Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

ANNO 2021

 

LA MAFIOSITA’

 

TERZA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

      

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

  

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L'alfabeto delle mafie.

In cerca di “Iddu”: “U Siccu”.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il delitto Mattarella.

La Cupola.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Intimidazioni.

Non era Mafia, ma Tangentopoli Siciliana.

La Dia: Il Metodo Falcone.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nulla è come appare: segui i soldi.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato - ‘Ndrangheta.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-Camorra.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il Depistaggio di via D’Amelio.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-Mafia.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il dossier mafia-appalti.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Inchiesta P2 ed i Massoni rinnegati.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Inchiesta P4.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il misterioso “caso Antoci”. (Segue dal 2020)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Cesare Terranova.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Antonino Scopelliti.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Nino Agostino.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro De Mauro.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro Rostagno.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Don Peppe Diana.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La ‘Ndrangheta.

Cosa Nostra. 

Cosa nostra cambia nome: l’Altare Maggiore.

La Mafia romana.

La Camorra. La Mafia Napoletana.

La Mafia Milanese.

La "Quarta mafia" del foggiano.

La Mafia Molisana.

Mala del Brenta: la Mafia Veneta.

La Mafia Nigeriana.

La Macro Mafia.

La Mafia Statunitense. 

La Mafia Cinese.

La Mafia Colombiana.

La Mafia Messicana.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-AntiMafia.

Non era mafia: era politica.

Santi e Demoni.

La Moralità della Mafia.

I Mafiologi.

L'Antimafia delle Star.

Giovanni Brusca ed il collaborazionismo.

Il Pentitismo.

Hanno ucciso Raffaele Cutolo.

Cosa è il 41bis, il carcere duro in vigore da quasi 30 anni.

Il reato che non c’è. Il Concorso Esterno.

Non era Mafia.

Antimafia: A tutela dei denuncianti?

Sergio De Caprio: Capitano Ultimo.

È incandidabile?

Il Business delle le Misure di Prevenzione: Esproprio Proletario.

Il Business del Proibizionismo.

Il Contrabbando.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che …”Viva i Boss”.

La Gogna Parentale e Territoriale.

Il caso di Mesina spiegato bene.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Caporalato a danno delle Toghe Onorarie.

Il Caporalato Parlamentare.

Gli schiavi del volantinaggio.

La Vergogna del Precariato. 

Il caporalato sui rider.

Il Caporalato agricolo.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Colpa delle banche.

Fallimentare…

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…la Lobby.

Una storia di Casta. Csm, il sistema non cambia per nulla.

Lo Scanno del Giudizio: da padre in figlio.

I dipendenti della presidenza del Consiglio.

I Giornalisti Ordinati.

Gli Avvocati.

I Medici di base.

I Commercialisti.

Che fine ha fatto il sindacato?

Le Assicurazioni…

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cosa c’entra la massoneria?

Le inchieste di Cordova e i giudici massoni.

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’abbattimento delle case private. Abusivo: Condonato e distrutto.

L’occupazione delle case.

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

TERZA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Nulla è come appare: segui i soldi.

Il riciclatore autonomo. Report Rai PUNTATA DEL 08/11/2021 di Giorgio Mottola

collaborazione di Norma Ferrara e Alessia Marzi 

Dove finiscono i soldi delle mafie? Report ha provato a cercare una risposta entrando nella storia di un imprenditore che potrebbe aver riciclato circa 500 miliardi di dollari per conto di 'ndrangheta, Cosa nostra e del clan dei Casalesi. Potrebbe essere lo schema di riciclaggio più imponente della storia italiana. Secondo gli investigatori, l'imprenditore aveva creato una rete che andava da Cipro alla Malaysia, passando per Tagikistan, Pakistan, Dubai e Afghanistan. Sul suo computer le forze dell'ordine hanno trovato decine di passaporti falsi e documenti che attestavano la gestione diretta di investimenti finanziari per quasi 40 miliardi di euro. In esclusiva Report è riuscito a intervistare il presunto riciclatore, che ha spiegato i meccanismi della finanza internazionale con cui è possibile movimentare somme di denaro colossali. Si va dai templari ai broker internazionali, con sullo sfondo i rapporti con gli esponenti dell'ala finanziaria di alcuni tra i clan di mafia più potenti in Italia. L'imprenditore è stato intercettato e pedinato per quasi un anno e le sue operazioni finanziarie restituiscono un racconto completamente inedito di come le mafie riciclano i soldi, degli uomini che li fanno circolare, di chi li incassa e di chi finisce, senza saperlo, per usare gli stessi canali dei clan per muovere il proprio denaro. Una storia in grado di ridisegnare lo schema del riciclaggio dei soldi che partono dal nostro paese e fanno il giro del mondo. 

IL RICICLATORE AUTONOMO Report Rai di Giorgio Mottola consulenza di Lucio Musolino Collaborazione di Norma Ferrara e Alessia Marzi Immagini Alfredo Farina Montaggio Giorgio Vallati

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nonostante gli arresti eccellenti e i maxiprocessi, oggi le mafie italiane risultano ricche come mai lo sono state nella loro storia. Lo Stato confisca ogni anno alle organizzazioni criminali case, bar, ristoranti, auto di lusso, e persino pitoni e tigri. Ma dei soldi veri, delle decine di miliardi di euro che fatturano ogni anno le mafie quanto si riesce a recuperare?

NICOLA GRATTERI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI CATANZARO Sostanzialmente si riesce a recuperare il due percento.

GIORGIO MOTTOLA Come mai si riesce a recuperare così poco?

NICOLA GRATTERI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI CATANZARO È impossibile, è come trovare un ago in un pagliaio. Perché non c’è una rete nemmeno europea nel contrastare il riciclaggio.

 GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ecco perché i magistrati dell’antimafia sono saltati sulla sedia quando hanno cominciato ad ascoltare le conversazioni di un imprenditore calabrese, Roberto Recordare.

INTERCETTAZIONE ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Dei fondi dei 500 miliardi, parliamo dei 36 miliardi. Basta fare un download ed io c’ho le chiavi di trasferimento… se serve atterrare da qualche parte ci dicono loro dove atterrare e atterriamo quei 36 miliardi. Dopodiché andiamo a costruire tutto il resto...

 GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dalle intercettazioni sembra che Recordare si riferisca a fondi da 500 miliardi di dollari di cui 36 miliardi possono essere subito spostati. Gli investigatori lo hanno pedinato per un anno e hanno tracciato le sue triangolazioni dall’Italia verso Malta, il Tagikistan, l’Afghanistan, Dubai, il Pakistan e la Malesia.

GIORGIO MOTTOLA Finora aveva mai sentito parlare di Roberto Recordare?

NICOLA GRATTERI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI CATANZARO No.

GIORGIO MOTTOLA Non era mai finito sul suo radar.

NICOLA GRATTERI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI CATANZARO No. E ci lavoro dall’86 in Calabria.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nicola Gratteri non è il solo ad aver sentito il suo nome per la prima volta. Fino allo scorso novembre Roberto Recordare era finito sulle cronache dei giornali solo come presidente di due squadre di pallavolo della serie A2.

INTERVISTA DIRECTA SPORT ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Per circa 12 anni abbiamo sponsorizzato la Golem Volley a Palmi. Quest’anno per vari motivi non c’è stata la possibilità di continuare e quindi… sono andato a… cercarlo da qualche altra parte.

GIORNALISTA È andato a portare il suo amore verso...verso, verso altri lidi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma verso altri lidi Recordare non avrebbe portato soltanto il suo amore.

INTERCETTAZIONE ROBERTO RECORDARE Comunque, considera che stiamo spostando cose dove i servizi segreti, cioè stiamo sconquassando il mondo. È l’equilibrio mondiale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’equilibrio mondiale Recordare tenterebbe di sconquassarlo dalla piana di Gioia Tauro. Il suo ufficio si trova in questo palazzo al centro di Palmi, dove ha sede la Golem Software, una piccola azienda di informatica che gestisce i servizi anagrafici e tributari del comune di Bari, Verona, Bollate e decine di paesi calabresi.

GIORGIO MOTTOLA Sono Giorgio Mottola di Report Rai 3, posso parlare con Roberto Recordare?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La scalinata verso l’ufficio di Recordare è costellata di quadri. Sono tutti ritratti di personaggi storici dipinti da lui: c’è Martin Luther King, il Mahatma Gandhi, Rosa Parks. E al piano di sopra l’estro pittorico di Recordare si esprime su Nicola Gratteri, rappresentato con fattezze da diavolo e tanto di corna.

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Perché io ho sempre pensato che bisogna combattere questo tipo di magistratura mafiosa. Perché secondo me la mafia per me vuol dire sopruso. Il problema è che la gente di fatto ha paura qua più della magistratura che della ‘ndrangheta o quello che è.

GIORGIO MOTTOLA Lei si trova in un territorio ad altissima densità mafiosa.

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Questa oppressione di ‘ndrangheta qua a Palmi, Palmi parlo, che so io non c’è.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Facciamo l’ipotesi per un attimo di avere la disponibilità, come Paese, di poter attingere a 500 miliardi di euro. Ecco insomma è il doppio del recovery plan, è tre volte il fatturato di Google, sei quelli di Facebook. E invece sono nella disponibilità… sarebbero… nella disponibilità di un signore solo: questo. E secondo la polizia di Reggio Calabria, sarebbero quei soldi della camorra, di Cosa nostra e soprattutto della ‘ndrangheta. Quella che stiamo per raccontare questa sera è la storia o del più grande e abile bluffeur o del più spregiudicato broker della storia della finanza. Recordare è stato intercettato mentre si vantava, spostando miliardi di euro di poter sconquassare l’equilibrio mondiale. E dopo un anno di intercettazioni e di pedinamenti, quando gli inquirenti stavano stringendo il cerchio intorno a lui e stavano per intuire un livello di riciclaggio mai scoperto sino a prima, accade qualcosa di grave, di inaudito. Il broker che è anche considerato dagli inquirenti “un riservato” della ‘ndrangheta, cioè un membro occulto delle ‘ndrine, ha parlato per la prima volta con il nostro Giorgio Mottola.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo gli investigatori che lo hanno ascoltato e pedinato per un anno, Roberto Recordare avrebbe messo in piedi un colossale schema di riciclaggio per conto di camorra, Cosa nostra e ‘ndrangheta.

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Ora spezzo una lancia io a favore della ‘ndrangheta. Facciamo finta che tutto sia vero e che io abbia riciclato 500 miliardi. Perché questi cazzo di 500 miliardi devono essere della ‘ndrangheta e non di tutte le mafie del mondo? Posso fare un cazzo di reato a nome mio e non avere il brand della ‘ndrangheta?

GIORGIO MOTTOLA Dell’accusa che viene mossa nei suoi confronti ancor più del riciclaggio la cosa che le dà fastidio è essere accostato a ‘ndrangheta e Cosa nostra.

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Io voglio essere autonomo! Se io faccio un cazzo di reato, voglio farlo a nome mio.

GIORGIO MOTTOLA Ho capito, vuole essere un riciclatore autonomo.

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Esattamente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sul computer e sui telefoni di Recordare sono stati trovati documenti finanziari che attestano l’esistenza di fondi da miliardi di dollari. Uno fa riferimento ad un deposito da 500 milioni di dollari e l’altro invece da 36 miliardi.

GIORGIO MOTTOLA Certo che parliamo di cifre enormi.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Cifre enormi per noi, mortali. Ma non cifre enormi per le banche centrali.

GIORGIO MOTTOLA Perché che c’entrano le banche centrali?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Il documento trovato nel telefono di questo soggetto si riferisce alla banca centrale degli Emirati.

GIORGIO MOTTOLA Ma un privato può gestire soldi che sono all’interno di una banca centrale?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO No. Almeno che non ci siano degli accordi particolari, cioè queste banche centrali, o delle banchette centrali anche di paesi più piccoli, si prestino per fare questo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Su entrambi i documenti l’intestatario del deposito miliardario è criptato da due codici alfanumerici, definite chiavi. Tutti e due i certificati sono emessi dalla Banca Centrale della Danimarca, ma in quello da 36 miliardi si specifica che i soldi si trovano altrove, nella banca centrale degli Emirati Arabi.

GIORGIO MOTTOLA Quindi Recordare era in contatto con le banche centrali di paesi extraeuropei. GIAN

GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Risulta con chiarezza che lui fosse in contatto e avesse delle possibilità operative molto elevate con i sistemi bancari soprattutto asiatici.

GIORGIO MOTTOLA Ma è possibile che invece Recordare fosse semplicemente un grande truffatore?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Lui veramente viaggiava, ha rapporti di alto livello con personaggi che lo aiutavano a compiere tutte le fasi di movimentazione del denaro, diciamo oggi, di provenienza ignota. Quindi, non è che uno ignaro di essere intercettato vive in un film. Viveva la sua vita, quindi la sua vita era quella.

GIORGIO MOTTOLA Lo riconosce questo titolo?

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Sì.

GIORGIO MOTTOLA Da 36 miliardi.

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Sì.

GIORGIO MOTTOLA Questo è un titolo autentico? Questi 36 miliardi esistono veramente nella banca di Dubai?

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Evidentemente, sì.

GIORGIO MOTTOLA E lei che tipo di ruolo ha nella gestione dei questi 36 miliardi?

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Io sono un tecnico.

GIORGIO MOTTOLA Che fa come tecnico?

ROBERTO RECORDARE – IMPRENDITORE Come che fa come tecnico?

GIORGIO MOTTOLA Cioè che tipo di ruolo ha rispetto alla gestione di questi soldi, da tecnico?

ROBERTO RECORDARE – IMPRENDITORE Qua bisognerebbe entrare e spiegare… questa poi è consulenza.

GIORGIO MOTTOLA E devo pagare?

ROBERTO RECORDARE – IMPRENDITORE (Ride) GIORGIO MOTTOLA Di chi sono questi soldi che lei ha in qualche modo gestito o rispetto a cui ha partecipato alla gestione?

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Io ripeto, se c’è un problema su questo, vanno nella banca e gli chiedono di chi sono. Il nocciolo della questione è questi fondi sono leciti o non sono leciti? Se sono di fonte illecita, andate a prenderli.

 GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Invece di chiarire, le risposte di Recordare sui fondi da 36 miliardi e da 500 milioni di dollari aumentano i nostri dubbi sulle attività dell’imprenditore calabrese.

GIORGIO MOTTOLA Su di lei ci sono due ipotesi, una che lei sia il più grande riciclatore del mondo. L’altra è che si in realtà il più grande truffatore del mondo. Che cioè tutti questi titoli siano falsi, e che tutti questi soldi non siano mai esistiti.

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE E quindi? GIORGIO MOTTOLA E che quindi sono tutte tentate truffe.

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE La truffa vuol dire che truffi qualcuno, chi ho truffato?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Abbiamo quindi proseguito le nostre ricerche e con un po’ di fortuna ci siamo imbattuti in una persona che la storia di quei documenti sembra conoscerla molto bene.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha mai visto questi documenti?

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Questo sì, questo da 500 sì.

GIORGIO MOTTOLA Questo da 500 milioni di euro.

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Certo, io c’ho una fotocopia di questo documento, è questo.

GIORGIO MOTTOLA Questo è identico a quello che ha Recordare.

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Certo, glielo ho dato io.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha dato questo documento da 500 milioni di dollari a Recordare.

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Certo, questa è la procura con il numero del documento.

GIORGIO MOTTOLA Ah, quindi lei è il proprietario di questo documento da 500 milioni di euro.

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Certo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il numero seriale del conto che ci viene mostrato è identico a quello trovato nel telefono di Recordare. Con l’imprenditore di Palmi, Maurizio Contessa condivide la passione per i quadri, di mestiere fa infatti il commerciante d’arte. Ma sebbene possegga un certificato di deposito da mezzo miliardo di dollari la sua casa non sembra quella di un miliardario.

GIORGIO MOTTOLA Lei non ha esattamente una faccia e un tenore di vita da mezzo miliardo, insomma.

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE No!

GIORGIO MOTTOLA Come faceva ad avere un documento da 500 milioni di dollari?

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Lo ritrovo facendo una ristrutturazione a casa dove abitava mio padre e ho trovato una valigetta con dei documenti che erano dentro un’intercapedine del muro. Cosa che io non ne sapevo l’esistenza.

GIORGIO MOTTOLA Cioè c’era un doppio fondo nel muro.

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Certo.

GIORGIO MOTTOLA E dentro c’era questo documento qui?

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Ce ne erano anche degli altri. Sono uguali a quelli, sono, sono di importi diversi.

GIORGIO MOTTOLA 800 milioni di dollari, 500 milioni di dollari, sempre Banca centrale Danese.

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Certo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Maurizio Contessa ritrova questa valigetta del padre nel doppiofondo di un muro di casa, dentro ci sono tre certificati di deposito emessi dalla banca centrale danese. Due sono da mezzo miliardo di dollari e uno da 800 milioni. Di chi siano e da dove vengano è un mistero che il padre si è portato nella tomba.

GIORGIO MOTTOLA Suo padre che lavoro faceva?

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Gestiva il casinò di Montecarlo.

GIORGIO MOTTOLA In che senso gestiva il casinò?

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Ufficio fidi.

GIORGIO MOTTOLA Quindi quale era la sua funzione?

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Curare i clienti che venivano a giocare a Montecarlo.

GIORGIO MOTTOLA Prestare i soldi a quelli che giocavano.

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Negli anni Ottanta era a norma di legge, si poteva fare, quindi era il suo mestiere.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Negli anni Ottanta il casinò di Montecarlo è finito più volte sotto inchiesta con l’accusa di riciclare soldi di Cosa nostra e ‘ndrangheta. Ad occuparsi dei prestiti ai giocatori facoltosi che così aggiravano le norme sulle esportazioni di valuta, era il padre di Maurizio, Sergio Contessa, viene ucciso nel 1989 all’altezza del casello di Orte, nel corso di una rapina che subisce mentre era a bordo della sua auto nella quale trasportava 350 milioni di lire in contanti. All’epoca fu accusato di aver partecipato alla rapina anche Gaetano Scutellaro, il tabaccaio napoletano che questa estate è scappato con il “gratta e vinci” rubato ad un’anziana cliente. Sia in primo che in secondo grado Scutellaro è stato poi assolto da ogni accusa.

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Io adesso mio padre come faceva ad averli non lo so.

GIORGIO MOTTOLA Non sapeva che suo padre avesse questi documenti?

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE No, non me ne ha mai parlato.

GIORGIO MOTTOLA Quindi, quando li ritrova che cosa fa?

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Ho fatto delle indagini ho fatto, ho visto che sono documenti che sono validi, quindi ho cercato di trovare la persona giusta che potevo incassarli.

GIORGIO MOTTOLA Per incassarli si è rivolto a Recordare.

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Si diciamo ci ho provato a darlo a Recordare per vedere se aveva le possibilità: Io non lo conosco, non l’ho mai visto, l’ho visto una volta due secondi di sfuggita… GIORGIO MOTTOLA Ma mi scusi e lei affida un certificato da mezzo miliardo di dollari a una persona che non ha mai visto?

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE No io l’ho affidata a Mariottini, Mariottini mi ha detto che era una persona affidabile e poteva fare questo lavoro…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Marino Mariottini, è un ex direttore sportivo di importanti squadre della serie A, ha lavorato con l’Udinese, favorendo l’acquisto di Abel Babo e per l’Inter nella prima stagione di Massimo Moratti, nell’informativa della polizia Mariottini è indicato come uno dei faccendieri al servizio di Recordare.

GIORGIO MOTTOLA Ma lei di questi soldi poi lei è riuscito ad incassare qualcosa?

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE No, non ho mai incassato nulla.

GIORGIO MOTTOLA Ma esistono veramente questi soldi da qualche parte?

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Questi soldi esistono veramente ma tutto ciò che c’è dietro lo potrebbe solo raccontare mio padre che non me lo hai mai raccontato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Se il misterioso documento da mezzo miliardo è stato gestito da Recordare per conto di Contessa, ancor più complesso è risalire alla fonte degli altri denari gestiti dall’imprenditore calabrese. Per capirci qualcosa bisogna partire dalle lunghe passeggiate che Roberto Recordare faceva qui, sul lungomare deserto di Palmi, in compagnia di Carmelo Gagliostro, nipote diretto del capomafia storico Gaetano Parrello e fratello di Candeloro, condannato a cinque anni nell’ambito di un processo alla cosca Gagliostro-Parrello. A Carmelo Gagliostro, che è stato arrestato come membro del clan e poi assolto dalle accuse, Recordare spiega il giro che fanno i soldi.

 INTERCETTAZIONE CARMELO GAGLIOSTRO Poi alla fine queste società ti vengono di là… che ti devono fare questi bonifici?

ROBERTO RECORDARE Sì, praticamente questi dalla Cina li fanno arrivare a Dubai, Dubai me li passa in Tunisia e dalla Tunisia li devo passare in Italia, però lo faccio veloce.

CARMELO GAGLIOSTRO Ma non è che li prendi e li sposti tutti?

ROBERTO RECORDARE eh no… minchia! dopo che abbiamo fatto tanto! (ride)

GIORGIO MOTTOLA Lei spostava soldi per conto di Gagliostro?

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE No, assolutamente no. GIORGIO MOTTOLA Lei dice di no, però con Gagliostro scherzate dicendo: dopo tutto quello che abbiamo fatto per spostarli sarebbe sciocco portarli qui.

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Allora, quando io dico dopo tutto quello abbiamo fatto, non vuol dire “abbiamo con lui fatto” perché se no tu mi stai dicendo che Gagliostro mi dà 500 miliardi o 100.

GIORGIO MOTTOLA Perché parla di queste movimentazioni internazionali proprio con Gagliostro?

ROBERTO RECORDARE – IMPRENDITORE Perché lo conosco, perché glielo posso dire.

GIORGIO MOTTOLA Come confidenza.

ROBERTO RECORDARE – IMPRENDITORE Sì. GIORGIO MOTTOLA C’è chi parla di calcio al bar e invece chi parla di movimentazioni di soldi tra la Cina e Dubai. ROBERTO RECORDARE E qual è il problema?

GIORGIO MOTTOLA Certo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma di certo il denaro da investire non mancherebbe alla cosca Parrello-Gagliostro di Palmi che ha esteso i suoi affari fino il Liguria. Per capire di che soldi parlasse Recordare, siamo quindi andati direttamente a casa di Carmelo Gagliostro. Ma prima di riuscire a suonare il campanello veniamo intercettati da un suo uomo di fiducia. UOMO Carmelo Gagliosto non c’è qua, è fuori. Lei chi è?

GIORGIO MOTTOLA Mi chiamo Giorgio Mottola, sono un giornalista. UOMO Un giornalista? No, non c’è. È fuori per lavoro.

GIORGIO MOTTOLA Ho visto che qui ci sono forse dei parenti, posso chiedere anche a loro? UOMO No, sono partiti fuori con mogli e figli.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E risulta ugualmente irreperibile, perché in carcere, anche l’altro uomo con cui Recordare discuteva di spostamenti di soldi: Domenico Laurendi, ex politico dell’Udeur, arrestato perché considerato uno dei boss della potente cosca Alvaro, per la quale si occupava di riciclaggio.

GIORGIO MOTTOLA Con Laurendi che tipo di affari aveva in comune?

ROBERTO RECORDARE – IMPRENDITORE Nessun affare, siamo amici da tanto tempo.

GIORGIO MOTTOLA È un altro dei soggetti che appartiene al mondo ‘ndranghetista.

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE E quindi? Non posso frequentare una persona libera.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La mappa degli spostamenti di Recordare potrebbe rivelare dettagli importanti anche sulla nuova geografia criminale di ‘ndrangheta e Cosa nostra. Il calabrese Recordare infatti attraversa di continuo lo Stretto per incontrare a Catania due imprenditori siciliani che nelle carte sono indicati come vicini al clan Santapaola: Giovanni D’Urso e Felice Naselli, già imputati in processi per mafia e poi assolti, sono entrambi molto interessati a soldi che si dovevano spostare tra la Malesia e il Tagikistan.

INTERCETTAZIONE ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Una volta che tu hai consolidato in Malesia, ti danno la pulizia, ti certificano che il denaro è di fonte pulita… danno la giustificazione, perciò non c’è nessun problema da quel punto di vista.

 GIOVANNI D’URSO - IMPRENDITORE Però poi come facciamo a mandarli in Tagikistan? Mica possiamo mandare dieci miliardi in Tagikistan!

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE No, no, no vabbè ma tanto sono scaricati su un conto di corrispondenza.

GIORGIO MOTTOLA Qui lei sta parlando di riciclaggio.

ROBERTO RECORDARE – IMPRENDITORE Perché sto parlando di riciclaggio?

GIORGIO MOTTOLA Il gergo è quello, pulizia, giustificazione di soldi. ROBERTO RECORDARE – IMRPENDITORE Non è pulizia… allora… quando uno ti certifica quello è perché… certifica… da dove… i conti da dove partono e dove arrivano, vuol dire che lì… perché le banche chiedono da dove arrivano i soldi. GIORGIO MOTTOLA Recordare parla di riciclaggio o no?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO IN RICICLAGGIO Certo, non parla di ricette di cucina. Nelle sue intercettazioni si legge il manuale del perfetto riciclatore. Segue proprio le tre fasi classiche del riciclaggio: la movimentazione del contante che viene collocato in una banca, poi il conto bancario che si muove in altre banche in maniera tale che stacca la provenienza del denaro e infine, la terza fase, è quella di integrazione nell’economia lecita. Cioè lo spostamento, tramite società a giurisdizione offshore, che possano atterrare sul territorio europeo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma il giro che devono fare i soldi è davvero poco usuale. Questi dieci miliardi a cui fa riferimento Recordare devono spostarsi prima dall’Afghanistan verso il Pakistan e poi dal Pakistan vanno fatti transitare sui conti di una banca del Tagikistan, la Orien Bank. L’approdo finale è poi un conto della CMB Bank della Malesia.

GIORGIO MOTTOLA Quando si parla di riciclaggio solitamente si sentono i soliti Paesi Cayman, Virgin Islands, Bahamas. Qui invece Tagikistan Afganistan, Malesia. Non è strano?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO IN RICICLAGGIO. No, no. È un altro livello. I paesi diciamo di legge islamica hanno delle impronte legislative completamente staccate da quelle occidentali. E non sono soggette a controllo.

GIORGIO MOTTOLA Per questo livello di riciclaggio così alto i paesi islamici danno delle garanzie incommensurabilmente maggiori.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO IN RICICLAGGIO Danno delle garanzie normative di blocco. Quindi, chi va lì è certo che gli americani non riescono a entrare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’Orien Bank è la più antica e importante banca d’affari del Tagikistan dove i musulmani rappresentano il 93 percento della popolazione. Presidente della banca è Hassan Asaturo Zoka cognato del capo dello stato tagiko Emomalī Rahmon che è in carica dal lontano 1993. Prima che il cognato salisse al potere, l’attuale presidente della Orien Bank di mestiere faceva il benzinaio. Rimane un mistero perché Recordare abbia scelto proprio questa banca per far transitare i soldi di cui parla con D’Urso e Naselli.

GIORGIO MOTTOLA Stava conducendo delle operazioni finanziarie all’estero per conto di D’Urso e Naselli?

ROBERTO RECORDARE – IMPRNEDITORE Assolutamente no.

GIORGIO MOTTOLA Però anche con loro parla di movimentazione di soldi.

ROBERTO RECORDARE Sì ma non parlo dei loro soldi. Se prendete una cazzo di intercettazione e la leggete in modo asettico, sono soldi di D’Urso e di Naselli?

GIORGIO MOTTOLA Giovanni D’Urso?

GIOVANNI D’URSO – IMPRENDITORE Sì.

GIORGIO MOTTOLA Lei conosceva Roberto Recordare.

GIOVANNI D’URSO – IMPRENDITORE Si, sì.

GIORGIO MOTTOLA Con Recordare parlava di spostamenti di soldi, da Dubai alla Cina.

GIOVANNI D’URSO – IMPRENDITORE Non ce la faccio.

GIORGIO MOTTOLA Non riesce a parlare?

GIOVANNI D’URSO – IMPRENDITORE No, ictus. GIORGIO MOTTOLA Un ictus ha avuto?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Purtroppo, a causa dei problemi di salute, Giovanni D’Urso difficilmente riuscirà a chiarire anche un'altra conversazione avuta con Recordare, in cui l’imprenditore calabrese ha fatto riferimento a un conto in Liechtenstein aperto a suo dire a Matteo Renzi in concomitanza con la sua nomina a presidente del Consiglio.

INTERCETTAZIONE ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Praticamente uno di là ha aperto un conto in Liechtenstein per Renzi il giorno dopo è salito…vedi che ha costruito proprio lui il fatto che doveva essere là, gli hanno aperto il conto in Liechtenstein.

GIOVANNI D’URSO - IMPRENDITORE E ti sorprende?

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE No, no, cioè il giorno dopo, cioè questo vuol dire abbiamo fatto questo progetto e tu devi diventare Presidente del Consiglio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo la fonte confidenziale di Recordare, a Matteo Renzi sarebbe stato dunque aperto un conto in Liechtenstein dalle persone che avrebbero favorito la sua ascesa a Palazzo Chigi. Circostanza smentita completamente dall’ex premier che ci dice di non conoscere Recordare e di non aver mai avuto conti in Liechtenstein.

GIORGIO MOTTOLA Lei scopre che è stato aperto in Liechtenstein un conto in favore di Renzi?

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Questa è l’affermazione che mi hanno riportato, e io ho riportato. Punto.

GIORGIO MOTTOLA Da chi l’ha saputo? Era un funzionario bancario? era la persona che avrebbe aperto il conto in Lienchtestein?

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Era sicuramente un funzionario bancario.

GIORGIO MOTTOLA La stessa che le faceva da consulente rispetto alle sue operazioni?

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Che faceva consulenze a me? Sono io che faccio consulenze agli altri. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ancora più misteriosa è la storia di morte e resurrezione che ruota intorno al fondo da un miliardo di euro che fa base a Cipro. Il titolare è un certo Dimitri Verchtl, morto negli anni ‘80 e resuscitato 30 anni dopo per aprire il conto. Ma non è la cosa più strana. Nella foto che ha sul passaporto Dimitri c’è una vaga somiglianza con Roberto Recordare.

GIORGIO MOTTOLA E allora lei ha un fratello gemello, guardi qua.

ROBERTO RECORDARE Eh.

GIORGIO MOTTOLA Questo è lei, questa è la sua foto!

ROBERTO RECORDARE No!

GIORGIO MOTTOLA Ma come no? Su, sia serio.

ROBERTO RECORDARE Ahah.

GIORGIO MOTTOLA Avete rubato l’identità a un morto.

ROBERTO RECORDARE Non è vero niente.

GIORGIO MOTTOLA Lei conosce questo Dimitri Vercht?

ROBERTO RECORDARE È morto.

GIORGIO MOTTOLA Lei lo ha mai conosciuto?

ROBERTO RECORDARE No.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La vicenda di Dimitri Vercht ha veramente del miracoloso. Nonostante sia morto da trent’anni, nel 2017 l’Agenzia delle entrate italiana gli assegna un codice fiscale con il quale il redivivo Dimitri si presenta davanti a un notaio di Catania, firmando una procura con cui ha delegato a Roberto Recordare la gestione del suo fondo da 1 miliardo di dollari a Cipro.

GIORGIO MOTTOLA Come è possibile che un morto faccia una procura nei suoi confronti?

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE No, che c’entra?

GIORGIO MOTTOLA Come che c’entra?

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Questo…

GIORGIO MOTTOLA Come fa un morto a fare una procura in suo favore?

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Ma chi ha detto che questo quando ha fatto la procura era morto?

GIORGIO MOTTOLA Da mo’ che era morto il povero Dimitri!

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Allora, l’atto dice che delega me per operazioni.

GIORGIO MOTTOLA Ma lei non lo ha mai conosciuto, me lo ha appena detto che non lo ha mai conosciuto.

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE No, aspetta un attimo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma nel documento accanto al nome di Dimitri Verchtl compare anche quello di Sergio Contessa. GIORGIO MOTTOLA Lei sa chi è Dimitri Verchtl?

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Dimitri Verchtl è questo signore, questo è il passaporto, era un personaggio importante in America, ed era un amico di mio padre, conosceva bene mi padre.

GIORGIO MOTTOLA Era un amico di suo padre Dimitri Verchtl.

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Certo, lui è morto all’età di papà, nell’89.

GIORGIO MOTTOLA E che faceva nella vita Dimitri Verchtl?

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Gestiva questi conti insieme a mio padre.

GIORGIO MOTTOLA E come è possibile che la foto di Recordare sia sul passaporto di Dimitri Verchtl.

MAURIZIO CONTESSA - COMMERCIANTE D’ARTE Eh, questo glielo può dire solo lui.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed è a questo punto che Recordare decide di confessare e ci rivela che la foto sul passaporto è sua, ma ci assicura che è tutto regolare.

 ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Allora, le dico che tanti hanno i passaporti con nomi diversi.

GIORGIO MOTTOLA La stessa persona ha doppia identità in giro per il mondo?

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Succede anche questo.

GIORGIO MOTTOLA Cioè lei in Ucraina si chiama Dimitri Verchtl?

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Probabilmente.

GIORGIO MOTTOLA Su, qui si sta arrampicando sugli specchi.

ROBERTO RECORDARE - IMPRENDITORE Io… allora….

GIORGIO MOTTOLA Questa se l’accolli, questa se la deve accollare, su…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Roberto Recordare ha ragioni molto fondate per ridersela così di gusto. L’inchiesta giudiziaria che lo riguarda infatti è stata in buona parte bruciata a causa di un errore commesso in Tribunale a Reggio.

FONTE RISERVATA Considera che eravamo nel momento più delicato delle indagini perché si stavano facendo i riscontri sulla fonte dei soldi. E invece il cd con tutto il fascicolo di Recordare è stato allegato per errore agli atti di un processo e così sono diventati pubblici. Non lo so, forse... forse è stato l’errore di un cancelliere.

GIORGIO MOTTOLA Ma che vuol dire per errore?

FONTE RISERVATA Il pm non ha mai chiesto di allegare quegli atti, che ripeto: dovevano rimanere segreti. Ma se li è ritrovati sputtanati così, depositati in un processo in cui Recordare, tra l’altro, non era nemmeno indagato.

GIORGIO MOTTOLA Ma l’indagine così rischia di essere danneggiata?

FONTE RISERVATA Rischia? è già danneggiata.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Se la ride il buon Recordare, insomma. Gestirebbe questi 500 miliardi di euro, e ci sfida anche, perché dice: se pensate che sono di provenienza illecita andateli a prendere. Insomma, sembra facile. Anche perché qua da quello che emerge dalle intercettazioni sembrerebbe trovarsi di fronte a quello che è il manuale del perfetto riciclatore. Insomma, vengono messi dei soldi in contanti nelle banche. E poi dopo si sposta il conto corrente con in pancia i miliardi in un’altra banca, per far perdere l’origine, e poi attraverso società e giurisdizioni offshore, vengono spostate in banche europee e lì c’è il “libera tutti”. Sono soldi puliti. Ma con Recordare si è toccato forse un livello superiore, mai visto in precedenza. Recordare ha rapporti con delle banche centrali e soprattutto con le banche asiatiche a giurisdizione islamica, dove ci sono meno controlli e dove un occhio terzo ha difficoltà, è quasi impossibilitato ad andare a ficcare il naso. E dove i privati non è che possono operare in maniera così semplice. E anzi possono farlo solo se hanno degli accordi particolari, con delle strutture particolari. Ora, può darsi anche che Recordare li avesse perché è riuscito a spostare soldi dall’Afghanistan al Pakistan, fino a sbarcare nell’Orien Bank che è la banca più importante del Tagikistan, che ha il 93 percento della popolazione islamica. Ma magari invece Recordare è un grande truffatore e allora bisogna togliersi tanto di cappello perché deve essere stato abilissimo a creare una vita parallela. Perché le intercettazioni e i pedinamenti hanno provato che Recordare si recava effettivamente in questi Paesi, aveva effettivamente contatti con questi banchieri con delle personalità, lo sentivamo anche consigliare alcuni imprenditori in odore di mafia su come spostare e pulire i soldi. E Recordare ha incontrato tante personalità. Una, per esempio, è il ministro delle Finanze del sovrano Ordine di San Giovanni di Gerusalemme e Malta, da non confondere con l’Ordine di Malta. Ecco questo signore è Gaetano Bordonaro, e si mette a disposizione di Recordare per fare entrare dei soldi. Lui dice: “Investiremo i vostri soldi in acquisto di titoli! Ma sempre dicendo che è per opere finalizzate ad opere umanitarie.... però – specifica Bordonaro – noi siamo qui per fare business!” Ci mancherebbe altro. Se lo dice lui, in questa intercettazione, gli crediamo. Ecco, insomma, ci sarebbe stato un mondo da scoprire ma in maniera incomprensibile questa inchiesta è stata rivelata. E adesso… è stato solo un errore?

·        Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato - ‘Ndrangheta.

Stato e 'ndrangheta tante volte hanno "trattato". Ilario Ammendolia su Il Quotidiano del Sud il 29 settembre 2021. IL processo sulla trattativa “Stato-mafia” nasce da fatti risalenti ai primi anni Novanta. Si tratta dello stesso periodo in cui lo Stato con suoi uomini ha trattato con la ‘ndrangheta durante il sequestro di Roberta Ghidini, una ragazza di Centenaro di Brescia sequestrata alle ore 7,30 del 15 novembre del 1991. Una serie di circostanze particolarmente fortunate portò ad individuare la cosca responsabile. Ma ormai la ragazza era in Calabria e l’Aspromonte appariva come una fortezza impenetrabile. Bisognava tutelare la sicurezza della ragazza e nello stesso tempo agire con la massima determinazione possibile perché le elezioni politiche erano alle porte. La Lombardia era ancora un serbatoio di voti per i partiti di governo ed in particolare della Dc ma la “Lega” incominciava a diventare una presenza insidiosa e la piaga dei sequestri, ad opera delle cosche calabresi, veniva utilizzata dai leghisti come una testa di ariete nella strategia di sfondamento. Inoltre, Centenaro è a un tiro di schioppo dalla casa di un importante ministro dell’epoca e la famiglia Ghidini è una famiglia nota in tutto il comprensorio. Lo Stato decide di mostrare i muscoli trasferendo in Calabria 1800 militari armati che mettono a ferro e fuoco molti paesi della Locride ma, contemporaneamente, inizia la trattativa. I servizi trattano ma hanno le spalle coperte eccome… sino al punto da far liberare dal carcere il boss Vincenzo Mazzaferro a cui verrà consegnata una borsa con 500 milioni ed un largo margine di azione in nome dello Stato. Il sequestro Ghidini si concluderà nel migliore dei modi. La ragazza verrà liberata nel giro di pochi giorni. I partiti di governo riconquisteranno il potere anche se per l’ultima volta. I sequestratori uscirono senza tanti danni. Vincenzo Mazzaferro avrà come premio la libertà ma, a quanto si dice, perderà la vita per fatti e misfatti legati al sequestro Ghidini. È stato l’unico caso in cui lo Stato trattò con la ‘ndrangheta? Niente affatto! Stato e ‘ndrangheta in pratica hanno sempre trattato (e, forse trattano ancora). Si trattò sicuramente durante “l’operazione Marzano” e poi a Montalto per far fallire il summit di tutte le cosche reggine e affinché restassero senza nome e senza volto gli incappucciati presenti al raduno. Si trattò durante la rivolta di Reggio. Si trattò con Ntoni Macrì, il boss dei boss della provincia di Reggio Calabria. Si trattò durante la drammatica stagione dei sequestri ed ancora dopo. Ho parlato della Calabria ma tracce evidenti di “Trattativa” sono evidenti nel coprire i responsabili della mattanza di sindacalisti siciliani e di braccianti calabresi durante gli assalti ai latifondi o dei responsabili della strategia della tensione e delle stragi. Con tali precedenti, perché a Palermo s’è deciso di aprire il processo “Trattativa” pur con prove dubbie? E perché una parte della “grande stampa” ha stabilito di dare un formidabile copertura mediatica fino all’ultimo giorno, al processo? Ci può essere di tutto dietro una tale scelta. Ci può essere la convinzione genuina e sofferta dei Pm come ci potrebbe essere una loro morbosa ricerca di notorietà, di fama, di carriera. Ci possono essere obiettivi politici e qualche resa dei conti all’interno dell’apparato dello Stato. Ma con la morte non si scherza e c’è qualcosa di inquietante ed esige una risposta in tempi rapidi. Mi riferisco alle pesanti (e presunte) minacce a Di Matteo ed a suoi colleghi così esposti da ipotizzare l’utilizzo dei mezzi blindati per tutelare la loro sicurezza. Più o meno come a Kabul. Ora, dal momento che Mori, Di Donno, Subrianni e Dell’Utri sono innocenti (e tali li dobbiamo considerare) risulta arduo pensare che le minacce di morte potessero provenire da ambienti vicino agli imputati. Quindi, bisognerebbe indagare in altre direzioni, senza escludere che vi siano oscuri mondi che confezionano minacce per fini inconfessabili ma facilmente comprensibili e sino al punto da mettere a rischio vite umane, sprecare fiumi di denaro e, soprattutto, inquinare e manomettere la democrazia nel nostro Paese.

·        Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-Camorra.

La vera Trattativa è quella del caso Cirillo. Massimo Bordin l'1 novembre 2018 su  Il Foglio. Un caso vecchio 37 anni, pacifico e non contestato, rimesso in discussione in un libro del giudice istruttore Carlo Alemi. Il “caso Cirillo” è una storia di 37 anni fa, quando camorra, Democrazia Cristiana e Brigate Rosse trattarono per il sequestro dell’assessore provinciale Ciro Cirillo rapito dalle Br a Napoli nel 1981. Una storia complicata, con molti punti ancora oscuri ma alcuni chiarissimi. In sostanza alcuni leader napoletani della Dc affidarono alla camorra di Raffaele Cutolo la salvezza dell’assessore in cambio di un riscatto che finì ai terroristi, dopo una trattativa in cui successe di tutto e che lasciò una scia di sangue e ricatti. Tutto ciò è assolutamente pacifico e non contestato. L’aspetto che qui si segnala è che il risultato processuale della storia resta non incompiuto ma inesistente. Nel processo che ne scaturì, il principale imputato fu Claudio Petruccioli, allora direttore dell’Unità, accusato della pubblicazione di un falso documento che parlava però di vicende forse non altrettanto false. Il giudice istruttore, Carlo Alemi, che allora aveva condotto le indagini ha ora scritto un libro in cui evidenzia la scelta della procura, da lui non condivisa, di tenere fuori i politici dal processo. Il suo libro documenta in modo ineccepibile la sua tesi, che non contesta il fatto che i servizi segreti abbiano contattato la camorra, ma che lo abbiano fatto non per avere informazioni sulle Br ma per trattare un riscatto. In un dibattito due giorni fa ad Avellino, Alemi ha chiaramente spiegato questo concetto. Ne consegue che siamo uno strano paese, con strani magistrati, alcuni non tutti. Di fronte a una trattativa in cui lo stato rafforza la mafia, il processo di fatto non si fa. Quando lo stato contatta un mafioso per arrestare il capo della mafia, si condannano i carabinieri. 

Morto Ciro Cirillo, il Dc sequestrato dalle Br e rilasciato dopo una oscura trattativa con la camorra. Aveva novantasei anni: Domani i funerali, scrive il 30 luglio 2017 "La Repubblica". Se ne sono andati un uomo e un pezzo di storia che sconvolse l'Italia. È morto all'età di 96 anni l'ex presidente della Regione Campania Ciro Cirillo. L'esponente di punta della Dc fu sequestrato a Torre del Greco (Napoli) dalle Brigate Rosse il 21 aprile1981 (quando era assessore ai lavori pubblici della Campania e presidente della commissione che doveva gestite tutti gli appalti del post terremoto del 1980) per poi essere rilasciato dopo diversi giorni di prigionia in circostanze ancora oggi avvolte da molti misteri. Un rapimento che ha segnato la memoria del nostro Paese con il primo serio sospetto di trattativa tra lo Stato, le Br e la camorra di Cutolo, a tre anni dal rapimento Moro. Durante il rapimento ci fu anche un conflitto a fuoco: furono uccisi l'agente di scorta Luigi Carbone e l'autista Mario Cancello, e venne gambizzato il segretario dell’allora assessore campano all'Urbanistica, Ciro Fiorillo. L'ultima uscita pubblica di Ciro Cirillo, l'ex presidente della Regione Campania è dell'anno scorso, quando decise di festeggiare insieme a figli, nipoti e gli altri parenti i suoi 95 anni. Era il febbraio del 2016 quando convocò i suoi cari al Circolo Nautico di Torre del Greco per un pranzo al quale presero parte diversi amici politici della vecchia Democrazia Cristiana, in particolare della città vesuviana dove risiedeva. Per l'occasione fu presente anche il sindaco Ciro Borriello. I funerali di Ciro Cirillo si svolgeranno domani, lunedì 31 luglio, a Torre del Greco, alle ore 16.30 nella chiesa dei Carmelitani Scalzi a corso Vittorio Emanuele. Il rapimento Cirillo per anni è stato avvolto dal mistero. Una vicenda scomoda su cui i riflettori sono rimasti sempre bassi, fino al febbraio dell'anno scorso quando lo stesso Cirillo rilascia un'intervista alla tv svizzera italiana, per negare con decisione ogni trattativa finalizzata al suo rilascio da parte del boss ("Lo escludo, assolutamente") e allo stesso tempo per rimestare antiche accuse: "Ci fu un'istruttoria, da parte del giudice Carlo Alemi, che aveva un solo obiettivo, incastrare Antonio Gava, allora ministro dell’Interno".  Accuse  che il giudice ha prontamente ricusato, con un 'intervista all'Espresso: “Mi sembra incredibile che il dottor Cirillo abbia oggi fatto quelle affermazioni, totalmente discordanti peraltro con quanto affermò, in mia presenza ed al mio indirizzo, il 19 maggio 2008, all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, in occasione della presentazione del documentario “La trattativa” del programma Rai “La storia siamo noi”, allorché mi disse: “Anzi penso che mai come in questo momento avremmo tutti bisogno di magistrati coraggiosi e onesti come lei”. Intrecci mai chiariti e che ora con la morte di Cirillo tornano a infittirsi. Infatti in un'intervista a Repubblica, a firma di Giuseppe D'Avanzo, nel 2001 Cirillo disse di aver affidato la verità sul suo rapimento a un memoriale di una quarantina di pagine consegnato a un notaio con l'impegno di renderlo pubblico solo dopo la sua morte. Ma in una successiva intervista al Mattino ritrattò: "Dissi anche che lo avevo dato ad un notaio, che lo conservava in cassaforte. Non era vero. Ma quell'invenzione ebbe effetto, per un po' sono stato lasciato in pace dai giornalisti".

Rapimento Cirillo: le Br, Cutolo e la Dc. Così D'Avanzo raccontò la trattativa. E il suo clamoroso prezzo. L'articolo di Giuseppe D'Avanzo su Repubblica del primo febbraio 1985, di Giuseppe D'Avanzo, pubblicato su Repubblica il primo febbraio 1985. "Può dirsi sufficientemente provato che nelle trattative per il rilascio di Ciro Cirillo sono intervenuti esponenti democristiani ed esponenti dei servizi segreti". Il giudice istruttore di Napoli, Carlo Alemi, non ha dubbi. Nella lunga ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio dei brigatisti della colonna napoletana delle Br il magistrato affronta al capitolo nono "le trattative per il sequestro Cirillo". Soltanto tredici pagine, ma un rosario di testimonianze sufficienti a fargli chiedere un'ulteriore "approfondita istruttoria" per conoscere "l'esatto ruolo svolto dalla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo per il rilascio di Cirillo; l'intervento di esponenti di partiti politici che hanno fatto da tramite ed eventualmente da garanti tra le Br e Cutolo nello sviluppo della trattativa; il ruolo svolto durante i giorni del sequestro dai servizi segreti e se questo sia stato contenuto nell'ambito dei compiti istituzionali". Le tredici pagine, tuttavia, con le testimonianze dei brigatisti pentiti già disegnano lo scenario della trattativa, i suoi protagonisti, il prezzo che gli intermediari si dicevano pronti a pagare per la liberazione dell'assessore regionale Dc. E se il prezzo è clamoroso - forse fu offerta anche l'indicazione del luogo dove era custodito Patrizio Peci -, altrettanto clamoroso è l'unico nome di protagonista che salta fuori, Gava: nome sussurrato da tempo ma mai entrato finora in un'inchiesta giudiziaria. A vuotare il sacco sono stati Pasquale Aprea e Maria Rosaria Perna, i carcerieri di Cirillo nei due mesi della sua prigionia. "Nella prima decade di maggio - hanno raccontato - durante la fase in cui il sequestro andava politicamente malissimo, le Br con lo spostamento dei compagni detenuti ad Ascoli seppero che la camorra dietro pressioni di esponenti politici napoletani offriva per la liberazione di Cirillo 5 miliardi, armi a volontà, un elenco di magistrati napoletani con relativi indirizzi. Anzi si offriva di effettuare agguati ai danni di magistrati indicati dalle Brigate rosse". Antonio Chiocchi, uno dei fondatori della colonna napoletana, riferì in più occasioni ai due che "Gava era andato da Cutolo per trattare la liberazione di Cirillo presso le Brigate rosse". Silvio o Antonio Gava? Il magistrato non lo scrive. Inizialmente la trattativa si arena di fronte al rifiuto dei terroristi. Maurizio Stoccoro, un altro pentito, ha confermato di aver saputo da Giovanni Planzio, capo storico della colonna, "che Cutolo era intervenuto per sollecitare il rilascio di Cirillo in quanto alla camorra serviva che venissero allentati i posti di blocco della Polizia che ne impedivano tutti i traffici illeciti". "Cutolo ci offrì - ha raccontato Stoccoro - denaro, due o più miliardi, molte armi. Quante ne avessimo volute". Un'offerta che non interessò le Brigate rosse. L'attacco delle Br, infatti, - ha spiegato Stoccoro ai magistrati - era rivolto alla Dc proprio per dimostrare che mentre la Democrazia cristiana per Moro non aveva voluto trattare, aveva invece trattato per Cirillo". A maggio la trattativa ha una svolta. Comincia l'andirivieni di camorristi e brigatisti nel carcere di Ascoli Piceno e di Palmi. Giovanni Planzio ha detto ai giornalisti che "per Cirillo cominciarono a muoversi i servizi segreti". Con l'arrivo ad Ascoli Piceno degli uomini del colonnello Musumeci aumenta anche il prezzo offerto alle Brigate rosse. Intermediari Luigi Bosso, un delinquente comune politicizzatosi in carcere, e Sante Notarnicola. "Alle Brigate rosse - annota il giudice istruttore - viene offerto un grosso quantitativo di mitra, un elenco di carabinieri e di magistrati dell'antiguerriglia, l'indicazione del luogo in cui era custodito Patrizio Peci". Il superpentito delle Br era in quelle settimane - siamo nella primavera dell'81 - nelle mani delle squadre speciali del generale Dalla Chiesa. Chi dichiarò la disponibilità di far conoscere alle Brigate rosse il preziosissimo indirizzo? Gli omissis dell'ordinanza lasciano la domanda senza risposta. Ad avviare finalmente la trattativa fu Giovanni Senzani, il leader della colonna Napoli. Ha raccontato Maria Rosaria Aprea: "Una sera Senzani, entrando a casa, disse: "Qui ci facciamo pure i soldi". Antonio Chiocchi e Pasquale Aprea si ribellarono con asprezza al loro capo. Ma Senzani ribadì "la correttezza politica di tale richiesta". "Gli obiettivi politici - spiegò - sono stati raggiunti. La corresponsione di sussidi ai disoccupati, la smobilitazione della roulottopoli dei terremotati, la pubblicazione dei verbali di interrogatorio di Cirillo. E' giusto - conclude il criminologo - espropriare Cirillo, la sua famiglia, la Democrazia cristiana"". L'intera ricostruzione della trattativa è stata confermata da altri pentiti. Michele Galati, membro del direttivo della "colonna veneta" delle Br, nel carcere di Cuneo incontrò i brigatisti Moretti, Guagliardo, Franceschini. Il giudizio politico che espressero sulla trattativa fu lapidario. "Le Br - sostennero Moretti e Franceschini - non avevano alcun interesse ad un pagamento da parte di alcuni palazzinari napoletani ma puntarono immediatamente ad una trattativa che vedesse direttamente coinvolta la Dc". Enrico Fenzi, brigatista e cognato di Senzani, molto vicino al leader Mario Moretti, ha riferito, dal suo canto, ai giudici: "Moretti ripetè più di una volta che era venuto fuori e bisognava pur dirlo che se Cirillo non era stato ammazzato ciò era dovuto all'intervento di Cutolo". Testimonianze confermate dal maresciallo Angelo Incandela, comandante degli agenti di custodia del carcere di Cuneo: "Sì, il pentito Sanna ci tracciò tutto il quadro delle trattative intercorse tra servizi segreti, camorra e Brigate rosse al fine di ottenere la liberazione di Cirillo". E Luigi Bosso ha confermato, prima della sua morte improvvisa, che fu "Cutolo ad attribuirgli l'incarico di entrare in contatto con i brigatisti di Palmi, latore di questo messaggio: la Dc è disposta a trattare a tutti i livelli attraverso il canale di Cutolo".

E Cirillo disse a D'Avanzo: "La verità? E' dal notaio". L'assessore regionale Dc, sequestrato nel 1981 dalle Br e rilasciato dopo una trattativa che vide intermediario il boss camorrista Raffaele Cutolo, vent'anni dopo incontrò il giornalista. "Glielo dico subito, non le racconterò quello che so: non voglio farmi sparare. Ho scritto tutto in una quarantina di pagine. Dopo la mia morte si vedrà", di Giuseppe D'Avanzo, pubblicato su Repubblica il 12 aprile 2001. Ciro Cirillo, scatarrando come una locomotiva ("Mi sono raffreddato, maledizione"), viene giù con passo svelto dal piano superiore della villa bianca nel sole. Prende posto nell'angolo del divano bianco, oltre la tenda e la grande finestra c'è il mare di Napoli e, alle spalle, il Vesuvio. Ciro Cirillo, 80 anni, è vispo come un grillo. Ride, sorride, ammicca, allude, insinua, ricorda, omette, dissimula. Se il più crudo cinismo può essere bonario, Ciro Cirillo è un cinico bonario. Bonario soprattutto con se stesso. Si è appena seduto e subito la mette giù, bella chiara: "Signore mio, glielo dico subito, io non le racconterò la verità del mio sequestro. Quella, la tengo per me, anche se sono passati ormai venti anni. Sa che cosa ho fatto? Ho scritto tutto. Quella verità è in una quarantina di pagine che ho consegnato al notaio. Dopo la mia morte, si vedrà. Ora non voglio farmi sparare - a ottant'anni, poi! - per le cose che dico e che so di quel che è accaduto dentro e intorno al mio sequestro, dopo la mia liberazione...". Alle 21,45 del 27 aprile 1981 nel garage di via Cimaglia a Torre del Greco, Napoli, le Brigate Rosse sequestrano l'assessore regionale all'Urbanistica, Ciro Cirillo. Cinque persone lo attendono nell'oscurità e quando ne vengono fuori stanno già sparando. Muoiono Luigi Carbone, agente di scorta, Mario Cancello, autista. Ciro Cirillo fu prigioniero delle Brigate Rosse per ottantanove giorni. "Mi tenevano in una casetta di legno all'interno di un appartamento. C'era un lettino e un wc chimico. Ogni sera - ricorda Cirillo - arrivava il fiorentino, quel Senzani, e cominciava a soffocarmi di domande. C'era stato il terremoto, la Dc mi aveva messo alla testa della commissione tecnica per la ricostruzione e Senzani voleva da me 'i piani'. Dove tieni 'i piani'? Ce li hai a casa? Andiamo a prenderli! Come se i piani fossero già pronti. Che gli dovevo dire? Che io nemmeno volevo fare l'assessore all'urbanistica? Era vero, finii lì controvoglia, a sapere che cosa mi sarebbe successo... Dunque, quello mi interrogava e io rispondevo il meno possibile. Facevo il fesso. Tu, mi diceva Senzani, sei il punto di riferimento di questo regime e io non capivo nemmeno di quale regime parlasse. Mi diceva: noi abbiamo visto che, con l'uccisione di Aldo Moro, non abbiamo avuto il rivolgimento che ci aspettavamo e abbiamo deciso di cambiare area, obiettivo e metodo. Il metodo era di cavare i soldi di un riscatto dal mio sequestro. Cominciarono a chiedermi quanti soldi avessi. Io, di soldi, non avevo poi tanti. Sì e no, una cinquantina di milioni al Banco di Napoli. E gli amici? - mi chiedevano i brigatisti - Quanto ti possono dare gli amici politici, gli amici imprenditori? Ma quali imprenditori, dicevo io...". Negli atti, non è questa la storia. Ciro Cirillo indica ai figli gli "amici" che gli devono un favore. Per quel tale mi sono "interessato", a quell'altro ricordategli dell'appalto, a quell'altro poi ditegli di quel mio "intervento". Ciro Cirillo nella "casetta di legno" butta giù una lista di nomi. Albino Bacci, Bruno Brancaccio, Italo Della Morte, Michele Principe, presidente della Stet... Sono lunghe quelle notti nella casa di Antonio Gava sulla collina di Posillipo. Don Antonio li convoca. Gli imprenditori accorrono e si sistemano intorno al tavolo nel Cubo. Il Cubo è bianco, gigantesco, piazzato al centro del salone e protetto da due porte scorrevoli. Antonio Gava di tanto in tanto si allontana per ricevere un giornalista, per parlare con il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani e li lascià lì a fare i conti di quel che possono dare o devono dare. Tutti gli imprenditori edili napoletani che avevano partecipato al sacco della città negli Anni Cinquanta e Sessanta, legati a cappio doppio alla Dc di Antonio Gava, mettono mano al portafoglio e partecipano alla "colletta". Saranno ripagati per quel gesto di solidarietà e si taglieranno, al momento opportuno, una bella fetta nella torta della ricostruzione. Ciro Cirillo ha bevuto il suo caffè. Ora si guarda intorno soddisfatto mentre si sistema più comodamente nell'angolo del divano. "Sa che cosa mi chiedo qualche volta? Mi chiedo: a chi devi ringraziare, Ciro? Sa come rispondo? Ciro, tu non devi ringraziare nessuno perché - glielo voglio dire - quelli là, gli imprenditori mica hanno fatto grandi sacrifici. Glien'è venuto solo bene ad aiutarmi. Tanto bene e tanti affari". I soldi degli imprenditori era necessari, ma non potevano essere sufficienti. Chi avrebbe convinto i brigatisti a intascare il denaro e a lasciar libero il prigioniero? C'era un solo uomo che aveva quel potere, pensano i dorotei. Quell'uomo era in carcere ad Ascoli Piceno e si chiamava Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata. A sedici ore dal sequestro, nel carcere di Ascoli Piceno si presenta un uomo del Sisde. E' solo la prima di una lunga teoria di visite illegali, non autorizzate, segrete. Dinanzi al camorrista sfileranno spioni, camorristi latitanti, "ambasciatori" delle Brigate Rosse, "due uomini politici di livello nazionale". Cutolo fa il prezioso, si lascia pregare e implorare. Chiede sconti di pena per i suoi, per sé perizie psichiatriche per venir fuori dalla galera, vuole appalti della ricostruzione a vantaggio delle imprese che controlla e qualche miliarduccio per la mediazione. Gli dicono: "Tranquillo, entro due o tre anni uscirai...". Cutolo ricorda: "Mi è stato promesso che sarei uscito dal carcere. Mi fecero balenare la possibilità formale della scarcerazione...". Incassato il "premio" per il presente e assicurazioni per il futuro, il camorrista offre alle Br "soldi, armi e una lista di indirizzi per eseguire le condanne a morte di magistrati antiterrorismo e un elenco di esponenti delle forze dell'ordine". Quel che soltanto nel 1978 la Dc e lo Stato si erano rifiutati di accettare per uno statista del livello di Aldo Moro, decretandone - come sostiene oggi Francesco Cossiga - la morte, va in porto per Ciro Cirillo. Il riscatto venne pagato. Senzani intasca su un bus di Roma 1 miliardo e 450 milioni. Cutolo sdegnato dice di aver rifiutato la tangente. I suoi lo contraddicono: "Si mise in tasca una cifra che oscillò tra i 2 miliardi e 800 milioni al miliardo e mezzo". All'alba del 24 luglio 1981, Ciro Cirillo viene rilasciato in un palazzo abbandonato in via Stadera a Poggioreale. Ciro Cirillo non appare imbarazzato. Non c'è nessuna incertezza nella sua voce, nessun dubbio nelle sue parole. Si attende la domanda. Deve essere una domanda che in questi venti anni si sarà sentito fare mille volte. Ha imparato a fronteggiarla anche se, a quanto pare, sembra gradirla come una pernacchia. "Ora a questo punto, signore mio, lei mi chiederà: perché per Moro la fermezza e per lei la trattativa? Me la faccia. So che deve farmela. E allora me la faccio da solo perché conosco la risposta: la Dc non poteva tollerare altro sangue, non avrebbe sopportato un altro esponente di prima fila morto ammazzato dai terroristi. Così il segretario del partito Flaminio Piccoli e il mio amico Antonio Gava decisero di darsi da fare. Non creda alla chiacchiere sulla trattativa con Cutolo. Fu Cutolo a farsi avanti. Gli affari della camorra, con tutta quella polizia nelle strade, stavano andando a rotoli. E allora meglio offrire un aiuto e darci un taglio a quella storia". Ciro Cirillo dice proprio così, lo dice con una soddisfazione che gli fa luccicare gli occhi. Le Br non dissiparono il gruzzolo del riscatto. Si armarono meglio. Uccisero. Nel primo anniversario del sequestro di Cirillo, il 28 aprile 1983, ammazzarono Raffaele Delcogliano, assessore campano alla formazione professionale. Lo uccisero con il suo autista, Aldo Iermano. Il 28 luglio 1982, spararono in faccia al capo della squadra mobile di Napoli, Antonio Ammaturo e al suo autista, Pasquale Paola. Assaltarono due caserme dell'Esercito. Ci rimisero la vita un soldato di leva, Antonio Palumbo, e due agenti di polizia, Antonio Bandiera e Mario De Marco. Nella camorra per due anni si scatenò la più violenta guerra della sua storia scandita da mille morti all'anno. I rivali di Cutolo videro nel patto stretto dal camorrista con i politici e gli imprenditori una definitiva minaccia per il loro potere e affari e partirono all'attacco sterminando sistematicamente gli uomini della Nuova Camorra Organizzata, minacciando i dorotei campani per goderne dei favori, assediando gli imprenditori per sciogliere il nodo che li legava a Cutolo. "Se vuole sapere come andò dopo, glielo dico...". Ciro Cirillo è un fiume in piena. "La verità è che io sono stato umiliato, mortificato. Perché? E me lo chiede. Ero sulla cresta dell'onda. Sarei diventato ancora presidente della Regione. Avrei gestito la ricostruzione della regione. Sarei stato eletto in Parlamento. Avrei fatto il ministro. Beh, quanto meno il sottosegretario. Invece accadde che dopo la liberazione mi fecero sapere che era meglio che non mi facessi più vedere alle riunioni di partito. Nomi non ne faccio, no. Sono personaggi in auge e nomi non ne faccio. Comunque, uno di questi signori mi avvicina e mi dice: “Ciro, con la tua presenza nuoci al partito...”. Capito, a me che per un soffio non ero stato accoppato dalle Br, dicono: fatti più in là, sparisci. No, non li odio. Certo, non posso considerare i Popolari di oggi dei miei amici". Il 16 marzo 1982 l'Unità pubblica in prima pagina la notizia che per la liberazione di Cirillo erano stati coinvolti i vertici dei servizi segreti e il capo della camorra Cutolo. E' la verità sostanziale affondata dalla falsità del documento che la raccoglie. Lo scoop è l'inizio della più imponente operazione di cancellazione di prove e di morte di testimoni che abbia mai funestato un caso politico-giudiziario. Muoiono i latitanti che trattarono dentro e fuori il carcere per conto di Cutolo. Muoiono gli ufficiali dei servizi segreti che accompagnarono la trattativa. Muore l'avvocato di Cutolo che faceva da messaggero. Muore l'ambasciatore delle Brigate Rosse. Muoiono suicidi i compagni di cella del camorrista. Le Brigate Rosse si incaricano di ammazzare Antonio Ammaturo che aveva ricostruito la vicenda in un dossier spedito al Viminale e scomparso per sempre. Nonostante le difficoltà, il giudice istruttore Carlo Alemi, il 28 luglio 1988 deposita la sua ordinanza di rinvio a giudizio e scrive delle trattativa e del "patto scellerato" stretto dalla Dc con la camorra. Antonio Gava è il ministro degli Interni della Repubblica nel governo presieduto da Ciriaco De Mita. Che tuonerà: "Alemi è un giudice che si è posto fuori del circuito istituzionale" (Alemi è un uomo gentile e riservato. E lo è rimasto anche dinanzi alla persecuzione e i processi disciplinari che ha dovuto subire per quella sua indagine. Oggi è presidente del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere). E' a suo agio Ciro Cirillo quando parla del processo. "Quello non era un processo, fu un tentativo di mettere in difficoltà il mio amico Antonio Gava. Lei sa che cosa disse la sentenza? Disse: “E' stato impossibile accertare la verità”. Vede che quei quaranta fogli che ho lasciato nella cassaforte del mio notaio, prima o poi, torneranno utili?"

Chi trattò con la camorra per salvare Cirillo? Forse nessuno, scrive Paolo Comi l'1 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Il vecchio assessore democristiano è morto domenica a 96 anni. Fu al centro di un mistero mai risolto e di gigantesche polemiche. A 96 anni, domenica, è morto Ciro Cirillo, gran democristiano anni 70 in Campania. Aveva sessant’anni, il 21 aprile del 1981, quando un commando delle Br lo aspettò sotto casa, a Torre del Greco, la sera, all’ora di cena, e appena la sua auto si fermò, il commando iniziò a sparare, come si faceva in quegli anni. Restarono sull’asfalto, morti stecchiti, il suo autista e la guardia del copro, un maresciallo dei carabinieri. Mentre il suo segretario particolare, un ragazzo di trent’anni, si salvò, ma con la gamba maciullata. Lui restò illeso. I brigatisti lo sollevarono di peso, lo gettarono nel cassone d’un furgone e lo portarono nella prigione del popolo. Li guidava un certo Giovanni Senzani, che era stato un consulente del ministero di giustizia, era uno studioso, un sociologo. Ala militarista delle Br. Da quel giorno iniziarono mesi di fuoco, paragonabili forse solo ai due mesi di tre anni primi, quelli celebri del rapimento di Aldo Moro nel 1978. Diamo un’occhiata alle date che separano l’inizio di aprile all’inizio di agosto del 1981. 4 aprile, notte, una strada di periferia a Milano, al polizia intercetta Mario Moretti ed il professor Enrico Fenzi che stanno andando a trovare un esponente della mala che loro non sanno essere un confidente della questura. Moretti e Fenzi vengono bloccati, immobilizzati e disarmati. Moretti è considerato il capo assoluto delle Br, l’erede di Curcio, il cervello del sequestro Moro e anche l’uomo che ha sparato al presidente della Dc. Fenzi è uno dei leader dell’ala militare delle Br, e Moretti è in lite con lui. Fatto sta che le Br sono decapitate. Prendono il comando Barbara Balzerani, che guida i movimentisti, e, appunto, Senzani del quale abbiamo già parlato come leader dei militaristi. Però tutto si può dire meno che l’arresto di Moretti abbia indebolito l’organizzazione. Passano poco più di due settimane dal colpo a favore della polizia e Senzani risponde. 21 aprile, rapito Ciro Cirillo. 20 maggio, Porto Marghera, un commando, pare guidato da Antonio Savasta, entra in casa di un dirigente del Petrolchimico della Montedison, un certo Giuseppe Taliercio, e se lo porta via. Due settimane dopo un altro dirigente d’azienda, Renzo Sandrucci, uomo Alfa Romeo, viene sequestrato a Milano. È il 3 giugno. La settimana successiva, il 10 giugno, tocca a a Roberto Peci, che è il fratello di Patrizio Peci, il primo pentito della storia delle Br. Roberto non ha neanche 30 anni. Il suo rapimento è una vendetta trasversale. A questo punto le Brigate Rosse si trovano ad avere contemporaneamente nelle loro mani quattro prigionieri. Un giorno sì e uno no arrivano proclami, dichiarazioni, confessioni, fotografie, richieste di riscatto. E le azioni militari non si limitano alla gestione delle prigioni del popolo e agli interrogatori. Si spara, si ferisce, si uccide per strada. Negli stessi giorni dei quattro rapimenti vengono uccisi Raffaele Cinotti, Mario Cancello, Luigi Carbone, Sebastiano Vinci. Ciascuno in un giorno diverso e in un luogo diverso: tutti e quattro poliziotti. Era quello il clima in quegli anni. Non è facile crederci, magari, ma la lotta politica avveniva in questo clima qui. Eppure non prevaleva la pulsione repressiva, illiberale. Pensate che in quegli stessi anni il Parlamento approvava le leggi- Gozzini, e cioè una serie di norme, che oggi vengono considerate dai più ultraliberali, che attenuano le pene, introducono premi e semilibertà e misure alternative al carcere…

I quattro sequestri hanno esiti diversi. Il 5 luglio si conclude tragicamente il sequestro di Taliercio. L’ingegnere viene ucciso in modo barbaro. L’autopsia stabilisce che era ferito, aveva dei denti rotti e non mangiava da cinque giorni. Taliercio si era rifiutato di collaborare, probabilmente aveva mantenuto un atteggiamento di sfida. Il processo per la sua morte si concluderà con tre condanne all’ergastolo per tre brigatisti poco conosciuti, mentre il leader della colonna, il romano Antonio Savasta, che collabora con gli inquirenti, se la cava con dieci anni. Il nome di Taliercio, chissà perché, scompare dal Pantheon degli eroi di quegli anni. Non so quanti siano gli italiani che oggi, se gli chiedi a bruciapelo chi era Taliercio, sono in grado di rispondere. Temo poche centinaia. Il 23 e il 24 luglio, nel giro di poche ore, si concludono positivamente il sequestro Sandrucci e quello Cirillo. Vengono liberati tutti e due. Per tutti e due è stato pagato un riscatto. Pochi giorni dopo, il 3 agosto, la notizia atroce dell’uccisione di Roberto Peci, che ha una figlioletta di un anno, viene processato dal tribunale dei terroristi davanti a una telecamera, e poi, davanti alla telecamera, ucciso con una mitraglietta. La cassetta di questo obbrobrio viene mandata ai giornali. Di suo fratello Patrizio, che era l’obiettivo di questa spietatezza, non si saprà mai più niente. Ha cambiato nome, ha cambiato connotati – pare – con una operazione di chirurgia plastica, vive in una località sconosciuta. Ora dovrebbe avere un po’ meno di settant’anni. Di come si sia ottenuta la liberazione di Sandrucci non si sa molto e non si parla molto. La liberazione di Cirillo invece solleva un pandemonio di polemiche. Questo Cirillo è l’ex presidente della Regione, è un uomo forte della cosiddetta corrente del Golfo, cioè quella corrente democristiana che fa capo ad Antonio Gava e che è il braccio napoletano dei dorotei. Cirillo, al momento del sequestro, è l’assessore all’urbanistica della Campania e si occupa dell’immenso affare della ricostruzione dopo il terremoto del 1980. I giornali raccontano che per liberarlo, il suo partito, che appena tre anni prima non ha voluto trattare con le Br per salvare Moro, ha trattato invece, eccome, non solo con le Br ma anche con la camorra di Raffaele Cutolo che avrebbe fatto da intermediaria. Non si saprà mai se è vero. Si sa che un riscatto di un miliardo e 400 milioni di lire (cifra molto alta per quell’epoca, quando un’automobile di media cilindrata costava circa quattro-cinque milioni) è stato pagato a Roma, il 21 luglio, all’interno di un tram (il numero 19) che va dalla stazione Termini a Centocelle. I soldi li porta in un borsone un amico di Cirillo e li consegna a Giovanni Senzani in persona, che acchiappa la borsa, scende al volo da un tram e vola via con una Fiat 128 che lo aspetta alla fermata. La Dc raccolse i soldi? Il segretario democristiano Flaminio Piccoli sapeva? E Antonio Gava?

L’anno dopo l’Unità, cioè il giornale del Pci, pubblica uno scoop clamoroso: è stato il ministro Vincenzo Scotti in persona a trattare con la camorra, anzi è andato personalmente in carcere a discutere con Raffaele Cutolo. E’ una bomba atomica sulla politica italiana. Ma poche ore dopo l’uscita del giornale si scopre che il documento che accusa Scotti è falso. E’ una contraffazione realizzata da un certo Gino Rotondi (che non si saprà mai se lavorava per la camorra, o per i servizi segreti, o se era un mitomane) che la consegna a una giovanissima cronista del giornale dei comunisti. Lo scandalo a quel punto si rovescia e travolge tutti i dirigenti dell’Unità, a partire dal direttore, il giovane Claudio Petruccioli, che si dimette dopo poche ore, e persino qualche dirigente del Pci, e precisamente il vice di Berlinguer, Alessandro Natta, che si dimette anche lui dal suo incarico. Il capogruppo Giorgio Napolitano prende la parola alla Camera e chiede scusa a nome del partito e del giornale. Allora le cose andavano così, a voi verrà da sorridere ma è la verità: se un giornale pubblicava una notizia falsa (cosa che oggi avviene quasi tutti i giorni su moltissimi giornali) poi era un casino e addirittura il direttore ci rimetteva il posto. Non potevi neppure mettere in pagina delle intercettazioni un pop’ contraffatte, perché rischiavi grosso…Il caso Cirillo finì così. La Dc se la cavò. Nessuno mai seppe la verità. Recentemente Giovanni Senzani – che oggi è libero e un paio d’anni fa ha presentato un suo film, pare piuttosto bello, a Locarno – in una intervista al “Garantista” ha giurato che non ci fu nessuna trattativa né con la camorra né con la Dc. Che pagarono i parenti di Cirillo. Lui, Cirillo, una volta libero fu costretto a ritirarsi dalla politica. In un’intervista a Repubblica disse che la verità l’aveva detta a un notaio e che sarebbe diventata pubblica dopo la sua morte, Cioè ora. Poi però smentì, e disse che non c’era nessun segreto. Adesso aspettiamo un paio di giorni per vedere se esce fuori ‘ sto notaio. Altrimenti ci dovremo rassegnare all’idea che probabilmente furono davvero i parenti di Cirillo a tirare fuori il miliardo e rotti e che la Dc non c’entrava niente.

