti», «No tu non mi annoi più»), George si sente incompreso («Dovremmo pensare a un divorzio»), è gennaio e a Londra fa un freddo fottuto, il 24 gennaio Ringo se ne andrà per partecipare a un film con l’amico Peter Sellers: bisogna sbrigarsi, rimettere in funzione la macchina da spettacolo. I congegni della collaborazione cigolano, però capita che Paul, giocando col suo basso (che suonava quasi sempre come una chitarra, col plettro e prendendo gli accordi), in una specie di condizione estatica, butti giù le fondamenta di “Get Back”, uptempo capolavoro, nemmeno fosse uno scherzetto. Guardando loro viene da dire: questo è pop music, bellezza – o ci sei dentro, o lascia stare. Jackson traccia in ordine cronologico gli avvenimenti dei 22 giorni che portano al concerto sul terrazzo: preparatevi a sentire un numero infinito di versioni di “Don’t Let me Down” e abituatevi a vedere i quattro non farsi sfuggire l’occasione di fare una smorfia demenziale verso la cinepresa. La rivelazione, soprattutto per i fans, è la chiarissima gerarchia e il posizionamento delle figure nel mondo-Beatles che emerge da questo documento. Paul ha assunto il totale comando e controllo delle operazioni musicali, anche perché è palesemente il più dotato e attrezzato musicalmente. È il band leader, mentre John è in una posizione periferica, silenzioso, assente o stonato, mai aggressivo, servizievole, moderatamente coinvolto. George è il più a disagio: soffre la pressione di Paul sotto l’aspetto tecnico, non sente il rispetto del compagno come prima chitarra della band e su di lui pende l’ombra dell’amico-rivale Eric Clapton, che da un lato gli insidia la consorte, dall’altro l’aiuta a evolversi col suo strumento. Ringo non smette mai i suoi panni da paziente ultimo arrivato, coltiva interessi diversi, sprizza empatia e nessuno gli chiede di più. George Martin non sembra il santone che abbiamo creduto, si preoccupa soltanto dell’efficienza tecnica delle prove e non si intromette nelle questioni compositive, come se avesse esaurito le mansioni di svezzamento. Il resto è contorno. Man mano che procede la visione, ci si sente là con loro, nella palude psicologica di una band in crisi d’identità, alla ricerca di un impossibile ritorno di grazia. E la saga continua, come un sogno: nel secondo capitolo si sposta nello studio dove i Beatles riparano, stanchi di Twickenham. Siamo nel cuore di Londra, nell’edificio della Apple, spazio raccolto, amichevole, fighetto. Attorno c’è la città pulsante e le cose, sia pur a singhiozzo, vanno meglio. Arriva Billy Preston e comincia a suonare con loro, con un tocco e una morbidezza mirabili. E i pezzi cominciano a fluire, il meccanismo si è riavviato, certe connessioni non finiscono mai. John e Paul si guardano negli occhi cercando la quadra vocale di “Two of Us” e assistere è elettrizzante. Le pagine di questo diario beatlesiano s’arricchiscono di perle: il rituale della ripetizione dei pezzi diviene la legenda del film, come della vita di questo irripetibile consorzio. Affiora la consapevolezza che la separazione, alla fine, non sia altro che la continuazione del loro stare insieme, in un legame che è eterno e inscindibile. E nella meraviglia dei colori reinventati da Jackson, che convogliano passato e presente, si plana nella terza e ultima parte del doc, quella del concerto, delle dieci cineprese che girano insieme e con cui il regista di oggi inventa una fantasmagoria di visione che scioglie interrogativi decennali (che si dicono i poliziotti, mentre s’appropinquano alla sede del concerto che disturba la quiete pubblica? Finalmente lo saprete…). Quel giorno i Beatles sono tirati a lucido, sono bellissimi e per l’ultima volta tornano a essere una band. È una liturgia irresistibile, a cui si assiste commossi come al funerale di un amico. Le parole non servono, perché dentro queste immagini – di ieri? di oggi? – ci sono stralci della vita di tutti noi. Il bello è pensare che quella sera, dopo l’ultimo concerto, quando la cerimonia è stata consumata, la vita continua per tutti e anche per loro, andrà come deve andare. Noi da teenager guardavamo impietriti lo show, loro traversavano ancora i loro vent’anni. Noi, di nuovo, mezzo secolo dopo torniamo a contemplarli e ci sentiamo un po’ stupidi. Forse questo rituale è perfino inutile e appiccicoso, ma non c’è niente da fare, non si resiste. Le immagini ti risucchiano e senti un dolore a sapere che se domani andassi a Savile Row, non troveresti nemmeno più le scie di questi fantasmi.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 24 novembre 2021. Echeggiano in entrambi i loro volti i tratti del loro famoso padre: quel naso aquilino, il viso lungo, la fronte alta. Ma Julian e Sean Lennon condividono anche qualcosa di molto più speciale: un vero sentimento di fratellanza, finalmente. I fratellastri, rispettivamente di 58 e 46 anni, sono in viaggio in California. Su Instagram, Julian ha scritto: «Un po' di vento soffiato e stanco dopo alcune ore di guida attraverso le montagne fino al mare, ma ne vale la pena. Un giorno magico». Lo è anche, perché il loro viaggio lungo la Pacific Coast Highway è un po' di storia del rock e un momento di guarigione definito un «cambiamento di vita» da Julian. Perché Julian sta finalmente facendo pace con il parziale allontanamento da suo padre prima della sua morte. E sembra che la sua amicizia con Sean stia andando in qualche modo a colmare il rapporto paterno che entrambi gli uomini hanno perso. Come dice Julian, Sean è «l'unica persona a cui tengo più di ogni altra cosa al mondo… Sono qui per amarti e supportarti, 'fino alla fine dei tempi e poi ancora'». Non è sempre stato così. L'amaro divorzio di John dalla mamma di Julian, Cynthia, e il matrimonio con la madre di Sean, Yoko, hanno portato a relazioni tese. Poi, dopo l'omicidio di John nel 1980, ci furono decenni di sfiducia, oltre a una disputa sull'eredità di 250 milioni di sterline di John. Eppure, molto silenziosamente è seguita un'esplosione di pace, che è maturata in un legame stretto e significativo. Un amico comune mi ha detto ieri: «Sono amici da circa 20 anni, ma con il passare del tempo si stanno avvicinando. La gente ne parla come se fossero nemici, e c'era molto dolore, e molto di questo era molto pubblico, ma non più». «Yoko mi ha detto una decina di anni fa: “Sai che siamo una famiglia con Julian, e a volte le famiglie hanno dei disaccordi. Julian e Sean hanno sempre avuto un legame al di fuori di tutto questo. Si amano». Il capitolo pubblico di questa riunione fraterna è iniziato venerdì, in occasione del lancio a Los Angeles del documentario in tre parti Disney+, The Beatles: Get Back. Si sono seduti uno accanto all'altro alla proiezione e, in seguito, si sono mescolati a una festa organizzata dalla figlia di Sir Paul McCartney, Stella. Quella sera Julian ha scritto: «L'unica cosa vera che posso dire di tutto questo è che mi ha fatto sentire così orgoglioso, ispirato e mi ha fatto provare più amore per la mia/nostra famiglia che mai. E il film mi ha fatto amare di nuovo nostro padre in un modo che non posso descrivere completamente. Cambio vita». Julian, che non si è mai sposato, vive a Monaco, mentre Sean vive a New York con la sua fidanzata Kemp Muhl. Il loro ultimo incontro pubblico è avvenuto quando i due uomini hanno registrato una conversazione insieme nell'ottobre 2020 per la BBC, in occasione di quello che sarebbe stato l'80° compleanno di John Lennon. Ricordavano, anche se alcuni ricordi erano forse troppo crudi per essere condivisi. Come il modo in cui Julian ha insegnato a Sean a suonare la chitarra con Faith di George Michael, ed è stato così tanto "l'eroe" di Sean che Yoko ha portato il diciassettenne Julian a New York nel 1980 per dare la notizia della morte di John a Sean, che allora aveva cinque anni. Mentre a sua volta Julian, da bambino, è rimasto nascosto al mondo. La studentessa d'arte Cynthia e il piccolo Julian, nati all'inizio della Beatlemania nel 1963, vivevano nell'oscurità mentre John girava il mondo. La sua famiglia segreta venne alla luce per la prima volta nel 1966, quando Cynthia fu fotografata mentre spingeva una carrozzina. Mesi dopo, John incontrò Yoko Ono a una mostra d'arte. Si trasferì a New York con Yoko quando Julian aveva solo cinque anni e diventò un genitore crudelmente distante. I regali di compleanno e di Natale venivano spediti, senza che lui li vedesse, dall'ufficio londinese dei Beatles. Julian veniva schernito a scuola sulla falsa credenza che avesse «i muri tappezzati con banconote da £ 5» ma, in realtà, lui e Cynthia non avevano ricchezze materiali e non aveva quasi nessun contatto con John. Quando aveva 11 anni, Julian fu mandato a New York per alcuni incontri imbarazzanti: Julian stima di aver visto suo padre dieci volte in tutto. «Ho vissuto dai compleanni al Natale, solo per stare con lui», ha detto. Le visite stesse erano piene di incidenti. Una volta, John rimproverò Julian, dicendogli di non ridere così forte perché avrebbe potuto svegliare il piccolo Sean. Un'altra volta gli ha offerto uno spinello. John era infatuato di Sean e aveva rinunciato a lavorare, per essere un padre. Julian ha detto: «Quando ho visto il fatto che, sai, aveva praticamente rinunciato alla musica per un paio d'anni per prendersi cura di Sean, sai, è stato - è stato doloroso. Ho pensato: 'Beh, perché non l'ha fatto per me?' Ero un po' geloso, ma non ho mai detto niente». In un'altra intervista, ha detto che era arrabbiato per la negligenza. «Ho sentito che era un ipocrita. Papà potrebbe parlare di pace e amore al mondo, ma quella pace e quell'amore non sono mai tornati a casa da me». Nel 1980, John fu ucciso da Mark Chapman. È stato un colpo devastante. Julian è stato messo sul Concorde per New York. Lì, ha trovato difficile gestire il dolore di Yoko. Voleva aspettare l'arrivo di Julian per dire a Sean della morte di John, e voleva il consiglio di Julian su come dare la notizia. Più e più volte, hanno provato ciò che avrebbe detto Yoko. «Ricordo di aver visto il luccichio negli occhi di Sean, quando ha davvero capito cosa era successo. E poi le lacrime hanno iniziato a scorrere», ha detto. Nel profondo del dolore, Yoko chiese a Julian di stare con loro a New York, ma lui sentiva di appartenere al Galles con sua madre, quindi se ne andò. Per i successivi cinque anni circa, Julian ebbe contatti limitati con Yoko e Sean. Julian ha detto a un intervistatore nel 1985 che Sean lo adorava per la sua somiglianza fisica con John, ma sentiva che Yoko lo voleva a debita distanza. Il suo primo album Valotte è stato un successo, e il singolo Too Late For Goodbyes - in cui suonava in modo ossessivo come suo padre - un successo internazionale. Julian ha frequentato Brooke Shields e Kylie Minogue e ha iniziato a darsi alla bella vita. Nel frattempo, Sean era in collegio in Svizzera. Yoko aveva inviato a Julian spiccioli, ma Julian voleva un accordo. Un accordo concluso nel 1996 gli ha dato una percentuale dei diritti d'autore di John e una somma forfettaria di 20 milioni di sterline. Come ha riflettuto Julian nel 2010: «Non vale la pena stressarsi. Penso che il punto chiave di tutto questo, almeno per me, sia stato Sean. Se ho ferito la madre di Sean, allora ho ferito Sean. È un modo indiretto di pensare le cose. Ma poiché amo così tanto Sean, non voglio ferirlo. posso superarlo. L'ho superato». Con case a Monaco, Francia, Los Angeles e Londra, Julian si spostava da un posto all'altro, in vacanza con amici ricchi e ben radicati. È riemerso nel 1998 con un album chiamato Photograph Smile. È stato un successo modesto, ma è stato messo in ombra dal primo album di Sean, Into The Sun, uscito nello stesso mese. Julian era sicuro che non fosse una coincidenza e pensava che Yoko fosse dietro lo scontro. Na nel 2006, dopo qualche incitamento da parte di Cynthia, i due uomini trascorsero alcune ore insieme a Los Angeles. Hanno scoperto di avere molto in comune e, nel 2007, sono andati al nightclub Boujis a Kensington, a Londra. Oggi entrambi gli uomini fanno di tutto per sostenersi a vicenda e godono appieno della reciproca compagnia. Ieri, il portavoce di Yoko, Murray Chalmers, ha dichiarato: «Sean e Julian sono stati il più vicino possibile ai fratelli per molto, molto tempo». Dopo i loro anni di lontananza, la reciproca compagnia deve essere un tesoro più grande di quanto avessero mai immaginato.

Mattia Marzi per “il Messaggero” il 21 novembre 2021. I Beatles rinchiusi in uno studio con telecamere e microfoni ovunque, come in un reality, ripresi da mattina a sera per ventidue giorni mentre lavorano alle canzoni per un nuovo album Get Back, che poi sarebbe diventato Let It Be e preparano un film che racconti le stesse sessions, culminate con il leggendario concerto sul tetto della loro casa discografica, la Apple Records. Il 25, 26 e 27 novembre arriva in streaming su Disney+ The Beatles: Get Back, la monumentale docu-serie di 8 ore divisa in tre parti, firmata da Peter Jackson. Qualcosa delle oltre 200 ore di girato e registrazioni audio delle giornate che John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr passarono in studio, nel gennaio del 1969, si era già visto e sentito negli anni, tra documentari e dischi. Ma la maggior parte del materiale è rimasta chiusa in un caveau per oltre mezzo secolo. Fino a quando nel 2017 la Apple Corps, che gestisce gli interessi legati ai Beatles, non ha pensato di affidare al premio Oscar neozelandese già regista della saga de Il signore degli anelli il compito di accedere al tesoro e riportarlo alla luce: «Michael Lindsay-Hogg, il regista scelto dai Beatles all'epoca per realizzare il film Let It Be, aveva messo microfoni ovunque. Ogni tanto, per riprenderli nella loro spontaneità, fingeva di spegnere la telecamera oppure lasciava accesi i microfoni registrandone le chiacchiere a loro insaputa», racconta Peter Jackson, collegato in videochiamata dall'altra parte del mondo. Il regista ha dedicato al colossale progetto gli ultimi quattro anni della sua vita. I filmati del '69 sono stati restaurati: «Ho dovuto tagliare molte cose, ma non ho lasciato fuori niente di quello che serviva a raggiungere l'obiettivo che ci eravamo dati: fare un ritratto accurato di com' erano i Beatles in quei giorni», spiega Jackson. Nel gennaio del 1969 la carriera del quartetto di Liverpool era già al capolinea, dopo dieci anni di convivenza artistica e di successo planetario. Durante le sessions di Let It Be, che sarebbe stato pubblicato solo nel maggio del 1970, nacquero sia brani di Abbey Road registrato cronologicamente dopo, ma spedito nei negozi prima, nel settembre del '69 che canzoni dei futuri dischi solisti dei quattro, da Jealous Guy di Lennon a Another Day di McCartney: «Mi sono sentito come una mosca sul muro. È stato come se li spiassi, mi sembrava a volte di ascoltare delle intercettazioni alla maniera dei servizi segreti confessa il regista il presupposto fondamentale era essere fan: in una mole così enorme di materiale serviva qualcuno che capisse i tanti riferimenti». Paul e Ringo, gli unici due membri dei Beatles ancora in vita (la storia della band continua a perdere pezzi: il 10 novembre è morto l'illustratore Bob Gill, che lavorò per la loro Apple), hanno approvato il risultato finale: «Non una critica, ma mi hanno detto che vedere la docu-serie è stata una delle esperienze più stressanti della loro vita. D'altronde qui si rivela ciò che è realmente accaduto». Curiosità: la Disney voleva che venissero rimosse le parolacce. «Ma Ringo, Paul, Olivia Harrison (vedova di George, ndr) e Yoko Ono gli hanno chiesto di non farlo, perché contribuiscono a mostrarli nel modo più veritiero possibile», rivela Jackson. Che reality sarebbe stato, altrimenti? A proposito, c'è pure un ritiro: quello di George Harrison, che niente di inedito, è storia, raccontata anche nel libro tratto dal lavoro di Jackson durante le sessions sbottò nei confronti dei compagni e uscì dalla casa (pardon, dallo studio). Cambierà idea, permettendo i Beatles di portare a termine il disco più difficile della loro carriera.

Gianmaria Tammaro per “La Stampa” il 21 novembre 2021. Peter Jackson è un perfezionista. In tutti i film che ha diretto e prodotto ci sono la sua incredibile attenzione per i dettagli e la sua straordinaria conoscenza dei mezzi e della tecnologia. È un innovatore; per certi versi, addirittura un pioniere. The Beatles: Get Back in qualche modo rappresenta la sintesi tra la sua capacità di modellare la materia cinematografica e la sua visione di regista.  Il materiale di partenza non è nuovo: sono decine e decine di ore di girato e di audio, rimaneggiate, modificate, ripulite e restaurate. Siamo alla fine degli anni '60, e non c'è una sola storia: ce ne sono tante. I Beatles, qui, non sono solamente i Beatles. «Pensiamo di conoscerli - dice Jackson - e pensiamo di sapere tutto. Perché li abbiamo visti e ascoltati in ogni momento e in ogni occasione». E invece con Get Back impariamo a conoscere questi musicisti per quello che sono: ragazzi. «Ragazzi perbene», precisa Jackson. Ma con i loro caratteri e i loro problemi, con le loro divergenze e le loro personalità. «C'è un po' di disorganizzazione, e si vede; questa è la mia unica critica». Seduti in un angolo a provare, a ripetere e a impegnarsi. L'ultimo giorno come il primo: stessa tenacia, stesso ritmo; stessa alchimia. Non sono solo i Beatles, davvero; e non sono solo i Beatles prima della fine e del grande addio. Sono individui. E si muovono e parlano in un certo modo. «Sono sempre stato un loro grande fan», ammette Jackson. Per lui, poter sviluppare questa docu-serie, su Disney+ il 25, il 26 e il 27 novembre, è stata una grande occasione. Una fortuna, anzi. Ha immediatamente accettato. E per mesi ha lavorato al montaggio. «Il mio obiettivo è sempre stato quello di creare qualcosa di bello, qualcosa di genuino. E non solo per gli appassionati: ma per tutti». Jackson è stato la prima persona, in 50 anni, ad avere accesso a questi video e a questo materiale. E il merito, sottolinea, è di Michael Lindsay-Hogg, regista di Let It Be, che nel 1969 ha seguito i Beatles durante la scrittura e la registrazione delle loro nuove canzoni. «È stato bravo - spiega Jackson - perché è riuscito a riprendere ogni istante, e a catturare la verità di questo gruppo». I Beatles hanno sempre avuto un rapporto particolare con la loro immagine. Con Get Back di Peter Jackson è stata percorsa un'altra strada. «Questa è storia. Una cosa di tutti. Non ho mai ricevuto note o richieste durante il lavoro; sono stato libero e indipendente». Una delle cose più interessanti di Get Back, riprende Jackson, è la prospettiva unica, quasi inedita, sul processo creativo dei Beatles. «Li vediamo mentre scrivono e compongono, mentre provano». Insomma, mentre sono nel loro elemento. «Le registrazioni audio non si sono mai fermate; e così abbiamo tantissime ore di discussioni, di chiacchiere e di confronti. Ho provato a utilizzare tutte le cose più belle e importanti». Quello che viene raccontato è un momento particolare per i Beatles. Sono stanchi, stremati, e sono schiacciati dal peso del lavoro e delle aspettative. Sono pronti a ritirarsi e a separarsi. Prima, però, devono finire quello che hanno cominciato. «Quando non sanno di essere ripresi sono estremamente veri e diretti. E questo mi ha stupito molto. Ognuno di loro ha la sua idea e il suo approccio, la sua reazione e la sua soluzione: ed è veramente intrigante». Peter Jackson ha provato a costruire un percorso alternativo, sfruttando immagini, frame e tracce audio. E per questo motivo Get Back è anche una testimonianza della sua passione e delle sue abilità. È stato, confessa, un lavoro lungo e difficile. Ma, alla fine, soddisfacente. Questa docu-serie è l'ennesimo tassello di un altro fenomeno, decisamente più ampio: il crescente interesse delle piattaforme per un determinato tipo di racconti. Nell'era dello streaming i documentari stanno attraversando una nuova fase. Ed è evidente. Ma poi ci sono anche storie come questa dei Beatles e di altri grandi artisti che possono finalmente avere lo spazio e l'attenzione che meritano.

Marina Valensise per “Il Messaggero” il 14 novembre 2021. Mark Chapman sostava da giorni davanti al Dakota Building, sul Central Park, dove John Lennon viveva col figlioletto Sean. Yoko Ono, «l'artista sconosciuta più famosa del mondo» come diceva il musicista, che l'amava di un amore simbiotico e assoluto, al punto da rompere coi Beatles, da inventarsi un'altra vita come pacifista rivoluzionario e da nutrirsi della sua follia, come dimostra l'ultima foto struggente scattata da Anna Leibovitz poco prima che venisse ucciso. Era questo Chapman uno dei milioni di fans invasati del fondatore della famosa band, un tipo strano: 25 anni, robusto, sposato con una Gloria che trattava malissimo, era membro dell'associazione dei giovani cristiani, YMCA, e giudicava male la svolta di John Lennon, che discettava sulla fine del cristianesimo, paragonando i Beatles a Gesù Cristo. Veniva da Honolulu, si era procurato una P38, e aveva letto e riletto Il giovane Holden, il romanzo di Salinger sul disagio giovanile in un mondo privo di amore: se ne era persino auto-dedicato la copia sdrucita che gli troveranno in mano dopo il delitto. E prima di freddare John Lennon con cinque colpi di pistola, la sera dell'8 dicembre 1980, era riuscito pure a farsene autografare l'ultimo LP, Double Fantasy. Quarant' anni dopo, uno scrittore popolare americano come James Patterson, autore di gialli avvincenti, romanzi polizieschi, serie tv di culto, e un totale di 275 libri per 400 milioni di copie vendute, torna sul caso per raccontarlo da cima a fondo con l'aiuto di due investigatori. Mette abilmente in scena una serie di capitoletti brevissimi che si rincorrono l'uno dietro l'altro, come le inquadrature di un film mozzafiato. In questo modo i fatti, per molti già noti, vengono riproposti sotto una luce nuova e irresistibile, offrendo risvolti sorprendenti, come quando rivelano per esempio il vero motivo vero di un verso o di una delle tante canzoni dei Beatles, o come quando mettono a nudo il non detto che attraversa l'amicizia e la rivalità, la collaborazione e la rottura dei Fab Four, che a ben guardare si divertirono a tradurre la loro stessa autobiografia in piccoli e grandi capolavori. Furbescamente, va detto, il titolo del libro riflette solo in parte il contenuto. L'inchiesta riguarda infatti non gli ultimi giorni, ma l'intera vita di John Lennon e dei Beatles.  Con grande mestiere, Patterson intreccia di continuo la biografia della band che ha rivoluzionato la musica pop e il racconto dei deliri del fan psicolabile che adorava John Lennon e sognava di diventare come lui, di essere lui, e però lo odiava pure, da quando il suo idolo aveva osato paragonarsi a Gesù Cristo, e aveva tradito gli ideali che fingeva di professare, da pacifista militante rivoluzionario. Sulla base di testimonianze, a volte inedite come quelle di Paul Mc Cartney, l'amico e rivale e poi di nuovo amico che parla senza remore, a volte sorprendenti come quella dell'assistente personale, la dolce ventiduenne americana May Pang, che nel 1973 accetta la proposta ricevuta da Yoko Ono, in piena crisi coniugale di mettersi con Lennon e si trasferisce con lui a Los Angeles per un anno e mezzo, vengono fuori tutte le luci e le ombre dei Beatles: dagli anni scapestrati dei due orfani di Liverpool, patiti di Elvis Presley, e decisi a svoltare col rock ai primi passi dei musicisti che si ritrovano a suonare a Amburgo per sei ore di fila, senza sapere come. Infine, i primissimi successi travolgenti che li lanciano nel giro di pochi anni ai vertici della musica pop, sino a esibirsi davanti alla famiglia reale a essere insigniti del titolo di baronetto, per ritrovarsi nell'empireo della fama planetaria come stelle di prima grandezza in grado di elettrizzare milioni di persone, di renderle felici, e perciò di illuderle e deluderle senza neanche un perché. 

Da “Il Messaggero” il 3 novembre 2021. Estratto del libro “The Lyrics. Parole e ricordi dal 1956 a oggi”. Una delle caratteristiche dei Beatles era che sapevamo prestare attenzione alle casualità. E poi agire in base a quelle. Quando capitava che un nastro suonasse per caso a ritroso, ci fermavamo e dicevamo: «Che cos' è?». Molti altri avrebbero detto: «Oddio, cos' è questo suono orribile?».  A noi invece è sempre piaciuto farci distrarre da quelle idee. Nel caso di Sgt. Pepper, ero andato negli Stati Uniti a vedere Jane Asher, che era in tour con uno spettacolo di Shakespeare e si trovava a Denver. Avevo preso un volo per stare lì con lei un paio di giorni e prendermi una piccola pausa. Al ritorno ero con il nostro roadie Mal Evans, e sull'aereo mi ha chiesto: «Mi passi il sale e il pepe?». Io ho capito male e ho detto: «Come dici? Il sergente Pepe?». Avevamo da poco tenuto un concerto al Candlestick Park. Durante lo spettacolo non eravamo riusciti nemmeno a sentirci; pioveva, per poco non siamo rimasti folgorati dalla corrente e appena siamo scesi dal palco ci hanno buttati nel retro di un furgoncino di acciaio inossidabile. Il furgoncino era vuoto, e noi lì dentro sballottati di qua e di là; tutti e quattro abbiamo pensato: «Fanculo, basta così». Quel giorno abbiamo deciso che non avremmo fatto più concerti. L'idea era che avremmo fatto solo dischi, e avremmo mandato in tour quelli. Una volta avevamo sentito dire che Elvis aveva mandato in tour la sua Cadillac placcata d'oro, e abbiamo pensato che fosse davvero un'idea brillante. Ci siamo detti: «Faremo un disco e quello sarà la nostra Cadillac placcata d'oro». Mentre tornavo da Denver ho suggerito agli altri che avremmo potuto inventarci degli alter ego. Il concetto era che avremmo smesso di essere i Beatles. D'ora in avanti saremmo stati quest' altro gruppo. Ho fatto un disegno in cui noi quattro eravamo ritratti davanti a un orologio floreale. Dal momento che l'orologio era fatto di fiori, era come se il tempo si fosse fermato. C'era qualcosa di piacevole, in questo pensiero. L'idea era impersonare una banda che stava per essere insignita di una coppa dal Lord sindaco di Londra, o qualcuno del genere. Una volta che ci siamo trovati d'accordo sull'idea della copertina, siamo andati dal costumista Monty Berman, a Soho, per farci fare le uniformi della banda su misura. Devo confessare che mentre ero a Denver avevo preso dell'acido, e tutto questo era una specie di gioco che stavo giocando dopo quel «viaggio». Avevo fatto quel disegno per far vedere agli altri come avrebbe potuto essere questo nuovo progetto. A loro è piaciuto. E ci ha davvero liberati. Ci ha offerto una specie di anonimato e la possibilità di prolungare la nostra vita artistica. 

Estratto dell’articolo di Leonardo Iannacci per “Libero quotidiano” il 29 ottobre 2021. (…)

In Get Back c'è la versione completa e inedita del celebre concerto sul tetto. L'ultimo ciak di un lungo addio? 

«Dura 47 minuti contro i 10 del primo film. Dovevamo decidere dove esibirci. Paul propose su una nave; George disse: andiamo sull'Everest; John sconvolse tutti: no, in un manicomio! Alla fine salimmo sul tetto. Poi ci fu l'addio». 

Come reagì allo scioglimento dei Beatles? 

«Pensai: assurdo, potevamo dominare il mondo per anni e abbiamo gettato tutto dalla finestra».  

Lei è stato l'unico Beatle presente a New York dopo l'assassinio di Lennon. Cosa ricorda di quel giorno tremendo? 

«Io e Barbara (Bach, la moglie attrice e già Bond-girl ndr) eravamo alle Bahamas. Ci telefonarono: John è morto. Prendemmo un aereo e volammo a New York, da Yoko Ono. "Cosa possiamo fare?" le chiedemmo. E lei: "Andate di là e giocate con Sean, il mio bambino". E così abbiamo fatto. Piangevamo e giocavamo, senza sapere il perché». 

Cosa le manca di più, oggi? A parte i Beatles? 

«Essere in tour con la mia All Starr Band. Ma nel 2022 ripartiamo alla grande».  

La politica? 

«Vivo in California ma sono di Liverpool. Quando hanno votato la Brexit ero contento. Tornare ad avere il controllo del proprio paese è stata un'ottima scelta».  

Lei ha vinto l'alcolismo, è stata difficile? 

«Sì, ma ora non tocco un drink da 30 anni. Sono sobrio. Sono salvo. Sono felice».  

Il segreto della sua forma perfetta a 81 anni? 

«Mi sveglio di slancio, consumo un breakfast come si deve, mi alleno per bene in palestra tre volte la settimana, mangio vegetariano, suono la mia musica in smart-working e sto con Barbara».

Ernesto Assante per “la Repubblica” il 24 ottobre 2021. La storia di Let it be è ricca è complessa: c'è stata una prima versione mixata da Glyn Johns intitolata Get back che i Beatles rifiutarono; poi la versione ufficiale di Phil Spector, che per molti versi McCartney non accettò mai, al punto che molti anni dopo fu artefice della pubblicazione di Let it be naked senza gli interventi del produttore. Ora, a cinquant' anni dalla pubblicazione, arriva una nuova, spettacolare versione, completamente remixata dal produttore Giles Martin e dall'ingegnere del suono Sam Okell. Tre versioni, la più completa è quella Superdeluxe con 5 cd e un Blu-ray, con un libro di 105 pagine, contenenti la nuova versione dell'album originale, le outtakes inedite delle registrazioni dell'epoca, l'album Get back mai pubblicato fino a oggi e l'ep Let it be con quattro tracce. Il tutto anticipa l'arrivo di The Beatles: Get back, la serie diretta da Peter Jackson, in programmazione su Disney+, e arriva dopo l'uscita del libro con il resoconto ufficiale delle registrazioni. Chissà se per Giles Martin è stato diverso lavorare a questo album rispetto ai precedenti. «In realtà no - ci dice da Londra - ma è vero che è diverso, nato nell'oscurità mentre gli altri erano nati al sole, perché McCartney non lo amava nella sua versione ufficiale e lui stesso lo aveva già rivisto nella sua versione "naked". Ma io ho lavorato per i Beatles, non per uno solo di loro, quindi ho tenuto fede al progetto originale. Ma mi sono dato un obiettivo: rendere il più possibile il senso unitario dell'album, non di una raccolta di singoli brani, consapevole che migliorare il lavoro di Spector era difficile ma anche che avevo il compito di trasformare in un album il concerto sul tetto di Abbey Road».  

È anche il disco dei Beatles in cui non c'è suo padre George. 

«Lo so, si può immaginare che io abbia pensato "adesso Giles puoi fare la tua versione". Non è così, ho già lavorato a riedizioni di album di altri artisti in cui mio padre non c'era». 

In termini di suono, nonostante siano stati realizzati quasi contemporaneamente, c'è una grande differenza tra "Abbey road" e "Let it be". 

«Sì, grande davvero. Let it be è particolare perché i Beatles non erano sicuri di quello che stavano facendo, e c'è una confusione creativa, mentre in Abbey road c'è mio padre che come sempre voleva che tutto fosse al posto giusto. In Let it be molto lavoro viene fuori da jam session, improvvisazioni, conversazioni. Non sanno se stanno provando un album, un concerto, un film, non è stato registrato in un vero studio, una parte è fatta su un tetto, le canzoni erano messe insieme senza sapere con certezza quale fosse l'obiettivo finale. Questo rende il disco unico».  

Si può dire che "Abbey road", in termini sonori, chiuda gli anni 60 e che "Let it be" apra gli anni 70? 

«Credo che sia l'opposto, ho sempre pensato che Abbey road sia un disco più anni 70, più moderno, proiettato in avanti, e che Let it be fosse più ruvido e frammentario. Per dire: io amo i Kinks e i loro album suonano così, ruvidi e frammentari. Mentre i Beatles erano puliti e lucidati, mio padre e Geoff Emerick avevano uno stile più pulito. Ma ci penserò su».  

La tecnologia è molto cambiata da quando ha iniziato a remixare la musica dei Beatles. 

«Oh certo, Love, di quindici anni fa, il primo lavoro che ho fatto sui Beatles, è diverso. Ma suona ancora molto bene. Oggi abbiamo altre possibilità. Impariamo di continuo e proviamo tutto finché non suona bene. Io sono una "miserable british person", non un californiano entusiasta che ascolta una cosa e dice "oh, my God!". Approccio le cose con calma. So che posso far suonare meglio The long and winding road e cerco di farlo». 

Pensa che il pubblico cerchi una qualità d'ascolto sempre migliore? 

«Penso che la comodità vinca sempre sulla qualità audio. Anche quando andava forte l'alta fedeltà la maggior parte delle persone, me compreso, ascoltavano musica su cassette in piccoli registratori che avevano solo i tasti avanti, indietro e stop.  

Noi spingiamo l'audio verso il meglio, anche per l'ascolto in casa, io lavoro con Sonos e mi piace farlo, producono speaker che migliorano di molto l'ascolto digitale. Alla fine la gente ragiona come quando va al ristorante, finché il cibo è delizioso il resto non interessa. Ma il nostro lavoro contribuisce a rendere il cibo delizioso».

Da lastampa.it il 18 ottobre 2021. Sir Paul McCartney ha definito i Rolling Stones una «cover band blues». Non è un mistero che secondo la leggenda dei Beatles i baronetti di Liverpool erano migliori della band di 'Honky Tonk Women'. Ma in un'intervista con David Remnick, direttore del 'The New Yorker', l'ex Beatles ha rinverdito la rivalità che ha tenuto banco anche tra più generazioni di fan delle due band: «Non sono sicuro di doverlo dire, ma loro sono una cover band blues. È un po' quello che sono gli Stones». L’ex bassista e compositore già in precedenza aveva detto senza termini di pensare che i Beatles fossero migliori degli Stones ed ha aggiunto: «Penso che la nostra platea fosse un po' più larga della loro». «Gli Stones - aveva proseguito - sono un gruppo fantastico, vado a vederli ogni volta che si esibiscono perché sono una grande band e Mick Jagger si può permettere il canto, le mosse e tutto, e Keith, Ronnie e Charlie (Charlie Watts, il batterista degli Stones scomparso ad agosto) sono fantastici: li amo. La loro roba è radicata nel blues, mentre noi abbiamo avuto un po' più di influenze. Keith una volta ha detto: «Sei fortunato ad avere quattro cantanti nella tua band, noi ne abbiamo uno». Amo gli Stones ma i Beatles erano migliori». A stretto giro, Mick Jagger aveva risposto ai commenti del collega sottolineando che la sua band è ancora abbastanza «fortunata» da esibirsi negli stadi, a differenza dei Beatles, che si sciolsero nel 1970.  Ovviamente non c'è concorrenza. «Paul McCartney è un tesoro. Io sono un politico. La grande differenza, però, è che i Rolling Stones sono una grande band che ha fatto concerti per diversi decenni e in diverse aree del mondo quando i Beatles non hanno nemmeno hanno fatto un tour in un'arena. Si sono lasciati prima che l'attività dei tour iniziasse per davvero. I Beatles hanno fatto quel concerto – riferendosi all’esibixione allo Shea Stadium di New York nel 1965. Ma gli Stones sono andati avanti. Abbiamo iniziato a suonare negli stadi negli anni '70 e li facciamo ancora adesso. Questa è la vera grande differenza tra queste due band. Una band incredibilmente fortunata suona ancora negli stadi e l'altra band che non esiste», aveva concluso caustico.

Da “la Stampa” il 17 ottobre 2021. Estratto del libro “The Lyrics. Parole e ricordi dal 1956 a oggi” - Il testo che segue, scritto da Paul McCartney si riferisce alla canzone “Yesterday”. Da qualche parte, in un sogno, ho sentito questa melodia. Quando mi sono svegliato, ho pensato: «Mi piace questa melodia. Che cos' è? È Fred Astaire? È Cole Porter? Che cos' è?». Sono sceso dal letto e il pianoforte era lì, proprio a fianco a me. Ho pensato Di cercare di capire come facesse la canzone. Credevo fosse un vecchio standard che avevo sentito anni addietro e poi dimenticato. Avevo solo questa melodia, e adesso anche qualche accordo. Per memorizzarla ho buttato giù alcune parole posticce: «Scrambled eggs, oh my baby, how I love your legs, scrambled eggs». Usare parole posticce non era una cosa che facevo spesso. Anzi, piuttosto di rado. Comunque, avevo questa melodia e mi pare che la prima persona che ho visto quel mattino fuori da casa sia stato John. Gli ho chiesto: «Che canzone è?». E lui: «Non lo so. Non l'ho mai sentita». Ho avuto la stessa risposta da George Martin e da una mia amica, la cantante Alma Cogan, che aveva una conoscenza piuttosto ampia di canzoni popolari. Dopo un paio di settimane, è diventato chiaro che nessuno conosceva la canzone e che non esisteva, se non nella mia testa. Allora l'ho rivendicata come mia e ho passato diverso tempo a rimetterci le mani sopra, arricchendola e perfezionandola. È stato come trovare una banconota da dieci sterline per strada. Non molto tempo dopo che la canzone mi era arrivata, stavamo lavorando al film Help! .(....) , e non appena ce n'era la possibilità chiedevo di avere un pianoforte sottomano, in odo da poter lavorare alla canzone. Credo di avere scritto il middle eight sul set. E siamo arrivati al punto che il regista del film, Richard Lester, ha cominciato a infastidirsi di sentire di continuo la canzone. Un giorno ha urlato: «Se la sento ancora una volta, faccio portare via quel maledetto pianoforte!». Non credo che abbia aiutato molto il fatto che quando mi ha chiesto il titolo della canzone, io ho risposto: «Scrambled Eggs» («Uova strapazzate»). Per mettere insieme la musica è andato tutto bene, ma per il testo avevo solo la frase «scrambled eggs, oh my baby, how I love your legs, scrambled eggs». Allora, durante una pausa delle riprese, io e Jane siamo andati in Portogallo per una breve vacanza, siamo atterrati a Lisbona e abbiamo noleggiato un'auto. (...) ero sui sedili posteriori dell'automobile, e non stavo facendo niente. Faceva molto caldo, e c'era polvere, ed ero tipo mezzo addormentato. Una delle cose che mi piace fare in questi casi è provare a pensare. «"Scrambled eggs, blah, blah, blah . . ." Che cosa può essere?» Ho cominciato a elaborare alcune opzioni. Volevo mantenere la melodia così com' era, e sapevo che dovevo adattarvi le sillabe delle parole. «Scrambled eggs - da-da-da.» Ci sono possibilità come «yes-terday» e «sud-den-ly». Ricordo anche di aver pensato: «Alle persone piacciono le canzoni tristi». E ricordo di aver pensato che pure a me piacevano le canzoni tristi. Quando siamo tornati a casa ho portato la canzone alla band e, anche se qualche volta in concerto l'abbiamo suonata in quattro, per la registrazione Ringo ha detto: «Non credo che potrei suonarci una parte di batteria». George ha aggiunto: «Be', non sono nemmeno sicuro di poterci mettere molta chitarra». E poi John ha detto: «Non mi viene in mente niente. Penso che dovresti farla da solo. È davvero una canzone solista».(...) È ancora strano per me quando la gente mi dice cose del tipo che Yesterday è la canzone pop numero uno di tutti i tempi. Pare che Rolling Stone l'abbia definita la miglior canzone del ventesimo secolo. Mi sembra tutto così enorme per una cosa che è venuta al mondo in modo così misterioso. Per molti è difficile credere che io avessi solo ventidue anni quando ho scritto Yesterday. Ogni volta che arrivo al verso «I' m not half the man I used to be», mi ricordo che avevo perso mia mamma circa otto anni prima. Mi hanno suggerito spesso che questa è una canzone sul genere «ho perso mia mamma», al che io ho sempre risposto: «No, non credo proprio». Però sai, più ci penso - «Why she had to go I don't know, she wouldn't say» - più mi accorgo che, dopotutto, questa cosa potrebbe essere stata parte del suo background, della parte inconscia che sta dietro la canzone. È strano che non parlassimo mai della morte di nostra madre a causa del cancro. Sapevamo a malapena cosa fosse un cancro, ma adesso non mi sorprende che quell'esperienza sia venuta a galla in questa canzone, dove la dolcezza gareggia con un dolore che non si riesce in un nessun modo a descrivere.(...) Tempo fa, qualcuno mi ha chiesto se a mano a mano che invecchio inizio a relazionarmi alle mie canzoni in modo diverso.(...) Quando ho scritto Yesterday mi ero da poco trasferito a Londra da Liverpool, e stavo cominciando a vedere un nuovo mondo di possibilità che si apriva davanti a me. Tutti i miei ieri coprivano un lasso di tempo piuttosto limitato, a quel tempo. Adesso la canzone mi sembra addirittura più importante - sì, più commovente -, perché è passato tanto tempo da quando l'ho scritta. Lo ammetto, è un aspetto dello scrivere canzoni e del suonare musica che amo molto.