CAMORRA, POLITICA & SERVIZI – SE ORA PARLA PASQUALE SCOTTI. Andrea Cinquegrani il 28 Maggio 2015 su La Voce delle Voci. E’ finita la latitanza record, 31 anni, del camorrista più ricercato, il braccio destro di Raffaele Cutolo, l’uomo di tutti i segreti e soprattutto l’uomo dei contatti con il Potere. Pasquale Scotti fu protagonista, alla vigilia di Natale ’84, della più incredibile delle fughe da quell’ospedale di Caserta – guarda caso poche settimane fa “sciolto” per mafia, primo caso in Italia – dove era ricoverato: uscì tranquillamente, visto che l’addetto alla sua sorveglianza forse si era distratto un momento. Meglio così. Non potè mai confermare in un’aula giudiziaria quei verbali di fuoco che aveva riempito per settimane alla procura di Santa Maria Capua Vetere, pm Vincenzo Scolastico che dopo alcuni mesi “stranamente” si trasferì al nord (ora è procuratore aggiunto di Genova). Parlò di tutto: del caso Cirillo (e, chissà, del mister x dc che incontrò Cutolo nel carcere di Ascoli), della trattativa Dc-camorra-Br, dei patti sanciti, dei grandi appalti di opere pubbliche e di subappalti post terremoto alle imprese di camorra; e di politici, servizi segreti, istituzioni. Forse del suo grande amico Francesco Pazienza, degli altri camorristi al servizio dei Servizi e con tanto di tesserino. E forse di due morti eccellenti: quella del banchiere Roberto Calvi, “impiccato” sotto il ponte dei Frati Neri a Londra, e quella del piduista ed ex capo dei Servizi Giuseppe Santovito, misteriosamente morto in una clinica romana. Ora è venuto il momento di uno “Scotti bis”: è l’occasione, dopo una vita, di riprendere quelle carte, quei documenti. Di mettere un punto fermo ai tanti interrogativi rimasti. Di inchiodare, una volta per tutte, alle loro responsabilità protagonisti di stagioni scellerate, di scempi del territorio, di collusioni istituzionali che hanno consentito alla camorra di espandersi senza alcun freno. La Voce delle Campania (poi diventata “la Voce delle Voci”) a partire dalla fine del 1984 realizzò grosse inchieste sulle rampanti imprese di camorra. E pubblicò ampi stralci di alcuni bollenti verbali d’interrogatorio (non solo di Pasquale Scotti, ma anche di altri pentiti). Così sintetizzavamo nell’editoriale di gennaio 1985: “La camorra è entrata nelle istituzioni: è diventata una vera e propria azienda in grado di muovere e gestire miliardi, di ricevere appalti pubblici e privati, di avere conti in banca e far eleggere anche propri adepti. Come stupirsi dei suoi successi quando la pratica del clientelismo imperversa? Quando la clientela viene istituzionalizzata? Quando lo Stato non funziona, non è presente o lo è, quando lo è, in modo poco chiaro e pulito?”. “Comincia a delinearsi il profilo economico della Holding Camorra, s’inizia a capire in che modo, attraverso quali canali i clan stanno cercando di spartirsi i miliardi di opere colossali come lo scalo merci di Maddaloni o la realizzazione della Pozzuoli bis, cioè Monteruscello”. Queste cose le scrivevamo esattamente trenta anni fa, 1985 (nella foto la copertina della Voce di gennaio ’85). Guarda caso, una mega inchiesta su Monteruscello venne archiviata in istruttoria, a Napoli, per volere dell’allora procuratore capo Alfredo Sant’Elia e preciso imput politico di un potente dc dell’epoca, Vincenzo Scotti (il cui nome, guarda caso, verrà tirato in ballo dal “falso” scoop dell’Unità sulle visite “eccellenti” al carcere di Ascoli Piceno per la trattativa Cirillo). L’altra maxi inchiesta, sul dopo terremoto ’80, dopo anni e anni di inutili indagini, morirà per la solita prescrizione, e neanche una parola sulla presenza della camorra – come ad esempio le verbalizzazioni di Pasquale Scotti già ampiamente dimostravano – nella ricostruzione. Inchiesta sui Regi Lagni, altro flop. Per lo scalo di Maddaloni non si hanno notizie, né su altri appalti: quando invece le connection affaristico malavitose erano palesemente sotto gli occhi. Ma lorsignori, i potenti dei Palazzi, i manovratori, i colletti bianchi non potevano essere certo toccati. Vediamo alcune tra le dichiarazioni più significative di allora, firmate da Pasquale Scotti, nella cover story della Voce di gennaio ’85, “Camorra su il sipario”, dove campeggia la foto della primula rossa. A proposito di una rampante impresa dell’epoca, la Sorrentino Costruzioni Generali, che puntava agli appalti di Monteruscello e di Maddaloni, così verbalizzò a fine ’84: “Bruno Sorrentino da anni finanzia la Nco, facendo versare alle ditte alle quali cedeva in subappalto i lavori da lui acquisiti, tangenti per un ammontare oscillante tra il 5 e il 10 per cento del valore delle opere. Lui, poi, che conosceva le imprese più importanti che operavano nelle nostre zone, ci faceva da intermediario percependo le tangenti e versandole ad Enzo Casillo e poi, dopo la sua morte, a Carmine Esposito e talvolta a Mario De Sena e Oreste Lettieri. Inoltre Sorrentino ci indicava i nomi degli imprenditori suoi amici, ovvero di sua conoscenza, che comunque avrebbe potuto contattare dopo le usuali telefonate e richieste estorsive effettuate da nostri inviati. Quando si interveniva su di un affare al quale erano interessati anche altri clan, per non creare problemi, lo incaricavamo di mediare tra noi e loro, visto che era in buoni rapporti con gli esponenti dei su citati clan”. I Sorrentino nell’83 si aggiudicheranno alcuni lotti dei lavori di Monteruscello. Dello stesso periodo il passaggio di un appartamento di via Petrarca, a Napoli, dai Sorrentino a Paolo Cirino Pomicino: “non li conoscevo prima – dichiarerà poi ‘O ministro – mia moglie ha trovato l’annuncio sul Mattino”, smentito clamorosamente da una sua missiva inviata su carta ministeriale ad uno dei fratelli, Alessandro, che mesi dopo finirà crivellato di colpi in un agguato di camorra. Eccoci ad un’altra verbalizzazione, relativa ad un altro vip del mattone, il cavaliere del lavoro Giovanni Maggiò, allora al vertice dell’Unione industriali e della Camera di commercio di Caserta. “Maggiò ci versò, prima del mio arresto, una rata di circa 70 milioni su un importo pattuito di 300 milioni, per un cantiere aperto ad Afragola. Anche per la costruzione del tribunale di Napoli Maggiò ha pagato prima a Vincenzo Casillo, poi a me, 20 milioni ogni due o tre mesi, oltre ad una grossa somma pagata inizialmente a Casillo, e ad una somma mensile pagata sempre a Casillo e calcolata sulla cubatura del calcestruzzo utilizzata”.

PARLA IL PENTITO AURIEMMA. Di grosso interesse, poi, vedere cosa racconta di Pasquale Scotti un altro pentito di camorra, Giovanni Auriemma, che la Voce sentì a luglio ’86. Autore dell’intervista Silvestro Montanaro, che poi passerà nell’equipe di Michele Santoro alle prese con la prima Samarcanda. Auriemma esordì con un botto: “Il generale Santovito, il capo dei servizi segreti italiani, è stato avvelenato. Francesco Pazienza ne sa qualcosa!”. Il racconto proseguì come un fiume in piena: “E’ proprio in galera che sono stato messo al corrente di questo delitto. Anch’io rimasi sbalordito apprendendo i retroscena della morte del generale. Ma non avevo motivo di dubitare. A raccontarmi quella storia fu Pasquale Scotti, divenuto, dopo la morte di Francesco Casillo, l’uomo più importante della camorra cutoliana. E Pasquale Scotti di servizi segreti se ne intendeva. Era grande amico di Francesco Pazienza. Lui e gli altri capi della Nuova Camorra Organizzata si incontravano con il faccendiere in continuazione a Roma, ma anche a Napoli, ad Avellino ed Acerra, quando lui veniva giù per affari. Una volta andarono persino a fare una gita sullo yacht, con Alvaro Giardili, il socio di Pazienza e alcune bellissime ragazza. Pasquale Scotti mi disse che il generale Santovito ormai dava fastidio, che molti, in alto, erano preoccupati… era divenuto un testimone scomodo. Se avesse parlato ci sarebbe stato un terremoto. Quando fu ricoverato per cirrosi epatica in una clinica romana, si decise che era l’occasione migliore per farlo sparire senza destare sospetti. Un colonnello medico gli iniettò una dose di veleno, di quel veleno che usa il capo della Loggia P2, il venerabile Licio Gelli. E’ una sostanza particolare, capace di non lasciare traccia di sé a poche ore dal suo effetto. A procurare quella fiala ci pensò proprio Francesco Pazienza. Anche lui aveva da temere dall’anziano capo dei servizi segreti”. “Una storia incredibile – scriveva Silvestro Montanaro – sulla cui veridicità spetta alla magistratura far luce. Che Pasquale Scotti fosse depositario di ‘scottanti’ segreti lo dimostrano la sua posizione all’interno della Nuova Camorra Organizzata, le sue dichiarazioni a verbale, ma soprattutto la semplicità con la quale ha potuto organizzare, mantenendo ottimi rapporti all’esterno del carcere, la più rocambolesca delle fughe nel dicembre del 1984. Da allora di lui si sono perse le tracce. Su quella fuga in molti hanno ipotizzato complicità ad altissimo livello”. Auriemma proseguiva dettagliando una serie di connection criminali e di patti d’affari. “Quando venne sequestrano Ciro Cirillo, i servizi segreti sembrarono impazzire. Pazienza e i suoi uomini ci contattarono in più riprese. Volevano che noi ci adoperassimo per la liberazione e ci proposero un accordo vantaggioso: la camorra cutoliana, oltre ad alcuni favori processuali e ad una parte del riscatto, avrebbe avuto la strada spianata dei grandi appalti della ricostruzione delle aree colpite dal terremoto”. “L’accordo venne perfezionato. Tramite Pazienza e i suoi amici dei servizi, venivamo informati degli stanziamenti per i più importanti appalti della regione. Ci fornivano l’elenco delle ditte che li avrebbero vinti. Ci facevano da consulenti nella scelta delle nostre ditte che avrebbero dovuto rilevare in subappalto dalle aggiudicatarie – cui sarebbe spettato unicamente un ruolo fittizio, di presenza, finanziario – in modo da poter salvare la forma in quanto a capacità progettuali e tecniche. Il ricavato di questi affari doveva essere diviso tra noi della camorra e l’ala dei servizi legata al faccendiere. In più, alcuni dei nostri capi ricevettero tesserini dei servizi. Corrado Iacolare una volta mi mostrò il suo, era di color blu chiaro con la scritta ‘Ministero degli Interni”. E ancora, parole che – lette oggi – pesano come pietre. Così raccontava alla Voce il pentito Auriemma: “Dopo che Pazienza ci aveva fornito quelle informazioni, da molto in alto, da Roma, ci veniva segnalato quale sindaco o assessore avvicinare per assicurarci gli appalti. Ma queste verità nessuno le vuole. Nessuno vuole sconfiggere veramente la camorra nell’unico modo possibile. Nessuno vuole recidere, dare un colpo mortale alle organizzazioni criminali bloccando loro l’accesso agli enti pubblici, ai luoghi in cui l’onorata società ha la possibilità di espandersi riciclando i proventi delle sue attività criminali”. E qualche mese prima, febbraio ’86 (vedi copertina qui accanto), la Voce aveva realizzato un’altra cover story dal titolo “Caso Calvi – Delitto di Camorra”. Nell’inchiesta si parlava, in particolare, della figura di Vincenzo Casillo, molto legato a Francesco Pazienza, e della sua strana presenza a Londra proprio nei giorni in cui Calvi si “impiccava” sotto il ponte lungo il Tamigi. Ecco alcune dichiarazione dei pentiti di allora: “Vi ricordate quel volantinaggio a favore del banchiere Roberto Calvi a Milano, quando era detenuto? A distribuire quei volantini eravamo noi cutoliani. Eravamo stati mandati lì da Pazienza. In Inghilterra la Nco dispone di numerose basi e di forti amicizie per i suoi traffici in armi e droga. Certamente Casillo, ‘o nirone, a Londra non era andato per godersi una vacanza…. e Calvi, questo è sicuro, è stato ammazzato”. Sul “suicidio” di Calvi, all’indomani della cattura di Pasquale Scotti, anche l’allora giudice istruttore del caso Cirillo, Carlo Alemi, fino a pochi mesi fa presidente del tribunale di Napoli, ricorda che “i cutoliani in quegli anni ebbero un ruolo anche nell’omicidio di Roberto Calvi”. Potrà far nuova luce, anche su quel buco nero, il redivivo Scotti? Ma occorre andare per gradi: estradizione, trasferimento, approdo e sistemazione “sicura” nel nostro Paese. Evitando “incidenti” di percorso: come capitò, tanti anni fa, a Carmine Mensorio in arrivo per verbalizzare sui rapporti “camorra-politica” e volato giù (suicidio, hanno subito sentenziato gli inquirenti) dal traghetto proveniente dalla Grecia. Aiutato da una manina dei Servizi, ha dichiarato, mesi fa, Carmine Schiavone: che poi, a sua volta, è volato giù da un albero…

GIALLO SCOTTI / COME MAI DOPO UN ANNO NON PARLA? Paolo Spiga il 23 Agosto 2017 su La Voce delle Voci. Che fine avrà mai fatto Pasquale Scotti, il super latitante estradato oltre un anno fa dal Brasile dopo una latitanza record? Alcune settimane fa è morto il potente assessore regionale Dc all’urbanistica Ciro Cirillo, portandosi nella tomba tutti i misteri di quel rapimento, di quella trattativa e di quel riscatto. Sul quale hanno voluto mettere una pietra tombale alcuni colleghi scudocrociati, come ‘O Ministro Paolo Cirino Pomicino: “siamo stati infangati per anni. Non c’è mai stata una trattativa”. Un vero insulto alla storia, l’ennesima presa per il culo dei cittadini che sanno bene come andarono allora le cose, per la prima, autentica trattativa Stato-camorra, con il ghiotto affare dei mega appalti del dopo terremoto sul piatto della bilancia. Eppure, per le viole mammole di mamma Dc lorsignori non si misero mai a tavola con quei cattivacci….E su tutta la vicenda una parola non da poco potrebbe arrivare proprio da Pasquale Scotti, il braccio destro dell’allora capo della Nuova Camorra Organizzata Raffaele Cutolo, a sua volta galeotto a vita e sempre muto. Evaso in circostanze rocambolesche dall’ospedale di Caserta e uccel di bosco all’estero per un trentennio abbondante, meta finale il Brasile, dal quale appunto è stato estradato, Scotti è stato interrogato già svariate volte. Ma niente trapela. Sorge spontanea un domanda: ma c’è effettivo interesse a scoprire la verità finale sul caso Cirillo? O siamo alle solite sceneggiate?

Trattativa Stato-camorra, io bambino e quel ricordo sul sequestro Cirillo che non mi dà pace. Vincenzo Iurillo, Giornalista, il 7 novembre 2020 su Il Fatto Quotidiano. Non riesco a far pace con questo ricordo. Riemerso la sera del 28 ottobre (il mio compleanno, tra l’altro), quando una tv nazionale ha ritrasmesso Il camorrista di Giuseppe Tornatore, la storia, romanzata ma non troppo, della vita di Raffaele Cutolo. Il ricordo risale al 1981. Avevo 10 anni. Una sera di luglio di quell’anno mio padre scappò dal ristorante ‘La Pompeiana’ di Sorrento: ‘C’è Criscuolo, andiamo via’, quasi gridava a mia madre, mentre io piangevo per la pizza saltata. Ci ho messo quasi 40 anni per capire: avevo assistito a un frammento delle scorie della trattativa Dc-camorra-Brigate Rosse per la liberazione dell’assessore regionale campano Ciro Cirillo. Era stato sequestrato ad aprile e la sua liberazione avvenne poche settimane dopo, il 24 luglio. Ho capito incrociando confidenze di mia madre e notizie apprese nel mio lavoro di cronista di giudiziaria del Fatto quotidiano. E ho capito che mio padre non aveva mentito quando con un mio amico si vantò di aver partecipato con qualche milioncino delle vecchie lire alla colletta orchestrata dalla Dc di Antonio Gava per pagare la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Era il ‘prezzo’ della mediazione con le Br, per mettere fine al rapimento Cirillo. Forse fu raccolto un miliardo e mezzo di lire in banconote, forse il doppio. Mio padre si chiamava Pasquale Iurillo, è morto nel 2010 e non ha lasciato il ricordo di una persona la cui parola valesse oro colato. Per lui parla la sua storia di imprenditore a Castellammare di Stabia e Gragnano. Per lui parlano i nomi dei soci e delle amicizie che si scelse, gli affari compiuti con alcuni suoi parenti tra il territorio stabiese e il settentrione, e con altri sodali scelti tra ambienti discussi e discutibili, in vari campi: automobili, edilizia, assicurazioni Rc auto, informatica, call center. Parla per lui la scelta di non aver versato un euro di contributi previdenziali, dopo aver depredato mia madre di un paio di appartamenti appartenuti ai suoceri (e provò, chiedendo false testimonianze in giro, a depredare anche le proprietà dei figli, ma non ci riuscì). Mia madre ora vive nella povertà della pensione sociale, dimenticata dai familiari di mio padre. Derubata e abbandonata. Mio padre, purtroppo, aveva davvero pagato la Dc e la camorra. L’ho compreso da questo.

1) Quel Criscuolo era Giorgio Criscuolo, il capocentro dei Servizi Segreti, di Castellammare di Stabia, che su input del senatore gavianeo Francesco Patriarca (poi condannato per camorra) partecipò tra il 28 aprile e il 5 maggio 1981 a tre incontri in carcere ad Ascoli con Cutolo per la liberazione di Cirillo (è tutto scritto in una relazione della commissione Antimafia del 1993).

2) A quegli incontri partecipò con un lasciapassare del Sisde anche l’imprenditore stabiese Adolfo Greco. Greco era un prestanome di Cutolo nell’acquisto del Castello Mediceo di Ottaviano, e per questo fu condannato. Ora è agli arresti e sotto processo con nuove accuse di camorra.

3) Tra aprile e luglio avvennero numerose riunioni tra faccendieri di Gava, della Dc e della camorra ed imprenditori locali ai quali fu chiesto, suggerito, imposto di partecipare alla colletta per liberare Cirillo, promettendo piaceri e finanziamenti pubblici in cambio.

4) Mio padre corrispondeva al profilo: era in difficoltà economiche, si era indebitato per l’acquisto di una villa, gli fu garantito un finanziamento pubblico coi fondi post terremoto. Che non gli arriverà mai e l’azienda chiuderà. Era in società in una concessionaria automobilistica con un costruttore, Ludovico Imperiale, che qualche anno prima fu copresidente della Juve Stabia con Renato Raffone, uno dei boss del clan stabiese dei D’Alessandro.

Raffone molti anni dopo morirà mentre sconta una condanna per associazione mafiosa e traffico di stupefacenti. Nel 2016 Imperiale tornerà agli onori della cronaca perché i finanzieri ritroveranno a casa sua a Castellammare di Stabia un paio di Van Gogh rubati. Erano stati "ricettati" e nascosti lì dal figlio, Raffaele Imperiale, il superboss del narcotraffico internazionale, latitante a Dubai.

5) Nella sua concessionaria lavoravano fiancheggiatori e amici di Patriarca.

6) In circostanze troppo complicate per poter essere raccontate qui, nel 2012 ho visto coi miei occhi una foto della festa di matrimonio di Adolfo Greco: raffigurava Greco, la moglie, mio padre e mia madre. Greco era un imprenditore del settore caseario, gruppo Latte Berna-Cirio. Per qualche anno la squadra di basket femminile di Gragnano presieduta da mio padre fu sponsorizzata dal Latte Berna. Nelle stesse circostanze, oltre alla foto visionai una vecchia visura dalla quale risultava che mio padre fu socio di un altro condannato per favoreggiamento di Cutolo.

8) A metà degli anni 80 il basket Gragnano accettò l’invito a trascorrere la preparazione precampionato in una tenuta di Poggiomarino. Era una delle proprietà di Pasquale Galasso, il numero due del clan Alfieri.

Cosa successe quella sera al ristorante ‘La Pompeiana’? Forse mio padre voleva sfuggire all’obbligo di pagare, e fu costretto a farlo nei giorni successivi. Oppure aveva già dato, e non aveva piacere a incontrare ancora quelle persone. E’ certo che molti anni dopo si vantò di aver contribuito a quella colletta. E purtroppo tutto lascia ritenere che sia vero. E io in questi giorni ho compiuto 50 anni e ancora non riesco a far pace con questo ricordo.

Il giudice Alemi: "Nel mio libro i segreti della trattativa Stato-camorra. Cirillo serviva vivo alla Dc". Dario del Porto su La Repubblica il 24 giugno 2018. Intervista a Repubblica su quanto accadde per la liberazione dell'ex assessore sequestrato dalle Br. "Se lo Stato ha trattato una volta con la criminalità organizzata, come è accaduto per Ciro Cirillo, significa che può essere successo altre volte. E siccome nulla è veramente cambiato da allora, non possiamo escludere che accada di nuovo", dice Carlo Alemi, il magistrato che ha indagato sul rapimento e la successiva liberazione dell'allora potentissimo assessore regionale democristiano ai Lavori pubblici. Il 27 aprile del 1981, un commando delle 'brigate rosse' composto da cinque persone agli ordini di Giovanni Senzani, dopo aver ucciso l'agente di scorta Luigi Carbone e l'autista Mario Cancello, neutralizzò Cirillo per rinchiuderlo in una "prigione del popolo". Ma a differenza di quanto accaduto tre anni prima con Aldo Moro, il 24 luglio successivo, l'ostaggio fu rilasciato. "Le sentenze della Corte d'Appello e della Cassazione hanno sancito che ci fu una trattativa", sottolinea Alemi, all'epoca giudice istruttore, poi presidente del tribunale di Napoli, che ha scritto per Pironti un libro dal titolo inequivocabile: "Il caso Cirillo. La trattativa Stato-Br-camorra", che sarà presentato martedì alle 17 all'Istituto studi filosofici. 

Perché ha aspettato 37 anni per raccontare la sua verità sul caso Cirillo, presidente Alemi?

"Mi sembrava doveroso lasciare la magistratura, prima. Non sono d'accordo con quei colleghi che scrivono libri quando ancora i procedimenti sono in corso. Ciò nonostante, non avrei mai scritto questo libro senza le insistenze di Luigi Necco (recentemente scomparso, ndr) un giornalista che aveva vissuto da cronista quegli anni, venendo anche ferito alle gambe dalla camorra. Necco mi aveva più volte invitato a raccogliere le mie memorie di quella vicenda e mi ha assistito nella scrittura". 

Chi trattò per liberare Cirillo?

"Lo Stato. E non mi si venga a dire che quei soggetti non rappresentavano lo Stato: gli attori di questa vicenda erano ai vertici dell'amministrazione pubblica, dei servizi segreti, del ministero della Giustizia, del partito che aveva la maggioranza relativa in Parlamento". 

Perché Moro fu ucciso, mentre Cirillo tornò a casa?

"Cirillo gestiva la ricostruzione post terremoto, dunque serviva vivo alla Dc. Nessuno, invece, voleva che Aldo Moro rimanesse in vita. Non il suo partito, non gli americani e neppure i socialisti, che a parole erano per la trattativa ma temevano il compromesso storico". 

Il boss della camorra Raffaele Cutolo che ruolo ebbe?

"Quello di intermediario". 

In cambio di cosa?

"Aveva ricevuto promesse ben precise: la liberazione anticipata o almeno la dichiarazione di infermità mentale e favori per i camorristi detenuti". 

Il patto però non fu mantenuto.

"Innanzitutto perché il documento pubblicato dall'Unità, attribuito ai Servizi ma risultato falso, in cui si riferiva di una visita nel carcere di Ascoli Piceno di Francesco Patriarca, Antonio Gava e Vincenzo Scotti, fece saltare tutto. E poi perché al Quirinale c'era Sandro Pertini, un presidente di straordinaria autonomia e autorevolezza". 

Molti attori di questa storia sono morti, come Gava e lo stesso Cirillo. Restano altri misteri insoluti?

"L'omicidio del dirigente della squadra mobile Antonio Ammaturo. È una bruttissima pagina per il nostro Paese. Basti pensare che, fra i documenti scomparsi durante le indagini, figura la relazione sul caso Cirillo che Ammaturo aveva trasmesso ai suoi superiori. Manca anche la copia che il commissario aveva consegnato al fratello, a sua volta vittima di uno strano incidente di caccia". 

Cosa ha rappresentato per lei questa indagine?

"Un impegno difficilissimo, portato avanti nonostante una totale mancanza di collaborazione da parte di chi aveva indagato, di chi avrebbe dovuto testimoniare, e nell'isolamento dei colleghi, tranne uno: Raffaele Bertoni. Ho dedicato il libro a mia moglie, perché mi ha aiutato a proteggere la privacy e la serenità della mia famiglia. Al tempo stesso però ho ricevuto attestati di stima da parte di tante persone, alcune anche insospettabili". 

Ad esempio?

"Mentre il Mattino diretto da Pasquale Nonno mi attaccava violentemente, mi arrivò la lettera di un brigatista: "Giudice - diceva - leggendo quello che scrivono, sono contento di essere stato arrestato da lei".

Quando la DC decise di trattare con le BR per liberare Ciro Cirillo. Andrea Di Consoli il 18 gennaio 2019 su Il Sole 24ore. Tre anni dopo il “caso Moro”, in Campania un altro esponente della Democrazia Cristiana fu sequestrato dalle Brigate Rosse. Si trattò di Ciro Cirillo (1921-2017), ex presidente della Regione e in quel momento Presidente della commissione regionale che doveva gestire tutti gli appalti della ricostruzione in seguito al terremoto del 23 novembre del 1980. La sera del 27 aprile del 1981 Cirillo fu rapito a Torre del Greco da un gruppo terroristico capeggiato da Giovanni Senzani. Durante l'assalto persero la vita il maresciallo Luigi Carbone e Mario Cancello, autista di Cirillo. Perché il rapimento di Cirillo è così importante nella storia politica e giudiziaria italiana? Perché a differenza del “caso Moro”, per Ciro Cirillo la Democrazia Cristiana decise di trattare con le Br, anche se i vertici del partito, a partire da Flaminio Piccoli, all'epoca segretario nazionale, hanno sempre rigettato sdegnosamente l'accusa. Eppure molte testimonianze, benché piene di omissis e reticenze, confermano il dato di fatto: per la liberazione di Cirillo si attivarono pezzi della Democrazia Cristiana e apparati dei servizi segreti. Il giudice che per anni si occupò di questo caso fu Carlo Alemi, che ora ha deciso di pubblicare un libro di memorie intitolato Il caso Cirillo. La trattativa Stato-Br-Camorra (Tullio Pironti editore, 330 pagine, 16,00 euro). In questo libro Alemi ripercorre ogni fase di questa oscura vicenda, sempre attenendosi ai fatti e senza nascondere lo stato d'animo con il quale fu costretto a indagare su una vicenda che vedeva per la prima volta intrecciati potere politico, servizi segreti, camorra e Brigate rosse. Nel 1993 la Relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla mafia dichiarava quanto segue: “[alla liberazione di Cirillo si è giunti] non dopo una efficace opera di intelligence, né dopo una brillante azione di Polizia: vi si giunge dopo trattative condotte da funzionari dello Stato e uomini politici con camorristi e brigatisti”. Sempre nel 1993 un noto imprenditore avellinese attivo nella ricostruzione post-terremoto, Antonio Sibilia, dichiarò agli inquirenti quanto segue: “Vedete che tutto nasce dal sequestro Cirillo e dagli accordi che sono stati presi a Roma – arbitro Flaminio Piccoli, legato notoriamente alla Volani [un'impresa di Rovereto, n.d.R.] – in conseguenza della liberazione di Cirillo. A me risulta, ed è del resto notorio fra tutti gli imprenditori di Avellino, che a tali accordi partecipò anche la camorra, in particolare Vincenzo Casillo [luogotenente di Raffaele Cutolo, n.d.R]. E' vero che fu raggiunto un accordo di carattere generale per cui, per ogni appalto della ricostruzione, gli appaltatori dovevano versare una doppia percentuale: il 5% alla camorra ed il 3% ai politici”. Insomma, l'uomo-chiave degli appalti in Campania viene rapito dalle Brigate Rosse. Per evitare che l'assessore sveli i meccanismi dei criteri di spesa e di affidamento degli appalti, il suo partito, la Democrazia Cristiana, decide di trattare con i terroristi. E, per farlo, si rivolge al fondatore della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, all'epoca rinchiuso nel carcere di Ascoli Piceno. E si decide di rivolgersi a Cutolo per un semplice motivo: perché in quel momento ‘o professore è colui che meglio conosce gli assetti criminali sul territorio campano e nelle carceri. Nel carcere di Ascoli Piceno in quelle settimane è un viavai di gente: politici, funzionari dello Stato, uomini dei servizi segreti. Cutolo accetta di fare da mediatore, ma in cambio chiede, appunto, di entrare nel business della ricostruzione. In cambio le Brigate rosse chiedono soldi e l'eliminazione di alcuni “sbirri”. Scrive Alemi: “Per la verità, dal primo momento in cui ho iniziato a indagare sul sequestro Cirillo, malgrado la Dc avesse negato tale circostanza, si era diffusa la notizia secondo cui, per il rilascio del Cirillo, era stato pagato un riscatto di tre miliardi di lire, di cui metà sarebbe stata versata alla Nuova Camorra Organizzata del boss Raffaele Cutolo (tale circostanza mi sarebbe poi stata confermata a verbale da diversi cutoliani)”. Il “caso Cirillo” è pieno di misteri e colpi di scena. Tra i tanti, basti citarne due. Il primo riguarda la sua liberazione, che avvenne a Poggioreale il 24 luglio del 1981, dopo 89 giorni di prigionia. Mentre una pattuglia della Polizia lo carica per condurlo in Questura, tre volanti della stessa Polizia, al comando del vicequestore Biagio Ciliberti, bloccano d'autorità l'auto dei colleghi e prelevano Cirillo. Lo accompagnano a casa e per ben tre giorni impediscono ai magistrati di interrogarlo. E tutto questo mentre politici e amici si recano indisturbati nell'abitazione di Cirillo. Il secondo riguarda il noto criminologo Aldo Semerari. Il 17 marzo del 1982 il quotidiano comunista “l'Unità” pubblica un documento esplosivo, poi rivelatosi falso. Questo documento, con dicitura “MININTERN”, sosteneva che nel carcere di Ascoli, il 30 maggio del 1981, si era recato anche un politico di rilievo nazionale come Vincenzo Scotti (legato al più influente politico campano dell'epoca, Antonio Gava). Il documento falso era stato redatto da Aldo Semerari, che qualche giorno dopo affermò, sempre su “l'Unità”, di averlo redatto dopo aver raccolto tale testimonianza direttamente da Raffaele Cutolo. Il 1° aprile del 1982 Semerari fu trovato decapitato nella sua automobile davanti al “castello” di Cutolo a Ottaviano. A conferma di quanto fu torbido il rapimento di Ciro Cirillo, il politico democristiano per il quale, a differenza di Aldo Moro, la Democrazia Cristiana decise di trattare.

Trattativa Stato-Nco, Napoli «consegnata» ai killer di Cutolo. La storia della camorra raccontata attraverso le inchieste di «Stylo24» – Per liberare l'assessore Ciro Cirillo – tra le altre condizioni – fu accettata la richiesta del boss di Ottaviano di allentare i controlli di polizia: dal 27 aprile al 4 giugno del 1981, si contano solo 4 omicidi. Il 5 giugno, nel giro di 24 ore, se ne registrano sei. Giancarlo Tommasone il 20 Ottobre 2018 su stylo24.it. Gli approcci tra Nco e Br, sono tutt’altro che positivi e lasciano spazio a molti dubbi circa la possibilità di poter imbastire una trattativa per la liberazione dell’assessore Ciro Cirillo. Le iniziali proposte di Raffaele Cutolo erano, infatti, state respinte dalle Brigate Rosse ma successivamente le difficoltà vennero via via superate. Analogo il risultato prodotto dai sondaggi effettuati nei penitenziari di Palmi e di Nuoro, dove si trovavano reclusi i detenuti politici ritenuti «uomini chiave» per la riuscita dell’operazione. «Da tutte le deposizioni rese da ex brigatisti – riporta una relazione della Commissione parlamentare antimafia – emerge una convinzione comune, diffusa nelle loro file: che la Democrazia cristiana si era attivata, attraverso Cutolo, per trattare con le Br, e che era pronta a fare concessioni». Per tale motivo, è annotato ancora nel documento, alla credibilità del boss di Ottaviano, contribuisce, nei primi giorni di giugno del 1981, l’attenuazione dei controlli di polizia nella città di Napoli.Detti controlli avevano tenuto a freno, per più di un mese, le attività delittuose sul territorio partenopeo. Giusto per snocciolare un po’ di numeri, dal 27 aprile del 1981 (data del rapimento di Cirillo) fino ai primi di giugno, si erano avuti soltanto quattro omicidi. Ciò, soprattutto in virtù del fatto, che erano affluite a Napoli «ingenti forze di polizia ed i controlli avevano fatto sensibilmente scemare la capacità operativa dei camorristi e di ogni altra forma di delinquenza sul territorio». Poi le cose cambiano, mutano proprio dopo l’inizio fattivo delle trattative per la liberazione di Cirillo. Il 5 giugno esplode nuovamente la violenza: sono sei gli omicidi che si contano nel giro di 24 ore. Durante il mese di giugno saranno, in totale, 29 e a luglio arriveranno a 39. Quanto si verifica a Napoli, vale a dire il sensibile mutamento di clima, relativo all’escalation di violenza, genera grande scalpore in città. «Il sindaco – è riportato nella relazione della Commissione antimafia – giunge a chiedere l’allontanamento del questore, che viene sostituito il 18 luglio, sei giorni prima della liberazione di Cirillo, quando oramai la trattativa era conclusa». Le prime richieste di Cutolo avrebbero mirato ad allentare la morsa repressiva da parte dello Stato, e secondo pure quanto «ha dichiarato Giuliano Granata, bisogna riconoscere che le richieste sembrerebbero accolte. L’improvvisa recrudescenza dei delitti indica che tutte le attività criminali hanno incontrato una minore capacità di prevenzione e di contrasto». Di tale allentamento dei controlli approfittano anche i brigatisti che il sei giugno 1981, in pieno giorno, sequestrano il professor Umberto Siola, preside della facoltà di Architettura dell’Università di Napoli, consigliere comunale del Pci e assessore all’Edilizia del Comune partenopeo. A guidare il commando, è scritto nella relazione della Commissione antimafia «il capo brigatista Giovanni Senzani. Quest’ultimo conduce Siola in macchina, in una zona centrale della città. Là lo interroga e là avviene la sua gambizzazione. L’azione – è sottolineato – è una impressionante prova di forza e di sicurezza».

Usarono Enzo Tortora per coprire il patto Stato-Camorra Valter Vecellio. Il Garantista, 30 Giugno 2014. Il dottor Diego Marmo nella bella e importante intervista rilasciata a “Il Garantista”, sia pure trent’anni dopo, chiede scusa a Enzo Tortora; ci ricorda che la sua requisitoria si svolse sulla base dell’istruttoria dei colleghi Lucio Di Pietro e Felice Di Persia, e “gli elementi raccolti sembrarono sufficienti per richiedere una condanna”; che per tutti questi anni ha convissuto con il tormento e il rammarico di aver chiesto la condanna di un uomo innocente; che fu a causa del suo temperamento focoso e appassionato che definì Tortora “cinico mercante di morte” e “uomo della notte”. Va bene, anche se si potrebbe discutere e controbattere tutto. Per via del mio lavoro di giornalista al “TG2” mi sono occupato per anni del “caso Tortora” che era in realtà il caso di centinaia di persone arrestate (il “venerdì nero della camorra”, si diceva), per poi scoprire che erano finite in carcere per omonimia o altro tipo di “errore” facilmente rilevabile prima di commetterlo, e che si era voluto dare credito, senza cercare alcun tipo di riscontro, a personaggi come Giovanni Pandico, Pasquale Barra ‘o animale, Gianni Melluso. Ho visto decine e decine di volte le immagini di quel maxi-processo, per “montare” i miei servizi, e decine e decine di volte quella convinta requisitoria del dottor Marmo; che a un certo punto pone una retorica domanda: “…Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza?”. Cercavamo…Anche Marmo, sembrerebbe di capire, cercava. E quali gli elementi di colpevolezza che emergevano durante il paziente lavoro di ricerca delle prove di innocenza? Non basta dire che la requisitoria del dottor Marmo si è svolta sulla base dell’istruttoria deli colleghi Di Pietro e Di Persia. Non basta. Il 18 maggio di ventisei anni fa Enzo Tortora ci lasciava, stroncato da un tumore, conseguenza – si può fondatamente ritenere – anche del lungo e ingiusto calvario patito. Chi scrive fu tra i primi a denunciare che in quell’operazione che aveva portato Enzo in carcere assieme a centinaia di altre persone, c’era molto che non andava; e fin dalle prime ore: Tortora era stato arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata, fatto uscire solo quando si era ben sicuri che televisioni e giornalisti fossero accorsi per poterlo mostrare in manette. Già quel modo di fare era sufficiente per insinuare qualche dubbio, qualche perplessità. Ancora oggi non sappiamo chi diede quell’ordine che portò alla prima di una infinita serie di mascalzonate. Manca, tuttavia, a distanza di tanti anni da quei fatti, la risposta alla quinta delle classiche domande anglosassoni che dovrebbero essere alla base di un articolo: “perché?”. Forse una possibile risposta sono riuscito a trovarla, e a suo tempo, sempre per il “TG2”, riuscii a realizzare dei servizi che non sono mai stati smentiti, e ci riportano a uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo. Venne chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova, anche se durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”. Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo: sono tutti morti ammazzati: da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo, a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice, che ebbe un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e, tra gli altri, Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, “mai più ritrovato”. Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli. Che l’arresto di Tortora costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. Quello è stato fatto lo si sarà fatto in buona o meno buona fede, cambia poco. Le “prove”, per esempio, erano la parola di Pandico, camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un cumpariello. Barra è un tipo che in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia per sfregio l’intestino…Con le loro dichiarazioni danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. Questo in istruttoria non era emerso? E il sedicente numero di telefono in un’agendina, mai controllato, neppure questo? C’è un documento importante che rivela come vennero fatte le indagini, ed è nelle parole di Silvia Tortora, la figlia. Quando suo padre fu arrestato, le chiesi, oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra cosa c’era? “Nulla”. Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista? “No, mai”. Intercettazioni telefoniche? “Nessuna”. Ispezioni patrimoniali, bancarie? “Nessuna”. Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre? “Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. E’ risultato che erano di altri”. Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove? “Nessuna”. Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia. u che prove? “Nessuna. Chi lo ha scritto è stato poi condannato”. Qualcuno ha chiesto scusa per quello che è accaduto? “No”. Arriviamo ora al nostro “perché?” e al “contesto”. A legare il riscatto per Cirillo raccolto i costruttori, compensati poi con gli appalti e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della Direzione Antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale. E’ in questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”. Nessuno dei “pentiti” che ha accusato Tortora è stato chiamato a rispondere per calunnia. I magistrati dell’inchiesta hanno fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Il dottor Marmo dice di aver agito in buona fede, non c’è motivo di dubitarne. Ma la questione va ben al di là della buona fede di un singolo. Stroncato dal tumore, Enzo ha voluto essere sepolto con una copia della “Storia della colonna infame”, di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”. Da quella vicenda è poi scaturito grazie all’impegno radicale, socialista e liberale, un referendum per la giustizia giusta. A stragrande maggioranza gli italiani hanno votato per la responsabilità civile del magistrato. Referendum tradito da una legge che va nella direzione opposta; e oggi il presidente del Consiglio Renzi e il ministro della Giustizia Orlando approntano una serie di norme che vanno in direzione opposta rispetto a quanto la Camera dei Deputati ha votato qualche settimana fa. Valter Vecellio Il Garantista, 30 Giugno 2014

·        Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il Depistaggio di via D’Amelio.

La nuova campagna del Fatto. Travaglio ossessionato dalle bufale dei Graviano, falsi scoop del Fatto contro Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Dicembre 2021. Leggiamo dal Fatto: «La sentenza di cassazione contro Dell’Utri colloca Berlusconi come una vittima e non come un imputato. Ciononostante non è una medaglia per un candidato al Quirinale». Anche se vittima, sei pur sempre colpevole, se sei “lui”. Povero Marcolino! Continua a credersi Davide contro Golia-Berlusconi e non gliene va bene una. Ha tentato con il titolone “No al garante della prostituzione”, ma i vari processi “Ruby”, iniziati con una piena assoluzione nel filone principale, si stanno sbriciolando uno a uno anche nei rivoli secondari. Mostrando una volta di più il leader di Forza Italia, più che come reo, come vittima. Si sta giocando quindi, settimana dopo settimana, la “carta Graviano”. Ma non funziona neppure questa, e lo dimostreranno le archiviazioni. Ma nel frattempo la disperazione sta allagando di lacrime la redazione del Fatto, tanto che sono ridotti a lamentarsi pubblicamente perché sull’argomento «i quotidiani non scrivono una riga». Lo schema è sempre lo stesso. Il venerdì, il piccolo settimanale L’Espresso fa il suo scoop, che in realtà è sempre la stessa notizia ripetuta più volte, sulle dichiarazioni di Graviano e le stragi del 1993 di cui Berlusconi sarebbe il mandante. In realtà non lo dice Graviano, ma Travaglio, ma fa lo stesso. Il sabato esce sul Fatto l’articolo, in genere di Marco Lillo, che più che giornalista è assemblatore di verbali, che riprende il finto scoop e aggiunge altri verbali per far vedere che lui ne ha di più di Marco Damilano. Un piccolo manicomio, insomma, che ormai non solo non guadagna più le prime né le ultime pagine dei quotidiani, ma non riesce neanche a far incazzare i difensori di Berlusconi, che evidentemente si sono stancati di ripetere quel che disse Niccolò Ghedini nel febbraio 2020: «Dichiarazioni totalmente destituite di ogni fondamento, sconnesse dalla realtà e palesemente diffamatorie». Che cosa era successo? Semplicemente che nel corso di un processo per ‘ndrangheta Giuseppe Graviano aveva cominciato a farneticare su Berlusconi. Ma nella sentenza le sue dichiarazioni erano state bocciate come inattendibili e prive di alcun riscontro. Come ormai si ripete da tempo. Ma Graviano insiste con le sue allusioni, perché spera di guadagnarci qualcosa, chissà, magari qualche permesso premio.

Stiamo parlando di un mafioso ergastolano ostativo che con le sue dichiarazioni astute e ricche di buchi quanto una rete da pesca, sta da un po’ prendendo in giro i magistrati di Firenze, a partire dal capo della procura Creazzo (quello definito come “Il Porco” da una collega siciliana), fino agli aggiunti Luca Tescaroli (antimafia doc) e Turco (il preferito di Matteo Renzi, viste le attenzioni che gli dedica). I quali cercano disperatamente di credere a questo zuzzurellone che, partendo dalla storia di suo nonno (che è un po’come dire dalle guerre puniche), che sarebbe stato imbrogliato da Berlusconi dopo aver versato, insieme ad altri, qualche milione di lire per imprecisati investimenti mai andati in porto, lascia intendere di aver qualcosa da dire sui “mandanti esterni” degli attentati del 1993 e 1994. Perché lui di quelle bombe a Roma, Milano e Firenze qualcosa deve sapere, visto che per quegli attentati è stato condannato.

La cosa più sorprendente è però non solo il fatto che a Firenze esista un filone di indagine su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, ma che gli uomini della Dia stiano perdendo tempo a ispezionare la zona di Basiglio-Milano 3, il quartiere residenziale costruito dalla Edilnord di Paolo Berlusconi, alla ricerca di un residence e anche di un appartamento dove Graviano avrebbe incontrato il presidente di Forza Italia, allora semplice imprenditore, insieme al cugino Salvatore, che aveva nelle mani una “carta” in cui Berlusconi ribadiva l’accordo stipulato con il nonno. Chiariamo subito che sia il nonno che Salvatore sono morti. E che la “carta” non c’è. Inoltre, che cosa c’entra tutto ciò con le stragi? Niente di niente.

Pure gli “scoop” continuano. E i viaggi dei pm fiorentini su e giù per l’Italia. E anche il traffico dei verbali. C’è l’interrogatorio di Graviano del 20 novembre 2020. Quello in cui i pm fiorentini gli chiedono: «Riferisca in ordine a eventuali rapporti economici con Berlusconi e Dell’Utri». E lui racconta la storia del nonno, «Quartararo Filippo, che lavorava nel settore ortofrutticolo». Poi fa confusione, perché dice di aver incontrato Berlusconi insieme al nonno, poi dice invece che il nonno non ha mai avuto rapporti diretti con l’imprenditore milanese. Poi lancia la sua bombetta, anche questa non nuova: mi hanno fatto arrestare per non dare corso a quell’accordo economico assunto con il nonno. Quindi sarebbe stato Berlusconi a farlo arrestare? Ma all’unica domanda importante per l’inchiesta: «Ci dica se Berlusconi è stato il mandante delle stragi», Graviano risponde: «Non lo so se è stato lui». E stranamente, nel successivo interrogatorio del primo aprile di quest’anno non si parla più di bombe, ma solo della “carta” dei defunti nonno Filippo e cugino Salvatore. E noi paghiamo, avrebbe detto Totò.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

IL DEPISTAGGIO SU VIA D’AMELIO. I Graviano, il depistaggio e le strategie dei boss di Cosa Nostra. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS su editorialedomani.it l'11 novembre 2021. Perché chiamare in causa i Graviano in questa indagine sul depistaggio di via D’Amelio? Perché a quella strage sono intimamente legati il destino di Totò Riina e la sua strategia eversiva, molto più articolata di una semplice vendetta mafiosa. Ma c’è altro: la cattura di Riina, ciò che lo precedette (l’arresto di Balduccio Di Maggio) e le soffiate raccolte e smistate a chi di dovere

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata al depistaggio sulla strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

A 29 anni dalla stagione delle stragi – essendo morti, detenuti in carcere al 41 bis, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, considerati gli organizzatori della campagna per conto di Cosa Nostra; essendo latitante da 25 anni Matteo Messina Denaro, ultimo rappresentante dell’“era corleonese”, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano sono da una decina d’anni emersi come i principali depositari dei segreti di quel periodo storico.

La loro storia è abbastanza inusuale. Citati solo marginalmente dai grandi pentiti degli anni Ottanta (Buscetta, Contorno, Marino Mannoia) si comincia a parlare di loro verso fine secolo (per esempio Nino Giuffrè li indica come notoriamente legati ai Servizi) e per le rivelazioni di Gaspare Spatuzza.

I Graviano, si scopre, appartengono ad un’antica e molto ricca famiglia di mafia, e controllano il quartiere Brancaccio, noto come la “zona industriale” di Palermo, in cui hanno compiuto importanti investimenti edilizi. Il capofamiglia Michele Graviano (possidente, a capo di molte attività economiche di grande valore, dal commercio di frutta e verdura, all’edilizia, all’export internazionale, titolare di pacchetti azionari) viene ucciso nel 1982, agli inizi della guerra di mafia che contrappone Bontade-Inzerillo a Riina e i suoi corleonesi. 

A compiere l’omicidio è Gaetano Grado. A reggere la famiglia viene chiamato Giuseppe Graviano, che ha appena vent’anni. Questi si dimostra molto intraprendente e in grado compiere scelte radicali, prima fra tutte quella di spostare tutti gli affari di famiglia fuori da Palermo, al nord Italia, in Francia e in Svizzera. Lui stesso, latitante dopo una condanna al maxiprocesso, prende di fatto la sua residenza ad Omegna (Novara), sul lago d’Orta, a partire dal 1991.

Insieme al fratello Filippo e alle rispettive fidanzate, Giuseppe Graviano viene arrestato dai carabinieri a Milano nei giorni della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi. Da allora i due fratelli sono in carcere al 41 bis.

Il loro nome divenne conosciuto a livello nazionale il 15 settembre 1993 quando, nel quartiere Brancaccio, venne ucciso padre Pino Puglisi, in un delitto che non aveva precedenti in Italia. Le fotografie dei fratelli Graviano, indicati immediatamente come mandanti del delitto, furono mostrate in televisione e campeggiavano su tutti i quotidiani. Ricercati, irreperibili…. E invece i due fratelli circolavano tranquillamente, senza travestimenti e senza protezione, nel piccolo paese di Omegna.

Dopo il loro arresto – quattro mesi dopo, a Milano - cominciarono a circolare le prime voci del loro coinvolgimento sia nella strage di via D’Amelio che nelle stragi continentali. La procura di Firenze, esaminando i telefonini del clan e raccogliendo le prime testimonianze sulla loro latitanza, fece giganteschi passi avanti nell’investigazione.

Nel 1997 venne arrestato a Palermo Gaspare Spatuzza, uomo di fiducia dei Graviano; come sappiamo, Spatuzza confessò immediatamente l’omicidio di don Puglisi e la sua partecipazione sia alle stragi di Capaci e via D’Amelio, che a quelle continentali. Disse di aver fatto tutto questo su ordine di Giuseppe Graviano, per cui nutriva autentica “devozione”.

IL RUOLO DI BALDUCCIO DI MAGGIO

Perché chiamare in causa i Graviano in questa indagine sul depistaggio di via D’Amelio? Perché a quella strage sono intimamente legati il destino di Totò Riina e la sua strategia eversiva (di cui abbiamo riferito nel primo capitolo di questa relazione), molto più articolata d’un semplice movente affidato alle ragioni della vendetta mafiosa.

Ma c’è altro: la cattura di Riina, ciò che lo precedette (l’arresto di Balduccio Di Maggio), le soffiate raccolte e smistate a chi di dovere. E qui entrano in scena, nuovamente, i fratelli Graviano. Questo il racconto che di quei giorni fa Enrico Deaglio nel suo libro “Patria 2010-2020”.

Qualcuno si ricorda di Balduccio Di Maggio? Se no, siete scusati, perché fu una meteora. Era l’autista di Riina e fu lui a portare i carabinieri sotto casa sua. Poi disse di aver assistito al bacio tra Andreotti e Riina stesso. Per i suoi servizi, presenti e futuri, fu pagato – dallo Stato – 500 milioni, ma al processo Andreotti la sua testimonianza risultò un boomerang per la Procura di Palermo. Poi scomparve. Oggi non si sa dove sia né che faccia abbia: ai tempi era proibitissimo pubblicare una sua fotografia.

Io me ne stavo, un po’ sbadigliando, ascoltando su Radio Radicale la fluviale deposizione di Graviano, udienza del 21 gennaio 2020, quando appizzai le orecchie. Racconta Graviano che, una volta a Omegna (dove, ci tiene a ricordare, era “favolosamente protetto”), era stato in giro tutta la notte con il fratello Filippo, le fidanzate, un certo Cesare Lupo di Brancaccio e Salvatore Baiardo, il suo favoreggiatore ad Omegna, ed erano poi finiti a casa di Baiardo a giocare a poker.

Si ricorda che era inverno, che la casa di Baiardo era sulle pendici del Monte Mottarone, che c’era la neve e che era prima del Veglione di Capodanno 1992-1993. Si ricorda che, tra un piatto e l’altro, si fecero le 7 del mattino e allora Baiardo scese a prendere dei cornetti per la colazione. Baiardo torna su con i cornetti e fa: “Oh, la sapete la notizia? Hanno arrestato Balduccio Di Maggio, sta parlando e lo tengono qui, in una villa di Omegna”. Gli chiedono: “Scusi, Graviano, ma a Baiardo chi l’aveva detto?”. Graviano fa: “Oh, Omegna è un paese piccolo, tutti sanno tutto”.

Segue un imbarazzato silenzio, perché la narrazione ufficiale è diversa e dice che Di Maggio venne arrestato l’8 gennaio, che trattò la taglia e il racconto del bacio di Andreotti direttamente con il generale dei carabinieri Delfino e che tutto venne tenuto segreto fino a dopo la grande farsa della cattura di Riina a Palermo avvenuta il 15 gennaio 1993.

Ma Graviano non si ferma lì. Racconta che è stato lui a far venire al Nord Balduccio, che era entrato in urto per una donna con un tipaccio come Giovanni Brusca, proprio per impedire che Brusca lo uccidesse. Gli aveva trovato una sistemazione a Borgomanero (15 chilometri da Omegna), dove c’era già una colonia di siciliani che si occupavano di recupero crediti per dei tontoloni industriali piemontesi.

E, in sostanza, lo aveva messo in mano al generale dei carabinieri Delfino. Che sia questa la ragione della “favolosa protezione”? Graviano ci tiene a dire che, saputa la notizia, non avvisò il suo amico Riina. 

Il generale Francesco Delfino (morto nel 2014) ha avuto una lunga e misteriosa carriera, nell’Arma e ai vertici del Sismi, il nostro servizio segreto militare. Tra le sue tante avventure, una lo vede come l’unico agente segreto italiano a visionare il cadavere di Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano, sede a Milano, trovato penzolante sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra, anno 1982.

Era diventato il banchiere della mafia, però aveva perso i loro soldi, era debole e avrebbe potuto parlare, quindi la mafia lo uccise. E i servizi segreti c’entrarono, eccome.

Un possibile strangolatore era stato considerato Francesco Di Carlo, che dei vertici del Sismi era buon amico; ma poi la versione ufficiale accreditò dell’uccisione tale Vincenzo Casillo, dirigente della camorra napoletana e – toh – membro coperto del Sismi. Il quale fu poi fatto saltare in aria a Roma, proprio di fronte alla sede del Sismi, da Pasquale Galasso, dirigente della Nuova Famiglia associata a Cosa Nostra. Un tipo inconsueto, questo Galasso.

Giovane, colto, simpatico, aveva ammassato un patrimonio di 1500 miliardi delle vecchie lire e aveva un debole per le splendide dimore. Arrestato nel 1992, si pentì subito. Lo misero agli arresti domiciliari, in una sua proprietà: un favoloso castello neogotico appartenuto ai marchesi Savaroli, a Miasino, di fronte all’Isola di San Giulio, che dista cinque chilometri da Borgomanero e dieci dalla villa del generale Delfino.

Insomma, erano tutti lì, in un fazzoletto intorno al lago. Graviano, Galasso, Di Maggio, Delfino, un bel concentrato di misteri mafiosi e finanziari dell’Italia moderna. Peraltro, Graviano ci tiene a dire che lui e Galasso si incontravano, passeggiando sul lungolago. Di che cosa parlavano, Graviano non lo dice.

Ad agosto del 1992 il generale Delfino chiese di essere ricevuto dal ministro della Giustizia Claudio Martelli. Gli confidò che gli avrebbe fatto un regalo di Natale, l’arresto di Riina. Nella stessa estate, il colonnello dei carabinieri Mario Mori, anche lui dei servizi, stava trattando lo stesso argomento con il socio di Riina, Bernardo Provenzano.

A settembre anche il ministro dell’Interno Mancino prospettò che Riina sarebbe stato arrestato a breve, e le sue fonti erano la polizia. Insomma, lo sapevano tutti, tranne il povero Capo dei capi. O forse l’aveva capito anche lui. Adesso apprendiamo che anche Giuseppe Graviano vorrebbe che gli venisse riconosciuta la sua parte di merito. Però, quanta poca mafia c’è in questa storia, e quanti servizi.

IL REGALO DI NATALE

Sul “regalo di natale” - la cattura di Riina - promesso all’allora ministro della giustizia dal generale Delfino, la Commissione ha chiesto a Claudio Martelli il suo ricordo di quell’episodio.

MARTELLI, già Ministro della Giustizia. Fu il mio caro amico, già sindaco di Milano, Aldo Aniasi all’epoca parlamentare della Repubblica, che mi telefonò un mattino, siamo verso la fine di luglio, sì, dopo l’assassinio di Borsellino, per dirmi: “guarda, c’è un mio amico, che io conosco bene, è un bravo carabiniere, un bravo generale dei carabinieri, si chiama Delfino, ha delle cose da dirti, ti vorrebbe parlare, ricevilo… vedrai che non ti faccio perdere del tempo”.

Dissi: “digli di chiamarmi, ci mettiamo d’accordo”, e così chiamò la mia segreteria e venne a trovarmi. Insomma, per farla breve cominciai a parlare io… io gli avevo descritto un po' la situazione in cui eravamo, e quindi era certamente una brutta situazione dopo via d’Amelio, dopo Capaci e lui mi disse “Ministro non si demoralizzi, stia tranquillo che le cose si metteranno bene, glielo faccio io un regalo di Natale, entro Natale lei vedrà che le portiamo Totò Riina”. “Magari” feci io… Il 15 di gennaio Totò Riina viene arrestato.

Dunque, chi era il generale Delfino era il comandante dei Carabinieri nel sud del Piemonte, là dove era in domicilio coatto Balduccio di Maggio, l’autista di Totò Riina. Quello che ho immaginato dopo (ma nessuno si è peritato di dirmelo né Delfino, che non ho mai più rivisto, né nessun altro) è che avevano sotto controllo questo Di Maggio e sono riusciti a spingerlo alla collaborazione… I Carabinieri hanno una loro omertà che farà onore allo spirito di corpo, ma fa poco onore alla verità, talvolta la verità dovrebbe prevalere…

Di segno non diverso anche l’opinione di Antonio Ingroia che a Reggio Calabria, proprio su questo tema, ha controinterrogato Giuseppe Graviano.

FAVA, presidente della Commissione. Lei è stato avvocato a tutela dei familiari dei due carabinieri uccisi, Antonio Fava e Vincenzo Garofalo, nel processo alla ‘ndrangheta stragista, nel febbraio dell’anno scorso. Ed ha controinterrogato Giuseppe Graviano, che era imputato. Proprio rispondendo a lei, Graviano dice che lui sapeva che Riina sarebbe stato arrestato perché sapeva della collaborazione di Balduccio Di Maggio ben prima di quanto venne poi annunciata. È un quadro che ci porterebbe a ridisegnare i tempi e le dinamiche che hanno portato all’arresto di Totò Riina. Un quadro che lei ritiene plausibile?

INGROIA, già magistrato. Io ho sempre pensato che Totò Riina sia stato consegnato da Cosa nostra come capro espiatorio, in quanto principale responsabile della stagione stragista, per proseguire il dialogo che era iniziato. Ho sempre pensato che Balduccio Di Maggio lo avesse fatto soprattutto avendo dietro Bernardo Provenzano… Siccome con gli anni ho imparato a non credere più alle coincidenze, soprattutto in certe situazioni, il fatto che ruotassero nel medesimo territorio, Giuseppe Graviano assieme a Baiardo… mi fa pensare che forse nel tempo, negli anni abbiamo sottovalutato un ruolo più attivo di Graviano, ancora di più di quello di Bernardo Provenzano. Ed è quello che Graviano ha voluto dire, fra le righe, con le sue mezze dichiarazioni in quel processo.

SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Io capisco il Graviano: vuole difendere sé stesso ma perché prende ripetutamente le difese di Aiello, ma perché si preoccupa di Aiello? Eppure se lei lo legge dice che Aiello non c’entra niente, ma perché si prende carico di Aiello? … Dice che Falcone faceva parte di un pezzo dello Stato che tramite Contorno faceva omicidi e parla dell’agenza rossa, che sarebbe stata trafugata da un magistrato e quando io l’ho letto dico: «Ma questa è la riedizione del corvo!», Graviano sta scrivendo sotto dettatura dei servizi, per conto dei servizi, sembra così, insomma.

Quindi da una parte abbiamo Graviano, dall’altra parte abbiamo questa vicenda strana di Avola, poi abbiamo altre cose che si scrivono sotto traccia che non posso dire, c’è qualcosa che si sta muovendo oggi.

È questa la cosa drammatica, che si sta muovendo oggi, la filiera non è finita e questo spiega anche perché quelli che sanno i segreti da Biondino a Graviano ad altri non parlano e adesso scusatemi se lo dico ma con la nuova sentenza che ha aperto la possibilità di uscire dall’ergastolo con la dissociazione dimostrando la cessazione della pericolosità si apre una nuova stagione, bisogna vedere come andrà, è una battaglia tutta politica.

Che accade se il Parlamento non fa in tempo a fare una legge? Che accadrà nelle Commissioni Giustizia? La strage di Via D’Amelio è ancora tra noi. Non è una storia finita, e i tentativi di depistaggio sono estremamente sofisticati e complessi e vengono realizzati anche mettendo in giro delle falsità su cui poi eventualmente ritornerò. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS

IL DEPISTAGGIO SU VIA D’AMELIO. I “servizi” di Bruno Contrada e quella chiamata il giorno dopo la strage. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS su editorialedomani.it il 12 novembre 2021. Bruno Contrada afferma: «La mattina del 20 luglio ricevo una telefonata del dottor Sergio Costa, genero del capo della Polizia di allora, il Prefetto Vincenzo Parisi, ed era anche lui un commissario di pubblica sicurezza, aggregato al Sisde. Costa mi dice: “Don Vincenzo”, non disse il capo, non disse il prefetto Parisi, “Don Vincenzo desidera che lei prenda contatti con il Procuratore della Repubblica di Caltanissetta, dottor Giovanni Tinebra, per la strage che è accaduta, per la strage Borsellino”».

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata al depistaggio sulla strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Convitato di pietra in questa relazione e nella ricostruzione dei fatti di quella estate è il Sisde, il nostro servizio di intelligence interno (oggi si chiama Aisi). Al ruolo del Sisde nelle indagini su via D’Amelio abbiamo dedicato parti significative della nostra precedente relazione. Qui torniamo sul tema per spostare l’asse geografica della nostra indagine (dalla Sicilia a Roma) e per comprendere quali consapevolezze vi fossero – ai diversi livelli istituzionali - sull’accelerazione che Tinebra e Contrada imprimono alla pista Scarantino. E lo facciamo usando come nostra fonte il protagonista di quelle settimane: Bruno Contrada, a lungo audito da questa Commissione. Cominciamo a ricostruire ciò che accade la mattina successiva alla strage.

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. La mattina del 20 luglio ricevo una telefonata del dottor Sergio Costa, genero del capo della Polizia di allora, il Prefetto Vincenzo Parisi, ed era anche lui un commissario di pubblica sicurezza, aggregato al Sisde. Costa mi dice: «Don Vincenzo», non disse il capo, non disse il prefetto Parisi, «Don Vincenzo desidera che lei prenda contatti con il Procuratore della Repubblica di Caltanissetta, dottor Giovanni Tinebra, per la strage che è accaduta, per la strage Borsellino», e io in quel momento seppi che il Procuratore della Repubblica di Caltanissetta si chiamava Giovanni Tinebra, non lo sapevo…

FAVA, presidente della Commissione. Non le disse se questa richiesta arrivava dal Procuratore o se era una richiesta del capo della Polizia?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Lui mi disse che era desiderio, volontà, del suocero (il capo della polizia Parisi, ndr.)... Credo che mi abbia accompagnato poi lo stesso dottor Costa che nell’occasione mi disse che lui conosceva bene il procuratore Tinebra da quando era Procuratore della Repubblica a Nicosia.

FAVA, presidente della Commissione. Costa le disse anche perché conosceva Tinebra?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Sì. No, non mi disse perché lo conosceva.

FAVA, presidente della Commissione. Chi partecipò all’incontro quella sera col dottor Tinebra?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Io solo. Io solo.

FAVA, presidente della Commissione. Non ci fu il dottor Costa? L’accompagnò e basta?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Mi ha accompagnato e mi ha aspettato fuori, ma all’incontro c’ero io soltanto e in quella occasione conobbi il dottor Tinebra, il quale mi disse: «mi trovo in grosse difficoltà, perché io di mafia, specialmente palermitana, sono completamente all’oscuro, sono a zero, non so niente… mi è stato detto dal suo capo della Polizia “che lei è uno dei funzionari più preparati in materia di mafia palermitana o della Sicilia occidentale… Può darci una mano in questa indagine?».

FAVA, presidente della Commissione. Cosa rispose?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Io gli dico: «signor Procuratore, io sono a disposizione per tutto quello che può essere utile, però tenga presente che io non posso svolgere indagini, perché non sono più ufficiale di polizia giudiziaria, sono un funzionario dei Servizi…». Fare indagini significava interrogare le persone, fare perquisizioni, ordinare pedinamenti, intercettazioni e tutta l’attività di polizia giudiziaria, interrogare testimoni, familiari delle vittime. «Tutta questa attività non la posso più svolgere, i nostri compiti sono a livello informativo e non più operativo, il nostro è un servizio di informazione», e questo era il primo punto; secondo punto: «io non ho più nessuna competenza, per quanto riguarda la Sicilia, perché il mio incarico è quello di coordinatore dei centri Sisde nella capitale e delle province del Lazio e quindi la mia sede di servizio è a Roma e lì è il mio ufficio»; terzo punto: «un mio eventuale intervento deve essere svolto in piena intesa, oltre naturalmente con l’autorità giudiziaria deputata a questa indagine, cioè con lei, anche con gli organi di polizia giudiziaria di Palermo»… 

IL SISDE E LA PROCURA DI CALTANISSETTA 

Tre riserve. Che – come sappiamo – vengono rapidamente superate. Il Sisde scende in pista nell’inchiesta su via D’Amelio accanto alla Procura di Caltanissetta. Anzi, per conto di quella Procura. Vediamo come.

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Ecco perché poi ebbi contatti con il capo della squadra mobile di allora di Palermo, Arnaldo La Barbera, lo invitai a venire nell’ufficio del Sisde a Palermo, credo due o tre giorni dopo. Poi telefonai al generale Antonio Subranni, che era il comandante del Ros dei Carabinieri e che conoscevo benissimo, eravamo anche amici perché avevamo passato tanti anni di servizio insieme a Palermo… Lui mi disse che a Palermo della strage se ne occupava anche il Ros, nella persona del maggiore Obinu. Contattai Obinu e lo invitai anche a venire al centro del Sisde di Palermo per riferire qual era stato il mio colloquio con il Procuratore della Repubblica…

FAVA, presidente della Commissione. Mi scusi, ma contattò anche i suoi superiori gerarchici, all’interno del Sisde, per far sapere di questa proposta e per essere autorizzato alla collaborazione?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Lo dissi pure al Procuratore della Repubblica, tra le varie obiezioni che avevo fatto, che avrei dovuto avere il beneplacito, il placet, dei miei superiori diretti. Erano tre: il direttore del Servizio, Prefetto Alessandro Voci; il vicedirettore operativo, Prefetto Fausto Gianni; il capo del terzo reparto da cui dipendeva il mio ufficio, dirigente generale della Polizia di Stato, Franco Di Biasi… Questo glielo dissi al Procuratore ed insistetti principalmente non con il prefetto Voci, il direttore generale del Sisde, ma con il suo vice con cui avevo maggiori rapporti, il prefetto Fausto Gianni, perché una volta avuto il beneplacito del direttore venisse a Palermo e parlasse anche lui con il Procuratore della Repubblica di Caltanissetta.

FAVA, presidente della Commissione. Le dissero i suoi superiori se di questa proposta di collaborazione era stato informato anche l’esecutivo, cioè il Presidente del Consiglio e il Ministro dell’Interno?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Assolutamente no, non me lo dissero né si è parlato di questo argomento. L’unica cosa che il Prefetto Gianni non era molto entusiasta di venire giù a Palermo…

FAVA, presidente della Commissione. Quando ci fu questo incontro con il Procuratore Tinebra?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Glielo dico subito, anche l’orario, perché ho la mia agenda… Il 24 luglio, ore 9.30, aeroporto Punta Raisi, arrivo Prefetto Gianni, dottor Sirleo, dottor Sergio Costa da Roma… Poi Caltanissetta, dal Procuratore della Repubblica Tinebra, presenti anche il dottor Antonio De Luca, il dottor Ruggeri, il dottor Narracci. Ruggeri è il capo centro (della Sicilia, ndr.), Narracci era il vice e De Luca era un vecchio funzionario della Squadra mobile ed era il capo centro di Catania. Venne anche lui.

FAVA, presidente della Commissione. Sulla sua agenda, poi acquisita agli atti del processo che la vide imputato, c’è scritto “colloquio su indagini, stragi Falcone e Borsellino”.

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Questo argomento di questo termine, ‘indagini’, è stato oggetto di una lunga disquisizione, come dire: «ma allora tu hai fatto indagini?». È un termine inappropriato parlando dell’attività informativa del servizio, dipende anche dalla mia deformazione professionale, ogni attività in questo campo per me è un’indagine. 

FAVA, presidente della Commissione. I suoi colleghi del Sisde. C’erano altri PM della Procura assieme al Procuratore Tinebra a quell’incontro?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Sì, ce n’erano perlomeno due, però non so indicare, uno sicuramente doveva essere il dottor Petralia, l’altro non lo so chi era… Invece poi nella colazione di lavoro lo stesso giorno, all’hotel San Michele… io pretesi che i miei vertici fossero presenti… Non volevo farla apparire come una mia, come dire…

FAVA, presidente della Commissione. Una sua iniziativa.

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Una cosa personale, non avendone nessun titolo…. Dissi al Procuratore della Repubblica: «noi in aderenza a quelli che sono i compiti del Servizio possiamo svolgere attività informativa. Io ritengo che allo stato sia opportuno attingere quante più notizie, informazioni sui gruppi di mafia che possono avere avuto una parte in queste azioni efferate di criminalità…».

FAVA, presidente della Commissione. Mi scusi, dottor Contrada, ma questo tipo di attività anche informativa di ricostruzione del contesto mafioso e delle famiglie palermitane che potevano essere coinvolte nelle stragi non sarebbe stato più naturale che fosse una delega investigativa per la polizia giudiziaria? Per quale ragione il Procuratore di Caltanissetta doveva chiedere al Sisde un’attività che avrebbe potuto svolgere, forse con più strumenti, la polizia giudiziaria?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Non è stato il Procuratore della Repubblica che ha chiesto di svolgere questa attività informativa, è stata una mia idea che ho prospettato al Procuratore… Io non credo che avrei potuto dire al Procuratore di Caltanissetta, che in quel momento iniziava la sua opera per questi fatti così gravi, “per avere informazioni rivolgiti ad altri”! Non me la sentivo di dire, in quel momento, “sono affari che non mi riguardano”.

L’OPINIONE DI MARTELLI, MINISTRO DELLA GIUSTIZIA

Foto LaPresse Torino/Archivio storico Storico 19/07/1992 Palermo Paolo Borsellino Paolo Emanuele Borsellino (Palermo, 19 gennaio 1940 – Palermo, 19 luglio 1992) è stato un magistrato italiano. Assassinato da cosa nostra assieme a cinque agenti della sua scorta nella strage di via d'Amelio, è considerato uno dei personaggi più importanti e prestigiosi nella lotta contro la mafia in Italia, insieme al collega ed amico Giovanni Falcone.

In realtà esistevano “altri” corpi di polizia giudiziaria, perfettamente attrezzati per esperienza e cultura investigativa, per indagare su Capaci e via D’Amelio. Certamente lo era la Direzione Investigativa Antimafia, di recentissima costituzione, che fu messa inopinatamente da parte dalla procura di Caltanissetta. E che invece avrebbe ben potuto svolgere il lavoro di raccolta d’informazioni e di profiling criminale che si intestò il Sisde. Com’è potuto accadere? Lo abbiamo chiesto all’allora ministro della Giustizia Martelli, all’allora ministro degli Esteri Scotti (ministro dell’Interno fino a qualche settimana prima) e al dottor Ingroia, stretto collaboratore di Paolo Borsellino.

MARTELLI, già Ministro della Giustizia. Beh, che sia stato possibile lo apprendo da lei adesso… Era stata già istituita la DIA e l’Agenzia aveva riunificato dentro di sé, in posizioni paritarie per evitare di suscitare gelosie, i reparti di intelligence dei carabinieri, della polizia di Stato, della guardia di finanza… e dunque semmai era alla DIA che il dottore Tinebra avrebbe dovuto rivolgersi per averne collaborazione… Da quel che io mi ricordo non abbiamo mai avuto notizia di simili iniziative, di un simile coinvolgimento contra legem di servizi di intelligence nelle indagini. Anche qui, se si guarda a quello che è successo dopo, e che non sorprende, siamo sempre in quella catena di omissioni, di responsabilità e forse di peggio che comincia con la mancata protezione di Borsellino.

***

SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Io sono stato contrario, nettamente, a tutte queste forme particolari di indagine e di investigazione, cioè devono esserci i corpi dello Stato e la DIA era stata pensata come un corpo dello Stato, non come un corpo di “emergenza”. C’è uno scritto di Falcone su questo, quando lui dice che ad ogni uccisione, strage o azione, viene subito riproposto di costituire un organismo ad hoc, lui dice che questa non è una cosa corretta e funzionale alla lotta alla mafia. Ne discutemmo con Falcone ed io aderii alla sua posizione: ho una diffidenza ed una ostilità a queste strutture speciali perché non consentono mai di avere chiarezza necessaria per controllare quello che si fa e a chi si risponde.

FAVA, presidente della Commissione. Lei era Ministro degli Esteri il 19 luglio. Ci fu un momento in cui in Consiglio dei Ministri, vista la gravità e l’atrocità di quello che era accaduto, alcune scelte vennero discusse insieme? Penso, ad esempio, alla decisione di creare questo corpo speciale di investigazione: se ne parlò mai all’interno del Consiglio dei Ministri?

SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Io non ricordo se ci fu una discussione specifica in Consiglio dei Ministri, può darsi… Tra l’altro io ero a Bruxelles quella domenica sera perché lunedì mattina avevo una riunione con i Ministri degli Esteri. Fui raggiunto in ambasciata dalla troupe della Rai.. ed io dissi che quello era il segno che non potevamo più giocare nella lotta alla mafia: o c’era una strada o non c’era. Ebbi una telefonata cui mi si chiedeva di non interferire in quanto non più Ministro dell’Interno.

FAVA, presidente della Commissione. Chi la chiamò?

SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Il mio capo di Gabinetto, il quale era stato incaricato di dirmi questo.

FAVA, presidente della Commissione. Era stato incaricato da chi?

SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Non lo so.

FAVA, presidente della Commissione. Non chiese al suo Capo di Gabinetto chi lo aveva sollecitato a farle quella telefonata?

SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Misi il telefono giù.

FAVA, presidente della Commissione. Ma qual è, secondo lei, la ragione di questa sollecitazione, cioè “fai il Ministro degli Esteri, non sei più Ministro dell’Interno”? Cos’è che preoccupava di ciò che lei aveva dichiarato?

SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Io l’ho presa in termini buoni, cioè non volevano confusioni.

FAVA, presidente della Commissione. Lei ebbe modo di confrontarsi col nuovo Ministro dell’Interno, Mancino, sulle scelte investigative?

SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Mai.

FAVA, presidente della Commissione. Esistevano sul campo altre strutture investigative, diciamo, “normali” che avrebbero potuto lavorare al fianco della Procura di Caltanissetta su quelle indagini?

***

INGROIA, già magistrato. Ovviamente. Innanzitutto, la DIA, la Direzione investigativa antimafia.

FAVA, presidente della Commissione. Che invece venne esclusa.

INGROIA, già magistrato. Venne esclusa da Caltanissetta. All’epoca il capo della DIA era Gianni De Gennaro che aveva un ruolo di stretta collaborazione in passato sia con Falcone, sia con Borsellino. E che poi, come vedremo nelle indagini successive, percepì alcuni temi che, evidentemente, a Tinebra non interessava coltivare, compreso quello della cosiddetta trattativa Stato-mafia. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS

IL DEPISTAGGIO SU VIA D’AMELIO. Quell’informativa su un picciotto qualunque con parentele molto “pericolose”. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS su editorialedomani.it il 13 novembre 2021. La legge all’epoca vigente così come l’attuale era chiara nel vietare qualunque rapporto diretto fra servizi segreti e magistratura inquirente. Eppure, dopo la strage di via D’Amelio a Caltanissetta quel divieto si aggira sfacciatamente

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata al depistaggio sulla strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Torniamo al dottor Contrada. E alle indagini del Sisde su procura di Tinebra.

FAVA, presidente della Commissione. Poi che accadde dopo gli incontri con Tinebra?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Misi al corrente il dottor Arnaldo La Barbera.

FAVA, presidente della Commissione. Era presente anche il dottor La Barbera a quell’incontro?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. No, non c’era. La Barbera non aveva ancora costituito il gruppo investigativo “Falcone e Borsellino”, era solo il capo della Squadra mobile di Palermo. Io avevo detto al dottor Tinebra che avrei informato di questa nostra attività i due organi di Polizia giudiziaria, la PS e i Carabinieri, cioè il dottor La Barbera e il maggiore Obinu per l’Arma dei Carabinieri.

FAVA, presidente della Commissione. E quando parlò con La Barbera di questa ipotesi di vostra collaborazione?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Qualche giorno dopo. Una volta costituito il mio gruppo di lavoro… perché per fare questa attività informativa dovevo costituire un gruppo di lavoro. Da tenere presente che il Sisde si occupava quasi esclusivamente di terrorismo politico, Brigate rosse… tranne qualche ufficiale dei Carabinieri non c’era alcun funzionario di grande esperienza di lotta alla mafia…

FAVA, presidente della Commissione. Nel Sisde non c’era. Quindi come fa ad organizzare questo gruppo di lavoro? Con chi lo organizza?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Scegliendo due o tre elementi del Centro Sisde di Palermo e poi siccome occorreva qualcuno che avesse conoscenza delle famiglie di mafia che si ha sul campo o sulle carte, sulle carte c’era un ottimo funzionario di Polizia, Carmelo Emanuele, che era il responsabile dirigente dell’ufficio “misure di prevenzione”.

FAVA, presidente della Commissione. Quindi non era aggregato al Sisde?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. No, lui era sempre dipendente come funzionario di Pubblica sicurezza della Questura di Palermo, però faceva servizio al Gabinetto dell’Alto commissario.

FAVA, presidente della Commissione. Diciamo quindi questo gruppo di lavoro che si costituisce attorno a lei non è formato solo da funzionari del Sisde, ma anche personale di Polizia giudiziaria in qualche modo aggregato.

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Ha sede all’ufficio del centro Sisde di Palermo. D’accordo col colonnello Ruggeri, che non volevo esautorare, si costituisce questo gruppo, con alcuni dipendenti del Centro Sisde di Palermo, con la supervisione del capo centro e del vice che era Lorenzo Narracci. In più ritengo di far venire due funzionari del servizio, uno che faceva servizio a Padova e un altro a Firenze, quello di Padova era il dottor Paolo Splendore, anche lui ufficiale di complemento dei Carabinieri che aveva lavorato con me nell’ufficio dell’Alto commissario, e un altro di Firenze, Carlo Colmone, che era un consigliere di Prefettura passato al Sisde.

FAVA, presidente della Commissione. Ci può raccontare come si definisce il vostro accordo di lavoro col dottor La Barbera quando vi incontrate?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Fu l’unico incontro che ho avuto col dottor La Barbera. Se altri hanno avuto incontri con lui io non lo so e non ne sono stato messo al corrente, né io ho cercato di avere incontri con lui dopo questo giorno. Quindi quello fu l’unico incontro da cui io capii che questo mio intervento, in un settore che lui riteneva di sua esclusiva competenza di polizia giudiziaria, non gli andasse troppo per il verso giusto.

FAVA, presidente della Commissione. Quanti altri incontri ci furono col dottor Tinebra in quelle settimane, in quei mesi?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Tre. La prima il 20 luglio al Palazzo di Giustizia di Palermo, la seconda il 24 luglio all’hotel San Michele…

FAVA, presidente della Commissione. Ce n’è stata un’altra, molti mesi dopo.

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Il 19 ottobre. A Caltanissetta, con Ruggeri, per questioni di indagini.

FAVA, presidente della Commissione. Chi c’era a questo terzo incontro? Dei magistrati dico.

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Tinebra, Petralia… i sostituti credo che fossero più di due perché a tavola eravamo per lo meno una quindicina di persone.

IL DIVIETO PREVISTO DALLA LEGGE

La legge all’epoca vigente (la n. 801 del 24 ottobre 1977), così come l’attuale (la n. 124 del 3 agosto 2007), era estremamente chiara nel vietare qualunque rapporto diretto fra servizi segreti e magistratura inquirente. Eppure dopo la strage di via D’Amelio, come abbiamo avuto modo di approfondire dettagliatamente nella nostra prima relazione, a Caltanissetta quel divieto si aggira sfacciatamente.

Avremmo voluto chiedere al professor Giuliano Amato, all’epoca Presidente del Consiglio, e dunque l’autorità a cui rispondevano funzionalmente i nostri servizi di intelligence, se ebbe mai sentore di questa collaborazione così impropria. Il professor Amato ha ritenuto di declinare l’invito di questa Commissione.

«Caro Presidente Fava, nell’esprimerle il mio apprezzamento per il lavoro che sta svolgendo con la Sua Commissione allo scopo di approfondire ed estendere le nostre conoscenze sulla strage di via d’Amelio, desidero anche ringraziarla per aver pensato a me come persona utile a un tale lavoro. Temo tuttavia di non essere in grado di corrispondere alla Sua aspettativa. Del contesto politico istituzionale di quei mesi ho detto tutto quello che ero in grado di dire nelle testimonianze che ho reso nel processo di primo grado a Palermo sulla c.d. trattativa Stato-mafia, interrogato prima dal Pubblico Ministero Dr. Ingroia, poi dal Pubblico Ministero Dr. Di Matteo. Quanto alla catena delle comunicazioni e delle decisioni istituzionali riguardanti il Sisde, so quanto conseguiva dall’allora vigente legge n. 801, che poneva il Presidente del Consiglio in rapporto costante con il Segretario Generale del Cesis, allora l’ambasciatore Fulci. Nel clima di rafforzato impegno contro la mafia prodotto dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio, del Sisde ci occupammo per portare alla sua direzione, nell’agosto 1992, il prefetto Angelo Finocchiaro, che era stato l’ultimo Commissario antimafia. Non essendo in grado di fornire altri elementi utili oltre a quelli qui menzionati e citati, non ravviso le condizioni per accogliere il Suo invito».

E il CoPaCo? Se ne accorse l’allora comitato di controllo parlamentare sui servizi segreti? Lo abbiamo chiesto al professor Brutti, che del Comitato è stato presidente dal settembre 1994 al maggio 1996.

BRUTTI, già presidente del Comitato parlamentare di controllo sui Servizi segreti. Il ruolo svolto dal Sisde nelle indagini sulla strage di Via D’Amelio non c’era noto. Tra l’altro i poteri del Comitato Parlamentare di allora erano abbastanza ristretti… Divenuto presidente del Comitato, abbiamo individuato per lo meno due rilevanti tipologie di comportamenti che io reputavo e reputo illegittimo. In primo luogo, una certa tendenza del Sisde ad avere delle persone di fiducia che riferiscono alla linea di comando del Sisde pur lavorando dentro altre amministrazioni, e questa era una cosa singolare, rivendicata dall’allora capo del Sisde Malpica che dice: «come direttore del servizio avevo necessità di essere informato su tutto ed avere centinaia di occhi, visto che i miei non erano sufficienti, avevo quindi la necessità di avere delle persone che potessero, all’occorrenza, consentirmi di contattare altre persone che io non avevo materiale possibilità di annoverare tra i miei amici». Questo concetto di “amici” è singolare perché si tratta in realtà di collaboratori o dipendenti dei Servizi… Il dipendente di una Pubblica Amministrazione si può spostare presso il Servizio informazione e sicurezza, ma il fatto che egli diventi collaboratore o fonte del Servizio…

FAVA, presidente della Commissione. …come era accaduto con La Barbera.

BRUTTI, già presidente del Comitato parlamentare di controllo sui Servizi segreti. Ecco, volevo arrivare a questo: ha dei profili di illegittimità, tanto più se viene retribuito.

IL SISDE E IL PUPO SCARANTINO

Torniamo al Sisde. Il frutto avvelenato di quella collaborazione è il profiling criminale di Scarantino, il primo tassello per accreditare i suoi quarti di nobiltà mafiosa e dunque la bontà delle sue rivelazioni. Quel rapporto è il primo passo concreto per avviare il depistaggio su via D’Amelio.

FAVA, presidente della Commissione. Una delle tre note che furono oggetto di questa collaborazione, e che fu mandata a Tinebra il 10 ottobre del 1992, riguarda il profilo criminale di Scarantino. Questo profiling di Scarantino è una vostra iniziativa? È una richiesta che vi arrivò da Tinebra? Come viene fuori?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Fu una richiesta addirittura scritta della Procura della Repubblica di Caltanissetta. Loro volevano avere tutte le notizie possibili sugli agganci, sui rapporti, sulle relazioni di tale Scarantino Vincenzo che allora non era ancora un pentito, era un indiziato, sotto le investigazioni di La Barbera e dei componenti del suo staff… Il capocentro, il colonnello Ruggeri, chiese alla direzione come doveva comportarsi. Ecco perché questa passeggiata a Caltanissetta del 19 ottobre in cui vado con il colonnello Ruggeri per parlare con il Procuratore della Repubblica e dissi ancora una volta che noi non potevamo avere questi rapporti diretti, sia pure epistolari, li avremmo potuti avere tramite la Polizia giudiziaria, difatti ci sta uno dei miei viaggi a Caltanissetta dove, dopo aver parlato con il Procuratore Tinebra, io vado in Questura a parlare con il Questore, che era il dottore Vasquez… Che poi su questo Scarantino c’erano due cose da riferire: una che era parente di un mafioso, che era Profeta. E poi un lontanissimo, ma quasi inesistente, labilissimo rapporto di parentela acquisito con i Madonia…

Raccontata così, quello del Sisde sembrerebbe un contributo davvero marginale: Scarantino è parente di un mafioso (Profeta) e lontanamente legato ai Madonia. Punto. Eppure, è proprio a partire da questa scheda che la caratura criminale di Scarantino e la sua attendibilità come testimone diretto della strage crescono rapidamente: nonostante ancora oggi il dottor Contrada cerchi di minimizzare quel contributo.

FAVA, presidente della Commissione. Sul contributo del Sisde, leggo dalla sentenza di primo grado del processo che la riguarda, ci sono due letture differenti. Dice la sentenza “L’imputato – in questo caso lei – ha tentato di evidenziare l’importanza, se non addirittura la decisività, del suo contributo offerto all’autorità giudiziaria per quelle indagini”. Versione seccamente smentita dal dottor La Barbera che ha parlato di un “mero scambio di opinioni”.

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Quando La Barbera dice che non ho dato nessun contributo essenziale per le indagini, dice la verità. Io nella mia qualità, nella mia posizione, che contributo potevo dare se non potevo fare indagini? Il contributo lo può dare chi può fare indagini, non chi non le può fare. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS

IL DEPISTAGGIO SU VIA D’AMELIO. Bruno Contrada, l’indagato per mafia che indaga sulle stragi. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS su editorialedomani.it il 14 novembre 2021. Tinebra sa che su Contrada stanno indagando a Palermo, sa che Mutolo ha fatto il suo nome, lo sa ancor prima di incontrarlo per la prima volta. Eppure il procuratore di Caltanissetta non esita a dargli fiducia e ad appaltare al Sisde gli spunti investigativi più immediati. Il cui risultato, ricordiamolo, sarà proprio la relazione su Scarantino.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata al depistaggio sulla strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

La collaborazione tra il Sisde e la Procura di Caltanissetta ha vita breve. Alla vigilia del natale 1992 Bruno Contrada viene tratto in arresto ed accusato di concorso esterno in associazione mafiosa È l’epilogo di un’indagine dei magistrati di Palermo, costruita a partire dalle informazioni del pentito Mutolo.

Fino all’arresto, per mesi Contrada si trova a interpretare un duplice ruolo: punto di riferimento (lui e il Sisde) della Procura di Caltanissetta per le indagini sulle stragi di Capaci e via D’Amelio; a Palermo, indagato per reati di mafia dalla procura di Palermo. Possibile che Tinebra nulla abbia saputo dai colleghi di Palermo? Che abbia continuato ad affidarsi così ciecamente ad un funzionario che altri magistrati ritenevano corrotto? Lo abbiamo chiesto anzitutto allo stesso Contrada.

FAVA, presidente della Commissione. Il dottor Tinebra sapeva che Mutolo stava parlando e avrebbe fatto anche il suo nome, dottor Contrada? Ebbe mai la sensazione che di questo il procuratore di Caltanissetta fosse stato informato dai colleghi palermitani?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Io non solo non ho mai parlato con il dottor Tinebra di questa mia vicenda… né lui mi ha mai dato l’impressione che fosse al corrente di questo. Perché io sono sicuro che se il dottor Tinebra fosse stato messo al corrente dai suoi colleghi di Palermo delle investigazioni, delle indagini che venivano fatte sul mio conto, non avrebbe avuto più rapporti con me.

FAVA, presidente della Commissione. Come è possibile che la Procura di Palermo non abbia avvertito Caltanissetta nel momento in cui c’era in corso un’indagine su di lei, sapendo che lei collaborava con il dottor Tinebra?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Può darsi che non lo sapesse neppure la magistratura di Palermo che io collaboravo.

FAVA, Presidente della Commissione. Beh, insomma, avevate costruito una squadra di lavoro, c’erano stati più incontri a Caltanissetta, non era un lavoro del tutto sottotraccia, il vostro coinvolgimento non sarà sfuggito a molti.

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. L’inchiesta giudiziaria sul mio conto in sostanza ha avuto un momento di evidenza solo il 7 dicembre del ’92 quando, su segnalazione della Procura della Repubblica di Palermo, il Ministro dell’interno richiede la cessazione del distacco al Sisde e il rientro nel dipartimento della Polizia di Stato.

IL RAPPORTO TRA CONTRADA, TINEBRA E LA BARBERA

In realtà Tinebra sa. Sa che su Contrada stanno indagando a Palermo, sa che Mutolo ha fatto il suo nome, lo sa ancor prima di incontrarlo per la prima volta. Eppure il procuratore di Caltanissetta non esita a dargli fiducia e ad appaltare al Sisde gli spunti investigativi più immediati. Il cui risultato, ricordiamolo, sarà proprio la relazione su Scarantino.

INGROIA, già magistrato. Dissi a Tinebra che Borsellino ci aveva riferito le cose che Mutolo gli aveva detto fuori verbale sul conto di Contrada. Questo glielo dissi l’indomani, il 20 o il 21 luglio… Me lo ricordo ancora, me lo ricordo molto bene, Tinebra in quell’accaldato mese di luglio, informale, in maniche di camicia, con perfino le maniche arrotolate, che mi accolse e mi disse “eh, so che tu sei…”

FAVA, presidente della Commissione. A Palermo?

INGROIA, già magistrato. A Palermo. Mi disse: “So che sei uno dei più stretti collaboratori di Borsellino, avremo tempo per raccogliere a verbale le tue dichiarazioni, ma vorrei sapere intanto se ci puoi fornire elementi che possono essere utili per le prime indagini”. Mi colpì un po’ che un Procuratore della Repubblica…

FAVA, presidente della Commissione. La modalità…

INGROIA, già magistrato. Esatto! Che un Procuratore di Repubblica decidesse di sentirmi a braccio, però, vabbè, io avevo trent’anni, non è che mi impuntai col Procuratore di Caltanissetta… per cui raccontai subito quello che mi era stato raccontato da Teresa Principato e Ignazio De Franscisci, i due sostituti ai quali sabato 18 luglio Paolo aveva raccontato questo incontro con Mutolo. Incontro in cui Mutolo gli aveva parlato del dottor Signorino (sostituto alla Procura di Palermo, morto suicida) e del dottor Contrada, e che lui aveva capito che c’erano delle pesanti collusioni… Quindi, io dissi a Tinebra questa cosa. Tinebra prese atto, non ha mai verbalizzato, io la verbalizzai due anni dopo, quando mi sentirono Boccassini e Fausto Cardella ma intanto abbiamo scoperto che Tinebra dopo la mia dichiarazione aveva affidato proprio a Contrada, in qualche modo, un compito investigativo diretto. Poi, a distanza di tempo, abbiamo scoperto che quel gruppo investigativo che aveva costituito Contrada su richiesta di Tinebra, e che collaborava, tra virgolette, alle indagini, era quello che aveva fatto un’informativa che fu chiave per ricostruire il presunto peso mafioso di Scarrantino… Certo, Contrada sapeva, qualcuno gli avrà detto che aveva il fiato sul collo dalla Procura di Palermo.

***

FAVA, presidente della Commissione. Com’è possibile che due Procure, a distanza di 70 chilometri, entrambe fortemente coinvolte sul piano personale, professionale e giudiziario su questa indagine, anche se la titolarità diretta riguardava Caltanissetta, potessero dare questa valutazione opposta su un dirigente del Sisde e soprattutto non comunicare tra loro? E l’Alto Commissariato non avrebbe dovuto avere una funzione di coordinamento? Insomma, come poteva accadere che Caltanissetta e Palermo si muovessero in direzioni opposte sulle stesse vicende e rispetto alle stesse persone?

MARTELLI, già Ministro della Giustizia. Presidente io attribuisco, come dire alla sua eccezionale buona fede questa domanda, ma la storia della magistratura inquirente, soprattutto degli ultimi trenta, forse potremmo anche allargarci negli ultimi cinquant’anni, è talmente piena di episodi analoghi, di contrasti, contraddizioni, reciproche smentite, quando non reciproche guerre tra magistrati che francamente… La gravità dell’episodio non è nel comportamento della magistratura, è nella vittima: è Borsellino.

FAVA, presidente della Commissione. Lei dice che non possiamo stupirci.

MARTELLI, già Ministro della Giustizia. No.

FAVA, presidente della Commissione. Quando arrestano Scarantino, il 29 settembre del ’92, lei ebbe una interlocuzione con la Procura di Caltanissetta per commentare l’operazione?

MARTELLI, già Ministro della Giustizia. Ma sì, nell’immediato ci fu soddisfazione come è naturale, insomma, se il Procuratore di Caltanissetta, che è stato appena nominato, in così breve tempo, arriva ad individuare il responsabile in una strage efferata ed è reo confesso, va bene.

Resta nell’ombra, di quei sei mesi, il rapporto operativo fra Contrada e La Barbera, formalmente a capo del gruppo investigativo costituito ad hoc per le due stragi. E qui il ricordo offerto da Contrada in Commissione – su quella collaborazione e su La Barbera - si fa particolarmente puntuale. Anche su un punto controverso: la collaborazione - sotto copertura e retribuito - di La Barbera con i servizi segreti.

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Io sono stato dieci anni al Sisde, dal marzo del 1982 al dicembre del ’92, dieci anni. Ho ricoperto incarichi anche di un certo rilievo. Sono stato il coordinatore dei centri Sisde della Sicilia e della Sardegna, sono stato il coordinatore dei centri del Lazio, il Capo di Gabinetto dell’Alto Commissario e così via. Non ho mai sentito dire, né mai qualcuno mi ha confidato, mi ha sussurrato, oppure ho capito io che il capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera sia stato un collaboratore del Sisde, un agente del Sisde. Di converso mi risulta, e questo lo posso testimoniare, che il Sisde e principalmente per volontà del suo direttore, veniva incontro ad esigenze economiche di funzionari di Polizia o che ricoprivano altri incarichi di notevole rilievo, Prefetti anche… Per il Prefetto di Palermo mi risulta personalmente.

FAVA, presidente della Commissione. Il prefetto di Palermo di quale epoca?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Il prefetto di Palermo nel periodo della strage Borsellino, parlo del prefetto Mario Iovine.

FAVA, Presidente della Commissione. E in che senso il Sisde aiutava economicamente il prefetto di Palermo?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Venivano destinate delle somme a chi era particolarmente impegnato in particolari settori, che non erano soltanto quelli della criminalità organizzata… dei contributi, non so come definirli, delle prebende, degli aiuti economici… del tipo come l’avevo io stesso. Quando veniva da Roma a Palermo l’Alto Commissario, prefetto De Francesco, mi portava una busta con un assegno della Banca nazionale del Lavoro di cinquecentomila lire, duecentocinquanta euro di oggi. Era un di più oltre il mio stipendio per l’incarico che ricoprivo di suo Capo di Gabinetto, ecco… E per La Barbera che alloggiava in albergo…

FAVA, presidente della Commissione. Stiamo parlando del prefetto di Palermo. Perché il Sisde avrebbe dovuto dare, diciamo, degli emolumenti al prefetto Iovine? A che titolo?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. …non so, c’è tutta la questione dei fondi neri del Sisde, no? Tutta l’indagine che è stata fatta a Roma, dove si è parlato anche di questi fondi che venivano erogati così, addirittura si parlava di una somma mensile per il Ministro dell’interno, per i suoi fondi, le sue spese riservate, diciamo.

FAVA, presidente della Commissione. Ma che spese riservate avrebbe potuto avere il Prefetto di Palermo nell’estate del ’92? Questo non riusciamo a capire.

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Dico spese riservate per il Ministro dell’interno, non per il Prefetto di Palermo. Era un contributo che il servizio dava tramite l’Ufficio, c’era proprio una segreteria particolare di fondi riservati… che non ne rende conto la Corte dei Conti, no?

FAVA, presidente della Commissione. Sono fondi non registrati.

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. …sono stati dati dieci milioni ad un confidente, per esempio…

FAVA, presidente della Commissione. Ma il Prefetto di Palermo, non avendo funzioni investigative o giudiziarie, non avendo bisogno di risorse in nero per pagare collaboratori o confidenti a che titolo doveva essere pagato?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Magari era particolarmente esposto, lontano dalla famiglia…

FAVA, presidente della Commissione. E perché era il Sisdea pagare e non l’amministrazione dell’Interno?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. …è che normalmente non portavano le famiglie…

FAVA, presidente della Commissione. Ma quindi possiamo dire che il Prefetto di Palermo aveva un rapporto di collaborazione col Sisde?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Che collaborazione poteva dare al Sisde il Prefetto di Palermo?

FAVA, presidente della Commissione. Se il Sisde lo pagava dobbiamo immaginare che ci fosse una contropartita.

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Guardi, io mi sono convinto che anche questa storia di…

FAVA, presidente della Commissione. …La Barbera?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. …della retribuzione, chiamata retribuzione, ma non saprei…

FAVA, presidente della Commissione. C’era anche un nome in codice assegnato a La Barbera: “Rutilius”.

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Si davano questi nomi in codice come si davano ai confidenti, no? Per dare una spiegazione dell’erogazione di queste somme e quindi a lui si vede che gli avevano dato il nome “Rutilius”.

FAVA, presidente della Commissione. Questo tipo, diciamo, di sostegno economico nel caso di La Barbera, nel caso di Iovine, da chi era gestito? Dal direttore del servizio? Era informata l’amministrazione dell’Interno? La Presidenza del Consiglio?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Ma si faceva per tante occasioni. Adesso, per esempio, io so perché avevo allora rapporti, il Sisde pagava lo stipendio al Segretario particolare del Prefetto di Palermo, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, lui si era portato questo Segretario particolare che era un vecchio Maresciallo dei Carabinieri in pensione che veniva retribuito dal Centro Sisde di Palermo.

FAVA, presidente della Commissione. Ma perché l’aiuto economico l’avrebbe dovuto dare il Sisde e non, per esempio, il Ministero dell’Interno o la Presidenza del Consiglio? A che titolo il Sisde aveva questa funzione di sostegno economico di fronte ad altre amministrazioni dello Stato che avevano più titolo per intervenire? La risposta è perché probabilmente c’era anche la possibilità di avere da queste persone delle informazioni.

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. È il Sisde che deve dare le informazioni agli organi di Polizia, non è che la Polizia deve dare le informazioni al Sisde.

FAVA, presidente della Commissione. E La Barbera?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Io sono convinto che il dottor La Barbera, per un periodo di tempo, quando era Capo della Squadra Mobile di Palermo aveva un contributo, un aiuto economico mensile dal Sisde tramite l’intervento di un suo carissimo amico che è stato il suo, come dire, tutor…

FAVA, presidente della Commissione. Il suo tutore, diciamo, istituzionale.

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. …quello che era intervenuto per farlo mandare a Palermo come Capo della Squadra Mobile, il dottor Luigi De Sena, che era un alto funzionario del Sisde, era il capo dell’Uci, dell’Unione Centrale Informativa… Siccome al dottor La Barbera piaceva soggiornare in albergo, quindi, per venire incontro alle sue esigenze economiche gli faceva avere mensilmente il denaro.

L’IDEA DI CONTRADA SU SCARANTINO

Infine Scarantino. L’informativa del Sisde, abbiamo detto, è la pietra miliare su cui si costruisce ‘impianto del depistaggio. Ma che opinione aveva realmente Contrada di Scarantino?

SCHILLACI, componente della Commissione. Ma non ebbe la sensazione che Scarantino fosse una persona, diciamo, che viveva di espedienti, non era una persona di spicco che avrebbe potuto organizzare la strage di via D’Amelio?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Io ho fatto polizia giudiziaria per più di venti anni a Palermo, nella mia attività professionale ho conosciuto decine, centinaia di mafiosi. Ho studiato la mafia e gli uomini di mafia, la mentalità mafiosa, il comportamento, l’atteggiamento, il gergo della mafia… Io posso dire soltanto una cosa, che se avessi trattato io Vincenzo Scarantino, trattato nel senso di colloqui e d’indagini su di lui, dopo ventiquattro ore mi sarei accorto che era un cialtrone e che raccontava cose non vere.

FAVA, presidente della Commissione. E come mai non se n’è accorto il dottor La Barbera che era uomo di grande esperienza anche in Sicilia?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Io non ho mai avuto a che fare con Scarantino, non l’ho mai visto, non ho mai fatto un minimo accenno d’indagini su di lui. L’unica cosa che son venuto a sapere è che questo Vincenzo Scarantino era un parente di un mafioso della zona sua…

FAVA, presidente della Commissione. Dottor Contrada, proprio perché lei avrebbe avuto, conoscendolo, questa immediata impressione sulla pochezza criminale di Scarantino, le chiedevo come mai, secondo lei, un poliziotto di antica e collaudata esperienza come La Barbera dopo decine di colloqui investigativi e rapporti personali con Scarantino ha continuato fino alla fine a credere che fosse un attendibile efficace collaboratore di giustizia.

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Signor Presidente, io non voglio apparire come quello che parla di persone che non possono più difendersi o contraddirmi… però è necessario che io le dica una cosa: che ci sono degli organismi di polizia giudiziaria, in primo piano quello di Palermo, ma poi anche quello di Catania, di Reggio Calabria e di Napoli, che non possono essere affidati a funzionari, anche dotati di buona cultura, di intelligenza, di acume, di perspicacia, ma che non hanno un’esperienza di anni e anni di lavoro, di conoscenza, di frequentazione con i criminali della ‘ndrangheta, della mafia, della camorra. A Firenze si può mandare a fare il capo della Squadra Mobile uno che non ha mai fatto Polizia giudiziaria a Firenze. A Palermo, no.

FAVA, presidente della Commissione. Al dottor La Barbera hanno affidato la direzione del gruppo investigativo “Falcone-Borsellino”.

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Quando io ho letto, negli anni successivi, i nomi dei 25 componenti del gruppo “Falcone-Borsellino”... Dico, ma questi qua che esperienza avevano? Non li avevo mai sentiti questi nomi. Come si fa ad affidare a loro un’indagine su un delitto come la strage di via D’Amelio dove vengono ucciso un Procuratore aggiunto e cinque agenti di polizia?

FAVA, presidente della Commissione. Che risposta si è dato?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Il dottor La Barbera sarà stato un ottimo funzionario di Polizia, un ottimo investigatore, un ottimo poliziotto, ma ha fatto servizio sempre nel nord… è venuto a Palermo che non sapeva neppure dov’era di casa la mafia e forse ne sapeva di mafia meno di mia madre!

FAVA, presidente della Commissione. Però, mi faccia dire, siamo di fronte alle due più clamorose stragi terroristico-mafiose che abbiamo conosciuto, Capaci e via D’Amelio, e ci troviamo con un Procuratore della Repubblica a Caltanissetta che dichiara candidamente “io non capisco nulla di mafia”, con un gruppo di investigazione affidato ad un funzionario che lei mi dice di mafia ne capisce meno di sua madre… È soltanto un problema di superficialità o c’è altro?

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Ma secondo lei io non ho pensato questo? Anche se non l’ho mai detto a nessuno e non vorrei dirlo, anche perché il dottor Giovanni Tinebra, purtroppo, non c’è più… però io uscendo da quell’incontro con lui dissi: «ma come fa questo qua a condurre un’inchiesta giudiziaria su fatti di questo genere?» Qua c’era un’impreparazione generale e ci metto anche il Sisde dove io facevo servizio perché tranne la mia modestissima persona e qualche vecchio sottoufficiale, i miei superiori non conoscevano la Sicilia neppure per motivi turistici.

FAVA, presidente della Commissione. Allora, dottor Contrada, può darsi che non ci fosse soltanto ingenuità… Voglio dire: strumenti investigativi, professionalità, capacità, competenza esistevano a Palermo, la polizia giudiziaria aveva affrontato e risolto indagini molto complesse. Quando si decide di estromettere di fatto tutta l’esperienza investigativa siciliana per affidarsi ad un gruppo costruito sulla carta, affidato ad un funzionario che – almeno per ciò che dice lei - non ne capisce nulla di mafia, c’è anche il sospetto che forse non si voleva davvero un’investigazione professionale su quello che aveva determinato la strage di via D’Amelio. E forse il depistaggio e i 17 anni senza verità ne sono anche una conferma.

CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Non è soltanto questo. Poi ci sta l’ambizione esasperata, perché l’ambizione di carriera è umana, di volere andare avanti nella carriera. Anch’io non volevo rimanere sempre Commissario, volevo diventare Commissario Capo e poi Vicequestore aggiunto e poi primo dirigente… ma non in maniera esasperata passando su tutto e su tutti, “vestendo i pupi”, come nel gergo si dice, cioè sostenendo delle tesi che sono manifestamente infondate, assurde, piste investigative impercorribili perché manifestamente non conducenti, e tutto solo per la bramosia della carriera, di avere un grado in più insomma.

SOLO UNA VENDETTA DI MAFIA?

Bramosie di carriere, suggerisce Bruno Contrada. Forse. Ma probabilmente non solo questo. Il ruolo giocato dal Sisde in quell’estate del ‘92, assieme ad altri protagonisti e comprimari, qualunque sia stata la molla iniziale, determina un arretramento traumatico della soglia della verità giudiziaria e processuale. Per diciassette anni quel depistaggio – voluto, protetto, subito da molti corpi dello Stato - blinda la strage di via D’Amelio dentro una formula assolutoria: fu solo una vendetta mafiosa.

Il contesto, suggeriva il procuratore generale Scarpinato, come abbiamo scritto nelle prime pagine di questa relazione. E in quel contesto è difficile immaginare per i servizi d’intelligence che forzature e reticenze, fondi neri e agenti coperti, siano stati solo il prodotto d’un legittimo desiderio di carriera.

C’era altro, dice Scarpinato: anzi, c’è altro.

SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Quando parliamo di Servizi, secondo me dobbiamo avere la mente a quello che hanno fatto i Servizi fino alla caduta del muro di Berlino. C’è stata una parte dei servizi che ha avuto una fedeltà atlantica superiore alla Costituzione e che obbediva più a interessi esterni, sull’altare dell’anticomunismo, con la necessità, quindi, per questa finalità di fare anche operazioni sigillate e coperte che prevedevano omicidi e stragi… Stiamo parlando di apparati dello Stato che si sono mossi nell’ambito di interessi, non solo nazionali ma internazionali. È questo il punto.

Quanto cade il Muro di Berlino, tutte le protezioni che avevano garantito sino ad allora questi personaggi, improvvisamente vengono meno… Non c’era solo l’esigenza di coprire un funzionario corrotto, si trattava di coprire settori dei Servizi che avevano fatto una guerra sporca, perché questo era accaduto, e che non ci stavano a essere sacrificati perché erano cambiati gli equilibri internazionali.

Quali siano state le tappe di questa “guerra sporca” va oltre le intenzioni di questa relazione e ci porterebbe fuori tema. Ma forse è tempo che su questo tema si apra una riflessione che non può essere confinata solo nelle aule parlamentari né delegata alle iniziative della magistratura. In fondo, attraverso quelle tappe e quella guerra sporca passa l’anima profonda della nostra storia repubblicana. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS 

IL DEPISTAGGIO SU VIA D’AMELIO. Il dossier “mafia-appalti” e la guerra fra magistrati e carabinieri.

COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS su editorialedomani.it il 15 novembre 2021. Tutto nasce da una delega conferita nel 1989 dalla Procura di Palermo ai Ros avente quale principale obiettivo quello di accertare “la sussistenza, l'entità e le modalità di condizionamenti mafiosi nel settore degli appalti pubblici nel territorio della provincia di Palermo”. Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata al depistaggio sulla strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

L’inchiesta mafia-appalti rappresenta senz’ombra di dubbio uno degli aspetti più critici e controversi di quello che, citando Leonardo Sciascia, potremmo definire l’affaire Borsellino.

In questa sede, com’è naturale, non intendiamo entrare nel merito delle diverse – e non sempre concordanti – pronunce emesse nel corso degli anni da parte di diverse Autorità Giudiziarie sul valore da attribuire al rapporto del Ros dei Carabinieri del 16 febbraio 1991: ovvero, se costituisca un possibile fattore di accelerazione del proposito stragista nei confronti di Paolo Borsellino o, invece, un’indagine del tutto neutrale in tale prospettiva (pur mantenendo aspetti di straordinaria rilevanza nell’ambito di altri giudizi).

Fra le priorità di questa inchiesta vi è quella di comprendere, semmai, se vi siano punti di contatto tra questa vicenda (nel suo complesso) e il depistaggio subito dalle indagini su via D’Amelio.

Il rapporto dei Carabinieri è argomento di controversia già in vita di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per una migliore intelligenza espositiva, ne ripercorriamo in sintesi la genesi.

Tutto nasce da una delega conferita nel 1989 dalla Procura di Palermo ai Ros avente quale principale obiettivo quello di accertare “la sussistenza, l'entità e le modalità di condizionamenti mafiosi nel settore degli appalti pubblici nel territorio della provincia di Palermo”. Il risultato di tale attività è, appunto, il rapporto dei Ros del febbraio ’91.

Falcone è ormai in procinto di trasferirsi a Roma. Il fascicolo finisce sulla scrivania del procuratore Giammanco che, a maggio, ne affida l’esame ai sostituti Sciacchitano, Morvillo, Carrara, De Francisci e Natoli. Il 25 giugno 1991 viene presentata una richiesta di custodia cautelare nei confronti di Angelo Siino, Giuseppe Li Pera, Cataldo Farinella, Alfredo Falletta e Serafino Morici, accolta dal GIP il 9 luglio. Più o meno nello stesso periodo, il 26 luglio 1991, viene contestualmente delegata ai Ros un’ulteriore attività investigativa riguardante la società regionale Sirap Spa.

Nel periodo antecedente alla richiesta di misure cautelari di giugno, però, accade qualcosa di strano. La stampa comincia ad avanzare pesanti critiche sull’operato della procura di Palermo, parlando di fratture con i vertici dell’Arma e, addirittura, di presunti “insabbiamenti” delle indagini riguardanti nomi eccellenti della politica. Eppure, come spiegheranno i magistrati palermitani, quei nomi nel dossier non ci sono.

A tal riguardo, si dà lettura della relazione presentata al CSM il 7 dicembre 1992, a firma del procuratore aggiunto dottor Vittorio Aliquò e dei sostituti dottor Guido Lo Forte e dottor Roberto Scarpinato (Relazione sui procedimenti instaurati a Palermo su mafia e appalti), richiamata, poi, in quella depositata dal procuratore Caselli nel febbraio ’99 dinanzi la Commissione nazionale antimafia (pp. 32-34):

«Una prima notizia del tutto fantasiosa era quella secondo cui, ancora in data 14 giugno e cioè proprio mentre stava per essere depositata la richiesta di misure cautelari (25.6.1992) la Procura "avrebbe rifiutato" di ricevere il "rapporto" già ultimato dai Carabinieri… Nei successivi articoli, sia antecedenti che posteriori all'esecuzione degli arresti, da un lato vi era la inspiegabile riproduzione di intercettazioni coperte dal segreto istruttori, anche prima del deposito degli atti al "Tribunale della Libertà", e dall'altro l'affermazione che nel "rapporto" sarebbero state individuate, in relazione all'attività dell'organizzazione mafiosa, responsabilità di numerose ed importanti personalità politiche, anche con incarichi di governo senza alcun seguito da parte della Procura. Tale affermazione, secondo gli organi di stampa, costituiva il motivo principale di pesanti critiche contro l'operato della Procura, asseritamente provenienti da ufficiali dei Carabinieri.

Estremamente significativi in tal senso sono gli articoli pubblicati sui quotidiani "Secolo XIX" e "La Sicilia" rispettivamente del 13.6.1991 e del 16, 17 e 19 giugno 1991, contenenti - insieme alla trascrizione letterale di parti del rapporto - pesantissime critiche di "insabbiamento" nei confronti della Procura della Repubblica, nonostante questa non avesse ancora formulato le sue richieste al Gip. (…) Le anticipazioni di stampa relative a personalità politiche nazionali coinvolte negli illeciti asseritamente evidenziati dall'informativa apparivano inizialmente, come si è detto, del tutto incomprensibili.

Dall’informativa del 16.2.1991 risultava invero che, nel corso di alcune telefonate tra imprenditori, venivano episodicamente fatti i nomi di alcuni politici all'interno di contesti discorsivi fra terze persone che non evidenziavano di per sé fatti illeciti.

L’informativa si chiudeva con un doppio elenco di persone coinvolte nell'indagine. Il primo elenco era così intestato: «Schede di personaggi di maggior interesse in ordine ad ipotesi di reato di associazione per delinquere di tipo mafioso». Nessun nome di politico si rinveniva in questo elenco. Il secondo elenco era così intestato: «schede di personaggi di maggiore interesse in ordine ad ipotesi di reato di associazione per delinquere».

In questo elenco, come politici, figuravano solo Domenico Lo Vasco e Giuseppe Di Trapani, all'epoca Assessori Comunali di Palermo. Del resto non si trattava di vere e proprie schede, ma di un semplice elenco in cui accanto ad ogni nome vi era l'indicazione dell'intercettazione telefonica nella quale si faceva riferimento allo stesso.

La sostanziale mancanza di elementi significativi sul piano penale per il Lo Vasco ed il Di Trapani, e a maggior ragione per gli altri uomini politici citati nell'informativa e non nelle schede, veniva del resto esplicitata in una nota in data 27.7.1991 del Comandante del Ros (…) Come si sarebbe compreso dopo, le polemiche di stampa apparivano inspiegabili soltanto ai magistrati della Procura della Repubblica. Invero i nomi dei personaggi politici di rilievo nazionale, tali da suscitare un così rilevante interesse da parte della stampa, erano diversi da quelli sopra menzionati: e, mentre erano evidentemente noti ai giornalisti già dall'estate del 1991, sarebbero stati portati a conoscenza della Procura di Palermo in parte solo nel novembre 1991 e in parte addirittura nel mese di settembre 1992».

ROTTURA TRA PROCURA E ROS

Così il giornalista Felice Cavallaro racconta quella fase delicatissima in suo articolo del 21 luglio 1991.

Crolla a Palermo il rapporto di fiducia fra Procura della Repubblica e carabinieri. C'è una frizione sotterranea che forse non sfocerà in una «guerra» ma che avvelena un'altra estate siciliana trasformando quello della lotta alla mafia in un terreno paludoso, impraticabile. Siamo all’epilogo di incomprensioni che vengono da lontano. Il punto di rottura e l'ultimo rapporto dei carabinieri sul mercato degli appalti in Sicilia.

Novecento pagine presentate in Procura il 16 febbraio di quest'anno, rimaste senza seguito fino alla scorsa settimana quando ormai fra inquirenti, giornalisti ed uomini politici circolavano robuste indiscrezioni su intercettazioni e reati anche con riferimento a diversi uomini politici poi risultati estranei al provvedimento con cui la magistratura ha ristretto l’operazione all’arresto di cinque imprenditori ed intermediari mafiosi.

«Sembra che ciascuno lavori per obiettivi diversi» rimugina un ufficiale… I messaggi cifrati sono gli Scud e i Patriot di una guerra non dichiarata. Il procuratore Pietro Giammanco preferisce non incontrare i cronisti. I carabinieri scalpitano, convinti di aver messo le mani su un gruppo che rappresenta direttamente il vertice di Cosa Nostra intrattenendo rapporti con dirigenti ed amministratori di grandi aziende nazionali collegate soprattutto a DC e PSI…

Le indagini vanno avanti. A gennaio del 1992 c’è una nuova richiesta di ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Rosario Cascio e Vito Buscemi, accolta il mese dopo dal Gip.

Infine, a marzo, viene chiesto il rinvio a giudizio per sei imputati: Angelo Siino, Alfredo Farinella, Alfredo Falletta, Giuseppe Li Pera, Rosario Cascio e Vito Buscemi. Per tutti gli altri indagati – tra i quali Claudio De Eccher, Giuseppe Lipari. Antonio Buscemi e Paolo Catti De Gasperi – si chiede invece l’archiviazione. È il 13 luglio 1992.

Sei giorni dopo, la strage di via D’Amelio.

QUELLA RIUNIONE POCO PRIMA DI MORIRE

Nel corso dei quattro giorni che il Csm dedicherà, qualche settimana dopo, al caso Palermo, si parla anche del dossier “mafia-appalti”. Soprattutto si insiste su una riunione svoltasi il 14 luglio 1992, presente Paolo Borsellino, che aveva all’ordine del giorno proprio gli sviluppi di quell’inchiesta, muovendo proprio dalle accuse rilanciate dai media e dalla querelle a distanza con i carabinieri.

Colpisce la lettura totalmente divergente che su quella riunione e sugli umori di Borsellino, offrono davanti al Csm i magistrati della procura di Palermo:

LO FORTE, già magistrato. Per quanto riguarda eventuali contrasti tra Falcone e Giammanco, (sul rapporto dei Ros, ndr.) a me non risultano… 

***

PIGNATONE, già magistrato. La relazione l’ha fatta Lo Forte, dopo che avevano depositato l’archiviazione… In questa riunione, Borsellino non fece nessun rilievo. 

***

GOZZO, sostituto procuratore nazionale antimafia. Ho visto proprio questo contrasto più che latente, visibile, perché proprio Borsellino chiese e ottenne che fosse rinviata la discussione su questo processo e fece degli appunti molto precisi: come mai non fossero inserite all’interno del processo determinate carte… che erano state inviate alla Procura di Marsala… e nella fattispecie al dottore Ingroia… E poi diceva che c’erano nuovi sviluppi… in particolare un pentito… che ultimamente aveva parlato… e sono rimasto sorpreso perché dall’altra parte si rispose: «ma vedremo»…

***

PATRONAGGIO, Procuratore della Repubblica di Agrigento. Prima della riunione di martedì 14 luglio 1992… io non avevo cognizione diretta delle divergenze e delle spaccature… mi stupisce ancora di più quando il collega Borsellino chiede addirittura delle spiegazioni, vuole chiarezza su determinati processi… si informa (…) chiede spiegazioni su un procedimento riguardante Siino Angelo ed altri, e capisco che qualche cosa non va (…) In buona sostanza la relazione sul processo Siino fu fatta unicamente, esclusivamente per dire che non vi erano nomi di politici rilevanti all’interno del processo o che se vi erano nomi di politici di un certo peso entravano per un mero accidente…

Ricordi difformi. Da una parte c’è chi descrive un Paolo Borsellino quasi defilato nel momento in cui viene toccato l’argomento mafia-appalti. Altri, invece, rammentano un approccio incalzante con puntuali richieste di chiarimento. Lo ricordiamo, è il 14 luglio 1992. A Borsellino rimangono solo cinque giorni di vita.

Che quel rapporto su mafia e appalti gli stia a cuore lo conferma il ricordo, in Commissione, dell’ex pm Antonio Di Pietro. È il 25 maggio 1992, il giorno dei funerali di Giovanni Falcone.

DI PIETRO, già magistrato. Borsellino è stato ucciso non solo e non tanto per quel che aveva fatto, che era già tanto, ma per quello che doveva fare. E quello che doveva fare me lo disse davanti alla bara di Falcone: «dobbiamo fare presto, dobbiamo fare subito perché non abbiamo tempo». Siccome quelle parole facevano seguito ad una serie di incontri che avevo avuto al Ministero proprio con Borsellino, anche alla presenza di Falcone, io le collegai direttamente a quell’indagine che stavo facendo e che lui, avendo letto il rapporto dei Ros, aveva ben chiara. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS

IL DEPISTAGGIO SU VIA D’AMELIO. Indagini, archiviazioni e quei nomi eccellenti che “spuntano” con ritardo. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS su editorialedomani.it il 16 novembre 2021. A febbraio del 1991 i Ros depositano una corposa informativa all’interno della quale, però, non ci sono nomi di politici. Partono le indagini ed arrivano i primi arresti. Ma già a giugno, la stampa aveva dato alcune anticipazioni su alcune intercettazioni che avrebbero riguardato soggetti politici. Quelle carte, spiega Scarpinato, non erano tra gli atti in possesso della Procura che di quei nomi eccellenti verrà a conoscenza solamente con la seconda informativa dei Ros, a settembre del 1992.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata al depistaggio sulla strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

«Dobbiamo fare presto» dice Borsellino a Di Pietro, senza fare, però, espresso riferimento all’inchiesta mafia-appalti. Più netta, sul punto, la testimonianza del dottor Alberto Di Pisa.

DI PISA, già magistrato. Io ricordo che in occasione della camera ardente allestita al Palazzo di Giustizia dopo la strage di Capaci ebbi con Borsellino un breve colloquio dinanzi alle bare di Falcone, della moglie e degli agenti della scorta. Io dissi a Borsellino che questa strage secondo me aveva una finalità destabilizzante. Borsellino mi corresse e mi disse «No, questa non è una strage destabilizzante, ma è una strage stabilizzante» nel senso che mirava a mantenere il sistema attuale e poi aggiunse: «Io intendo riaprire le indagini su mafia e appalti», quasi a volere stabilire un collegamento tra la strage e l’indagine sugli appalti…

A proposito della frenetica attività di Borsellino in quei 57 giorni, torniamo sull’audizione di Antonio Ingroia davanti a questa Commissione.

FAVA, presidente della Commissione. Perché c’era questa particolare attenzione di Borsellino sul dossier dei Ros?

INGROIA, già magistrato. Per i famosi diari (di Falcone, ndr.). Borsellino diceva: «Intanto sono sbalordito che Giovanni Falcone, che tanto aveva criticato post mortem Rocco Chinnici perché teneva i diari, anche lui avesse preso questa abitudine». Poi anche lui, Paolo, con l’agenda rossa… Evidentemente accade quando ci si trova in una situazione…

FAVA, presidente della Commissione. …di solitudine, forse.

INGROIA, già magistrato. Solitudine, o forse la sensazione della morte incombente… Insomma, Paolo mi dice: «se Giovanni lo ha fatto, evidentemente si tratta di cose particolarmente gravi e quindi io voglio approfondire. Se non lo farà la procura di Caltanissetta, lo faccio io informalmente e poi riporterò a Caltanissetta – questa era la sua idea – rigo per rigo, ogni cosa». E siccome ci sono passaggi nel diario di Falcone relativi al rapporto mafia-appalti, lui trova un motivo in più, che si aggiungeva già alle ragioni che aveva acquisito da Marsala, perché a Marsala lui aveva avuto la netta sensazione che a Palermo lo stavano insabbiando.

Sentiamo quale ricordo custodisce Ingroia su quella riunione del 14 luglio 1992.

INGROIA, già magistrato. I titolari di quel procedimento erano, la stragrande maggioranza, tutti delfini di Giammanco e quindi Borsellino doveva stare alla larga da quel tipo di indagine, che riguardava politica, mafia e appalti. Ricordo una battuta che Paolo fece a uno dei fedelissimi di Giammanco del tempo – non ricordo se era Pignatone o Lo Forte – disse: «voi non mi raccontate tutta la vera storia sul rapporto dei ROS». E aveva ragione.

DUE VERSIONI DELLO STESSO DOSSIER?

Borsellino è interessato per varie ragioni alla vicenda mafia-appalti. Ma davvero non si fida del lavoro svolto dai colleghi?

SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Secondo me la scarsa fiducia c’era, perché c’erano cose che non si capivano, c’erano articoli di stampa che dicevano che c’erano nomi come De Michelis, come Mannino… e allora è chiaro che Paolo Borsellino diceva: «c’è qualcosa che non mi raccontate…». Non solo era un clima di sospetto di Paolo Borsellino ma un po’ di tutti i sostituti ed eravamo in difficoltà noi stessi, cioè, non è che ci è sfuggito qualche cosa? Non è che magari c’è qualche carta che non ci siamo letta? Qualcosa c’era, perché la stampa quando dava notizie, diceva cose vere, solo che quegli atti erano nell’ufficio dei Ros, non erano alla Procura di Palermo… a giugno c’è un articolo su De Michelis, e tu stampa come fai a sapere una cosa che io non so? C’è un articolo su Mannino nel luglio… e tu come fai a sapere una cosa che io non so? Qualcuno passava, dentro il Ros, notizia alla stampa. Notizie che rispondevano alla realtà perché quegli atti c’erano ma non erano alla Procura di Palermo…

Proviamo a riassumere. A febbraio del 1991 i Ros depositano una corposa informativa all’interno della quale, però, non ci sono nomi di politici. Partono le indagini ed arrivano i primi arresti.

A luglio dello stesso anno, la procura conferisce ai Ros, e segnatamente al capitano De Donno, un’altra delega avente ad oggetto la Sirap. Ma già a giugno, la stampa aveva cominciato a fornire una serie di anticipazioni su alcune intercettazioni che avrebbero riguardato soggetti appartenenti al mondo della politica.

Quelle carte, spiega Scarpinato, non erano tra gli atti in possesso della Procura che di quei nomi eccellenti verrà a conoscenza solamente con la seconda informativa dei Ros, a settembre del 1992, dopo che a Palermo è successo veramente di tutto.

Ma come si spiega, allora, che la stampa fosse al corrente del coinvolgimento di alcuni soggetti ancor prima che tale circostanza fosse nota alla procura di Palermo? È un quesito che nel febbraio ’99, l’allora procuratore capo della Procura di Palermo, Giancarlo Caselli aveva condiviso con la Commissione nazionale antimafia attraverso la relazione redatta dai suoi sostituti.

Sembrano essere esistite due versioni dell'informativa mafia-appalti, e precisamente:

una versione ufficiosa, oggetto di indiscrezioni giornalistiche e di illecite fughe di notizie, contenente specifici riferimenti ad esponenti politici di importanza nazionale, ed in particolare agli on. Salvo Lima, Rosario Nicolosi e Calogero Mannino;

una versione ufficiale, quella consegnata il 20 febbraio 1991 nelle mani del dott. Giovanni Falcone, allora Procuratore aggiunto a Palermo; versione priva del benché minimo riferimento ai suddetti esponenti politici.

(…)

• Chi poteva avere insieme la possibilità e l'autorità di epurare l'informativa, espungendo le fonti di prova riguardanti i politici De Michelis, Lima, Nicolosi, Mannino, Lombardo, prima che venisse consegnata, così epurata, alla Procura di Palermo?

• Perché qualcuno ha deciso di operare queste omissioni?

IL RICORDO DI SCARPINATO

A distanza di ventidue anni abbiamo rivolto la stessa domanda al procuratore generale Scarpinato.

SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Quando noi abbiamo l’informativa, nel febbraio ’91, non sappiamo che c’è una intercettazione tra Lima e un soggetto coinvolto negli appalti. Viene ucciso Lima, i Carabinieri non ci dicono niente, non ci dicono che esiste una intercettazione che riguarda Salvo Lima neppure dopo l’omicidio. Questa cosa come si spiega secondo lei? Nell’informativa del 1991, ben 900 pagine, non si citano queste intercettazioni: spuntano soltanto nel settembre del 1992 dopo che ci sono stati gli articoli di stampa in cui dice che la Procura di Palermo è insana… Cosa hanno fatto i Carabinieri? Quale è la scelta che hanno fatto? Io, sinceramente, questo non lo so. Quello che è inammissibile è che da parte di alcuni si spaccia l’archiviazione temporanea con l’archiviazione dell’inchiesta, tutta, che è un falso perché l’inchiesta non fu mai archiviata, continuò…

Scarpinato aggiunge che aveva informato personalmente Borsellino degli sviluppi dell’indagine. Lecito chiedergli se il procuratore aggiunto fosse stato messo a conoscenza o meno della richiesta di archiviazione avanzata il giorno prima della riunione del 14 luglio 1992. La risposta è affermativa.

FAVA, presidente della Commissione. Lei non c’era, ma i colleghi che erano presenti fecero sapere a Paolo Borsellino che alcune posizioni sarebbero state archiviate?

SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Glielo avevo detto io: «abbiamo deciso di concentrarci su quelle posizioni forti in modo da avere la legittimazione della Corte di Cassazione…». Il problema quale era? Archiviare venti posizioni che poi si potevano riaprire in qualsiasi momento, perché la archiviazione è momentanea? Si disse dell’archiviazione di mafia-appalti: ma quando mai è stata archiviata mafia-appalti?

Lo avevamo detto in premessa: è una storia complessa, quella dell’inchiesta mafia-appalti. Del contrasto tra il Ros e la Procura della Repubblica di Palermo, se ne occuperà negli anni, a più riprese, l’Autorità di Giudiziaria di Caltanissetta.

La vicenda si concluderà definitivamente soltanto il 15 marzo 2000 con l’ordinanza di archiviazione pronunciata dalla compianta dottoressa Gilda Loforti. È l’atto giudiziario che mette la parola fine allo scontro che il giornalista Felice Cavallaro racconta così in un suo pezzo.

La guerra fra un pezzo della Procura di Palermo e un’ala del Ros dei Carabinieri, la guerra che per anni ha fatto sussultare i palazzi delle istituzioni, è finita ieri pomeriggio al sesto piano del tribunale di Caltanissetta con una sofferta archiviazione… è stata Gilda Loforti, il giudice delle indagini preliminari, a decidere che non si farà un processo né contro il capitano Giuseppe De Donno, né contro Guido Lo Forte, il magistrato un tempo vicino al procuratore Pietro Giammanco, poi vice di Caselli, e adesso di Pietro Grasso… Non ci sono né vincitori né vinti

Ma perde certamente il pentito Angelo Siino, il “signore degli appalti” che è riuscito a trasformare in nemici De Donno e Lo Forte. Annullata, da una parte, la querela di quest’ultimo contro il capitano. E dall’altra, l’accusa di corruzione estesa, oltre che a Lo Forte, a tre suoi colleghi coinvolti dal ’91 in una telenovela giudiziaria dal canovaccio sempre più confuso: lo stesso Giammanco, Giuseppe Pignatone e Ignazio De Francisci.

La materia dello scontro resta di una gravita assoluta. Il braccio di ferro ruota infatti sul nome della “talpa” che nel ’91 consegnò alla mafia e al leader democristiano Salvo Lima il rapporto dei carabinieri sugli appalti gestiti da Cosa nostra. La domanda ancora priva di risposta con questa archiviazione è semplice: chi fece uscire il dossier? I magistrati o gli stessi carabinieri?

Questo il commento finale del procuratore generale Scarpinato, nel corso della sua audizione dinanzi questa Commissione.

SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Una serie di falsità su questa storia è stata messa in giro proprio per creare un’artificiosa connessione di questa vicenda con la strage di via D’Amelio. Questo risponde all’interesse difensivo di alcuni imputati, e questo è pienamente legittimo, ma io credo che corrisponda all’interesse ulteriore di molti che hanno interesse a blindare la causale della strage di Via D’Amelio dentro Cosa nostra, tagliando fuori invece tutti pezzi deviati dei Servizi. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS

IL DEPISTAGGIO SU VIA D’AMELIO. La Dia sospetta interessi economici dietro le stragi ma incastrano il pupo. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS su editorialedomani.it il 17 novembre 2021. Il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, nel fornire un quadro generale di quella stagione, ha parlato di un rapporto della DIA, di fine 1993, in cui si delineava il quadro “economico politico finanziario” delle stragi, inviato alle procure di Palermo, Roma, Milano e Firenze. Si tratta del “Rapporto Oceano”, mai citato ed utilizzato nelle decine di inchieste che si sono succedute. Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata al depistaggio sulla strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

È utile, in appendice della nostra indagine, esaminare un’altra particolarità del depistaggio su via D’Amelio, che forse ne è anche la principale ragione: l’assenza, nella spiegazione del delitto Borsellino, di qualsiasi motivazione economica.

La procura di Caltanissetta dell’epoca, facendo sua, e imponendola all’opinione pubblica, la versione di Vincenzo Scarantino, ha fornito una ricostruzione dei fatti che spiega la strage di via D’Amelio unicamente con la volontà bestiale di vendetta di Cosa Nostra. E che Cosa nostra si sentiva talmente forte da poter affidare parte dell’organizzazione di quell’eccidio ad un soggetto marginale, praticamente analfabeta, con forti turbe psicologiche.

Ci sono voluti quasi vent’anni perché questa interpretazione dei fatti fosse smontata. Oggi il “versante economico” in cui avvennero le stragi è una delle ipotesi prese in considerazione.

Che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avessero al centro dei loro interessi investigativi la potenza economica e finanziaria di Cosa nostra è da lungo tempo assodato. Falcone era intervenuto con forza del processo – fatale per la mafia americana - Pizza Connection (prestando all’Fbi sia Buscetta che Contorno che si rivelarono testimoni fondamentali); aveva pubblicamente denunciato la “finanziarizzazione” di Cosa Nostra (l’entrata in borsa nel gruppo Gardini); seguiva con attenzione le vicende del grande flusso di denaro che Cosa Nostra aveva investito a Milano (era stato il tema del suo incontro con la procuratrice svizzera Carla Del Ponte, già nel 1988) ed era, ovviamente, molto interessato al rapporto dei Ros su mafia e appalti, che approfondiremo in questo capitolo e che apriva uno scenario: la conquista da parte di Cosa Nostra di una posizione quasi monopolistica nel settore del cemento e del calcestruzzo, con il coinvolgimento delle maggiori imprese italiane, da Calcestruzzi alle cooperative ravennati, da Italcementi a De Eccher, ad Astaldi, a Tordivalle, a Lodigiani, a Cogefar.

Eppure, la procura di Caltanissetta, nelle indagini sulle possibili cause della strage di via D’Amelio non è mai stata interessata a questi aspetti. Ha preferito perseguire, con tenacia e in spregio alla logica, l’assurda pista Scarantino

Il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, nel fornire un quadro generale di quella stagione, ha citato a questa Commissione un rapporto della DIA, di fine 1993, in cui si delineava il quadro “economico politico finanziario” delle stragi, che venne inviato alle procure di Palermo, Roma, Milano e Firenze. Si tratta del “Rapporto Oceano”, mai citato ed utilizzato nelle decine di inchieste che si sono succedute.

La nostra Commissione lo ha acquisito e qui ne riassume alcuni punti.

Nel marzo 1994, a poche settimane dal voto, in forma “strettamente riservata” e soggetti a un “rigoroso segreto istruttorio”, la Dia spediva a quattro procure (Palermo, Roma, Milano e Firenze) i risultati investigativi dell’operazione “Oceano”.

La Dia – Direzione investigativa antimafia – era la “Fbi italiana”, la struttura di polizia, alle dipendenze del ministero dell’Interno in cui per la prima volta si centralizzavano le indagini antimafia. Era stato il sogno di Giovanni Falcone ed era stata formata appena dopo la sua morte, per decreto del ministro della Giustizia Claudio Martelli. Capo della polizia era allora Vincenzo Parisi; ministro dell’Interno, Nicola Mancino. A firmare il rapporto, il capo reparto investigazioni giudiziarie Pippo Micalizio.

Il testo è di settanta pagine ed esamina lo stato delle indagini sulle stragi del 1992 e 1993. È densissimo di nomi, testimonianze e ricostruzioni che portano ad alcune certezze di fondo, che qui si sintetizzano.

Dietro le stragi di Firenze, Roma e Milano c’è sicuramente “la mano della Cosa nostra siciliana”, in associazione con altre organizzazioni mafiose, soprattutto la ’ndrangheta calabrese. Non solo Palermo, dunque, ma molto appoggio da Reggio Calabria, da Catania e soprattutto da Milano. L’obiettivo era “seminare il terrore e il panico” e indurre il governo ad allentare il 41 bis e a chiudere le carceri speciali di Pianosa e dell’Asinara.

Diversa, nel rapporto, la motivazione degli omicidi di Falcone e Borsellino: “richiesti” a Salvatore Riina da “personaggi importanti”, in cambio della promessa di una revisione del maxiprocesso che li aveva visti condannati. Cosa nostra, accettando l’offerta, sapeva benissimo di correre un rischio molto grande, data la prevedibile reazione dello Stato; ma la sua situazione interna era talmente drammatica da non poterla rifiutare. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS

IL DEPISTAGGIO SU VIA D’AMELIO. Finanza sporca, eversione nera e massoneria deviata al fianco dei boss. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS su editorialedomani.it il 18 novembre 2021. Chi erano i “personaggi importanti” che si misero in contatto con Cosa Nostra? Nel suo rapporto, la DIA era estremamente precisa: Licio Gelli e una parte della massoneria italiana, appoggiati da settori dei servizi segreti e da “ambienti imprenditoriali e finanziari”. Operativi sul campo, erano invece esponenti dell’eversione fascista.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata al depistaggio sulla strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Chi erano i “personaggi importanti” che si misero in contatto con Cosa Nostra? Nel suo rapporto, la DIA era estremamente precisa: Licio Gelli e una parte della massoneria italiana, appoggiati da settori dei servizi segreti e da “ambienti imprenditoriali e finanziari”.

Operativi sul campo, erano invece esponenti dell’eversione fascista. Una rete che risaliva e operava fin dagli anni settanta, con il golpe Borghese e la strategia della tensione. E che aveva poi continuato la propria azione con campagne terroristiche (le bombe ai treni e alle stazioni), sempre con lo stesso, identico scopo: difendere e accrescere la ricchezza personale dei suoi aderenti, impedire in Italia trasformazioni politiche e sociali.

Lo stesso schieramento era poi sceso in campo nel caso Sindona, il banchiere per cui si era vagheggiato un golpe separatista in Sicilia. Sia nel caso Borghese sia nel caso Sindona, Cosa nostra era stata attratta all’idea di progetti eversivi dal mi- raggio di amnistie o revisioni di processi.

Il rapporto “Oceano” si concentrava poi sulla manovalanza delle stragi, facendo notare il ruolo svolto da alcuni personaggi.

Colui che materialmente aveva confezionato i cinquecento chili di esplosivo usati per uccidere Falcone era un certo Pietro Rampulla, quarantenne. Interessante personaggio; mafioso di famiglia mafiosa di Mistretta (provincia di Messina), noto come artificiere, ma soprattutto, fin dalla gioventù, come militante politico di Ordine Nuovo. Dinamitardo provetto, fece avere, tramite intermediari, il telecomando a Giovanni Brusca, ma il giorno della strage non andò a Capaci “perché aveva da fare, cose di famiglia”.

Sodale di Rampulla, fin dai tempi della giovanile militanza in Ordine nuovo, tale Rosario Pio Cattafi di Barcellona Pozzo di Gotto, trafficante internazionale di armi, legato ai mafiosi siciliani operanti a Milano. C’era poi un personaggio ancora più misterioso, tale Paolo Bellini, comparso nelle cronache come un oscuro mediatore che aveva contattato dei boss mafiosi promettendo sconti di pena in cambio del recupero di opere d’arte rubate.

La Dia lo segnalava perché veniva citato nella lettera di addio al mondo di Nino Gioè, il mafioso del paese di Altofonte che materialmente spinse su uno skateboard nel cunicolo sotto l’autostrada i panetti di tritolo confezionati da Rampulla. Nino Gioè era stato arrestato (dopo essere stato scoperto grazie a intercettazioni telefoniche) e si era impiccato nel carcere romano di Rebibbia, lasciando uno stranissimo ultimo messaggio, in cui ci teneva a definirsi “un mostro” e a scagionare un sacco di persone.

Era citato anche il signor Bellini, definito “infiltrato”, il quale risultò essere un esponente dell’organizzazione fascista Avanguardia Nazionale, latitante in Brasile per vent’anni, che aveva ottenuto dall’autorità penitenziaria di conoscere Gioè e di concordare con lui attentati.

Nel rapporto Oceano la Dia affiancava al già noto rapporto tra mafia e politica un nuovo elemento: la finanza:

«Il gettito prodotto dalle attività criminali poste in essere dalle varie attività dei gruppi mafiosi non corrisponde al valore dei beni sequestrati, dei patrimoni confiscati, né delle spese che la criminalità sostiene. Questa grande ricchezza residuale non può quindi che essere nascosta nel sistema finanziario (…) Il sistema finanziario, attraverso i suoi meccanismi, ha creato negli ultimi anni strumenti giuridici ed economici che lo hanno portato ad assumere un ruolo preminente rispetto a quello industriale (…) Come è noto questo mercato è quello dove è più agevole nascondere i capitali di illecita provenienza (...) Si può ragionevolmente ipotizzare che, attraverso il mercato finanziario, la criminalità organizzata abbia potuto raggiungere anche il sistema industriale (…)».

Ora questa ipotesi comincia a trovare alcuni supporti in indagini giudiziarie che potrebbero portare alla scoperta di cointeressenze economiche là dove non era neanche immaginabile fino a pochissimo tempo addietro.

Non è affatto da escludere che una simile interpretazione dei fatti fosse condivisa da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS

 IL DEPISTAGGIO SU VIA D’AMELIO. Strage di Via D’Amelio, quattordici processi e una verità ancora lontana. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS il 19 novembre 2021  su editorialedomani.it. Certamente era possibile svelare e disinnescare, quantomeno sul piano strettamente processuale, il depistaggio ben prima e indipendentemente dalla collaborazione di Gaspare Spatuzza, nel 2008. Se ciò non è accaduto è per la conduzione supponente e superficiale delle indagini da parte dei pm di Caltanissetta e la scelta di assecondare acriticamente in alcune sentenze quella ricostruzione fallace e sommaria.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata al depistaggio sulla strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Nella precedente inchiesta erano state sottolineate alcune gravi aporie processuali riguardanti taluni dei giudizi aventi ad oggetto la strage di via D’Amelio, per l’esattezza soltanto tre rispetto ai rimanenti undici giudizi che si sono occupati direttamente della vicenda.

Sennonché, paradossalmente e stranamente, i suddetti tre giudizi hanno prevalso sugli altri, suggellando, apparentemente in modo irreversibile, l’attendibilità oggettiva e soggettiva di Scarantino, Andriotta e degli altri collaboratori a questi due collegati, riconosciuti, invece, successivamente e questa volta veramente in modo definitivo come falsi.

Oggi, dunque, per una esauriente - almeno dal punto di vista dello sviluppo processuale - comprensione dei fatti, diventa ancor più stringente distinguere nettamente il piano extraprocessuale (riguardante le complessive iniziative ed attività investigative scandite nei vari passaggi da molte ombre, buchi neri, deviazioni, depistaggi, forzature e interventi contra legem dei servizi segreti) da quello strettamente processuale, intendendo con ciò esclusivamente richiamare i molteplici processi celebrati e i loro esiti. In tale ultimo contesto, come è noto, è confluito il feticcio Scarantino, costruito ad arte, con il suo seguito (Andriotta, Candura eccetera).

Tale feticcio è stato servito costantemente come un monolito dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta dell’epoca alle Corti di Assise di primo e secondo grado che hanno trattato i processi relativi alla strage, indicandolo come fattore probatorio imprescindibile per la ricostruzione dei fatti e la individuazione dei colpevoli.

Soltanto nel 2017, con l’esito del processo Borsellino quater primo grado (sentenza del 20 aprile) e quello del processo di revisione (sentenza del 13 luglio), si è conseguita la certezza della inattendibilità inconfutabile ed irreversibile di Scarantino, di Andriotta e degli altri collaboratori a loro legati. Dunque l’incontestabile falsità delle rispettive propalazioni.

Diventa allora inevitabile, oltre che doveroso, chiedersi e cercare di approfondire come sia stato possibile che il giudizio di secondo grado del Borsellino bis si sia concluso con la sentenza del 18 marzo 2002 che, in riforma della sentenza di assoluzione di primo grado, condannava Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Urso Giuseppe, Vernengo Cosimo e Murana Gaetano per il delitto di strage sulla base delle dichiarazioni di Scarantino, di Andriotta e degli altri, confermando per il resto la condanna nei confronti di Scotto Gaetano.

Sentenza che a sua volta, circostanza questa difficilmente spiegabile e si vedrà il perché, veniva confermata dalla Cassazione con decisione del 3 luglio 2003 e, pertanto, passava in giudicato, sancendo la condanna definitiva degli imputati, chiamati in correità da Scarantino, dichiarati colpevoli di strage. Sentenze, quella di merito e quella di legittimità, entrambe travolte dal giudizio di revisione conclusosi come si è anticipato con sentenza del 13 luglio 2017 che proscioglieva definitivamente dal reato di strage gli stessi imputati chiamati in correità da Scarantino.

In tutti i processi celebrati anteriormente alla richiamata decisione del 2002 effettivamente, allora, non erano mai emersi circostanze o elementi idonei a sconfessare e smascherare i falsi collaboratori?

La risposta, drammatica, deve essere di segno negativo. Si vuol dire, cioè, che in verità fin dalla sentenza di secondo grado del Borsellino1 (23 gennaio 1999), se non addirittura dal dibattimento di primo grado (’95-’96), furono acquisiti tutta una serie di dati inconfutabili, adeguatamente valorizzati, i quali molto tempo prima della citata pronuncia del 2002 avevano messo in seria discussione le propalazioni di Scarantino, arditamente versate nei processi.

Segnatamente, in tale stesso arco temporale, e cioè antecedentemente al 3 luglio del 2003, data della decisione della Cassazione che segna il passaggio in giudicato della più volte richiamata sentenza di secondo grado del Borsellino bis del 18 marzo 2002, confermativa della ricostruzione della strage come escogitata attraverso l’irruzione nel processo del falso pentito Scarantino, erano intervenute ben due sentenze della stessa Cassazione e quattro di merito di segno decisamente opposto.

Decisioni tutte che, appunto, avevano espressamente e radicalmente stigmatizzato le dichiarazioni del picciotto della Guadagna come inattendibili.

Così la sentenza di secondo grado del Borsellino1 (23 gennaio 1999), confermata pienamente dalla Cassazione con sentenza del 19 gennaio 2001, stabilisce che le propalazioni di Scarantino, tranne il residuo segmento relativo al furto, sono inattendibili. Tant’è che viene confermata l’assoluzione degli imputati Giuseppe Orofino e Pietro Scotto dal delitto di strage.

Parimenti, con sentenza del 13 febbraio 1999, la Corte di Assise di Caltanissetta, nel processo c.d. “Borsellino bis” assolve gli imputati chiamati in correità da Scarantino (Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Urso Giuseppe, Vernengo Cosimo e Murana Gaetano) dal delitto di strage asseverando la inattendibilità delle dichiarazioni rese dallo stesso e degli altri collaboratori sul loro conto perché prive di riscontri.