Alessandro Gnocchi per “Il Giornale” il 15 ottobre 2021. Mark Chapman, l'uomo che nel 1980 uccise John Lennon, si è visto rifiutare per l'undicesima volta la libertà vigilata. Secondo il suo avvocato Jonas Herbsman, decisivo è stato il parere della vedova, Yoko Ono, contraria a ogni riduzione della pena fino a quando lei sarà viva. Prossima udienza, tra dodici mesi. Mark Chapman vuole uscire dal carcere. Eppure aveva fatto di tutto per entrarci. L'omicidio era premeditato e l'assassino non si faceva illusioni. Non cercò neppure di fuggire. Vedeva la prigione come un luogo rassicurante, le giornate ripetitive, il tempo per leggere, al riparo dalle piccole ansie quotidiane, così umilianti per lui, che si sente un grande uomo afflitto ingiustamente da una esistenza anonima. Nel 1980, John Lennon non è più il simbolo di nulla. Le battaglie politiche sono state archiviate, anzi, l'ex Beatle ci scherza sopra. È appena tornato alla musica, dopo cinque anni di silenzio, con l'album Double Fantasy, una raccolta di belle canzoni, non pacifiste ma pacificate. Lennon ha imparato a fare il padre, ha rimesso in sesto il matrimonio con Yoko, sta incidendo ulteriori brani. Vive nel Dakota Building, vista maestosa su Central Park, non è difficile incontrarlo e non si sottrae all'abbraccio dei fan. Le provocazioni sembrano appartenere a un'altra era geologica. John il socialista, John il pacifista, John il femminista, i bed-in, la politica, i movimenti studenteschi, gli eroi del proletariato... Lennon ha imboccato la via che conduce a una mezza età tranquilla e borghese. Nel 1980, John Lennon è ancora un simbolo. Per Mark Chapman, Lennon è il simbolo del tradimento. Ha preso in giro i suoi «fedeli». Ma quale estate dell'amore, ma quale hippie, ma quale militante: il signor John Lennon ha truffato il pubblico. Era tutta pubblicità. A questo punto, Chapman non può passare sopra neppure a una frase che l'aveva ferito ai tempi dei Beatles, quando John disse: «Siamo più famosi di Gesù Cristo». Ipocrita e blasfemo. Ucciderà John Lennon. È un suicidio per interposta persona, non a caso in tribunale Chapman dichiarerà di essere John Lennon. La frase finisce agli atti come prova della sua follia, ma a dire il vero si potrebbe citarla per sostenere il contrario: Chapman era in grado di intendere e di volere. Solo, era più sottile di quanto pensasse il tribunale, che va in tilt anche davanti a un discorso apparentemente sconclusionato, in realtà una citazione dal Giovane Holden di J.D. Salinger. La storia dell'omicidio è raccontata passo per passo in Gli ultimi giorni di John Lennon (Longanesi, pagg. 384, euro 18,60) di James Patterson, autore di mega-seller. Il libro ha dei difetti (sembra pronto per una serie tv) e dei pregi (sembra pronto per una serie tv). Quello che conta, al di là dello stile (può piacere o irritare), è l'imponente documentazione sulla quale Patterson fonda il suo «romanzo», virgolette d'obbligo perché assomiglia a un trattamento cinematografico. Da un lato, si ricostruisce la vita di Lennon, e non solo gli ultimi giorni; dall'altro, e questo è l'aspetto interessante, si ricostruisce la vita dell'assassino. Chapman aveva regolarmente acquistato una calibro 38 alle Hawaii. I proiettili erano a punta cava, vietati nello Stato di New York. La prima ricognizione rischia di andare subito in fumo. Chapman, appena atterrato, prende un taxi e per caricarsi sniffa cocaina davanti al conducente. Dopo qualche giorno di appostamento, rinuncia. Il portiere del palazzo sostiene che Lennon è in viaggio. Non è vero ma Chapman ci crede. Il mese dopo torna a Manhattan. L'uomo che sta per uccidere John Lennon, già disilluso sui Beatles, aveva trovato rifugio nella fede. Prima di partire da Honolulu per la sua missione criminale, ascolta a ripetizione Plastic Ono Band, il disco che include God. In quella canzone, Lennon rinnega Dio e i Beatles: «Diventavo sempre più furioso verso di lui, perché diceva che non credeva in Dio... e che non credeva nei Beatles. Questa era un'altra cosa che mi mandava in bestia, anche se il disco risaliva a dieci anni prima. Volevo proprio urlargli in faccia chi diavolo si credesse di essere, dicendo quelle cose su Dio, sul paradiso e sui Beatles! Dire che non crede in Gesù e cose del genere. A quel punto la mia mente fu accecata totalmente dalla rabbia». Mentre lui, Mark Chapman, era andato da paramedico in Libano e aveva poi assistito i rifugiati vietnamiti negli Usa, Lennon era diventato una ricca celebrità. L'8 dicembre 1980, Chapman scarica cinque proiettili nella schiena di Lennon, all'ingresso del Dakota Building. Lennon probabilmente non ha neppure il tempo di capire costa stia accadendo. Inizia la vicenda giudiziaria che ruota intorno alla domanda: Chapman è un folle? Lui dichiara di essere in parte demonio e in parte l'Holden di Salinger. È soddisfatto di aver dimostrato a se stesso e al mondo di non essere una persona comune. Ora è famoso. Come Lennon. Le perizie della difesa affermano che Chapman è malato, affetto da un delirio narcisistico. Le perizie dell'accusa stabiliscono l'esatto contrario. Accusato di omicidio di secondo grado è condannato a una pena variabile da un minimo di vent' anni al massimo dell'ergastolo. Secondo Yoko Ono, l'assassino è un manipolatore, che si finge mezzo matto. Per questo non crede al suo pentimento.

Dagospia l'11 ottobre 2021. Vanessa Thorpe su theguardian.com. Quando i Beatles si separarono più di 50 anni fa, fu Paul McCartney a prendersi la maggior parte della colpa. Ma ora McCartney sta mettendo le cose in chiaro per sempre. “Non sono stato io a istigare la scissione. Quello era il nostro Johnny", ha insistito in un'intervista sincera e dettagliata che sarà trasmessa alla fine di questo mese da BBC Radio 4 This Cultural Life. Ricordando quello che fu il "periodo più difficile della mia vita", McCartney, che festeggia il suo ottantesimo compleanno la prossima estate, rivela che voleva che il gruppo continuasse, soprattutto perché dopo soli otto anni insieme, stavano ancora creando "roba piuttosto buona. "Abbey Road , Let It Be , non male". "Questa era la mia band, questo era il mio lavoro, questa era la mia vita, quindi volevo che continuasse". Se Lennon non si fosse dimesso, il viaggio musicale della band sarebbe potuto essere molto più lungo, concorda McCartney. "Avrebbe potuto essere. Il punto era che John si stava rifacendo una vita con Yoko. John aveva sempre voluto in qualche modo liberarsi dal gruppo perché, sai, è stato allevato da sua zia Mimi, che era piuttosto repressiva, quindi cercava sempre di liberarsi". La leggenda narra che McCartney sciolse unilateralmente la band nel 1970 quando rispose alla domanda di un giornalista affermando che i Beatles non esistevano più. È stato anche accusato di aver rovinato la dinamica del gruppo chiedendo agli avvocati di risolvere le loro controversie. È un fardello con cui ha lottato da allora. “Ho dovuto conviverci perché era quello che la gente vedeva. Tutto quello che potevo fare era dire di no", ammette, parlando prima della pubblicazione del libro di testi che McCartney concorda è quanto di più vicino possa mai arrivare a un'autobiografia. L'intervista arriva anche prima di un esame più approfondito che seguirà l'uscita il prossimo mese di Get Back , la serie televisiva di Peter Jackson che racconta gli ultimi mesi della band. Alla domanda sulla sua decisione di andare da solo, McCartney dice: “Fermati proprio lì. Non sono io la persona che ha istigato la scissione. Eh no, no, no. Un giorno John è entrato in una stanza e ha detto che lascio i Beatles”. McCartney dice all'intervistatore John Wilson che Lennon ha descritto la sua decisione di andarsene come "abbastanza elettrizzante" e "piuttosto come un divorzio". Gli altri membri, aggiunge, sono stati “lasciati a raccogliere i cocci”. La confusione su chi ha causato la rottura è nata perché il nuovo manager del gruppo, Allen Klein, ha detto loro di tacere sulla separazione mentre concludeva alcuni affari. "Quindi per alcuni mesi abbiamo dovuto fingere", dice McCartney a Wilson. "Era strano perché sapevamo tutti che era la fine dei Beatles, ma non potevamo semplicemente andarcene". Alla fine, McCartney "ero stufo di nasconderlo". Ricordando l'atmosfera sgradevole dell'epoca e l'influenza “losca” di Klein, McCartney ha detto: “In quel periodo stavamo avendo piccoli incontri ed è stato orribile. Era l'opposto di quello che eravamo. Eravamo musicisti che non incontravano persone", ha detto. La scissione è diventata inevitabile, crede, perché John “voleva stare a letto per una settimana ad Amsterdam per la pace . E su questo non potevi discutere". Eppure non ritiene Yoko responsabile, aggiunge. “Erano una coppia fantastica. C'era una grande forza lì". Gli avvocati, sostiene, sono stati chiamati per proteggere l'eredità dei Beatles: “Ho dovuto combattere e l'unico modo in cui potevo combattere era fare causa agli altri Beatles, perché stavano andando con Klein. E mi ringraziarono per questo anni dopo. Ma non sono stato io a istigare la scissione. Quello era il nostro Johnny che arrivava un giorno e diceva "Lascio il gruppo". McCartney parlerà anche della scoperta del testo non registrato di Lennon e McCartney di una canzone intitolata Tell Me Who He Is, che non vedeva da 60 anni. “È stato fantastico trovarlo. È la mia calligrafia. Sarebbe stata una ballata d'amore, una cosa rock. Ma non potevi mettere giù le cose. Non avevi alcun dispositivo di registrazione, quindi dovevi ricordarli." Forse più sorprendentemente, il musicista rivela che anche una sceneggiatura radiofonica perduta da tempo, scritta con Lennon, è stata appena dissotterrata. “Per anni ho detto alla gente che io e John abbiamo scritto una commedia. È una cosa piuttosto divertente chiamata Pilchard, e riguarda il messia, in realtà”. Le quattro pagine di dialogo, rivela, ruotano attorno a una madre e una figlia e il loro misterioso inquilino al piano di sopra. L'intervista esce il 23 ottobre e, il lunedì successivo, le registrazioni di McCartney che legge dal suo nuovo libro, Lyrics , saranno disponibili anche su BBC Sounds.

Alba Solaro per “il Venerdì di Repubblica” l'11 ottobre 2021. 8 ottobre del 1962; a poche settimane dall'uscita del singolo Love Me Do, un'emittente ospedaliera chiamata Radio Clatterbridge intervista per la prima volta in assoluto i Beatles. Intervistatore: «E poi c'è George Harrison». Lui: «Piacere». Intervistatore: «Piacere. Qual è il tuo ruolo?». Lui: «Ehm, chitarra principale e canto. Più o meno». Ecco, in quelle tre parole, "più o meno", c'era già tutto George Harrison. Timidezza, understatement, ironia, umanità. E fuoco sotto la cenere: altro che "Beatle tranquillo", ha fatto più lui per spingere la band verso l'attivismo che non John Lennon. Ed è una delle tante cose a volte sorprendenti che si scoprono nelle 642 pagine di What Is Life. Incontri e interviste (traduzione di Seba Pezzani, Il Saggiatore, dal 7 ottobre): un tomo poderoso curato dallo studioso americano Ashley Kahn che ha selezionato 43 interviste ordinate cronologicamente, fino alle ultime parole affidate alla moglie Olivia e al figlio Dhani prima di morire nel novembre del 2001. Non è tecnicamente una biografia, ma è meglio di una tradizionale biografia. Ci sono chicche come le rubriche che Harrison scrisse nel '64 sul Daily Express. E la prima intervista data a una testata americana; un giornalino scolastico dell'Illinois, dove George era andato in visita da sua sorella e aveva accettato di farsi intervistare, tra una partita a bocce e una visita al locale negozietto di dischi. «La sua prima linea difensiva era l'umorismo, ancora più della fama o della spiritualità» scrive Ashley Kahn nelle note introduttive; del resto era un grande amico (e produttore) dei Monty Phyton, e aveva l'istinto per la battuta. A David «Kid» Jensen della Bbc che nel '79 gli chiedeva della Apple, la casa discografica dei Beatles, replicava: «È più o meno una società che dà da lavorare agli avvocati». Dieci anni più tardi a Mark Rowland del magazine Musician, dichiarava: «Credo che saremmo stati davvero una bella band se non fossimo diventati famosi». Sapeva anche essere cattivo. A una goffa e nervosa intervistatrice di Mtv che doveva chiacchierare con lui, Tom Petty e Jeff Lynne (mancava solo Bob Dylan) per il progetto Travelling Wilburys, non fa nulla per nascondere la sua insofferenza: «Ci stavamo divertendo un sacco prima che tu arrivassi con la tua intervista». E tra le molte cose che colpiscono procedendo negli anni, c'è la sua tendenza a replicare spesso le stesse frasi, gli stessi concetti, specie su temi a lui cari come l'induismo, la musica orientale; non per pigrizia, al contrario, per una profonda e ingualcibile fede nelle proprie convinzioni. Un libro ricostruisce personalità e vita di george harrison attraverso 43 interviste. Per scoprire che non era lui il "beatle tranquillo", anzi. ma di sicuro il più divertente. 

I Beatles, quando si sgretolarono. E John disse: «Vi sacrificherei tutti per Yoko». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera l’1 ottobre 2021. Esce «Get Back», volume che racchiude 120 ore di registrazioni audio e che racconta il periodo turbolento, nel gennaio del 1969 che portò poi alla fine della band. Vedere i Beatles sgretolarsi. John Lennon comunicò la fine del gruppo nel settembre del 1969, durante una riunione con Paul, Ringo e il manager Allen Klein (George non era presente). Paul annunciò l’addio pubblicamente il 10 aprile 1970, un mese prima dell’uscita di «Abbey Road». Ma le cose all’interno della band non andavano bene da tempo. A ricostruire la fine del più grande impero della storia della musica contribuisce Get Back, un progetto ufficiale dei Beatles che nasce dalla documentazione delle session di «Let It Be»: 120 ore di registrazioni audio e 55 ore di riprese video che ci portano dietro le quinte. Un Grande Fratello Beatles che documenta le settimane di lavorazione in studio, le tensioni, il processo decisionale, la costruzione delle canzoni e la loro evoluzione, e anche i momenti leggeri. Get Back è un ricco volume con le trascrizioni di quei dialoghi e le foto inedite di Ethan A. Russell e Linda McCartney (esce il 12 ottobre, Mondadori) e una docu-serie in tre puntate, a cura di Peter Jackson (su Disney+ 25-27 novembre). Nel gennaio del 1969 i Beatles si trovano nei Twickenham Film Studios di Londra. Sono passati pochi mesi dall’uscita del cosiddetto «White Album» e ci sono già altri progetti su cui lavorare: nuove canzoni e un concerto che dovrebbe segnare il ritorno alla musica dal vivo a tre anni dall’ultima esibizione. John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr acconsentono alla presenza di una troupe diretta da Michael Lindsay-Hogg, il regista del video di «Hey Jude», per uno speciale tv che dovrebbe anticipare il concerto: 10 giorni di session in cui provano nuove canzoni, oltre a quelle che finiranno su «Let It Be», all’epoca pensavano di chiamarlo «Get back», anche alcune di «Abbey Road». La tensione è evidente sin da subito. Non è ben chiaro come, dove e quando — e soprattutto se — questo spettacolo si farà. Si parla dell’anfiteatro di Sabrata in Libia, ma Ringo non vuole andare all’estero. Si pensa a uno show a sorpresa a Primrose Hill, ma George crede che col pubblico non si possa ottenere la stessa precisione che si ha in studio. Una crociera è un’altra soluzione, ma non coalizza i quattro.Il progetto va avanti, anche se non si capisce quale forma prenderà. Quello che prende forma, anche se questo si vedrà meglio nella docu-serie, sono le canzoni: la prima versione di «Let It Be», la costruzione del testo di «Get Back», «Two Of Us», «Across the Universe»... È come ficcare il naso nella bottega dei Fab Four. I due registratori sempre accesi documentano anche momenti extra musicali: le confessioni dell’hangover della notte prima, le ordinazioni per il pranzo: John chiede riso integrale e omelette con i funghi, George preferisce salsa di formaggio e cavolfiori, Ringo purè di patate. Non è facile cogliere il tono delle frasi dalle trascrizioni e da una traduzione non sempre fluida. Chissà se Paul scherza o è serio quando, stanco dei ritardi di John, dice che pensa di volersi sbarazzarsi del compagno. La tensione si percepisce. C’è un momento in cui sembrano tutti consci che l’esperienza del gruppo stia per arrivare al capolinea. «Non è più come prima», dice Harrison riferendosi agli ultimi due anni, dopo la morte del loro manager Brian Epstein». Macca aggiunge il carico: da allora «a turno, ci siamo stufati del gruppo». Il 7 gennaio nello studio risuona la parola «divorziare». È Harrison a pronunciarla: «Per me dovremmo divorziare». «Ci stiamo avvicinando» sente Paul convinto però che «sarebbe da sciocchi andare a rotoli». Nel frattempo Harrison — non esce benissimo da questa versione — ha abbandonato le session. Il 10 gennaio Lennon sbotta e pensa addirittura di sostituirlo: «Se non torna entro lunedì o martedì chiediamo a Eric Clapton di suonare». Per John non sarebbe un problema andare avanti con la nuova formazione. La settimana successiva si affronta il tema della presenza ingombrante di Yoko Ono. Per Paul le strade sono due: la prima è «opporsi alla relazione» e chiederle «di starsene buona alle riunioni del consiglio»; la seconda «è di rendersi conto che è qui e che lui non si separerà da lei solo perché glielo chiediamo noi». Prevarrà la diplomazia perché «se si arrivasse a dover scegliere tra Yoko e i Beatles, vincerebbe Yoko». Ed è lo stesso Lennon che, percepita la tensione, chiarisce: «Vi sacrificherei tutti per lei». Terminate le session ai Twickenham, la band prende una pausa di una settimana per spostarsi negli uffici della Apple in Savile Row. George ha vinto: non si farà un concerto con un pubblico. In studio c’è anche il tastierista Billy Preston, presenza fondamentale in questa seconda parte: porterà idee fresche che faranno ripartire il flusso creativo. Addirittura John e George vorrebbero fare di lui «un quinto Beatle», ma è Paul a frenare: «È già abbastanza dura con quattro». George e John sono d’accordo anche sul fatto che degli album solisti darebbero uno sfogo alla creatività dei singoli e proteggerebbe gli equilibri interni. All’improvviso si inizia a parlare di un concerto sul tetto della sede della Apple. L’idea accelera improvvisamente e all’ora della pausa pranzo del 30 gennaio i quattro sono sul rooftop: 9 canzoni, la strada piena di curiosi, la polizia che non capisce cosa stia accadendo e arriva per le proteste dei vicini, un concerto che entra nella storia, John che saluta con il migliore epitaffio mai immaginato: «Vorrei ringraziarvi a nome del gruppo e di noi stessi, e spero che abbiamo superato l’audizione».

Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 25 agosto 2021. George Harrison era il Beatle timido, quello che si vedeva rispedire al mittente i brani dalla coppia John Lennon & Paul McCartney. Non che non abbia lasciato traccia di sé nella discografia degli scarafaggi: Here Comes the Sun, Something, While My Guitar Gently Weeps e altri ventidue capolavori sono lì a testimoniare il contributo concreto di George. Ma avrebbe potuto essere ancora più ampio, come si apprende dallo strepitoso cofanetto celebrativo del cinquantesimo anniversario di All Things Must Pass, che segue la rimasterizzazione del disco originale dell'anno scorso. Sono quattro dischi e un blu-ray zeppi di provini, versioni alternative, brani esclusi. All Things Must Pass uscì alla fine del 1970. Fu primo in molte cose: è il primo disco di George dopo lo scioglimento dei Beatles; è il primo disco triplo della storia; raggiunse il primo posto sia in Gran Bretagna sia negli Stati Uniti. George il timido si trovò a banchettare in testa ai gradassi, per giunta con un album composto, in gran parte, con i pezzi che non trovarono spazio in Let It Be. Così, quando George, nel 1970, entrò in studio, aveva già tra le mani una trentina di canzoni, una più bella dell'altra, tra le quali scegliere. Aggiunse una o due jam, scrisse ancora qualcosa e voilà: ingresso trionfale nelle classifiche di vendita e giudizio unanime della critica, un gran disco, in tutti i sensi. Dietro le manopole, il produttore Phil Spector. Davanti ai microfoni una squadra di all star, da Eric Clapton a Billy Preston, da Ringo Starr a Bobby Keys. Nulla toglie al valore dell'opera la interminabile causa per plagio, infine persa, per il singolo My Sweet Lord, riconosciuto simile a He Is So Fine, un successo delle Chiffons. Va anche detto che la canzone, alla quale Harrison affidava il compito di avvicinare Occidente e Oriente, cristianesimo e Hare Krishna, ha una struttura così semplice da ricordare una miriade di altri 45 giri. Ora, grazie al libro allegato al cofanetto, abbiamo il racconto brano per brano di George. Qualche perla. Nel 1968, Harrison è invitato dagli amici di The Band a trascorrere qualche giorno nella bucolica Woodstock, all'epoca buen ritiro di rockstar stufe di essere fermate per strada. Toh, il vicino di casa è Bob Dylan. I due si mettono a canticchiare e in un pomeriggio scrivono I' D Have You Anytime, che andrà ad aprire, trionfalmente, All Things Must Pass. Dylan è una presenza forte nel disco, del resto era l'eroe di George. C'è una sua cover, If Not For You, e Behind That Lock Door, dice Harrison, è un tentativo di emulare Lay Lady Lay, singolo di successo del futuro Premio Nobel. Nel 1970, i Beatles stanno litigando, Ringo se ne va, Lennon scalpita, sono in corso le riprese di Let it Be, il clima è teso: «A un certo punto non ne potevo più. Mi sono detto: basta, mi chiamo fuori. 

A casa ho attaccato la chitarra ed è venuta fuori Wah Wah». Diventerà la prima canzone incisa per All Things Must Pass, con un piccolo aiuto degli amici, tipo Eric Clapton. A proposito di Clapton, il 1970 è l'anno di Layla, la canzone più famosa del chitarrista, dedicata in realtà a Pattie Boyd, la moglie di Harrison. Clapton ne è innamorato fradicio e finirà con portarla via all'amico (non troppo dispiaciuto) alcuni anni dopo. Quando All Things Must Pass uscì alcuni critici dissero che Isn't It a Pity copiava I Am the Walrus, uno dei capolavori di Lennon, e anche Hey Jude, uno dei capolavori di McCartney: peccato che Isn't it a Pity risalga ai tempi di Revolver, album dei Beatles del 1966, e preceda sia I Am the Walrus (1967) sia Hey Jude (1968). Chi ha preso da chi? A Lennon e McCartney, la canzone non andava a genio e George valutò di regalarla a Frank Sinatra. Poi decise di tenerla nel cassetto. All Things Must Pass è quasi una citazione dal guru psichedelico Timothy Leary, lo psichiatra di Harvard convinto prima di poter curare le malattie mentali con l'acido lisergico e poi, visto che non funzionava, di poter spalancare le porte della percezione con somministrazioni controllate ai ricconi in cerca di sballo. Il verso viene dalle poesie di Leary, e a George piaceva perché «tutto passa, un tramonto non dura per sempre, e dunque dobbiamo lasciare che le cose cambino». Thanks For the Pepperoni è un omaggio al caustico comico statunitense Lenny Bruce, che chiudeva con quelle parole i suoi monologhi, come: «I liberal capiscono tutto, eccetto la gente che non li capisce, e grazie per i peperoni». Più di Lennon, il Beatle timido ha incarnato alla sua maniera lo stereotipo del musicista frichettone degli anni Sessanta. Imbevuto di misticismo orientale, convinto dagli acidi dell'esistenza di una altra realtà, capace di frullare insieme tutte le religioni restando, tutto sommato, perfettamente laico, alfiere della controcultura a patto che sia non violenta e riscattata da un sarcasmo di fondo. All Things Must Pass contiene questo e anche altro: è un disco che descrive un'epoca ormai, nel 1970, al tramonto. La droga, lungi dal fornire uno sguardo più ampio, si traduce solo in distruzione e depressione. La controcultura non andrà da nessuna parte, in Italia anzi andrà a occupare ruoli di spicco nei media e in politica. 

Un contrappasso. Harrison non toccherà più queste vette artistiche. Gli anni Settanta proseguono con un concerto di beneficenza per il Bangladesh che si trasforma in una trappola fiscale e con un George all'apparenza sempre più lontano dalla musica e sempre più vicino alle altre sue passioni: la Formula Uno, non è raro vederlo ai pit stop di prestigiose squadre, e la cura della sua stravagante magione, Friar Park, in particolare del giardino. A parte il pollice verde, Harrison mostra un certo fiuto cinematografico: fu, ad esempio, il produttore di La vita di Brian dei Monthy Pyton. Ma fonda anche una sua casa discografica, la Dark Horse, molto attenta alla musica indiana, specie quella del magico sitar di Ravi Shankar. Per una rinascita musicale bisogna attendere la fine degli anni Ottanta, e l'album Cloud Nine, ottimi brani anni Cinquanta (I Got My Mind Set On You) e un altro piccolo aiuto degli amici, Eric Clapton ed Elton John. Il disco va in classifica anche negli Usa. Poi arriva il supergruppo dei Travelling Wilburys con Roy Orbison, Tom Petty, Jeff Lyne e Bob Dylan. Il successo è notevole. Il primo dei due album vende sei milioni di copie. Harrison passa tranquillo gli anni Novanta, sistemando l'archivio dei Beatles, fino alla notte in cui uno squilibrato entra in casa sua e lo ferisce gravemente al ventre. Lo salva la moglie Olivia che abbatte l'intruso con un attizzatoio. Muore, malato, nel 2001, le sue ceneri sono state accolte dal Gange, in India. Aveva soltanto 58 anni.

Mattia Marzi per “Il Messaggero” il 21 luglio 2021. Dalla depressione in cui cadde dopo lo scioglimento dei Beatles all'amicizia con John Lennon, passando per i ricordi legati a sua moglie Linda (scomparsa nel 98, a 56 anni, per un cancro al seno), l'infanzia, i gloriosi giorni in studio di registrazione con gli altri Fab 4. Paul McCartney si racconta in McCartney 3, 2, 1, una serie in cui svela i segreti dietro le canzoni dei Beatles e quelle incise come solista. I sei episodi, ciascuno della durata di mezz' ora circa, sono appena arrivati in streaming negli Usa sulla piattaforma Hulu (ma la serie è attesa anche in Italia, forse su Star di Disney+, dove a novembre arriverà anche The Beatles: Get Back, il monumentale documentario di Peter Jackson su Let It Be): l'ex Beatle si lascia intervistare nientemeno che da Rick Rubin, 58enne guru della musica americana, leggendario produttore che ha lanciato fenomeni come i Run DMC e i Beastie Boys, rilanciato vecchi leoni come Johnny Cash, prodotto Linkin Park, Red Hot Chili Peppers, Slayer, Ed Sheeran, fino ad arrivare - incredibile, ma vero - a Gianni Morandi (c'è il suo zampino dietro il singolo L'allegria: a combinare il bizzarro incontro, a distanza, è stato Jovanotti, che da Rubin si fece produrre nel 2017 l'album Oh, vita!), un patrimonio stimato in 250 milioni di dollari.

LE CANZONI. Al centro di tutto ci sono le canzoni, quelle che McCartney ha scritto in oltre sessant' anni di carriera, prima come socio di Lennon nei Beatles e poi come solista: Yesterday, Hey Jude, Let It Be, Live and Let Die, Band on the Run, dire capolavori è dir poco. «L'ha detto Mozart: Scrivo note che stanno bene assieme. È proprio così, anche per me», sorride lui, forse il più grande melodista che la musica pop-rock abbia mai conosciuto, 79 anni portati benissimo. McCartney è un fiume di aneddoti (alcuni noti, altri no), storie: «Con il tempo sono diventato un fan dei Beatles. All'epoca ero solo un Beatle. Ora che l'intera opera del gruppo è alle spalle, la riascolto e penso: aspetta un attimo, com' è quella linea di basso?», spiega. Sono le canzoni stesse a riaccendere i suoi ricordi. Come quando suona Thinking Of Linking, scritta a 16 anni nel 58 dopo essere stato al cinema con George Harrison, prima che i Beatles diventassero i Beatles: «Quando ci rincontrammo anni dopo lo scioglimento dei Beatles prese la chitarra e cominciò a strimpellare questa canzone. Te la ricordi?. Mi brillarono gli occhi», si commuove, nostalgico. Del trauma dello scioglimento parlò già in passato: «Andai in depressione. Non sapevo neppure se avrei continuato a fare musica. Fu Linda a spronarmi: fondai i Wings». 

L'ANATOMIA. Con Rubin, Macca fa l'anatomia delle canzoni della band che più di tutte ha forgiato la storia del pop, soffermandosi sui dettagli e svelando le intuizioni dietro certe scelte. Come quando con George Martin, il produttore considerato la vera mente dei Beatles (è scomparso nel 2016), decisero di inserire una tromba ottavino nella psichedelica Penny Lane: «Vidi alla tv il Concerto di Brandeburgo di Bach. Il giorno dopo andai in studio da George: Sai, c'era questo strano strumento, una tromba con un timbro altissimo. Cos' era?. Parla anche della rivalità con i Beach Boys: «Loro registrarono Pet Sounds, noi rispondemmo con Sgt. Pepper. Quel successo non ce lo aspettavamo, anche perché il disco lo avevamo immaginato come un progetto parallelo ai Beatles».

JIMI HENDRIX. Due giorni dopo l'uscita del disco, al Saville Theatre di Londra Jimi Hendrix aprì il suo concerto suonando la canzone che dava il titolo all'album, per dire. Allude anche alla leggenda sulla sua presunta morte, che - così si racconta - spinse i Beatles a cercare un sosia e poi a dire addio ai concerti: «Dopo Sgt. Pepper quello che facevamo in studio era semplicemente non riproducibile dal vivo». E non manca di lanciare frecciatine alle nuove generazioni: «Scrivevamo canzoni memorabili. All'epoca non c'erano registratori portatili e cellulari: quelle canzoni ce le dovevamo ricordare prima di tutto noi». Se 50 anni dopo ne parla ancora, un motivo c'è-

Dagotraduzione dal The Guardian il 4 giugno 2021. Nel 1968, Paul Saltzman era un'anima persa. Figlio di un meteorologo televisivo canadese, stava lavorando come tecnico del suono per il National Film Board of Canada in India quando ricevette una lettera d’addio dalla donna che pensava sarebbe stata sua moglie. «Ero devastato», dice. «Poi qualcuno dell'equipaggio disse: “Hai provato la meditazione per il crepacuore?”». Saltzman andò a conoscere il Maharishi Mahesh Yogi – il fondatore della meditazione trascendentale – mentre parlava all'Università di New Delhi. Incoraggiato dalle promesse di "ringiovanimento interiore", Saltzman si recò all'Accademia Internazionale di Meditazione a Rishikesh. Era chiusa, per via dell'arrivo dei Beatles. Come spiegato da Paul McCartney nel libro dei Beatles “Anthology”, il gruppo esausto, ancora alle prese con il suicidio del loro manager Brian Epstein nell'agosto del 1967, era arrivato a Rishikesh con mogli e fidanzate per “trovare la risposta” attraverso gli insegnamenti del Maharishi, che Paul, George e John avevano incontrato per la prima volta a una conferenza all'Hilton di Londra. «Non sapevo nemmeno che i Beatles fossero in India», dice Saltzman. «Ho aspettato fuori per otto giorni e poi sono stato portato in una piccola stanza dove mi è stata insegnata la meditazione trascendentale. Ciò che ha sostituito l'agonia [della rottura] è stata la beatitudine». Saltzman ha ora 78 anni e il suo nuovo film, Meeting the Beatles In India, è uno dei due documentari in uscita sull'argomento. Con la narrazione di Morgan Freeman e il contributo del regista David Lynch e del biografo dei Beatles Mark Lewisohn, è esaustivo e grandioso, ma al centro c'è il racconto più piccolo e toccante dello stesso Saltzman. È una compagnia affascinante e c'è un'innocenza affidabile nella sua narrazione, la sua faccia apertamente pronta a ridere o piangere, entrambe cose che fa durante la nostra conversazione. Immaginate che qualcosa di quest’apertura portò il diffidente Lennon a invitare Saltzman a sedersi con il gruppo, le loro mogli e amici, una calda mattina di febbraio di 53 anni fa. «Forse essere in quello stato alterato dall'aver appena meditato per la prima volta ha fatto la differenza», dice. «Penso che ciò che hanno capito immediatamente è stato: “Questo ragazzo non vuole niente da noi”». Saltzman era arrivato all'ashram con poche cose. Una di questi era una fotocamera Pentax. «Nella settimana che ho trascorso con loro», dice, «non ho mai pensato di chiedere un autografo e ho tirato fuori la macchina fotografica solo due volte». Le foto che ha scattato durante quella settimana di meditazione sono notevoli. Dimenticate per 30 anni, poi salvate dal magazzino alla fine degli anni '90 quando sua figlia ha chiesto casualmente di «quella volta in cui hai incontrato i Beatles», mostrano John, Paul, George e Ringo con gli altri ospiti dell'ashram Donovan, Mike Love of the Beach Boys, il flautista jazz Paul Horn, Mia Farrow e sua sorella Prudence, in uno stato completamente rilassato, che provano nuove canzoni o semplicemente guardano contenti a distanza. «Non ho nemmeno pensato alla qualità delle immagini», dice Saltzman. «Poi li ho portati da Steven Maycock, il curatore dei cimeli rock di Sotheby's e lui ha detto: 'Questi sono i migliori scatti intimi dei Beatles che abbiamo mai visto”». Il gruppo tornò a Londra con 30 nuove canzoni, la maggior parte delle quali sarebbe finita sul White Album nel 1968. Ma la band presto ricadde in uno schema tossico di ore piccole, uso di droghe e irritabilità interpersonale. Le foto di Saltzman, perfettamente a fuoco e con un profondo contatto visivo, mostrano quattro amici in un raro, tardivo stato di spensieratezza. «Puoi raccontare la storia dei Beatles in tanti modi diversi», dice il regista indiano, Ajoy Bose, quando cito la storia di Saltzman. «Ho sempre pensato che la parte indiana della saga dei Beatles fosse più grande di Rishikesh». Il film di Bose, “The Beatles and India”, traccia una saga più lunga: un viaggio di tre anni, da quando George prese in mano per la prima volta un sitar sul set di “Help!”, passando per il loro breve viaggio turistico a Delhi nel luglio 1966, fino all'amicizia di George con il sitar virtuoso Ravi Shankar e la sua registrazione di “Wonderwall Music” con musicisti indiani classici negli studi HMV Bombay. «Per me, questa non è una storia sul Maharishi», dice Bose. «Si tratta di quattro ragazzi della classe operaia di Liverpool, che sono entrati profondamente nella cultura indiana, quando George era il leader de facto del gruppo». Alcuni sono entrati più a fondo di altri; preoccupato per il cibo piccante, Ringo arrivò con una valigia piena di scatolette di fagioli Heinz per sostenerlo. Parallelamente a quel racconto, il film di Bose racconta la storia altrettanto affascinante di come e perché l'India si innamorò dei Beatles. «Li ho scoperti quando avevo circa 12 o 13 anni», dice Bose. «Venivo dalla classe media bengalese di lingua inglese, che era stata fan di Elvis Presley, Jim Reeves e Doris Day, che erano bi-culturali. PG Wodehouse era il nostro comico, ed è per questo che penso che ci fosse una connessione immediata con i Beatles: l'arguzia». «Ma mio padre era un burocrate che ha iniziato con il British Raj», dice. «Il suo problema con i Beatles era che non si comportavano “come i britannici” – persone con il labbro superiore rigido, che avevano i capelli corti e non lasciavano trasparire i propri sentimenti. Quindi i Beatles, con i loro capelli lunghi e le loro battute, ci hanno davvero fatto impazzire». Piuttosto che presentare il rapporto dei Beatles con l'India come un rapporto di appropriazione culturale, Bose insiste che era qualcosa di più vicino allo scambio culturale. «Osmosi da entrambe le parti», dice. «E guarda il paradosso. I Beatles erano stanchi della cultura capitalista commercializzata dell'Occidente e cercavano la pace spirituale, ma noi li consideravamo come simboli eccitanti della cultura moderna». Il film di Bose rintraccia gli ex membri di gruppi "beat" indiani influenzati dai Beatles come i Savages e i Jets, ma va anche oltre la musica per esaminare l'impatto politico della presenza dei Beatles in India, compresa la reazione di una spia del KGB all'ashram di Maharishi. «Sono tornato ai giornali indiani nel 1968», dice Bose, «e ho scoperto che i politici indiani comunisti e socialisti dicevano che Rishikesh era un campo della CIA. Il KGB ha persino inviato il suo uomo di punta, Yuri Bezmenov, a Rishikesh per scoprire cosa stava succedendo». La scoperta di Bose si traduce in uno dei momenti più belli del film, una clip di Bezmenov che parla allegramente alla fine degli anni '80 di «Mia Farrow e altri utili idioti di Hollywood" che tornano negli Stati Uniti per diffondere un messaggio di "siediti, guarda il tuo ombelico e non fare nulla». «Il Maharishi non era sul libro paga del KGB», dice Bezmenov, ridendo, «ma che lo sappia o no, ha contribuito notevolmente alla demoralizzazione della società americana». «È una clip fantastica», dice Bose, «ma penso che Rishikesh sia stato enormemente importante per tanti motivi. L'India ha dato ai Beatles uno stato d'animo filosofico; l'India li ha fatti maturare, l'India li ha aiutati a diventare individui. In un certo senso, i Beatles non hanno mai lasciato l'India. Le ceneri di George furono sparse sui fiumi Gange e Yamuna. Il fan club dei Beatles è ancora in crescita in India». Cosa significano i Beatles per una nuova generazione di indiani? Bose afferma: «Il Covid ha cambiato il nostro mondo, la nostra realtà negli ultimi 16 mesi. Tutti si sentono molto più vulnerabili e stanchi e penso che i Beatles ci riconnettono ancora con un senso di romanticismo, un senso di gioia e un senso di innocenza». Saltzman è rimasto con più di alcune inestimabili foto delle vacanze. Che ricordo conserva ancora di quella settimana? Risponde all'istante: «La mia prima meditazione di 30 minuti. È stato divertente incontrare i Beatles, ma è stato secondario rispetto alla trasformazione della mia vita interiore». The Beatles and India (diretto da Ajoy Bose, Peter Compton) chiuderà il UK Asian Film Festival il 6 giugno al BFI. Incontro con i Beatles in India (Paul Saltzman, 2020) può essere visto su gathr.com.