Ma non basta. Nel processo Borsellino cosiddetto ter primo grado, benché tra gli imputati non figurassero quelli chiamati in correità da Scarantino, venivano comunque analizzate e valutate le dichiarazioni accusatorie dello stesso e in ordine ad esse la Corte di Assise, con sentenza del 9 dicembre 1999, depositata il 9 marzo 2000, le riteneva espressamente “inutilizzabili” per la ricostruzione dei fatti e la individuazione delle responsabilità in ordine alla strage, in quanto “inattendibili intrinsecamente ed estrinsecamente”. L’impianto di detta sentenza, ivi compreso, quindi, il giudizio distruttivo sulle dichiarazioni di Scarantino veniva definitivamente confermato dalla Corte di Cassazione con sentenza del 17 gennaio 2003, dunque anteriore rispetto alla sentenza della stessa Cassazione del 3 luglio 2003 che, al contrario, come si è visto, aveva valutato totalmente attendibili le propalazioni di Scarantino e degli altri collaboratori a lui legati.

In realtà, e in disparte, altri due fattori, il primo addirittura del 1994 (giugno-settembre), il secondo di poco successivo del gennaio 1995, avevano proiettato consistenti ombre sulla credibilità di Scarantino, sia quanto al profilo criminale, sia con riferimento al contenuto delle sue dichiarazioni.

MANNOIA AVEVA GIÀ CAPITO CHI FOSSE SCARANTINO

Per l’appunto, l’avvocato Luigi Ligotti, uno dei primi difensori di Scarantino, sentito il 6 marzo 2019 dalla Procura della Repubblica di Messina nell’ambito del procedimento nei confronti del dottor Petralia e della dottoressa Palma, ha dichiarato di aver manifestato nel ’94 – ossia dopo l’avvio della collaborazione di Scarantino – i suoi forti dubbi circa la credibilità del suo assistito ai pubblici ministeri che avevano partecipato ai primi interrogatori (Tinebra, Boccassini, Palma e Petralia e forse anche il questore La Barbera).

Ligotti soprattutto ha raccontato un evento verificatosi in sua presenza presso gli uffici romani della DIA nell’ambito di uno degli interrogatori dello Scarantino. L’avvocato, più precisamente, ha riferito che in tale occasione era presente anche il collaboratore Marino Mannoia e i pubblici ministeri decisero di effettuare un confronto fra i due. Secondo la narrazione di Ligotti, Mannoia avrebbe immediatamente smascherato Scarantino sostenendo che quest’ultimo non fosse un uomo d’onore:

LIGOTTI. Mannoia ci mise trenta secondi, gli bastò un minuto di colloquio appartato con Scarantino e disse che non era uomo d’onore… Mannoia mise subito a fuoco Scarantino.

Assumeva ancora l’avvocato Ligotti che Marino Mannoia aveva comunicato l’esito del suo giudizio sia ai magistrati presenti, sia a lui stesso.

LIGOTTI. Marino Mannoia disse ai magistrati quello che aveva appurato, c’ero anch’io presente.

Sennonché, va subito detto, per correttezza, che le dichiarazioni dell’avvocato Ligotti non sono state confermate dal Mannoia, così come emerge dalle motivazioni dell’ordinanza di archiviazione del gip di Messina relativo al procedimento sopra richiamato.

Assai meno discutibile, è il secondo fattore. Il 13 gennaio 1995 i pubblici ministeri di Caltanissetta decisero di effettuare un confronto – peraltro irrituale, essendo in corso il dibattimento del Borsellino1 primo grado – tenutosi a Roma tra Scarantino ed i collaboratori Cancemi, Di Matteo e La Barbera. Il confronto si rivelò devastante per il primo, giacché i tre collaboratori ne smentirono le propalazioni e, in particolare, esclusero di aver partecipato alla fantomatica riunione operativa tenutasi nella villa di Giuseppe Calascibetta, qualche giorno prima della strage, come sostenuto da Scarantino. L’esito di tale confronto avrebbe probabilmente potuto incidere sulla definizione in primo grado del Borsellino1.

In conclusione, dunque, va intanto fermamente smentita e rimossa la vulgata secondo la quale, le Corti di Assise di Caltanissetta, primo e secondo grado, che fino al 2002 si sono succedute nella trattazione dei processi Borsellino1, Borsellino-bis e Borsellino-ter, abbiano costantemente ritenuto affidabili Scarantino, Andriotta e gli altri falsi collaboratori.

Resta, inoltre, drammaticamente senza risposta l’interrogativo circa la tenace determinazione della Procura della Repubblica di Caltanissetta dell’epoca di insistere irriducibilmente, in tutti i dibattimenti celebrati sulla strage fino al 2002, sulla piena affidabilità di Scarantino, di Andriotta e degli altri falsi collaboratori, ancorché diversi dati e svariati elementi estraibili soprattutto dalle molteplici sentenze pronunciate fino ad allora deponessero decisamente per il contrario, anche al netto dei citati confronti.

In definitiva, per rispondere all’interrogativo iniziale, certamente era possibile svelare e disinnescare, quantomeno sul piano strettamente processuale, il depistaggio consistente nell’irruzione di Vincenzo Scarantino sullo scenario, ben prima e indipendentemente dalla collaborazione di Gaspare Spatuzza avvenuta nel 2008. Se ciò non è accaduto è per il combinato disposto tra la conduzione supponente e superficiale delle indagini da parte dei pm di Caltanissetta e la scelta di assecondare acriticamente in alcune sentenze quella ricostruzione fallace e sommaria.

VIA D’AMELIO.  Un depistaggio iniziato ancora prima della morte di Paolo Borsellino. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS il 20 novembre 2021 su editorialedomani.it. Il depistaggio sull’eccidio di via D’Amelio presenta, però, una caratteristica che lo rende diverso rispetto a tutti gli altri: è stato, sebbene solamente in parte, svelato. Ed è proprio ciò che lo rende, come ha evidenziato durante la sua audizione il procuratore generale Scarpinato, più che mai attuale.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata al depistaggio sulla strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

La parola depistaggio è entrata a pieno titolo nel dizionario delle stragi di questo Paese, quale perfetto contrario dei termini verità e giustizia.

Il depistaggio sull’eccidio di via D’Amelio presenta, però, una caratteristica che lo rende diverso rispetto a tutti gli altri: è stato, sebbene solamente in parte, svelato. Ed è proprio ciò che lo rende, come ha evidenziato durante la sua audizione il procuratore generale Scarpinato, più che mai attuale.

Non deve stupire che oscuri meccanismi, oggi, si pongano strenuamente in difesa della ricostruzione falsa e consolatoria proposta da Scarantino e dai suoi suggeritori: allargare lo sguardo su cosa accadde in quei 57 giorni fra Capaci e via D’Amelio, sulle inquietudini del giudice Borsellino, su ciò che aveva intuito o saputo e che si preparava a dire; raccontare quella strage non come un ultimo disperato colpo di coda di Cosa nostra ma come il punto d’arrivo di un disegno più ambizioso e devastante per i destini del Paese: insomma, parlare di via D’Amelio sapendo di non poter parlare solo di mafia è cosa che fa ancora paura. A ventinove anni dalla morte di Paolo Borsellino, si preferisce che la corda pazza di quella strage non venga sfiorata. E i depistaggi, ieri come adesso, sono lo strumento più efficace.

Come si costruisce una menzogna alla quale tutti – o comunque troppi –finiscono per credere? È stata la domanda che ci siamo posti all’atto di avviare questa seconda inchiesta. E qui ci siamo misurati con il significato plurale della parola “depistaggio”: non una trama sinistra ordita da uno sparuto manipolo di soggetti, ma un pensiero organizzato, spregiudicato, capace di una sua continuità ed impunità nel tempo, coperto da inconfessabili complicità.

È grave che l’intelligence italiana abbia accettato - e continui ad accettare - di convivere con il sospetto di un terribile coinvolgimento dei suoi apparati in una delle pagine più nere della nostra storia. Un rischio collaterale sopportabile, a quanto pare. Non una voce, in questi anni, una preoccupazione, un disvelamento sulla catena di comando che portò il Sisde ad aver un ruolo da protagonista nelle prime battute di quel depistaggio; non una parola o un dubbio sui signori in giacca e cravatta che quella domenica pomeriggio si trovavano tra le fiamme di via D’Amelio alla ricerca dell’agenda rossa.

Ma fu depistaggio anche tutto ciò che precedette quella maledetta domenica. Come il progressivo e calcolato isolamento, professionale e umano, cui fu sottoposto Paolo Borsellino. Aspetti, quelli legati ai rapporti con Giammanco e alla carenza del dispositivo di sicurezza intorno al magistrato, che avrebbero preteso puntuali approfondimenti da parte dell’Autorità Giudiziaria – come abbiamo evidenziato in molte pagine di questa relazione – ma che l’“invenzione” di Scarantino oscurò del tutto.

E non si può, infine, tacere il senso di rassegnazione con cui in troppi hanno accolto ed accettato i silenzi di questi 29 anni, i ripetuti furti di verità, le forzature istituzionali, le ansie di carriera, i silenzi di chi avrebbe potuto dire. Come se davvero su questa storia e sulle responsabilità (non solo penali, lo ripetiamo!) che l’hanno accompagnata, occorresse rassegnarsi al silenzio.

Questa seconda relazione della Commissione Antimafia dell’Ars – come la precedente – vuole essere anche questo: una sollecitazione civile a non abituarsi all’idea che la verità ci sia negata per sempre. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS

Legale famiglia Borsellino: "Lo Forte gli nascose archiviazione dossier mafia-appalti". Adnkronos il 19/11/2021. (dall'inviata Elvira Terranova) – Cinque giorni prima della strage di Via D'Amelio, il giudice Paolo Borsellino partecipò a un incontro alla Procura di Palermo. In quell'occasione si parlò anche dell'inchiesta 'mafia e appalti', di cui il magistrato si era occupato a lungo. "Ma in quell'incontro il pm Guido Lo Forte nascose al giudice di avere firmato, appena il giorno prima, l'archiviazione dell'inchiesta". La denuncia arriva nell'aula B del Tribunale di Caltanissetta, dove si celebra il processo sul depistaggio sulla strage di Via D'Amelio, dall'avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile della famiglia Borsellino, ma anche marito di Lucia Borsellino, la figlia maggiore del giudice ucciso nell'attentato del 19 luglio del 1992. Trizzino si è detto contrario alla richiesta della difesa dei poliziotti Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, imputati insieme con un altro poliziotto, Mario Bo, di calunnia aggravata, di sentire in aula, i giudici Roberto Scarpinato, Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone. Proprio sull'inchiesta mafia e appalti. Dunque, il dossier torna prepotentemente nel processo. Come era già accaduto negli altri cinque dibattimenti dedicati alle stragi mafiose del 1992. "Così come è stata formulata, la richiesta è inaccettabile, dal mio punto di vista – dice l'avvocato Fabio Trizzino – Perché questa è un tema alla mia famiglia carissimo, ma non è questa la sede per sviluppare una eventuale rilettura. Se c'è la volontà di sviluppare il tema mafia e appalti, basta prestare il consenso ad acquisire due atti". E aggiunge: "Parlo dell'ordinanza di archiviazione del giudice Lo Forte (su mafia e appalti ndr) e la richiesta mandanti occulti bis". "Se mi si dice che vogliamo capire il perché in quella riunione si tace a Borsellino la richiesta di archiviazione, questo allora limita la circostanza – dice l'avvocato Trizzino – ma se dobbiamo fare il processo 'mafia e appalti' qui, francamente, non ha senso". Alla fine, in chiusura di udienza, dopo una breve camera di consiglio, il Tribunale respinge la richiesta di revoca avanzata dalla difesa di parte civile, ma anche dalla Procura, rappresentata in aula dai pm Maurizio Bonaccorso e Stefano Luciani, e conferma le testimonianze del procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, dell'ex Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e dell'ex Procuratore di Messina Guido Lo Forte. La deposizione dei tre è prevista per la prossima udienza, il prossimo 26 novembre.

Il processo sul depistaggio della strage di via D’Amelio. “Lo Forte nascose a Borsellino l’archiviazione del dossier Mori”. Redazione su Il Riformista il 22 Novembre 2021. Il 14 luglio, nel corso della riunione in procura di Palermo, a cui partecipò anche il giudice Paolo Borsellino, si parlò anche dell’inchiesta mafia e appalti, ma «in quell’incontro il pm Lo Forte nascose al giudice di avere firmato il giorno prima l’archiviazione dell’inchiesta». A dirlo, intervenendo ieri in aula, al processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio, è l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, e genero del giudice ucciso nell’attentato del 19 luglio del 1992. Trizzino si è detto contrario alla richiesta della difesa dei poliziotti Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, di sentire in aula, i giudici Roberto Scarpinato, Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone. «Così come è stata formulata la richiesta è inaccettabile, dal mio punto di vista – ha detto l’avvocato Fabio Trizzino – Perché questo è un tema alla mia famiglia carissimo, ma non è questa la sede per sviluppare una eventuale rilettura. Se c’è la volontà di sviluppare questo tema, basta prestare il consenso ad acquisire due atti». Il riferimento dell’avvocato è «l’ordinanza di archiviazione del giudice Lo Forte (su mafia e appalti ndr) e la richiesta mandanti occulti bis». «Se mi si dice che vogliamo capire il perché in quella riunione si tace a Borsellino l’archiviazione, questo limita la circostanza – ha detto l’avvocato Trizzino – ma se dobbiamo fare il processo “mafia e appalti” qui, francamente, non ha senso». Ma cosa accadde in quella riunione del 14 luglio del 1992, cioè cinque giorni prima della strage di Via D’Amelio? Era un briefing dei magistrati della Procura di Palermo, e in quella occasione Paolo Borsellino chiese notizie sull’inchiesta. Dalle successive dichiarazioni al Csm da parte dei presenti a quella riunione, emerse che nessuno disse a Borsellino che era già stata firmata la proposta dell’archiviazione. E Guido Lo Forte era tra i presenti. L’indagine “mafia e appalti” fu fortemente voluta da Giovanni Falcone, e poi ripresa da Borsellino, e riguardava le connessioni tra politici, imprenditori e mafiosi. L’inchiesta fu condotta, tra la fine degli anni ‘80 e il 1992, dai carabinieri del Ros guidati dall’allora colonnello Mario Mori e dal capitano Giuseppe De Donno. Dall’indagine emerse per la prima volta l’esistenza di un comitato d’affari, gestito dalla mafia e con profondi legami con esponenti della politica e dell’imprenditoria di rilievo nazionale, per la spartizione degli appalti pubblici in Sicilia. In quella riunione emerse il forte interesse riposto da Borsellino all’indagine, ma anche il suo malcontento per le modalità con cui l’indagine era stata gestita, e la sua profonda fiducia nei confronti dell’operato dei carabinieri del Ros. L’avvocato Trizzino, nell’udienza di ieri, ha chiesto «l’acquisizione del documento in cui i giudici Francesco Messineo, Renato Di Natale, Francesco Paolo Giordano danno conto e ragione di tutte le vicende che hanno riguardato le indagini fatte a Caltanissetta in relazione alla gestione del dossier mafia e appalti». «Inoltre le vicende connesse a “mafia e appalti” sono state di una complessità tale che per riuscire a barcamenarsi… altro che un semplice esame – ha detto il legale – bisognerebbe aprire un processo a parte». «Di processi sulla strage di via D’Amelio ne sono stati fatti cinque. E sembra quasi che l’importanza del filone mafia e appalti non sia mai stata sviscerata nei precedenti procedimenti, ma non è cosi. Nella sentenza del processo “Borsellino ter”, cui si richiama la sentenza quater, dà un ampio spaccato dell’importanza ai fini del movente dell’eventuale accelerazione della strage di via D’Amelio». «Questo tema di prove è come un oceano che si apre di fronte a noi – ha affermato ancora l’avvocato Fabio Trizzino – Anche queste parti civili, che vorrebbero approfondito questo aspetto, ma riteniamo che ci siano due elementi che dovrebbero portare a una rilettura di quegli avvenimenti, ma non in questa sede. E sto parlando delle dichiarazioni tardive di Massimo Russo e Alessandra Camassa in cui Borsellino definì il suo ufficio un ‘nido di vipere’». «Il secondo elemento di novità è la desecretazione degli atti del Csm al seguito dei quali vennero sentiti i pm che si ribellarono al giudice Giammanco, che ci parlarono di una riunione in cui Borsellino chiese a Guido Lo Forte degli approfondimenti e Lo Forte gli nascose che il 13 aveva firmato una archiviazione».

Da “Ansa” il 10 novembre 2021. Il tribunale di Caltanissetta, nell'ambito del processo sul depistaggio delle indagini successive alla strage del '92 in via d'Amelio a Palermo, dove furono uccisi il magistrato Paolo Borsellino e 5 poliziotti della scorta, accogliendo alcune richieste avanzate dalle parti, ha disposto che nell'udienza fissata per il 19 novembre, ascolterà l'ex pm Antonio Ingroia, Santi Foresta, Lucia Falzone e Luigi Li Gotti. Nell'udienza invece del 26 novembre, saranno chiamati a deporre, i magistrati Roberto Scarpinato, Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone. Il Tribunale ha invece respinto la richiesta che era stata avanzata nella scorsa udienza dall'avvocato Giuseppe Panepinto, di sentire l'ex pentito di mafia Maurizio Avola, il quale aveva rivelato di aver ricoperto un ruolo nella strage. Ma le sue dichiarazioni sono state smentite dalla Procura nissena, secondo la quale l'ex collaboratore dice il falso. Imputati al processo, con l'accusa di calunnia aggravata, sono tre poliziotti: Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo  

Via D’Amelio: anomalie e zone d’ombra, ma fu strage mafiosa. Nelle motivazioni della sentenza emessa lo scorso 5 ottobre dalla Cassazione viene confermata sostanzialmente la decisione della Corte d’appello del Borsellino quater. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 9 novembre 2021. Nell’inchiesta sulla strage di Via D’Amelio ci sono stati «abnormi inquinamenti delle prove che hanno condotto a plurime condanne di innocenti». Non solo: per quanto riguarda l’esecuzione della strage dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta, «i dati probatori relativi alle “zone d’ombra” possano al più condurre a ipotizzare la presenza di altri soggetti o di gruppi di potere (co)-interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino, ma ciò non esclude il riconoscimento della paternità mafiosa». Sono alcuni passaggi delle motivazioni, appena depositate, della sentenza di Cassazione che ha confermato la condanna di appello del Borsellino quater.

Ricordiamo che la sentenza della Cassazione c’è stata il 5 ottobre scorso e dunque sono definitive le condanne all’ergastolo per i capomafia Salvatore Madonia e Vittorio Tutino e quelle per calunnia per Calogero Pulci (dieci anni) e Francesco Andriotta che ha ottenuto un piccolo sconto di pena (da 10 anni a 9 anni e 6 mesi) per la prescrizione di due calunnie ai danni del falso pentito Vincenzo Scarantino, mentre da una terza accusa di calunnia, sempre ai danni di Scarantino, è stato assolto. Le motivazioni della Cassazione confermano sostanzialmente la decisione della Corte d’appello del Borsellino quater. Gli avvocati dei mafiosi hanno portato avanti anche la tesi sulla cosiddetta trattativa Stato Mafia. Tesi non accolta dalla Corte (e confermato dalla Cassazione), sottolineando che l’uccisione del giudice Paolo Borsellino, «inserita nell’ambito di una più articolata “strategia stragista” unitaria», rispondeva a più finalità di Cosa Nostra, una finalità di vendetta che chiama in causa la vita professionale del magistrato, una finalità preventiva, perseguita da Cosa Nostra in relazione «alla possibilità che il giudice Borsellino divenisse capo della Procura Antimafia, e una «finalità di destabilizzazione», volta a «esercitare una pressione sulla compagine politica e governativa» e «a mettere in ginocchio lo Stato». L’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, commentando con l’Adnkronos le motivazioni della Cassazione sul processo Borsellino quater, ha sottolineato che «in questo scenario bisogna anche collocare l’abnorme inquinamento probatorio di cui parla anche la Cassazione perché l’uccisione e il depistaggio sono legati». E aggiunge: «C’è una finalità preventiva, non bisognava, secondo noi, sviluppare il versante delle indagini “mafia e appalti”. Perché i livelli delle cointeressenze erano alti». Quali? «Le cointeressenze di Cosa nostra – ha spiegato l’avvocato Trizzino – con importanti imprenditori e società del Nord, i cui sviluppi si sarebbero potuto meglio vedere solo attraverso una giusta valorizzazione del dossier mafia e appalti. Cosa che Borsellino non ha potuto fare». In effetti, le motivazioni del Borsellino Quater di secondo grado sono chiare. Borsellino fu ucciso «per vendetta e cautela preventiva». La vendetta è relativa all’esito del maxiprocesso, mentre la “cautela preventiva” è relativa alle sue indagini, in particolare quelle su mafia-appalti. Quest’ultima ipotesi – scrive la Corte d’assise d’appello di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza di secondo grado – «doveva, peraltro, essere anche collegata alla circostanza riferita dal collaboratore Antonino Giuffrè sui “sondaggi” con “personaggi importanti” effettuati da Cosa Nostra prima di decidere sull’eliminazione dei giudici Falcone e Borsellino oltre che sui sospetti per i quali lo stesso Borsellino, il giorno prima dell’attentato, aveva confidato alla moglie “che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò accadesse”».

Gli ultimi 57 giorni di Paolo Borsellino. Un'inchiesta per capire qualcosa di più di una strage e un depistaggio.  Federica Olivo, Giornalista, Huffpost il 23/10/2021. “Io sono un magistrato e sono un testimone”. Era il 25 giugno del 1992 quando, nel suo ultimo intervento pubblico, Paolo Borsellino pronunciava queste parole. Si riferiva a quello che sapeva sulla morte di Giovanni Falcone, suo collega e amico, ucciso appena un mese prima, nella strage di Capaci. Sottolineava la parola testimone, non per manie di protagonismo ma per una doppia consapevolezza del suo ruolo: Borsellino, proprio perché in rapporti stretti con Falcone, riteneva di essere a conoscenza di elementi utili per ricostruire le cause della strage del 23 maggio 1992. In questo intervento di mezz’ora - fatto durante un’assemblea pubblica organizzata a Palermo da La Rete e ancora integralmente ascoltabile su Radio Radicale - il magistrato lancia accuse alle istituzioni, alla sua in primis, ma sta molto attento a non raccontare dettagli che sa bene essere destinati a un’altra sede. In quella sede, la procura di Caltanissetta, competente sui fatti riguardanti i magistrati di Palermo e quindi per la morte di Falcone, non ci arriverà mai. Nonostante avesse chiesto esplicitamente di essere interrogato in fretta - sapeva di essere in pericolo, sapeva, addirittura, che fosse arrivato il tritolo destinato all’attentato nei suoi confronti - quella testimonianza non riuscì a rilasciarla. Fu ucciso in via D’Amelio il 19 luglio 1992, meno di due mesi dopo la morte di Falcone. L’intervento del 25 giugno è tra i messaggi più importanti che Borsellino lascia prima della sua morte. Non c’è nulla, se non gli atti dei procedimenti a cui stava lavorando, di scritto negli ultimi 57 giorni del magistrato. Non c’è perché, come ha ricordato all’Huffpost l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, qualcosa forse avrebbe potuto essere trovato nell’agenda rossa da cui il giudice non si separava mai. Ma quell’oggetto così prezioso - chi ha seguito il lungo percorso giudiziario che ha seguito questa storia lo ricorderà - sparì il giorno stesso dell’attentato. Le indagini per capire se qualcuno l’avesse portato via e perché sono partite dieci anni dopo la strage. Un tempo troppo lungo per poter appurare una verità completa. A poche settimane dalla pronuncia con cui la Cassazione ha messo la parola fine sul processo Borsellino quater, stabilendo, senza più possibilità d’appello, che il depistaggio dopo la morte del giudice c’è stato, e nell’attesa delle motivazioni, vale la pena ricordare le tracce orali più importanti che Borsellino ha lasciato prima di essere ucciso. Perché, come tiene a ricordare sempre la famiglia, la strada per capire davvero cosa è successo prima e dopo via D’Amelio passa anche e soprattutto da lì. Durante l’incontro prima citato, pur stando attento a non rivelare dettagli che ancora sperava di poter dire a un pm in qualità di testimone, Borsellino non risparmia parole pesanti contro “qualche giuda” che lasciò solo l’amico. E lancia un’accusa pesante alle toghe. “La magistratura”, dice “forse ha più responsabilità di tutti,” nell’aver isolato Falcone prima dell’omicidio. Nel non aver voluto riconoscere il valore del suo lavoro da magistrato ma anche da tecnico in forze al ministero della Giustizia. Parlava dell’amico quella sera, ma in qualche modo parlava anche di sé. Perché, negli ultimi giorni vita Borsellino dovette combattere per poter continuare a seguire le sue piste, per mandare avanti il suo lavoro contro Cosa nostra. A ostacolarlo non solo Cosa nostra, non solo la difficoltà della materia, ma anche un pezzo di procura palermitana. Gli scontri che ebbe con il suo capo, Pietro Giammanco, sono noti. E se da vivo almeno Borsellino aveva la tenacia di difendere il suo lavoro, subito dopo il decesso le sue indicazioni andarono in fumo. Del dossier mafia appalti - lo vedremo meglio dopo - si perse traccia a pochissimi giorni dalla sua morte, in quella procura che lui stesso definì “un nido di vipere”. Un’espressione forte, usata circa un mese prima di morire, che Borsellino usò parlando con l’allora giovane collega Massimo Russo, come ricordato da lui stesso in uno dei processi seguiti alle stragi di mafia. Su quelle parole, pronunciate a ragion veduta, nessuna delle tante toghe che in questi quasi 30 anni ha trattato il caso si è mai soffermata a sufficienza. “Sarà stata una semplice confidenza affidata a un amico in un momento di rabbia e sconforto”, potrà pensare qualcuno. Possibile, certo. Il problema è che le richieste e le osservazioni fatte dal giudice prima della morte furono ignorate anche quando formulate in ben altre sedi. Non in un momento di pausa dal lavoro, ma proprio in una riunione con i suoi colleghi. Era il 14 luglio del 1992, cinque giorni prima dell’attentato che gli costò la vita. I magistrati della procura di Palermo erano tutti insieme per un momento di confronto. Una prassi che si ripeteva periodicamente e che in quel caso era ancor più importante perché l’ultima prima della pausa estiva. Borsellino, in quella sede, chiese esplicitamente che venisse approfondito il dossier mafia appalti. Si tratta di una lunga informativa sugli appalti pubblici firmata da Mario Mori e Giuseppe De Donno - gli stessi ex Ros assolti poche settimane fa nel processo d’appello sulla presunta Trattativa Stato-mafia - in cui venivano evidenziati i rapporti economici tra mafia, pezzi di imprenditoria, massoneria e politica locale, andando probabilmente a lambire anche il Palazzo di giustizia. Borsellino a quel dossier teneva molto, aveva capito che quella pista avrebbe portato a conclusioni rilevanti. L’importanza per il magistrato era tale che non solo in quella riunione propose che fosse approfondito, ma chiese anche un nuovo incontro ad hoc per valutare organizzare il lavoro. Incontro che, però, nessuno ebbe il tempo nemmeno di programmare. Sul fatto che Borsellino volesse capire tutto il possibile ruolo della mafia negli appalti pubblici la famiglia ha sempre posto l’accento. Convinta che fosse da cercare lì la chiave dell’omicidio. Lo ha ripetuto il legale dei Borsellino in tutte le occasioni possibili, davanti ai giudici soprattutto. Ma la richiesta esplicita di Borsellino in particolare, sono rimasti sconosciuti all’opinione pubblica fino al 2020, quando il Csm ha desecretato le audizioni fatte a fine luglio 1992, pochi giorni dopo la morte di Borsellino. A spiegare le richieste fatte da Borsellino in riunione su mafia e appalti, in quel caso fu Nico Gozzo, allora magistrato a Palermo e, molti anni dopo, pm artefice dell’indagine che ha portato al processo Borsellino quater. Ai rilievi del magistrato fu dato seguito dopo la morte? Neanche per idea. Anzi richiesta di archiviazione dell’inchiesta su mafia e appalti era già stata stilata il giorno prima della riunione, il 13 luglio. Come si legge nel documento, fu depositata il 22 luglio. Borsellino era morto da tre giorni. La storia di tutto ciò che è seguito all’assassinio del magistrato è piena di buchi, ma se si sta ben attenti si nota come certe cose, a volte, tornano. E come i puntini, nonostante il passare del tempo, ancora possono essere riunite. Magari non (più) per appurare responsabilità penali, ma certamente per cristallizzare una realtà storica. Ed ecco che, dopo quasi 30 anni dall’omicidio, il giudice d’appello del Borsellino quater in sostanza ritornava su quel dossier e diceva che una delle ragioni per cui il giudice era stato ucciso era la “cautela preventiva” rispetto al lavoro che avrebbe voluto fare. Il dossier mafia appalti era in cima alla lista delle priorità del magistrato e, quindi, per il giudice del depistaggio potrebbe essere stata una delle principali ragioni per cui è stato ucciso. Per altri addetti ai lavori, invece, quelle quasi 900 pagine erano un ingombro da cestinare. Ci misero davvero poco a farlo, per superficialità forse, o forse perché non erano riusciti a vedere fin dove Borsellino aveva visto. Ma quello del 22 luglio 1992, il giorno in cui si decise di chiudere l’inchiesta e lasciare le carte a prendere polvere in chissà quale cassetto, fu solo il primo oltraggio alla memoria del magistrato. Quello più grande sarebbe arrivato pochi mesi dopo: qualcuno lo ha chiamato “teorema Scarantino”. I giudici, ed è questo che conta, lo chiamano “il più grande depistaggio della storia d’Italia”. Sul quale, forse, si sarebbe dovuta accendere qualche luce in più. L’ultima intervista a Paolo Borsellino fu fatta da Lamberto Sposini, all’epoca vicedirettore del Tg5. Ne riportiamo l’ultimo stralcio. Senza premesse né commenti. Non ce n’è bisogno:

Sposini: “Si sente un sopravvissuto?”. Borsellino: “Io accetto, ho sempre accettato, più che il rischio, le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e vorrei dire anche di come lo faccio. (...) Sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia e so che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione, o financo dalla certezza, che tutto questo può costarci caro”. Federica Olivo, Giornalista, Huffpost

Aldo Sarullo per "livesicilia.it" l'8 ottobre 2021. C’era una volta il mandante della strage di via D’Amelio. Era uno che, insieme con altri – portatori di altri interessi – aveva deciso anche l’attentato sull’autostrada nei pressi di Capaci. Dopo le stragi aveva vissuto qualche anno di serenità; infatti lo sguardo degli inquirenti non si era mai rivolto nella sua direzione perché era un insospettabile. Poi le cose iniziarono a mutare e l’orizzonte delle indagini fu sempre più denso di quella nuvolaglia di parole ricorrenti che moltiplicavano l’interesse a cercare i mandanti seguendo un tema dominante: perché è stato ucciso Borsellino? Fu così che il mandante decise che occorreva una risposta, tale che fosse per lui e per sempre rassicurante. Certo, occorreva una risposta autorevole e, soprattutto, che non fosse diretta, ma la conseguenza di un altro interesse giudiziario, una sorta di via traversa, quella che taluno chiamerebbe depistaggio. Come dire: parlo di un fatto per definirne un altro. Il mandante, mente raffinatissima, probabilmente non svelò ad alcuno il suo piano, ma convinse i suoi amici ed estimatori a promuovere quell’azione penale che avremmo conosciuto come “trattativa Stato-mafia”. E dalle parti della Sicilia ciò si traduce nell’attivazione del 416bis e cose simili. La prima accusa nei confronti degli indagati per la “trattativa”, infatti fu, con empito donchisciottesco, di mafia; accusa suggestiva e rastrello del consenso di quei molti che, sostenendo qualunque accusa di mafia, anche palesemente infondata, si sentono titolari del bene e del meglio. Insigniti. Poi arrivarono cavalieri più esperti. Avevano intuito che quell’accusa di mafia sarebbe crollata prima che la vicenda entrasse in aula e l’addebito divenne altra cosa: non mafia, ma “Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti”. Insomma, un reato sconosciuto ai più e certamente fumoso, ottimo per frastornare la pubblica opinione. Nel frattempo, come in ogni “C’era una volta” che meriti attenzione, il Vecchio Saggio, eremita su una montagna vicina, conosciuto sia come scienziato del diritto di fama e stima nazionali ed oltre che come maestro di molti dei magistrati che si erano avventurati nell’accusa, aveva bocciato con lunghe e sapienti argomentazioni tutto l’impianto accusatorio. Ma al mandante e ai – da lui suggestionati – suoi ignari estimatori, la cosa non importò. “Tiremm innanz” si dissero patriotticamente e così fu. Nacque il processo e l’interpretazione principale dell’Accusa fu affidata ad un pm dall’antropologia rassicurante, seducente, certamente mai sospettabile d’essere complice di operazioni avventuristiche. Insomma, un pm veramente innocente, per natura. E la scelta fu fruttuosa. Piacque molto e suscitò nei professionisti dell’informazione cartacea e televisiva un sentimento di protezione e di valorizzazione, unico a memoria di molti. Così si formò la squadra di scultori e scalpellini – forse non tutti realmente convinti – che eresse giorno dopo giorno il monumento all’eroe. E così anche quel processo, nato piccolo piccolo, andò crescendo agli occhi di tanti per importanza e credibilità. In verità il mandante ebbe un pugno nello stomaco quando apprese che la Corte d’assise di Caltanissetta, l’unica competente ad esprimersi sulla morte di Paolo Borsellino, affermò che questo eroe (senza scultori né scalpellini) era caduto sul fronte del dossier mafia-appalti, quello che a Palermo sarebbe stato archiviato dopo la strage di via D’Amelio e sui cui Borsellino stava, di propria iniziativa, solitariamente studiando. La Cassazione ha confermato questa sentenza. Ma quel pugno nello stomaco fu ampiamente ristorato quando la sentenza di primo grado della Corte d’assise di Palermo, chiamata a giudicare sulla “trattativa” e non sulla morte di Borsellino, sentì il dovere di esprimersi anche su questa e affermò che la strage del 19 luglio 1992 era avvenuta a protezione della prosecuzione della “trattativa”, altrimenti e sicuramente interrotta dal procuratore palermitano. In appello, la Corte d’assise di Palermo, lo sappiamo tutti, ha assolto gli imputati; e il mandante della strage di via D’Amelio – insieme con i portatori di interessi analoghi – ha perso il paracqua. Il cielo per lui è plumbeo e, salvo il diverso avviso della Cassazione, ora è tornato a temere che, come in tanti speriamo, rimanga prima o poi fottuto.

Mattia Feltri per "la Stampa" il 7 ottobre 2021. In dodici giorni s' è capovolto il mondo ma in pochi sembrano essersene accorti. Il 23 settembre una sentenza ha stabilito l'inconsistenza del processo Stato-mafia e dunque no, la verità raccontata per un ventennio con profusione di scandalo, secondo cui istituzioni, ministri e servizi segreti tramarono nell'interesse della mafia e contro lo Stato, e Paolo Borsellino fu ammazzato per essersi opposto, non è una verità. Martedì un'altra sentenza (definitiva) ha stabilito che i processi sulla macellazione di Borsellino, e che portarono a una sequela di ergastoli rifilati a innocenti, originarono da un «colossale depistaggio»: una mostruosa costruzione calunniatrice e una delle pagine più vergognose della storia giudiziaria: sono parole pronunciate martedì in Cassazione per ratificare la sentenza d'appello con cui si spiegava che la mafia fece saltare in aria Borsellino per vendicarsi del suo maxiprocesso e per prevenire sue nuove pericolose indagini, che infatti subito dopo vennero archiviate. Poi la strage fu liquidata col colossale depistaggio convalidato da non so quanti magistrati dell'accusa e da non so quanti giudici. Forse l'ho fatta troppo complicata, quindi cerco l'estrema sintesi: Borsellino non è morto con il tradimento della politica e dei servizi segreti deviati - il bel ritornello di ogni panzana - è invece morto con il tradimento di altri pezzi dello Stato, che stanno attorno a procure e tribunali o magari ci stanno dentro, intronati con le loro corone e i loro scettri, e non pagheranno mai. Il mondo s' è capovolto, ma si farà finta di niente e si continuerà a piangere su Borsellino con un bacio di Giuda.

(ANSA il 5 ottobre 2021) - La conferma delle condanne per gli imputati del processo Borsellino quater - per la strage di Via D'Amelio e i depistaggi nelle indagini - è stata chiesta dal Pg della Cassazione Pietro Gaeta che ha trovato pienamente condivisibili le motivazioni della sentenza della Corte di assise di Appello di Caltanissetta emessa il 15 novembre 2019. Secondo il Pg, è legittima la condanna all'ergastolo per i capomafia Salvo Madonia e Vittorio Tutino e quella a dieci anni di reclusione, per calunnia, nei confronti dei falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci.  Il depistaggio delle indagini della strage di Via D'Amelio, con le falsità dichiarate dai finti pentiti, "è una mostruosa costruzione calunniatrice che secondo me è una delle pagine più vergognose e tragiche" della nostra storia giudiziaria ed è "di una gravità tale da escludere qualunque circostanza attenuante" in favore degli imputati per il reato di calunnia. Lo ha detto il Pg della Cassazione Pietro Gaeta in un passaggio della sua requisitoria all'udienza del Borsellino quater apertasi stamani nell'Aula Magna della Suprema Corte. "Andriotta è la miccia di tutto, l'inizio di un mostruoso disegno calunniatore", ha sottolineato il Pg Gaeta respingendo la richiesta della difesa del finto pentito Francesco Andriotta di ottenere uno sconto di pena tramite la concessione di circostanze attenuanti. Andriotta e Calogero Pulci sono stati condannati a dieci anni di reclusione dalla Corte di Assise di Appello di Caltanissetta con verdetto emesso il 15 novembre 2019. Una decisione che il Pg Gaeta ha condiviso

Rivelazione Boccassini: ''Tinebra ore in stanza con Scarantino prima degli interrogatori''. Aaron Pettinari su amduemila il 20 Febbraio 2020. L'ex magistrato sentita oggi al processo sul depistaggio di via d'Amelio. "Tutti potevano capire che diceva sciocchezze". Vincenzo Scarantino? "Non era credibile"; "i dubbi c'erano fin dall'inizio"; "era un mentitore", "si doveva capire subito che era inattendibile", "era un poveraccio". Con queste parole, più volte, l'ex procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, andata in pensione lo scorso dicembre, ha ribadito quella che era la propria posizione sul "picciotto della Guadagna". Un vero e proprio let motive dell'ex magistrato, sentito oggi al processo sul depistaggio della strage di via d'Amelio che vede imputati i poliziotti Mario Bo, Michele Ribaudo ed Enrico Mattei, accusati di concorso in calunnia aggravata dall'aver favorito Cosa nostra. Intervenuta in videoconferenza da Milano, in quanto impossibilitata a raggiungere il Tribunale di Caltanissetta per motivi di salute, la Boccassini ha ripercorso quello che è stato il suo coinvolgimento nelle indagini sulle stragi del 1992. Un impegno che l'ha vista, come applicata alla Procura di Caltanissetta, dal dicembre di quell'anno fino all'ottobre del 1994. Una vera e propria deposizione fiume dove non sono mancati i momenti di nervosismo, in particolare durante i controesami delle parti civili che hanno chiesto conto, comunque, di una serie di fatti che hanno visto il magistrato protagonista. Come aveva già fatto al Borsellino quater ha ribadito che "la prova regina della non credibilità di Vincenzo Scarantino proviene dalla sua collaborazione" perché "man mano che si andava avanti negli interrogatori si vedeva che stava dicendo delle sciocchezze". Considerazioni e perplessità che aveva messo nero su bianco nella lettera firmata assieme al collega Roberto Saieva ed inviata alle Procure di Caltanissetta e Palermo. A suo dire si era "ancora in tempo per correre ai ripari ed evitare cose che negli anni avrebbero pregiudicato tutto". Eppure, pur confermando le critiche nei confronti dei colleghi come Annamaria Palma e Carmelo Petralia, entrambi indagati per calunnia aggravata dalla Procura di Messina, che "davano credito al collaboratore", ha aggiunto di non aver mai pensato "a un depistaggio". Ad un certo punto, però, rispetto quella che era sempre stata la sua "vulgata", ha anche offerto un elemento inedito: "Quando Scarantino arrivava in procura a Caltanissetta, si chiudeva in una stanza da solo con il Procuratore Tinebra. Non so il tempo preciso ma per un bel po'. Poi Tinebra apriva le porte e si entrava a fare l’interrogatorio. Alla luce di questo, di tutti i miei tentativi di cambiare metodi e atteggiamenti, dei colleghi che non vedevano l'ora che me ne andassi, scrissi una seconda relazione. Tutti sapevano, tutti conoscevano questa relazione, dove mettevo per iscritto che secondo me si dovevano rispettare i codici". Inoltre ha fatto riferimento a relazioni "sparite" in cui parlava della inattendibilità di Scarantino e che sarebbe stata "mandata via" dalla Procura proprio perché aveva iniziato "a capire che Scarantino diceva sciocchezze".

"Cocca mia, arrangiati". Rispondendo alle domande dei pm la Boccassini ha parlato del suo arrivo alla Procura di Caltanissetta: "Mi sono occupata in maniera quasi esclusiva della strage di Capaci, quando sono arrivata a Caltanissetta erano già applicati altri colleghi. Il primo periodo, parliamo del dicembre 92, fu per me soltanto quello di esaminare una massa informe di carte senza nessun ordine e collocazione. Ricordo con affetto, quando arrivai alla Procura di Caltanissetta, una frase dell’allora Procuratore capo Giovanni Tinebra, che io non conoscevo, e mi disse: ‘Cocca mia, qua ci sono le carte. Arrangiati, vedi cosa devi fare’. Questo fu il primo impatto. Con il collega Fausto Cardella anche lui applicato, che si occupava con altri colleghi della strage di via d’Amelio ci fu un confronto, anche perché nacque quasi subito un rapporto di amicizia. Gli altri colleghi che si occupavano delle stragi che erano volontari, si occuparono in quel momento della indagine ‘Leopardo’ a seguito delle dichiarazioni di Leonardo Messina. Non conoscevo Tinebra e mi stupii molto quando mi arrivò la richiesta per essere applicata a Caltanissetta”. Tra i suoi primi impegni proprio le indagini sulla strage di Capaci: "Quando arrivai come pm applicato alla Procura di Caltanissetta, la prima decisione fu quella di rifare il sopralluogo a Capaci, perché leggendo le carte, e non solo la ricostruzione, mi resi conto che era stato fatto male. Mancava una regia". Così ha ricordato che fu rifatto il sopralluogo a Capaci "coinvolgemmo tutte le forze dell'ordine, dai Carabinieri alla Guardia di Finanza, alla Polizia fino all'Fbi e tutte le forze possibili". "Il primo periodo fu dedicato esclusivamente a questo - ha aggiunto - ci fu una divisione di compiti delle forze di polizia che dovevano partecipare all'indagine sulle stragi ma con competenza specifica". 

Dubbi immediati. Pian piano ha poi iniziato ad occuparsi anche delle indagini sulla strage di via d'Amelio. "Quando io sono arrivata alla Procura di Caltanissetta, anche parlando con i colleghi che già c'erano e con il capo dell'ufficio e lo stesso dottor Arnaldo La Barbera, i dubbi su Scarantino già c'erano - ha ribadito - I dubbi su una persona che non era di spessore, anzi che non era per niente di spessore. Il suo quid, se così possiamo chiamarlo, era una parentela importante in Cosa nostra, però sin dall’inizio, io avevo delle perplessità. Forse all'inizio avevo meno perplessità perché non ero ancora entrata nelle carte, nella mentalità. Io ero lì in attesa, ma anche degli altri nessuno gridava “ma che bella questa cosa”. Tutti erano con i piedi di piombo su questa cosa. Era l'inizio ancora e bisognava andare avanti per vedere se l'indagine portava a qualcosa di più sostanzioso". Per quel motivo, a suo dire, nell'agosto del 1994, aveva chiesto al Procuratore Giovanni Tinebra di potere partecipare agli interrogatori di Scarantino e rinviare le ferie, ma il Procuratore la mandò in vacanza. "Mi porto dietro un po' di amarezza, non solo l'indifferenza e il fastidio di quello che si diceva acuito col ritorno dalle ferie - ha detto oggi anche sfogandosi -, a essere venuta fuori dai giochi era la prassi, vuoi per leggerezza o per sciatteria, le ragioni potevano essere tante, sta di fatto che non ero più la protagonista come lo ero stata nei mesi precedenti lavorando sulla dinamica delle stragi". E ancora una volta ha parlato delle differenti opinioni con i colleghi: "La dottoressa Palma e il dottor Petralia erano più propensi a credergli, o meglio, meno propensi a una critica, Giordano invece faceva l'aggiunto e quindi sapeva e non sapeva. La sorpresa, per me e Saieva, furono gli interrogatori in nostra assenza. Anche per i sopralluoghi e il riconoscimento da parte di Scarantino dell'autocarrozzeria Orofino, io ho saputo queste cose dai giornali, che poi bisogna vedere anche se è vero". "Io - ha raccontato - ero disponibile persino a un trasferimento d'ufficio da Milano alla Procura di Caltanissetta, ero disposta a restare anche per la tutela delle indagini. Ma l'allora Procuratore Tinebra disse 'assolutamente no', cioè non mi volevano. Ero servita solo a far fare carriera a tutti, a quel punto dovevo andare via. Ma io sono stata così imbecille da chiedere il trasferimento d'ufficio per continuare le stragi, ero disponibile a fare questo ulteriore sacrificio". Allontanando da sé ogni responsabilità ha nuovamente puntato il dito verso i colleghi ("Se avessero seguito le mie indicazioni, sia i pm che gli avvocati avrebbero avuto il tempo, la professionalità per capire che Scarantino non era credibile") e prima di concludere l'esame ha affermato: "Io, purtroppo, non ho svolto un ruolo, nelle indagini sulla strage di via D'Amelio". Esattamente l'opposto di quanto sostenuto nelle scorse udienze dal pm Carmelo Petralia. Quest'ultimo aveva affermato che il ruolo della Boccassini era stato "preminente nelle indagini su via d'Amelio" e con "un ruolo attivo sia per gli aspetti di valorizzazione degli elementi gravemente indiziari su Scarantino che per la genesi della sua collaborazione". E nella conferenza stampa del 19 luglio 1994, tenuta assieme a Giovanni Tinebra sugli sviluppi delle indagini sulla strage di via d’Amelio, proprio la Boccassini affermava: "I collaboratori di giustizia sono una realtà essenziale per il paese. Lo ha dimostrato ancora una volta l’indagine sulla morte di Paolo Borsellino. Ma è arrivata, lo ripeto, questo concetto va ripetuto fino alla noia, perché vi erano già delle indagini che hanno consentito di valutare appieno quello che Scarantino Vincenzo ci diceva". Durante l'esame la Boccassini ha spiegato che "con i colleghi già a luglio c'erano state discussioni precise, c'erano due parti contrapposte: una di queste riteneva di andarci coi piedi di piombo perché lui appariva debole e poco credibile, anche se a luglio gli abbiamo dato comunque una possibilità considerando che magari avesse paura, che avesse il pensiero alla famiglia a Palermo, cose normali di cui si tiene conto coi collaboratori".

Colloqui investigativi. Ciò non spiega comunque il motivo per cui vennero effettuati "anomali" e numerosi colloqui investigativi che si sono tenuti sia prima della collaborazione con la giustizia di Scarantino, che dopo. Oggi in aula l'ex pm milanese ha affermato: "Non ho mai sollecitato colloqui investigativi con Vincenzo Scarantino per sondare il terreno. Alcuni colloqui investigativi sono sorti su sollecitazione dello stesso Scarantino in altri casi è possibile, ma non lo ricordo con precisione, che in alcune occasioni sia avvenuto su impulso della stessa Procura, oppure della Polizia di Stato, di fare dei tentativi nei confronti di Scarantino. Ma, ripeto, non sono stata io a sollecitare i colloqui con Scarantino perché non mi occupavo di lui con attività esclusiva". Eppure agli atti vi è la "maratona", avvenuta tra il 4 ed il 13 luglio, in cui venivano effettuati i colloqui, spesso nei giorni antecedenti le verbalizzazioni con i magistrati. Verbalizzazioni che in quattro occasioni si sono tenute con la partecipazione della stessa dottoressa Boccassini di cui una, il 15 luglio, alla sola presenza della stessa e di Arnaldo La Barbera. E sempre agli atti vi sono i colloqui investigativi post collaborazione con la giustizia si erano verificati anche con il falso pentito Francesco Andriotta. Ma l'ex procuratore aggiunto di Milano nulla sapeva. "Lo apprendo dai giornali - ha ribadito oggi - ho scoperto che ce ne sono anche alcuni a mia firma. Di questi colloqui investigativi non mi ricordavo, vuol dire che quindi non davo troppa importanza a questa vicenda. Scarantino comincia questa collaborazione a giugno '94, erano gli ultimi miei mesi di permanenza, avevo ancora molto lavoro da fare, quando Tinebra mi chiamò per dirmi che lui voleva collaborare io gli dissi di non contare su di me perché stavo per andare via e dissi di affidarsi agli altri colleghi che sarebbero rimasti a Caltanissetta". Dunque perché nella lettera di ottobre, quando davvero i termini erano prossimi allo scadere, si lamentava per essere stata esclusa? Rispondendo alle domande dell'avvocato Fabio Repici è tornata a parlare del primo interrogatorio a Pianosa del 24 giugno '94: "Tinebra voleva che fossi presente. Io, siccome sono un soldato, sono partita. Ci fu un viaggio in notturna in elicottero, penso che ci fosse anche Petralia con me".

Facile che l'ex pm ha confuso il viaggio con un altro perché, documentatamente, è noto che quell'interrogatorio ebbe inizio alle 20.30. Ugualmente non ricorda se Arnaldo La Barbera viaggiò con lei o se si trovasse già a Pianosa con Scarantino. Ed è a quel punto che la Boccassini ha mostrato un certo nervosismo: "Inutile che cercate di farmi cadere in contraddizione, sono passati 30 anni, io risponderò sempre che 'non lo ricordo'". Anche rispetto ad un altro interrogatorio di febbraio non ha memoria: "Ero talmente impegnata in quel periodo che già mi meraviglio del fatto che fossi andata io a interrogare Scarantino. Mi spiace, capisco che do l'impressione che nella mia mente ci sia più Capaci che D'Amelio, ma non potevo occuparmi di tutto non stando giù, non era possibile fare più di tanto. Forse, in generale, il fatto di fare colloqui investigativi coi collaboratori era una prassi, tanto che poi è subentrata una normativa per sopperire agli errori fatti dai colleghi. Se quei colloqui servivano per addestrare il collaboratore, i colleghi andrebbero cacciati da ogni funzione pubblica, sul punto si poteva capire che Scarantino era inattendibile, è ridicolo". 

Niente Servizi. Durante l'esame dei pm ha anche detto di "non avere mai saputo di eventuali rapporti tra la Procura nissena e i servizi segreti", dopo le stragi. Quindi ha detto di aver saputo “della notizia di una collaborazione tra i servizi segreti e la Procura di Caltanissetta solo da giornali". Ed ha aggiunto: "Io vidi Contrada per la prima volta durante un interrogatorio a Forte Braschi. Da quando sono stata a Caltanissetta non ho saputo di un rapporto con i servizi che poi, non in mia presenza, colleghi si incontrassero con esponenti dei servizi segreti non lo so. Ma devo aggiungere una cosa: davanti alle due stragi che hanno sconvolto il mondo e hanno destabilizzato le istituzioni che il procuratore abbia avuto contatti con i servizi non mi sembra una cosa terribile ma fa parte delle cose di un normale nucleo di rapporti che sono nati e cresciuti e mantenuti nel limite della legge. Ma questo non lo so”.

La lettera con Saieva. Quindi è tornata a parlare di quel documento firmato con Saieva: "Su Vincenzo Scarantino vi erano visioni completamente diverse - spiega il magistrato - Gli altri colleghi erano propensi a dire da subito 'bene, Scarantino sta collaborando'. Ma per me c'erano delle perplessità. Molte perplessità. Tant'è che volevo persino annullare le mie ferie per partecipare agli interrogatori. Ma la risposta di Tinebra fu: 'ti sei sacrificata tanto, ora te ne vai in ferie', e così tornai a settembre. Ma il patatrac per me e Roberto Sajeva fu quello che leggemmo al nostro ritorno. Essere tenuta fuori dai giochi era la prassi. Vuoi per leggerezza, vuoi per sciatteria, non ero più la protagonista come lo ero stata nei mesi precedenti nella dinamica investigativa delle due stragi". Quindi ha denunciato: "La relazione che io e il collega Roberto Saieva facemmo sulla non credibilità di Vincenzo Scarantino era sparita da Caltanissetta ma io ne avevo diverse copie. Fino alla fine dissi ai colleghi che bisognava cambiare metodo, che Scarantino andava preso con le molle. Vedendo che c’era questa voglia che io andassi via da Caltanissetta scrissi la seconda relazione. Soltanto con il pentimento di Spatuzza nel 2008, ricevetti una telefonata dall’allora procuratore della Repubblica di Caltanissetta che mi chiese se era vero che io avevo scritto delle relazioni con Roberto Saieva. Erano sparite. Io e Saieva, dopo averne parlato con Giancarlo Caselli, mandammo le relazioni direttamente a Palermo”. “Sono qui per la quarta volta - ha affermato con forza durante il controesame - a ripetere sempre le stesse cose sentendomi quasi in colpa per aver scritto quelle relazioni che avrebbero potuto dare una scossa diversa a quei processi". Durante il controesame su questi argomenti la Bocassini più volte ha detto di "non comprendere il senso di certe domande volte soltanto a farmi cadere in contraddizione". Il presidente del Collegio l'ha invitata "a rispondere alle domande senza aggiungere commenti" e ribadendo che "l'ammissibilità delle domande, lo sono fino a quando non si dichiara diversamente". "Non credo che tutti i colleghi rimasti abbiano preso a cuore l'andazzo un po' leggero di Tinebra - ha proseguito-. C'era un clima troppo accondiscendente nei riguardi di Scarantino, per questo la famosa lettera la mandammo anche a Palermo, se nel 2008 non arrivava Spatuzza forse delle due relazioni ne restava solo un mio ricordo. Quello che è successo dal '94 in poi l'ho leggiucchiato dai giornali, ero impegnata a Milano in ben altre vicende".

Quindi, nonostante i richiami, non ha voluto far mancare un momento di stucchevole ironia: "Se non avessi fatto le relazioni in cui manifestavo le mie perplessità sulla genuinità del pentimento di Scarantino e non ne avessi per altro conservato copia, oggi mi avrebbero addossato tutte le responsabilità e le colpe, chissà... magari per me avrebbero riaperto Pianosa, anche se io preferisco l'Asinara. Menomale che ne avevo una copia". 

Boccassini vs Genchi. Altro argomento ha riguardato le divergenze con l'ex poliziotto ed ex consulente informatico, Gioacchino Genchi. Per il magistrato milanese questi non era altro che "una persona pericolosa per le istituzioni, aveva conservato un archivio con i tabulati che aveva raccolto. E poi vedeva complotti e depistaggi ovunque". In particolare la Boccassini non vedeva di buon grado alcuni approfondimenti che Genchi avrebbe voluto fare sui viaggi di Falcone negli Usa. "Non mi piacque questo suo atteggiamento - ha dichiarato intervenendo dal tribunale di Milano - chiese persino di indagare anche su Giovanni Falcone, dopo la strage di Capaci, chiese di esaminare persino le sue carte di credito. Non mi piacque e lo dissi a Tinebra, gli spiegai: 'Le analisi dei tabulati le può fare chiunque'. Ne parlai anche a La Barbera - ha aggiunto - che era d’accordo sul fatto che non si poteva pendere dalle labbra di uno come Genchi. Il suo apporto alle indagini fu nullo. Era un tecnico, non un investigatore, quindi non poteva apportare nulla a un’indagine così seria. Insomma, non mi piaceva il suo modo di lavorare, così fu allontanato. Tinebra non voleva perdere la mia capacità lavorativa, quindi da quel momento Genchi non si è più occupato di stragi". Eppure, nel corso dell'esame, ha anche ricordato che "una delle prime ipotesi di lavoro era che il telecomando fosse stato azionato da castello Utveggio dove si diceva ci fosse una postazione Sisde. Su questi punti le indagini erano partite quasi subito". Un'ipotesi investigativa che proprio Genchi aveva indicato. Tra le inchieste aperte ricordate dalla Boccassini anche quella sulla "presenza di Bruno Contrada in via D'Amelio, ma dai riscontri risultava che, al momento dell'esplosione che uccise Borsellino e gli agenti di scorta, fosse altrove, in barca con un gioielliere palermitano. Sulla pista dei mandanti esterni e della sua presenza in via D'Amelio il giorno della strage abbiamo fatto tutto quello che era umanamente possibile fare".

Alta tensione. Altro momento di tensione, oltre a quelli con gli avvocati, ha visto protagonisti anche i magistrati nel momento in cui l'ex pm del pool sulle stragi mafiose ha dichiarato: "Non fa onore a chi indossa la toga avere raccolto certe dichiarazioni, come quando Scarantino disse di essere stato minacciato da me e da La Barbera. Questa era una calunnia bella e buona ma non sono stata tutelata". Parole che hanno portato il pm Stefano Luciani a chiedere al Presidente del Tribunale D'Arrigo di "far presente alla teste che si deve limitare a rispondere alle domande. Non siamo qui per prendere lezioni da nessuno: visto che si parla di decoro delle toghe, cosa si doveva fare in quel caso, non verbalizzare quello che diceva Scarantino?". Successivamente gli animi si sono nuovamente riscaldati quando la Boccassini, sempre rispondendo alle domande dell’avvocato Fabio Repici, che le chiedeva perché “in questi anni non aveva mai detto degli incontri tra il Procuratore Tinebra e Vincenzo Scarantino prima degli interrogatori”, ha controreplicato: “Sono 30 anni che mi chiedo perché su questi fatti Tinebra non è mai stato sentito da Caltanissetta”. A questo punto il procuratore aggiunto Gabriele Paci ha detto: “Evitiamo di trasformare questo processo in una sorta di mercato. Tinebra fu sentito nel Borsellino quater (per onore di cronaca va ricordato che ciò avvenne su citazione delle parti civili, ndr) e quindi evitiamo di fare commenti”. A quel punto è intervenuto il presidente del Tribunale Francesco D’Arrigo che ha chiesto a “tutti di abbassare i toni”. L’ex aggiunto di Milano ha anche raccontato che tra il 1992 e il 1994 “diversi collaboratori di giustizia parlarono di moltissimi magistrati siciliani, tantissimi, oppure ne volevano parlare, ma non era mai il momento buono”. E ha fatto il nome di Pietro Giammanco, ex procuratore capo di Palermo. “E’ stato poi iscritto nel registro degli indagati dopo le dichiarazioni rese da alcuni collaboratori - ha ricordato - era uno dei tanti magistrati indagati a Caltanissetta”. Rispondendo alle domande dell'avvocato Giuseppe Panepinto, legale di Mario Bo, sulla presenza del suo assistito durante i colloqui investigativi con Vincenzo Scarantino l'ex pm ha risposto: "Non ricordo che ai colloqui investigativi fatti con Vincenzo Scarantino in mia presenza ci fosse anche Mario Bo. Ma non escludo che ci fosse, la sua presenza sarebbe stata legittima come per altri funzionari. Per quelli fatti in cui c'ero anche io comunque tenderei ad escluderlo". L'avvocato Panepinto ha anche chiesto se fosse possibile che la presenza di un investigatore non fosse stata messa a verbale, cosa che la Boccassini ha escluso. "Non avrei mai consentito ha detto il magistrato - che non fosse verbalizzata la presenza di chiunque partecipasse agli interrogatori". Alle sette di sera, dopo aver iniziato l'esame alle 10 del mattino, si è conclusa la deposizione e il processo è stato rinviato al prossimo venerdì, il 28 febbraio, per sentire due agenti della Dia.

PAOLO BORSELLINO E ILARIA ALPI. IL DEPISTAGGIO DI STATO CONTINUA. Andrea Cinquegrani su lavocedellevoci.it il 24 Agosto 2021. I due più clamorosi “Depistaggi di Stato”, per la strage di via D’Amelio e per l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, dopo tanti anni ancora avvolti nel mistero, esecutori e soprattutto mandanti sempre "a volto coperto". Due "suicidi" che hanno la rituale impronta dell’omicidio perfetto (o quasi), ossia quelli del capo-comunicazioni al Monte dei Paschi di Siena, David Rossi, e del campione di ciclismo Marco Pantani, sepolti sotto una lapide che si chiama "archiviazione". Due stragi, sempre di Stato, quelle di Ustica e del Moby Prince, ugualmente senza risposta, gli autori liberi come fringuelli, le vittime uccise due volte, i familiari privati anche di uno straccio di verità giudiziaria. E’ questa la giustizia di casa nostra. Capace di calpestare la memoria, di massacrare l’elementare diritto a conoscere i nomi dei colpevoli, di veder passare il tempo senza che una foglia si muova. E la politica? Tace, in modo sempre più complice e omertoso. In grado solo di prodursi in vomitevoli commemorazioni che hanno sempre più il sapore di una beffa. E al massimo (come nel caso Moby Prince) nella creazione delle consuete, inutili commissioni parlamentari d’inchiesta. Poco più d’un anno fa, a maggio 2020, abbiamo effettuato una ricognizione su quei gialli, su quei buchi neri nella storia del nostro martoriato Paese. Solo la punta dell’iceberg, casi emblematici di fronte ad una montagna di gialli irrisolti, di morti senza giustizia, famiglie destinate a soffrire per il resto delle loro esistenze. Aggiorniamo qui di seguito quella ricognizione. Che si fa sempre più desolante e umiliante, perché è trascorso – inutilmente – un altro anno. Pesante come un macigno. 

IL PIU’ GRANDE DEPISTAGGIO DI STATO. Eccoci al più grande "Depistaggio di Stato’ nella nostra storia: la strage di via D’Amelio, in cui persero la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. Quattro processi farsa sull’eccidio e un processo per depistaggio che vede alla sbarra tre poliziotti, i quali all’epoca lavoravano con l’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera, il quale è morto da 15 anni e non più replicare alle accuse. Abortito, invece, il possibile processo a carico dei magistrati che guidarono le prime inchieste, vale a dire Anna Maria Palma e Carmelo Petralia; nessuna ombra giudiziaria ha mai sfiorato l’icona antimafia Nino De Matteo, subentrato nelle indagini strada facendo ma da sempre nel mirino dei j’accuse di Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice trucidato. E abortito anche il possibile processo a carico del maggiore dei carabinieri Giovanni Arcangioli, il primo ad aver tenuto tra le sue mani l’Agenda rossa che apparteneva a Paolo, la chiave di tutti i misteri. Eccoci ai veri nodi: l’Agenda rossa e il taroccamento del pentito-chiave di tutta la story, Vincenzo Scarantino, la cui falsa testimonianza, costruita dagli inquirenti (quali?) a tavolino è servita a far condannare (hanno scontato 16 anni) degli innocenti e, soprattutto, a depistare, facendo perdere anni e anni preziosi. Sentiamo le ultime parole pronunciate da Salvatore Borsellino, il fratello del giudice, pronunciate il 19 luglio scorso, in occasione dell’ennesimo anniversario di quella strage senza colpevoli e raccolte dall’Adn Kronos. “La verità su via D’Amelio si saprà, purtroppo, solo quando tutti gli attori di questa scellerata storia saranno morti”. “Tante volte si dice che lo Stato non può processare se stesso. E sono stati proprio pezzi deviati dello Stato che hanno intavolato la trattativa”. “Il depistaggio comincia nel momento in cui un capitano dei carabinieri si allontana dalla macchina di Paolo con la sua borsa che poi viene rimessa sul sedile, sperando in un ritorno di fiamma dell’inferno che c’era in via D’Amelio. E sperando che andasse tutto perduto, compresa la borsa. Ma su questo non si è mai veramente indagato, perché se è vero che il capitano Arcangioli è stato assolto dal reato di aver sottratto l’agenda, a mio avviso si sarebbe dovuto indagare su che fine abbia fatto l’agenda di mio fratello e che fine ha fatto prima che la borsa venisse restituita alla moglie e alla figlia”. “Probabilmente anche il Castel Utveggio ha avuto un ruolo. Se non è stato azionato il telecomando da lì, sono state coordinate le operazioni, come dimostrano le telefonate intercorse tra il Castello e via D’Amelio”. Perché – si chiede Salvatore – le indagini di Gioacchino Genchi furono fermate? Guarda cosa, in entrambe le vicende (Agenda rossa e Castel Utveggio), fa capolino una presenza: quella di Anna Maria Palma. Secondo la testimonianza di una ottima giornalista d’inchiesta, Roberta Ruscica, autrice de “I Boss di Stato” (Sperling & Kupfer, 2015), l’agenda è passata (anche) per le mani di Palma. Come mai della vicenda non è trapelato mai nulla? Come mai nessun inquirente ha chiesto a Palma conto di tutto ciò? Misteri. Più volte, nelle cronache su via D’Amelio, s’è intravista la sagoma di Castel Utveggio, ritenuto un avamposto dei servizi segreti. Da lì, secondo alcune ricostruzioni, sarebbe stato azionato il telecomando. Secondo altri (come rammenta Paolo Borsellino) avrebbe quantomeno svolto un ruolo di ‘coordinamento operativo’. Sta di fatto che a Castel Utveggio, per alcuni anni, ha trovato sede il ‘CERISDI’, un misterioso centro studi. E chi ha presieduto, in quegli anni, il CERISDI? Adelfio Elio Cardinale, un pezzo da novanta della politica siciliana, sottosegretario alla Salute nel governo Monti, big della radiologia sicula e – udite udite – marito di Anna Maria Palma. Quella stessa Palma che anni fa ha querelato la Voce proprio per le sue ricostruzioni sulla strage di via D’Amelio (già allora delineavamo il netto profilo di un Depistaggio di Stato) e, nelle pagine della sua querela, arrivava a sostenere che la pista di Castel Utveggio non ha mai trovato alcun riscontro e per questo è stata subito abbandonata dagli inquirenti. Come mai, oggi, non un signor nessuno, ma addirittura Salvatore Borsellino, ‘riesuma’ quella pericolosa pista? E’ in grado, qualche toga, di chiarire l’ennesimo arcano? 

COME TI TAROCCO UN ALTRO TESTE CHIAVE. Passiamo all’altro colossale Depistaggio di Stato, viste le tantissime indagini e inchieste taroccate in occasione dell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Non s’è più riuscito a tenere il conto, col passar degli anni, circa il numero dei magistrati che hanno avuto tra le mani il bollente fascicolo. Solo uno ci aveva subito visto giusto: e proprio per questo motivo è stato presto sostituito, fatto fuori – udite udite – per ‘incompatibilità ambientale’: si trattava di Giuseppe Pititto(dopo alcuni anni ha lasciato la magistratura e scritto un libro dove si parla senza mezzi termini di pressioni istituzionali), il quale aveva immediatamente intuito, e cominciato a suffragare con prove e riscontri, che l’affare era grosso, toccava il maxi business dei fondi per la cooperazione internazionale e soprattutto innominabili traffici di armi e rifiuti super tossici. Insomma, un mix davvero esplosivo: in grado prima di eliminare due presenze diventate troppo ingombranti e scomode, Ilaria e Miran. Poi tale da consigliare l’uscita precoce di scena dell’inquirente altrettanto scomodo: il quale rischiava sul serio di alzare il velo sui pupari di quei traffici e di quegli affari. Per questo si rendeva necessario, poi, indagare per finta, come hanno fatto le toghe che si sono susseguite nel tempo; quindi ‘Depistare’ a tutto spiano. E’ così che spunta, anche stavolta, un provvidenziale teste, da truccare e taroccare al punto giusto. Si chiama Ahmed Ali Rage, alias Gelle, un somalo che racconta alla polizia una storia tutta da bere, e capace di sbattere il mostro in prima pagina: un altro somalo, Hashi Omar Hassan, che proprio sulla scorta di quella sola testimonianza, senza alcun altro riscontro e mai confermata in dibattimento (circostanza che ha dell’incredibile) viene condannato in tutti i tre gradi di giudizio, e si fa 16 anni – anche lui – di galera da perfetto innocente! Ci vorrà solo un miracoloso reportage dell’inviata di “Chi l’ha visto”, Chiara Cazzaniga, a far emergere la totale innocenza di Hashi. Cazzaniga, infatti, riesce a rintracciare Gelle a Londra, lo intervista e ne ottiene una candida confessione: “Hashi non c’entra niente, mi sono inventato tutto. L’ho fatto perché sono stato obbligato dalla polizia”. E fa nomi, cognomi e indirizzi di tutti coloro i quali hanno partecipato alla combine. Il copione del maxi depistaggio è descritto punto per punto, dettaglio per dettaglio, nella sentenza pronunciata quattro anni fa dal tribunale di Perugia. Che non solo scagiona totalmente Mohamed, ma indica con chiarezza la pista, tutta ‘istituzionale’, da seguire per individuare i veri responsabili del duplice omicidio. Ma cosa succede a questo punto? L’inchiesta su quel tragico, duplice omicidio passa per competenza alla procura di Roma. La quale ha la strada spianata: basta seguire le tracce perugine, le piste indicate in quella sentenza, lavorarci sopra, effettuare ulteriori riscontri, sentire tutti i testimoni che occorre sentire e ci sono ottime chance per scoperchiare il pentolone dei misteri. E invece no. Il pm incaricato delle indagini, Elisabetta Cennicola, chiede ben presto l’archiviazione del caso. A questo punto la decisione spetta al gip: che chiede ulteriori indagini. Ma Ceniccola, anche questa volta, risponde picche e vuole a tutti i costi l’archiviazione: la sua richiesta viene controfirmata da procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Il quale dopo poche settimane va in pensione: che non comincia neanche, perché il 3 ottobre 2019 viene subito catapultato su un’altra poltrona eccellente, quella di Presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano. Cin cin. Ma torniamo al gip, Andrea Fanelli, il quale per la seconda volta si rifiuta di firmare per quella archiviazione. E ordina ulteriori indagini: elencando, per filo e per segno, tutti i punti da chiarire. Il termine è scaduto oltre un anno fa, il 4 maggio 2020. Da allora il silenzio è calato su tutta la vicenda. I legali della famiglia Alpi (Carlo Palermo e Giovanni D’Amati, figlio dello storico avvocato degli Alpi, Giuseppe D’Amati) hanno più volte sollecitato il gip ma non è arrivata alcuna risposta. Siamo in un clima perfettamente kafkiano. Con un’inchiesta che s’è letteralmente avvitata su se stessa e persa nelle consuete nebbie del porto giudiziario capitolino. Possibile che la memoria di Ilaria e Miran non venga degnata neanche dello straccio di una risposta? Possibile continuare a vivere solo di sterili commemorazioni, mentre esecutori e mandanti se la godono da decenni in beata pace? Possibile che nessun depistatore istituzionale venga nemmeno sfiorato da un’inchiesta – per una buona volta seria – e venga sbattuto davanti ad una corte? 

ANCHE PIER PAOLO PASOLINI “DOVEVA MORIRE”. Dicevamo del famigerato porto delle nebbie, quella procura romana in cui, nel corso dei decenni, sono state insabbiate inchieste e processi a bizzeffe. Come in un altro caso, non meno clamoroso. Quello sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, riaperto cinque anni fa dopo le rivelazioni di Pino Pelosi, il presunto killer, prima di morire, e la richiesta del test sul DNA avanzata dai legali della famiglia Pasolini. Un test che ha rivelato fatti e circostanze che più inquietanti non si può: ossia che sulla scena del delitto non c’erano solo Pasolini e Pelosi, come sempre ritenuto, ma almeno altri due soggetti. Con un contesto che cambia radicalmente: non omicidio a sfondo sessuale, ma assassinio in piena regola. Per la serie: Pasolini “Doveva morire”, così come è successo per Aldo Moro (da qui il titolo del libro firmato da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato). Pasolini – la Voce lo ha scritto più volte – venne ammazzato per motivi ‘politici’. Aveva infatti scoperto troppo – da autentico giornalista d’inchiesta – sull’omicidio del giornalista palermitano Mauro De Mauro, sull’affaire ENI, su un altro omicidio eccellente (quello dell’allora presidente del Cane a sei zampe, Enrico Mattei), e sulle acrobatiche imprese del suo successore, Eugenio Cefis, il protagonista di quella ‘Razza Padrona’ che dominerà la scena economico-finanziaria degli anni seguenti. Anche stavolta il copione è lo stesso. Hai individuato la pista giusta, quella fornita dal DNA, devi solo percorrerla, continuare nelle indagini. E invece cosa succede? Niente. Il pm incaricato delle indagini, Francesco Minisci, non muove un dito. Non si ha notizia di alcun concreto atto istruttorio mai effettuato nei mesi di presunte indagini. E quindi il caso passa sotto la rituale naftalina. Ancora in campo, battagliera come sempre, un’amica storica di Pasolini, Dacia Maraini. La quale un paio di mesi fa, nel corso di un’intervista rilasciata sempre all’Adn Kronos in occasione di una festa del libro a Palermo, dichiara: “L’inchiesta sulla morte di Paolini va riaperta. Adesso ci sono gli strumenti tecnologici avanzati, rispetto a 50 anni fa. Si potrebbero ingrandire segni anche molto piccoli, o macchie di sangue non viste. Perché certamente non è stato Pelosi a uccidere Pier Paolo ma un gruppo di persone, questo sembra certo. Ma chi erano non lo sappiamo. Evidentemente fa comodo che la morte di Pasolini rimanga un enigma, un enigma storico…”. 

P.S. Per gli altri misteri, da David Rossi a Marco Pantani, fino ad Ustica e Moby Prince, vi rimandiamo ad una seconda puntata che pubblicheremo nei prossimi giorni. 

USTICA, MOBY PRINCE, ROSSI, PANTANI – CALPESTATA LA MEMORIA DELLE VITTIME. Andrea Cinquegrani il 29 Agosto 2021 su La Voce delle Voci. Stragi di Stato. Sono trascorsi più di 40 e 30 anni dalle tragedie di Ustica e del Moby Prince e le vittime non hanno ancora avuto uno straccio di giustizia. Uccise due volte, una memoria calpestata ad ogni anno che passa, tra le solite litanie commemorative, intonate anche da quelle autorità istituzionali che hanno coperto e continuano a coprire i responsabili, in un vergognoso groviglio di collusioni & complicità. 