Alessandra Gnocchi per "il Giornale" il 16 maggio 2021. All'inizio del 1970, John Lennon è alle prese con i suoi fantasmi. I Beatles sono avviati verso il peggiore dei finali, il disprezzo al posto dell'amicizia, il rancore al posto dell'affetto. John ha un grave problema di droga, l'eroina. La stagione dei bed-in pacifisti con Yoko Ono non ha lasciato un segno profondo. L' impegno politico è stato una gradevole distrazione ma Lennon sa d’essere in fuga da qualcosa che dovrà affrontare, prima o poi. John, il mitico fondatore dei Beatles, l'autore di brani già nella storia del pop, il ragazzino della piccolissima borghesia che si è fatto strada nel mondo degli adulti, ribaltandolo... Ecco, questo John si chiude in casa. Non vuole uscire. Si è convinto di non valere nulla. Odia la sua stessa voce. Gli altri Beatles si danno da fare. Paul e George lavorano all' esordio da solisti. John ha «risposto» con alcuni trascurabili dischi sperimentali e un paio di singoli di discreto successo ma di qualità mediocre, intendiamoci: mediocre per uno che ha scritto Strawberry Fields, A Day in the Life e I Am the Walrus. Lennon ha trovato una compagna, Yoko Ono, ma forse sente di aver perduto una famiglia, i Beatles. Comunque sia, il suo problema è proprio questo: la famiglia. Per certi versi, John è un uomo esperto fino al cinismo, che emerge dalle sue battute spietate. Per altri, è ancora il figlio di genitori che lo hanno abbandonato alle cure di una zia generosa ma poco espansiva. Il padre, come vuole il peggior cliché, ha abbandonato John salvo farsi vivo per battere cassa presso il figlio famoso. Lennon lo foraggia e lo compatisce. Gli mette i soldi in mano e se lo toglie dai piedi senza quasi guardarlo in faccia. La madre invece aveva cercato di recuperare il rapporto con l'ancora giovane John. Ma proprio in quel momento era stata travolta per strada, uscendo da casa della sorella. Emotivamente, John è ancora davanti alla bara della madre. E dire che ha già avuto un figlio, Julian, al quale ha inflitto la sua stessa sorte di ragazzino abbandonato (non dalla madre, però). Nel febbraio 1970, John Lennon si trova un libro nella cassetta della posta, inviatogli per iniziativa autonoma dell'editore. Si intitola The Primal Scream, l'urlo primordiale. L' autore, lo psichiatra Arthur Janov, propone una nuova terapia per liberarsi dall' infelicità, dall' ansia e dalla paura. Il paziente è accompagnato dal terapista in una immersione totale nei propri traumi, indietro fino al primo e peggiore, il trauma della nascita, del distacco dalla madre. Mentre altri metodi provano a rafforzare le difese dal dolore, Janov vuole abbatterle e arrivare alla catarsi. I pazienti, immersi nella giusta atmosfera, ridiventano bambini e addirittura neonati, che sfogano il terrore con l' urlo primordiale, il primo pianto. Lennon è entusiasta. Janov si trasferisce a casa dell'ormai ex Beatle. Poi è John a seguirlo in clinica a Los Angeles. Durante le sedute, John progressivamente si lascia andare, fino a gettarsi in terra gridando: «Mamma non andare via. Amami, mamma. Dove sei. Torna da me». Prende in considerazione il misticismo ma lo valuta un modo di compensare un dolore intollerabile. Quando si sente meglio, più leggero, John torna a casa e incide un disco monumentale, lo straziante Plastic Ono Band. Oggi uno splendido cofanetto ci permette non solo di ascoltare ore di incisioni con versioni molto differenti da quelle definitive, ma anche di ricostruire passo dopo passo quel periodo così particolare con le testimonianze inedite di musicisti, amici, Yoko e soprattutto dello psichiatra Janov, un tipo tostissimo, che perdona tutto ma non chi conferisce un' aura romantica alle droghe, la rovina di un paio di generazioni. Il disco si apre con una sconvolgente ballata funebre per la madre. Pochi tocchi di pianoforte e Lennon sprofonda dentro se stesso e chiude il brano con l'Urlo primordiale. Roba che è impossibile da dimenticare, anche dopo un singolo ascolto. Nelle versioni alternative, se ne scova una interpretazione quasi alla Dylan, con la chitarra al posto del pianoforte. Bella ma per fortuna è l' altra a essere finita sull' album. Il suono scarno ed essenziale occupa tutto il disco, che si tratti di delicate riflessioni sull' amore (Love), sulla solitudine (Isolation) o stoccate sull' ipocrisia e mediocrità del mondo (I Found Out, Well Well Well). C' è anche la classica God, scambiata per un inno nichilista con qualche ragione ma da reinterpretare alla luce di quanto racconta Janov. Non a caso i primi versi sono parole proprio pronunciate durante una seduta: «God is a concept by which we measure our pain» (Dio è un concetto col quale misuriamo il nostro dolore). Segue lista di cose alle quali John non crede più: Gesù, la cultura pop, se stesso come mitico componente dei Beatles. Si inquadra meglio anche Imagine, che sarà pubblicata nell' omonimo e seguente album. Imagine è la logica conclusione-risposta a God. I guai personali di John non sono ancora finiti ma raccontarli sarebbe un altro pezzo. Alla fine della terapia, John capisce l' importanza di essere un buon padre. Al suo figlio più sfortunato, Julian, il destino riserva un colpo crudele. Dopo anni di alti e bassi, incomprensioni e discussioni, quando le cose stanno per mettersi a posto, un pazzo spara a John Lennon e lo uccide. E così Julian, incredibile a dirsi, deve ripercorrere un tragitto simile a quello di suo padre...

DAGOTRADUZIONE da dailymail.co.uk il 17 aprile 2021. Ogni giorno per tutto il 1964, un postino di nome Eric Clague consegnava un sacco gonfio di lettere dei fan al 20 di Forthlin Road a Liverpool, la stessa casa dove era cresciuto Paul McCartney e dove suo padre viveva ancora. Quell'anno, i Beatles erano i quattro giovani più famosi del mondo. Nella prima settimana di aprile, tutti i primi cinque singoli nelle classifiche americane erano dei Beatles. Sei anni prima Clague era un giovane poliziotto della polizia di Liverpool: Il 15 luglio 1958, guidava la sua Standard Vanguard lungo Menlove Avenue mentre era fuori servizio quando una donna di gli sbucò avanti; ha cercato di frenare, ma era troppo tardi: la sua macchina aveva investito la donna, scagliandola in aria. Un'ambulanza fu chiamata sul luogo dell’incidente per assistere la donna, ma non c'era niente da fare. Julia Lennon era morta. A quel tempo, Clague era un autista principiante che non avrebbe dovuto guidare da solo e il suo caso fu portato in tribunale. Sebbene un testimone affermasse che Clague stesse accelerando, lui lo negò e la giuria ha scelto di credergli dicendo che si trattasse di una disavventura. Mentre lasciava il tribunale, Mimi, la sorella di Julia, gli agitò il bastone da passeggio. “Ero così arrabbiata… quel maiale... Se avessi potuto mettere le mani su di lui, lo avrei ucciso.” Ha detto. Nonostante la sua assoluzione, Clague è stato sospeso dal servizio e poco dopo si è dimesso dalle forze di polizia. Ha poi accettato un lavoro come postino, ed è così che è arrivato a fare consegne nel distretto di Allerton di Liverpool. Non ha mai detto a nessuno del suo coinvolgimento nella morte di Julia Lennon fino a quando non è stato rintracciato da un giornalista nel 1998, 40 anni dopo l’incidente. "Sono stato perseguitato da tutto questo per tutti questi anni", ha confessato Clague. “Non passa una settimana che non ci pensi. Era da quando i Beatles sono diventati famosi che mi aspettavo che questa notizia uscisse. […] Ricordavo come la famiglia mi aveva incolpato e volevo solo dire loro che non c'era davvero nulla che avrei potuto fare.” “La signora Lennon è appena corsa davanti a me. Non potevo evitarla. Non stavo accelerando, lo giuro. Era solo una di quelle cose che accadono.” “Ho letto più tardi come la morte di sua madre avesse colpito terribilmente John Lennon. Mi dispiace moltissimo per questo. Ma, come ho detto, è stato solo un incidente.” Solo dopo che i Beatles diventarono famosi in tutto il mondo, Clague lesse su un giornale che la madre di John era stata uccisa da un'auto a Menlove Avenue, Liverpool. “Ho fatto due più due e ho capito che era sua madre che avevo ucciso. Mi è tornato in mente tutto e mi sono sentito malissimo. Ha avuto l'effetto più terribile su di me. I Beatles erano ovunque, specialmente a Liverpool, e non riuscivo ad evitarli.” “Il mio giro da postino mi ha portato a Forthlin Road, dove viveva Paul McCartney. All’apice della fama dei Beatles, consegnavo a casa centinaia di biglietti e lettere. Ricordo la fatica di trasportarli su per il sentiero. Ma, naturalmente mi ricordavano soprattutto di John Lennon e sua madre.” “È qualcosa che mi sono sempre tenuto dentro. Non l'ho nemmeno detto a mia moglie e ai miei figli, suppongo che ora dovrò farlo.” Chi avrebbe immaginato che lo stesso uomo che guidava l'auto che ha ucciso la madre di John Lennon sarebbe diventato il postino che consegnava migliaia di lettere dei fan alla casa della famiglia McCartney? Mentre cercavo il mio libro One Two Three Four: The Beatles In Time, ho continuato a imbattermi in coincidenze straordinarie come questa. Ad esempio, nell'ottobre 1963, quando “She Loves You” era in cima alle classifiche del Regno Unito e sulla buona strada per vendere un milione di copie, a Paul McCartney fu chiesto di giudicare una gara di ballo nel programma televisivo pop, “Ready Steady Go!” Dove quattro ragazze adolescenti dovevano imitare il balletto in “Let's Jump The Broomstick” di Brenda Lee: il vincitore avrebbe ricevuto una copia autografata dell'LP dei Beatles “Please Please Me.” Paul scelse una ragazza di 14 anni di nome Melanie Coe come vincitrice. Il produttore dello spettacolo rimase talmente colpito che le offrì un anno di lavoro come ballerina di sottofondo nello spettacolo, arrivando a confrontarsi con star del calibro di Cilla Black, Stevie Wonder e Dusty Springfield. Se quel giorno non fosse stata scelta da Paul McCartney, forse Melanie Coe sarebbe rimasta soddisfatta della vita di una normale studentessa, invece iniziò a girare le discoteche di Londra contro i desideri dei suoi genitori. In un'occasione ha persino incontrato John Lennon e il suo entourage in un club vicino a Carnaby Street, dove John la invitò a unirsi a loro per un drink: come nella canzone dei Beatles, aveva solo 17 anni. Toccata da questi due incontri casuali, il primo con Paul, il secondo con John, quale ragazza avrebbe potuto resistere al richiamo della vita adulta? Sfortunatamente, non passò molto tempo prima che Melanie rimanesse incinta. Un pomeriggio lasciò un biglietto e se ne andò di casa per andare a vivere con un croupier a Bayswater, a ovest di Londra. Il 27 febbraio 1967, Paul McCartney stava leggendo il Daily Mail quando una storia intitolata “RAGAZZA LICEALE ABBANDONA LA SUA AUTO E SVANISCE NEL NULLA” attirò la sua attenzione. Raccontava la storia di genitori disperati che cercavano la loro figlia, Melanie Coe, che sembrava possedere tutto ciò che i soldi potessero comprarle. "Non riesco a immaginare perché dovrebbe scappare", ha detto suo padre sul giornale. “Ha tutto qui. È molto appassionata di vestiti, ma li ha lasciati tutti, anche la sua pelliccia.” Senza rendersi conto che Melanie fosse la stessa ragazza che aveva scelto per vincere il premio tre anni prima, Paul è stato ispirato dalla storia per scrivere la canzone “She's Leaving Home.” “Ho iniziato a leggere il testo: lei sguscia fuori e lascia un biglietto e poi i genitori si svegliano. . . È stato piuttosto toccante”, ha ricordato McCartney.” Quando l'ho mostrata a John, ha aggiunto il ritornello greco con note a lungo sostenuto. Una delle cose più belle della struttura della canzone è che rimane su quegli accordi all'infinito." John ha trovato il ritornello “Sacrificato la maggior parte delle nostre vite”, “Le abbiamo dato tutto quello che i soldi potevano comprare” piuttosto semplice da scrivere: erano le stesse lamentele che aveva sentito tante volte sulle labbra della sua zia Mimì. I Beatles registrarono “She's Leaving Home” la sera del 17 marzo 1967. A quel punto Melanie Coe era tornata a casa con i suoi genitori e quando la ragazza ascoltò per la prima volta la canzone sull'album Sgt. Pepper, pubblicato alla fine di maggio, non aveva idea che raccontasse di lei. "Ma ricordo di aver pensato che avrebbe potuto essere su di me", ha detto. “Ho trovato la canzone estremamente triste. Ovviamente ha colpito una corda. È stato solo più tardi, quando avevo 20 anni, che mia madre ha detto: "Sai, quella canzone parlava di te". La madre di Melanie aveva visto un'intervista con Paul in televisione dove disse che aveva basato la canzone sull'articolo di Mail. “La cosa più interessante della canzone è quello che dice il padre: Le abbiamo dato tutto quello che i soldi potevano comprare ", ha detto Melanie. “E nell'articolo di giornale, miopadre dice quasi esattamente le stesse parole.” Per caso, Paul McCartney aveva anche centrato in pieno un altro aspetto della storia: prima di iniziare a lavorare come croupier, il fidanzato di Melanie lavorava nel settore automobilistico, così come l'uomo della canzone. Coincidenze come queste si sono verificate nella storia dei Beatles così spesso che, a volte, ho cominciato a pensare che stessero indicando una sorta di sincronicità più profonda: era quasi come se una serie di eventi apparentemente casuali si fossero combaciati per sparare questi quattro ragazzi di Liverpool in prima linea della cultura popolare. Nel 1957 Paul era un brillante liceale, tanto che era stato incoraggiato a sostenere due dei suoi esami di maturità, spagnolo e latino, con un anno di anticipo. Ma nel corso dell'anno, Paul divenne sempre più interessato ai dischi e alle chitarre e come tanti ragazzi della sua età, lasciò da parte i suoi studi. Ciò significava che aveva fallito il suo GCSE latino, il che lo costringeva a ripetere l’anno insieme a ragazzi molto più giovani. Tra i suoi nuovi compagni di classe c'era un quattordicenne che ha aveva conosciuto sull'autobus: non gli aveva mai parlato prima, ma ora che erano nello stesso anno, i due cominciarono ad avvicinarsi. Questo ragazzo si chiamava George Harrison. Quindi, se Paul avesse lavorato un po'più duramente sul suo latino, avrebbe superato l’esame, il quale lo avrebbe spinto su di un anno e George Harrison non sarebbe mai stato invitato a unirsi ai Beatles. Inoltre Paul non sarebbe mai nato se non per la decisione casuale di Hermann Goring di bombardare Liverpool una notte di novembre del 1940. Quella notte, Mary Mohin, un'ostetrica di 30 anni, stava facendo visita alla madre della sua amica Gin in Scargreen Avenue e per caso c'era anche Jim, il fratello 38enne di Gin e membro dei vigili del fuoco in tempo di guerra.  Quando le sirene iniziarono a suonare e le bombe iniziarono a cadere, Jim e Mary, entrambi nubili, iniziarono a chiacchierare. La conversazione continuò fino alla fine del bombardamento ed entrambi si resero conto di essere fatti l'uno per l'altro: dopo un breve fidanzamento, si sposarono il 15 aprile 1941 e poco più di un anno più tardi, Mary diede alla luce il loro primo figlio. Lo battezzarono James Paul McCartney. Anche il fatto che John abbia mai incontrato Paul è stato quasi altrettanto casuale. Il 6 luglio 1957, il compagno di scuola di Paul Ivan Vaughan suggerì di andare a una festa in chiesa a Woolton, dove due dei suoi compagni avrebbero suonato in un gruppo di skiffle. Se Ivan avesse avuto qualche altra idea, Paul non sarebbe mai andato alla festa e non avrebbe mai incontrato John, che aveva quasi 17 anni mentre Paul aveva appena compiuto 15 anni. Per quanto riguarda Ringo, se non fosse stato un bambino estremamente malato, è improbabile che avrebbe mai imparato a suonare la batteria. All'età di sette anni era ricoverato in ospedale per un anno a seguito di un'esplosione dell'appendice, che aveva poi provocato una peritonite. Durante la sua prima notte in ospedale, i medici avevano avvertito sua madre che era improbabile che sarebbe sopravvissuto. Tornato in ospedale per il suo 14esimo compleanno, questa volta con pleurite e tubercolosi, attendeva con impazienza l'arrivo di un insegnante di musica che portava con sé una selezione di strumenti a percussione: tamburelli, maracas, triangoli, piccoli tamburi. Ci si aspettava che i bambini si unissero, giocando a Three Blind Mice e London Bridge Is Falling Down. Ma il giovane Ringo si rifiutò ostinatamente di partecipare a meno che non fosse in grado di suonare un tamburo. Quando l'insegnante se ne andava, Ringo continuava a suonare la batteria sul comodino, in assenza di qualcosa di più suonabile. Quella volta è rimasto in ospedale per due anni. All'età di 21 anni, era diventato il batterista della migliore band di Liverpool, Rory Storm And The Hurricanes e nel luglio 1962, i Beatles lo invitarono a sostituire Pete Best. Le coincidenze abbondano nella storia dei Beatles: dal 1963 al 1967 Paul visse con la sua ragazza, l'attrice Jane Asher, e la sua famiglia in Wimpole Street a Londra. La madre di Jane, Margaret, era una professoressa alla Guildhall School of Music, ed era felice di insegnare a Paul il flauto dolce (suonato da McCartney in “Fool On The Hill”). Per caso, 15 anni prima, uno degli studenti di Margaret Asher era stato George Martin, a cui aveva insegnato a suonare l'oboe. La seconda moglie di Lennon, Yoko Ono, ha sempre affermato che, prima di incontrare John, l'unico Beatle che poteva nominare era Ringo, perché "Ringo" significa "Mela" in giapponese. Per caso, quando i Beatles hanno fondato la loro compagnia, le hanno dato il nome di Apple. Una degli eventi più casuali di tutti è stata sicuramente la decisione di Brian Epstein di fare una visita al Cavern Club in Mathew Street a Liverpool. Epstein gestiva il negozio di dischi della sua famiglia, ma era molto più interessato alla musica classica e avrebbe preferito visitare la Filarmonica. Quando i quattro giovani musicisti salirono sul palco, li riconobbe dal suo negozio: erano loro che gironzolavano tra le cabine, ascoltando gli ultimi dischi e chiacchierando con le ragazze senza alcuna intenzione di acquistare un disco. Tra le canzoni, i tre giovinastri con le chitarre iniziarono a urlare e imprecare, voltando le spalle al pubblico e fingendo di colpirsi l'un l'altro. L'assistente di Epstein, Alistair Taylor, notò che gli occhi di Brian si spalancarono per lo stupore: Nessuno di loro era abituato a un simile comportamento offensivo. Dopo lo spettacolo Taylor ha detto: "Sono semplicemente orribili". "Sono orribili," concordò Brian. “Ma penso anche che siano favolosi. Andiamo a salutarli.” Oggi, la maggior parte degli storici dei Beatles concorda sul fatto che, senza la brillante gestione di Epstein, i Beatles non sarebbero mai decollati. John Lennon era affascinato da tali coincidenze. Aveva un fascino particolare per il numero 9, ed era spesso ansioso di sottolineare che era nato il 9 ottobre e viveva al 9 di Newcastle Road, Wavertree, Liverpool. Tutti i nomi in quell'indirizzo contenevano nove lettere, così come il nome McCartney. Le canzoni di John includono brani come “One After 909” o “#9 Dream” e la canzone “Revolution 9” apparve nel nono album dei Beatles. "Nove sembra essere il mio numero", osservò una volta Lennon. “Quindi l'ho studiato, ed è il numero più alto nell'universo; dopo di che, torni a uno. Naturalmente, come cercare volti umani in una nuvola, coloro che cercano abbastanza intensamente un particolare modello di vita alla fine lo troveranno.” Inutile dire che molti fan hanno trascorso una quantità eccessiva di tempo a trovare significati nei testi dei Beatles che neanche i loro compositori non avrebbero mai immaginato. Ad esempio, alcuni fan si sono convinti che ogni verso di “Come Together” contenesse una descrizione di un Beatle diverso: George, il santo rotolante (Holy Roller) ; Ringo, il tiratore di Coca-Cola; Paul, quello di bell'aspetto che è così difficile da vedere. Come spesso accade, questa interpretazione non è mai venuta in mente a Lennon, che l'aveva composta. Ma, in un modo divertente, ciò non significa necessariamente che non sia vero: quando si tratta dei Beatles, non puoi fare a meno di sentire che sono stati spinti da forze al di là di loro stessi.

DAGONEWS DA dailymail.co.uk il 16 aprile 2021. Paul McCartney ha ricordato la prima volta che i Beatles hanno fumato erba, rivelando di essere stati introdotti nientemeno che da Bob Dylan. Il cantante, 78 anni, è uno dei tanti artisti che rendono omaggio a Bob in occasione dell’ottantesimo compleanno del mese prossimo. Parlando con la rivista “Uncut” per la loro edizione di giugno, Sir Paul ha raccontato di come lui ei suoi compagni di band fumarono erba per la prima volta con Bob a New York City nel 1964. Ha detto: "Era al Delmonico Hotel su Park Avenue e 59th a New York City nell'agosto del 1964. Ci trovavamo in una stanza d'albergo, eravamo tutti dei bravi ragazzi che sorseggiavano scotch e cola - era un afterparty, credo.” “Dylan è arrivato ed è andato in camera da letto con il suo roadie. Ringo è andato a vedere cosa stava succedendo. Così trova Dylan, che stava girando una canna, e ha fatto un tiro. Quando è tornato gli abbiamo chiesto: “Com'è stato?” Ringo ha risposto: "Il soffitto si sta abbassando ..." “Siamo corsi tutti nella stanza sul retro dicendo:' Dacci un po', dacci un po'! Quella è stata la prima sera in cui abbiamo fumato!”

Paolo Giordano per “il Giornale” il 19 marzo 2021.  «Intanto fatemi subito dire peace and love». E vai con le dita delle mani a indicare la V. Benvenuto Ringo Starr, che a 80 anni (molto) suonati debutta in una conferenza Zoom con giornalisti da mezzo mondo. Capelli neri corvini come la barba (lunghetta) è seduto nella sua casa di Beverly Hills e parla di un Ep di cinque canzoni che esce oggi, si intitola, guardacaso, proprio Zoom in ed è stato uno dei suoi passatempi nell' anno di quasi lockdown. Parla e gesticola così in fretta che manco ci pensi che sta parlando una delle ultime vere super-superstar, il batterista dei Beatles, uno che ha iniziato a suonare 63 anni fa e dopo poco la musica è cambiata per sempre. «In ogni caso, l' ultimo anno è stato difficile per tutti, è stato proprio difficile adattarsi alle nuove restrizioni».

Per non perdere l' abitudine, ha registrato un disco.

«Sì, volevo farlo solo di quattro brani, ma poi sono diventati cinque. Non è il momento di metter su una macchina così grande come quando si registra un intero disco».

Cinque canzoni ma tanti ospiti. In Zoom In appaiono anche Paul McCartney, Sheryl Crow, Dave Grohl, Lenny Kravitz e via dicendo.

«Il primo ad arrivare è stato Nathan East, poi Ben Harper, Dave Grohl. Ci siamo sentiti, ciascuno ha registrato a casa propria e solo qualche volta abbiamo lavorato in presenza. È l' unica possibilità che abbiamo per poter far musica in questo periodo».

Risultato?

«Di certo preferisco quando si suona tutti insieme».

Bisogna accontentarsi.

«Dopotutto in questo anno ho lasciato la mia casa soltanto 8 volte. Otto volte in un anno...».

E il vaccino?

«Ho fatto la prima somministrazione e poi la seconda».

Effetti collaterali?

«La prima volta avevo male al braccio destro, la seconda niente e sono rimasto deluso, mi aspettavo che facesse male di nuovo». (ride - ndr)

Le regole del Covid. È difficile stare lontano dai suoi figli e dai nipoti?

«È durissimo non poterli abbracciare. Mi hanno appena mandato un video dei miei nipoti in Gran Bretagna che sono felicissimi di tornare a scuola. Io alla loro età facevo di tutto per non andarci». (ride - ndr)

Ringo Starr ha compiuto 80 anni in isolamento.

«Volevo fare una grande festa ma poi ho fatto solo un concerto in streaming, un evento virtuale. Tutto bene. Però ho capito che non mi interessa molto questo tipo di concerti. Io preferisco avere di fronte il pubblico, per me è meglio così».

Ora sembra molto difficile.

«Ho cancellato già i concerti dell' anno scorso e anche quest' anno non ne farò. A oggi c' è forse la prospettiva di poter suonare nel tardo autunno, ma forse è meglio rimandare tutto al 2022. Così nel frattempo avrò registrato altri 3 o 4 Ep...».

Tanto ormai si può registrare quasi tutto in casa.

«I Beatles registravano su 8 tracce, oggi se ne possono usare anche 70. Però il bello dei dischi dei Beatles è che sono ancora popolari, mentre molti artisti ora funzionano soltanto in streaming. Di certo è cambiato tutto da quando ho iniziato io a suonare. Se penso a quanta fatica ho fatto ad adattarmi al passaggio tra i vinili e i cd...».

Ad agosto uscirà The Beatles: Get Back di Peter Jackson, che riprende il documentario Let it be con l' ultimo concerto dei Beatles sul tetto della Apple Records al 3 di Savile Row.

«Sono state ritrovate ben 56 ore di materiale video mai usato e Peter Jackson, che abita in Nuova Zelanda, è venuto spesso a Los Angeles per farmele vedere. Ci sono anche nuove immagini del concerto ma, soprattutto, ci sono filmati che dimostrano quanto noi ci divertissimo in quel periodo. Nonostante ci stessimo per separare, la nostra collaborazione non era così cupa come poteva sembrare.Comunque Get Back uscirà ad agosto».

Ringo Starr è stato circa 8 anni con i Beatles e 30 con la sua All Starr Band. Dove ha imparato di più?

«Beh un momento nel quale come musicista ho imparato tantissimo è stato in Germania ad Amburgo, quando nel fine settimana i Beatles e Rory Storm and the Hurricanes suonavano in continuazione: ogni dodici ore c' era una band sul palco. Ma poi anche in studio di registrazione nel 1965 ho fatto enormi passi avanti».

Oltre mezzo secolo fa. E oggi?

«Durante i Grammy Awards ho consegnato il premio per il Record of the Year a Billie Eilish, gran brava ragazza che fa anche i cori nel mio Ep. Diciamo che ascolto tutte le novità del mondo della musica. Ma suono solo quello che mi piace».

Ossia?

«Non penso proprio che un giorno mi vedrete rappare».

Beatles, i 50 anni di "Imagine" e lo scambio di tweet tra John Lennon e George Harrison. Ernesto Assante su La Repubblica l'11 settembre 2021. Quasi tutte le star scomparse hanno account attivi, gestiti da eredi e famiglie. Ma stavolta il tono è colloquiale, diretto, come se i due ex-Beatles parlassero davvero, twittando pensieri, ricordi, come se tutto stesse avvenendo davvero in diretta. I Beatles morti ci parlano su Twitter. John Lennon, scomparso nel 1980, e George Harrison, morto nel 2001, sono ancora tra noi e comunicano con i fan tramite i loro account su Twitter. Non è una novità, apparentemente, entrambi gli account sono nati ovviamente dopo la scomparsa di entrambi e sono sempre stati attivi in questi anni, ma se fino a oggi sono serviti essenzialmente per scopi promozionali o d'archivio, giovedì scorso, il giorno del cinquantesimo anniversario della pubblicazione di Imagine.

Imagine, il compitino in bello stile di John con tanto zucchero e bla bla. Il brano del grande compositore dei Beatles rivisto a distanza di 50 anni. Pietrangelo Buttafuoco su Il Quotidiano del Sud il 10 ottobre 2021. Niente più che un compitino redatto in bello stile, come un vestitino da indossare nei giorni di festa con tutti i bottoncini abbottonati. Ecco cos’è Imagine. Il brano più famoso composto da John Lennon nel 1971, all’interno dell’omonimo 33 giri, da solista, dopo aver lasciato i Beatles, quindi ormai mezzo secolo fa, è – per la musica, nell’innesto d’immaginario nichilista – una specie di Nutella, anzi, come la Fanta che non è buona, ma è tanta. Tanta di lagna e di bla-bla, il caso di dire (se non fosse che proprio Greta Thunberg l’incarna – questa canzone – come il fiat lux, la creazione). Era il tempo della guerra del Vietnam, della controversa presidenza Nixon e delle contestazioni giovanili che infiammavano – “arcobalenandola” – l’America. Lennon lo compose nella sua residenza inglese utilizzando un pianoforte Steinway. Lui stesso ammise che per arrivare al grande pubblico, era stato necessario cospargere di zucchero il messaggio del testo, in altre dichiarazioni sostituiva lo zucchero con il cioccolato. A rileggerlo oggi, appunto, un compitino. Si auspica la pace nel mondo, ossia il proclama di ogni concorso per anime belle, e per raggiungere questo ambizioso obiettivo Lennon si immagina un globo senza cielo, ovvero, un mammozzo perso nel cosmo orbo di qualunque trascendenza. Niente Paradiso o Inferno, “dopo”. La beatitudine – ma nella descrizione che ne fa il testo è un limbo – è giusto a portata di mano: basta non farsi più la guerra. Ne sa più di Eraclito, Lennon. Ma anche più di quanto possa saperne un Karl Marx: urge – manco a dirlo – abolire la proprietà privata, quindi gli Stati sovrani e le confessioni religiose poi, quando si sentono depositarie di un’unica verità e convinte che sia giusto imporre gli altri questa certezza con qualunque mezzo, sono da abrogare. E su questo, magari, si potrebbe riflettere. Ma è un problema millenario che inizia giusto al tempo delle Crociate promosse dai pontefici contro gli infedeli musulmani. A proposito di Marx Lennon disse che questo testo gli si appaiava naturalmente con “Manifesto del partito comunista” di Marx e Engels, anche se lui non si sentiva un comunista, semmai un socialista gentile. All’inglese, appunto: gentile e bello nello stile, e coi bottoncini ben corrispondenti alle asole. Come i dischi in vinile 45 giri, i capelli lunghi e gli occhiali tondi sul naso, le parole di Lennon – ma anche il giro armonico – nell’epoca odierna risultano datate. Tra sovranisti e europeisti, con la crisi di leadership in cui sembra dibattersi Biden alle prese con questioni epocali – la fuga dall’Afghanistan, piuttosto che l’incalzare del Covid – col balzo in avanti del capitalismo cinese, con la Grande Madre Russia di Putin e i temi ambientali che promettono o minacciano la transizione ecologica, la sovrapposizione di Imagine è solo un fuori sincrono neppure situazionista ma perfetto per ogni situazione. Il brano, infatti, è nel tempo diventato un culto da anime belle. Trasversale inno alla pace, interpretato dai più grandi della musica pop, da Madonna a Lady Gaga, il pezzo è facilmente orecchiabile e comprensibile, buono per ogni abbinata. Lennon, qualche tempo dopo averlo composto, indicò in Yoko Ono la sua fonte di ispirazione, in particolare alcune poesie della propria moglie, e sarebbe stato più giusto indicare come autori la coppia Lennon-Ono. La recensione della rivista “Rolling Stones”, all’uscita dell’album, fu piuttosto freddina: “Ci sono avvisaglie che i messaggi di Lennon non siano solo noiosi ma anche irrilevanti”. Nel tempo, in obbedienza allo Spirito del Tempo, hanno cambiato opinione. Inseriscono la canzone tra le migliori di tutti i tempi. La parte più interessante del testo oltre al tratto utopistico che ha  sempre riguardato la riflessione politico-filosofica, da Thomas More, a  Campanella, per non parlare di Platone a cui si deve la creazione del  termine  “u-topos”, letteralmente un luogo che non c’è, al Rousseau  del  “Contratto sociale” dove l’uguaglianza tra gli esseri umani può  diventare un totalitarismo della maggioranza e nei suoi esiti pratici ha  influenzato il meccanismo del Terrore attuato da Robespierre durante  la Rivoluzione francese, come sistematica eliminazione di qualunque  avversario, la parte più interessante – si diceva – la strofa più  pregnante è quella in cui Lennon canta che per “fare” devi prima  “immaginare”.    Poco prima di essere ucciso, nel 1980, dichiarò: “Prima bisogna pensare a volare, poi si vola. Concepire l’idea è la prima mossa”.  In fondo rimane il vero talento di qualunque artista, al di là del risultato: acchiappare un aquilone, immaginare un’altra cosa – il bagliore di una falena, lo stapparsi di una Fanta – e lasciare tutto appeso. Nello scorrere del tempo, in attesa che diventi Spirito.

Imagine, 50 anni di utopia. Patrizio Ruviglioni su L'Espresso l'8 settembre 2021. Pubblicato il 9 settembre 1971, fu subito simbolo di pacifismo: preghiera laica di un mondo senza armi. In realtà per John Lennon quel brano era un inno di battaglia. E un invito, attualissimo, a ripensare la società. “Imagine” di John Lennon non è mai stato il canto generalista, lastricato di "buone intenzioni", a cui siamo abituati ad associarlo, nonostante le centinaia di cover, tributi, riferimenti popolari e da prima serata. Non è mai stato un “We are the world” in anticipo sul sentimentalismo degli anni Ottanta, ma una canzone con all'origine la rabbia, la protesta. Nessuna guerra da combattere, nessuna patria da difendere e per cui morire, nessuna sorta di proprietà; nessun confine, nessuna religione. E per questo, dopo cinquant'anni, è ancora qui. Certo, il resto dell'immaginario che gli è cresciuto intorno, il giro di Do maggiore, suonato col pianoforte, che la tiene in piedi e la rende così elementare, serena e accogliente, l'appello all'ascoltatore a essere parte di quel "sogno" collettivo che è il fulcro del testo, il videoclip in cui cammina fianco a fianco a Yōko Ono nella loro villa con gli interni in bianco, aprendo le finestre alla "luce", persino il fatto che l'ex Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter una volta abbia ammesso che in vari paesi del mondo sia considerato alla stregua di un inno nazionale, ha contribuito e contribuisce a quel racconto, con le punte arrotondate e un po' ambiguo, ovattato negli aspetti più di lotta. Give peace a chance, quindi, sì; però non solo. Perché il pacifismo di cui è diventata da subito un simbolo, e che tutto sommato avvolge tanto la produzione e il pensiero del Lennon solista e maturo quanto il contesto da post-sessantotto in cui nasce il brano, sono solo la faccia più evidente. Dice lo stesso autore: più che prossimi a un grande appello per la pace, il sentimento dietro al testo è in realtà sempre stato affine al Manifesto del partito comunista (per quanto lui non si ritenesse un socialista ma un artista astratto da ogni sorta di dibattito in merito). Di nuovo però: nessuna guerra da combattere, nessuna patria da difendere e per cui morire, nessuna sorta di proprietà; nessun confine, nessuna (soprattutto) religione. Ono – sua anima gemella e allora anche collaboratrice, tant'è che ha pure co-prodotto la canzone insieme col marito e Phill Spector – ne ha parlato come di un pezzo secondo cui, in sintesi, «siamo tutti un solo mondo, un solo paese, un solo popolo»; ma nei piani originali resta un'idea apertamente da battaglia, schierata, a favore di un ripensamento radicale verso laicità, anti-consumismo, anti-nazionalismo. Altro che buoni sentimenti da discount. Non bastasse, il messaggio in questione arriva nei negozi l'11 ottobre del 1971, cinquant'anni fa appunto, quando le barriere e le distinzioni che si propone di cancellare sono il minimo comune denominatore con cui ragiona la geopolitica globale, di qua e di là del Muro, fuori e dentro i Vietnam. E, per di più, arriva anche e soprattutto sul mercato occidentale. Che succede, allora? Succede che “Imagine” viene «accettata perché coperta di zucchero», cioè di tutti quegli elementi popolari, mediatici, rassicuranti che tutt'ora ce la fanno ricordare più morbida e meno ideologica, a tratti persino sovversiva, di quanto fosse in realtà. Parola di Lennon, che pare l'abbia composta seduto al piano, nella sua camera in Inghilterra, giusto nel giro di una giornata. Il giro di Do, il sogno collettivo, il ritornello facile da cantare. Quasi una ninna-nanna. E pure Spector, infatti, racconterà che già durante la lavorazione fossero tutti consapevoli di registrare «una dichiarazione politica forte, ma anche molto commerciale». È il grande inganno del pop che si fa più forte di tutto, il lavoro della retorica che va a smussare gli spigoli. E Lennon, di spigoli, ne aveva parecchi. Nel look, nel timbro di voce, persino nella dialettica e nell'umorismo british, era stato sempre il più ruvido dei Beatles. Nel 1971, appena trentenne, stava già nella sua seconda vita. Archiviati nella burrasca i Fab Four e i rapporti con McCartney e soci, aveva tagliato quella barba e quei "capelloni" che l'avevano traghettato fuori dalla band e dentro i Bed-in di protesta non violenta con l'allora neo-moglie Ono, cioè due settimane del loro viaggio di nozze trascorse interamente nel letto di un albergo di Amsterdam e dopo a Montréal, in opposizione alla guerra nel Vietnam. In camera entravano giornalisti, fotografi, telecamere, attenzioni varie. Si aspettavano una coppia di sposini intenti a fare sesso davanti a tutti, trovavano pigiami e discorsi contro le armi. La sensibilità comune stava cambiando, e loro ne erano artefici e testimoni. Era il 1969 e lui diventava un uomo, fra la fama, l'ossessione dei media, la sperimentazione musicale sconsiderata, l'aspetto fisico che cambia, la crescita spirituale, una nuova e radicale consapevolezza ideologica, le droghe. Addio aura da teen idol, addio caschetto; aveva già contribuito a ripensare il pop dall'interno, e a quel punto voleva parlare a tutti sfruttando i riflettori che aveva puntati addosso. Ci riuscirà – dopo un primo disco solista di discreto rodaggio, John Lennon / Plastic Ono Band del 1970 – con “Imagine”. Perché se nell'album precedente svettava quella “Working class hero” diventata inno per la sinistra dell'epoca, ovunque, e poi superata di slancio dalla sovversiva “Power to the people” (marzo 1971), qui l'afflato è direttamente astratto, universale, calmo, persino pedagogico. «Stavolta ho capito che serve aggiungere del miele», per mandare giù lo sciroppo amaro. Un compromesso, prima che un tranello. E così questa che lui definisce «preghiera laica», comunque messianica, umanistica e collettiva, ispirata tra l'altro da poesie della moglie, apre una finestra sul futuro e con la leggerezza del pop rende legittima l'utopia. Un mondo senza nazioni, armi, guerre e religioni? È possibile, persino semplice, se ci mettiamo tutti in marcia; è possibile, se se una voce serena come la sua, su una ballata per pianoforte e archi, ammette di essere un dreamer a pensarlo, uno spudorato sognatore che sta solo condividendo le sue speranze, eppure già in cammino in attesa che qualcuno si unisca a lui. È tutto lì, sembra dire, a portata di mano. Tradotto: anche un ripensamento così profondo della società, da protesta politica, se cantato nel modo "giusto", semplificato, può affascinare chi lo ascolta, trascendere – nel tempo, nei riferimenti – l'epoca di cui è in parte figlio, diventare il più grande successo commerciale della carriera di Lennon. Sulla scia di questa strategia, due mesi dopo avrebbe pubblicato anche “Happy Xmas (War is over)”, canto di Natale che ritorna nelle radio e nelle feste ogni dicembre e che dietro l'espediente del brano-strenna (campanelli, cori, atmosfere simil-liturgiche) veicola ancora lo stesso messaggio pacifista e radicale, ma sempre da intendersi sul generico, sognante. In sintesi: se lo vuoi davvero, la guerra può scomparire dalla faccia della Terra; e buone Feste. E no che non è così semplice, e no che nel frattempo non è andata così; però intanto si continua a cantarla insieme a “Imagine”, che proprio per la sua astrattezza di fondo – oltre che a causa del deserto di impegno, fra le popstar di oggi – riesce a ripetere il suo gioco anche oggi. Quanti fra chi la celebra adesso sarebbero davvero favorevoli a dei cambiamenti sociali del genere? E quanti, davvero consapevoli e aperti alla matrice ideologica dietro del pezzo? Non importa ormai. E mentre dopo cinquant'anni ritorna nei filmati d'epoca restaurati per l'anniversario, nelle versioni rimasterizzate e recuperate di rito, cinquant'anni in cui non se ne è mai andata e con un mosaico è finita anche al centro dei diecimila metri quadrati del "giardino della pace" in memoria di Lennon al Central Park di New York, e intorno non è cambiato nulla, fra rigurgiti culturali ed edonismi, crisi e nuovi conflitti, altri confini, del pezzo e della sua funzione pedagogica restano per tutti il sogno e non la rabbia, l'utopia e non la rivoluzione. Il rifugio, e la speranza. Una canzone pop.