USTICA, LA PISTA FRANCESE MAI BATTUTA

Parzialmente risarciti i familiari delle vittime di Ustica, fino ad oggi, e risarcita anche la compagnia ‘Itavia’, che comunque poco tempo dopo quel tragico 27 giugno 1980 era anche fallita. Magra consolazione per tutti, visto che non ci sono responsabili per l’eccidio: nessuno è stato mai condannato da una sentenza, nessuno ha scontato un giorno di galera, nessuno paga il fio per quella atrocità. Generali, ammiragli, militari e politici liberi come fringuelli.

Eppure la ricostruzione storica di quella tragica notte è sotto gli occhi di tutti: almeno di chi vuol vedere. Mentre la giustizia, of course, è regolarmente cieca. La tragica verità venne rivelata, poco prima di morire, dall’ex capo dello Stato Francesco Cossiga, che di stragi & misteri di Stato era ben a conoscenza. E nel 2007 raccontò che il missile assassino era partito da una portaerei francese, quella notte nelle acque del Tirreno. Una ricostruzione che combaciava perfettamente con quella effettuata da una super documentata inchiesta prodotta dal transalpino "Canal Plus". E incredibilmente raccontata molti anni prima, nel ’91, da Franco Piro alla Voce. L’allora sottosegretario del Psi alla Difesa descrisse nei dettagli quello scenario di guerra nelle acque del Mediterraneo: era stata la portaerei ‘Clemenceau’ – disse – a lanciare il missile. Sorge spontaneo un interrogativo alto come un grattacielo: come mai la magistratura, che pure ha puntato i riflettori sulla tragedia del tutto inutilmente per decenni, non ha mai voluto battere, neanche per un millimetro, la "pista francese"? Era così difficile ottenere, attraverso apposite rogatorie internazionali, tutti i tracciati radar in possesso dei transalpini in grado di documentare il posizionamento e i movimenti delle portaerei in quella tragica notte? Giallo nel giallo, eccoci al caso Dettori. Stiamo parlando del maresciallo dell’aeronautica Alberto Dettori che quella notte era in servizio alla stazione radar di Poggio Ballone. Sette anni dopo il suo corpo è stato trovato appeso ad un albero. Dopo lunghissime, estenuanti ricerche, la famiglia cinque anni fa ha chiesto alla magistratura di Grosseto di riaprire il caso, subito archiviato in fretta e furia come il solito "suicidio" da stress (un po’ postumo…). Ebbene, quella richiesta è stata condannata, pochi mesi fa, allo stesso destino: archiviata, sepolta senza lo straccio di una motivazione plausibile. E infatti la famiglia non si arrende. Alberto – gridano con forza – è una vittima collaterale di Ustica, perché quella notte ha visto quel che non doveva vedere. E, soprattutto, non doveva raccontare. E guarda caso – come di recente la Voce ha documentato in due inchieste che potete leggere cliccando sui link in basso – pochi mesi prima di morire il maresciallo Dettori aveva ricevuto una stranissima visita, durata alcuni giorni, di un ‘collega’ francese, con ogni probabilità un uomo dei Servizi, conosciuto un anno prima nel corso di una missione a Nizza. Incredibile ma vero, l’identità di quel militare francese non è stata mai appurata dai nostri inquirenti. Né hanno fatto il minimo sforzo per accertarla. Ai confini della realtà. Chiara la volontà di coprire, insabbiare, depistare. Come è successo per 41 lunghissimi e drammatici anni da quel 27 giugno. 

MOBY. LA PISTA "BOMBA" E LA MEMORIA DI ONORATO

E sono invece trascorsi 30 anni dalla tragedia del Moby Prince. E anche stavolta nessuna inchiesta, nessun processo ha mai portato ad un barlume di verità. Né tantomeno di giustizia. Qualche scampolo dai risultati della prima commissione parlamentare d’inchiesta. E solo qualche mese fa, in primavera, ne è stata battezzata una seconda, stavolta presieduta dal Pd Andrea Romano. Riuscirà a portare qualcosa di nuovo, vista la totale latitanza della magistratura di casa nostra? E sempre in primavera, ad aprile, è uscito un libro che indica una complessa pista e un movente mai venuto alla ribalta. Si tratta di “Una strana nebbia- Le domande ancora aperte sul caso Moby Prince” (Mondadori), autore Federico Zatti, giornalista d’inchiesta e autore Rai. Ipotizza, Zatti, che il Moby Prince sia stato sequestrato e dirottato contro la petroliera Agip: quindi l’esplosione, testimoniata – stando alla ricostruzione – da alcune tracce di Sementex, un esplosivo militare, rilevate da uno dei periti incaricati per le indagini, Alessandro Massari. Quale lo scenario politico-mafioso alle spalle? Zatti fa riferimento agli interessi della mafia per il calcestruzzo di casa Ferruzzi e per il petrolio controllato dall’ENI. All’epoca infuriava il caso Enimont; mentre Giovanni Falcone e Paolo Borsellino indagavano sulle mani mafiose in svariate grosse imprese nazionali: in primis la Calcestruzzi guidata da Raul Gardini. E quando cade lo strategico tassello Gardini – secondo le ipotesi contenute nel libro – la mafia reagisce e dà un segnale allo Stato con la tragedia del Moby. Cui farà seguito, solo pochi giorni dopo, l’affondamento della petroliera ‘Haven’ davanti alle coste liguri che provocò cinque morti. E, l’anno dopo, le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Fantamafia e fantapolitica? Chissà. Comunque sia, l’interrogativo resta sempre lo stesso: come mai la magistratura non batte mai un colpo? E anche su questa pista non fornisce neanche lo straccio di una risposta? Un mese ricco di sorprese, lo scorso aprile. Visto che anche l’armatore Vincenzo Onorato – noto alle cronache per le imprese di "Mascalzone Latino" – improvvisamente, dopo tanti anni, ritrova la memoria. Il 21 aprile, infatti, rilascia un’esplosiva – è proprio il caso di dirlo – intervista a "La Nuova Sardegna". E decide di farlo – guarda caso – all’indomani di una sentenza emessa dalla sezione fallimentare del Tribunale di Milano, che ha dichiarato il crac della sua "Moby", la quale aveva rilevato l’ex compagnia pubblica di navigazione "Tirrenia". Cosa rivela Onorato al quotidiano sardo? Che la collisione tra la petroliera e il suo traghetto era dovuta allo scoppio di “una bomba che si trovava nel locale del motore delle eliche di manovra, a prua”. In realtà, mister Mascalzone Latino aveva già sostenuto la tesi della bomba nel corso del primo processo: nel corso dell’udienza del 22 gennaio 1996, infatti, parlò di una bomba, ma attribuì la responsabilità al proprietario di una società concorrente, Pascal Lotà, titolare della "Corsica Ferries". Accuse che non hanno mai trovato alcun riscontro. Nella fresca intervista, invece, Onorato non parla più del rivale corso, ma fa riferimento agli "scenari geopolitici": “C’era la Guerra del Golfo – sostiene – la situazione in politica estera era estremamente difficile, c’erano navi sconosciute in rada”. Scopre l’acqua calda, Onorato, visto che l’avvocato di parte civile (ossia dei familiari delle vittime), Carlo Palermo, da sempre ha descritto quello scenario: la prima invasione degli Stati Uniti in Iraq era finita neanche 24 ore prima, in rada c’era un gran movimento di mezzi, la vicina base americana di Camp Derby era in fortissima fibrillazione. Uno scenario, del resto, sempre rammentato dalla Voce nelle sue inchieste nel corso degli anni. Visto che, almeno in teoria, alla procura di Livorno è ancora aperto un fascicolo giudiziario sulla tragedia del Moby Prince, è possibile sperare – siamo all’ennesimo appello – in un qualche miracolo? O è sempre chieder troppo? 

DAVID ROSSI. QUANDO LE PERIZIE FANNO A PUGNI

Da una commissione parlamentare d’inchiesta all’altra. Ed eccoci al giallo per la morte di David Rossi, il responsabile delle comunicazioni del Monte dei Paschi di Siena volato giù dal quarto piano di palazzo Salimbeni ormai otto anni fa. Davanti ai commissari, poche settimane fa, cioè a fine giugno, il procuratore capo di Siena, Salvatore Vitiello, ha ribadito una cantilena che dura ormai da tanti, troppi anni: sulla scena del delitto – ossia l’ufficio di David, al quarto piano, appunto – non sono mai stati trovati indizi di alcun tipo che possano far pensare ad una colluttazione. “Dai sopralluoghi – ha affermato – emerge la totale assenza di indizi violenti che si sarebbero trovati se Rossi avesse dovuto difendersi da una aggressione, se avesse ingaggiato una lotta, se fosse scappato via da qualcosa, trascinato con forza: non vi è nessun dato che lo rileva”. E a proposito di alcune ferite trovate sul cadavere di David, quelle alle braccia e a un ginocchio, ineffabile commenta Vitiello: “Non abbiamo accertamenti scientifici che in qualche modo ci diano certezze, perché non sono stati fatti quando dovevano essere fatti”. Si arrampica sugli specchi, il procuratore capo, e aggiunge che quelle ferite non vennero esaminate in sede di autopsia e quindi, dopo la riapertura delle indagini, la seconda perizia “ha cercato di spiegarle con le evidenze che erano emerse nel corso dei sopralluoghi”. Ci avete capito un cavolo, in queste parole? Vitiello prima assicura tutti che non c’è alcun indizio di violenza sulla scena del crimine; poi fa riferimento a ferite al braccio e al ginocchio per le quali a suo tempo non vennero fatti gli accertamenti dovuti; quindi parla di ‘evidenze nei sopralluoghi’. Una domanda: hanno un senso compiuto frasi del genere? O non denotano, ancora una volta, una totale confusione investigativa, e, quindi, la non volontà di arrivare ad esiti giudiziari di effettivo valore probatorio? Ma ci sono ulteriori dettagli sulla dinamica della caduta del corpo di David dal quarto piano. Sostiene Vitiello: “E’ caduto dal suo ufficio con la parte del corpo rivolta verso il muro, e questa caduta è collegata al fatto che lui con le braccia si è posizionato sulla finestra dove c’è la sbarra di ferro e si è lasciato andare, è caduto in modo verticale, in modo speculare alla parete”. Mai viste a questo mondo, fino ad oggi, cadute in orizzontale. Last but not least, “i fazzoletti sporchi di sangue – descrive Vitiello – che erano stati repertati, sono stati distrutti dopo il sequestro. Avrebbero potuto darci un importante contributo. E’ stato un atto incongruo, si poteva aspettare, ma in quel momento c’era stata la richiesta di archiviazione e tutti gli atti propendevano per il suicidio”. Parole che fanno letteralmente cadere le braccia. E così succede ai familiari di David. Denuncia la moglie, Antonella Tognazzi: “Una recita imparata a memoria. Ancora oggi continuano a non dare motivazioni su quanto è accaduto, sulla base delle loro stesse perizie. Se una perizia dice che ci sono delle percosse sul corpo di David, come si fa a sostenere che nella stanza del suo ufficio non c’erano altre persone?”. E annuncia ancora battaglia: “Non è finita. E’ piuttosto un continuo e ulteriore affondare il coltello nella piaga”. 

PANTANI. VOLEVA FAR LUCE SUL CICLISMO SPORCO

A proposito di perizie che fanno a pugni, di scena del crimine alterata, di segni evidenti di percosse sul corpo della vittima, il caso di Marco Pantani, ‘suicidato’ il 14 febbraio 2004 nel residence ‘Le Rose’ di Rimini, presenta molte analogie con quello di David. Ed evidenzia una abnorme quantità di anomalie: “almeno un centinaio”, come ha sempre sostenuto il legale della famiglia Pantani, Antonio De Renzis. Il giallo del super campione di ciclismo ha due copioni. Il primo concerne la tragica fine, il secondo riguarda quel maledetto Giro d’Italia del 1999: accumunati da un finale tombale, l’archiviazione. Procediamo con ordine. L’archiviazione del primo filone (come atto finale, la sentenza della Cassazione pronunciata il 19 settembre 2017) fa letteralmente a cazzotti con la gigantesca mole di prove che hanno dimostrato come non si potesse trattare di suicidio.

Si parte con gli evidenti segni di percosse sul corpo di Marco, i segni di trascinamento del corpo stesso. Una stanza completamente devastata, segno di colluttazione e non di paranoia distruttiva, come hanno invece ritenuto gli inquirenti. La presenza di un giubbotto mai appartenuto a Marco, le tracce dell’involucro di un cono Algida mai comprato dal campione, la scomparsa di alcune palline bianche (di coca) dopo i sopralluoghi che hanno inquinato la scena del crimine. Le molte, troppe (una dozzina) ore trascorse dalla telefonata di Marco alla reception per chiedere aiuto e l’arrivo della polizia. Nonostante la mole di anomalie, i pm di Forlì chiedono l’archiviazione. La Cassazione conferma. Identico percorso per l’inchiesta sul taroccamento del Giro d’Italia 1999, al termine del quale Marco non doveva mai arrivare: perché così la camorra aveva deciso, avendo puntato un sacco di soldi sulla sconfitta del campione. Lo testimoniano, anni dopo, una serie di pentiti. Come sono lampanti le prove che documentano le pressioni non proprio british sui medici per alterare il risultato delle analisi di Marco, in modo da ottenerne la squalifica. E mai chiarita la quantomeno atipica ‘morte’ del capo equipe, lo svedese Vim Jeremiasse, affondato nelle acque – pochi mesi dopo – di un lago ghiacciato in Austria. Forlì, ancora una volta, archivia. L’avvocato De Renzis chiede la riapertura delle indagini alla Procura di Napoli, visto che sono determinanti le verbalizzazioni dei collaboratori di giustizia. Passano i mesi, il silenzio più totale. A quanto pare, nessun atto istruttorio compiuto. Ad inizio anno, l’archiviazione, chiesta dal pm della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli Antonella Serio. A quanto pare, l’avvocato De Renzis non ha replicato. Replica ancora a muso duro, invece, e lotta ancora per verità e giustizia la mamma di Marco, Tonina, che il mese scorso sbotta: “Marco è stato ucciso. Gli hanno tappato la bocca perché voleva raccontare i retroscena del ciclismo”. Aggiunge dettagli, Tonina: “Il suo corpo era pieno di botte ed ematomi, come se fosse stato picchiato”. “E’ impressionante la testimonianza del volontario del 118, il quale ha dichiarato che quando lui arrivò, per primo e insieme ad altre due persone, nella stanza di Marco e vi rimase 45 minuti, non c’era cocaina in giro e tutto era pulito. Inoltre, non vide nemmeno il sangue per terra e sul corpo di Marco. Io sono convinta che Marco non fu ucciso in quel residence, ma altrove. E poi portato lì”. “Io so solo che mio figlio non mi vuole accanto a lui in cielo, perché devo combattere per lui su questa terra. Marco voleva la verità e io la cercherò per lui: affinché una volta individuati i responsabili io e il mondo li si possa guardare negli occhi”.

Francesco La Licata per “La Stampa” il 24 maggio 2021. Il primo a definirlo «Faccia da mostro» fu Vincenzo Agostino, padre inconsolabile di Nino, agente di pubblica sicurezza assassinato a Palermo, insieme con la moglie incinta, Ida, il 5 agosto del 1989. Fu lui, il vecchio dalla lunga barba bianca, a indicarlo come lo «sbirro infedele» che aveva tradito il suo Nino consegnandolo ai killer di Cosa nostra. La cicatrice sulla guancia che lo aveva deturpato fino a farlo sembrare, appunto, mostruoso era un segno di riconoscimento indelebile e perciò facilmente identificabile: Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro di Calabria il 3 febbraio del 1946. E' lui «Faccia da mostro», il fantasma che incombe sulla maggior parte della macelleria istituzional-mafiosa degli ultimi trent' anni di sangue, in Sicilia e nel Continente. Per lunghi anni una coltre spessa di nebbia protettiva, fatta di silenzi, omissioni, connivenze, dimenticanze e scarsa verve investigativa, ha nascosto la brutta storia di «Aiello killer di Stato». La sua posizione di eterno indagato e archiviato si è interrotta definitivamente il 21 agosto del 2017, quando un provvidenziale infarto lo ha stroncato mentre si apprestava a mettere in mare la barca con cui andava a pescare nel mare calabrese. Adesso il «fantasma» è uscito dalle carte giudiziarie e dai racconti spaventosi per trasferirsi sulle pagine di un libro meticolosamente messo insieme, frammento su frammento, da Lirio Abbate, vicedirettore dell'Espresso: Faccia da mostro (Rizzoli). Una narrazione che sembra un romanzo e che, invece, è tutta realtà riesumata dal giornalismo investigativo di Lirio Abbate. Un puzzle sapientemente assemblato da frammenti sparsi fra cancellerie, archivi, segnalazioni trascurate, colloqui investigativi ignorati e ricerche sul campo. Così il giornalismo, in qualche modo, va a riempire qualche vuoto lasciato dalle indagini ufficiali. E il quadro che ne vien fuori è davvero poco rassicurante, perché impalpabile e viscido come sono le storie dove prevale la commistione tra il crimine e gli apparati segreti e dove non si riesce mai a separare davvero il nitido lavoro investigativo dai metodi «sbrigativi» dei corpi speciali. La storia di «Faccia da mostro» è la storia di una maleodorante commistione non ancora sanzionata perché difficilmente definibile oltre il «ragionevole dubbio» richiesto dalle sentenze. Ma i capitoli che ne fanno parte lasciano buchi enormi nelle coscienze civili. A Giovanni Aiello viene attribuita una partecipazione costante all' attività sanguinaria di Cosa nostra: gli omicidi Agostino, Cassarà, la crudele uccisione del piccolo Claudio Domino, le stragi in Sicilia, quelle di Roma, Firenze e Milano, l' attentato dell' Addaura a Giovanni Falcone. Una sinergia «benedetta da influenti dirigenti degli apparati investigativi che sembrano ubbidire a logiche di natura più «geopolitica» che al dovere di ricerca di verità e giustizia. Teatro di questo macello a cielo aperto una stradina della borgata marinara di Palermo (Arenella), il vicolo Pipitone, sede di uno «scannatoio» di Cosa nostra frequentato non solo da killer e boss mafiosi ma anche da carabinieri (che addirittura ne proteggevano la privacy) e persino da alti funzionari dello Stato che, rivelano relazioni investigative e interrogatori, monitoravano in tempo reale il via vai da e per vicolo Pipitone. Ma non è, questa, l'unica sbalorditiva scoperta. Lirio Abbate è riuscito a disseppellire dall' anonimato l' identità della donna che, quanto sembra, con Giovanni Aiello viene notata a Roma, Milano e Firenze sui luoghi delle stragi del 1993. E sorprendentemente apprendiamo che si tratta di una signora, oggi sessantenne, appartenente all'organizzazione atlantica Gladio, addestrata militarmente, sposata ad un ex «gladiatore» con simpatie destrorse. Il libro offre nome, cognome, foto e storia personale della donna, che potrebbe essere la stessa indicata dai testimoni oculari degli attentati, la «Antonella» coi capelli a caschetto più volte segnalata accanto a «Faccia da mostro» durante i diversi incontri avuti con esponenti della 'ndrangheta calabrese. E' presumibile che si riparli ancora di Aiello, di «Antonella» e di vicolo Pipitone. Tante sono le vicende ancora aperte e non risolte. In un altro libro, per esempio, «Faccia da mostro» appare ancora sullo sfondo di un' altra storia tragica: l' assassinio di Luigi Ilardo, un ex boss catanese ucciso pochi giorni prima che ufficializzasse, nero su bianco, la propria collaborazione con lo Stato. La figlia, Luana, ha affidato il racconto sulla vita e sulla tragica fine del padre ad Anna Vinci e così è nato Luigi Ilardo. Omicidio di Stato (Chiarelettere, pp. 240, 16 ). Anche questa è una storia di tradimenti istituzionali. Luana, ovviamente, racconta da figlia innamorata del padre, ma il quadro che fa da sfondo al labirinto dove Ilardo si è perso è davvero inquietante. Prima di cercare il «contratto» con lo Stato, Ilardo aveva collaborato con un ufficiale del Ros e lo aveva portato ad un passo dalla cattura di Bernardo Provenzano. La cattura non era avvenuta perché i vertici del Ros avevano deciso di non entrare nel casolare di Mezzojuso (Palermo) dove il boss riceveva e dialogava coi capifamiglia della zona. Lo Stato aveva creduto a Ilardo convocandolo a Roma per farlo entrare nel servizio di protezione. Il boss aveva già parlato di mafia e politica e altro poteva aggiungere. Per esempio notizie sull' esistenza di un killer di Stato dalla faccia deturpata in stretta correlazione con la mafia catanese. Ma il «contratto» venne rinviato di una settimana e Cosa nostra arrivò prima.

Stragi di mafia e depistaggi: i clamorosi abbagli su “Faccia da mostro” e la donna “misteriosa”. Lirio Abbate nel suo ultimo libro tira di nuovo in ballo il ruolo, smentito più volte dalla procura di Caltanissetta, di "Faccia da mostro". E ora spunta una “guerriera”, ma emergono evidenti incongruenze. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 7 maggio 2021. Una donna, una guerriera, fisico statuario, viso allungato ed ex appartenente a Gladio. Così viene descritta da taluni pentiti. Che poi sono sempre i soliti smentiti nel tempo. Lirio Abbate, nel suo libro appena uscito dal titolo “Faccia da mostro”, scrive che il ruolo del giornalista è indagare, cercare collegamenti, scovare fonti. E ha ragione. Appena ha scritto nome e cognome di questa donna “misteriosa”, Il Dubbio ha cercato fonti per capire chi fosse. Ed ecco che scopriamo che Virginia Gargano, così si chiama, non corrisponde a quella descrizione fisica. È di bassa statura, non sembra assolutamente avere un viso allungato e non fa parte della Gladio, ma ha avuto la “disgrazia” di essere stata compagna di un ex “gladiatore”. Il profilo sembrerebbe non combaciare con le cosiddette testimonianze, ma il fatto di aver messo in pasto all’opinione pubblica il nome di una donna che, secondo la tesi del libro, avrebbe partecipato a tutte le stragi mafiose, è qualcosa che dovrebbe essere inaccettabile in uno Stato di diritto.

I pentiti sconfessati dal pm Stefano Luciani. Non è finita qui, il bello deve ancora venire. Andiamo con ordine. Si pensava fosse chiarita per sempre la vicenda di Giovanni Aiello, conosciuto oramai con l’epiteto di “Faccia da mostro”. Vero che è morto di crepacuore nel 2017, ma non è la morte il motivo della sua archiviazione: sono le indagini fatte a più riprese a sconfessare qualsiasi sua compartecipazione alle stragi mafiose del 1992 o, addirittura, ai cosiddetti delitti eccellenti. D’altronde le uniche testimonianze (alcune di doppio, se non triplo de relato) provengono da alcuni pentiti di bassa lega, senza aver avuto ruoli apicali nei vertici mafiosi. Ovviamente tutti sconfessati dopo un vaglio scrupoloso eseguito dalla procura di Caltanissetta. In particolar modo nel 2018 dal magistrato Stefano Luciani, fino a poco tempo fa sostituto della procura nissena. Conosciuto per aver svelato, assieme a Gabriele Paci, l’indicibile depistaggio sulla strage di Via D’Amelio. Quindi uno dei rari magistrati che i depistaggi, sa riconoscerli subito. Ci sono atti, verbali, indagini capillari. Ma non basta. È necessario scriverci un libro – da poco uscito in tutte le librerie e sponsorizzato su La 7 in prima serata da Purgatori -, per raccontare e infine archiviare la storia del “mostro” Aiello, per poi passare il testimone alla donna “misteriosa”, quella che secondo Abbate potrebbe essere stata la compagna di merende di “faccia da mostro”: l’avrebbe aiutato nel compiere le stragi di mafia. Non conosciamo il fascicolo chiuso dalla procura di Catania, ma prendiamo per vero ciò che racconta Abbate nel libro. Chi parla di questa donna? Leggendo i nomi citati dal libro, sono sempre loro: pentiti di bassa lega. Gli stessi già sconfessati per quanto riguarda “Faccia da mostro” Aiello. Tra di loro spicca il solito Nino Lo Giudice detto “il nano”, uno che dalla stessa ‘ndrangheta di cui faceva parte veniva considerato un venditore di cocomeri. A questi se ne è aggiunto nel frattempo uno nuovo: ovvero Pietro Riggio, ma Abbate qui ha preso l’ennesimo abbaglio. Molto probabilmente, per distrazione si è dimenticato di scrivere nel libro che la donna indicata ha un nome e un volto diversi. È stata già identificata e sentita. Non c’entra assolutamente nulla con la protagonista (suo malgrado) del nuovo romanzo criminale. Ma chi è Riggio? Guarda caso anche lui, ex agente penitenziario poi passato alla mafia, ha ricoperto un ruolo certamente non di “rango”. A quanto pare, dei segreti più indicibili, ne venivano a conoscenza soli gli “uscieri” della mafia. Un insulto all’intelligenza.

Il pentito Pietro Riggio indicò un’altra donna. Riggio ha raccontato di aver visto Aiello, “Faccia da mostro”, in Bmw, con alla guida una donna. Abbate però, nel libro non dice che verrà identificata con il nome di Marianna Castro, di origine libiche ed ex compagna di Giovanni Peluso. Quest’ultimo altro ex truffatore e millantatore. Lei non c’entra nulla con la Gargano. Non solo. Riggio dice pure che questa donna sarebbe scesa dalla macchina e che portava pantaloni mimetici. La Castro, fervente seguace del defunto guru indiano Sai Baba, dice però tutt’altro durante il suo interrogatorio. Ad esempio che non era una Bmw ma una Lancia Delta, che in realtà non sarebbe mai scesa da quella macchina e che indossava abiti normali. Qual è la verità? Pietro Riggio si ricorda il numero di targa. Una memoria fotografica a distanza di decenni. La squadra mobile ha fatto degli accertamenti. La targa esiste, ma è di un trattore.

“Faccia da mostro” non era nei servizi. Ritorniamo a “Faccia da mostro”. Smentiamo subito il fatto che appartenesse ai servizi segreti. Anche se durante il programma di Purgatori, tutti lo hanno dato per certo. Come si evince dalle risultanze investigative da parte della procura di Caltanissetta relative al 2012, emerge che non ha mai collaborato a qualsiasi titolo con apparati dei servizi. Non solo. Relativamente al periodo degli attentati mafiosi siciliani, si legge che «nessun elemento comprova la presenza in Palermo, nei periodi indicati dai collaboranti (dalla fine degli anni ’80), di Giovanni Aiello, sussistendo, di contro, elementi che ne escludono la presenza per quel periodo». Egli era stato un poliziotto che ha prestato servizio nella Polizia di Stato dal 1964 al 1977. Anno questo durante il quale è stato posto in congedo per inidoneità al servizio a causa delle turbe nevrotiche dovute soprattutto dall’incidente (una fucilata in faccia alla mandibola destra) che gli ha creato una brutta cicatrice al viso. Lavorare, stare tra colleghi, con mezza faccia deturpata non è piacevole. Ha resistito per qualche anno, ma poi il congedo è inevitabile. Negli ultimi tre anni di servizio ha lavorato presso la Squadra Mobile della Questura di Palermo – Squadra Catturandi, a capo c’era Bruno Contrada. Dopodiché, così risulta dalle indagini, da allora ha vissuto con la moglie in una località marittima della Calabria.

Villani e Lo Giudice: interrogati e smentiti. Tutto qui? No, non è semplice. Ci sono i pentiti. I soliti già citati. C’è Abbate che parla di Consolato Villani, altro pentito di basso rango che parla di “Faccia da mostro” e della “donna misteriosa”. Andiamo al punto. Per farlo bisogna prendere ad esempio uno dei tanti passaggi scritti nella richiesta di archiviazione. Tra le tante cose, Villani parla pure di un coinvolgimento di Aiello e di una donna alla strage di Capaci. Ecco cosa si legge negli atti: «Comunque sia, rileva che il narrato di Consolato Villani appare talora incerto, talora un poco contraddittorio, talora smentito da altri collaboratori della giustizia che ebbero pari o più elevato grado nella ‘ndrangheta e, dunque, dotati di un bagaglio di conoscenza più ricco e approfondito». E ancora: «Si aggiunga che Villani riferisce un doppio de relato, limitandosi a riportare le confidenze di Antonino Lo Giudice al quale, a sua volta, altri ignoti personaggi avrebbero svelato il coinvolgimento di terzi estranei nella strage di Capaci». E giungiamo alla conclusione: «L’utilità probatoria, pertanto, delle dichiarazioni di Consolato Villani rasenta il fondo». Si tocca il fondo. Ed è vero. Ancora una volta non ci si accorge che si attribuisce considerazione e rilevanza a quello che l’allora Pm Luciani aveva descritto come «un coacervo di dichiarazioni a dir poco incoerenti e incostanti, contrassegnate da un continuo mutamento di versione e senza che a tali adeguamenti o cambi di rotta siano seguite logiche e convincenti spiegazioni ad un simile comportamento processuale». Non c’è spazio in questo nostro articolo per entrare ancor di più nel dettaglio, altrimenti avremmo potuto approfondire le dichiarazioni dei pentiti che hanno una genesi scaturita da altre indagini con tanto di singolari interferenze, rilevate peraltro in modo perentorio e autorevole, dallo stesso sostituto procuratore Luciani nella sua richiesta di archiviazione. Qualcosa, sicuramente non torna. «Si tratta, in conclusione, della necessità di non asseverare ipotesi allo stato indimostrate ed indimostrabili e che rasentano, a tratti, l’inverosimile: non ne abbiamo bisogno», conclude, data 2018, il procuratore nisseno. La domanda quindi nasce spontanea: perché, al contrario, c’è chi insiste su questa strada che rasenta il fondo?

Ecco chi è la donna del mistero nelle stragi siciliane: per la prima volta svelata la sua identità. Addestrata nella base di Gladio, compare al fianco dell’ex agente sospettato di essere un sicario. Oggi il suo nome viene alla luce grazie al libro Faccia da mostro. Lirio Abbate su L'Espresso il 3 maggio 2021. La “guerrigliera” che accompagnava agli incontri, con uomini della ’ndrangheta, l’ex poliziotto Giovanni Aiello, meglio conosciuto come “Faccia da mostro”, è una napoletana che ha fatto parte di Gladio. Seguendo la storia di quest’uomo dal volto sfregiato e dal passato inesplicabile si è arrivati a svelare l’identità di una donna misteriosa che oggi ha 64 anni e si chiama Virginia Gargano. Il boss calabrese Nino Lo Giudice ha detto ai magistrati che “Faccia da mostro” andava ai suoi incontri a bordo di un fuoristrada: «E veniva sempre con una donna, una sua… lui diceva che era una sua amica, ma comunque faceva parte pure dei servizi segreti e la chiamava Antonella […]. Antonella parlava che era un’azionista, era una guerrigliera, che avevano fatto addestramento in Sardegna ad Alghero, nei pressi di Alghero, che era dei servizi segreti». Sulla base delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, la procura antimafia di Catania ha avviato un’indagine su di lei, nell’ambito della stessa inchiesta per concorso esterno alla mafia che ha visto indagato Giovanni Aiello. La donna è stata intercettata dai carabinieri fra il 2013 e il 2014. La sua foto era stata inserita dagli investigatori in un fascicolo nell’ambito di un’attività di analisi compiuta dal Servizio centrale antiterrorismo della polizia di Stato e mostrata ai collaboratori di giustizia. E così è emerso, incrociando i dati, che Virginia Gargano rientrava in un elenco di probabili elementi appartenenti alla struttura Stay Behind. In poche parole, Gladio. Una delle poche donne a far parte della struttura di gladiatori. Finora il suo ruolo è rimasto segreto. La sua identità coperta. Una vita parallela ancora tutta da scoprire, come quella di “Faccia da mostro”, la cui storia è intrecciata con delitti e stragi che hanno modificato il percorso politico e sociale del nostro Paese. Ci sono voluti quasi trent’anni per arrivare a scoprire la sua identità. E scavando nel suo passato emerge come gli inquirenti della Procura nazionale antimafia abbiano dovuto lottare contro «le cose indicibili» che hanno protetto quest’uomo che ha fatto da cerniera fra Cosa nostra, ’ndrangheta e ambienti istituzionali deviati. La stessa cosa vale per le donne. È bene usare il plurale. Perché in più casi le indagini accertano il coinvolgimento di figure femminili nei delitti e nelle stragi, da quella di Capaci (tracce di Dna femminile sono state rilevate su reperti trovati vicino al cratere dell’autostrada) alle bombe di Roma, Milano e Firenze. Virginia Gargano è bionda, fisico statuario, viso allungato, labbra sottili. L’accento napoletano. Affiliata a Gladio. Ufficialmente disoccupata, possiede un paio di immobili nei quartieri spagnoli a Napoli, che ha dato in affitto e da cui ricava reddito. Ha vissuto a Caserta per trasferirsi a Reggio Calabria. Nel capoluogo calabrese è stata legata ad un uomo che nel 2018 è stato coinvolto in un’inchiesta su ’ndrangheta, riciclaggio e intestazione fittizia di beni. Lui è il cognato di un imprenditore reggino ritenuto collegato al clan Tegano. Nell’estate del 2013 i carabinieri registrano una conversazione tra la coppia, da cui traspare il carattere forte e deciso di Gargano. Una donna determinata. Una madre di famiglia devota ai figli, ma con un passato ingombrante come quello dell’appartenenza a Gladio, e quindi del suo reclutamento nell’organizzazione, che la cerchia delle nuove amicizie create nella città in cui si è trasferita probabilmente non conosce. Apparentemente si mostra come una casalinga, ma di fatto è un personaggio misterioso e carico di sorprese. Come, del resto, il suo ex marito. Nel 1981 si era sposata con un ex campione di nuoto, nonché ex gladiatore, anche lui della lista di Stay Behind e nipote - a suo dire - dell’ex capo della polizia Vincenzo Parisi. Gli investigatori catanesi hanno cercato le connessioni fra Virginia Gargano e Giovanni Aiello e a parte le dichiarazioni di ex mafiosi, non sembrano esserci stati fra il 2013 e il 2014 punti di contatto fra i due. Su questa “guerriera” è puntata adesso l’attenzione degli investigatori fiorentini che continuano ad indagare sulle stragi del 1993. La vicenda di questa donna scorre parallelamente a quella di “Faccia da mostro”: un uomo sfigurato, il volto deturpato dalla cicatrice, il look sdrucito, mai appariscente, l’aria un po’ dimessa, trasandata e disincantata di chi sa che vita e morte alla fine sono solo un grosso gioco. Uno stile alla Charles Bronson, protagonista de “Il giustiziere della notte”. Per trent’anni “Faccia da mostro” è sempre stato un passo avanti agli altri, sospettoso e sfuggente. Molti ne parlano, ma nessuno lo afferra. Si è lasciato dietro una scia di sangue: dal 1985 al 1989 è associato all’omicidio dei poliziotti Ninni Cassarà e Roberto Antiochia; quello dell’undicenne Claudio Domino; dell’agente Natale Mondo; del fallito attentato a Giovanni Falcone all’Addaura; dell’agguato all’agente Nino Agostino e a sua moglie Ida Castelluccio. E nel nuovo millennio ai collegamenti con uomini della ’ndrangheta. Fatti scioccanti che hanno segnato la Storia d’Italia. Ad accomunare questi delitti non c’è solo l’uomo dal volto sfregiato, c’è pure una lingua di asfalto crepato stretta tra le case del quartiere dell’Acquasanta, ai piedi di Monte Pellegrino e il mare del golfo di Palermo: è vicolo Pipitone. È il regno dei boss Galatolo e Madonia dove i mafiosi, anche quelli latitanti, si riunivano per i loro summit, dove uccidevano i loro nemici o traditori, da dove sono partiti i gruppi di fuoco, compresi quelli che hanno colpito il prefetto Dalla Chiesa, il giudice Chinnici, il commissario Cassarà e quelli che hanno piazzato la bomba all’Addaura davanti alla casa di Falcone e dove si incontravano uomini delle forze dell’ordine corrotti con i Galatolo e i Madonia. Una terra di mezzo. I collaboratori di giustizia sostengono che “Faccia da mostro” era di casa in vicolo Pipitone. Ma può essere solo e soltanto “associato” a queste tragedie perché a noi è giunta appena l’eco della sua presenza, qualche riscontro nei verbali della polizia e negli interrogatori dei pentiti. Fugaci apparizioni, avvistamenti, tracce del suo passaggio. Ci sono però mafiosi e testimoni che collocano l’uomo dal volto sfregiato in ognuno di questi delitti. E così dopo tre decenni il suo nome salta fuori: Giovanni Aiello Pantaleone, classe 1946. Arruolato in polizia quando aveva diciotto anni, congedato il 12 maggio 1977, a 31 anni, perché dichiarato non idoneo al servizio militare, per gli esiti di una ferita da arma da fuoco alla mandibola destra, sfociati in “turbe nevrotiche post-traumatiche”. Sposato e separato con un’ex giudice di pace. Ha simpatie politiche di estrema destra; è amico del terrorista Pierluigi Concutelli, di cui condivide l’ideologia. E il suo tenore di vita è stato al di sopra delle proprie possibilità economiche, rispetto alla pensione che percepiva. Negli anni Ottanta, almeno in Cosa nostra, lo cercavano tutti. Negli anni Novanta scompare e non lo cerca più nessuno. Negli anni Duemila si fa fatica a riannodare i fili dei decenni precedenti. Verrebbe da dire che è stato aiutato in passato da chi ha condotto male le indagini o da chi le ha volute condurre in malo modo, depistando. Per tutti gli anni Novanta, praticamente di lui non si hanno più notizie. È come se il suo compito fosse concluso, come se fosse stato messo “a riposo”. E così è scomparso dai radar, vive solo nei ricordi di chi ha sofferto per causa sua. Vive di sicuro nel cuore e nei pensieri di Vincenzo Agostino, l’uomo dalla lunga barba bianca, il padre di Nino, assassinato perché aveva scoperto il collegamento tra “Faccia da mostro”, il poliziotto Bruno Contrada e i mafiosi Nino Madonia e Gaetano Scotto. Indagando sull’omicidio del poliziotto, il magistrato della Procura nazionale antimafia Gianfranco Donadio arriva a scoprire l’identità dello “sfregiato”. Per il resto l’Italia l’ha ormai dimenticato. Sembra un relitto del passato. Una scoria radioattiva di un’altra era. Nessuno lo cerca più. Non tutti danno credito all’esistenza stessa di questo uomo misterioso. E invece è proprio allora che lo trovano. «Aiello non sarebbe stato mai individuato come quel personaggio estremamente pericoloso appartenente ai servizi segreti [capace] di rapporti criminali con le organizzazioni mafiose, come poi sarà descritto da alcuni collaboratori, se avesse avuto un aspetto fisico direi ordinario, più comune ed anonimo, invece le sue sembianze non sono proprio ordinarie, potremmo dire così, in quanto sia per la struttura del viso, tutt’altro che aggraziata potremmo dire, sia per una cicatrice su una guancia, una evidente deformazione della pelle, la sua immagine si presta ad essere notata e ricordata, ed è un’immagine che poi è associata a quanto si dice sul suo conto, la sua pericolosità, finisce per essere descritta in termini piuttosto impressionanti, è noto il soprannome Faccia di Mostro», dicono i pm Umberto De Giglio e Domenico Gozzo nella requisitoria per l’omicidio di Nino Agostino e di sua moglie Ida Castelluccio che ha portato nelle scorse settimane alla condanna all’ergastolo di Nino Madonia. Il 21 agosto 2017 il misterioso ex poliziotto muore sulla spiaggia di Montauro in provincia di Catanzaro. Il suo decesso viene attribuito a cause naturali. La morte si è portata via Giovanni Aiello prima che lo Stato potesse chiarire al di là di ogni dubbio le sue eventuali responsabilità e il suo coinvolgimento in molti, troppi fatti di sangue. Ma non è mai troppo tardi per cercare la verità. Molti dei protagonisti di questa lunga storia possono ancora parlare. E molti personaggi che sono rimasti nell’ombra possono essere adesso illuminati. Chi è stato “coperto” venga adesso svelato.

«Dipinta come la “donna delle stragi”, agiremo contro i diffamatori». Nel libro “Faccia da mostro”, scritto da Lirio Abbate, Virginia Gargano viene descritta come ex appartenente a Gladio e vicina a Giovanni Aiello. Il suo avvocato Gianpaolo Catanzariti annuncia azioni giudiziarie. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 21 maggio 2021. Tutto è partito dal libro “Faccia da mostro” scritto dal giornalista Lirio Abbate, il cui contenuto è stato anticipato dall’Espresso e poi amplificato da altre testate giornalistiche e addirittura dalla trasmissione in prima serata sul La7, condotta da Andrea Purgatori. Il punto non è tanto Giovanni Aiello, morto di crepacuore nel 2017, mai incriminato, ma oramai certificato – senza passare per alcun processo – come l’uomo dei servizi segreti deviati che sarebbe stato il vero artefice delle stragi di mafia e addirittura dell’omicidio del piccolo Claudio Domino. Un uomo contro il quale non è stata trovata alcuna prova. La sua presunta responsabilità è basata sulle dichiarazioni di taluni pentiti che non hanno mai ricoperto alcun ruolo apicale nell’organizzazione mafiosa. Su Aiello, infatti, hanno aperto e chiuso le inchieste con un nulla di fatto per poterlo incriminare. L’ultima richiesta di archiviazione è del 2018, a firma dell’allora sostituto procuratore Luciani della procura di Caltanissetta. Ha demolito le dichiarazioni discordanti e prive di ogni logica di quei pentiti che hanno addirittura parlato della presenza di Aiello, alias “Faccia da mostro”, durante la fase esecutiva della strage di Capaci. Ma non è questo il punto. Oramai Aiello è morto, quindi diventa lecito sbizzarrirsi sulla sua figura. Il libro di Abbate fa nome e cognome di una donna, Virginia Gargano, dipingendola come ex appartenente a Gladio e vicina a “Faccia da mostro”. Cose non dimostrate, almeno per ora. Anzi, il profilo sembrerebbe non combaciare con le cosiddette testimonianze, ma il fatto di aver dato in pasto all’opinione pubblica il nome di una donna che, secondo la tesi del libro, sarebbe appartenuta alla Gladio (non è vero, ed è dimostrato) e avrebbe partecipato a tutte le stragi mafiose, è qualcosa che dovrebbe essere inaccettabile in uno Stato di diritto. A tal proposito è intervenuto il legale della donna, l’avvocato Gianpaolo Catanzariti. «Mi è stato affidato l’incarico dalla signora Virginia Gargano – spiega a Il Dubbio – di procedere con le più opportune ed approfondite iniziative presso le diverse sedi giudiziarie eventualmente competenti a tutela dell’onore e della reputazione, sua e dei suoi figli, gravemente lesi dalle ricostruzioni e descrizioni contenute nel libro “Faccia da Mostro” scritto dal giornalista Lirio Abbate, anticipate su L’Espresso e La Repubblica e amplificate dalla trasmissione “Atlantide” su La7 del 5 maggio scorso nonché su altre testate». L’avvocato Catanzariti prosegue: «Dalla verità della notizia non si può prescindere neppure nel nome del cosiddetto “giornalismo d’inchiesta”. Non è accettabile che possa essere calpestata la dignità di una donna e madre, esponendola alla gogna mediatica, attribuendo le sue generalità ad una o più persone ancora oggi ignote sebbene oggetto di attività investigative nell’ambito di procedimenti penali, peraltro del tutto sconosciuti alla mia assistita e magari (o sicuramente) non riconducibili alla stessa». Infine conclude: «Allusioni, parziali ricostruzioni e suggestioni, destinate a restare e resistere nel tempo e ben al di là di una diversa verità, saranno, perciò, oggetto di doverose iniziative legali. Per quanto sinora avvenuto e per quanto ancora potrà essere in futuro riportato».

Mafia, l’ex killer Maurizio Avola: “Sono l’ultima persona che ha visto Borsellino negli occhi”. Valentina Mericio su Notizie.it il 29 aprile 2021.  L'ex killer e collaboratore di giustizia Maurizio Avola ha ripercorso gli istanti che hanno preceduto la strage di via D'Amelio. "Posso dire che c'ero".

“Sono stato l’ultimo a guardare Paolo Borsellino negli occhi”, queste le parole dell’ex killer e ora collaboratore di giustizia Maurizio Avola che durante lo speciale sulla mafia condotto da Mentana condotto su La7, ha ripercorso cosa è successo nei minuti prima che Paolo Borsellino morisse tragicamente quel 19 luglio del 1992 nella strage di via D’Amelio. Un racconto quello di Avola e ricco di dettagli. Non solo gli istanti prima, ma anche i lavori sul veicolo di Borsellino che fu riempito di esplosivi, il tutto senza tralasciare un dettaglio compreso il seggiolino per l’auto: “Già sapevo che dovevamo colpire un magistrato Io già il tipo di esplosivo da usare lo conoscevo. E conoscevo anche la tecnica”. L’ex killer Maurizio Avola durante il suo intervento nello speciale sulle mafie condotto da Enrico Mentana ha raccontato di essere stato uno degli escutori della strage nella quale ha perso la vita Paolo Borsellino. “Io posso dire che c’ero e sono uno degli esecutori materiale della strage di via D’Amelio. E sono l’ultima persona che ha visto lo sguardo di Paolo Borsellino prima di dare il segnale per l’esplosione”. “Borsellino scende dalla macchina e lascia lo sportello aperto Io mi fermo, mi giro e lo guardo, mi accendo una sigaretta. Lo guardo, mi giro e faccio il segnale, verso il furgone a Giuseppe Graviano e vado a passo elevato, ha poi aggiunto dichiarando: Lo guardo, mi giro e faccio il segnale, verso il furgone a Giuseppe Graviano e vado a passo elevato”, le parole di Avola. Tra gli altri aspetti di quella drammatica vicenda il riempimento della 126 di esplosivi:
La macchina che il 19 luglio 1992 uccise Paolo Borsellino, una 126, “è stata imbottita da due persone, io e un’altra persona. I panetti toccavano pure il seggiolino dell’auto. Erano dodici panetti di esplosivo in tutto […]. Se non esplodeva la macchina avrebbero attaccato con i bazooka”, ha quindi spiegato il collaboratore di giustizia. Il nome di Maurizio Avola ai più potrebbe risultare poco noto eppure non tutti sanno che è stato uno dei killer più efferati della mafia. Diventato in seguito collaboratore di Giustizia, ha scritto recentemente un libro a quattro mani con Michele Santoro dal titolo “Niente altro che la verità”, che sarà edito da Marsilio. Oltre fornire molte informazioni circa la strage di via d’Amelio, il libro si propone di raccontare i 30 anni di storia di Mafia in Italia.

L’accusa di Santoro: «Che impressione vedere gli attacchi al mio libro da mafia e da antimafia». Michele Santoro, autore di “Nient’altro che la verità”, polemizza con un articolo del Fatto che si contesta la sua ricostruzione di via D'Amelio. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 22 luglio 2021. Maurizio Avola è finito nel registro degli indagati della Procura di Caltanissetta. Il reato ipotizzato è calunnia. È bastato questo, per Il Fatto Quotidiano, per condannare il libro “Nient’altro che la verità” di Michele Santoro. Non solo. È bastato, per tre quarti dell’articolo, riprendere le parole del procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, per parlare di depistaggio. Non è chiaro, però, se tale iniziativa sia autonoma, oppure la denuncia è partita dal mafioso Aldo Ercolano, nipote e braccio destro di Benedetto Santapaola (detto Nitto), capo della Famiglia di Catania. La pietra dello scandalo è la rivelazione di Avola circa la presenza sua e di Ercolano in Via D’Amelio. In particolare nel garage dove era nascosta la Fiat caricata di esplosivo. Quella che ha fatto saltare in aria Paolo Borsellino e la sua scorta. Gaspare Spatuzza parlò della presenza di una persona estranea, e subito si è ipotizzato che potesse essere un agente dei servizi segreti. Eppure Spatuzza, all’epoca della strage, ancora non era un uomo d’onore, per cui non poteva conoscere tutti gli appartenenti a Cosa Nostra. Avola riferisce che poteva essere lui o, appunto, Aldo Ercolano. Ricordiamo che Avola ha parlato anche della partecipazione di Matteo Messina Denaro nella strage. Il Dubbio, rileggendo le intercettazioni di Riina, ha trovato un probabile riscontro che ora è al vaglio della procura nissena. La nota a firma di Michele Santoro e Guido Ruotolo stigmatizza l’articolo de Il Fatto: «In un articolo di oggi, ennesima polemica contro “Niente altro che la verità”, scrive che in trenta anni di processi si sarebbe giunti a prove e conclusioni che dimostrerebbero in maniera inconfutabile la partecipazione nella esecuzione delle stragi di “servizi segreti deviati e soggetti esterni alla mafia”». I giornalisti Santoro e Ruotolo proseguono nella nota: «Siccome a noi non risulta, sarebbe interessante che l’autore producesse le sentenze dalle quali ricava le sue certezze indicando con nomi e cognomi gli autori dei reati e le pene che sono state a loro inflitte, perché altrimenti le sue restano chiacchiere senza significato». E aggiungono: «Che le condivida Scarpinato pone il giornalista e il magistrato sullo stesso piano e non dimostra un bel niente. Tantomeno si può considerare la semplice iscrizione di Maurizio Avola nel registro degli indagati come una condanna del libro». E concludono: «È impressionante vedere mafia e “antimafia” attaccare un libro con tanto livore ma la consideriamo una ennesima prova di come certo giornalismo e certa magistratura stiano lentamente sprofondando in una palude da cui faticano ad uscire». Nel frattempo, è notizia di questi giorni, che c’è un aspirante pentito, tale Gaetano Fontana, che ha annunciato rivelazioni inedite sulla strage di Via D’Amelio. Fontana sostiene che dal padre, il capomafia Stefano, oggi deceduto, seppe delle confidenze ricevute da Totò Riina e cioè che ci fu un’accelerata nell’organizzazione della strage. Per ora nulla di nuovo, la decisione dell’accelerazione è di dominio pubblico.

LA PROCURA DI CALTANISSETTA SMENTISCE LE DICHIARAZIONI DI UN PENTITO INTERVISTATO DA LA7. Il Corriere del Giorno l’1 maggio 2021. il Sul caso è ormai polemica rovente. Maria Falcone sorella del giudice Giovanni Falcone dice: “Alla luce delle precisazioni fatte dalla procura di Caltanissetta, fermo restando l’assoluto rispetto per il diritto di cronaca, sarebbe stato utile ascoltare i magistrati che per anni hanno indagato sulle stragi del ’92 consentendo di smascherare il clamoroso depistaggio delle indagini sull’attentato di via D’Amelio”. Con un comunicato stampa il procuratore aggiunto facente funzione di capo della Procura e D.D.A. di Caltanisetta, dr. Gabriele Paci, smentisce le dichiarazioni dell’ ex-collaboratore di giustizia Maurizio Avola che ha affermato, intervistato da Michele Santoro per lo “Speciale Mafia” su La7, di aver partecipato unitamente a Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Aldo Ercolano ed altri alla fase esecutiva della strage di Via D’Amelio, in cui morirono il magistrato Paolo Borsellino e la sua scorta. Tale circostanza risulta in effetti essere stata riferita per la prima volta dall’ Avola nel corso di un interrogatorio svoltosi lo scorso anno dinanzi ai magistrati della D.D.A. di Caltanisetta, a distanza di oltre venticinque anni dall’inizio della sua collaborazione con l’autorità giudiziaria. La procura di Caltanisetta precisa che “I conseguenti accertamenti disposti da questa D.D.A, finalizzati a vagliare l’attendibilità di dichiarazioni riguardanti una vicenda ancora oggi contrassegnata da misteri e zone grigie, non hanno allo stato trovato alcuna forma di positivo riscontro che ne confermasse la veridicità. Dalle indagini demandate alla DIA sono per contro emersi rilevanti elementi di segno contrario che inducono a dubitare tanto della spontaneità quanto della veridicità del suo racconto”. “Per citarne uno, tra i tanti, l’accertata presenza dello stesso Avola in Catania, addirittura con un braccio ingessato, nella mattinata precedente il giorno della strage, là dove, secondo il racconto dell’ex collaboratore, egli, giunto a Palermo nel pomeriggio del venerdì 17 luglio, avrebbe dovuto trovarsi all’interno di un’abitazione sita nei pressi del garage di via Villasevaglios, pronto, su ordine di Giuseppe Graviano a imbottire di esplosivo la fiat 126 poi utilizzata come autobomba” continua la nota della Procura. Avola, nel 1994 aveva iniziato a collaborare con la giustizia, confessando 80 omicidi, fra cui quello del giornalista Pippo Fava, qualche anno dopo venne espulso dal programma di protezione perché sorpreso a fare rapine in banca con altri due pentiti.  “Colpisce peraltro che l’Avola, anziché mantenere il doveroso riserbo su quanto rivelato a questo ufficio, abbia preferito far trapelare il suo asserito protagonismo nella strage di Via D’Amelio, oltre a quello di Messina Denaro, Graviano ed altri, attraverso interviste e la pubblicazione di un libro. E lascia altresì perplessi che egli abbia imposto autonomamente una sorta di “discovery” compromettendo così l’esito delle future indagini, dopo che l’ufficio aveva provveduto a contestargli le numerose contraddizioni del suo racconto e gli elementi probatori che inducevano a dubitare della veridicità di tale sue ennesima progressione dichiarativa” conclude la Procura di Caltanisetta. Le “future indagini” saranno quelle sulle dichiarazioni di Avola, i magistrati adesso vogliono capire cosa c’è dietro le sue nuove affermazioni. E’ solo il desiderio, la necessità economica di un ex pentito di rientrare nel programma di protezione o un disegno ancora tutto da scoprire per minare i processi già conclusi sulle stragi? Infatti fra le dichiarazioni di Avola, compaiono anche parole pesati su Gaspare Spatuzza, un’ex fedelissimo dei Graviano che nel 2008 ha svelato la grande impostura del falso pentito Vincenzo Scarantino. Avola adesso sostiene che Spatuzza non era “uomo d’onore” e che quindi non poteva conoscere i segreti di Giuseppe Graviano, l’organizzatore della strage di via D’Amelio. Dichiarazioni queste smentite da molti collaboratori di giustizia, che hanno verbalizzato che Spatuzza dopo l’arresto dei Graviano era stato al vertice del clan di Brancaccio alla metà degli anni Novanta. Claudio Fava, presidente della commissione regionale antimafia, è durissimo con Michele Santoro. “Avola mente, un rapido e onesto lavoro giornalistico avrebbe permesso di rendersene conto”. E si chiede: “Chi manda Avola ad avvelenare i pozzi? Chi si vuole servire della sua sgangherata ricostruzione per fabbricare un altro depistaggio su via D’Amelio? Chi continua ad avere paura, trent’anni dopo, di chiunque si avvicini alla verità su quegli anni e su quei fatti?”. Santoro non ha tardato a replicare: “Come si è detto ieri nello speciale mafia è stato Guido Ruotolo a convincere Maurizio Avola a riferire all’autorità giudiziaria quanto era a sua conoscenza sulla strage di Via D’Amelio. Noi abbiamo raccolto il suo racconto e spetta ai magistrati verificarne l’attendibilità o trarne le dovute conseguenze. Comunque sia, il fatto che alle dieci del mattino Avola sia stato fermato per un controllo di polizia a Catania nel giorno precedente alla strage non smentisce di certo che a ora di pranzo potesse trovarsi a Palermo in compagnia di Aldo Ercolano”. Sul caso è ormai polemica rovente. Maria Falcone sorella del giudice Giovanni Falcone dice: “Alla luce delle precisazioni fatte dalla procura di Caltanissetta, fermo restando l’assoluto rispetto per il diritto di cronaca, sarebbe stato utile ascoltare i magistrati che per anni hanno indagato sulle stragi del ’92 consentendo di smascherare il clamoroso depistaggio delle indagini sull’attentato di via D’Amelio. Sentire la ricostruzione degli inquirenti avrebbe consentito di avere un quadro dei fatti basato su accertamenti e riscontri e non solo su dichiarazioni di personaggi che ritrovano la memoria dopo decenni. Sulle stragi mafiose continuano a essere troppi i lati oscuri e, dopo anni di falsi pentiti ritenuti credibili e tentativi di inquinamenti, i cittadini hanno diritto a informazioni complete”.  Aggiunge ancora Maria Falcone: “Rivedendo e rivivendo con dolore gli attacchi rivolti a mio fratello da Leoluca Orlando e Alfredo Galasso voglio solo ricordare che la storia ha stabilito dove la stava la ragione e dove il torto. A chi accusava Falcone di eccessiva vicinanza ai palazzi del potere ricordo solo che la legislazione antimafia, ancora attuale e fonte di ispirazione per tanti paesi, nasce proprio dal lavoro che mio fratello fece al ministero della giustizia negli ultimi periodi della sua vita. Mi riferisco alla creazione della procura antimafia, alla legge sui pentiti e alla nascita della dia. Lavoro per cui fu criticato, isolato e di cui quasi dovette giustificarsi”. Interviene anche il fratello di Paolo Borsellino, Salvatore, che dice: “Avola è un inquinatore di pozzi e mi meraviglia che un giornalista come Santoro, con il suo libro, si sia prestato a dare fiato a un personaggio del genere. Già in passato, con le sue dichiarazioni, Avola ha delineato la strategia dei falsi pentiti di mafia: mischiare verità e bugie per minare la credibilità dei veri pentiti”. 

Da Salerno ombre su Avola, il mafioso "pentito" di Santoro. L'ex killer di Cosa Nostra si autoaccusa della strage Borsellino e confuta la trattativa Stato-mafia nel libro-intervista del giornalista. Nel 2015 fu indagato per le dichiarazioni di Vincenzo Cavallaro, ex ndranghetista, che sosteneva lo avesse avvicinato per fargli ritrattare le accuse in un processo sul riciclaggio nel territorio salernitano. Gianmaria Roberti su Il Quotidiano del Sud il 4 maggio 2021. Da Salerno spuntano ombre sulla credibilità di Maurizio Avola, e pure un’indagine. L’ex killer ed ex pentito di Cosa Nostra, autoaccusatosi della strage di via D’Amelio, in cui perì il giudice Borsellino con la scorta. Avola – sicario del clan catanese Santapaola – è la presunta “gola profonda” di “Nient’altro che la verità”. È il libro-intervista di Michele Santoro, appena uscito in libreria. Testo preceduto da un grande battage, e tante comparse tv del celebre giornalista salernitano. La sua attendibilità, però, è esclusa dalla Dda di Caltanissetta, competente per l’eccidio. E ora, si scoprono ulteriori elementi di opacità. A evocarli il 4 marzo 2016, in udienza a Salerno, è Vincenzo Cavallaro. Un pentito calabrese di peso. Cavallaro testimonia al processo sugli investimenti di ‘ndrangheta a Salerno. Secondo lui, mesi prima, Avola lo avvicina nel carcere di Voghera. Il siciliano gli chiederebbe di ritrattare le accuse a carico di Luigi Giuseppe Cirillo, figlio del defunto boss di Sibari, Giuseppe Cirillo, alla sbarra per intestazione fittizia di beni. Un consiglio amichevole, non minacce. Cavallaro ed Avola sono detenuti nello stesso reparto. Una sorta di limbo carcerario, riservato ai fuoriusciti dal programma di protezione. Un circuito intermedio, dove c’è di tutto: ex pentiti che cercano di riaccreditarsi, collaboratori mai entrati nel programma, oppure chi il beneficio l’ha perso, per aver capitalizzato il contratto con lo Stato, o magari perché pizzicato a commettere reati. In ogni caso, gente da mettere al riparo da possibili vendette. In tale contesto. Avola tenterebbe di subornare il teste Cavallaro. Per queste circostanze, la procura di Salerno apre un fascicolo nel 2015. Ossia, all’epoca delle prime parole di Cavallaro, raccolte in carcere da un pm di Pavia. Come atto dovuto, il catanese è iscritto nel registro degli indagati. L’ipotesi: tentata induzione a non rendere dichiarazioni. Gli atti sono trasmessi alla procura di Pavia, competente per territorio. Da qui, è presumibile un altro trasferimento, per competenza distrettuale, alla Dda di Milano. Di quel fascicolo, ad oggi, nulla si sa in più. In assenza di riscontri, per le frasi di Cavallaro, la posizione di Avola potrebbero essere stata archiviata. Secondo il pentito calabrese, l’abboccamento avverrebbe tra ottobre e dicembre 2015. Ossia, subito dopo il deposito dei verbali, contenenti le sue dichiarazioni. Carte in cui emergevano indizi a carico di Cirillo, confermati in dibattimento da Cavallaro. Il presunto intervento di Avola, invece, sbuca nel controesame della difesa. Il processo a Cirillo, intanto, sta celebrando ancora il primo grado. Tuttavia, viaggia verso la prescrizione delle accuse. Nei verbali d’udienza, comunque, resta traccia del giallo Avola. Un personaggio sulla cui sincerità punta Michele Santoro, pronto a giocarsi tanto, rilanciando l’ultimo dei misteri d’Italia. Una versione assai controversa, che vorrebbe ridimensionare un altro pentito: Gaspare Spatuzza, uomo chiave del processo Stato-mafia. Su Avola (e Santoro) sono entrati in tackle i pm nisseni. «L’ex collaboratore di giustizia Maurizio Avola – scrive in una nota il procuratore aggiunto Gabriele Paci – ha tra l’altro affermato di aver partecipato alla fase esecutiva della strage di Via D’Amelio, unitamente a Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Aldo Ercolano ed altri. La circostanza risulta in effetti essere stata riferita per la prima volta da Avola nel corso di un interrogatorio lo scorso anno alla Dda di Caltanissetta, a distanza di oltre venticinque anni dall’inizio della sua collaborazione con l’autorità giudiziaria. I conseguenti accertamenti disposti, finalizzati a vagliare l’attendibilità di dichiarazioni riguardanti una vicenda ancora oggi contrassegnata da misteri e zone grigie, non hanno allo stato trovato alcuna forma di positivo riscontro che ne confermasse la veridicità». Per «citarne uno, tra i tanti – aggiunge il magistrato-, l’accertata presenza dello stesso Avola in Catania, addirittura con un braccio ingessato, nella mattinata precedente il giorno della strage, là dove, secondo il racconto dell’ex collaboratore, egli, giunto a Palermo nel pomeriggio del venerdì 17 luglio, avrebbe dovuto trovarsi all’interno di un’abitazione sita nei pressi del garage di via Villasevaglios, pronto, su ordine di Giuseppe Graviano, a imbottire di esplosivo la Fiat 126 poi utilizzata come autobomba». Spatuzza – sempre ritenuto attendibile – contribuì a preparare la strage Borsellino, rubando la 126. Affiliato alla famiglia palermitana di Brancaccio, ha smascherato il falso pentito Scarantino. E ha permesso la revisione del primo processo, scagionando gli innocenti condannati. Per lui Avola non era presente all’attentato. C’era, invece, un estraneo a Cosa Nostra. Un uomo mai identificato, forse appartenente ai servizi segreti. Avola cerca di confutare quest’ultimo passaggio. Per lui la strage fu «solo mafia». E Santoro gli crede, sfidando tutti.

Felice Manti e Edoardo Montolli per "il Giornale" il 6 maggio 2021. Da «Michele chi?» a «Michele perché?». La sinistra antimafia non si dà pace per il libro-intervista di Michele Santoro Nient' altro che la verità al pentito di mafia Maurizio Avola sulla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per Enrico Deaglio «è un depistaggio (che è un reato)», stesse parole dette al Fatto dall' ex pm Antonino Ingroia, per Claudio Fava il libro è «uno sputo in faccia a ogni verità». Fu solo la mafia o c' entrano anche le solite schegge dei servizi segreti? Sono passati 29 anni dalle stragi eppure «l'ardua sentenza» sulle due stragi non convince. Per esempio, ancora non sappiamo tutto sugli esplosivi utilizzati. A Santoro Avola giura che fu lui, insieme ad altri due, a imbottire di esplosivo la 126 che esplose in via D' Amelio. Dopo aver atteso in un palazzo messo a disposizione da Giuseppe Graviano, avrebbe fatto su e giù da Palermo, finché, saputo dalle vedette che Borsellino sarebbe andato dalla madre, si sarebbe appostato dentro un furgone, da cui sarebbe poi sceso vestito da poliziotto e dato il segnale a Graviano per azionare il telecomando: «Guardo per l'ultima volta il giudice fermo davanti al citofono. Ha gli occhi rivolti al cielo, con la sigaretta accesa tra le labbra. È un'immagine che mi rimarrà attaccata alla pelle tutta la vita». Peccato che sia un bel pezzo che Avola ha raccontato questa storia al procuratore di Caltanissetta Gaetano Paci, il quale ha accertato come il giorno prima Avola fosse a Catania con un braccio ingessato. Difficile, e probabilmente piuttosto pericoloso, riempire un'auto di esplosivo con un braccio solo. Figuriamoci indossare una divisa. Ma Santoro è sicuro: «Avola sta demolendo molte ricostruzioni dietrologiche. I servizi segreti che intercettano la madre del magistrato, il centro d' ascolto sul monte Pellegrino... Non c' è stato niente del genere. Via D' Amelio è il momento culminante di un'azione militare a tappeto e di una caccia all' uomo». Peccato, di nuovo, che la targa da mettere sulla 126 fu rubata il 18 luglio e il 19 Borsellino passò da lì solo perché alla madre era saltata una visita il giorno prima. I mafiosi dovevano essere certi che Borsellino arrivasse, altro che su e giù tra Catania e Palermo. Fu solo Cosa Nostra? Il 19 luglio un cellulare clonato aveva fatto chiamate che andavano dalle zone di Villagrazia di Carini a via D' Amelio: lo stesso percorso di Borsellino quel giorno. Tutti i pentiti raccontarono di aver usato cellulari clonati solo dopo le stragi: l'allora commissario capo Gioacchino Genchi scoprì che non era vero. Ce n' era uno anche a Capaci, anche se nessuno seppe dire a chi apparteneva e la Dia escluse fosse stato clonato. Eppure non poteva funzionare: era stato rubato il 15 aprile e cessato il 21 dello stesso mese. Ma funzionava benissimo. I telefoni di Nino Gioè e Gioacchino La Barbera, registi della strage di Capaci, clonavano due numeri facenti «parte di un arco di numerazione prevista e non ancora assegnata» dalla Sip a Roma in una filiale dove poi fu accertato ci fosse una base coperta dei servizi. Ma certo, bisogna credere solo ai pentiti. Ad esempio tutti quelli del commando di Capaci hanno detto di aver scoperto che Falcone scendeva a Palermo di sabato per averne pedinato i movimenti negli ultimi quindici giorni prima di sabato 23 maggio 1992. Peccato che Falcone, stando alla sua agenda elettronica Sharp, negli ultimi due mesi non fosse mai sceso a Palermo di sabato. La seconda delle sue agende elettroniche, una Casio, fu ritrovata cancellata in maniera non accidentale solo dopo il suo sequestro. Improbabile che sia stata Cosa Nostra o qualche politico corrotto, no? All' interno c' era appuntato un viaggio in America. Secondo autorevoli testimoni istituzionali, anche statunitensi, Falcone ci era andato per incontrare Tommaso Buscetta dopo il delitto di Salvo Lima. I magistrati di Caltanissetta non vollero approfondire nemmeno analizzando le sue carte di credito, per non violarne la privacy. E il ministero della Giustizia si limitò a smentirne il viaggio, senza dire dove fosse Falcone in quei giorni, dato che i suoi telefoni non funzionavano, come se si trovasse all' estero. Di certo, contrariamente a quanto raccontò Buscetta, Falcone voleva sentirlo già da mesi, perché il 15 ottobre 1991, davanti al Csm dove doveva difendersi dalle accuse di Leoluca Orlando, disse: «Mi risulta che uno di questi (pentiti, ndr), forse il più importante, dopo due, tre anni che aveva deciso di chiudere il rubinetto delle dichiarazioni, adesso intende riprenderlo. Credo di aver capito il motivo. Intendiamo accertarlo». «Il più importante», così Falcone l'aveva definito in Cose di Cosa Nostra. Forse si era segnato di più sul suo pc a Roma. Ma al posto di quel file sulla sua difesa al Csm, ce n' era un altro, orlando.bak, modificato dopo la sua morte, con l'ufficio già sotto sequestro. A noi qualcosa non torna...E poi c' è l'omicidio del giudice Antonino Scopelliti del 9 agosto 1991. Sulla sua morte in Calabria si saldano gli interessi di mafia e 'ndrangheta. La prima vuole eliminare il giudice che in Cassazione erediterà il maxiprocesso, grazie alla «rotazione» su cui spingeva Falcone «per evitare Corrado Carnevale, detto l'ammazzasentenze». La 'ndrangheta così chiude la guerra tra le cosche Imerti-Condello e De Stefano-Tegano-Libri costata 700 morti. Il commando di cui Avola «con Matteo Messina Denaro e i catanesi» è tutto siciliano, si parla di un fucile da caccia abbastanza piccolo e particolare che apparterrebbe a Nitto Santapaola e che un altro Santapaola, Enzo, deve lasciare nell' auto «come firma dell'omicidio». Qualcosa va storto, quel fucile non verrà mai trovato. L' 11 luglio 2012 a Reggio Calabria il pentito Antonino Fiume dice al processo Meta che i killer sono due reggini. Il pm Giuseppe Lombardo, che ha riaperto le indagini sull' omicidio - finora senza responsabili perché le versioni di 17 pentiti furono giudicate «discordanti» - non gli ha fatto fare i nomi. Ha ragione Avola o Fiume, pentito decisivo in diversi procedimenti? Troppi pezzi di puzzle diversi non si incastrano, come nella migliore tradizione mafio-'ndranghetista. Tutt' altro che la verità. Non una nuova luce ma solo inchiostro. Nero d' Avola.

Lettera di Michele Santoro per “il Giornale” il 7 maggio 2021. Caro direttore, ti ringrazio per l' attenzione che hai voluto riservare al mio libro e mi farebbe piacere lo leggessi. Ti lascio, tuttavia volentieri, in compagnia delle ipotesi fatte da Gioacchino Genchi, dai tuoi due giornalisti e dai professionisti dell' antimafia su telefonini, cellulari e agenti segreti. Con il tempo si vedrà se sono fatti o, come io credo, ipotesi strampalate. Riguardo ad Avola ci tengo invece a precisare:

1. L' esplosivo usato a via D' Amelio è il T4 e solo il T4.

2. Effettivamente dai riscontri che ha operato la Procura è emerso che Avola è stato fermato a Catania alle 10 del mattino, il giorno prima della strage. Tuttavia questa circostanza è assolutamente compatibile con il racconto che mi ha fatto il collaboratore di giustizia.

3. Le contraddizioni rilevate dai magistrati non le conoscevo perché erano segretate (anche se poi sono state stranamente diffuse urbi et orbi).

4. Avola non si è mai appostato sul furgone ma vi è entrato il tempo necessario per indossare la divisa da poliziotto.

5. Avola non aveva il braccio ingessato ma un mezzo gesso (o doccetta) al polso sinistro per di più estraibile. Dunque era perfettamente in grado di confezionare l' autobomba, indossare la divisa e dare il segnale.

6. Avola ha fatto ritrovare un fucile in un posto da lui indicato mentre ancora era in stato di detenzione. Che sia quello che ha ucciso Scopelliti non siamo noi a doverlo stabilire. Questo per la precisione. Vedremo in futuro chi di noi è più vicino alla verità. Grazie e buon lavoro.

Che i telefoni di Nino Gioè e Gioacchino La Barbera fossero clonati non è un' ipotesi. È tutto agli atti. Stando alle sentenze l' esplosivo era verosimilmente contenuto nel cecoslovacco Semtex H insieme ad altre sostanze. Se Borsellino non fosse passato, che ne sarebbe stato dell' autobomba? Quelli del commando sarebbero andati su e giù con la 126 imbottita di esplosivo?

Tommaso Labate per corriere.it il 9 maggio 2021. «La mano sul fuoco non la metto per nessuno perché non sono mica Muzio Scevola. Ho fatto uno scoop, l’ho difeso. I riscontri miei li ho fatti, tocca alla magistratura fare i suoi». E se dai riscontri emergesse l’inconsistenza delle rivelazioni di Maurizio Avola - il killer che si è auto-collocato nel commando che il 19 luglio 1992 ha ucciso Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, ridefinendo i contorni della storia per com’era stata raccontata dal pentito Gaspare Spatuzza - «allora non avrei alcun problema, in ogni caso il mio libro avrebbe comunque riaperto il dibattito sulla mafia. Anzi, avrei persino materiale per scriverne il seguito». Nelle prime righe del suo ultimo libro, Nient’altro che la verità (Marsilio), Michele Santoro ha scritto: «Di solito mi lascio guidare dall’intuito nel giudicare una persona che vedo per la prima volta. Di Maurizio Avola non so che cosa pensare». Adesso che ci sono concrete possibilità che l’intuito l’abbia tradito – con le rivelazioni dell’ex killer di Cosa Nostra smentite dalla procura di Caltanissetta, dagli osservatori garantisti e da quelli più vicini ai magistrati, dalla figlia di Giovanni Falcone, dai figli di Paolo Borsellino e anche da Claudio Fava, figlio del giornalista Pippo, ucciso da Avola – il popolare giornalista televisivo dice che «la mafia è sempre la mafia, una cosa complicata, la mano sul fuoco non la metto per nessuno», figurarsi per un pluriomicida.

La telefonata dopo la trasmissione di Giletti. Domenica sera, dopo la sua partecipazione al programma di Massimo Giletti su La7, il telefono di Santoro ha squillato. Era Avola. «Io avevo un gesso mobile sul braccio sinistro ma sono destro, io dico la verità, perché non mi credono?», ha detto il killer al giornalista. Il gesso (estraibile, dice lui) al braccio sinistro di Avola è la classica carta messa male che ha fatto crollare il castello. Il killer aveva raccontato di essersi mosso tra Palermo e Catania più volte nei giorni precedenti all’attentato di via d’Amelio (versione affidata a Santoro), poi di essere rimasto a Palermo nei tre giorni prima dell’uccisione di Borsellino (ai magistrati di Caltanissetta); questi ultimi, però, l’hanno messo di fronte al fatto che era stato fermato dalla polizia a Catania, la mattina prima della strage, e che al controllo si trovava con un braccio ingessato. Particolari, entrambi, omessi a Santoro. «Se l’era dimenticato», è la replica del giornalista. Possibile dimenticarsi di un dettaglio così importante alla vigilia di una strage come quella di via d’Amelio? «Ho fatto un test su me stesso per tentare di ricordare che cosa avessi fatto nei giorni prima di un momento importante della mia vita, come la puntata di Samarcanda con Libero Grassi. Ecco, non ricordo nulla», aggiunge. Com’è possibile che l’autore di rivelazioni così incredibili, affidate a un giornalista, non si curi di avvisare il giornalista che le stesse rivelazioni erano state successivamente contestate dai magistrati? «C’era il segreto istruttorio. Non poteva farlo. L’avrebbero arrestato», è la risposta di Santoro. A questo punto la domanda è un’altra: perché la verifica sul vaglio della magistratura alle dichiarazioni di Avola, nei lunghi mesi di lavoro sul libro e con tutto il tempo che c’era prima di mandarlo in stampa, non sono state fatte da Santoro stesso? L’autore risponde: «Avevo il mio scoop e l’ho difeso, i miei riscontri li avevo già fatti. Spero di no ma magari la reazione stizzita dei magistrati di Caltanissetta è arrivata proprio perché non ho fatto questi passaggi con loro».

Le cose che non tornano. A poco più di una settimana dall’uscita del libro, nessuno sembra disposto a credere all’autoaccusa di Avola, già in passato considerato inattendibile dai magistrati. Non tornano i tanti viaggi della vigilia tra Roma e Catania in compagnia di un sorvegliato speciale come Aldo Ercolano (con l’eventualità che un fermo qualsiasi a un posto di blocco mandasse a monte il piano), non tornano le sirene spiegate della scorta di Borsellino di cui il killer parla (erano «spente», come si legge nella sentenza Borsellino quater), come non tornano tantissime altre cose. Torna l’esplosivo, secondo Santoro, la ricostruzione di com’è stata imbottita di T4 la Fiat 126, «cose che Avola ha raccontato per primo e che il cratere di via D’Amelio conferma». Una goccia nel mare, per ora. Sul perché ci sia stata una sollevazione contro Avola, il giornalista ha una spiegazione: «Avola la nega la presenza dei servizi segreti nella preparazione dell’attentato. Magari qualcuno stava continuando a battere questa pista e queste rivelazioni hanno scombinato qualche piano». Sarebbe il primo caso di una campagna contro qualcuno che «assolve» i servizi segreti. Di solito, anche nelle spy story inventate, succede esattamente il contrario.

Pietro Senaldi per "Libero quotidiano" il 10 maggio 2021. C'è più dignità in un killer della mafia che in un dirigente della Rai di oggi? La domanda sale dalla lettura di Nient' altro che la verità, il libro (Marsilio, 19 euro) con cui Michele Santoro si riprende la scena dopo anni di «rassegnata emarginazione». Si tratta di un'inchiesta, un saggio, un'intervista che sconfinano nell' autoanalisi su Cosa Nostra, l'Italia, la televisione e il giornalismo, frutto di una serie di incontri tra l'anchorman e Maurizio Avola, ottanta omicidi sulle spalle, artificiere della bomba che uccise il pm Paolo Borsellino e autore con il boss tuttora latitante Matteo Messina Denaro dell'assassinio del giudice Antonino Scopelliti. «Avola è un freddo, non si fa sconti e non chiede perdono, una sorta di Eichmann della mafia, sa di sangue come io so di Sud, e quando lo vedi avverti il peso di tutti i suoi morti; incontrarlo mi ha fatto capire che dovevo iniziare un percorso di autocritica, il libro si regge sull'alternanza tra la mia e la sua storia». «Io come lui, due scappati dalla famiglia d'origine per entrare in un'altra», scrive Santoro nelle prime pagine del libro, destando lo scandalo dei perbenisti. «Mi ha colpito il fatalismo con il quale Avola si racconta, come se uccidere sia il suo destino immutabile» spiega l'autore, «e ho capito che lui è uno scienziato dell'assassinio, ma a muoverlo non è stata la sete di denaro o la disperazione, bensì la ricerca di rispetto e dignità, voleva l'approvazione della Famiglia Santapaola, ambiva a essere considerato il killer numero uno e a conquistare un posto nel mondo. Anche io, tutto quello che ho fatto nel giornalismo, l'ho fatto per ottenere rispetto, per difendere la mia dignità, il mio lavoro; ma ci sono riuscito solo in parte, visto che alcuni miserabili sedicenti dell'antimafia mi trattano da delinquente. Tanto per cambiare, aveva ragione Leonardo Sciascia: alla lunga le strutture emergenziali dell'antimafia si sono rivelate un intralcio al diritto e all'efficienza. Le similitudini con il killer naturalmente finiscono qui, con Santoro che lo immagina a preparare le bombe «con la medesima meticolosità che io mettevo nel costruire i servizi in sala-montaggio, cosa che ormai non si fa più, perché al giornalismo d' inchiesta si preferiscono i talk». Questione di costi sì, ma anche un fatto culturale, perché «oggi i leader politici sono piccoli, i funzionari Rai ancora più piccoli. È tutto più piccolo, in Italia e in Europa, tant'è che arriva la pandemia e il vaccino lo scoprono ovunque tranne che nell'Ue».

Dopo quarant' anni che studi la mafia, cosa hai imparato dall' incontro con Avola?

«La mafia delle bombe, quella pre-Tangentopoli, aveva capito prima dei magistrati e di noi giornalisti, che i partiti erano morti e non controllavano più la televisione. Quando con Maurizio Costanzo, nel settembre del '91, organizzai la serata Rai-Fininvest per commemorare Libero Grassi, Cosa Nostra avvertì il desiderio di libertà e rivolta che c'era in quel teatro ed emise tre condanne a morte: per me, Maurizio e Pippo Baudo, che invocò misure più dure e meno garantiste».

Perché fu così importante quella serata?

«Perché la mafia capì che Giovanni Falcone stava modificando le leggi per combattere Cosa Nostra. La politica, a sua volta, lo lasciava fare per salvarsi dalla rabbia popolare ed era disposta a cambiare le regole penali che da sempre favorivano i boss, ritenendoli responsabili di omicidi e attentati utilizzando le dichiarazioni dei pentiti».

Su Falcone lei ha cambiato giudizio?

«Lo ritenevo intrappolato nel Palazzo, strumentalizzato. Invece, introducendo con Martelli il principio della rotazione dei collegi giudicanti, che sottrasse a Carnevale il monopolio delle sentenze sui boss, stava condannando a morte se stesso e Scopelliti, al quale irritualmente aveva operato per affidargli il ruolo d' accusa nel maxi-processo a Cosa Nostra. Ma anche altri».

E quali altri?

«Proprio quei politici come Lima che noi ritenevamo formassero ancora un unico blocco con la mafia».

Vicende lontane...

«Fondamentali però per capire che la mafia raramente affilia i politici e comunque non prende ordini da loro, semmai li dà».

E tutte quelle puntate su Berlusconi e la mafia con il figlio del sindaco Ciancimino testimone d' accusa?

«Non ho mai inseguito teoremi personali. E quando ho capito che Ciancimino su alcuni punti nodali mi voleva portare a spasso sul nulla, l'ho mollato».

Però intanto ci hai dato dentro...

«Ma io sono un narratore, non un magistrato, e vuoi mettere la potenza del racconto del figlio di un mafioso di quella grandezza?».

A quale verità giornalistica, se non giudiziaria, sei arrivato?

«Che né Berlusconi né Marcello Dell'Utri abbiano potuto ordinare a Cosa Nostra le stragi.

Ma che Cosa Nostra ha valutato politicamente che con l'arrivo al potere del leader di Forza Italia si sarebbero creati equilibri a lei favorevoli. E a quel punto le stragi sono finite».

Però oggi la mafia non c'è, lo dice Avola nel tuo libro...

«Dice che non si sa più cosa sia; e per questo non la si riesce neppure a combattere».

E dov'è?

«Si è messa la cravatta, e una parte di essa si è travestita da antimafia. Oggi basta un click sul computer per spostare ricchezze immense...».

Perché la sua ricostruzione dell'assassinio di Borsellino non è piaciuta alla sinistra?

«Non confonderei la sinistra con i critici del racconto di Avola. La sinistra dibatte, non insulta. Chi mi critica sono dei gruppuscoli e persone che, per motivi nobili o meno nobili, hanno fatto del coinvolgimento dei Servizi Segreti nell' attentato la propria ragione di vita. Comunque a dare fastidio è stata la testimonianza di Avola, che racconta che nella strage di via D' Amelio non c' è la mano dello Stato».

Anche i magistrati oggi sono cambiati e non li riconosci più?

«Tutte le istituzioni della Repubblica sono andate in crisi con Tangentopoli. La magistratura, come i partiti, andava riformata, ma subito dopo Tangentopoli irruppe sulla scena Berlusconi».

L'uomo che ha fermato il fotogramma Italia per venticinque anni?

«La seconda Repubblica in realtà non è mai nata. La lotta tra Berlusconi e i suoi oppositori ha cristallizzato il Paese e la magistratura, che sembrava straordinariamente protagonista durante gli anni del Cavaliere, si è disintegrata appena lui è venuto meno».

Ha vinto la battaglia ed è morta con il nemico?

«Senza Berlusconi la magistratura ha perso il proprio profilo corporativo e i giudici hanno cominciato a scannarsi. La realtà fotografata dal "pentito" Palamara, a parte le sue teorie bislacche sui complotti contro Berlusconi, è il punto più basso a cui sono arrivati i giudici dal dopoguerra a oggi».

Sistema è una parola di moda, la usano Palamara e Sallusti e la usano i censori di Fedez.

«Posso dirti cosa era una volta la Rai: capistruttura che erano dei produttori. Oggi abbiamo gente che sceglie dopo aver visionato cassette prodotte all'estero. Ai tempi di una sola rete c'era il varietà il sabato sera ma gli autori si sforzavano di cambiare ogni anno cast: Mina, la Carrà, la Pavone; si cercavano, si creavano nuove star ogni anno. Oggi, un format e un conduttore te li tieni all' infinito. I dirigenti Rai una volta erano, si ritenevano e agivano come responsabili di un prodotto culturale, non come servi delle star televisive, degli impresari e dei partiti».

Ma la Rai è sempre stata politicizzata...

«Io mi sono sempre battuto contro ma magari tornasse quella lottizzazione che nasceva dalle diverse visioni del mondo dell'universo politico. Raiuno cattolica e per le famiglie, Raidue più laica e giovane, Raitre per dare al popolo comunista uno spazio per esprimersi che non aveva mai avuto: non erano semplici spartizioni di poltrone e potere come oggi. Abbiamo sostituito la visione del mondo con le clientele».

Hai il dente avvelenato perché sei fuori dal sistema?

«No, posso continuare a rimanere fuori. Ce l'ho con i partiti che hanno ucciso la tv pubblica. E mi hanno deluso i grillini: hanno annunciato la rivoluzione e poi hanno aderito al sistema che c'era prima, peggiorandolo. Con il risultato che la Rai non è mai stata così conformista e marginale e l'Italia mai così esposta al colonialismo culturale americano. Netflix, Amazon, ma non esiste una piattaforma dei film europei, abbiamo una produzione provinciale e marginale, che mi ricorda i melodrammi napoletani di Mario Merola».

Ma cosa ti aspettavi che facessero i grillini, non dirmi che pensavi che avessero i mezzi culturali e le capacità manageriali per cambiare qualcosa?

«Questo no, però potevano chiamare qualcuno in grado di aiutarli, anche persone non d'accordo con loro. Certo, il problema è che se metti uno come me a dirigere un tg o una trasmissione, poi non puoi chiamarlo per dirgli cosa deve fare».

Non ti è mai venuto il dubbio di essere stato estromesso quando non eri più funzionale a certi interessi?

«Io non sono mai stato funzionale. La sinistra non ha fatto barricate quando venni cacciato. Paolo Mieli era candidato alla presidenza della Rai e gli fu sufficiente dire che avrebbe richiamato me e Biagi perché la sua candidatura saltasse nel silenzio della sinistra, e cosa ha fatto la sinistra? Ha trovato un altro candidato. Si è ricordata di me quando le ho portato un milione di voti contro Berlusconi girando l'Italia come una Madonna Pellegrina per sostenere l'Ulivo, senza neppure i santini da distribuire».

Allora sei arrabbiato con la sinistra?

«Sono arrabbiato con Bersani, che si piegò all' avvento di Mario Monti perché l'Italia non poteva fare debito. Cosa stiamo facendo oggi?».

Dicesti che Renzi era l'ultima occasione della sinistra: treno perso?

«Non mi ricordo di averlo detto. Dire che Renzi è di sinistra è azzardato. Aveva una visione riformista ma ha confuso le esigenze del Paese con una battaglia personale; e questa è stata una strategia perdente. Senz' altro è il politico più dotato che si è visto negli ultimi tempi, il più dotato e dinamico, ma non ha una visione e ha limiti culturali impressionanti».

Troppo berlusconiano per essere amato dalla sinistra?

«Non è solo una questione di modi, ma anche di idee...».

Ci sono similitudini tra l'antiberlusconismo e l'antisalvinismo?

«Salvini mette la sinistra di fronte ai suoi limiti più di quanto non faceva Berlusconi. Silvio potevi attaccarlo sulla giustizia, sui conflitti d' interesse, sulle donne. Salvini lo devi battere sulla politica e per farlo ti serve una visione del mondo che alla sinistra manca».

Letta non ce l'ha?

«La sinistra non può essere rappresentata solo da qualche campagna per i diritti. Ci sono i problemi del lavoro, dei giovani e della redistribuzione della ricchezza».

Così è, anche se non vi pare; tanto per tornare in Sicilia, dove questa storia è iniziata.

«Perché io sono allergico alle divise fin dai tempi del militare», come Avola; solo che il mafioso da soldato ha imparato a usare gli esplosivi e «io a nuotare in una vasca con i pesci rossi».

FULVIO COLUCCI per lagazzettadelmezzogiorno.it il 25 giugno 2021. «Non è stata una scelta, ma una condizione in cui mi sono trovato: avevo tra le mani una storia importante e non avendo una trasmissione televisiva ho scritto un libro». Michele Santoro spiega la genesi di Nient’altro che la verità, (Marsilio editore, 19 euro) libro concepito insieme a Guido Ruotolo, già giornalista della Stampa e del Manifesto. 

Santoro, il suo rapporto con i libri non è ordinario né banale. Ce lo racconta?

«Scrivere non è stato il mio core-business da quando ho smesso di lavorare per la carta stampata. La mia scrittura oggi è una scrittura-montaggio: più cinematografica, televisiva, che letteraria. Poi esiste un elemento di pudore: se c’è tanta gente che scrive libri, lo faccio anche io? A me piace Pepe Carvalho, il personaggio di Manuel Vàzquez Montalbàn che bruciava i libri nella stufa, partendo dai più importanti. Certo non vorrei che nella stufa finisse un mio libro».

Immagine terribile…

«Sì, ma se fa freddo e hai bisogno di riscaldarti… La cultura è importante, produce ricchezza, ma il disagio è qualcosa di duro, impellente, c’entra con la sopravvivenza. E comunque la ragione per cui Pepe Carvalho brucia libri è lontana anni luce dai roghi nazisti». 

Come nasce «Nient’altro che la verità»?

«Idealizzavo un’inchiesta partendo dalla figura del superlatitante Matteo Messina Denaro e sull’evoluzione di Cosa nostra. Messina Denaro è l’“ultimo padrino conosciuto” che ha lasciato qualche minima traccia di sé. Da quindici anni, però, è scomparso dai radar degli investigatori: in Sicilia hanno utilizzato mezzi importanti per trovarlo, ma nulla. Lui è uno dei primi ad aver compreso l’importanza del digitale e ad aver familiarizzato con gli strumenti informatici. In alcuni affari “nuovi” come l’eolico si trovano sue tracce. Un latitante ha bisogno di risorse per restare in clandestinità. Così oggi può spostare soldi con una semplice scommessa on line. La mafia non è più quella degli anni ’80 e ’90; ha assunto altre forme. Quali? Ho parlato con diversi investigatori, ma non lo sanno. Il libro vuol far nascere una riflessione di questo tipo: è urgente tornare a parlare di mafia, capire in cosa si è trasformata». 

Come arriva a Maurizio Avola?

«Avola è legato a Messina Denaro: si autoaccusa di 80 omicidi e, parlando ai magistrati, cita il boss a proposito delle informazioni ricevute da quest’ultimo sul giudice Antonio Scopelliti. Il magistrato calabrese avrebbe dovuto sostenere in Cassazione la pubblica accusa al maxi-processo istruito da Falcone e Borsellino, ma fu ucciso prima, nell’agosto del 1991. Il suo omicidio rappresentò la risposta del capo di Cosa nostra Totò Riina a Giovanni Falcone, che dirigeva all’epoca la sezione Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia, sostenuta dal ministro Claudio Martelli: far ruotare i processi in Cassazione per evitare l’annullamento della sentenza di Palermo, confermata in Appello, con la condanna dei capi e dei gregari della mafia in base al “teorema Buscetta”. Grazie al lavoro di Guido Ruotolo siamo riusciti a incontrare Avola. Il suo è un racconto preciso dei fatti, in particolare della strage di via D’Amelio in cui morì il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta». 

Non sono mancate le polemiche

«Non mi hanno sorpreso, ma Avola ha raccontato prima ai magistrati e poi a noi la sua presenza sul luogo della strage. Se non fosse stato così, mi sarei preoccupato. La magistratura farà ulteriori verifiche, finora, però, non è stato smentito nulla. Il libro è nato dopo un importante lavoro svolto insieme a Guido Ruotolo: lettura delle carte processuali, dialogo con i magistrati. Le polemiche sono la reazione alle mie domande: cosa è diventata la mafia? 

Chi si interroga oggi su questo? Nient’altro che la verità è il tentativo di far emergere una riflessione diversa: gli strumenti in campo per combattere la “nuova” mafia sono vecchi, risalgono alla cultura dell’emergenza degli anni ’80 e ’90. Pensiamo che Cosa nostra voglia compiere nuove stragi, ma la mafia non ammazza più nessuno. Prolungando l’emergenza gli apparati ad essa legati si autoalimentano, continuando a ritenersi indispensabili, ma non è così. Se la mafia va combattuta con altri mezzi vorrei essere sicuro che le forze di polizia siano dotate degli strumenti utili; oltretutto non si può ancora impiegare otto anni per un processo. Per non parlare della mafia che si traveste da anti-mafia. Sciascia aveva visto giusto». 

La sua trasmissione, «Samarcanda», sostenne la lotta alla mafia, Giovanni Falcone, cercò di unire le forze e dar voce a cittadini come Libero Grassi. Una stagione irripetibile?

«Fu uno straordinario movimento che coinvolse la gente, non alcuni giornalisti e magistrati. Ma non essendo mai state realizzate le riforme, rimasti intrappolati dal crollo della Prima Repubblica e poi dal ventennio berlusconiano, con il gigantesco conflitto di interessi, siamo ancora prigionieri di quelle logiche. Il Paese è diventato piccolo, insignificante. Io e Falcone commettemmo due errori di valutazione. Il magistrato ritenne che la sua onestà, la sua trasparenza, fossero sufficienti a sferrare il colpo decisivo a Cosa nostra; io pensavo che Cosa nostra e i partiti di governo costituissero un blocco organico. Invece la mafia, come dimostra l’omicidio di Salvo Lima, decise di affossare Giulio Andreotti e la Prima Repubblica e di favorire nuovi equilibri politici».

A proposito di giornalismo, ha criticato la gestione della pandemia, quali errori sono stati commessi?

«Le istituzioni politiche hanno gestito la pandemia concentrando potere. La tentazione è stata irresistibile. Un bravo medico, nel curare il paziente, lo invita a reagire, respinge l’idea che l’ammalato resti lì inerte. Sin dall’inizio della pandemia bisognava chiedere alla società di reagire. Faccio l’esempio della Francia: lì reagire ha significato non chiudere le scuole, per esempio. Tutta questa esibizione della bravura degli italiani nel gestire la pandemia non mi convince quando poi ci sono realtà, come la Calabria, dove la sanità è un disastro. Il generale Figliuolo è bravo, ma non combattiamo una guerra. A me dà fastidio l’idea che i cittadini debbano ubbidire agli ordini. Anche perché, nel caso del Governo Draghi, non solo la democrazia perde terreno, ma la stessa credibilità del Governo: si parla della necessità di sveltire i processi, ma per la riforma della giustizia occorre una visione politica ed è difficile pensare di trovarne una condivisa da Lega e Pd. Draghi è un personaggio di grande spessore, i partiti intorno a lui no». 

E il giornalismo? Tornerebbe in Tv?

«Il giornalismo è più povero come la cultura. Siamo periferia dell’impero. Passati da Rossellini a Netflix, l’arte la governa un algoritmo e per i film che vogliono raccontare la realtà la vedo dura rompere il muro del conformismo. Ci sono eccezioni ma trionfa il dibattito social fatto di logiche da gruppettari anni ’70, mancando peraltro un social europeo. Chi dissente viene massacrato, attraverso la tastiera. Questo libro mi ha ridato il coraggio di riprendere a combattere per le mie idee e rivolgermi al Paese perché si torni a discutere, senza barriere e disprezzo. Tornare in Tv? Ci sto pensando, ho qualcosa in mente, ma se torno devo fare a modo mio».

Il libro con il giornalista Michele Santoro. Chi è Maurizio Avola, il pentito di Mafia che si accusa dell’attentato a Borsellino. Vito Califano su Il Riformista il 28 Aprile 2021. Maurizio Avola è diventato collaboratore di Giustizia dopo essere stato per anni uno dei killer più spietati della Mafia. Ha scritto un libro con Michele Santoro. Un libro che potrebbe essere l’inchiesta più importante di tutta la sua carriera, ha detto il giornalista. “Sono l’ultima persona che ha visto lo sguardo di Paolo Borsellino, prima di dare il segnale per fare quella maledetta esplosione”, ha confidato il pentito al giornalista. Il libro si chiama Nient’altro che la verità. Si propone di ricostruire trent’anni di storia della Mafia in Italia e promette rivelazioni sulla matrice della strage di Via D’Amelio, a Palermo, del 19 luglio 1992 nel quale morirono il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Il libro sarà al centro di una puntata speciale del Tg di La7, in onda in prima serata il 28 aprile, condotta da Enrico Mentana. Nient’altro che la verità uscirà domani edito da Marsilio. “Maurizio Avola non è famoso come Tommaso Buscetta e non è un capo come Totò Riina. Ma non è un killer qualsiasi: è il killer perfetto, obbediente, preciso, silenzioso, e proprio per questo indispensabile nei momenti decisivi”, si legge nella sinossi del libro. “Forse sottovalutato dai suoi capi e dagli inquirenti che ne hanno vagliato le testimonianze” e “ha archiviati nella memoria particolari, voci, volti che coprono tre decenni di storia italiana”. Avola ha conosciuto Matteo Messina Denaro, il boss introvabile, il numero uno di Cosa Nostra. In una lunga intervista del Time del 2015 Avola raccontava la sua storia: nel 1983 si affiliava dopo il primo omicidio. “Lavoravo nel ristorante di mio padre a Catania – raccontava – Ho sempre saputo che non era il lavoro per me. Pensavo ai soldi e al potere mentre pulivo i bicchieri. Volevo diventare qualcuno. Feci una serie di rapine a mano armata e a 21 anni richiamai l’attenzione di Marcello D’Agata, un mafioso che viveva a 100 metri da casa mia”. Il primo omicidio: Andrea Finocchiaro, avvocato, per dichiarazioni sul boss Benedetto Santapaola. Il delitto nel centro di Catania. Avola ha raccontato dell’affiliazione, dei soldi, le macchine sportive, le case, le regole di Cosa Nostra. Il killer si descriveva come un soldato nella guerra della mafia, gli anni delle stragi. Ha detto di aver ucciso uno dei suoi migliori amici, Pinuccio di Leo. Ha eseguito un ordine. Il giorno dopo l’arresto. In undici anni 79 omicidi prima di essere arrestato nel 1994 e pentirsi. È diventato collaboratore dopo aver realizzato, a quanto pare, che la mafia stava pianificando il suo omicidio. La sua famiglia ha cambiato identità. Ha scontato la sua pena in un carcere del Nord. Avrebbe contribuito con le sue dichiarazioni a oltre cento condanne. “Sono l’ultima persona che ha visto lo sguardo di Paolo Borsellino, prima di dare il segnale per fare quella maledetta esplosione”, ha raccontato a Michele Santoro. Il giornalista: “Non so bene perché ho deciso di incontrare uno che ha ucciso ottanta persone. Guardo Avola e ho la sensazione di trovarmi davanti uno specchio nel quale comincio a riconoscere tratti che sono anche i miei. Inizio a seguirlo in un labirinto di ricordi”. Il libro sta uscendo sulla scorta di una grande attenzione mediatica. Promette ricostruzioni, le tessere di un puzzle che si uniscono, rivelazioni su mafia e antimafia, politica, potere, informazioni, depistaggi. Dalla Sicilia degli anni Settanta a oggi. Santoro è stato ospite della trasmissione di Lilly Gruber Otto e mezzo sempre su La7. Avola si è autoaccusato di aver avuto un ruolo operativo nell’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, assassinato il 5 gennaio 1984 a Catania, e ha indicato i nomi di altri assassini e dei mandanti. Non era invece mai emersa la sua presenza a Palermo il giorno della strage di Via D’Amelio. Non era emersa in sede di processo. Le sue dichiarazioni sono al vaglio della Dda di Caltanissetta. Il pentito Gaspare Spatuzza – puntualizza Lasicilia.it -, teste chiave del nuovo processo dopo la revisione di quello nato dalle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino, non ha mai parlato della presenza di Avola sul luogo dell’attentato. “Mi accendo la sigaretta. Lo guardo così. Mi soffermo rigiro e faccio il segnale. Il mio lavoro è finito, me ne devo andare. Hanno fatto tutta una ricostruzione diversa da questa qui”, dice Avola in un video in esclusiva su Tpi. A novembre 2019 si è concluso in appello il quarto processo per la strage di via D’Amelio. Confermata la sentenza di primo grado di condanna all’ergastolo ai boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati il primo come mandante ed il secondo come esecutore della strage. Dieci anni invece ai falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Come aveva fatto la Corte d’assise anche in appello i giudici hanno dichiarato estinto per prescrizione il reato di calunnia contestato a Scarantino.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Maurizio Avola e l’attentato a Paolo Borsellino: chi è il pentito raccontato da Michele Santoro.

Chiara Carboni su Urban Post il 29/4/2021. Settantanove omicidi in undici anni, “l’ultima persona che ha visto lo sguardo di Paolo Borsellino prima di dare il segnare per fare quella maledetta esplosione”. Maurizio Avola è stato uno dei killer più temuti e crudeli della Mafia, della storia italiana. Pentito e diventato poi collaboratore di giustizia, oggi la sua storia è nero su bianco in un libro scritto con il giornalista Michele Santoro: Nient’altro che la verità. Maurizio Avola e le confessioni a Michele Santoro. Nel libro sono riportati trent’anni di passato della criminalità organizzata italiana. Perchè Maurizio Avola non era un semplice criminale, era l’omicida perfetto. Tra le pagine emergono verità inquietanti sulla strage di Via D’Amelio, quella che colpì il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Una delle ferite più profonde del nostro Paese. “Maurizio Avola non è famoso come Tommaso Buscetta e non è un capo come Totò Riina. Ma non è un killer qualsiasi: è un killer perfetto, obbediente, preciso, silenzioso e proprio per questo indispensabile nei momenti decisivi. Forse sottovalutato dai suoi capi e dagli inquirenti che ne hanno vagliato le testimonianze. Ha archiviati nella memoria particolati, voci, volti che coprono tre decenni della storia italiana”. Come l’incontro con Matteo Messina Denaro, il numero uno di Cosa Nostra. Ma chi è davvero Maurizio Avola, e perchè Michele Santoro ha deciso di scriverci un libro insieme? Maurizio Avola, come ha raccontato in un’intervista rilasciata al Time sei anni fa, lavorava nel ristorante del padre a Catania. “Ho sempre saputo che non era il lavoro per me. Pensavo ai soldi e al potere mentre pulivo i bicchieri. Volevo diventare qualcuno. Feci una serie di rapine a mano armata e a 21 anni richiamai l’attenzione di Marcello D’Agata, un mafioso che viveva a 100 metri da casa mia”. Poi è arrivato il primo omicidio: Andrea Finocchiaro. Un avvocato, colpevole di aver rilasciato dichiarazioni sul boss Benedetto Santapaola.!Maurizio Avola: “Sono l’ultimo che ha visto lo sguardo di Borsellino”. In questo libro scritto da Michele Santoro, forse la sua più grande inchiesta, il pentito Maurizio Avola racconta dettagliatamente tutto quello che definisce la criminalità organizzata. L’affiliazione, i soldi, le macchine sportive, le regole di Cosa Nostra. Il suo ruolo. Avola obbediva. A qualsiasi costo. Era come un soldato. Ha ammesso di aver ucciso 79 persone in 11 anni, prima di essere arrestato nel 1994 e poi pentirsi. Tra queste anche uno dei suoi migliori amici, Pinuccio di Leo. Perchè? Perché gli era stato chiesto. Ma soprattutto, perchè è diventato collaboratore di giustizia poi? Perchè aveva bisogno di essere protetto. Aveva capito che la Mafia, questa volta, stava organizzando la sua di morte. “Sono l’ultima persona che ha visto lo sguardo di Paolo Borsellino, prima di dare il segnale per fare quella maledetta esplosione”, ha raccontato al giornalista. “Non so bene perché ho deciso di incontrare uno che ha ucciso ottanta persone. Guardo Avola e ho la sensazione di trovarmi davanti uno specchio nel quale comincio a riconoscere tratti che sono anche i miei. Inizio a seguirlo in un labirinto di ricordi”, ha spiegato Michele Santoro. Il libro è già al centro del ciclone mediatico. Della sua possibile presenza durante la strage di Via D’Amelio non si era mai parlato prima. “Mi accendo la sigaretta. Lo guardo così. Mi soffermo, rigiro e faccio il segnale. Il mio lavoro è finito, me ne devo andare. Hanno fatto tutta una ricostruzione diversa da questa qui”, ha dichiarato il pentito in un video esclusiva su Tpi. Due anni fa, nel novembre 2019, si è concluso in appello il quarto processo per la strage che ha ucciso il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta. E’ stata confermata la sentenza di primo grado di condanna all’ergastolo ai boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati il primo come mandante e il secondo come esecutore. Ai falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci, invece, sono stati dati dieci anni per calunnia. I giudici hanno dichiarato estinto per prescrizione il reato di calunnia contestato a Scarantino.

POSTA E RISPOSTA DI FRANCESCO MERLO. Da “la Repubblica” il 30 aprile 2021.

Caro Merlo, ho sentito in tv che Maurizio Avola, killer della mafia che ha confessato 80 omicidi, è fuori dalla galera. Sono rimasto annichilito, e lei? Romano Scaffardi - Milano

La risposta di Francesco Merlo: Ho visto che Michele Santoro lo ha intervistato per Marsilio. Immagino che dobbiamo alle sue rivelazioni qualche vittoria importante, ma francamente non partecipo, fosse solo leggendolo o guardandolo in tv, al compiacimento del super-assassino pavoncello, né al dibattito psico-sociologico sui criminali, che tristemente rimanda al trattamento in formalina che Lombroso riservava ai loro cervelli. Capisco l'importanza dei pentiti e della legge che li premia, ma sarebbe meglio che questa stessa legge li trattasse da fuorilegge.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 30 aprile 2021. Se vi siete persi lo «Speciale mafia, la ricerca della verità», programma condotto mercoledì sera su La7 da Enrico Mentana, vi invito a recuperarlo, a seguire anche solo gli spezzoni più significativi. È stata una trasmissione passionale, forte, e per tanti versi drammatica. Il punto di partenza è l'intervista che Michele Santoro ha realizzato con il mafioso Maurizio Avola sui segreti di Cosa Nostra relativi alle stragi di Capaci e di via D' Amelio (è anche un libro: «Nient' altro che la verità», Marsilio). Inizia così Santoro: «Hai sessant' anni, sei stato un uomo d' onore della famiglia Santapaola e ti sei accusato più di ottanta omicidi. Ti do del tu perché abbiamo trascorso molti giorni insieme a scavare nelle nostre vite». Avola risponde in maniera diretta, facendo nomi e cognomi e raccontando come sono andate le stragi. In studio c' erano anche Fiammetta Borsellino (un fiume in piena a gridare: «Le anomalie sulle indagini e i processi di Via D' Amelio costituiscono la più grande offesa per il popolo italiano») e Andrea Purgatori; in collegamento Antonio Di Pietro. Quando si parla di mafia, di politica, di potere, dei loro possibili intrecci la cautela non è mai troppa: non sono in grado di dare un giudizio sull' attendibilità dell'intervistato e di quanto ci stia dietro. Rilevo però che una volta i talk sembravano più interessanti e coinvolgenti. È probabile che il talk, come genere, appartenga alla generazione dei boomers, ma quando seguo i talk di ultima generazione (quelli nati negli ultimi due o tre anni) mi sembra di confrontarmi con dei burocrati della tv, bisognosi di personaggi folklorici per inseguire la vivacità, faziosi senza volerlo apparire, ideologici ma con l'alibi della correttezza politica. Non parliamo dei più giovani. L' anemia è la loro cifra espressiva. Che poi il talk, dal punto di vista informativo, rappresenti «nient' altro che la verità» è tutto da dimostrare. Personalmente nutro forti dubbi.

Santoro scopre i “professionisti dell’antimafia”. Santoro mette in dubbio la teoria complottista delle stragi mafiose e le schiere dell'antimafia da parata lo processano.  Davide Varì su Il Dubbio il 21 maggio 2021. C’è un piccolo libello, un pamphlet non recentissimo ma assai prezioso: si chiama il “Circo mediatico giudiziario” e lo ha scritto Daniel Soulez Lariviere, un avvocato francese che in un centinaio di pagine, o poco più, ha fotografato il momento esatto in cui – e siamo alla fine degli anni ‘80 – i processi si sono spostati dalle aule di giustizia agli studi televisivi e sulle pagine dei giornali, fino a tracimare sui social. Ma questa è storia più recente. Insomma, Lariviere è il primo che ha fotografato il big bang, l’esplosione iniziale che ha cambiato i connotati al processo trasformandolo per sempre in processo mediatico. Inutile dire che l’istantanea di Lariviere riguarda anche il nostro Paese. I media italiani in questi anni hanno esasperato e viziato a tal punto il racconto della giustizia, che oggi assistiamo a veri e propri “dibattimenti” mediatici e a “condanne” a mezzo stampa. E sì perché nel processo mediatico l’indagato è sempre colpevole e le sue garanzie vengono calpestate e triturate nel nome di un non meglio specificato “diritto di cronaca”. Ovviamente ci sono interpreti che hanno intonato la musica del processo mediatico giudiziario in modo diverso: ci sono direttori d’orchestra che suonano marce trionfali calpestando “impunemente” almeno un paio di articoli della nostra Costituzione (il diritto alla difesa e la presunzione di innocenza) e chi invece lo fa in modo più sottile e intelligente. Insomma, come dire, c’è modo e modo…Ecco, tra questi ultimi, tra i più intelligenti e preparati, c’è senza dubbio Michele Santoro. Ecco, Santoro è stato un interprete alto e non “sbragato” del processo mediatico, e per anni è stato il faro della lotta alla mafia e dell’antiberlusconismo: spesso e volentieri mischiando i due fenomeni. Era il custode della legalità, il riferimento dei militanti dell’antimafia da parata e il cantore del racconto complottista che voleva pezzi di Stato impegnati a organizzare i grandi delitti di mafia. A cominciare da quello di Borsellino. Ecco, ora Santoro non crede più in questo racconto e l’abiura gli è costata gli strali dei professionisti dell’antimafia. Proprio così ha detto: “professionisti dell’antimafia”. Un’espressione che porta alla mente Leonardo Sciascia, anche lui finito nel mirino di chi è convinto che la lotta alle mafie giustifichi la notte della ragione e la macelleria dei diritti. E allora ci permettiamo di recapitare a Santoro la lettera di un tale Enzo Tortora, un signore che più di ogni altro ha vissuto sulla propria pelle la violenza dei professionisti dell’antimafia e della giustizia mediatica: “Se un cittadino, sbattuto in galera innocente, processato e condannato a pene enormi sulla sola parola di criminali “pentiti”, se dunque, osa protestare, urlare alla vergogna, chiedere un tipo di giustizia diverso e degno dell’Occidente, allora salta su, da una delle “correnti” della nostra beneamata Magistratura il solito (disinformato) colonnello in toga che accusa (la citazione è testuale) «di screditare l’immagine di una giustizia impegnata sul difficile fronte della criminalità organizzata» (Sic!). Ma che c’entra? Vien voglia di dirgli. Voi mi parlate di giustizia. lo grido all’ingiustizia, io vi parlo dei diritti di ogni cittadino e voi mi rispondete gargarizzando retorica”.

I teoremi di Purgatori su Borsellino. Fiammetta Borsellino e Antonio Di Pietro smontano la trasmissione di La7 sulla mafia. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 30 Aprile 2021. Sono molte le questioni da discutere in seguito alla trasmissione svoltasi nella sera di mercoledì a La7 con Mentana, Purgatori e Fiammetta Borsellino su un’intervista fatta da Michele Santoro al pentito Avola che ha narrato come insieme ad altri realizzò sul piano tecnico-operativo l’attentato contro Paolo Borsellino in via D’Amelio facendo saltare un’auto imbottita di tritolo e piazzata lì da tempo. Ovviamente quella ricostruzione si è intrecciata con una discussione sul quadro politico, giudiziario e criminale nel quale si svolsero i due grandi attentati di mafia, quello contro Falcone e quello poco tempo dopo contro Borsellino. Siccome, specialmente da Purgatori, sono state fatte affermazioni politiche e giudiziarie molto discutibili allora vale la pena fare alcune osservazioni a margine. È difficilmente discutibile che il governo Andreotti con Martelli alla Giustizia e Scotti all’Interno fu così impegnato contro la mafia che Martelli diede un rifugio a Falcone presso il ministero della Giustizia in un ruolo fondamentale, quello di direttore generale degli Affari Penali. Infatti, Falcone era rimasto isolato nell’ambito della magistratura e anche, come vedremo, nel quadro politico. L’azione di Martelli e Falcone dal ministero della Giustizia, di Scotti dal ministero dell’Interno, non sarebbe stata possibile se anche Andreotti non fosse stato della partita. Fu il governo in quanto tale a prendere un provvedimento al limite della costituzionalità quale fu il decreto che consentì di rimettere in carcere i boss malgrado la decorrenza dei termini, decreto contestato frontalmente dai comunisti. Un’altra operazione fu fatta in quella fase da parte di Martelli e dello stesso Falcone e fu quella di far sì che la Cassazione nella sua collegialità con un procedimento di rotazione fu investita per gli aspetti giuridici del maxiprocesso evitando che esso cadesse sotto la mannaia della prima sezione guidata da Carnevale. Ovviamente ciò spiega perché la mafia mise nel mirino Falcone, e per una fase pensò anche ad un attentato a Martelli, e prima ancora uccise Salvo Lima, e poi gestì la stessa tempistica dell’attentato a Falcone, in modo da togliere ad Andreotti la possibilità di diventare presidente della Repubblica. Evidentemente a questo punto c’è un “questione Andreotti”. A nostro avviso, sul terreno dei rapporti con la mafia la posizione di Andreotti è stata caratterizzata da due fasi che hanno trovato un riflesso anche nella sentenza che lo ha assolto dal concorso in associazione mafiosa dal 1980 e per prescrizione per quello che riguarda gli anni precedenti. Andreotti ebbe un rapporto “contrattuale” attraverso Lima (che non era mafioso, ma teneva i rapporti con la mafia come anche altri esponenti delle varie correnti della Dc) con la mafia “normale”, quella negli ultimi anni rappresentata da Bontade, poi ucciso dai corleonesi, cioè con la mafia che aveva rapporti con tutti, anche gli imprenditori del Nord, ma che non sparava ai magistrati e agli alti gradi della Polizia e dei Carabinieri. Invece Andreotti fu frontalmente contro la mafia quando ne assunsero la guida i corleonesi, che volevano sfidare lo Stato e i partiti. Di conseguenza, egli diede mano libera e anzi sostenne Scotti e Martelli che a sua volta sostenne in tutti i modi l’azione di Falcone dal ministero. Falcone poté continuare la lotta alla mafia dalla direzione degli Affari Penali della Giustizia essendo stato isolato nell’ambito della magistratura e anche a livello politico. Da chi fu isolato Falcone nell’ambito della magistratura? Certamente dall’area ambigua e grigia composta da Giammanco e simili, ma dall’altro lato in modo assai netto da Magistratura Democratica e da una parte del Pci per non parlare degli infami attacchi rivoltigli da Leoluca Orlando. Se i sostenitori della trattativa Stato-mafia applicassero con coerenza logica fino in fondo i loro teoremi, allora dovrebbero affermare che i comunisti e Md isolando Falcone fecero il gioco della mafia. Ciò è obiettivamente vero, anche se le ragioni di questo attacco di Md e del Pci a Falcone erano tutte politiche. Ma se va smontata questa forzatura, vanno smontate anche tutte le altre. Sono nella memoria di tutti l’articolo sull’Unità del prof. Pizzorusso, allora esponente del Csm, che affermava che mai Falcone avrebbe potuto guidare la procura Antimafia perché oramai subalterno al potere politico (cioè al governo e a Martelli). Così come il discorso di Elena Paciotti di Md al Csm a favore di Meli e contro Falcone. A tagliare la testa al toro è stata ricordata anche nella trasmissione de La7 l’autentica requisitoria che Ilda Boccassini fece contro Magistratura Democratica, prendendo di petto personalmente Gherardo Colombo, a un’assemblea svoltasi a Milano per commemorare Falcone. Per ciò che riguarda sia Falcone che Borsellino è stata ricordata la grande importanza del rapporto mafia-appalti costruito a suo tempo anche dal Ros (Mori e De Donno) sottratto dal procuratore Giammanco per lungo tempa alla richiesta di indagine da parte di Borsellino fino all’inopinata assegnazione avvenuta proprio alla vigilia del suo assassinio. Subito dopo il procedimento su mafia-appalti fu archiviato in gran fretta dalla procura di Palermo. Orbene, anche su questo snodo sono emerse alcune vicende del tutto contradditorie con la demonizzazione di Mori e di De Donno. È singolare che Purgatori e Santoro siano così duri contro Mori e De Donno e così morbidi nei confronti del procuratore Giammanco contro il quale Fiammetta Borsellino ha detto cose molto significative. Per di più è emerso che a parte la vicenda riguardante l’assegnazione del procedimento mafia-appalti Borsellino era addirittura infuriato con il procuratore Giammanco che non lo aveva messo al corrente del fatto che se non abbiamo capito male il generale Subranni aveva portato un’informativa su un carico di tritolo T4 arrivato alla mafia. Se abbiamo capito bene la titolarità dell’informazione, allora il generale Subranni era un ben strano “punciutu” dalla mafia se aveva comunicato un’informazione così delicata. In ogni caso quale che sia stata la fonte dell’informazione a Giammanco questi si era guardato bene dall’informare Borsellino. In secondo luogo, Di Pietro ha raccontato che da un lato era stato contattato da Borsellino perché, proprio dal rapporto mafia-appalti, sviluppasse le indagini su alcuni imprenditori del Nord, dall’altro lato era stato contattato dall’allora capitano De Donno il quale lo pregò di occuparsi appunto della questione mafia-appalti perché a Palermo il Ros non trovava ascolto da parte della procura. Quindi anche su questo nodo essenziale, quello del rapporto mafia-appalti, Mori e De Donno erano in prima linea, così come nell’arresto di Riina. In questo quadro poi c’è l’ulteriore incredibile scandalo costituito dal depistaggio verificatosi nella gestione del processo Borsellino, depistaggio costruito da un alto funzionario della Polizia, quale fu La Barbera. Ora, La Barbera non era un poliziotto qualunque, basti pensare che fu mandato dall’allora capo della Polizia De Gennaro come suo rappresentante al G8 di Genova. È stato detto nella trasmissione che il depistaggio fondato sulla costruzione di un falso pentito come Scarantino fu un’operazione del tutto grossolana, peccato però che malgrado questa grossolanità, ad essa credettero fior di Pm come Di Matteo e la magistratura giudicante che mandò all’ergastolo un bel numero di innocenti. Anche su questo va ricordato che chi nutrì dei dubbi sulla vicenda fu la Pm Boccassini, che però poi fu trasferita a Milano. Nella trasmissione ci sono state a nostro avviso due testimonianze assai significative anche dal punto di vista umano. In primo luogo, quella di Fiammetta Borsellino, che è portatrice di un’esigenza di verità e che lo fa in piena autonomia di pensiero non concedendo nulla ai fabbricanti di teoremi e anzi come si è visto anche nella trasmissione di ieri entrando in sostanziale contrasto con essi che infatti cercavano di darle sulla voce. In secondo luogo, la testimonianza di Avola, agghiacciante nella sua lucidità. Egli ha ripercorso con grande precisione tutti i suoi interventi tecnici volti a collegare il detonatore al tritolo, ma al di là di questo Avola ha detto anche altre cose interessanti: ha escluso in modo netto la presenza di altre forze come i servizi segreti nella vicenda sottolineando invece con una sorta di passione ideologica che si trattava di una sfida della mafia allo Stato senza la presenza di soggetti esterni e sulle basi di questa mafia egli evidentemente ha agito sentendosi un soldato. Fabrizio Cicchitto

Fiammetta Borsellino: sulla strage di via d’Amelio nient’altro che la verità. Fiammetta Borsellino, nella trasmissione di Enrico Mentana su la7 ha parlato del dossier “mafia-appalti”, contestualizzando fatti e testimonianze. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 29 aprile 2021. Dovevano essere le rivelazioni, dichiarate però inattendibili dalla procura di Caltanissetta, del pentito Maurizio Avola a essere l’oggetto principale dello “Speciale mafia” di la 7, condotto da Enrico Mentana, ma a rubare la scena e spostare l’attenzione sulle cause della strage di via D’Amelio che hanno portato all’uccisione di Paolo Borsellino, è stata la figlia Fiammetta Borsellino. Per la prima volta, in prima serata, si è parlato del dossier mafia-appalti e della sua gestione da un punto di vista totalmente inedito. A farlo, appunto, non sono stati i giornalisti presenti, Michele Santoro (autore del libro “Nient’altro che la verità”, uscito ieri) e Andrea Purgatori che sposa in toto il teorema trattativa e la caccia alle “entità” non meglio definite, ma una donna che ha deciso di andare controcorrente, non adeguarsi alla narrazione unica di una certa antimafia, ma semplicemente attenendosi ai fatti riscontrati nel tempo. L’unica a sostenerla, visto che ne è stato testimone, è stato l’ex giudice di Mani Pulite Antonio Di Pietro. Ed è lui che ha ricordato il fatto che Paolo Borsellino gli chiese di fare presto per collegare le indagini siciliane con quelle di tangentopoli. Parliamo di grossi gruppi imprenditoriali del nord che erano collegati nella gestione mafiosa degli appalti. Ribadendo che in più occasioni il capitano dei Ros De Donno si rivolse a lui perché si interessasse del dossier mafia-appalti, dal momento che la procura di Palermo lo ignorava. Non solo.

Contestualizzate le testimonianze di Agnese Borsellino. Per la prima volta, grazie al suo accorato e coraggioso intervento, Fiammetta Borsellino ha contestualizzato le testimonianze della madre, Agnese, su ciò che le disse Paolo Borsellino. Testimonianze che nel tempo sono state forzate, adattate al teorema giudiziario, manipolando anche taluni passaggi. Una su tutte quella che riguarda i magistrati: ma diversi giornalisti e taluni pm dimenticano di riportarla nella sua interezza. Ci ha pensato Fiammetta Borsellino a ricordarlo, creando un palpabile imbarazzo in studio. Ricordiamo la vicenda. A ventiquattr’ore dai fatti di via d’Amelio, Borsellino passeggiava senza scorta sul lungomare di Carini. Con lui, soltanto Agnese, sua moglie. «Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere». Queste parole esatte di Agnese furono messe a verbale in sede giudiziaria il 18 agosto 2009, preceduta da una frase: «ricordo perfettamente». In un Paese normale dovrebbe essere compito dei giornalisti d’inchiesta a riportare i fatti, ma a farlo ci ha dovuto pensare la figlia di Paolo Borsellino.

Borsellino quando era a Marsala già conosceva il dossier mafia-appalti. Altro scoop televisivo, ma sempre di Fiammetta Borsellino e non dei giornalisti presenti. Spiega che c’è un passaggio della sentenza trattativa che riporta il falso. Quale? Ecco cosa scrisse la Corte nella sentenza: i giudici spiegano come non vi è la «certezza che Borsellino possa aver avuto il tempo di leggere il rapporto mafia-appalti e di farsi, quindi, un’idea delle questioni connesse, mentre, al contrario, è assolutamente certo che non vi fu alcuno sviluppo di quell’interessamento nel senso di attività istruttorie eventualmente compiute o anche solo delegate alla P.G., che, conseguentemente, possano aver avuto risalto esterno giungendo alla cognizione di vertici mafiosi, così da allarmarli e spingerli improvvisamente ad accelerare l’esecuzione dell’omicidio». Ebbene, Fiammetta Borsellino contesta aspramente questo passaggio, e lo fa con dati oggettivi. Ricorda che suo padre, quando era ancora alla procura di Marsala, ha subito voluto copia del dossier tanto da trovare spunto per sviluppare un filone di indagine sugli appalti di Pantelleria. Oltre a ciò, Borsellino stesso ha inviato il suo filone di indagine alla procura di Palermo pregando che confluisse nel dossier principale.

Uno degli imprenditori citati in mafia-appalti aveva i verbali di interrogatorio di Leonardo Messina. A quanto pare sarebbe rimasta lettera morta, tanto che Borsellino lo ha ribadito nuovamente durante la sua ultima riunione del 14 luglio. Senza parlare del suo interrogatorio al pentito Leonardo Messina nel quale ha riscontrato ciò che era già scritto nel dossier mafia-appalti: il presunto rapporto del gruppo Ferruzzi – Gardini con la mafia di Totò Riina, tramite i fratelli Buscemi. Ed ecco che Fiammetta Borsellino, durante lo speciale di Enrico Mentana, lancia un altro scoop. Un fatto singolare mai riportato da alcun giornale, né tantomeno negli innumerevoli servizi giornalistici d’inchiesta. È accaduto che uno degli imprenditori che compaiono nel dossier mafia-appalti, è stato fermato dai Ros e gli hanno rinvenuto nello zaino i verbali di Leonardo Messina che erano riservati. Chi gliel’ha dati? Di certo non Paolo Borsellino. Ma com’è detto gli animi, durante la trasmissione tv, si sono surriscaldati e Purgatori ha mosso delle obiezioni a Fiammetta Borsellino sul fatto che i Ros avrebbero inviato i nomi dei politici in un secondo momento. Ed ecco che viene rispolverata la teoria della doppia informativa. A questo punto per decostruire questa storia, trita e ritrita, basterebbe citare ciò che scrisse la Corte d’appello che ha assolto Calogero Mannino relativamente al processo stralcio sulla presunta trattativa Stato- mafia. Vale la pena riportarne qualche passaggio, perché è relativa proprio alla tesi dell’accusa per far credere che i Ros volessero proteggere i politici, in funzione della trattativa. «Non può tacersi il fatto che – scrive la Corte in merito a mafia appalti – un riverbero della grande rilevanza dell’indagine si ha in numerosi atti presenti nel processo (…) E deve inoltre osservarsi che la ricostruzione dell’organo dell’accusa appare in contrasto logico irrimediabile col fatto che i magistrati che dirigevano l’indagine dovevano tenere il controllo e la direzione, appunto, degli atti degli investigatori da loro delegati, ivi comprese quelle intercettazioni che si afferma non essere state inserite nell’informativa presentata alla Procura, e che in ogni caso avrebbero dovuto gestire e garantire anche successivamente il più adeguato sviluppo di una così significativa investigazione, che coinvolgeva il sistema corruttivo delle spartizione degli appalti pubblici in Sicilia».

La procura di Caltanissetta: non trovati riscontri sulle dichiarazioni di Avola. Poi va sul punto rispolverato da Purgatori: «È noto altresì che il Gip di Caltanissetta, investito della questione della gestione di quella indagine, arrivò alla conclusione di escludere l’ipotesi della doppia informativa». Tutto scritto nero su bianco. Nel frattempo, a proposito dello scoop di Michele Santoro, la procura di Caltanisetta conferma che l’anno scorso, Avola, sentito in un interrogatorio, ha riferito della sua presenza in via D’Amelio, «a distanza di oltre 25 anni dall’inizio della collaborazione con l’autorità giudiziaria». Il pool coordinato dal procuratore aggiunto Gabriele Paci ha subito iniziato l’indagine, alla ricerca di riscontri: «I conseguenti accertamenti –scrive ieri la procura nissena – finalizzati a vagliare l’attendibilità delle dichiarazioni rese, riguardanti una vicenda ancora oggi contrassegnata da misteri e zone grigie, non hanno trovato alcuna forma di positivo riscontro che ne confermasse la veridicità. Sono per contro emersi – precisano i pm – rilevanti elementi di segno opposto, che inducono a dubitare». Quindi Santoro ha preso probabilmente un abbaglio, ma gli va dato atto che – al di là di Avola -, ha riportato la mafia nella sua reale dimensione. Non eterodiretta, nessun terzo livello, ma autonoma e indipendente da qualsiasi altro potere. In fondo, è quello che Giovanni Falcone cercava di spiegare nei libri e nei suoi innumerevoli interventi.

Il racconto di Fiammetta Borsellino. Che fine ha fatto il dossier Mori, i dubbi sulla Procura di Palermo. Leonardo Berneri su Il Riformista il 30 Aprile 2021. Durante lo speciale di Enrico Mentana su La Sette, nonostante i presenti in studio abbiano cercato di deviare il discorso, Fiammetta Borsellino ha mantenuto il punto concentrandosi sulle cause della strage di Via D’Amelio, ma soprattutto sulle anomalie che sarebbero avvenute all’interno dell’allora procura di Palermo retta da Pietro Giammanco. L’unica a sostenerla è stato l’ex magistrato Antonio Di Pietro, testimone di alcuni fatti ben circostanziati riguardanti il dossier mafia-appalti redatto dai Ros e nato su spinta di Giovanni Falcone. Dossier archiviato subito dopo la morte di Borsellino. Ed è stata Fiammetta che ha esordito: «Nella sentenza trattativa si dice una menzogna, una bugia. Si dice che mio padre fosse addirittura disinteressato al dossier ‘Mafia e appalti’ o che non lo conoscesse: ma non è vero, perché lo conosceva benissimo». Una denuncia forte, tanto da far rabbrividire i presenti in studio abituati al racconto a senso unico sulla presunta trattativa. Di fatto, è stato violato un dogma di una certa Antimafia che, per dirla come Sciascia, è diventata uno strumento di potere. Il passaggio della sentenza trattativa, com’è detto, riguarda il fatto che Borsellino non avrebbe fatto in tempo nemmeno a leggere il contenuto del dossier. Ma Fiammetta è stata categorica: è una menzogna. E per corroborare la sua affermazione ricorda una circostanza documentata. Ricorda che suo padre chiese copia del dossier quando era ancora alla procura di Marsala. Ed è vero. In un verbale di assunzione di informazione, il capitano Raffaele Del Sole ha raccontato che, su richiesta di Borsellino, ha accompagnato presso la procura di Marsala l’allora collega Giuseppe De Donno in un periodo poco successivo al deposito del dossier mafia- appalti alla procura di Palermo. «Ricordo che nel corso dell’incontro – ha spiegato Del Sole – il procuratore Borsellino chiarì al De Donno i motivi per cui chiedeva copia del rapporto riconducendoli sostanzialmente alla pendenza di indagini che la procura di Marsala stava effettuando su alcuni appalti a Pantelleria. Fatti che erano stati ritenuti connessi alle indagini espletate dai Ros». Sempre il capitano Del Sole ha aggiunto che nel corso di tale incontro c’era anche il maresciallo Carmelo Canale, il quale avvalorò quanto riferito da Borsellino definendo con espressione metaforica il dossier mafia- appalti come il “cacio sui maccheroni”. Ma Fiammetta Borsellino ha anche ricordato che suo padre, il 25 giugno 1992, volle tenere un incontro riservato presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo con gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, ai quali chiese di sviluppare le indagini mafia – appalti riferendo esclusivamente a lui. Durante la trasmissione, il giornalista Andrea Purgatori ha tentato di muovere obiezioni, purtroppo prive di fondamento. A partire dal fatto che il dossier mafia appalti, archiviato dopo la morte di Borsellino, sarebbe stato privo dei nomi dei politici. E che solo successivamente, i Ros avrebbero presentato la lista dei nomi. Non è così. Parliamo della teoria della doppia informativa smentita dall’ordinanza dell’allora Gip Loforti. Punto confermato anche dalla sentenza Mannino dove la Corte ha rispedito al mittente tale teorema. Fiammetta, come un fiume in piena, ha aggiunto il particolare, mai raccontato, che Borsellino sentì anche il pentito Leonardo Messina, il quale gli riferì che la Calcestruzzi Spa (all’epoca del gruppo Ferruzzi – Gardini) sarebbe stata in mano a Totò Riina. In sostanza, anche se non era titolare dell’indagine, trovò un ulteriore riscontro a ciò che compariva nel dossier dei Ros. Ed è Antonio Di Pietro a sostenere Fiammetta ricordando che avrebbe dovuto sentire proprio Gardini su tutti questi aspetti, ma non fece in tempo perché quest’ultimo si suicidò. Lo stesso Di Pietro ricorda quando si incontrò con Borsellino ed ebbe una conversazione con lui proprio sull’indagine sulla gestione illecita degli appalti siciliani che si sarebbe dovuta unire all’indagine su Tangentopoli. «Bisogna fare presto, perché non c’è più tempo», gli disse Borsellino. Mentre i presenti in studio, tranne ovviamente Di Pietro, cercavano di buttarla sulla presunta Trattativa, c’è Fiammetta che ha contestualizzato le parole di sua madre Agnese, manipolate nel tempo. Innanzitutto ha chiarito l’episodio di Borsellino che si sarebbe sentito male perché avrebbe scoperto che il generale Subranni (l’allora capo dei ros) era punciutu, ovvero affiliato alla mafia. Nient’affatto. Fiammetta ha riportato l’esatta frase e ha contestualizzato. Prima volta che accade nella televisione italiana, perché si è sempre speculato su questa frase riportata da Agnese. La figlia ricorda che sua madre disse, a verbale, esattamente questa frase: «il 15 luglio 1992, verso sera, conversando con mio marito in balcone lo vidi sconvolto. Mi disse testualmente: ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il generale Subranni era punciutu». Nella frase «ho visto la mafia in diretta», Borsellino si riferiva al suo interlocutore, avendo capito la sua intenzione di infangare i Ros. Ed è Fiammetta a ricordare che, casualmente, Borsellino, proprio il giorno prima aveva partecipato alla sua ultima riunione alla Procura di Palermo dove chiese conto e ragione del procedimento mafia appalti, facendo sue le lamentele dei Ros. Ricordiamo che la sentenza d’appello del Borsellino Quater, la quale spiega che l’accelerazione della strage di Via D’Amelio è da ritrovarsi nell’interessamento sugli appalti, è stata categorica nell’evidenziare che all’interno della procura di Palermo di allora c’erano delle anomalie da mettere al vaglio. Viene citato il fatto che l’arrivo di Borsellino nel nuovo ufficio della Procura di Palermo «era stato percepito con preoccupazione da Cosa Nostra, al punto che Pino Lipari (vicino ai vertici dell’organizzazione mafiosa) aveva commentato il fatto dicendo che avrebbe creato delle difficoltà a “quel santo cristiano di Giammanco”». Tutto scritto nero su bianco. Fiammetta Borsellino ha chiesto una operazione di verità, senza guardare in faccia a nessuno. Ciò le costa e costerà molto in termini di consenso, soprattutto in mezzo ai tantissimi invasati che sventolano l’agenda rossa come se fosse il libro di Mao Tse Tung. Fanatismo corroborato da numerosi libri e numerose improbabili inchieste TV. Oltre ai tanti magistrati che vengono dipinti come degli intellettuali e con la schiena dritta. Essere coraggiosi nella solitudine, senza il premio di un consenso, soli davanti a sé stessi, richiede un grande coraggio e una grande forza. Leonardo Berneri

Depistaggio di via D’Amelio: escono di scena i magistrati, restano soltanto i poliziotti. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 3 febbraio 2021. Archiviata l’inchiesta sugli ex pubblici ministeri di Caltanissetta, Carmelo Petralia ed Annamaria Palma sul depistaggio della strage di via D’Amelio. Esce di scena la magistratura dal depistaggio sulla strage di via D’Amelio. Archiviata l’inchiesta a carico degli ex pubblici ministeri di Caltanissetta Carmelo Petralia ed Annamaria Palma. Parliamo del troncone scaturito dalla sentenza di primo grado del Borsellino Quater. A fare richiesta di archiviazione è stata la procura competente , quella di Messina, motivando che «le indagini, doverosamente svolte secondo l’indicazione della Corte di assise di Caltanissetta, pur avendo imposto a quest’ufficio un considerevole dispendio di energie ai fini di soddisfare il canone della completezza, non hanno consentito di individuare alcuna condotta posta in essere né dai magistrati indagati, né da altre figure appartenenti alla magistratura che abbiano posto in essere reali e consapevoli condotte volte ad inquinare le dichiarazioni, certamente false, rese da Vincenzo Scarantino».

“Nel tempo sono venute meno fonti di prova rilevanti”. Secondo i pm, «le indagini scontano dei limiti strutturali difficilmente superabili». I magistrati messinesi, che in due anni di indagini hanno interrogato veri e falsi pentiti e tutti i protagonisti delle vicende dell’epoca – poliziotti, avvocati e magistrati – sottolineano «il venir meno, nel tempo, di fonti di prova rilevanti (è il caso – scrivono – dei sopravvenuti decessi del dott. Tinebra e del dott. Arnaldo La Barbera, i quali hanno certamente avuto un ruolo importante nella vicenda)». Il riferimento è all’ex procuratore di Caltanissetta e all’ex capo della Mobile di Palermo che coordinava il gruppo investigativo che svolse gli accertamenti sull’attentato al giudice Borsellino. Il 19 ottobre scorso è stata discussa la richiesta di archiviazione davanti al Gip.

Oggi la decisione del gip di archiviare. Ricordiamo che l’opposizione è stata presentata dagli avvocati Rosalba Di Gregorio e Gaetano Scozzola, difensori delle parti civili riconosciute nell’indagine sugli ex pm di Caltanissetta. In particolare l’avvocata Di Gregorio ha chiesto un confronto: «l’esame di Giovanni Guerrera e Pietro Giovanni Guttadauro sui colloqui investigativi del luglio 94 a Pianosa», oltre «all’acquisizione attività di indagini depositate a Caltanissetta sulle intercettazioni», e il confronto tra «l’avvocato Santi Foresta (ex legale di Scarantino) e i magistrati Petralia, Palma e Francesco Paolo Giordano». Durante l’udienza davanti al Gip, i pubblici ministeri hanno presentato e illustrato una memoria integrativa alla richiesta di archiviazione. Sono quindi intervenuti gli avvocati della difesa. Il gip si è riservato la decisione. Oggi il responso: archiviato. Esce così di scena la magistratura che ha gestito il falso pentito Scarantino sull’indagine per la strage di via D’Amelio. Rimangono soltanto i poliziotti.

L’ondivago falso pentito Scarantino non ha confermato le accuse ai magistrati. Quindi va creduto? Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 4 febbraio 2021. Archiviata la posizione dei magistrati per il depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio basato sulle dichiarazioni di Scarantino. Come già annunciato è stata archiviata dal gip di Messina la posizione dei magistrati per il depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio, nella quale morirono Borsellino e la sua scorta. Il procedimento archiviato ha preso le mosse dalla trasmissione da parte della Procura della Repubblica di Caltanissetta alla Procura della Repubblica di Messina – a seguito del deposito della sentenza di primo grado del “Borsellino quater” – degli atti relativi al procedimento n. 916/18 modello 45 «al fine valutare le condotte dei magistrati all’epoca in servizio presso il distretto di Corte d’Appello di Caltanissetta in ordine alle indebite pressioni rivolte, in particolare, nei confronti di Scarantino Vincenzo, nell’ambito dei procedimenti conseguenti la strage di via D’Amelio».

Il 4 giugno del 2015 per Scarantino i giudici erano consapevoli che le sue dichiarazioni fossero false. Nel corso dell’udienza del 4 giugno del 2015 nell’ambito del procedimento summenzionato, il falso pentito Scarantino aveva fatto esplicito riferimento alla consapevolezza da parte dei magistrati che avevano gestito la sua collaborazione – nello specifico Giovanni Tinebra (poi deceduto), Carmelo Petralia e Anna Maria Palma Guarnier – che le dichiarazioni da lui rese nella fase delle indagini preliminari sulla strage di via D’Amelio fossero false.Ma nulla, nessuna responsabilità penale. L’indagine da parte della Procura di Messina guidata da Maurizio De Lucia è partita, per poi però appunto chiedere l’archiviazione.

A Caltanissetta è in corso un processo a 3 poliziotti con le stesse accuse. Mentre, per gli stessi fatti e per la stessa accusa (concorso in calunnia aggravata dall’avere favorito Cosa nostra) a Caltanissetta è in corso un processo contro tre dei poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, membri del gruppo Falcone-Borsellino che indagò sulle stragi mafiose del ’92 di via D’Amelio e di Capaci. I tre, secondo l’accusa, avrebbero in qualche maniera manovrato le dichiarazioni rese da Scarantino, costringendolo a fare nomi e cognomi di persone innocenti in merito all’attentato in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta.Un’inchiesta, ribadiamo, quella nei confronti degli investigatori e dei pm (ora archiviata), nata sulla scorta delle motivazioni della sentenza Borsellino quater in cui si parla in maniera chiara del depistaggio delle indagini certificando che Scarantino è stato «indotto a mentire». Eppure, secondo il giudice dell’udienza preliminare, «la corposa attività d’indagine posta in essere dall’Ufficio di Procura presso questo Tribunale non ha consentito – a parere di questo Giudice – di individuare alcuna condotta penalmente rilevante a carico dei magistrati oggi indagati che fosse volta ad indurre consapevolmente Scarantino Vincenzo a rendere false dichiarazioni e a incolpare».

Le dichiarazioni discordanti del falso pentito. Per arrivare a questa conclusione, il gip prende le mosse delle dichiarazioni discordanti di Scarantino. Prima dice di essere stato indotto dai soli poliziotti senza la presenza dei magistrati, ma poi dice l’esatto contrario. «Chiesti chiarimenti- scrive il giudice – in merito alla diverse dichiarazioni rese nel tempo sulle condotte dei magistrati che si erano occupati della sua collaborazione, alle sue varie ritrattazioni, alle dichiarazioni reticenti e ai vari “non ricordo”, lo Scarantino ha giustificato la sua condotta in maniera confusa, addossandosi la colpa in quanto soggetto emotivamente instabile e additando la Polizia come la causa della “rovina della sua vita”». In sostanza Vincenzo Scarantino viene creduto solamente quando accusa esclusivamente la polizia. O meglio, quando davanti ai magistrati di Messina ritratta nuovamente la sua versione. Si legge sempre nell’ordinanza di archiviazione che «d’altronde, senza la successiva collaborazione di Spatuzza Gaspare (iniziata nel giugno 2008), della falsità delle dichiarazioni di Scarantino Vincenzo non vi sarebbe stata alcuna certezza».

La totale mancanza di attendibilità di Scarantino era nota dal 1995. Eppure, molti anni prima qualche altra certezza c’era stata. Parliamo del 3 gennaio del 1995, quando c’è stato il confronto tra Scarantino e i collaboratori di giustizia Totò Cancemi, Gioacchino La Barbera e Mario Santo Di Matteo. Ed è proprio in quel confronto che emerse la totale mancanza di attendibilità di Scarantino. Ma è accaduto che il verbale del confronto è rimasto nel cassetto per diverso tempo. Alla data dei confronti, ovvero il 13 gennaio 1995, nessuno dei processi riguardante la strage di via D’Amelio era stato ancora definito. La sentenza del primo processo concluso, il Borsellino 1, viene pronunciata solo nel gennaio del 1996, a distanza di oltre un anno dall’avvenuta assunzione dei confronti. Il deposito di quei verbali demolitori della figura di Scarantino, quanto al profilo criminale quanto al contenuto delle dichiarazioni, avrebbe potuto quindi incidere sensibilmente sulle conclusioni di quel processo. Che invece, com’è noto, si concluse accettando l’intero impianto accusatorio basato sulla parola di Scarantino e condannandolo all’ergastolo.

Scarantino congedato dal servizio militare perché ritenuto «neurolabile». Il verbale uscì fuori grazie alla tenacia dell’avvocato Rosalba Di Gregorio, che all’epoca difese alcuni imputati poi condannati ingiustamente per la strage. La commissione Antimafia della Sicilia, nella sua relazione, ha evidenziato che il mancato deposito di detti verbali nella segreteria del pubblico ministero ha «sicuramente determinato una grave deviazione processuale, perché ha impedito alla Corte di Assise di Caltanissetta una piena cognizione ed una corretta valutazione dell’inesistente affidabilità di Scarantino». Un iter processuale, quindi, che già nel 1995 avrebbe avuto un esito diverso, se solo si fosse portato a conoscenza di quel verbale, il perno principale che avrebbe fatto decadere tutte le accuse senza arrivare fino al Borsellino Quater. Come se non bastasse, nel 2019, durante il processo depistaggio contro i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, esce fuori un documento che attesta che Vincenzo Scarantino fu congedato dal servizio militare perché ritenuto dai medici «neurolabile». È stato prodotto dall’avvocato Rosalba Di Gregorio, legale di Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina e Gaetano Murana, ex imputati falsamente accusati e poi scagionati e scarcerati. Secondo quanto risulta nel documento del 1986 a Scarantino venne diagnosticata una «reattività nevrosiforme persistente in neurolabile». Motivo in più per chiedersi del come mai non si siano fatti tutti quegli accertamenti quando a suo tempo presero per oro colato le false dichiarazioni di Scarantino. Una Fiammetta Borsellino, delusissima dell’archiviazione, si è lasciata andare a un amaro «cane non mangia cane».

·        Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-Mafia.