Tutta la solitudine di "Imagine": la vera storia del brano-simbolo. Fra utopia e nichilismo, un saggio fa luce sulla nascita dell'"inno" dell'ex Beatles. E sul ruolo cruciale di Yoko Ono (oltre i pregiudizi). Alessandro Gnocchi, Mercoledì 20/01/2021  su Il Giornale. Inno pacifista, utopia progressista, distopia nichilista, sogno di un futuro migliore, specchio di un presente di solitudine dietro allo scintillare del consumismo, ballata così zuccherosa da far venire il diabete, delicato capolavoro di intimismo...Pochi brani hanno diviso gli ascoltatori quanto Imagine di John Lennon, colonna sonora di ogni «giorno dopo»: il giorno dopo Charlie Hebdo, il giorno dopo il Bataclan, il giorno dopo Nizza qualcuno suonava Imagine per le strade e i media utilizzavano il brano come colonna sonora dei servizi più toccanti (che fossero toccanti si capiva appunto dalla colonna sonora). Innanzi tutto un po' di storia. Per questo, e per molto altro, c'è la nuova edizione di Imagine. Utopia o nichilismo? (La Vela) di David Nieri. Il saggio, molto ben scritto, ricostruisce la nascita della canzone, e ne dà una interpretazione, netta e argomentata, che pende verso la risposta «nichilismo». Chi era John Lennon nel 1971? Il marito di Yoko Ono, verrebbe da rispondere. In quel periodo, Yoko si costruiva una carriera solista in nulla inferiore (anzi) a quella di John. Inoltre proseguiva il suo viaggio nell'arte, e Yoko era (prima di conoscere John) ed è (oggi) un personaggio di assoluto rilievo. I fan duri e puri dei Beatles saranno inorriditi nel leggere queste parole. Li invitiamo a leggere il bellissimo Yoko Ono. Dichiarazioni d'amore per una donna circondata d'odio di Matteo B. Bianchi (Add editore). Forse guarderanno con occhio diverso a Yoko, protagonista, in una recente Biennale di Venezia, di una piccola mostra, tanto modesta all'apparenza, quasi invisibile, quanto grandiosa (e divertente, il che non guasta) nella sostanza. Imagine non si può capire senza aver sfogliato il libro di Yoko Ono intitolato Grapefruit, uscito in cinquecento copie auto-pubblicate. La poesia Cloud Piece dice: «Imagine the clouds dripping. / Dig a hole in your garden to / Put them in» (Immagina che le nuvole cadano a gocce, scava un buco in giardino per metterle al sicuro). Poi c'è la versione di John o meglio le versioni. Numero uno: è una specie di «Manifesto del partito comunista messo in musica». Numero due: è ispirata a un libro di preghiere cristiane, che diceva più o meno «Se puoi immaginare un mondo pacificato, allora può essere vero». Lennon non si è limitato a due versioni. Saranno una trentina. Ecco comunque il giudizio d'autore: «È contro la religione, contro il nazionalismo, contro le convenzioni... ma siccome è zuccherosa, è accettata». Una canzone contro la religione eseguita davanti al Papa. Le contraddizioni sarebbero infinite, come gli aneddoti. Nieri lascia da parte gli aneddoti e propone una lettura forte. Quel mondo senza religione, senza proprietà, senza nazioni, senza differenze, in cui non c'è nulla di degno per cui morire non sarà, alla fine dei conti, un incubo? Annientate le radici, abolita la fede, questo mondo di uguali rotolerà presto in direzione di un globalismo sorretto dall'ideologia del politicamente corretto come nuova forma di pensiero unico. Quanta solitudine si cela dietro alla mancata appartenenza a qualcosa che trascenda l'individuo? Il Lennon del 1971 era un uomo in crisi. Aveva sperimentato la teoria dell'urlo primordiale dello psichiatra Arthur Janov, un regresso fino al trauma dei traumi, la nascita. Ne aveva tirato fuori un grande disco, Plastic Ono Band, molto intimista. Musicalmente, però, si sentiva in competizione con gli altri (ex) Beatles. Nel 1970, George Harrison aveva sfornato un fenomenale triplo album, All Things Must Pass. Paul McCartney pubblicava dischi accolti male dai critici ma baciati dal successo. Ringo Starr, sul quale nessuno avrebbe puntato un centesimo, se la cavava piuttosto bene. Lennon voleva fare qualcosa di universale, che lo tirasse fuori da un'apparente crisi creativa, dovuta anche all'abuso di stupefacenti e a una complicata disintossicazione. Dopo Imagine, John diventa un attivista a tutti gli effetti, si lascia coinvolgere in mille cause. Dopo qualche disco non perfettamente riuscito, e un lost weekend di 14 mesi vissuti lontano da Yoko, Lennon si chiude nel silenzio musicale per cinque anni. Siamo nel 1975 e Lennon si direbbe un uomo disilluso, lieto di occuparsi del figlio Sean. Nel 1980, ecco Double Fantasy, un album a metà con Yoko. L'attivista è scomparso. È tornato il cantautore di Plastic Ono Band, con una consapevolezza tutta diversa. Il cambiamento è sottolineato da Lennon con un giochetto ben riuscito. Un trillo di campanelli giapponesi apre Double Fantasy. Una campana a morte apriva la monumentale ma funerea Mother di Plastic Ono Band. Quando esce Double Fantasy, Lennon ha già pronto il seguito, Milk and Honey. Ma uscirà postumo perché Mark Chapman uccide l'artista a New York. È l'8 dicembre 1980.

·        Gli ABBA.

Mattia Marzi per “il Messaggero” il 5 novembre 2021. L'ultima esibizione pubblica nel dicembre '82, nello studio del programma della tv britannica The Late, Late Breakfast Show, sulle note di Thank You for the Music, suonava come un epilogo. Poi un silenzio lunghissimo: quarant' anni, nel corso dei quali i loro dischi non sono mai passati di moda. Tutt' altro: hanno conquistato generazioni (16 milioni di stream globali alla settimana sulle piattaforme). «Abbiamo una storia: è sopravvissuta», cantano ora gli ABBA in I Still Have Faith in You, la canzone che apre il loro nuovo album e ne ha anticipato l'uscita. Voyage, questo il titolo del disco, arriva oggi nei negozi e in streaming, mentre a Londra fervono i preparativi per gli show 196 in tutto che dal 27 maggio 2022 vedranno la band tornare, se così si può dire, a esibirsi: sul palco della ABBA Arena, in fase di costruzione, Benny Andersson, Agnetha Fältskog, Anni-Frid Lyngstad e Björn Ulvaeus, 296 anni in quattro, non saliranno in carne ed ossa ma manderanno i loro ologrammi, immagini 3D proiettate attraverso un laser che riproduce le fattezze dei musicisti da giovani (Al progetto stanno lavorando 850 professionisti tra tecnici, light designer, coreografi: lo producono Svana Gisla e Ludvig Andersson, già al fianco di Bowie, Beyoncé, Jay Z). Attesa alle stelle, con la tragedia avvenuta nella notte tra il 2 e il 3 novembre scorso al concerto tributo alla band alla Uppsala Konsert & Kongress Hall, vicino a Stoccolma, quando un uomo è morto precipitando dal settimo piano della sala su due persone, uccidendone una, che ha spinto gli ABBA a sospendere per un giorno la promozione. Nei primi tre giorni dall'apertura dei preordini, a settembre, nel Regno Unito l'album ha venduto oltre 80 mila copie, mentre per gli show sono stati già acquistati 250 mila biglietti (altri tagliandi da oggi su abbavoyage.com). «Siamo partiti da due canzoni. Poi ci siamo chiesti: perché fermarci qui? Ne abbiamo parlato con le ragazze: facciamolo, ci hanno risposto. Era come se il tempo non fosse mai passato», racconta Benny Andersson, oggi 74enne, la mente del gruppo. Le ragazze sono la bionda Agneta Fältskog e la rossa Anni-Frid Lyngstad, 71 anni la prima, 75 la seconda, che con le loro voci tornano qui a far sognare i fan degli ABBA, riportando indietro le lancette del tempo. In Voyage, registrato con i 40 componenti della Stockholm Concert Orchestra, passato e presente si rincorrono, tra autocelebrazione e citazioni (da Dancing Queen a When You Danced With Me): «Queste canzoni parlano di noi. Di quello che siamo oggi. Della nostra amicizia, della lealtà», dicono. Nel disco c'è anche Just A Notion, una canzone rimasta nel cassetto per oltre quarant' anni: «Doveva essere nell'album Voulez-Vous del '79, poi non è successo. Perché? Non ce lo ricordiamo rivela Björn Ulvaeus è una grande canzone. La facemmo sentire a un editore in Francia e a poche altre persone di fiducia. Ora Benny ne ha registrato una nuova versione a cui abbiamo aggiunto batteria e chitarre, ma le voci restano quelle del 78». Tra ballate e inni, le dieci canzoni di Voyage riprendono il discorso lì dove il quartetto svedese lo aveva interrotto con The Visitors, nell'81. Basti ascoltare pezzi come Don't Shut Me Down e No Doubt About It, con melodie da grandi maestri. E pazienza se in più di un passaggio sembrano le maschere di loro stessi: cosa aspettarsi, se non un revival del pop d'alta classifica degli Anni '70 di cui sono stati campioni? Mamma mia! Here they go again!

Abba, il ritorno della band svedese: «Ma ci fermiamo qui». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 5 novembre 2021. Il quartetto pubblica «Voyage» primo disco di inediti degli Abba dal 1981, a 40 anni dall’ultimo album. Parte da Londra il nuovo show. Nei testi hanno provato a mettere «la conoscenza e la saggezza che speriamo di avere acquisito in questi 40 anni di assenza». Nella musica, invece, non c’è stato bisogno di aggiungere niente: the Abba sound, il proverbiale suono degli Abba, è rimasto quello che li ha resi un fenomeno mondiale negli anni 70. «Voyage», il nuovo disco che sancisce il ritorno del quartetto svedese fermo dal 1982, rimane fedele al loro mondo nella fusione delle voci femminili di Agnetha Fältskog e Anni-Frid Lyngstad, nei brani pop da ballare, nei lenti più malinconici. Le 10 canzoni inedite, scritte e prodotte dalla metà maschile Benny Andersson-Björn Ulvaeus, prendono il via con il singolo già lanciato «I Still Have Faith in You», dichiarazione autobiografica di un’amicizia che ha resistito al tempo e ai divorzi. «When You Danced With Me» vira verso il folk irlandese e ricorda «i bei vecchi tempi quando ballavi con me». Non manca una canzone di Natale, «Little Things», con la gioia dell’arrivo di Santa Claus, i piccoli momenti di felicità, un coro finale di bambini che cantano. «Don’t Shut Me Down» e «Just A Notion» sono gli altri due singoli già noti, un doppio concentrato di vivacità per arrivare ai toni amari di «I Can Be That Woman», litigio di una coppia sospesa tra le lacrime e la speranza di poter andare avanti, a cui assiste preoccupato anche il cane di casa. In alcune tracce, gli Abba citano gli Abba: «Keep An Eye On Dan» richiama alla mente le note di «S.O.S.», Bumblebee ricorda «I Have A Dream» e «Fernando». Ma sono quelli i suoni che la gente ha amato e vuole ritrovare: dopo l’annuncio del ritorno (vociferato da anni, ma ufficializzato a settembre), si è ri-scatenata la Abba-mania e il disco esce sbizzarrendosi con i formati (cd, vinili più o meno da collezione, cassette) trainando anche le aspettative per il nuovo show al debutto a Londra il 27 maggio prossimo: «Abba Voyage» , per cui è stata costruita una apposita arena da 3mila posti, ha un calendario di date già aperto fino a dicembre 2022. In 100 minuti di show, il gruppo si esibirà in versione digitale (si vedranno degli avatar con le sembianze dei quattro da giovani), con una produzione altamente tecnologica e un repertorio esplosivo di hit più due dei brani nuovi. Il pubblico potrà sedersi sugli spalti, scegliere di stare in piedi nel «dancing floor» o fare festa in uno degli otto «dancing booth», cabine riservate a una decina di persone. Un’esperienza che si preannuncia altamente immersiva e che renderà gli Abba ancora più immortali. Anche perché sarà l’ultima: Andersson e Ulvaeus, in una delle rare interviste concesse, hanno assicurato al quotidiano britannico Guardian che non hanno altra musica in serbo e che questa è davvero la tappa finale del viaggio: «Ci fermiamo qui. È giusto così».

Abba, un viaggio che riporta indietro nel tempo. A 40 anni dal disco "The visitors" la band torna con "Voyage" e presenta se stessa sotto forma di avatar. Ernesto Assante su La Repubblica il 5 novembre 2021. Mettiamo che non vi piaccia la trippa. Sarebbe quindi irrilevante se fosse cucinata dal miglior chef: a voi, comunque, non piacerebbe. Bene, nel caso del ritorno degli Abba la situazione è simile: la produzione è perfetta, il suono è quello che dovrebbe essere, le canzoni sono chiaramente canzoni degli Abba ma Voyage, l'album che segna il ritorno della band svedese più famosa al mondo, non convertirà di certo al culto chi non lo ha mai praticato prima.  Se da un lato è certamente un bene che non ci siano inutili "ammodernamenti" alla formula del gruppo, se è tranquillizzante che si tratti di musica per adulti che non strizza l'occhio in maniera ridicola al pubblico più giovane, Voyage è un disco difficile da digerire se non si ama lo stile Abba. Dieci canzoni inedite, per le quali è impossibile usare l'aggettivo "nuove" perché di nuovo non c'è praticamente nulla. Il "viaggio" evocato dal titolo riprende da dove si era interrotto quarant'anni fa e non ci porta all'oggi ma indietro nel tempo: le voci di Agnetha Fältskog e Anni-Frid Lyngstad sono le stesse, magari lustrate da qualche trucco tecnologico o forse no ma le stesse, col classico unisono lì dove serve, e le canzoni anche. foto di Ludvig Andersson Dal 1981 a oggi sembra non sia accaduto nulla, se non l'aggiornamento tecnologico degli studi di registrazione e degli strumenti in senso digitale. Il tempo si è fermato per quarant'anni e si è rimesso in moto ora. Troviamo quindi, tra i dieci pezzi scritti e prodotti da Benny Andersson e Björn Ulvaeus, grandi ballate, qualche uptempo, un vago sentore di discomusic, una spruzzata di pop/rock ma c'è anche un bolero, non manca la canzone natalizia, impazzano gli strumenti a corde (della Stockholm Concert Orchestra), c'è persino un glockenspiel e dei flauti di legno (computerizzati probabilmente) per far sì che l'atmosfera sia quella degli Abba di un tempo. La distanza dalla musica attuale, in qualsiasi forma, persino quella più mainstream, è siderale. Ovvio che per i fan dovrebbe andar bene, del resto chi vorrebbe mangiare una ricetta della trippa aggiornata? Che l'operazione sia davvero quella del viaggio nel tempo lo conferma lo spettacolo che andrà in scena dal 27 maggio 2022 all'arena Abba del Queen Elizabeth II Park di Londra: sul palco non ci saranno loro ma degli avatar digitali con le sembianze di com'erano e non di come sono. Un curioso esperimento di "frankenstein music" digitale per spostare l'orologio in pieno 2022. Ma la band è ancora talmente in voga (su TikTok i contenuti con l'hashtag #Abba hanno raggiunto un miliardo di visualizzazioni senza che il catalogo del gruppo fosse ufficialmente accessibile) che presentarne una versione aggiornata non avrebbe senso. Quindi, accesi i motori, il viaggio all'indietro nel tempo è iniziato: Voyage è la prima tappa dell'eterno presente di Agnetha, Anni-Frid, Benny e Björn.