Il patto che strinse la mafia con gli States. La vera trattativa tra Stato e Mafia fu tra gli USA e Lucky Luciano. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 26 Settembre 2021. Dice il direttore con un sms: me lo fai un grande pezzo su mafia e stato? Una cosina leggera, commento io, tanto per stare sulla palla appunto. Da dove partire? Dalla sociologia e dalla leggenda, dal sasso in bocca, o dai genitali fra i denti dell’ammazzato, dalla foresta di cemento sotto Agrigento, dalla strage di viale Lazio che sembrò una cosa enorme, a quei tempi, in cui la mafia non metteva mai bombe ma solo lupara e latte di benzina? Era quel periodo da racconto del Padrino con i wise guys, i ragazzi accorti con la coppola storta che dove mamma comanda, picciotto va e fa. Troppi film, troppa letteratura. Anche Sciascia ne restava nauseato. Ne sono stato testimone perché lo dovevo intervistare per Repubblica ma Leonardo era riluttante. Abitava all’hotel Tirreno su via Nazionale, quasi a piazza Esedra, e di rigore facevamo lunghe camminate in silenzio. Era già arrivato al punto: se tutto è mafia, nulla è mafia. L’antimafia come professione è stata il fenomeno più interessante e prettamente italiano: non si fanno indagini ma manifestazioni, preghiere di massa deliranti con qualche svenimento e assunzione diretta in cielo. Il mio ricordo più traumatico fu quando andai a Palermo per la morte di Falcone che avevo intervistato poche settimane prima per una tv privata. Quando arrivai in un albergo del centro cominciai a passare da un canale tv all’altro per vedere come si comportavano le televisioni locali e mi trovai di fronte a un fatto curiosissimo: nessuno parlava delle indagini, nessuno mostrava interesse verso il movente preciso e urgente per cui Falcone era stato ucciso. dal momento che la mafia non assegna Oscar alla carriera. Sarebbe importante saperlo ancora oggi, visto che ancora non lo sappiamo. Perché Giovanni Falcone doveva essere ucciso in quel modo con un’azione da commandos militari? Mi accorsi che non soltanto nessuno poneva le domande che è obbligatorio porsi, ma che era considerato sospetto e fuori luogo deviare dalla vulgata e dalla linea decisa: non ci si doveva fare alcuna domanda, dobbiamo santificare immediatamente Giovanni Falcone e assumerlo in cielo con tutti i possibili riti dei bambini delle elementari, delle madonne, dei capi sezione di partito, delle categorie e dei sindacati. Ma quanto a indagini, zero. Perché fu ucciso Giovanni Falcone? Io non lo so e me lo chiedo. Qualcun altro si pone il problema numero uno? Quale fu il movente preciso? Credo di essere fra i quattro o cinque che ancora lo chiedono e se lo chiedono. La mafia non uccide mai per caso, la mafia non uccide mai per odio, la mafia quando uccide sa che subirà un danno in affari gigantesco. Prendevo nota ogni giorno dell’assenza totale di notizie di investigazioni criminali. Giravano voci, si sentivano i soliti sospetti, routine. Quando fu la volta di via D’Amelio, il mio amico ex magistrato e poi deputato Peppino Ayala mi aprì la porta di casa Borsellino, dove entrai come giornalista della Stampa, e vidi quelle povere persone colpite da una bomba termonucleare, già consapevoli di dovere assumere un ruolo pubblico che caricasse sulle loro spalle il peso del decoro che lo Stato sembrava aver perso. Lo Stato l’aveva perso perché anche tutta la storia di via D’Amelio è finita in un groviglio di pentiti che smentiscono altri pentiti che hanno mentito su altre menzogne e così via e così via. Ricordo Brusca, quello che squagliava i bambini nell’acido, catturato da una candid camera mentre diceva a un giornalista: “Ma dottore, ma vi pare a voi che un uomo ignorante come me poteva fare tutto ‘sto casino come quello di Capaci?” Tornando indietro, da cronista ho seguito più o meno i delitti più importanti e le uccisioni dei magistrati, dei poliziotti e dei politici uccisi dalla mafia. Fui preso da quella febbre che colse tutti noi giornalisti alla morte di Falcone. In particolare rimasi molto impressionato dal piccolo libro di Marcelle Padovani con una intervista a Falcone che tutto prevedeva e interpretava. C’è stata una grande mafia – e questo lo sappiamo – che ha fatto politica e che – anche questo lo sappiamo – ha fatto anche la vera trattativa. Non quella che è stata gettata nel cesso dalla Corte d’appello di Palermo l’altro ieri. Ma quell’altra, quella del mondo democristiano. Ricordo in breve due fattarelli utili che si tende a dimenticare. Gli americani erano stati assolutamente refrattari a intervenire nella Seconda guerra mondiale e non dichiararono guerra a Hitler neppure dopo aver subito l’attacco giapponese di Pearl Harbor. Fu Hitler a dichiarare guerra. Metà abbondante degli americani era isolazionista ma comunque di fronte al fatto compiuto si entusiasmò. Lucky Luciano stava in galera in una cella con servizi e servitù e fece la prima vera trattativa a favore di se stesso, chiedendo in cambio dei suoi servigi e dell’uso dei suoi contatti un ulteriore miglior trattamento e la promessa di essere rimandato in Italia: avrebbe fatto proteggere il porto di New York dal sindacato per vigilare su eventuali attività di sottomarini tedeschi e poi prese l’impegno di favorire lo sbarco delle truppe americane in Sicilia. Il ferocissimo generale Patton trovò pochi reparti italiani a resistere e ordinò ai suoi di “sparare agli italiani all’altezza dello stomaco, così vedrete che gli passa la voglia”. Poi fece fucilare tutti i prigionieri italiani delle Camicie Nere come spie non militari. Ma non ci fu altra resistenza militare degna di nota. La gente applaudiva e gettava fiori dalle finestre. Per la mafia era la liberazione perché, inutile nasconderlo o minimizzarlo, sotto il regime fascista e i pieni poteri del generale Mori (un altro Mori…) i mafiosi se la vedevano brutta. A riportare in vita la mafia e anche in pompa magna fu una grossolana valutazione militare: gli americani immaginavano che Mussolini avrebbe venduto cara la sua pelle ma non fu così e in poche settimane le truppe di Patton erano in Calabria in marcia verso Salerno. Venne il dopoguerra e arrivò l’attentato a Togliatti quando un aitante Salvatore Giuliano – che fu fatto assassinare dal cognato Gaspare Pisciotta per conto dei carabinieri – attaccava con bombe e fucili le sezioni del Pci di Carini, Borgetto, Partinico, Cinisi, Monreale, mentre il giovane Buscetta – che darà a Falcone le chiavi dei gironi mafiosi – era fatto uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova guidata da Tano Filippone. Il bandito Giuliano, bello, aitante e amato dalle donne, si illuse di prendere la Sicilia intera con l’Evis, un esercito di liberazione del bandito Salvatore Giuliano che volle provare il suo anticomunismo agli americani sparando e uccidendo contadini che festeggiavano il primo maggio ìn scampagnata. C’era la guerra fredda che sembrava quasi calda e qualcuno mise in testa a Giuliano che la Sicilia avrebbe potuto diventare il cinquantunesimo degli States dopo le Hawaii. In America la macchina produttiva e il brand di Cosa Nostra erano oggetto di studi economici oltre che polizieschi: era evidente al procuratore Dewey, grande nemico di Al Capone, che si trattava di un’azienda criminale da distruggere, ma anche esemplare per politiche di marketing, dedizione del personale, lungimiranza e duttilità nel business: la droga non andava allora così forte come la prostituzione e si facevano più soldi con le aree edificabili e con le case da gioco, cosa che rendeva la Sicilia più vicina a Cuba che all’Italia continentale, almeno fino all’arrivo dei barbudos di Fidel Castro. Era il periodo d’oro. Regnavano allora su Palermo una ventina di famiglie con una trentina di soldati ciascuna. I vecchi capi come Calogero Vizzini e Genco Russo stavano per passare la mano, a cominciare dal decrepito ma imponente Gaetano Filippone detto “U’ zu’ Tanu Filippone”, sostituito dal genero Giuseppe Corvaia e poi dal famoso Pippo Calò. Salivano di grado i futuri colonnelli e in particolare il promettente Tommaso Buscetta, che benché giovane fu invitato all’incoronazione di Gerlando Alberti detto “U paccarè”, il posato, il calmo. Non lo conosceva nessuno. I giornali se ne stavano calmi. Erano tutti molto calmi. Si pubblicavano i libri di Michele Pantaleone ma fu soltanto nel 1978 con le rivelazioni di Giuseppe Di Cristina, che si poté profilare quel ragazzo posato. La mafia padronale e comunque al servizio di chiunque potesse pagare, non se la prendeva soltanto con i comunisti, ma anche con i socialisti; fu Luciano Liggio a decretare la messa a morte di Placido Rizzotto, un sindacalista socialista. Ma Liggio fu assolto. E poi fu assolto di nuovo e così per altri nove omicidi. Nel luglio del 1960 Cosa Nostra fa una sorta di Congresso per il rilancio della sezione marketing e vengono dagli Usa per dare qualche lezione di modernità Lucky Luciano e Joe Bonanno col sempre più rampante Tommaso Buscetta. Fermiamo le lancette dell’orologio. Cosa Nostra è una società criminale che ha pensato di dare prove di anticomunismo militare agli americani per mettere la DC in condizioni di non poter rifiutare i suoi piani. La guerra fredda è reale, gli americani sono attenti e in fondo guardano con un occhio di gratitudine a quei “paisà” che durante la guerra dettero una mano alla marina per proteggere il porto di New York. Tutto ciò formava il contesto e quel contesto, cui si riferiva Sciascia, aveva la precedenza e la priorità su tutto. La sinistra chiedeva continuamente commissioni d’inchiesta e Sciascia vide che si stava formando un ceto politico relativamente nuovo: quello dei professionisti dell’antimafia di cui avvertì immediatamente il pericolo come vedremo nella prossima puntata.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà. 

La storia della Trattativa Stato-mafia. Il patto tra Dc e corleonesi fu siglato sul sangue di Dalla Chiesa. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 29 Settembre 2021. Per questa seconda puntata del racconto sommario dei rapporti fra Stato e mafia sono andato ad attingere da un mio antico file nutrito per oltre quaranta anni con troppi eventi e nomi per poter essere usato. Ma ne escono le questioni fondamentali dello sviluppo del rapporto fra Stato, Mafia, intermediari, professionisti e sedicenti tali dell’antimafia. Per tornare di nuovo a Sciascia: c’è una storia che nasce con il dopoguerra e una seconda parte che comincia negli anni Ottanta e che vede l’astro Falcone illuminarsi progressivamente e per molti minacciosamente. Oggi si parla di Cosa Nostra come se fosse una squadra, un brand, un marchio di fabbrica, ma è falso. Fa parte della vulgata ideologizzata. Ma provate a immaginare: ci fu un’epoca, quella degli anni Settanta e Ottanta e che arriva fino alla fine della guerra fredda, quando scoppiò Tangentopoli con l’inchiesta Mani Pulite, in cui erano attori di primo piano le varie mafie fra cui i Corleonesi con il loro ruolo di comando, i guerriglieri di dubbia e molteplice origine sia rossa (Brigate rosse, Prima Linea) e nere (Nar e altre sigle), correnti fra loro diverse e opposte negli organi dello Stato, specialmente nei servizi segreti perennemente divisi fra un’ala filo araba e una filo israeliana e americana, ma con pesanti e continue interferenze dei servizi dell’Unione Sovietica che nel 1981 tentarono, senza riuscirci, di eliminare il papa polacco che con il suo seguito sindacale e politico occupava materialmente il territorio polacco, rendendolo inoperabile per fini militari. Cominciò la stagione delle Commissioni antimafia sia regionali che del Parlamento repubblicano in cui tale commissione diventa istituzionale, ovvero diventa una branca del Palamento con tutto il suo apparato, gli accordi e disaccordi sulle presidenze e il mestiere di membro o presidente dell’antimafia diventa la professione che Leonardo Sciascia violentemente contestava, sicuro che nessuno dei politici italiani capisse nulla di mafia e usasse la mafia e l’antimafia solo per fare carriera e occupare spazi politici. I delitti accadevano a una velocità che abbiamo dimenticato: circa ottanta all’anno, qualche anno più pescoso anche di più. Era la normalità della mafia e dell’antimafia. Sono poi andato a sfogliare dei miei volumoni di fotocopie degli originali interrogatori condotti da Falcone, quando mise sotto torchio Tommaso Buscetta che fu il primo e vero testimone di giustizia che vuotò il sacco. Il giudice lo interrogò sempre da solo, senza cancelliere, e metteva a verbale con la penna stilografica le domande e le risposte. Questo Tommaso Buscetta è un uomo chiave su cui sono stati fatti film e libri. Ma era un testimone di Giustizia (in Italia e soltanto in Italia si dice “pentito”) che volente o nolente vuotò tutto il sacco, e quando cercava di mettere nel sacco Falcone, quello lo ri-arrestava. Un altro tutore esegeta di Buscetta fu Enzo Biagi che ebbe con lui una famosa intervista in cui, ad esempio, Buscetta spiegava mentalità e uso del potere di Salvo Lima che poi diventò il referente di Giulio Andreotti, per cui quando Lima fu ammazzato, Andreotti capì che la sua corsa verso il Quirinale era finita, anche se seguitò a sperarci. Nei primi anni Sessanta il futuro onorevole Lima fu sindaco di Palermo. Buscetta raccontò poi a Biagi: «Lui personalmente non mi ha fatto dei favori perché io avevo anche i miei dentro il municipio di Palermo, che erano di Cosa nostra. Addirittura, uno era il consigliere della mia famiglia che si chiamava Giuseppe Trapano, consigliere della famiglia e consigliere municipale». Prima di quei due anni da sindaco, Lima aveva assistito come membro della Democrazia Cristiana all’ascesa dei Corleonesi al potere, cominciata con l’assassinio del boss (e noto medico chirurgo) Michele Navarra, quando gli uomini in armi erano Totò Riina, Bernardo Provenzano e Luciano Liggio. Disse Buscetta che le riunioni nella Commissione erano tempestose perché il capo dei palermitani, Salvatore La Barbera si trovava in contrasto con i provinciali Corleonesi e accadde che un membro della famiglia di Porta Nuova, tal Anselmo Rosario, si era innamorato della sorella di un uomo d’onore, Raffaele Spina, di un’altra famiglia, quella di Noce. Raffaele Spina pose il veto sul matrimonio per motivi sociali. I compari di Anselmo Rosario, fra cui Tommaso Buscetta, consigliarono all’amico di rapire la donna amata e chiudere la faccenda con un fatto compiuto. Il rapimento avvenne e le conseguenze furono quelle previste: Raffaele Spina inghiottì il boccone, ma giurò vendetta e di far fuori l’odiato rapitore della sorella. Ma le regole di famiglia vietavano qualsiasi atto che andasse contro i legami di sangue e Salvatore La Barbera si oppose alla richiesta, cosa che aumentò ancora di più la tensione fra palermitani e provinciali. La tensione arrivò a tal punto che Calcedonio Di Pisa fu assassinato a Palermo il 26 dicembre 1962, poco prima che la proposta di legge del Senatore Ferruccio Parri – il primo capo del governo repubblicano alla fine della guerra, di istituire una Commissione permanente d’Inchiesta sulla mafia, fosse messa nel calendario dei lavori parlamentari. Intanto era morto a Napoli Lucky Luciano per un infarto, mentre stava discutendo un film sulla propria vita con un produttore americano e per i suoi funerali si era spostato da Milano Joe Adonis, antico compagno di gangsterismo negli Stati Uniti. Luciano non era mai stato regolarizzato come cittadino americano essendo entrato da bambino come clandestino e dunque era stato espulso e spedito a Napoli. Adonis aveva deposto una corona con la scritta “Goodbye, Old pal”. Nel 1962 anche l’Assemblea regionale siciliana vota all’unanimità una mozione per la Commissione parlamentare d’inchiesta antimafia. Finalmente il 20 ottobre 1962 la Camera approva la legge che istituisce la Commissione antimafia con il compito anche di “proporre le misure necessarie per reprimere le manifestazioni ed eliminarne le cause”. Intanto la mafia si è convertita dal settore agricolo all’edilizia, badando alle amministrazioni, agli appalti, e quindi alla politica del denaro pubblico. Alla lupara si sostituiscono il mitra e la pistola automatica mentre diventano importanti le connessioni con i partner commerciali della cocaina e dell’eroina, imponendo una politica estera di Cosa Nostra. Dirà Buscetta nel 1992: «La mafia è dominata dai Corleonesi. Si sono sciolte tutte le famiglie. Nel ‘63 un tale Michele Cavataio si rese responsabile di una cosa gravissima. Aveva messo delle bombe nelle macchine provocando la morte di civili e poliziotti. Fu uno scandalo per Cosa Nostra. Ora invece i Corleonesi possono mettere le bombe e far saltare i giudici». Negli Stati Uniti, nell’autunno del 1963, Joe Valachi di fronte alla Commissione senatoriale degli Stati Uniti rivelò il nome di Cosa Nostra e la sua organizzazione. Valachi fu il primo a parlare della Mafia come “Cosa Nostra”, in cui dice di essere entrato nel 1930, introdotto da Salvatore Maranzano. Dopo aver deposto e fornito il primo quadro dettagliato e attendibile dell’organizzazione, Valachi, dopo aver pronunciato la sua impressionante testimonianza di “pentito”, fu condotto nella prigione federale di La Tuna in Texas, dove morì d’attacco cardiaco nel 1971. Dopo la morte del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, nominato prefetto di Palermo e ucciso barbaramente a colpi di mitra insieme alla giovane moglie, il figlio del generale, Nando dalla Chiesa, accusò lo scrittore Leonardo Sciascia di aver lasciato credere a suo padre di essere il capitano Bellodi, l’eroe del Giorno della Civetta, Lo scrittore siciliano non ne aveva voluto sapere di celebrare il generale ucciso rimproverandogli di non aver capito la mafia, di essere stato superficiale e imprudente e di essersi pericolosamente nutrito della propria auto leggenda. Del delitto dalla Chiesa, Tommaso Buscetta racconta a Falcone: «La sera del 3 settembre, qualche ora dopo l’assassinio di dalla Chiesa ero all’hotel Regent di Belem, sul Rio delle Amazzoni, con Gaetano Badalamenti e guardavamo la televisione. Quando venne trasmessa la notizia, Badalamenti commentò dicendo che quel delitto doveva essere stato un atto di spavalderia dei Corleonesi». Falcone trovò molto acuta questa analisi e commentò nella sentenza istruttoria: «Ciò che sorprende è la sicurezza con cui Badalamenti ha saputo analizzare la notizia e individuare cause e autori dell’eccidio». Tuttavia, Buscetta accennò anche al possibile retroscena politico del delitto: «Badalamenti disse ancora che qualche uomo politico si era sbarazzato, servendosi della mafia, della presenza troppo ingombrante ormai del generale». Fu dunque Badalamenti a dire a Buscetta che il delitto aveva probabilmente due facce, una corleonese e una politica: il politico in questione viene sempre identificato in Vito Ciancimino, da Buscetta descritto sempre come il referente dei Corleonesi. La cosa importante da notare in questa data è che Buscetta accusa la “spavalderia dei Corleonesi” per il delitto dalla Chiesa e ipotizza che «qualche uomo politico» si sia sbarazzato del generale. Ma di “entità” esterna, nulla. Quei fatti sono ormai lontani e hanno perso parte della loro memoria emotiva. Ma la questione vagamente mafiosa è diventata all’inizio degli anni Novanta una questione politica e politicante, matura ed autonoma rispetto alla vera organizzazione criminale e dotata di vita e logica propria. Ed è il momento in cui la partita si fa veramente dura e in cui i personaggi più loschi scendono in campo.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Rita Dalla Chiesa a La Confessione (Nove) di Peter Gomez: “L’omicidio di mio padre? Politico. Andreotti gli disse: chi si mette contro la Dc in Sicilia torna con i piedi davanti”. Il Fatto Quotidiano il 24 settembre 2021. Rita Dalla Chiesa a La Confessione (Nove) di Peter Gomez: “Berlusconi coinvolto in stragi di mafia? Non ci ho mai voluto credere, mi farebbe troppo male”.  “Nei diari di mio padre c’era scritto di un colloquio tra lui e Andreotti, in cui gli diceva. “Attenzione, perché chi si mette contro la mia corrente politica in Sicilia, poi torna con i piedi dalla porta”. Così Rita Dalla Chiesa, ospite de La Confessione, il programma condotto da Peter Gomez, in onda il 24 settembre alle 22.45 su Nove, ha raccontato del clima in cui maturò l’omicidio, di matrice mafiosa, del padre, il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa morto il 3 settembre 1982 nella strage di via Carini in cui morirono anche la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. “Al funerale era pieno di politici, ma non c’era Giulio Andreotti”, ha confermato l’ex conduttrice di Forum. “Oggi c’è un collaboratore di giustizia, l’abbiamo saputo tre anni fa, il quale dice che il mandante dell’omicidio di suo padre è stato, sarebbe stato, un politico, oggi scomparso, molto vicino ad Andreotti. Lei che ne pensa?”, ha chiesto il direttore de Ilfattoquotidiano.it. “Che è vero”, ha risposto lapidaria la figlia del Generale. “Lei, già da subito, si è convinta che la decisione di quell’omicidio fosse una decisione politica”, ha insistito il conduttore. “Sì, ho maturato questa convinzione perché ho visto la solitudine nella quale avevano lasciato mio padre – ha detto Rita – Perché nei diari di mio padre, che poi Falcone mi fece leggere, ne parlai anche con Chinnici (Rocco Chinnici, ndr), c’era scritto di un colloquio che mio padre aveva avuto con Andreotti. E Andreotti gli aveva detto: “Attenzione perché chi si mette contro la mia corrente politica in Sicilia (quella della Democrazia cristiana, ndr), poi torna con i piedi dalla porta, ecco, questo era il significato”, ha concluso il noto volto televisivo.

7 ottobre 1999. Mafia e politica: "Chi erano gli amici di Andreotti". Capitava sempre male nei suoi viaggi nel Sud il senatore Andreotti. Venne a Gioia Tauro il 25 aprile 1975 per la posa della prima pietra del centro siderurgico e si vide offrire il caffè da un simpatico signore che era Gioacchino Piromalli, il capo della mafia calabrese.  Giorgio Bocca su La Repubblica il 30 settembre 2021. Nel secolo abbiamo imparato che la malavita non è solo la Mano Nera, la mafia che uccide, la 'ndrangheta che sequestra, i banditi che rapinano. La malavita è anche quella che ci ha raccontato Salvemini della politica e degli affari, che ora abbiamo imparato a riconoscere dalle sue affinità con la prima, dal suo linguaggio comune.

Storia d’Italia, 1959: quando non si parlava della mafia che cresceva. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 19 Novembre 2020. L’anno che venne dopo, il 1960, sarebbe stato un Annus terribilis ma anche fulminante, tra i “fatti di luglio” e “La dolce vita” di Fellini (biglietto a mille lire, mai visto prima). Il 1959 fu uno di quegli anni che somigliano alla prima fase di una partita di scacchi: quando si dispongono i pezzi da usare per piani segreti. La terza guerra mondiale, che non c’è mai stata, fu in quel biennio sempre più incombente e imminente. Il nuovo dittatore sovietico, il contadinesco ma abilissimo, e in guerra anche eroico, Nikita Kruscev, fece organizzare una visita ufficiale in Albania, all’epoca ancora un dominio sovietico, per pronunciare un violentissimo discorso proprio contro di noi: “Se l’Italia si azzarderà ad autorizzare l’installazione di missili americani, sappia che siamo pronti a farla sparire dalla faccia della terra”. Un po’ di chiasso, ma neanche tanto. Era normale. Le minacce militari nonché gli schieramenti di missili erano all’ordine del giorno. In America era ancora presidente l’ex comandante supremo degli eserciti alleati in Europa e Africa, Dwight Eisenhower, un presidente eccellente e calmo, tuttavia bersaglio di tutti gli imitatori e attori satirici per la scheletrica ovvietà dei suoi discorsi. A gennaio Fidel Castro con i suoi barbudos (soltanto i guerriglieri che avevano combattuto alla macchia nella Sierra erano autorizzati a non radersi come prova degli anni passati lì) si insediò formalmente al governo di Cuba, riconosciuto da tutti i grandi Paesi fra cui gli Usa che avevano per quell’isola un amore particolare e piuttosto invadente, poiché era stata anche fino ai primi del Novecento l’ultima colonia spagnola in America. Per quest’ultima motivazione, Cuba era particolarmente curata, specialmente riguardo sanità e istruzione (che diventarono poi due cavalli di battaglia del castrismo) così tutti si chiedevano da che parte stesse. Il vicepresidente di Eisenhower era Richard Nixon, brillantissimo avvocato che poi diventerà presidente e finì dimissionario nel 1972 per lo scandalo Watergate (microspie nel quartier generale del Partito democratico) reso noto da due giornalisti considerati mitici – Carl Bernstein e Bob Woodrow – che ricevevano misteriosi pizzini da uno sconosciuto e diabolico personaggio che nelle intercettazioni era chiamato “gola profonda”. Da allora, ogni volta che si parla di un ispiratore segreto, in inglese oggi si usa il termine “whisteblower”, ossia uno che spiffera ma come agente sotto copertura. La storia è popolata dalle gole profonde e dai whisteblower che agiscono come oscure divinità olimpiche, determinando il destino delle nazioni attraverso intermediari ambiziosi che fanno carriera grazie alle soffiate, capaci di determinare la linea politica e giudiziaria dei loro giornali, appesi alla speranza dello scoop, come in Italia molti anni dopo imparammo da inchieste extraterrestri come Mani Pulite, la vicenda Lockheed e molti dritti e rovesci sulla mafia. Nel 1959, ad esempio, il primo dei grandi pentiti (che poi, trent’anni dopo, fu gestito personalmente da Giovanni Falcone), e cioè Tommaso Buscetta, fu arrestato a Palermo per faccende di piccola criminalità: contrabbando di sigarette, associazione per delinquere e altre piccole immondizie. Aveva 30 anni. Arrestato, ma subito liberato grazie al suo santo in paradiso che era un deputato democristiano. A suo tempo vedremo come questo personaggio diventò un protagonista di quel mondo occulto, costretto alla fuga e riacciuffato in Brasile per essere messo sottochiave da Falcone – siamo ancora lontani da quei tempi, che però maturavano come nelle complesse aperture di una buona partita di scacchi. Le vicende cubane e quelle della mafia siciliana erano procedute per anni in un intreccio che vedeva gli investimenti nella Cuba di Fulgencio Batista e della sua rete di casinò, nel giardino di casa degli americani che la consideravano un Paese accessorio, se non conquistato, a causa della guerra di liberazione dalla Spagna che portò nell’orbita americana anche tutti gli altri territori coloniali spagnoli, fra cui le Filippine che diventarono e sono tuttora un pezzo importantissimo della politica in estremo oriente. Dunque, Fidel Castro era ancora un fanciullone che aveva giocato con le armi e le romantiche notti di agguati e sparatorie sotto le mura della Caserma Moncada, e ancora nessuno poteva immaginare che sarebbe diventato il pezzo più importante della politica sovietica e poi la causa della crisi dei missili per cui il mondo tremò per alcuni giorni, ma soltanto alcuni anni dopo. Allora Fidel era un personaggio elementare e carismatico, non un genio, ma popolarissimo. Eisenhower chiese al suo vice Nixon di capire da che parte stava e Nixon invitò Fidel Castro a Washington per discutere la richiesta cubana di fondi con cui finanziare la ripresa economica dell’isola dove i rivoluzionari avevano distrutto il tessuto di case da gioco, bordelli, poker e scommesse in cui sguazzavano anche le grandi famiglie siciliane. Qualche mese prima, Albert Anastasia, il mammasantissima degli italoamericani, aveva avuto la gola tagliata a New York sulla sedia del suo barbiere, in seguito agli accordi presi dalle grandi famiglie nella riunione del 26 ottobre del 1957 nei saloni splendidi e decadenti dell’Hotel Le Palme di Palermo. Lì, dove si fermava anche Frank Sinatra, un divo stellare i cui rapporti con Cosa nostra erano noti quanto quelli con la sua eterna fidanzata e poi ex moglie Mia Farrow che poi sposò Woody Allen, con tutto il frastuono che ne seguì per le accuse da caccia alle streghe scatenate contro il geniale regista, colpevole di essersi innamorato e poi di aver sposato una delle figlie adottive della ex moglie. Quest’ultima nel frattempo gli aveva donato, come unico suo figlio naturale, un pupo oggi famoso giornalista e femminista che è il ritratto sputato di Frank Sinatra, detto anche “The Voice”, la più calda e passionale voce d’America. Ma, ricordiamolo ancora una volta, tutti questi brandelli di storia che nel 1959 vediamo dispiegarsi sulla scacchiera del mondo, daranno luogo a grandiosi e tragici finali di partita di cui allora ancora nessuno sapeva niente. E così, Richard Nixon accolse Fidel Castro a Washington e passò un paio di giorni con lui per capire che tipo fosse questo guerrigliero che giurava di non essere comunista ma lo sembrava. Poi ne riferì a Eisenhower: “È un tipo che trascina le folle. Ha idee un po’ rozze ma sembra un ragazzo in buona fede. Vorrebbe il nostro aiuto finanziario, ma non intende concedere risarcimenti per le imprese americane che ha nazionalizzato. Dice che è nostro interesse aiutarlo, altrimenti sarà costretto a rivolgersi altrove”. Dove l’avevamo già sentito questo ragionamento? Ma sì, Gamal Nasser il nuovo bellissimo rais dell’Egitto, il quale pensava che gli inglesi o gli americani avrebbero dovuto finanziare i suoi sogni un po’ faraonici come la diga di Assuan e che poi quando si vide sbattere la porta in faccia si rivolse a Mosca. Il gioco, visto oggi a ritroso, era abbastanza semplice, ma allora pochi capivano in che modo girasse il mondo. L’occidente americano era anticomunista e anche in Europa tiravano venti bipolari, nel senso che tutti i gruppi ex fascisti o neofascisti pensavano che fosse giunta la loro ora per tornare al comando. Al Comune di Roma si facevano le prove per giunte anticomuniste col sostegno missino. Ciò spingeva comunisti e socialisti a una radicalizzazione che poi, l’anno successivo, con il governo del democristiano Tambroni (formalmente di sinistra ma che si alleò con i neofascisti del Msi per avere la maggioranza) diventò un’insurrezione popolare con decine di morti e feriti. Quasi una rivoluzione, che Palmiro Togliatti riuscì a contenere e frenare ma che sconvolse il Paese creando premesse per altre inaspettate conseguenze. La situazione internazionale e specialmente cubana portò a riassetti drammatici nella mafia siciliana: il capo dei capi, l’idolatrato e indiscusso signore di tutte le cosche, il medico ma anche assassino nonché capo dei corleonesi Michele Navarra, fu fatto fuori sulla strada statale 118 in località San Isidoro. Si disse subito che a premere il grilletto era stato l’astro nascente del momento, e cioè Luciano Leggio detto – non si sa perché – Liggio. Si sparò per un paio di mesi col bilancio finale di nove morti ammazzati e uno strascico giudiziario eterno che vide alla fine tutti assolti, e stiamo parlando di nomi non ancora famosissimi, ma del calibro dei Provenzano, Liggio, Riina e Bagarella. Di mafia a quei tempi si parlava poco e di malavoglia anche nei tribunali. Il nome di Cosa Nostra diventerà un valore aggiunto portato da Buscetta, che diede a Falcone tutte le password necessarie per leggere il grande libro nero. Nei tribunali e nelle sentenze si parlava con distacco di criminalità organizzata. Ma la grande rete siciliana – quella della calabrese ‘ndrangheta era ancora un fritto misto di piccole ‘ndrine locali, tributarie della mafia siciliana e allora di poco conto – aveva santi in tutti i paradisi: servizi segreti italiani e stranieri, politica locale e nazionale, gerarchie ecclesiastiche, corpi di polizia e giornalismo. In quel coacervo ancora indistinto ed esplosivo come il Big Bang spiccava un personaggio di assoluto rilievo: Michele Sindona, che un quarto di secolo più tardi dopo finirà – come Gaspare Pisciotta, il cognato assassino di Salvatore Giuliano – avvelenato in carcere con una tazzina di caffè corretto. Sindona era un uomo spregiudicato e dinamico, si sentiva con le spalle coperte ed era capace di combattere mediaticamente. Viveva a Milano dove i siciliani di New York avevano una delle loro basi migliori in quegli anni, e nella capitale lombarda entrò nel giro d’affari della mafia ameri­cana attraverso Joe Adonis (al secolo, Giuseppe Antonio Doto, nato a Montemerano, presso Napoli, nel 1902 e che fino al 1972 ebbe lo stesso potere nazionale e internazionale di Lucky Luciano, di cui fu allievo fedelis­simo). Luciano durante la guerra aveva lavorato per la marina militare americana, costituendo un fronte del porto di New York contro le spie tedesche che trasmettevano ai sottomarini U-Boat della marina hitleriana le rotte dei convogli destinati alla Gran Bretagna perché fossero silurati e affondati. Il lavoro di questi mafiosi di New York a caccia di nazisti però fu poco più che una messinscena, utile soltanto per regolamenti di conti nella criminalità di Manhattan. Ma finché la guerra non finì, Lucky – che vuol dire “fortunato” – Luciano ebbe un trattamento carcerario principesco, con puttane, cuochi e camerieri, quadri d’autore e liquori, ma sempre chiuso dentro le turrite mura di Sing-Sing, oggi museo nazionale e curiosità storica. Quando la guerra si concluse, sperò di avere se non una medaglia al valore almeno un perdono per meriti patriottici. Ma non tirava più aria per tipi come lui e gli americani lo espulsero come indesiderato perché era arrivato clandestinamente da bambino senza mai procurarsi uno straccio di certificato che lo rendesse un cittadino americano. Così, fu scaricato all’alba da un bastimento nel porto di Napoli con bauli di vestiario, alla continua ricerca di giornalisti e cineasti con cui sperava di raccontare la propria storia e leggenda. Erano personaggi grandiosi, odiosi e terribili, questi mafiosi di New York, come don Vito Genovese, Carlo Gambino o il bandito finanziere Louis “Lepke” Buchalter che sapeva riciclare i proventi del crimine in fiorenti attività lecite. Adonis fu, come Luciano, uno dei gangster rispediti in Italia dagli Stati Uniti perché, come Luciano, ignoto all’anagrafe. Ma in Italia diventò presto famoso per la sua catena di ristoranti “Joe’s Italian Kitchen” dove riceveva americani di un certo livello cui faceva recapitare dai suoi camerieri armati buste piene di dollari. Questo, anche, era il giro in cui si ritrovò Michele Sindona, il quale entrò fin troppo nello spirito di questa società che sarebbe riduttivo definire semplicemente mafiosa. Fu attraverso i mille canali di affari, ricatti, guadagni, minacce e regolamenti di conti che Tommaso Buscetta trovò la sua strada per levarsi di dosso i fastidi di due accuse di omicidio, mettendosi agli ordini di un altro straordinario e quasi leggendario personaggio di questo mondo infernale: quel Salvatore Greco detto “Chicchiteddu” o anche “Ciaschiteddu”, ovvero l’uccellino, lo scricciolo, che con quella sua aria da passerotto comandava le truppe e le retrovie di Ciaculli e che bisognava sempre citarlo con i soprannomi per non confonderlo con altri e omonimi galantuomini, a loro volta distinguibili per soprannomi come “l’Ingegnere”, “il Lungo”, “il Senatore” o il fratello Michele Greco detto “u’ Papa”. Tutti personaggi con cui entrò in familiarità Buscetta arrivando fino a Lucky Luciano. Al governo nazionale si succedevano i democristiani di valore come Segni, Fanfani e Moro che però fra loro erano in ostile antagonismo, ognuno alla ricerca della formula magica per governare contro i comunisti, senza inimicarseli troppo e con l’aiuto dei fascisti, senza amicarseli troppo. Un gioco pericolosissimo che nel breve giro di un anno portò a tragiche conseguenze cui ancora prolungano i loro effetti.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1959

1° gennaio – Il dittatore Fulgencio Batista abbandona l’Avana e fugge da Cuba. Fidel Castro entra nella capitale del Paese in testa alle sue truppe.

8 gennaio – Al Palazzo dell’Eliseo in Francia, René Coty, ultimo presidente della Quarta Repubblica, passa le consegne a Charles de Gaulle, primo presidente della nuova Costituzione.

26 gennaio – Nel nostro Paese cade il secondo governo Fanfani. Il politico abbandonerà anche la carica di segretario della Democrazia Cristiana.

3 febbraio –  In un incidente aereo perdono la vita i giovani musicisti Richie Valens, Buddy Holly e J.P. “The Big Bopper” Richardson. È ricordato come il giorno in cui muore la musica.

15 febbraio – Il nuovo Governo italiano è presieduto da Antonio Segni.

9 marzo – Viene venduta la prima Barbie, bambola destinata ad avere un enorme successo commerciale.

14 marzo – Aldo Moro è il nuovo segretario politico della Democrazia Cristiana.

17 marzo – Dopo violenti scontri con gli occupanti cinesi, il XIV Dalai Lama fugge dal Tibet alla volta dell’India.

8 maggio – Viene festeggiata ufficialmente per la prima volta in Italia la festa della mamma.

17 maggio – Fidel Castro annuncia alla radio l’approvazione della legge per la riforma agraria. I terreni dei possedimenti americani sono espropriati.

31 luglio – In Spagna viene fondata l’ETA, un’organizzazione armata terroristica basco-nazionalista d’ispirazione marxista-leninista, il cui scopo è l’indipendenza del popolo basco.

24 settembre –  Inizia su Raiuno lo Zecchino d’Oro.

25 settembre – Si incontrano a Camp David il presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower e il segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Nikita Khruscev, dando avvio a una prima fase di distensione delle relazioni internazionali.

7 ottobre – La sonda russa “Luna 3” fotografa per la prima volta la faccia nascosta del nostro satellite.

21 ottobre – Viene inaugurato a New York il Guggenheim Museum, realizzato dall’architetto Frank Lloyd Wright.

29 ottobre – Esce in Francia sul periodico Pilote la prima storia a fumetti di Asterix.

1° dicembre – Firma del Trattato antartico.

2 dicembre – Nel Fréjus crolla la diga di Malpasset e l’inondazione che ne segue provoca 421 vittime. È il più grande disastro nella storia francese.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Stragi di mafia, perquisizioni a Roma e in Sicilia dopo le dichiarazioni del boss Graviano su Berlusconi. Gli investigatori della Dia al lavoro sui nomi di chi avrebbe favorito e coperto le azioni del boss di Brancaccio accusato delle stragi di Falcone e Borsellino e delle bombe del 1993 a Roma, Milano e Firenze. Nei mesi scorsi Graviano ha parlato a lungo con i pm anche del leader di Forza Italia. Lirio Abbate su L'Espresso il 27 ottobre 2021. Per riscontrare le affermazioni rese dal boss Giuseppe Graviano ai magistrati di Firenze, fatte nei mesi scorsi in tre lunghi interrogatori in carcere, vengono effettuate da stamani decine di perquisizioni fra la Sicilia e Roma. Si tratta di verificare una rete di soggetti, di cui ha parlato Graviano ai pm, che avrebbe favorito e coperto le azioni del boss di Brancaccio accusato delle stragi di Falcone e Borsellino, ma soprattutto delle bombe del 1993 a Roma, Milano e Firenze, di cui si sta occupando la procura antimafia del capoluogo toscano. Gli investigatori della Dia di Firenze stanno eseguendo i controlli su disposizione dei magistrati della direzione distrettuale antimafia di Firenze. I provvedimenti di perquisizione sono firmati dai procuratori aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco. I soggetti perquisiti sono stati indicati da Graviano come personaggi ai quali il boss ha fatto riferimento prima del suo arresto. Non ci sono, dunque, solo personaggi inseriti in Cosa nostra, ma anche alcuni che sarebbero sospettati di aver favorito la mafia e quindi, i boss stragisti di Brancaccio. In passato, come ha scritto L’Espresso, Giuseppe Graviano ha risposto alle domande dei pm di Firenze, ed ha parlato di Silvio Berlusconi. Un’inchiesta era stata aperta dopo queste affermazioni. L’indagine partiva dalle dichiarazioni fatte davanti ai giudici della corte d’Assise di Reggio Calabria dal boss Giuseppe Graviano, già condannato a diversi ergastoli per aver ordinato, tra gli altri, gli omicidi del beato Pino Puglisi, del piccolo Giuseppe Di Matteo, di altre vittime innocenti, donne e bambini, e le stragi di Firenze, Roma e Milano del 1993, quando decise che Cosa nostra doveva attaccare lo Stato. Il capomafia ha aggiunto che nel periodo in cui era latitante, avrebbe incontrato tre volte a Milano Silvio Berlusconi. E il boss ha sostenuto che l’ex Cavaliere, prima di iniziare la sua attività politica, gli avrebbe chiesto di essere aiutato in Sicilia. Secondo Graviano, però, molte delle attese che Cosa nostra aveva riposto in Berlusconi vennero meno: il “ribaltamento” del regime carcerario del 41bis non ci fu e neppure l’abolizione dell’ergastolo. «Per questo ho definito Berlusconi traditore», ha spiegato Graviano rispondendo alle domande del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, aggiungendo di essere stato latitante dal 1984 e che questa sua situazione non gli ha impedito di incontrare Berlusconi, «che sapeva della mia condizione». «Mio nonno», un facoltoso commerciante di frutta e verdura, ha detto Graviano «era in contatto con Berlusconi» e fu incaricato da Cosa nostra di agganciare l’ex presidente della Fininvest per investire somme di denaro al Nord. Missione riuscita, a detta del boss, sostenendo che «sono stati investiti nel settore immobiliare una cifra di circa venti miliardi di lire». Graviano dice che suo nonno è stato di fatto socio di Berlusconi: «I loro nomi apparivano solo su una scrittura privata che ha in mano mio cugino Salvo». La procura di Firenze che indaga su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri nell’ambito delle stragi del 1993, adesso scava pure sui patrimoni iniziali dell’ex Cavaliere e sul suo entourage politico. In passato sui soldi di provenienza della mafia avevano indagato anche i pm di Palermo nell’ambito del processo in cui Dell’Utri è stato condannato per concorso in associazione mafiosa. Le dichiarazioni dell’ergastolano sembrano più una minaccia all’ex premier, un modo per tentare di incassare soldi e libertà. A novembre dello scorso anno, sulla base di queste esternazioni, i procuratori di Firenze sono andati nel carcere di Terni e hanno interrogato Giuseppe Graviano, che ha accettato di incontrare i magistrati rispondendo pure alle loro domande, assistito dal suo difensore di fiducia. Un lungo interrogatorio che i pm toscani hanno secretato. I riscontri alle sue affermazioni sono già stati avviati. Dopo questo primo interrogatorio ne sono seguiti altri due in cui il boss ha reso un fiume di dichiarazioni. Nonostante le condanne all’ergastolo per delitti di mafia a cui Giuseppe Graviano e suo fratello Filippo sono stati definitivamente condannati, dalle loro mosse si intuisce che vogliono lasciare il carcere sfruttando tutti i mezzi possibili per tornare liberi. C’è il tentativo di smontare le accuse dei collaboratori di giustizia per poi chiedere di avviare una revisione dei processi e allo stesso tempo provare ad uscire dal circuito del 41bis, il carcere impermeabile, per transitare nel regime ordinario da cui è più facile ottenere la possibilità di essere scarcerati. Per questo motivo Giuseppe Graviano da diversi mesi ha coinvolto tutti i componenti della sua famiglia nel raccogliere dati e documenti e far scrivere un libro sulle sue vicende giudiziarie, raccontandole secondo la sua visione e il suo interesse, mettendo in discussione - secondo lui - le vecchie sentenze di condanna. Emerge il profilo di un uomo presuntuoso, ostinato ma anche di un abile oratore, attento osservatore e opportunista, un personaggio che vuole essere carismatico e al centro dell’attenzione, non a caso è un capo importante fra i corleonesi di Cosa nostra, con solidi agganci con il latitante Matteo Messina Denaro. Il fatto che abbia scelto di parlare in aula di Berlusconi è frutto di un calcolo che ha valutato con accortezza per lo sviluppo della sua strategia.

Una stanza segreta scoperta a casa del boss Giuseppe Graviano. Lirio Abbate su L'Espresso il 5 novembre 2021. Gli investigatori di Palermo hanno svelato un piccolo locale nascosto da un armadio a casa della moglie, durante una perquisizione in cerca di documenti. Una mossa per riscontrare le dichiarazioni del capomafia legate alle bombe del 1993. Una stanza segreta nell’abitazione della moglie del boss stragista Giuseppe Graviano è stata scoperta dagli investigatori a Palermo durante una perquisizione effettuata nelle scorse settimane. Si tratta di un piccolo locale di due metri quadrati nascosto da un muro. Su quello che è stato rinvenuto c’è il massimo riservo da parte dei magistrati della procura della Repubblica di Firenze che hanno disposto la perquisizione nell’abitazione della donna, nell’ambito di una inchiesta che coinvolge Giuseppe Graviano e le stragi del 1993 a Roma, Milano e Firenze. L’ingresso dalla stanza segreta era coperto e perfettamente murato e nascosto da un armadio. Nell’abitazione ci vive Rosalia Galdi, che il boss chiama Bibiana. La donna si sposta spesso per Roma, dove abita il figlio Michele, e poi per andare a trovare in carcere il marito. Gli investigatori avevano effettuato le perquisizioni su ordine dei procuratori aggiunti di Firenze, Luca Tescaroli e Luca Turco, perché interessati a cercare documenti di cui aveva parlato Giuseppe Graviano. Una mossa finalizzata anche a riscontrare le affermazioni fatte dal capomafia ai magistrati toscani durante tre lunghi interrogatori in carcere. Graviano parla di una rete di soggetti che lo avrebbe favorito e coperto nel periodo della sua latitanza legata anche alle bombe del 1993.

In passato, come ha scritto L’Espresso, Giuseppe Graviano ha risposto alle domande dei pm di Firenze, e ha parlato di Silvio Berlusconi.

Il capomafia ha sostenuto che nel periodo in cui era ricercato avrebbe incontrato tre volte a Milano Silvio Berlusconi.

Giuseppe Graviano è stato condannato oltre che per le stragi, anche per avere ordinato l’uccisione di don Pino Puglisi. Due giorni dopo la beatificazione a Palermo del parroco di Brancaccio, L’Espresso era riuscito a parlare con Rosalia Galdi. La donna che all’epoca era tornata a vivere a Palermo dopo un’agiata permanenza a Roma, ha parlato di padre Puglisi: ma lo ha fatto indicandolo come prete beato e non come vittima della mafia. Ed ha dichiarato L’Espresso di non aver mai conosciuto padre Puglisi perché a Brancaccio non frequentava la sua chiesa.

«Facevo parte di un’altra parrocchia e poi con mio marito in quel periodo abitavamo fuori Palermo e quindi non potevamo conoscerlo».

Bibiana è sorpresa delle domande sul prete. Avrebbe voluto parlare, spiegare, ma ad un certo punto si blocca e invita il giornalista, se vuole approfondire questo argomento, a rivolgere le domande a suo marito. «Lei comprende bene la mia situazione, io sono la moglie... e non posso parlare». E poi aggiunge: «Se avete qualcosa da scrivere o pubblicare dovete parlare con mio marito».

Ma Giuseppe Graviano da gennaio del 1994, quando è stato arrestato insieme alla moglie, è detenuto, e adesso spera di lasciare il carcere attraverso una sua strategia. Dal giorno del suo arresto è rimasto a lungo in silenzio, come i veri capimafia, poi ha iniziato a lanciare messaggi, per tentare di proteggere la famiglia e il patrimonio accumulato illegalmente. E provare a lasciare il carcere.

Questo capomafia custodisce segreti sulla stagione delle bombe del 1992; sugli attentati a Milano, Roma e Firenze.

Fedelissimo di Riina, avrebbe avuto contatti con imprenditori e politici.

Il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, che è stato al suo fianco anche quando hanno preparato la strage di via D’Amelio, ha raccontato ai pm che al bar Doney a Roma nel 1993, Graviano gli aveva confidato di avere raggiunto un accordo con Dell’Utri e Berlusconi. E il boss in quell’occasione aveva commentato: «Abbiamo il Paese nelle mani».

La signora Graviano rimanda tutto al marito. Un uomo che Bibiana Galdi non accetta di vedere come il boss che ha fatto uccidere padre Pino. Ma cosa pensa di un prete assassinato dalla mafia che adesso è stato beatificato? «Sono una persona cattolica, che frequenta la chiesa, quindi può immaginare come posso prendere queste cose...». La voce della donna si fa tremolante, sembra rotta dall’emozione, ma poi torna ferma: «Però io so dell’estraneità (nell’omicidio di don Puglisi, ndr.) di mio marito, ne sono sicura perché noi (Rosalia Galdi e Giuseppe Graviano ndr) non c’eravamo. Quella sera era con me mio marito». La sera dell’omicidio? «Adesso la devo lasciare...». Si interrompe la conversazione. La donna, che afferma di essere cattolica, commenta con interesse la beatificazione di don Puglisi alla cui celebrazione non ha partecipato - come ci dice il figlio, Michele Graviano - ma si fa scudo per difendere il marito, riconosciuto dai giudici come carnefice del sacerdote. Così concilia il fatto di essere cattolica con quello di essere la moglie del mafioso che ha fatto uccidere don Pino. Forse in cuor suo vuole convincersi dell’estraneità del marito sostenendo che la sera dell’omicidio era con lei e quindi non ha alcuna colpa. Purtroppo, non è così. E adesso deve anche spiegare la stanza segreta e quello che in essa è stato trovato dagli investigatori dell’antimafia.

Stragi di mafia, ecco perché Berlusconi e Dell’Utri non potevano essere i mandanti. La procura di Firenze cerca conferme alle dichiarazioni di Giuseppe Graviano, preso in considerazione solo quando accusa il fondatore di Forza Italia. È la quarta inchiesta, altre tre non hanno portato a nulla. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 29 ottobre 2021. È di questi giorni la notizia sulle perquisizioni avvenute a Roma, Palermo e Rovigo per trovare riscontri alle dichiarazioni rilasciate dal boss Giuseppe Graviano su Silvio Berlusconi. Non se ne conosce il contenuto, perché secretate. Tali azioni riguardano l’inchiesta condotta dalla procura di Firenze che vedrebbe come mandanti delle stragi continentali del 1993, Berlusconi e l’ex senatore Marcello Dell’Utri. In realtà non è la prima inchiesta. Con questa, infatti, siamo al quarto tentativo. Nel ’98, la stessa procura fiorentina l’ha archiviata per mancanza di prove. Berlusconi e Dell’Utri venivano nominati “Autore uno” e “Autore due”. Dopo quattro anni è stata la volta della procura di Caltanissetta. A indagare i pm Luca Tescaroli e Nino Di Matteo. In quel caso gli indagati venivano chiamati “Alfa” e “Beta”, ma anche questa volta un nulla di fatto: archiviata. Finisce qui? No. Ci riprova la procura di Firenze, questa volta nel 2008. Ovviamente conclusa con un nulla di fatto. Arriviamo nel 2017, siamo nuovamente a Firenze e sarà sempre il pm Tescaroli a riaprila come conseguenza delle intercettazioni dei colloqui in carcere del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, effettuate nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia. Teorema giudiziario da poco smantellato dalla sentenza della Corte d’appello di Palermo. Siamo quindi al quarto tentativo di cercare elementi certi per portare a processo Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi mafiose del ‘93, che colpirono Firenze (in via dei Georgofili), Roma (chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro) e Milano (via Palestro). Per ora, almeno dalle dichiarazioni pubbliche di Graviano, l’unico indizio è che Berlusconi avrebbe ricevuto un investimento da parte di suo nonno, un benestante commerciante di frutta e verdura. Punto. Se dovessero ricevere riscontri, bisognerebbe anche capire quale sia il legame con le stragi. Non solo. Sarà difficile trovare anche un eventuale reato. Ad esempio non risulta che il nonno di Giuseppe Graviano fosse di Cosa nostra.

Nessuna riapertura di inchiesta sulle bombe e sul monopolio degli appalti di Riina

Sicuramente appare singolare che si vada a cercare un eventuale investimento, quando in quel periodo la mafia entrava in società con aziende decisamente più grandi e potenti di quelle che possedeva all’epoca Silvio Berlusconi. Aziende che poi saranno coinvolte anche nell’ambito di Tangentopoli, quindi finanziamenti ai partiti con soldi in odor di mafia. D’altronde, come ha dichiarato più volte l’ex pm Antonio Di Pietro, non si era riusciti a fare una indagine a 360 gradi, integrando “Mani pulite” con la vecchia, ma potente indagine cristallizzata nel dossier mafia-appalti voluta da Giovanni Falcone e seguita, informalmente visto che non aveva ancora ottenuto la delega, da Paolo Borsellino. Significativo il fatto che una delle bombe mafiose colpirono proprio Milano, dove all’epoca era operativo il pool di Mani pulite. Una vicenda, in realtà sondata dalla procura di Caltanissetta negli anni 2000, ma archiviata. L’unica che però non è stata più riaperta, a differenza di quella su Dell’Utri e Berlusconi. Eppure, durante questi anni, sono usciti diversi interessanti verbali, testimonianze. Ma nulla, a quanto pare completamente snobbati.

Giuseppe Graviano viene preso in considerazione solo se parla di Berlusconi

Ritorniamo a Berlusconi. Che Giuseppe Graviano voglia uscire dal 41 bis, è scontato. Basterebbe leggere le sue intercettazioni per comprendere la sua speranza di uscita da un inferno che purtroppo è il carcere duro. Forse ha capito che per avere una piccola, labile, possibilità di uscire, deve fare il nome di Berlusconi. Qualsiasi altra cosa dica, non viene creduto. Ad esempio, nel memoriale ha scritto che l’agenda rossa di Borsellino l’ha presa qualche magistrato. Ed ecco che viene subito bollato come depistaggio.

Ha anche scritto che la vicenda di Aiello, conosciuto come “faccia da mostro”, è una sciocchezza. Anche in questo caso, come ha recentemente detto il magistrato Roberto Scarpinato innanzi alla commissione antimafia siciliana, lui avrebbe scritto questo memoriale sotto dettatura dei servizi segreti. Non c’è scampo. Graviano viene preso in considerazione solamente se fa il nome che vogliono sentirsi dire. Ma è possibile che Dell’Utri e Berlusconi abbiano ordinato a Cosa nostra di compiere le stragi? Pensare che i boss corleonesi prendessero ordini da persone completamente estranee, vuol dire che Falcone non ci ha capito nulla di mafia. Ovviamente, non può essere. Parliamo di un giudice che aveva una mente talmente geniale, che lo stesso Riina l’ha annichilito per farlo soprattutto smettere di pensare. Per capire che si tratta di un’ipotesi che rasenta il fallimento logico, basterebbe attenersi ai fatti. Nel biennio delle stragi del ’92 e ’93, ancora non era nata Forza Italia. Berlusconi non poteva, come ha detto anche Riina nelle intercettazioni, essere avvicinato visto che non aveva nessun potere politico. “Era solo una palazzinaro!”, ha detto Riina in 41bis. L’unico contatto era il pagamento del cosiddetto “pizzo”. Lo stesso Riina parla della minaccia di attentati alla ex Standa e i ripetitori in Sicilia.

Ecco perché Berlusconi e Dell’Utri non potevano dare ordini alla mafia

Non solo. Durante il processo Borsellino Ter, sia Giovanni Brusca che Angelo Siino, Tullio Cannella e Malavagna hanno parlato di un consistente sostegno di voti fornito da Cosa nostra al partito di Forza Italia creato da Berlusconi in occasione delle elezioni politiche del 1994. Sostegno offerto nella prospettiva di ottenere consistenti modifiche anche legislative nel senso auspicato dall’organizzazione mafiosa (cosa mai realizzata, tra l’altro), ma nessuno di loro ha fatto riferimento a contatti tra quell’organizzazione e Berlusconi già nel 1992 nell’ambito della ricerca di nuovi referenti politici e tanto meno, quindi, ha accennato auna loro trattativa.

Anzi, le dichiarazioni rese dai predetti pentiti e soprattutto da Brusca, Siino e Cannella sono state assai puntuali nel far riferimento al tentativo di Cosa nostra nel corso del 1993 di promuovere la nascita in Sicilia di un movimento politico indipendentista, una sorta di Lega del Sud, che si affiancasse a quella del Nord nel richiedere la creazione di una federazione di Stati che sostituissero quello unitario. Solo agli inizi del 1994, invece, tale progetto sarebbe stato accantonato per sostenere la nuova formazione politica promossa da Berlusconi. Ma sappiamo pure come è andata. La stessa Forza Italia si è poi separata dalla coalizione con la Lega Nord, da quel movimento, cioè, il cui collante – stando alle emergenze sulle leghe meridionali – avrebbe dovuto essere proprio il collegamento con Cosa nostra. Sappiamo che il governo presieduto da Berlusconi, cadrà dopo pochi mesi. Il fallimento logico del teorema che vede Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi è evidente. Sarebbe interessante, invece, che ci sia una indagine unitaria tra le procure competenti sulle stragi, prendendo in esame l’ipotesi che dietro le stragi del 1992- 93 ci sarebbe stata la volontà di Cosa nostra di impedire una inchiesta coordinata tra le procure siciliane, lombarde e toscane (ricordiamo le indagini di Augusto Lama sulle cave di Massa Carrara, poi inviate per competenza a Palermo e archiviate nel 92) sul monopolio degli appalti. Di fatto, non c’è mai stato un coordinamento come avrebbe voluto Falcone. Lui stesso, in un convegno lo aveva detto chiaro e tondo. La reazione dei fratelli mafiosi Buscemi fu: «Questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare». Dopodiché, arrivarono le bombe.

Luigi Mascheroni per ilgiornale.it il 28 ottobre 2021. Ricordo, anni fa, durante un Salone del libro di Torino, una divertentissima serata, era una festa Einaudi, sul terrazzo di casa Franco – Ernesto Franco, direttore editoriale della Einaudi. Erano gli anni in cui la guerra ideologica tra berlusconismo e antiberlusconismo era al suo culmine, gli anni del conflitto di interesse da una parte e dall’altra dei Saloni del libro che, a scorrere l’elenco degli ospiti d’onore, erano qualcosa di molto simile a un congresso ombra del Pd. Comunque. L’aspetto divertente della serata, che scorreva via fra un finger food (“Ottimi questi bocconcini di Fassona!”) e un calice di rosso (“Ummmmmh… Questo Barolo Monfortino mi sembra un po’ freddo”), era ascoltare le ironie dell’intero parterre di invitati sul Presidente (all’epoca) del Consiglio Silvio Berlusconi, “impresentabile” e “vergognoso”, con cui nessuno di loro voleva avere a che fare (“Persona imbarazzante…”), ma del quale stavano spiluccando il luculento catering, pagato dalla casa madre: Mondadori. La stragrande maggioranza di loro era autore del gruppo della famiglia Berlusconi, ma – si sa – “Einaudi è un’altra cosa…”. Certo, è sempre “un’altra cosa”. Il “problema è un altro” e “la questione è più complessa”. La questione, più che complessa, è curiosa. E si ripete da quando Silvio Berlusconi, patron di Mondadori-Einaudi (e oggi anche di Rizzoli) entrò in politica, e continua ancora oggi, quasi vent’anni dopo… E anche le domande restano le stesse.

La prima: come è possibile che, a parte qualche direttore del “Giornale” e pochissime altre grandi firme, per uno scrittore o un professore o un giornalista “di area” sia praticamente impossibile entrare in Mondadori, mentre l’ultimo scappato di casa che pascola nell’area della Sinistra trova subito un contratto a Segrate (o in Mediaset, che è lo stesso)?

La seconda: ma quante acrobazie retoriche devono compiere tutti gli avversari barra nemici di Berlusconi che pubblicano per Mondadori e Einaudi, e ora Rizzoli, per giustificare la propria scelta? Sul tema negli anni si è scritto tanto, ed esiste bibliografia enorme. Keyword: “Ipocrisia”. 

Oggi la polemica, sempre tenuta viva a destra e sempre sminuita a sinistra, torna di moda. I grillini doc sono infastiditi, o fanno finta di niente, ma intanto il loro leader e ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, si è accodato a quanti pur combattendo in tutto e per tutto Berlusconi poi bussano alla porta del suo gruppo editoriale: il suo primo libro, “Un amore chiamato politica”, esce per Piemme. Che fa appunto parte della galassia editoriale del Presidente. La domanda è sempre quella: con tutte le case editrici che ci sono, proprio una di Berlusconi? Ma perché? Da un lato lo criticano ma poi, quando sono a caccia di un editore, non disdegnano di farci business. E l’uomo politico pessimo diventa improvvisamente un imprenditore eccellente. Dipende tutto dai punti di vista. E quello economico - si sa - riserva spesso prospettive inedite…A parte pochissime eccezioni (Corrado Stajano che passò subito a Garzanti, Michele Serra che se ne andò a Feltrinelli dimostrando che un’alternativa c’è sempre, Vito Mancuso che a un certo punto pose un problema etico, tardivamente Roberto Saviano… ma andiamo a memoria: dimentichiamo di certo qualcuno), tutti i migliori antiberlusconiani hanno sempre continuato a scrivere, pubblicare e guadagnare senza vergogna con Berlusconi (“No, semmai sono io che faccio guadagnare lui con i miei libri”, come capisce chiunque, non è una risposta, ma solo una divertente boutade).

Dalla “A” di Corrado Augias (18 libri dal 1996 al 2020 pubblicati con Mondadori o Einaudi) alla “Z” di Gustavo Zagrebelsky (12 saggi dal 1996 a oggi usciti da Einaudi), l’alfabeto dei berlusconiani-a-intermittenza è completo, passando anche per la “T” di Marco Travaglio: da pochi mesi ha pubblicato una sua biografia “per immagini” di Indro Montanelli per Rizzoli, cioè Berlusconi (“Sì, ma i perché i diritti di Montanelli sono di Rizzoli!”. “Può darsi, ma i soldi che prendi sono di Berlusconi”).

E per il resto, non manca nessuno. C’è il fondatore del quotidiano “La Repubblica”, Eugenio Scalfari, arcinemico del Cavaliere, con il quale però ha pubblicato nei prestigiosi “Meridiani” Mondadori. Segrate val bene un’abiura. Ai tempi del primo governo guidato dai Cinquestelle, del resto, dichiarò di preferire Berlusconi a Di Maio.

E poi Concita De Gregorio, la quale ha pubblicato molto con Einaudi, anche il suo ultimo “Il tempo di guerra”. Lo storico della letteratura Alberto Asor Rosa: per Einaudi ha scritto decine di saggi e con Mondadori ci ha fatto pure lui un “Meridiano”.

Paolo Cognetti, il bestsellerista che ha pubblicato “Le otte montagne” con Einaudi ma che in un incontro pubblico sul palco disse di aver deciso di abbandonare Milano per rifugiarsi sui monti perché oppresso dal “berlusconismo” che si respirava in città. 

O Nicola Lagioia, autore d’oro Einaudi e antiberlusconiano di ferro il quale – non a caso - l’anno prossimo prenderà il posto di Ernesto Franco come direttore editoriale della Einaudi: offrirà anche lui ricchi buffet pagati da Berlusconi ai suoi amici Raimo, Lipperini&Co.?

E ancora: come dimenticare Federico Rampini, Nadia Fusini, Piergiorgio Odifreddi, Michela Marzano, Adriano Prosperi… e nomi ancora più radicali come Erri De Luca (simpatico, disse: io non me ne vado, semmai è lui che deve buttarmi fuori…), Francesco Guccini e perfino Massimo D’Alema, tutti – chi più chi meno, chi prima chi dopo - autori “al soldo” di Segrate… 

Almeno Mauro Corona, di fronte alla irrisolta contraddizione di voltare la faccia al Berlusconi politico ma salutare sussiegosi il Berlusconi editore, una volta confessò: “Come scrittore ho il cuore a sinistra e il portafoglio a destra: devo pur mangiare”. Appunto.

Politici, generali, toghe: i protagonisti. Stato Mafia, tutti i nomi coinvolti nella farsa della Trattativa. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 24 Settembre 2021. La corte d’assise d’appello di Palermo ha assolto l’ex senatore Marcello Dell’Utri e gli ufficiali dei carabinieri, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Mario Subranni nell’ambito del processo sulla trattativa Stato-Mafia. Una vicenda giudiziaria interminabile, quella della “Trattativa”, di cui vi raccontiamo i protagonisti.

Calogero Mannino

Colonna della Dc siciliana, sei volte parlamentare, cinque volte ministro, è stato a lungo uno dei bersagli preferiti del partito del complotto. L’assoluzione, già ricevuta in Appello, era arrivata l’’11 dicembre 2020 anche in Cassazione. “Non solo non è possibile ribaltare con valutazione rafforzata, al di là, cioè, di ogni ragionevole dubbio, la sentenza di primo grado trasformandola in condanna, ma anzi, è stata in questa sede ulteriormente acclarata l’assoluta estraneità dell’imputato a tutte le condotte materiali contestategli” riguardo “alla cosiddetta trattativa Stato-mafia”: così si leggeva nelle motivazioni della sentenza di assoluzione, in secondo grado, dell’ex ministro Dc, accusato di violenza e minaccia a corpo politico dello Stato. Una sentenza, quella su Mannino, pronunciata il 22 luglio 2019, dalla Prima sezione penale della Corte di appello di Palermo, e poi confermata dalla Cassazione.

Mario Mori

Assolto ieri dopo un calvario ventennale, unico suo vero torto è stato quello di aver catturato Totò Riina. La squadra di Ultimo, coordinata da Mori, fa scattare la trappola pochi chilometri dopo in un motel Agip. L’uomo più ricercato d’Italia, l’ultrapotente Riina, è in trappola. Eppure, il generale lo considera il suo più grande rimpianto professionale: «Non ho avuto la forza di aspettare, di andare avanti nel pedinamento, se avessi atteso ancora qualche chilometro prima di dare l’ordine li avremmo presi tutti: seppi poi che Riina si stava dirigendo a una riunione della “commissione” provinciale di Cosa nostra». Dalla sua operazione più brillante, prende corpo il primo processo a suo carico. Mori viene rinviato a giudizio dalla procura di Palermo per favoreggiamento aggravato nei confronti di Cosa nostra, per aver ritardato la perquisizione nell’ultimo covo di Riina. Venne assolto il 20 febbraio 2006 e i pm Antonio Ingroia e Michele Prestipino non presentano ricorso in appello. La sentenza conferma che si è trattata di una scelta investigativa legittima e che “l’accettazione del rischio fu condivisa da tutti”. Il 1 ottobre 2001 viene trasferito da Milano a Roma, per prendere servizio come direttore del Sisde, il servizio segreto civile. È il suo ultimo incarico operativo prima della pensione, nel 2006. La storia del generale Mori, forse uno degli investigatori più noti nella storia dell’Arma, avrebbe potuto concludersi con la pensione. Invece, dopo i due processi e le due assoluzioni, la Procura di Palermo porta avanti contro di lui un terzo filone di indagine. La tesi richiama in modo diretto quella sostenuta nel processo per il mancato l’arresto di Provenzano e anche i pm sono gli stessi: Antonio Di Matteo, Antonio Ingroia, con Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia. Del resto, il procuratore capo Scarpinato, che Mori ha conosciuto negli anni Novanta e con il quale da capo del Ros non ha mai instaurato alcun rapporto di fiducia, ha sostenuto più volte che: «C’è un filo rosso che attraversa tutte le vicende di cui il generale Mario Mori si è reso protagonista». Nel caso del processo sulla Trattativa Stato- Mafia, Mori è stato erroneamente considerato l’anello di congiunzione tra pezzi deviati dello Stato e Cosa nostra, in una trattativa che punta a fermare lo stragismo mafioso “concedendo” una tregua. La sentenza di ieri ha messo la parola fine a una persecuzione fin troppo a lungo protrattasi nel tempo.

Marcello Dell’Utri

Assolto ieri dopo una discesa agli inferi durata due decenni. Marcello Dell’Utri, palermitano, entra in politica a fianco di Silvio Berlusconi. Tra i fondatori di Forza Italia nel 1993. È stato condannato a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa (ne ha scontati 4 in carcere e più di 1 ai domiciliari) essendo stato riconosciuto mediatore tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi. Nell’aprile 2018 ha ricevuto una nuova condanna in primo grado a 12 anni di reclusione a conclusione del processo sulla trattativa Stato-mafia, per poi essere assolto nel settembre 2021 per non avere commesso il fatto.

Massimo Ciancimino

Il figlio di Vito Ciancimino ha svolto tutte le parti in commedia, fornendo ai diversi processi sulla mafia versioni e circostanze molto diverse. Ritenuto inizialmente attendibile dalla procura di Palermo, è chiamato a testimoniare per conto dell’accusa, al processo dove sono imputati il Generale Mario Mori ed il Colonnello Mauro Obinu. Nel gennaio 2010 sono stati depositati 23 verbali degli interrogatori a cui viene sottoposto Ciancimino tra il 4 aprile 2007 ed il 23 gennaio 2009. Tuttavia, la sua credibilità è stata successivamente messa fortemente in discussione, per ben due volte ed in differenti momenti (il 17 settembre 2009 ed il 5 marzo 2010), dalla Seconda Sezione Penale della Corte d’Appello di Palermo che ha giudicato le sue dichiarazioni su Marcello Dell’Utri “non connotate dai requisiti di specificità, utilità e rilevanza, emerge anzi una notevole contraddittorietà di Ciancimino su tutti i profili della vicenda”. Processi dai quali Mori, come alla fine anche ieri, era stato comunque assolto.

Roberto Scarpinato

Nato a Caltanissetta nel 1952, entrato in magistratura nel 1980, Roberto Scarpinato a partire dai primissimi anni Novanta entra nel pool antimafia collaborando con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Diventa pubblica accusa nel processo per la morte di Piersanti Mattarella, Presidente della Regione siciliana, ucciso dalla mafia. Sempre lui sostiene la requisitoria nei processi per la morte di Pio La Torre, segretario regionale del PCI, di Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana e di Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo. Fu tra coloro che, dopo la strage di via D’Amelio, in cui morì Borsellino, lanciarono gravi accuse in Procura. Nel mirino di alcuni pm all’epoca finì il procuratore capo Piero Giammanco, che veniva accusato di aver isolato Falcone. Si tratta di fatti che poi portarono a lunghe e dure polemiche e dopo l’intervento del CSM, Giammanco chiese il trasferimento. Furono quelli i fatti che portarono prima alla nomina di Giancarlo Caselli come nuovo Procuratore, poi all’arresto di Totò Riina e infine alle indagini sui rapporti fra mafia e potere. Roberto Scarpinato fece parlare di sé per l’indagine sui cosiddetti “Sistemi criminali”, che appunto iniziò a fare luce su cosa c’era dietro le stragi del 1992 e del 1993, vicende mai del tutto chiarite. Divenuto Procuratore aggiunto, si occupa anche degli intrecci tra massoneria deviata e sistema e potere mafioso, così come degli intrecci economici. Il processo più noto a cui ha preso parte è sicuramente quello a carico del senatore Giulio Andreotti, insieme a Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli per il reato di associazione di tipo mafioso.