Paolo Giordano per “il Giornale” il 3 settembre 2021. In fondo basta la parola: Abba vuol dire musica pop. Rappresenta un'epoca, non soltanto melodie appiccicose che sono diventate globali anche se la critica le criticava. Oltretutto loro, questi quattro svedesi piuttosto anonimi, con la politica e l'«impegno» non c'entravano proprio nulla. Si sono sciolti nel 1982, chiudendo simbolicamente gli anni Settanta, e ripartono oggi che forse sta per iniziare un'altra era, quella post pandemia. Perciò fa uno strano effetto sapere che uscirà un nuovo album (Voyage, il 5 novembre) seguito da un concerto a Londra il 27 maggio del 2022. Ci saranno ma non ci saranno. I quattro Abba, ossia Agnetha, Björn, Benny e Anni-Frid, si esibiranno in forma digitale con una band di dieci elementi. In sostanza saranno ologrammi in un'arena costruita al Queen Elizabeth Olympic Park di Londra.  Qualcosa che «non è facile da spiegare perché non è mai stato fatto prima», spiegano loro, che hanno pubblicato la foto che vedete qui, insieme dopo tanti anni con un look in linea con la loro tradizione ma, diciamo, piuttosto inatteso. E per rendere l'idea della nuova fase ieri hanno fatto ascoltare in contemporanea mondiale due brani nuovi, attesi da decenni. Il primo si intitola I still have faith in you, è una ballata, una sorta di «toc toc, rieccoci qui». Niente di esaltante non fosse che è esaltante entrare o rientrare di nuovo in questo mondo di melodie «catchy», ossia accattivanti e mai troppo ostiche, ma capaci di intercettare i gusti di tutto il pianeta. Nella loro storia hanno venduto quattrocento milioni di dischi e solo Elvis Presley, Beatles, Madonna e Michael Jackson hanno fatto meglio. Brani come Fernando, Mamma mia o Dancing Queen sono ancora trasmessi dalle radio, ascoltati in streaming e strausati nei programmi tv. Sono testimoni del tempo. In pochi anni, questi svedesi né viziosi né virtuosi, non particolarmente affascinanti o visionari hanno creato un «brand» che poi è diventato un termine di paragone anche in negativo. «Non siamo mica gli Abba» era uno slogan piuttosto comune negli anni Settanta tra rockettari e punk, quasi a sottolineare una incontestabile differenza di stile e di modo di intendere la vita. Però tanti gruppi degli anni Settanta non se li ricorda più nessuno. Gli Abba li ricordano tutti. «L'album sta arrivando» confermavano ieri sera Benny e Bjorn a Londra in uno studio panoramico con vista proprio su quella East London nella quale torneranno a esibirsi insieme dopo decenni (anche se come «ologrammi»). «Come saranno le nuove canzoni? Una miscela delle nostre caratteristiche, c'è pure una canzone di Natale. Abbiamo fatto il meglio che abbiamo potuto, alla nostra età». Che effetto. «Dopo quarant' anni siamo ancora in giro, ovvio che siamo molto felici», hanno confermato mentre sulla chat di YouTube, che trasmetteva l'evento, i messaggi erano un fiume in piena, uno tsunami di consenso, euforia e, diciamolo, pure incredulità. Per dirla tutta, pure il web, ritenuto a torto quasi refrattario al «passato», ha reagito con una euforia difficile da prevedere per la reunion di superstar ultrasettantenni che arrivano dalla musica fatta di vinile e 45 giri, non di streaming e post. Da qualche anno si parla di una reunion degli Abba e qualcuno aveva persino ipotizzato una offerta da un miliardo di dollari per cento concerti. Roba stellare. Ma niente. Ora però il sipario si alza davvero. «Non siamo in gara con Drake e con quel mondo, non lo capisco neanche», dice Benny Andersson che dimostra tutti i suoi 75 anni ma ha lo spirito che conserva giovani per sempre: la voglia di migliorare. «Qual è il lato migliore di essere parte degli Abba? Aver finito di preoccuparsi dei soldi», ha riassunto sorridendo e nessuno avrebbe potuto pensare il contrario. E forse il secondo brano che hanno fatto ascoltare ieri aumenterà ancora gli incassi: Don't shut me down riporta a Dancing Queen e non bisogna aggiungere altro. Gli Abba sono una saga e questo è il sequel. Di successo, si sa già.

Barbara Visentin per corriere.it il 2 giugno 2021.

La cantante castana degli ABBA. Tra il 1970 e il 1982 gli ABBA hanno conquistato il mondo: il quartetto pop svedese è diventato il gruppo scandinavo più importante della storia, ha venduto oltre 400 milioni di dischi e ha sfornato canzoni che tutti conoscono a memoria (oltre ad aver dato il la, in tempi più recenti, a musical e film di successo). La band - che ufficialmente non si è mai sciolta e a più riprese ha annunciato di essere in procinto di pubblicare nuovi brani - è formata da due coppie: Björn Ulvaeus e Agneta Fältskog, Benny Andersson e Anni-Frid Lyngstad. Proprio quest’ultima, la cantante con i capelli castani, ha un passato tormentato alle spalle e una vita sorprendente che non tutti conoscono.

Chi è Anni-Frid Lyngstad. Anni-Frid Lyngstad, conosciuta artisticamente anche come Frida, è nata nel 1945 in un paesino della Norvegia e si è poi spostata a vivere in Svezia. Comincia a esibirsi come cantante jazz fin da adolescente, ma il suo debutto davanti a un pubblico più ampio avviene nel 1967, quando vince un concorso per giovani talenti: viene invitata in televisione a cantare in una serata in cui la tv svedese ha messo in piedi un fitto programma di show per tenere la gente il più possibile in casa incollata allo schermo. Quella notte, infatti, nel Paese cambia il senso di marcia nelle strade (il lato di guida si sposta dalla sinistra alla destra) e si temono incidenti automobilistici. Due anni dopo questo inizio, avviene l’incontro tra Frida e Benny Andersson che poi la recluta per gli ABBA e diventa anche il suo secondo marito.

L’esperimento nazista. La nascita di Anni-Frid Lyngstad è legata a un periodo terribile della storia del 900: Anni-Frid fa parte infatti del programma eugenetico nazista di selezione delle nascite mirato ad «arricchire» i geni ariani. Sua madre Synni viene selezionata per il progetto durante l’occupazione tedesca della Norvegia e il padre è un ufficiale tedesco già sposato, di nome Alfred Haase, che Anni-Frid crede morto e non conosce fino a molti anni dopo. La madre e la nonna di Anni-Frid vengono poi considerate delle traditrici in Norvegia e sono costrette a scappare in Svezia con la bambina per rifarsi una nuova vita. Ad aggiungersi a una storia già di per sé drammatica, sopraggiunge la morte della madre che lascia Anni-Frid orfana a soli due anni a causa di un’insufficienza renale. La bambina cresce dunque con la nonna materna.

Il ritrovamento del padre. Anni-Frid ha scoperto che il padre era vivo per caso, 30 anni dopo, grazie alle rivelazioni di un giornale tedesco nel 1977: i due si sono conosciuti e ad architettare l’incontro è stato Benny Anderson degli ABBA, ai tempi suo marito. «È stato difficile ritrovarlo. Sarebbe stato diverso se fossi stata una bambina o una teenager - disse poi la cantante di quell’incontro -. Non riesco a stabilire una connessione con lui o a volergli bene come avrei fatto se fosse stato con me mentre crescevo». L’artista fu segnata dalla sua infanzia e da questi avvenimenti che contribuirono a causare la depressione di cui soffrì per un periodo.

Anni-Frid oggi. Dopo il momento magico con gli ABBA e la fine del matrimonio con il compagno di band (divorziarono nel 1981), Anni-Frid proseguì la carriera musicale come solista. Proprio registrando uno dei suoi dischi, a metà degli anni 80 conobbe un architetto paesaggista svizzero-svedese che era anche principe, Heinrich Ruzzo Reuss von Plauen, discendente della famiglia nobile dei Reuss. Lo sposò nel 1992 acquisendo i titoli nobiliari, ma rimase vedova nel 1999, quando il marito morì di cancro ad appena 49 anni. Un anno prima la cantante aveva anche perso la figlia, morta in un incidente stradale a 30 anni. Dopo la morte del marito, Anni-Frid è rimasta a vivere in Svizzera, in mezzo alla natura, dove vive tutt’ora, dedicandosi alla filantropia.

·        Dire Straits.

Nostalgia dei Dire Straits. John Illsley: «Sono rimasto amico solo di Mark Knopfler». Paola De Carolis su Il Corriere della Sera l'11 novembre 2021. Esce il libro di memorie scritto dal bassista del gruppo. «Una reunion con la band? Francamente la escludo». «Neil Young Frank Zappa, Bob Marley, Van Morrison, Bruce Springsteen, Lou Reed, Patti Smith… e stasera, signore e signori, da Londra, Inghilterra, i Dire Straits». Il libro si apre con il ricordo di una festa a Los Angeles nel marzo 1979, alla vigilia del debutto al Roxy: quattro ragazzi di provincia increduli di essere arrivati al tempio della musica nonostante le tribulazioni di una gavetta infinita. Quel nome diventato il marchio di un gruppo che con 100 milioni di dischi ha conquistato il pubblico di tutto il mondo venne scelto così, da un coinquilino che con una battuta volle prenderli in giro per le interminabili ristrettezze economiche. È nato e cresciuto con la pandemia il volume di memorie di John Illsley (La mia vita nei Dire Straits, EPC Editore) che rappresenta la prima biografia della band. Con l’energia di chi non ha mai perso la passione, il bassista ha raccontato in un incontro organizzato dalla Foreign Press Association a Londra le tappe di un’«esperienza straordinaria». La canzone più difficile? Telegraph Road. Il segreto di testi e melodie che, da Romeo and Juliet a Brothers in Arms, rimangono attuali? «il lavoro di gruppo, con i nostri strumenti, seduti uno vicino all’altro. È così che nasce la magia». Una riunione? «La escludo anche se suonare davanti al pubblico è come una droga e smettere è molto difficile». L’introduzione è di Mark Knopfler, chitarrista considerato tra i migliori in assoluto e l’unico del quale Illsley sia ancora amico. «Erano altri tempi — scrive —. Prima della pirateria, prima dei download. Grazie al cielo non eravamo adolescenti o non ce l’avremmo fatta: non è una vita che fa per tutti». Il successo si paga sulla pelle: per Knopfler il prezzo è stato il difficile rapporto con il fratello David, che alla fine portò allo scioglimento della band. Per Illsley le prolungate assenze da casa, lontano da mogli e figli: «Siamo rimasti in buoni rapporti, ma dico sempre che gli unici santi che conosco sono morti». Oltre al gruppo, a colleghi come Sting, Queen, Bob Geldof, Duran Duran e tutta la folta schiera musicale dell’epoca, protagonista del libro è anche la Gran Bretagna di altri tempi: un Paese che alla fine degli anni 50 era ancora conservatore, chiuso e prevalentemente bianco, dove l’improvvisa comparsa di un uomo indiano nella cittadina di Market Harborough («il middle point della Middle England») e il curry cucinato inaspettatamente dalla madre una sera rimangono impressi nella memoria di Illsley bambino come segni di una nuova era. Figlio di un funzionario di banca e di una casalinga, quarto e ultimo pargolo di una famiglia precisa e ordinata dove nessuno si abbraccia o si bacia ma tutti sanno di volersi bene, Illsley ascolta Radio Luxemburg di notte. Attraverso i testi e i ritmi di Elvis Presley capisce di volere una vita diversa. «La musica — annota nel libro — rappresentava la salvezza emotiva. Ha riempito il vuoto di una generazione che non sapeva esprimere ciò che provava». Tra eccessi, litigi, momenti storici (come il Live Aid) e nostalgia del passato, l’obiettivo per Illsley è raccontare «la gioia della musica, la sua universalità: non importa da dove vieni o quanti anni hai, la musica unisce». Gli brillano gli occhi quando racconta che tuttora se vede la sua chitarra non riesce a non suonare o che riceve email da adolescenti cinesi che gli confidano: «Ho scoperto i Dire Straits». C’è un messaggio? «Vorrei dire questo: tutto può succedere se ti metti nella posizione di ottenere ciò che vuoi. La vita, alla fine, è una serie di coincidenze».

·        Spice Girls.

25 anni di Spice Girls, la docu-serie sulla girl band di maggior successo di tutti i tempi. La girl band prima, durante e dopo il successo planetario. Con filmati inediti e curiosità per esplorare il fenomeno musicale che ha influenzato una generazione di donne al grido di Girl Power. Paola Medori su iodonna.it su il Corriere della Sera l'11 Novembre 2021. Come sono riuscite cinque ragazzine inglesi ha ispirare una generazione di donne? A raccontarlo, tra luci e ombre, è la docu-serie Spice Girls: How girl power changed the world, da oggi in esclusiva solo su Discovery+ che analizza il fenomeno globale delle Spice Girls, a 25 anni di distanza da Wannabe, il rivoluzionario singolo di debutto. E ripercorre, in tre parti, attraverso testimonianze dirette e filmati inediti gli inizi musicali, dal loro primo incontro all’impatto culturale che la pop band ha avuto a livello internazionale, soprattutto sulle donne, con il loro inno all’emancipazione femminile: Girl power!

Un fenomeno tutto al femminile

Il gruppo si forma a metà degli anni ‘90 (a tavolino), sono un gruppo scatenato di cinque fanciulle che ama divertirsi: Geri Halliwell, Victoria Adams (oggi signora Beckham), Melanie Chisholm, Emma Button e Melanie Brown. In breve tempo celebrità mondiali, superando sessismo, critiche e scandali. Un successo esplosivo con record di vendite (si tratta del gruppo femminile di maggior successo di tutti i tempi, con oltre 100 milioni di dischi venduti), e in un settore che all’epoca era dominato dalle boy band con ragazzi dai visetti sbarbati, come i Take That e i Backstreet Boys.

Come sono nate le Spice Girls?

«È una versione femminile dei Take That ma alla lontana. In realtà vorrei che avessero un’immagine più da dura» dichiara Chris Herbert, il manager musicale. Che, nel 1994, ha l’intuizione di creare un gruppo musicale al femminile. Pubblica un annuncio sul magazine The Stage, e nel centro di Londra si presentano migliaia di ragazzine. A fare colpo è la ballerina Mel B («è arrivata e sembrava che non le importasse nulla. Aveva un’aria di sufficienza. Sicura di sé»), poi Victoria («elegante e classica aveva un po’ più di grazia»), Mel C («una voce potente») e Geri («il mercato della musica pop è completamente dominato dagli uomini e noi ci infileremo nello spazio libero»). A completare il puzzle? L’attrice in difficoltà Emma Bunton.

Come il Girl Power ha cambiato il mondo

Il doc segue il viaggio delle spregiudicate Baby, Ginger, Posh, Scary e Sporty Spice alla ricerca del loro sogno. Pronte a conquistare l’industria musicale. Chiassose, sfrontate, assumono il manger Simon Fuller e firmano il primo contratto con la Virgin. Sexy e colorate, nel 1996, esordiscono con la canzone Wannabe che parla di solidarietà, indipendenza, libertà femminile, di amicizia e di come ci si sente. Ed ha un enorme impatto culturale. La canzone porta le giovani donne a parlare di femminismo. Scritto in 30 minuti, diventa un grido di battaglia. Primo in classifica in 37 paesi, nello stesso anno in cui Eve Ensler presenta I dialoghi della Vagina a New York City. Le Spice portano l’inno Girl power alla ribalta, in un’epoca in cui il femminismo era sottotono. Le ragazze, spinte dalla rossa Geri, usano lo slogan, un termine che nasce dal movimento Riot Grrrl, un sottogenere femminista del punk hard core, vivace e anarchico che avevano una fanzine che si chiamava girl power. La mania dilaga e arriva su zaini, magliette, penne, scatole e bambole. «Abbiamo creato un movimento. È come il femminismo degli anni ‘60 rivitalizzato e adattato agli anni ‘90. Solo che ora puoi indossare il wonderbra, truccarti quanto vuoi ed essere comunque intelligente e avere carattere», racconta Geri.

L’eredità più importante delle Spice Girls

Quale è stato il vero potere? Avere una loro visione artistica, che rappresenta ancora oggi la più grande dichiarazione politica. Hanno chiesto rispetto, e se lo sono preso con il controllo delle loro carriere e facendo da apripista alle colleghe. In un’industria dove, fino ad allora, ogni aspetto dalla scrittura ai testi delle canzoni fino agli abiti da indossare, era in mano ai produttori maschi e ai manager delle etichette discografiche. Le Spice Girls sono state protagoniste del loro successo, fin dall’inizio. Dividendosi i compiti, tra tour e sponsor. Libere di esprimersi. E combattendo per questo, hanno gettato le basi del femminismo contemporaneo.

·        La Notte di San Lorenzo.

Carlo Ottaviano per "il Messaggero" il 10 agosto 2021. C'è chi inizia al tramonto, chi non rinuncia a quella di mezzanotte. Nella più climaticamente strana estate degli ultimi anni, almeno un punto fermo è rimasto: la spaghettata di San Lorenzo sotto il cielo stellato. Una usanza che non è nata come pensano in molti negli anni Sessanta del boom, né ai tempi dei falò dei figli dei fiori anni Settanta. Ma è molto più antica e radicata. Da quando era il 1337 a Firenze iniziarono a celebrare l'anniversario della morte del diacono Lorenzo (avvenuta a Roma il 10 agosto del 258 d.C.) cucinando sfoglie sottili, tagliate a strisce larghe e increspate allora chiamate lasagne, oggi pappardelle. Alla stessa festa è attribuita la nascita della bistecca alla fiorentina, perché nella Firenze medievale si usava arrostire sul fuoco due quarti di bue da donare ai poveri in onore di San Lorenzo. Le stesse stelle cadenti ricordano, come fossero micro lapilli, il santo bruciato sui carboni ardenti e le sue lacrime (invece sono più prosaicamente frammenti della cometa Swift Tutle che ogni anno in questi giorni passa molto vicino al sole rilasciando polvere luminosa: è il fenomeno delle Perseide). Noi restiamo con i piedi ben piantati a terra, magari sulla sabbia di una bella spiaggia per un rito che prima di tutto è voglia di stare assieme (tanto più dopo i lunghi 18 mesi della pandemia). Non dimentichiamo però il distanziamento sociale e qualche altra regola di buona creanza. «La prima di tutte afferma Maddalena Fossati, direttrice dello storico mensile La cucina italiana - è il rispetto dell'ambiente. Non utilizziamo posate e piatti di plastica e scegliamo invece i riciclabili. Quando finiamo la festa, lasciamo tutto uguale, anzi meglio di come l'avevamo trovato. E naturalmente, rispettiamo i vicini e gli altri gruppi che hanno scelto la stessa zona». Il più antico magazine italiano di settore sul sito online propone «40 ricette da sogno per la spaghettata di mezzanotte». Si va dalla classica aglio, olio e peperoncino, alla facilissima con bottarga e limone salato o acciughe, alle reinterpretazioni (ma semplificate) di grandi classici: pomodoro al profumo di arancia e maggiorana, piccanti alla puttanesca, alla sciuè sciuè (con pangrattato, finocchietto e aglio). La difficoltà sta nel ridurre al massimo la fatica della preparazione (siamo in vacanza!) e nell'adattare le dosi per tante persone.

CONVIVIALE La ricetta che La Cucina Italiana ha preparato per noi è per 20 persone e tutto viene preparato molto prima, trattandosi di spaghetti freddi. «La grande forza della cucina del nostro Paese spiega Fossati - è di essere adattabile, conviviale e sicura. Il prodotto ha una valenza eccezionale, tant' è che una buona pasta tiene sempre la cottura. Inoltre, il toccare poco gli ingredienti garantisce che anche una cucina casual come quella dei giorni di riposo, sia un'operazione facile, semplice, ma estremamente buona. E poi la nostra cucina è allegria, voglia di stare assieme, aggregazione». Innumerevoli in tutta Italia, anche gli eventi legati a San Lorenzo. Calici di stelle si svolge stasera in centinaia di aziende (l'elenco su movimentoturismovino.it) dove sarà possibile partecipare a degustazioni, visite guidate nelle cantine ipogee e tra i vigneti, cene. In ogni caso non serviranno chef stellati. Gli astri, almeno oggi, già brillano in cielo.