Nino Di Matteo

Palermitano, 60enne, appassionato di calcio, è magistrato dal 1991. Ha legato la quasi interezza della sua attività inquirente alle indagini sulle stragi del 1992. Era appena approdato alla Procura di Caltanissetta come giovane pm quando su quel piccolo ufficio giudiziario piombò il peso delle inchieste sulle bombe che tra maggio e luglio del 1992 uccisero Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli uomini e le donne delle rispettive scorte. Da allora Di Matteo ha inseguito e ricostruito pezzi di verità mai completi, a volte contraddittori, raccogliendo le dichiarazioni di pentiti (compresi quelli che hanno provocato il depistaggio sulla morte di Borsellino), districandosi non senza difficoltà nel dedalo dei misteri che non riguardavano solo la mafia. Soprattutto quello che segue con costanza le vicende della mafia e dell’antimafia.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Il memoriale di Mario Mori. Mario Mori ci racconta come solo il Ros rimase a combattere la mafia, il memoriale del generale in quattro puntate. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Ottobre 2021. Iniziamo oggi a pubblicare il memoriale inedito scritto dal generale Mario Mori nel quale si raccontano le vicende della lotta alla mafia all’inizio degli anni novanta. Mori, insieme al nucleo dei Ros (carabinieri) dei quali faceva parte, ebbe un ruolo decisivo in quella battaglia. L’aveva iniziata al fianco di Giovanni Falcone alla fine degli anni ottanta, la proseguì fino al clamoroso successo della cattura del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. In quegli anni realizzò indagini di straordinaria importanza, alcune delle quali, purtroppo, andarono poi disperse per via delle decisioni della Procura di Palermo. La più nota è quella che va sotto il nome di “mafia-appalti”, che Borsellino cercò di avere assegnata senza successo, e che poi fu archiviata dopo l’uccisione di Borsellino. Mori, come sapete, è stato negli ultimi anni trascinato più volte in tribunale (i tribunali della Repubblica e quelli della Tv, compresa la Rai) e ne è sempre uscito clamorosamente assolto (non dalla Rai che ancora non ha chiesto scusa). Noi crediamo che sia stato vittima di una vera e seria congiura della quale, purtroppo, molto probabilmente nessuno mai renderà conto. Era il nemico numero 1 della mafia e poi – chissà perché, ma forse non è difficile immaginarlo – diventò il nemico della cosiddetta “antimafia professionale”. Questa testimonianza che ha messo per iscritto a noi sembra di grandissima importanza per cercare di intravvedere almeno alcune verità. La pubblichiamo da oggi, tutti i giorni, in quattro puntate.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Tutti fanno finta di non sapere. La vera storia del covo di Totò Riina e il falso mito della perquisizione mancata – Il memoriale di Mario Mori. Mario Mori su Il Riformista il 26 Ottobre 2021. Nelle interminabili discussioni originate dall’attività operativa del Ros dei Carabinieri nel contrasto alla mafia, il punto di partenza è sempre costituito dalla mancata perquisizione del “covo” di Salvatore Riina. Quale protagonista di quei fatti espongo in merito la mia versione. Subito dopo la cattura del capo di “cosa nostra”, nella riunione tra magistrati e investigatori che ne seguì, fu naturalmente considerata l’ipotesi dell’immediata perquisizione della sua abitazione, ubicata a Palermo in via Bernini 54, ma al momento non individuata precisamente, perché inserita in un comprensorio – delimitato da un alto muro di recinzione – costituito da una serie di villette indipendenti. Prospettata dal cap. Sergio De Caprio, e da me sostenuta, prevalse la decisione di non effettuare la perquisizione. La proposta derivava della considerazione che il Riina era stato appositamente arrestato lontano dal luogo di residenza della famiglia – un suo “covo” non è mai stato trovato – e teneva conto della prassi mafiosa di non custodire, nelle proprie abitazioni, elementi che potessero compromettere i parenti stretti. Questa soluzione avrebbe dovuto permetterci lo sviluppo di indagini coperte sui soggetti che gli assicuravano protezione, senza che fosse nota la nostra conoscenza della sua abitazione. L’improvvida indicazione dell’indirizzo ad opera di un ufficiale dell’Arma territoriale di Palermo, che consentì alla stampa, dopo circa ventiquattro ore dalla cattura, di presentarsi con le telecamere davanti all’ingresso di via Bernini, “bruciò” l’obiettivo, e i conseguenti servizi di osservazione del cancello di accesso al comprensorio furono sospesi per il serio pericolo di lasciare dei militari dentro un furgone isolato, esposto a qualsiasi tipo di offesa. A questo punto anche le indagini che ci eravamo prefissi di svolgere in copertura divennero molto più difficili, stante l’eco addirittura internazionale della vicenda. Malgrado queste difficoltà, la cattura del Riina non rimase un fatto episodico, perché attraverso alcuni “pizzini” trovatigli addosso, fu possibile risalire alla cerchia stretta dei suoi favoreggiatori, procedendo in successione di tempo al loro arresto. La perquisizione della villetta abitata dai Riina venne eseguita solo dopo alcuni giorni su iniziativa della Procura della Repubblica di Palermo, in un quadro di scollamento tra le attività della magistratura e della polizia giudiziaria. Noi eravamo convinti di potere sempre agire nell’ambito delle iniziative preliminarmente concordate, mentre la Procura era sicura del mantenimento del controllo sull’obiettivo. L’equivoco diede luogo all’apertura di un procedimento giudiziario che i sostituti procuratori incaricati, Antonio Ingroia e Michele Prestipino, proposero per due volte di archiviare, ma il Gip, attraverso un’ordinanza di imputazione coatta, decise per l’apertura del processo, con l’ipotesi, a carico mio e del cap. Sergio De Caprio, di favoreggiamento di elementi di “cosa nostra”. La vicenda penale si concluse con la nostra piena assoluzione, perché “il fatto non costituisce reato”. Nella motivazione, la 3° Sezione penale del Tribunale di Palermo, sulla decisione volta a dilazionare la perquisizione, sosteneva testualmente: «… Questa opzione investigativa comportava evidentemente un rischio che l’Autorità Giudiziaria scelse di correre, condividendo le valutazioni espresse dagli organi di Polizia Giudiziaria direttamente operativi sul campo, sulla rilevante possibilità di ottenere maggiori risultati omettendo di eseguire la perquisizione. Nella decisione di rinviarla appare, difatti logicamente, insita l’accettazione del pericolo della dispersione di materiale investigativo eventualmente presente nell’abitazione, che non era stata ancora individuata dalle forze dell’ordine, dal momento che nulla avrebbe potuto impedire a “Ninetta” Bagarella (moglie del Riina, ndr) che vi dimorava, o ai Sansone, che dimoravano in altre ville ma nello stesso comprensorio, di distruggere o occultare la documentazione eventualmente conservata dal Riina – cosa che avrebbero potuto fare nello stesso pomeriggio del 15 gennaio, dopo la diffusione della notizia dell’arresto in conferenza stampa, quando cioè il servizio di osservazione era ancora attivo – od anche terzi che, se sconosciuti alle forze dell’ordine, avrebbero potuto recarsi al complesso ed asportarla senza destare sospetti. L’osservazione visiva del complesso, in quanto inerente al cancello di ingresso dell’intero comprensorio, certamente non poteva essere diretta ad impedire tali esiti, prestandosi solo ad individuare eventuali latitanti che vi avessero fatto accesso ed a filmare l’allontanamento della Bagarella, che non era comunque indagata e le frequentazioni del sito». Sull’ipotesi, emersa già anche in quel processo, di una trattativa condotta dal Ros con uomini di “cosa nostra”, il Tribunale la escludeva con queste considerazioni: «… La consegna del boss corleonese nella quale avrebbe dovuto consistere la prestazione della mafia è circostanza rimasta smentita dagli elementi fattuali acquisiti nel presente giudizio». A conferma dell’approccio sempre manifestato, fondato cioè sulla convinzione della nostra non colpevolezza, la Procura di Palermo non interpose appello. Malgrado l’esito processuale, che non avrebbe dovuto concedere ulteriori margini di discussione, “la mancata perquisizione del covo di Riina” rimane tuttora un postulato per coloro che sostengono il teorema delle mie responsabilità penali nell’azione di contrasto a “cosa nostra”. In particolare viene sempre citata l’esistenza di una cassaforte – contenente chissà quali segreti – che sarebbe stata smurata ed asportata dall’abitazione del boss e a nulla vale presentare la fotografia, scattata anni dopo e agli atti dei procedimenti giudiziari, che ritrae il mio avvocato, il senatore Pietro Milio, a fianco della cassaforte ancora ben infissa nel muro. Nell’ipotesi peggiore, l’attività investigativa mia e dei militari che comandavo è considerata sostanzialmente criminale. Bene che vada, la tecnica operativa attuata dal Ros, mutuata dal Nucleo Speciale Antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, è definita come autoreferenziale, quindi non perfettamente in linea con i canoni stabiliti dalle norme procedurali. Di fronte a queste accuse che considero ingiuste, ritengo di dovere fare alcune considerazioni. Le critiche che mi vengono rivolte, relative alle indagini svolte dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, sono sostenute per lo più da persone che, all’epoca, in quella primavera/estate del 1992, se non erano minorenni, certamente non hanno avuto nessuna partecipazione e conoscenza vissuta degli eventi, per cui esprimono giudizi senza avere presente la realtà di quei drammatici mesi. La società nazionale ed in particolare i siciliani, già profondamente colpiti dal tragico attentato di Capaci, accolsero attoniti la nuova strage di via D’Amelio. Chi si trovava allora a Palermo poteva constatare l’angoscia e la paura diffuse, non solo tra i cittadini comuni, ma anche in coloro che per gli incarichi ricoperti avevano il dovere di contrastare con ogni mezzo “cosa nostra”. Ricordo in particolare come alcuni magistrati sostenessero che era finita la lotta alla mafia e parlassero di resa; ho ancora ben presenti tutti quei politici, giornalisti ed esperti che esprimevano il loro sconfortato pessimismo, valutando senza possibilità di successo il futuro del contrasto al fenomeno. Anche molti colleghi, tra le forze di polizia, avevano iniziato a privilegiare il più prudente e coperto lavoro d’ufficio rispetto alle attività su strada. Nessuno, comunque, a livello di magistratura ma anche da parte degli organi politici competenti, ovvero delle scale gerarchiche delle forze di polizia, ritenne, in quei giorni, d’impartire direttive o delineare linee d’azione investigative aggiornate per contrastare più efficacemente l’azione criminale di “cosa nostra”. Le istituzioni sembravano dichiararsi impotenti contro l’attacco mafioso. In particolare erano scomparsi dalla scena i protagonisti dell’antimafia militante. In questo sfacelo generale alcuni, e tra questi i Carabinieri del Ros, ritennero invece un dovere, prima morale e poi professionale, incrementare l’attività investigativa, nel rispetto della propria funzione e per onorare la memoria dei morti nelle due stragi. Decisi così d’iniziativa, ma nella mia competenza di responsabile di un reparto operativo dell’Arma, di attualizzare e rendere più incisiva l’attività d’indagine, costituendo un nucleo, comandato dal cap. Sergio De Caprio, destinato esclusivamente alla cattura di Riina ed autorizzai il cap. Giuseppe De Donno a perseguire la sua idea di contattare Vito Ciancimino, personalità politica notoriamente prossima alla “famiglia” corleonese, nel tentativo di ottenere una collaborazione che consentisse di acquisire notizie concrete sugli ambienti mafiosi, così da giungere alla cattura di latitanti di spicco. Si tenga conto che il cap. De Donno, negli anni precedenti, aveva arrestato Vito Ciancimino per vicende connesse ad appalti indetti dal Comune di Palermo, ma se si voleva ottenere qualche risultato concreto, non si poteva ricercare notizie valide tra i soliti informatori più o meno attendibili, ma avvicinare chi con la mafia aveva sicure relazioni. A proposito del contatto con Vito Ciancimino non posso essere criticato per un’attività riservata nella ricerca di notizie e di latitanti; infatti le norme procedurali consentono all’ufficiale di polizia di ricercare e tenere rapporti con quelli che ritiene in grado di fornirgli informazioni. Ciancimino quindi, libero cittadino in attesa di giudizio, era una potenziale fonte informativa e per questo avvicinabile in tutta riservatezza dalla polizia giudiziaria, così come previsto dall’art. 203 del nostro codice di procedura penale. Mario Mori

Seconda puntata degli scritti del Generale del Ros. La verità sul dossier mafia-appalti – Il memoriale di Mario Mori. Mario Mori su Il Riformista il 27 Ottobre 2021. Molti mi imputano il fatto di non avere avvertito l’autorità giudiziaria competente del tentativo di convincere l’ex sindaco di Palermo alla collaborazione. Del tentativo ritenni di dovere rendere edotte alcune cariche istituzionali. La dott. Liliana Ferraro, stretta collaboratrice di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia, ne fu informata nel corso del mese di giugno 1992, sino dai primi approcci tentati dal cap. De Donno col figlio del Ciancimino; il magistrato ne parlò a sua volta col ministro Claudio Martelli e con il dott. Borsellino. Nel luglio 1992 avvisai personalmente il segretario generale di palazzo Chigi, l’avv. Fernanda Contri, che comunicò la notizia al presidente del Consiglio dei Ministri, Giuliano Amato. Nell’ottobre successivo ne parlai ripetutamente all’on. Luciano Violante, nella sua qualità di presidente della Commissione Parlamentare Antimafia. Tutti questi contatti hanno avuto conferme da parte degli interessati nei dibattimenti processuali che mi hanno riguardato. Le personalità qui citate rivestivano cariche istituzionali e avevano funzioni che mi consentivano di riferire loro notizie riservate sulle indagini che stavo svolgendo. Se qualcuno di costoro, peraltro, avesse ravvisato qualche comportamento illecito nel mio comportamento, avrebbe avuto l’autorità, anzi l’obbligo, di denunciarlo immediatamente ai miei superiori, ovvero alle autorità politiche da cui dipendeva la mia scala gerarchica, ma questo non avvenne. La mia scala gerarchica, per suo conto, sulle indagini svolte, così come previsto, eseguì successivamente un’indagine amministrativa che si concluse senza rilevare elementi censurabili nella mia condotta. Rimane però il fatto di non avere informato la Procura della Repubblica di Palermo per un tentativo certamente non di routine che prevedeva, per me e De Donno, e questo deve essere chiaro, anche significativi rischi personali, visto che ci eravamo presentati con i nostri nomi e le nostre funzioni ad una persona legata strettamente ai “corleonesi”, avendogli precisato, dopo i primi approcci, che il nostro intento finale era quello di ottenere la cattura dei latitanti mafiosi di spicco. Sarò esplicito sul punto: decisi di non avvisare la Procura di Palermo, in attesa della sostituzione prevista di lì a qualche mese del suo responsabile, dott. Pietro Giammanco, perché non mi fidavo della sua linearità di comportamento e ne spiego qui di seguito i motivi. Quando fui nominato, nel settembre 1986, comandante del Gruppo CC. di Palermo, provenivo dall’esperienza della lotta al terrorismo condotta dal Nucleo Speciale di PG del gen. Dalla Chiesa, dove si era capito che nelle indagini contro le maggiori espressioni di criminalità – terrorismo ma anche delinquenza organizzata di tipo mafioso – si doveva agire considerando il fenomeno nel suo complesso e non per singoli aspetti. Mi resi conto che a Palermo le Forze di Polizia operavano di norma per eventi specifici – solo con Giovanni Falcone ed il pool antimafia si era cominciato ad affrontare analiticamente il fenomeno mafioso – ottenendo risultati complessivamente inadeguati. Mancava la cultura dell’indagine di lungo respiro, preferendo il più facile risultato immediato ma senza prospettive, a un’azione che, portata in profondità, consentisse alla fine di raggiungere risultati realmente consistenti. Questo concetto d’azione, cioè il differimento della perquisizione dell’abitazione, sarà alla base dell’indirizzo d’indagine prospettato ai magistrati subito dopo la cattura di Salvatore Riina. Per tornare al mio arrivo a Palermo, mi parve presto chiaro che “cosa nostra” non si preoccupava tanto della cattura di qualche suo elemento, perché sempre sostituibile, ma temeva gli attacchi alle sue attività in campo economico, quelle cioè che le consentivano di sostenersi ed ampliare il proprio potere. Individuai non nelle estorsioni, il così detto pizzo, ma nella gestione e nel condizionamento degli appalti pubblici, il canale di finanziamento più importante dell’organizzazione. Dalle prime indagini, da me assegnate al cap. Giuseppe De Donno, si evidenziò la figura di Angelo Siino quale uomo di “cosa nostra” incaricato di gestire i rapporti con gli altri protagonisti dell’affare appalti. Per la prima volta, con il sostegno convinto e fattivo di Giovanni Falcone, si sviluppò un’indagine specifica relativa alle turbative realizzate nelle gare degli appalti pubblici, partendo dagli interessi mafiosi. Emerse allora il fatto che dei tre protagonisti cointeressati (mafia, imprenditoria e politica) imprenditoria e politica, come sino ad allora ritenuto, non erano affatto vittime, ma partecipi dell’attività criminosa, concorrendo alla spartizione dei proventi illeciti. Si arrivò così a risultati concreti addirittura prima, come sostenuto dallo stesso dott. Antonio di Pietro in dichiarazioni processuali, che l’inchiesta milanese “Mani pulite” prendesse corpo e producesse i suoi effetti pratici. Infatti, all’inizio di febbraio 1991, il dottor Falcone, nel lasciare il Tribunale di Palermo per il ministero della Giustizia, chiese di depositare l’informativa riassuntiva sull’indagine che era già stata preceduta da una serie di notazioni preliminari, redatte dal cap. De Donno su aspetti particolari dell’inchiesta, tra cui quelli relativi alle attività di politici apparsi nel corso degli accertamenti. Giovanni Falcone spiegò che la consegna formale fatta nelle sue mani ci avrebbe in parte protetti dalle polemiche che l’indagine avrebbe sicuramente creato. Appena ricevuta l’informativa, il dottor Falcone la portò al procuratore capo Pietro Giammanco. Da quel 17 febbraio 1991, per mesi, malgrado le insistenze del cap. De Donno e mie, non si seppe più nulla dell’inchiesta, e questo anche se, il 15 marzo 1991, in un convegno tenutosi al castello Utveggio di Palermo, a proposito della nostra indagine, Giovanni Falcone avesse affermato: « … Si potrebbe dire che abbiamo fatto dei tipi di indagine a campione, da cui si può dedurre con attendibilità un certo tipo di condizionamento, ma l’indagine di cui mi sono occupato a Palermo, mi induce a ritenere che la situazione sia molto più grave di quello che appare all’esterno …»; e proseguendo: «Io credo che la materia dei pubblici appalti è la più importante perché è quella che consente di fare emergere come una vera e propria cartina di tornasole quel connubio, quell’ibrido intreccio tra mafia, imprenditoria e politica …». Il 2 luglio 1991, infine, furono emesse cinque ordinanze di custodia cautelare per quattro imprenditori siciliani più Angelo Siino. Dopo pochi giorni tutti, a cominciare da “cosa nostra”, seppero i risultati raggiunti dall’inchiesta e soprattutto dove questa poteva portare, perché alla scontata richiesta degli avvocati difensori di conoscere gli elementi di accusa relativi ai propri patrocinati, invece di stralciare e consegnare esclusivamente gli aspetti documentali relativi ai singoli inquisiti, così come previsto dalla norma, venne consegnata l’intera informativa: 878 pagine più gli allegati. Il procuratore Giammanco, addirittura, ritenne d’inviare l’informativa al ministro della Giustizia Claudio Martelli, iniziativa presa nell’agosto del 1991, provocando la reazione del ministro che, consigliato da Giovanni Falcone, la rispedì al mittente, rilevando e sottolineando l’irritualità della trasmissione di un atto di indagine che, in quanto tale, non poteva essere di competenza dell’autorità politica. Iniziò in quel periodo la crisi nei rapporti tra la Procura Palermo e il Ros. Nel marzo 1992 rientrò a Palermo, proveniente dalla Procura della Repubblica di Marsala, Paolo Borsellino, assumendo le funzioni di procuratore aggiunto. Tra lo stupore generale, il procuratore Giammanco, non gli delegò la competenza delle indagini antimafia su Palermo e provincia. A riguardo appare oltremodo significativa l’affermazione, riportata nella recente sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta (Borsellino quater), attribuita a Giuseppe “Pino” Lipari che, alla notizia del rientro del magistrato a Palermo, aveva sostenuto come il fatto avrebbe portato problemi a “quel santo cristiano di Giammanco ”. Il Lipari era un geometra palermitano che curava gli affari della “famiglia” corleonese. In quei primi mesi Paolo Borsellino divenne rapidamente il punto di riferimento di magistrati e investigatori impiegati nel contrasto alla mafia e continuò a mantenere costanti rapporti personali e professionali con Giovanni Falcone che il 23 maggio 1992, a Capaci, venne ucciso da una bomba che provocò anche la morte della moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e di tre addetti alla sua scorta. Da quel momento l’attività di Paolo Borsellino assunse un ritmo quasi frenetico e continuò sino alla sua fine, avvenuta il successivo 19 luglio 1992. Mario Mori

L'informativa dei Ros chiave segreta, ma fu cestinata...La rivelazione di Borsellino: “Ecco perché Falcone è stato ammazzato” – Il memoriale di Mario Mori. Mario Mori su Il Riformista il 28 Ottobre 2021. Nel periodo compreso tra l’uccisione di Falcone e quella di Borsellino (e lo sterminio delle loro scorte) si sviluppò una significativa serie di vicende riguardanti le indagini del Ros, e precisamente:

19 giugno 1992, due ufficiali del Ros, i capitani Umberto Sinico e Giovanni Baudo, informano direttamente il dott. Borsellino di avere ricevuto notizie confidenziali circa la preparazione di un attentato nei suoi confronti, precisando e che in merito erano stati formalmente allertati gli organi istituzionali competenti per la sua sicurezza;

25 giugno 1992, Paolo Borsellino mi chiede un incontro riservato che si svolge a Palermo nella caserma Carini, presente anche il cap. De Donno. Il magistrato, che già aveva ottenuto dal Ros il rapporto “mafia e appalti” quando era a Marsala – in merito ci sono le dichiarazioni processuali a conferma da parte dei magistrati Alessandra Camassa, Massimo Russo e Antonio Ingroia, oltre a quelle dell’allora maresciallo Carmelo Canale – sostiene di volere proseguire le indagini già coordinate da Giovanni Falcone che gliene aveva parlato ripetutamente e sollecita, ottenendola, la disponibilità operativa del Cap. De Donno e degli altri militari che avevano condotto l’inchiesta;

Mario Mori ci racconta come solo il Ros rimase a combattere la mafia, il memoriale del generale in quattro puntate

12 luglio 1992, la Procura di Palermo, con lettera di trasmissione a firma Giammanco, invia quasi per intero l’informativa Ros sugli appalti ad altri uffici giudiziari siciliani “per conoscenza e per le opportune determinazioni di competenza”. Per un’indagine basata sull’ipotesi di associazione per delinquere di tipo mafioso (416 bis c.p.) la procedura adottata implica, da parte della Procura mandante, il sostanziale cessato interesse per gran parte dell’indagine, infliggendole un colpo praticamente mortale;

13 luglio 1992, i sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato chiedono l’archiviazione dell’inchiesta mafia e appalti;

14 luglio 1992, in una riunione dei magistrati della Procura di Palermo, Paolo Borsellino chiede notizie sull’inchiesta e afferma che i Carabinieri sono delusi della sua gestione. Dalle successive dichiarazioni al Csm da parte dei presenti a quella riunione, emerge che nessuno gli dice che ne è già stata proposta l’archiviazione (Guido Lo Forte era tra i presenti);

16 luglio 1992, si tiene a Roma una cena tra Paolo Borsellino, l’on. Carlo Vizzini, e i magistrati palermitani Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli. Nel corso dell’incontro, a riguardo c’è la testimonianza processuale di Carlo Vizzini, il dott. Borsellino parla diffusamente dell’indagine mafia e appalti individuandola come una delle possibili cause della morte di Giovanni Falcone. Il dott. Lo Forte non informa il collega che due giorni prima, insieme al dott. Roberto Scarpinato, ne aveva chiesto l’archiviazione. Anche il giornalista Luca Rossi testimonierà in dibattimento di avere avuto, in quei giorni, un incontro con Palo Borsellino che gli parlò dell’inchiesta mafia e appalti. Vale la pena altresì ricordare, come risulta dalle plurime testimonianze dei suoi colleghi, tra cui Vittorio Aliquò, Leonardo Guarnotta, e Alberto Di Pisa, che il dott. Borsellino ritenesse come l’interesse mostrato dall’amico Giovanni Falcone per l’indagine fosse una delle possibili cause della morte di quest’ultimo;

19 luglio 1992, al primo mattino, il dott. Borsellino riceve la telefonata del procuratore Giammanco che gli conferisce la delega ad occuparsi delle indagini relative alla città di Palermo e alla sua provincia. Nel pomeriggio il magistrato viene ucciso da un’autobomba unitamente ai cinque agenti della sua scorta;

22 luglio 1992, tra giorni dopo la morte di Paolo Borsellino, il procuratore Giammanco inoltra al Gip del Tribunale di Palermo la richiesta di archiviazione per mafie e appalti;

14 agosto 1992, il Gip del Tribunale di Palermo, dott. Sergio La Commare, firma l’archiviazione dell’inchiesta. La decisione passa inosservata nella completa distrazione propria del periodo ferragostano.

Sulla base di questa sequenza di fatti e alla luce dei successivi sviluppi investigativi, si dovrebbe chiedere ai magistrati della Direzione Distrettuale di Palermo perché, il 14 luglio 1992, nella loro riunione, non fu detto a Paolo Borsellino che c’era già una richiesta di archiviazione per mafia e appalti e per quali motivi si voleva chiudere l’indagine, e inoltre perché il procuratore Giammanco non sia stato mai formalmente sentito su queste vicende. In particolare, poi, al dott. Giammanco, vissuto sino al 2 dicembre 2018, viste le polemiche nel frattempo insorte e protratte nel tempo, si sarebbe dovuto chiedere di:

… spiegare il motivo per cui solo il 19 luglio (giorno dell’attentato di via D’Amelio), previa una telefonata di primo mattino, concesse a Paolo Borsellino la delega ad investigare anche sui fatti palermitani;

… commentare l’affermazione fatta da Giovanni Falcone alla giornalista Liana Milella, quando, riferendosi alle determinazioni assunte dalla Procura della Repubblica di Palermo sull’inchiesta mafie e appalti le definì: “Una decisione riduttiva per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”;

… chiarire i termini dell’appunto rinvenuto nell’agenda elettronica di Giovanni Falcone nella quale si evidenziavano le pressioni del dott. Giammanco sul cap. De Donno al fine di chiudere l’inchiesta mafia e appalti, giustificate dal procuratore come richieste pervenute dal mondo politico siciliano che altrimenti non avrebbe più ottenuto i fondi statali per gli appalti;

… smentire eventualmente le dichiarazioni di Angelo Siino che, nel corso della sua collaborazione, sempre ritenuta fondamentale dalla Procura della Repubblica di Palermo, affermò di avere avuto l’informativa mafia e appalti pochi giorni dopo il suo deposito e che il documento gli era pervenuto, attraverso l’on. Salvo Lima, dal dott. Giammanco.

Infine mi piacerebbe conoscere perché le dichiarazioni di alcuni magistrati della Direzione Distrettuale di Palermo che il 29 luglio 1992 e nei giorni a seguire, sentiti dal Consiglio Superiore della Magistratura, avevano riferito della riunione della Dda di Palermo, tenutasi il 14 luglio 1992, e nella quale Paolo Borsellino aveva chiesto notizie sull’indagine mafia e appalti, non sono state oggetto di nessun accertamento.

Si tenga poi conto che queste dichiarazioni si sono conosciute solo a distanza di molti anni ed esclusivamente per l’iniziativa dell’avv. Basilio Milio, mio difensore, che, dopo avere collezionato negli anni vari dinieghi, qualche mese orsono ha finalmente avuto accesso a un fascicolo processuale che ha trovato presso la Procura della Repubblica di Caltanissetta e qui le ha rintracciate. Così le ha potute presentare nel corso del recente dibattimento davanti alla Corte di Assise di Appello di Palermo relativo alla presunta trattativa Stato/mafia, rendendole finalmente pubbliche. Per concludere questo argomento sottolineo che le perplessità nei confronti di alcuni indirizzi assunti dal dott. Giammanco nella gestione della Procura di Palermo, non costituivano solo una convinzione mia e di qualche altro ufficiale del Ros, ma erano radicate anche in una parte dei magistrati appartenenti al suo ufficio, che diedero anche vita a significative e pubbliche azioni di contestazione, senza che però in prospettiva, anche dopo l’arrivo del nuovo procuratore capo, il dott. Giancarlo Caselli, qualcuno ritenesse di svolgere accertamenti su quanto in quell’estate del 1992 era successo.

Dopo pochi mesi, uno dei cinque arrestati nell’inchiesta mafia e appalti, il geometra Giuseppe Li Pera, dal carcere e tramite i suoi avvocati, manifestò la volontà di collaborare, ma visti respinti i suoi tentativi di essere ascoltato dalla Procura della Repubblica di Palermo, riferì i fatti da lui conosciuti al cap. Giuseppe De Donno e al sostituto procuratore Felice Lima della Procura della Repubblica di Catania. Quest’ultimo, al termine degli accertamenti conseguenti alle dichiarazioni del collaborante, inoltrò al Gip del Tribunale di Catania la richiesta di ventitré ordinanze di custodia cautelare in carcere per associazione per delinquere di tipo mafioso ed altro, ma venne fermato dal proprio procuratore capo, il dott. Gabriele Alicata, che si rifiutò di firmare il provvedimento e decise, anche qui, di frazionare l’inchiesta in tre distinti segmenti:

-a Catania, rimase la parte riguardante un ospedale cittadino che portò all’arresto di Carmelo Costanzo, il Cavaliere del lavoro che, insieme ai colleghi Francesco Finocchiaro, Gaetano Graci e Mario Rendo, costituiva il gruppo dei cosiddetti “quattro cavalieri dell’apocalisse” e delle cui attività si era a suo tempo interessato anche il generale Dalla Chiesa. Oltre al Costanzo furono arrestati un ex presidente della Provincia e alcuni membri di una Usl locale;

-a Caltanissetta, venne avviata la parte che riguardava le accuse di Li Pera a quattro magistrati della Procura della Repubblica di Palermo, i sostituti procuratori Giuseppe Pignatone, Guido Lo Forte, Ignazio De Francisci e il procuratore capo Pietro Giammanco. L’inchiesta si concluse con l’esclusione di ogni responsabilità a carico degli indagati. Anche l’addebito, rivolto al Giammanco, di avere ricevuto denaro per ammorbidire gli esiti di mafia e appalti fu archiviato;

-a Palermo, toccò specificatamente la parte relativa a “cosa nostra”, che portò alla successiva emissione di un’ordinanza di custodia cautelare intestata a Salvatore Riina più ventiquattro, in pratica il gotha mafioso palermitano, escludendo quindi ogni responsabilità della componente politica.

In nessuno di questi tre filoni operativi fu richiesta la partecipazione dei militari del Ros che pure avevano svolto, in esclusiva, tutte le precedenti indagini. Il conflitto interno alla Procura di Catania si concluse con la richiesta da parte del dott. Lima del trasferimento al Tribunale Civile. Il comportamento del cap. De Donno, ritenuto scorretto dalla Procura della Repubblica di Palermo, fu segnalato alla Procura Generale presso la Corte di Cassazione che definì la pratica senza riscontrare alcun comportamento irregolare da parte dell’ufficiale. Sulla propaggine catanese di mafia e appalti, meglio su tutta la vicenda, mi sembra appropriato concludere citando le parole dette dal dott. Felice Lima, il 4 maggio 2021, davanti alla Commissione d’inchiesta dell’Assemblea Regionale Siciliana: «… Io avevo le stesse carte dei colleghi palermitani, ma mentre sul mio tavolo queste carte portarono i frutti contenuti in quelle duecentotrenta, non mi ricordo, pagine di richiesta, a Palermo non era praticamente successo niente, anzi c’era stata una dolorosa, dal mio punto di vista, richiesta di archiviazione». Mario Mori

Ultima puntata degli scritti del generale del Ros. Tangentopoli era in Sicilia, ma fu fatta sparire – Il memoriale di Mario Mori. Mario Mori su Il Riformista il 29 Ottobre 2021. Per completare la narrazione sulle indagini da me coordinate nel settore degli appalti pubblici, c’è da aggiungere che, vista l’impossibilità di proseguire questa tipologia di inchieste in Sicilia, sempre nel corso del 1992, spostai il reparto del cap. De Donno a Napoli, dove fu riproposta la stessa ipotesi investigativa, questa volta applicata alla camorra. Lo spunto ci proveniva dalla segnalazione di minacce e intimidazioni con danneggiamenti, di chiara origine camorristica, rivolte a tecnici e cantieri della Impregilo, società impegnata nella costruzione della linea ad alta velocità Roma-Napoli (Tav). Da una serie di riscontri ottenuti, si constatò che, anche qui, l’interesse verso gli appalti pubblici da parte di appartenenti alla camorra era prioritario. Concordammo con due magistrati illuminati, il procuratore della Repubblica di Napoli, Agostino Cordova e il responsabile di quella Direzione Distrettuale Antimafia, Paolo Mancuso, una linea di lavoro che prevedeva l’inserimento fittizio di un nostro uomo nel contesto operativo dei lavori della Tav, con la funzione di eventuale catalizzatore degli interessi illeciti, presentandolo come rappresentante dell’Associazione Temporanea d’Imprese (Ati) aggiudicataria del complesso dei lavori. In breve, il nostro uomo, il sedicente ing. Varricchio, in realtà il tenente colonnello Vincenzo Paticchio del Ros, fu contattato da elementi del clan camorristico degli Zagaria, egemone nella zona di Casal di Principe, e si dichiarò disposto ad accettare un confronto che consentisse un “sereno” svolgimento delle attività. La richiesta dei criminali prevedeva la dazione del tre per cento dell’importo dei lavori. Vi erano inoltre altre percentuali da prevedere per la componente politica e per il mondo imprenditoriale. Varricchio accettò, ma pretese che tutte le richieste fossero in qualche modo formalizzate. Alcune di queste vennero ufficializzate nel corso di riunioni, tenutesi presso l’hotel Vesuvio di Napoli e coordinate dal geometra Del Vecchio, che prese fedelmente nota dei nominativi delle imprese segnalate, delle loro richieste e da chi venivano sponsorizzate. Il geometra Del Vecchio era in effetti un abilissimo maresciallo del Ros. Tutte le operazioni furono registrate in audio e video e l’indagine si concluse con il rinvio a giudizio di camorristi, imprenditori e politici, tra cui anche il vice presidente della Regione Campania. Nel processo vennero condannati gli imprenditori e i camorristi, mentre i politici risultarono assolti in quanto “vittime di un’attività di provocazione”. Ancora mi domando che differenza effettiva ci fosse tra politici, camorristi e imprenditori, visto che analogo era stato il loro comportamento. Lo svolgimento dell’indagine condotta d’intesa con la Procura della Repubblica di Napoli dimostrò comunque che un’inchiesta nel settore degli appalti, anche con la normativa degli anni Novanta, poteva essere portata avanti se c’era coordinamento e unità d’intenti tra magistrati requirenti e investigatori. All’Università Federico II di Napoli, nella facoltà di Economia e Commercio, si tennero per anni lezioni su quella nostra indagine.

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Nel lungo tempo trascorso da quell’anno 1992, ho avuto più volte la possibilità di parlare con gli ufficiali che svilupparono con me quelle indagini sugli appalti. Il confronto ci ha portati a una serie di conclusioni:

– Il business nazionale della criminalità organizzata mafiosa era costituito dal condizionamento degli appalti che si affiancava, a livello internazionale, con quello costituito dal traffico delle sostanze stupefacenti;

-Il condizionamento degli appalti pubblici non costituiva solo l’obiettivo principale dei gruppi mafiosi, ma era fonte di guadagno illecito anche per molti imprenditori e politici, da considerare quindi non vittime ma partecipi dell’attività criminale;

– Stroncare l’inchiesta mafia e appalti, sorta ancora prima di “mani pulite”, evitava di collegare i due procedimenti giudiziari che in effetti sono stati condotti in maniera separata. Solo anni dopo, Antonio Di Pietro ha riferito dell’intenzione di Paolo Borsellino di unificare gli sforzi per gestire le rispettive inchieste, ravvisandovi una strategia unica. Lo stesso dott. Di Pietro ha ricordato di avere ricevuto dal cap. De Donno la sollecitazione ad interessarsi dell’inchiesta siciliana a fronte dell’inerzia di quella magistratura;

– L’inchiesta sviluppata dal Ros a partire dal 1990, coordinata e sostenuta da Giovanni Falcone, si è integrata senza soluzione di continuità con quella di Catania diretta dal dott. Felice Lima, e seppure stroncata con la stessa tecnica usata a Palermo, ha consentito di evidenziare anche nella parte orientale dell’isola la presenza al tavolo degli appalti pubblici degli stessi attori: mafiosi, imprenditori e politici;

– Le inchieste sugli appalti, demolite in Sicilia, hanno invece avuto più ampi sviluppi in altre zone del paese;

– Alcuni esponenti della magistratura siciliana hanno consentito, con le loro decisioni, che le inchieste sul condizionamento degli appalti pubblici abortissero nella loro fase iniziale. Prima che tutti i protagonisti di queste vicende siano scomparsi, saremmo ancora in tempo per analizzare e valutare le ragioni delle loro decisioni;

– Io e Giuseppe De Donno siamo vivi perché la morte di Paolo Borsellino ha praticamente reso inutile la nostra soppressione. Eliminato il magistrato, è stato facile neutralizzare tecnicamente l’indagine che stavamo sviluppando, senza provocare altri omicidi che avrebbero potuto indirizzare in maniera più precisa le indagini sui fatti di sangue di quell’anno: omicidio di Salvo Lima, strage di Capaci, strage di via D’Amelio e omicidio di Ignazio Salvo. Tutto ciò premesso, appare assolutamente necessario che su quanto esposto vi sia un chiarimento, insistentemente richiesto anche da altre parti coinvolte. Il lungo tempo trascorso potrà contribuire a più distaccate e serene valutazioni che, però, appaiono tuttora necessarie, perché troppe morti le hanno segnate indelebilmente.

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A conclusione di queste brevi note voglio esprimere una considerazione di carattere personale. Il Ros, costituito il 3 dicembre 1990, è un reparto investigativo a competenza nazionale che si interessa dei fenomeni di grande criminalità. Negli anni in cui era da me diretto, come peraltro avviene tuttora, conduceva indagini rapportandosi con le Procure della Repubblica più importanti del paese, tutte coordinate da magistrati di grande qualificazione professionale. Ebbene, nelle numerose attività sviluppate, solo in Sicilia, si sono verificati fatti che hanno dato origine a polemiche e inchieste di rilevanza penale, protrattesi addirittura per oltre un ventennio. Ora se è nella forza delle cose che per attività così delicate si possano verificare singoli episodi di contrasto frutto di incomprensioni e anche di errori umani tra i responsabili delle operazioni, l’ampiezza temporale delle tre inchieste, svolte in successione nei confronti miei e di alcuni ufficiali da me dipendenti, appare oltremodo indicativa, e tale da presentarsi non come il riflesso di convincimenti supportati da documenti e riscontri maturati nel tempo, ma piuttosto come l’attuazione, da parte di alcuni magistrati, di un predeterminato disegno di politica giudiziaria.

I tre procedimenti, sempre derivati dallo stesso contesto investigativo, per cui più di un giurista di fama ha parlato di “bis in idem”, volendo così indicare la riproposizione, esclusa dal nostro codice, degli stessi fatti in procedimenti diversi, sono sfociati in processi che si sono sin qui conclusi con l’identico risultato: assoluzione perché il fatto non costituisce reato. All’esito di questi ripetuti e conformi esiti processuali o siamo di fronte a un caso di clamorosa insufficienza professionale da parte di chi li ha aperti e sviluppati, ovvero le inchieste sono state condotte interpretando illogicamente o sovradimensionando gli esiti investigativi acquisiti che, infatti, non sono stati condivisi dalla magistratura giudicante. Ritengo che non si possa assolutamente parlare di mancanza di professionalità, ma invece la spiegazione vada ricercata in un approccio dei magistrati requirenti basato sulla volontà di intervenire processualmente in un campo, quello politico, che non compete al loro ordine, ma è esclusivo ambito del potere legislativo ed esecutivo.

Il magistrato, nel nostro ordinamento, deve valutare e giudicare i fatti accertati, così come afferma specificatamente l’art. 1 del nostro Codice Penale. A lui non compete in alcun modo tentare ricostruzioni più o meno avventurose in base a proprie convinzioni ideologiche che, in definitiva, portano solo a sovvertire l’equilibrata ripartizione dei poteri su cui si regge ogni democrazia compiuta. Mario Mori

Gli scritti del Generale del Ros. Il dossier di Mario Mori svela complicità tra mafia e Procura, qualcuno indagherà? Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Ottobre 2021. Nel corso della settimana che si conclude abbiamo pubblicato, in quattro puntate, il memoriale scritto dal generale Mario Mori. Si tratta di un documento eccezionale perché racconta come, nel corso del 1992, prima la mafia e poi lo Stato posero fine a quella stagione eroica – stavolta l’uso di questo aggettivo non è rito – durante la quale pochi uomini e donne coraggiosi fecero guerra a Cosa Nostra mettendola con le spalle al muro. Parecchi di loro ci rimisero la vita. Terranova, Costa, Chinnici, Falcone, Morvillo, Borsellino, Giuliano, Dalla Chiesa, Cassarà, Montana… Ho scritto solo i nomi di alcuni tra i magistrati e i poliziotti che si impegnarono e lottarono al fronte. Il memoriale del generale Mori è molto circostanziato. Nessuna delle sue affermazioni, mi pare, è priva di riscontri. Questo documento suona come un atto di accusa feroce verso una parte della magistratura italiana e – seppure non esplicitamente – verso la politica e il giornalismo che non sono riusciti a capire niente della mafia e hanno inseguito senza ragionare, e senza sapere, tesi infondate, dilettantistiche, politicamente orientate dalle ideologie o dal tifo, non dai fatti. In estrema sintesi, Mori descrive questa vicenda di inizio anni 90. Il gruppo di investigatori che sta intorno a Giovanni Falcone si rende conto che l’interesse grosso di Cosa Nostra è sugli appalti. E si inizia a indagare. Si raccolgono indizi, prove, si scoprono nuove piste, si ipotizzano collaborazioni. Borsellino è pronto a proseguire l’inchiesta, raccogliendo il testimone da Falcone. Ma a questo punto irrompono, seppure in modo evidentemente non collegato, da una parte la mafia, che uccide Borsellino, dall’altra parte un pezzo di magistratura, che seppellisce le inchieste e chiude, di colpo, le indagini sugli appalti, le connivenze, i rapporti tra Cosa Nostra, politica e imprese del Nord. Scrive, testualmente, il generale Mori: «Alcuni esponenti della magistratura siciliana hanno consentito, con le loro decisioni, che le inchieste sul condizionamento degli appalti pubblici abortissero nella loro fase iniziale. Prima che tutti i protagonisti di queste vicende siano scomparsi saremmo ancora in tempo per analizzare e valutare le ragioni delle loro decisioni». Mi sembra che sia una sfida aperta. Qualcuno vorrà raccoglierla? Pensate che ci sono Procure che oggi indagano sulla base di vaghissime e inconcludenti frasi di Graviano (ex boss della mafia non corleonese) su Berlusconi e Dell’Utri, accogliendo tesi strampalatissime e che non si reggono in piedi (come ha spiegato bene ieri Damiano Aliprandi sul Dubbio) a proposito delle stragi del 1993. Hanno addirittura ordinato delle perquisizioni a casa di parenti di Graviano. Benissimo, proviamo a prendere sul serio queste indagini (per la verità un po’ comiche): perché allora non si indaga sui fatti denunciati in maniera non vaga, ma molto precisa, non da un ex boss ma da un generale dei carabinieri, e più precisamente dall’uomo che arrestando Totò Riina inflisse alla mafia il colpo più duro dopo il maxiprocesso? Mori, nel suo memoriale, ha descritto svariate possibili ipotesi di reato. State tranquilli: saranno ignorate. Perché, per non ignorarle, bisognerebbe mettere in discussione troppi equilibri che ancora oggi governano il vertice della magistratura italiana. L’altro ieri sera il mio amico Giuliano Cazzola, collaboratore di questo giornale, ex sindacalista di vaglia, ex dirigente socialista, mi ha chiesto: ma come mai nessuno parla di questo clamoroso memoriale di Mori? Gli ho risposto nel modo più semplice. Perché il memoriale di Mori è un nuovo attacco al potere mafioso, e in Italia – escluso quel decennio degli eroi del quale ho appena parlato – non è mai esistito uno schieramento antimafia. Prima di Terranova e Chinnici, la tesi prevalente era che la mafia non esistesse. Gli intellettuali, salvo pochissimi, i giornali, salvo pochissimi, si adeguavano. Non volevano sapere, non cercavano, non capivano. Dal 1992 in poi si è ricreata esattamente la situazione precedente. Con la morte di Paolo Borsellino è iniziata la restaurazione. per qualche anno, credo, Mario Mori e il capitano De Donno e pochi altri avventurosi combattenti, hanno provato a proseguire la battaglia. Poi sono stati messi all’angolo, e successivamente ripetutamente processati con la precisa accusa di essersi impegnati nello scontro con la mafia senza rispettare le gerarchie della magistratura. L’unica vera accusa a Mori è stata questa: hai agito contro la mafia senza avvertire il procuratore Giammanco. Mori ha risposto senza giri di parole: non mi fidavo di Giammanco e avevo perfettamente ragione. Dopo tutto questo sono tornati gli anni Cinquanta. Nessuno più combatte la mafia. Nessuno, neppure la conosce. Nessuno la considera un problema. È nata però, dopo il 1992, una nuova forma di antimafia. È una organizzazione fatta di retorica spinta all’ennesima potenza, di frasi fatte, che non ha mai neppure scalfito con un temperino la potenza mafiosa, ma ha prodotto infinite attività collaterali, spesso folcloristiche, spesso lucrose, spesso produttrici di nuove professioni, di successi, di prebende, di onori, e comunque di moltissimo potere ( e di parecchie scorte). Ho risposto così a Cazzola: se nessuno si interessa del memoriale Mori è perché in Italia esiste la mafia e l’antimafia professionale, ma non esistono i nemici della mafia. Quelli che la combattono. Restano pochissimi individui, pochissimi intellettuali, pochissimi giornali, come era negli anni Cinquanta, che denunciano, raccontano, indicano le malefatte non solo della malavita ma anche dello Stato, dell’establishment, dell’editoria. Pensate al processo “trattativa”, coccolato da quasi tutta la stampa italiana. È stato dichiarato formalmente dalla Corte d’appello che era una bufala. Ma è una bufala che ha sviato, che ha rovesciato la realtà, che ha processato gli innocenti e taciuto sui colpevoli. Capisco che è un’espressione molto forte, ma oggettivamente – al di là della sicuramente ottima fede di alcuni magistrati che hanno preso un abbaglio – è stato un clamoroso depistaggio. La mafia ha brindato. Dieci anni di idee farlocche, di inchieste bloccate, di indizi che svanivano. E su questo depistaggio è stata costruita una letteratura che resterà lì, negli archivi, indelebile. Soprattutto la letteratura televisiva. Pensate che mentre era in corso il processo di appello la Rai ha messo in onda una trasmissione colpevolista da fare accapponare la pelle. Nessuno ha chiesto scusa dopo la sentenza, nessuno ha pensato a riparare, neppure Fuortes, mi pare. Come mai? Te lo dico un’altra volta, caro Cazzola: della mafia, in Italia, non frega niente a nessuno.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

La débâcle dei giornali. Trattativa Stato Mafia, da Travaglio a Bianconi il flop dei giornalisti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Ottobre 2021. Saranno stati, come disse Antonio Ingroia, l’ex pm del processo “Trattativa”, i colletti bianchi ad averla fatta franca, o non invece lui stesso, il collega Di Matteo e tutta la banda dei giornalisti che facevano la ola davanti a loro? Insomma, chi è che l’ha fatta franca? Quando, con grande senso della scenografia e piccolo senso del pudore, il presidente della corte d’assise di Palermo Alfredo Montalto scelse il ventiseiesimo anniversario dell’uccisione di Paolo Borsellino, il 19 luglio 2018, per depositare le motivazioni della sentenza che sposava l’ipotesi-bufala e condannava gli imputati per minaccia o violenza a corpi dello Stato, era stato un coro di osanna che aveva percorso l’etere e la penisola. Tre anni dopo, quando una nuova sentenza assolve tutti, si scopre che la “complessità” della mafia non va giudicata nelle aule di giustizia. Travaglio permettendo, naturalmente. I giudici avevano aspettato il novantesimo giorno, ultima scadenza consentita dalla legge dopo l’emissione della sentenza, pur di scodellare le 5.252 pagine calde calde sulla commemorazione della strage di via D’Amelio, nel 2018. E consentire ai giornali amici di titolare direttamente su Borsellino. Non solo per ricordarne il valore e il sacrificio, però. È sufficiente sfogliare qualche titolo del giorno dopo. Corriere della sera: “I giudici e via D’Amelio: il dialogo tra Stato e mafia accelerò quella strage”. La Repubblica: “Chi condannò Borsellino”. Il Fatto: “La Trattativa uccise Borsellino”. Parliamoci chiaro: quel giorno i tre alti carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, oltre al senatore Marcello Dell’Utri erano presentati come gli assassini, o quanto meno i mandanti, della strage di via D’Amelio, in particolare della sua accelerazione nei tempi. Perché, mostrando agli uomini della mafia il volto fragile e accomodante di uno Stato pronto a trattare, avevano in realtà spinto i boss dei corleonesi ad alzare il prezzo con altre bombe e altre stragi. È evidente a tutti, o forse a pochi, che la strage di via D’Amelio non aveva nulla a che fare con il processo. Ma molto con l’uso propagandistico che ha inquinato per tanti troppi anni – non si riesce più a contarli, perché le prime indagini nei confronti di Dell’Utri sono partite fin dal 1994- l’inchiesta e poi il processo su una trattativa tra lo Stato e la mafia che ormai una sentenza che possiamo considerare definitiva ha sonoramente bocciato. L’“accadimento”, il quid che avrebbe spinto Totò Riina a fare in fretta a uccidere Borsellino, “non è provato”, come scriveva sul Corriere Giovanni Bianconi, ma trovava convergenza di due fatti. Il primo, nelle parole della moglie del magistrato cui il marito avrebbe confidato in modo molto generico di aver saputo di ambienti istituzionali inquinati. Il secondo sarebbe stata un’intercettazione in carcere in cui Riina diceva a un suo complice “ma dammi un po’ di tempo”. Prove inconfutabili, come si può notare. L’assurdo è che tutta quanta l’inchiesta, compresa la sentenza di primo grado, è fatta così, ricca di congetture ed effetti scenici. Pure, queste ipotesi, il fatto che un gruppo di alti ufficiali prima e Dell’Utri dopo fossero stati interessati messaggeri delle minacce di morte da Cosa Nostra a tre diversi governi, è stata fatta propria anche da ampi settori del giornalismo militante, amico delle toghe militanti. Tanto che Attilio Bolzoni quel 20 luglio del 2018 su Repubblica scriveva che le parole scritte in quella sentenza “raccontano i cattivi pensieri che abbiamo avuto in questo quarto di secolo. Un pezzo di stato che si cala le braghe e che dà forza ai suoi nemici, un pezzo di stato che ha preferito “parlare” con i Corleonesi piuttosto che scatenarsi con tutta la sua potenza contro un potere criminale”. Una frase in cui stato è scritto con la minuscola e Corleonesi con la maiuscola. Ma sono certamente errori di battitura. Il regno dell’assurdo. Bolzoni che incensa l’ex ministro Scotti dicendo che era stato cacciato dal governo perché era stato duro nei confronti della mafia, ma forse non ricorda che in quei giorni la segreteria della Dc aveva imposto che i ministri si dimettessero da parlamentari, così perdendo l’immunità, che Scotti aveva evidentemente preferito mantenere, visti i tempi che correvano, con Tangentopoli che stava decimando gli uomini del pentapartito. E Bianconi che, scrivendo su Dell’Utri e la minaccia che avrebbe effettuato, per conto della mafia, nei confronti del presidente del consiglio Silvio Berlusconi, accenna alle famose riforme che sarebbero state gradite a Totò Riina. In quei giorni non si parlava ancora del decreto Biondi. Ma delle riforme si dice che, citiamo da Bianconi, “Non importa che queste fossero frutto di un semplice e legittimo spirito garantista della nuova maggioranza, e non dettate dal ricatto mafioso. L’importante è che tramite Dell’Utri l’avvertimento sia arrivato a Palazzo Chigi, e questo per i giudici è confermato”. Anche di questo non c’è prova, come non c’è mai stata nei confronti di Calogero Mannino che, mentre la nebulosa trattativa si trascinava dal processo di primo a quello di secondo grado, portava a casa assoluzioni a raffica. Pure, quel 20 luglio di tre anni fa, mentre l’ex ministro era stato già assolto in primo grado, il sospetto grava ancora su di lui che, terrorizzato dopo l’uccisione di Salvo Lima, sarebbe stato disposto a tutto pur di salvarsi la vita e avrebbe incaricato i carabinieri di avviare la famosa “trattativa”. Nessun dubbio solcò la fronte dei giornalisti militanti, in quei giorni. La prima assoluzione di Mannino era citata tra due virgole e tanto doveva bastare. Il nobel dell’entusiasmo come sempre va attribuito a Marchino Travaglio, che ha anche il merito di non demordere mai: trattativa era e trattativa doveva continuare a essere. E chi se ne importa delle sentenze. Tranne di una, quella del presidente Montalto. Sentite che toni lirici: “ Una sentenza che tutti gli italiani dovrebbero conoscere. E il Fatto si attiverà con ogni mezzo per divulgarla e rompere lo scandaloso muro di ignoranza..”. E poi la promessa di pubblicare a puntate le cinquemila pagine. Sai che spasso, i lettori non aspettavano altro. Qualcuno pensa che di tutta questa retorica ci sia ancora traccia sui giornali del 24 settembre 2021, il giorno successivo alla sentenza d’appello che ha sconfessato in toto l’ipotesi di Ingroia e Di Matteo fatta propria anche da Montalto? Macché, tutti virtuosi, ormai. Il direttore del Fatto si impunta su un particolare, il fatto che i mafiosi siano stati condannati per aver tentato di minacciare lo Stato, mentre gli ufficiali dei carabinieri, che non avevano mai negato di aver tentato un approccio con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino per un aiuto alla cattura di Riina (che infatti sarà arrestato all’inizio del 1993) venivano assolti “perché il fatto non costituisce reato”. E Dell’Utri addirittura per non aver commesso il fatto. La trattativa c’è stata, insiste. E quello che fu l’inventore della “Trattativa” con la T maiuscola e tra virgolette, Antonio Ingroia, non si arrende, ma lamenta il fatto che “i colletti bianchi l’hanno fatta franca”. Quanto ai due quotidiani d’opinione che abbiamo esaminato per gli articoli del 2018, navigano oggi virtuosamente tra le nuvole. Nessuno che dica “ci siamo sbagliati”, nello sposare con gli occhi chiusi quella sentenza. Porta ancora la firma di Bianconi il commento del Corriere della sera “L’uso improprio che si fa dei processi”, impeccabile nell’affermare che non sono le aule di giustizia a dover scrivere la storia. Neppure una riga di questo concetto commentava la sentenza di condanna, ci pare di ricordare. Quanto a la Repubblica, si rifugia nella “zona grigia”, nel buio in cui tutte le vacche sono nere, perché è difficile decifrare la complessità del fenomeno mafioso. L’incarico del commento è affidato a Carlo Bonini, che riesce a far bella figura perché ha letto (o ne ha sentito parlare) il libro del professor Giovanni Fiandaca e dello storico Giuseppe Lupo che nel 2014 scrissero che per giudicare la trattativa “un’aula di giustizia era troppo piccola”. Potrebbe forse regalarne una copia al collega Bolzoni, anche se non è più suo compagno di banco, e ricordare che sia Fiandaca che Lupo si sono espressi ben oltre il 2014 su questa inchiesta. Che è stata definita “una boiata pazzesca”. Sulla pelle di morti e feriti. Non solo nel corpo. Ne riparleremo quando Dell’Utri sarà del tutto libero da ogni ferita, dopo il prossimo provvedimento della Cedu sulla condanna per concorso esterno. Allora faremo la prossima analisi comparata. 

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Ora si aspetta che consegni i nastri al Parlamento. Trattativa, Scarpinato non molla: il giallo sull’intercettazione bomba dove Provenzano anticipava l’ergastolo ostativo. Redazione su Il Riformista l'8 Ottobre 2021. C’è una bomba che potrebbe avere effetti devastanti su tutta la vicenda Stato-Mafia. L’ha scoperta Damiano Aliprandi che ne ha scritto ieri sul Dubbio. Consiste in questo: Il Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, ascoltato in forma ufficiale dalla commissione giustizia della Camera, ha rivelato che esiste una intercettazione, della quale non si sapeva nulla, nella quale il boss Bernardo Provenzano, all’epoca numero 1 di Cosa Nostra, racconta di aver ricevuto garanzie sulla abolizione dell’ergastolo ostativo. Scarpinato ha citato questa intercettazione clamorosa – se ho capito bene – per portare argomenti contro l’abolizione dell’ergastolo ostativo (provvedimento del quale si sta discutendo in Parlamento) ma la portata della sua rivelazione va molto oltre il tema in discussione. L’intercettazione sarebbe del 2006. E’ inspiegabile perché non sia mai stata esibita durante i processi infiniti sulla presunta trattativa stato-mafia, tutti, finora, conclusi con l’assoluzione dei Ros e dei politici accusati dell’inciucio. Perché non è stata depositata in questi processi, in alcuni dei quali Scarpinato sosteneva l’accusa? Comunque è stato un errore grave e ora bisognerebbe intervenire per riparare. Innanzitutto conoscendo il testo esatto della intercettazione, che Scarpinato dovrebbe consegnare al Parlamento. Cioè alla Commissione giustizia, anche per dare il peso giusto la suo parere sull’ergastolo ostativo. Oltretutto la notizia dell’intercettazione è sensazionale per almeno altre due ragioni – come spiega Aliprandi sul Dubbio. La prima è che nel 2006 nessuno mai aveva pronunciato la parola “ostativo” riferita all’ergastolo. Ergastolo ostativo è una formulazione usata per la prima volta quattro anni dopo da un giurista raffinato come Andrea Pugiotto. Scoprire che Provenzano, già quattro anni prima di Pugiotto, usava questa espressione e ne aveva compreso esattamente la portata, dimostrerebbe che il numero 1 di Cosa Nostra non era – come si è sempre creduto – un personaggio rozzo e non molto istruito. Probabilmente era un intellettuale sofisticato, molto colto, esperto di diritto e addirittura capace di precorrere i tempi. Poi c’è un’altra cosa che fa sensazione. Nel 2006 nessuno conosceva la voce di Provenzano, e quindi bisognerà capire come fecero per intercettarlo. Ragionevolmente a tutte queste domande potrà rispondere Scarpinato che – se non ci saranno nuovi colpi di scena – dovrebbe consegnare nei prossimi giorni i nastri con le intercettazioni al Parlamento.

Scarpinato: «Nel 2006 Provenzano parlò dell’ergastolo ostativo!». Dov’è l’intercettazione? Il magistrato in commissione Giustizia ha riferito di un summit nel quale “u Tratturi” avrebbe detto di aver avuto garanzie sull’abolizione dell’ergastolo ostativo. Ci risulta non esserci traccia nei processi trattativa e Mori-Obinu.  Damiano Aliprandi. Il Dubbio il 7 ottobre 2021. La settimana scorsa, davanti alla commissione Giustizia della Camera, il magistrato Roberto Scarpinato ha dato una notizia che a noi de Il Dubbio risulta inedita e di grande rilevanza. «Le trattative condotte dai capi detenuti – ha spiegato l’ex capo della procura generale di Palermo – , venivano contemporaneamente seguite con piena condivisione da parte dei capi in libertà nel corso di summit di mafia, ai quali, come risulta da una intercettazione del 2006, partecipava anche Bernardo Provenzano il quale, per un verso, rassicurava tutti sul fatto che bisognava avere pazienza perché la normativa sull’ergastolo ostativo sarebbe stata smantellata così come era stato garantito…».

Si tratterebbe di un’intercettazione clamorosa

Parliamo di una intercettazione clamorosa. Se corrisponde alle esatte parole riportate da Scarpinato ( e non abbiamo motivi per dubitarne visto che sono state riferite in un luogo istituzionale) , è una prova quasi decisiva dell’avvenuta trattativa. È la prima volta che si sentirebbe parlare, direttamente dalla bocca di un boss di grandissimo calibro, dell’avvenuto patto con lo Stato volto a garantire benefici alla mafia. Il Dubbio è interessato ad avere questa intercettazione, perché mette in discussione la linea editoriale del nostro giornale sul teorema trattativa Stato-mafia.

L’intercettazione non risulta essere stata prodotta nei processi

Risulta che però non è mai stata prodotta ai processi sul tema. Uno è ovviamente il processo sulla trattativa Stato-mafia, l’altro è il Mori-Obinu. Parliamo di processi entrambi sostenuti – e persi – dalla pubblica accusa rappresentata proprio dal magistrato Scarpinato. Soprattutto per il Mori-Obinu, una intercettazione di tale portata avrebbe potuto avere effetti devastanti. Parliamo del processo sulla cosiddetta mancata cattura di Provenzano. Secondo l’accusa, nell’ottobre del 1995, pur essendo a un passo dalla cattura del boss corleonese, grazie alle rivelazioni del confidente Luigi Ilardo, gli ex Ros Mario Mori e Mauro Obinu non fecero scattare il blitz che avrebbe potuto portare all’arresto del capo mafia garantendogli un’impunità che sarebbe durata fino al 2006. Sono stati assolti con formula piena. Eppure, questa intercettazione inedita, segnalata la settimana scorsa da Scarpinato, avrebbe potuto rafforzare l’idea di una presunta impunità garantita a Provenzano. Non solo.

L’intercettazione potrebbe cambiare le carte in tavola

Anche per il processo Trattativa questa intercettazione sarebbe stata importante. Il teorema, ora sconfessato dalla sentenza d’Appello, narra che Provenzano, dopo le stragi del ’92, sarebbe entrato in gioco e avrebbe consentito la cattura di Totò Riina con la complicità degli ex Ros pretendendo, tra l’altro, che il covo del capomafia “venduto” non fosse perquisito. Non c’è alcuna prova, solo ragionamenti che secondo Il Dubbio rasentano il fallimento logico. Ma se, e non si ha motivi di dubitare, esiste una intercettazione del 2006 dove si sente Provenzano dire che lo Stato gli avrebbe garantito lo smantellamento dell’ergastolo ostativo, potrebbero cambiare le carte in tavola.

La voce di Provenzano è stata sentita per la prima volta quando fu catturato

L’intercettazione è clamorosa anche per altri due motivi. Uno riguarda la voce di Provenzano. Risulta, almeno secondo il racconto ufficiale, che è stata sentita per la prima volta l’11 aprile del 2006: ovvero quando “Zio Binnu” viene catturato. Nei mesi precedenti alla cattura, gli inquirenti hanno compiuto intercettazioni alla casa della famiglia del padrino. A tradirlo fu la biancheria. Il gruppo guidato da Renato Cortese composto da 27 uomini e una donna, riuscirono a trovare il luogo della latitanza dopo aver seguito un uomo che uscì dalla casa della famiglia di Provenzano e che trasportava della biancheria pulita.

Secondo la versione ufficiale, parliamo di un’inchiesta portata avanti non grazie alle rivelazioni dei pentiti o intercettazioni nei confronti del boss mentre partecipava ai summit di mafia, ma con un’attività investigativa “classica”. Parliamo di pedinamenti, oppure di seguire le strade percorse dai famosi “pizzini”, i pezzi di carta con cui il boss – prudentissimo, attentissimo a non usare mai telefoni e cellulari – comunicava con famiglia e affiliati. Anche al momento dell’arresto, Provenzano ne aveva alcuni in tasca. E vicino a lui – sorpreso mentre cucinava della cicoria – la famosa macchina da scrivere utilizzata per impartire ordini.

Il termine “ergastolo ostativo” è stato coniato nel 2010 dal giurista Andrea Pugiotto

C’è anche un altro motivo che risulta a dir poco clamoroso. Scarpinato, sempre riferendosi a questa intercettazione del 2006, dice testualmente che Provenzano avrebbe appunto parlato di “ergastolo ostativo”. Un motivo in più per poter leggere queste intercettazioni. Sì, perché in quel periodo, nemmeno i giudici e avvocati conoscevano il termine di “ergastolo ostativo”. Non compare in nessuna norma, ma è un’espressione coniata dalla dottrina a partire dal 2010, primo tra tutti dal giurista Andrea Pugiotto grazie ai saggi sull’argomento.

Per essere ancora più precisi, ci viene in aiuto l’ex ergastolano ostativo Carmelo Musumeci. A Il Dubbio racconta che fino a meno di dieci anni fa, nessun detenuto condannato all’ergastolo per reati di mafia si era reso conto cosa prevedesse tale norma, nata dopo la strage di Capaci. Nessuno di loro lo sapeva perché ancora non avevano maturato i termini. Ma quando gli arrestati di quel periodo hanno cominciato a maturare 20/25/30 anni e più di carcere, si sono scontrati con l’ostatività dei loro reati.

Uno dei primi a rilevare la criticità dell’ergastolo ostativo è stato il presidente del tribunale di Sorveglianza di Perugia

Uno dei primi tribunali di Sorveglianza che ne parlò è stato quello di Perugia, presieduto da Paolo Canevelli, il quale in un intervento al Convegno carceri del 2010 disse: «Per finire, e qui mi allaccio al progetto di riforma del Codice Penale, non so se i tempi sono maturi, ma anche una riflessione sull’ergastolo forse bisogna pur farla, perché l’ergastolo è vero che ha all’interno dell’Ordinamento dei correttivi possibili con le misure come la liberazione condizionale, ma ci sono moltissimi detenuti oggi in Italia che prendono l’ergastolo tutti per reati ostativi e sono praticamente persone condannate a morire in carcere».

L’intercettazione andrebbe messa a disposizione dei politici che stanno modificando la legge sull’ergastolo ostativo

Ora però cambia la storia. Esiste una intercettazione, almeno secondo quanto ha riferito il magistrato Scarpinato in commissione Giustizia, dove Provenzano avrebbe coniato il termine “ergastolo ostativo”. Nel 2006 non lo conoscevano i giudici, gli avvocati e nemmeno i detenuti stessi ristretti nelle carceri. Il boss detto anche “’u Tratturi” (il trattore), risulterebbe quindi un fine conoscitore della dottrina. Ha coniato il termine anni prima dei giuristi. A questo punto, le intercettazioni, se non sono state prodotte in commissione Giustizia, bisognerebbe farlo. Sono parole clamorose, se letterali così come riportate da Scarpinato. L’intercettazione andrebbe fatta leggere e messa a disposizione soprattutto dei politici che stanno elaborando una nuova legge sull’ergastolo secondo quanto indicato dalla Consulta. C’è chi – come soprattutto il M5S – vuole restaurare l’ergastolo ostativo, soprattutto sulla base di racconti di questo tipo.

Scarpinato parla di trattative ma la storia è diversa e l’ergastolo ostativo non c’entra. Il magistrato cita le intercettazioni di Giuseppe Lipari, l’uomo degli appalti di Bernardo Provenzano, nelle quali non si fa riferimento ad alcun patto tra Cosa nostra e lo Stato. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 13 ottobre 2021. Si dà atto che il magistrato Roberto Scarpinato ha spiegato in maniera più approfondita sul Fatto Quotidiano il contenuto dell’intercettazione riferito in commissione Giustizia della Camera. Risale al 2000, non era Bernardo Provenzano a parlare, non si è parlato di ergastolo ostativo (termine coniato dieci anni dopo) e, almeno secondo il virgolettato riportato, nemmeno di garanzie da parte dello Stato.

L’intercettato era Giuseppe Lipari, l’uomo degli appalti di Provenzano

A essere intercettato era Giuseppe Lipari, l’uomo degli appalti per conto di Provenzano, colui che, quando Borsellino fu applicato alla Procura di Palermo, aveva commentato il fatto dicendo che – come riporta il Borsellino quater – avrebbe creato delle difficoltà a «quel santo cristiano di Giammanco». Il magistrato Scarpinato fa riferimento a un vecchio articolo di Attilio Bolzoni del 6 febbraio del 2001. A questo punto vale la pena ripescarlo. Si dà notizia dell’intercettazione dell’uomo d’affari di Cosa nostra (ora sappiamo che è Lipari) che, qualche tempo prima, aveva partecipato a un summit di mafia convocato da Provenzano. Riferisce a un suo interlocutore che i temi del summit erano due: i soldi di “Agenda 2000” e la situazione dei carcerati.

La strategia del “basso profilo” puntava all’accaparramento degli appalti

Per quanto riguarda il primo, si tratta dei fondi europei sugli appalti. Per questo motivo, dice Lipari, al summit hanno detto «di non far rumore e di non attirare mai l’attenzione perché ci dobbiamo prendere tutta questa Agenda 2000…». Bene. Ecco spiegato intanto il motivo principale della strategia del “basso profilo”: l’accaparramento degli appalti. Poi Lipari, e arriviamo al secondo tema, aggiunge: «e poi bisogna pensare ai detenuti che sperano nell’abolizione dell’ergastolo…». Ecco qui. Si parla della speranza dei detenuti nell’abolizione dell’ergastolo e di evitare che, per altri fatti di sangue, lo Stato reagisca pesantemente come già accaduto. Ma il fine pena mai è un tema da sempre discusso a livello politico. Una questione di civiltà, ma che può essere letta anche in chiave “trattativista”. Non si parla dell’ergastolo ostativo che è ben altra cosa. Ci viene in aiuto proprio Scarpinato nell’articolo de Il Fatto. Spiega che l’anno prima, nel 1999, il Parlamento ha varato la legge numero 479/99. In sostanza, parliamo della legge Carotti (prende il nome del deputato, persona integerrima e per bene, che la propose), che consente l’accesso al rito abbreviato nei procedimenti relativi ai reati punibili in astratto con la pena dell’ergastolo. In tal modo, si poteva ottenere la conversione della pena dell’ergastolo a 30 anni.

Lipari si riferisce all’ergastolo semplice e non all’ostativo

Ebbene, anche i reclusi mafiosi ovviamente decisero di approfittare della opportunità di questa legge. Ci furono polemiche e, nel giro di pochi mesi, la legge fu modificata, escludendo con un escamotage i condannati per mafia. Tale legge, grazie alla Lega, è stata, di fatto, abolita definitivamente nel 2019. Il problema, però, è che la legge Carotti non è frutto di alcun patto, alcuna trattativa. I fatti stessi narrati, la sconfessano. In realtà, forse a Scarpinato è sfuggito che il tema dell’ergastolo era molto discusso in quegli anni. Probabilmente la speranza dei detenuti, ai quali fa riferimento Lipari, risiede in un’altra circostanza. Parliamo dell’ergastolo in quanto tale, non quello “ostativo”. Correva l’anno 1998. Con 107 voti a favore, 51 contrari e otto astenuti l’assemblea di palazzo Madama approvò in prima lettura il disegno di legge per l’abolizione del fine pena mai. Molti degli allora Democratici di Sinistra, Rifondazione Comunista, Verdi, ma anche del Partito Popolare, approvarono con convinzione il provvedimento, portando avanti argomentazioni che oggi sono un lontano ricordo tra i banchi del Parlamento. Come non ricordare la relazione in difesa della proposta di legge fatta da Salvatore Senese, tra i fondatori di Magistratura Democratica, giurista colto e rigoroso, scomparso recentemente nel giugno 2019? E se fosse passata, cosa si sarebbe detto oggi? Letture dietrologiche delle complessità non aiutano e rischiano di creare l’antica prassi reazionaria della paranoia legata alla politica. Nell’articolo de Il Fatto si evocano dei contatti tra l’allora procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna e i boss di Cosa nostra in carcere. E si parla erroneamente di “dissociazione”.  No, le cose sono diverse. Purtroppo l’equivoco nasce dagli articoli dei giornale d’allora. Tra l’altro Vigna non è più tra noi per potersi difendere.

Salvatore Biondino si fece ambasciatore per incontrare Vigna

Ecco i fatti. Salvatore Biondino, ergastolano e figura di spicco della cupola, si fece ambasciatore di altri detenuti mafiosi per incontrare Vigna. Non trattativa, termine abusato, ma si trattò di colloqui investigativi permessi dalla legge. Nessuna dissociazione (altro termine giornalistico uscito all’epoca), ma dichiarazione di voler sciogliere il vincolo associativo riconoscendo l’autorità dello Stato e della legge. In sostanza, visto la crisi interna alla Cupola dopo la sconfitta dell’ala corleonese di Riina, si parlò di un atto di scioglimento dell’organizzazione. Tentativo non andato in porto. Nessuna richiesta di nuove leggi, abolizione dell’ergastolo, nessun patto. Parliamo di colloqui investigativi messi a conoscenza del Dap, dell’allora ministro della Giustizia Piero Fassino (governo Amato II) e delle procure. Lo stesso boss Pietro Aglieri, deponendo al processo Borsellino quater, ha spiegato che – durante il colloquio investigativo con Vigna -, non ha mai parlato di dissociazione, ma di “desistenza”. Nessuna trattativa quindi. L’allora ministro Fassino ha ribadito con fermezza che tutto è avvenuto in modo estremamente semplice e trasparente nell’ambito di normali o straordinarie attività del procuratore nazionale. I fatti dimostrano che nulla è stato toccato. Il 41 bis, come la storia insegna, non solo non sarà ammorbidito, ma anni dopo, con il governo Berlusconi, sarà reso più rigido con la legge del 2009 a firma dell’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano. Ma ora ritorniamo con i piedi per terra. Se ogni decisione politica, volta all’idea progressista dell’esecuzione penale, viene letta sotto una chiave “trattativista”, non se ne esce più. C’è il rischio, senza volerlo, che il dibattito si intossichi. Prendiamo ad esempio l’ergastolo ostativo. Sono pochi anni che se ne discute. La svolta si è avuta grazie ai magistrati stessi che hanno sollevato questioni di illegittimità costituzionale relativamente alla parte del 4 bis nella quale la collaborazione con la giustizia viene considerata un parametro assoluto per accedere ai benefici.

Le proposte di legge per la modifica dell’ergastolo ostativo riguardano molti detenuti che non sono boss

In realtà, nasce anche un altro enorme equivoco di fondo. La discussione della proposta di legge per la modifica dell’ergastolo ostativo (il ddl proposto dalla deputata del Pd Enza Bruno Bossio è accolta con favore dai magistrati di sorveglianza, gli unici togati che in commissione Giustizia sono entrati nel merito), pare che sia destinata a boss e capomafia in regime duro. Ma il regime differenziato ha altri parametri più duri. Si parla sempre di loro, mentre ci si dimentica che la stragrande maggioranza di ergastolani ostativi non hanno ruoli apicali e non sono in 41 bis. Si cita nuovamente Giovanni Falcone. Sarebbe bello però ricordare che il giudice stesso, introducendo per la prima volta il 4 bis, aveva previsto la possibilità di concedere i benefici penitenziari anche al detenuto che decide di non collaborare con la giustizia. Ovviamente avrebbe dovuto aspettare molto più tempo rispetto al collaborante. La legge fu resa più restrittiva (e incostituzionale) per reazione alla strage di Capaci. È proprio vero che la Storia insegna, ma non ha scolari. Il gioco del potere lo vediamo nei cosiddetti “dispositivi”, i luoghi totalizzanti evidenziati da Foucault in “Sorvegliare e Punire”.

Un articolo del magistrato sul Fatto. Scarpinato non si arrende e scopre altre trattative…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Ottobre 2021. Se non ci fu trattativa tra la mafia e lo Stato piegato ai voleri del papello di Totò Riina negli anni 1992-93 (lo dice ormai una sentenza), la stessa “trattativa” è continuata negli anni successivi e fino a oggi. Dopo l’audizione alla Commissione giustizia della Camera, il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, sconfitto e umiliato dalla sentenza di Palermo che ha bocciato la sua ipotesi sulla “trattativa”, ha vergato sul Fatto una nuova analisi, inedita. E ha colto l’occasione di un parere sull’ergastolo ostativo per riproporre il tema di sempre: trattativa, trattativa. Eterna. Per descrivere il pensiero dell’alto magistrato sull’ergastolo “ostativo”, che è quasi una condanna a morte perché non consente l’applicazione di nessun beneficio penitenziario e non dà nessuna speranza per il futuro, non dovrebbero occorrere molte righe, e soprattutto le paginate del quotidiano di riferimento dei pubblici ministeri. Semplicemente il procuratore generale di Palermo, come altri inquirenti “antimafia”, non accetta le delibere della Cedu e della Consulta che invitano al rispetto degli articoli 3 e 27 della Costituzione. Se la pena deve tendere alla rieducazione e al reinserimento del detenuto nella società, nulla può “ostare”, nulla può fermare il percorso di riabilitazione di ogni singolo prigioniero. Il percorso non può che essere individuale, e monitorato da una schiera di operatori penitenziari e sociali oltre che giudiziari (i giudici di sorveglianza) prima che si possa aprire qualche porta o finestra del carcere. Al pm Scarpinato, e agli altri magistrati che la pensano come lui, tutto questo non basta e lo dichiara esplicitamente: l’ergastolano mafioso ha solo una via d’uscita, il “pentimento”, la collaborazione totale. Poco importa se non ha da dire nulla di nuovo, o se teme le vendette trasversali o se non gli va di tradire i suoi complici o se nei fatti ha dimostrato di non essere più pericoloso, anche perché guarito dal passare del tempo, come detto di recente da un pm più saggio come John Woodcock. La spiegazione che il procuratore generale di Palermo ha dato ieri nel suo articolo è abbastanza esplicita. Questi mafiosi ergastolani devono parlare della “trattativa”. Quale? Quella che dal 1992 non è mai cessata. Insomma, tirino fuori i nomi dei “mandanti occulti” delle stragi. Ci risiamo, la sentenza della corte d’appello di Palermo che ha cestinato l’ipotesi tanto cara e coltivata con amore da Scarpinato, Di Matteo, Ingroia e altri loro colleghi per anni, è accantonata e rilanciata come in un’accesa partita di poker. Dal 1992 a oggi, la trattativa non si sarebbe mai fermata. Totò Riina chiedeva, per far cessare le stragi, una revisione dei processi e l’abolizione dell’ergastolo? Ecco come, nel corso degli anni, si sarebbe sviluppata la strategia degli uomini di Cosa Nostra, dentro e fuori dalle carceri, sia i corleonesi che gli uomini del latitante Bernardo Provenzano, per mostrarsi “dissociati”. Un po’ come i protagonisti dei processi di terrorismo, cioè coloro che ammettevano le proprie responsabilità senza denunciare altri. Il che apre già qualche dubbio, su questa nuova ipotesi politico-giudiziaria, che pare fantasiosa quasi quanto quella della originaria trattativa. Anche perché, dal primo tentativo di un certo Cocuzza abortito nel 1996, di cui però non viene detto con chi avrebbe “trattato” all’interno delle istituzioni, secondo il pm Scarpinato, «le manovre proseguono sottobanco». «Nella primavera del 2000 il procuratore nazionale antimafia Vigna scrive al Ministro della giustizia Fassino che quattro detenuti, il cui capofila è Pietro Aglieri, altro fedelissimo di Provenzano, hanno chiesto di incontrare altri capi mafia detenuti per decidere la dissociazione da Cosa Nostra». La cosa non andrà in porto perché il guardasigilli consulterà Giancarlo Caselli, allora capo del Dap, il quale darà parere negativo. Quindi in che cosa consisterà la “trattativa”, nell’iniziativa di Pierluigi Vigna, che tra l’altro non essendo più in vita non può dare la propria versione dei fatti? Ma «la trattativa riprende subito il 28 marzo 2002 quando Aglieri manda una lettera a Vigna…» di nuovo per una riunione tra aspiranti alla dissociazione. Questa volta l’iniziativa sarà bloccata da Pietro Grasso, procuratore di Palermo. E poi ancora un’altra richiesta di incontri nel carcere dell’Aquila sarà stoppata dal ministro di giustizia Roberto Castelli. Quindi lo Stato non ha mai ceduto, neanche alle ripetute richieste di incontri tra condannati per mafia nelle carceri. Che senso ha quindi questo “ultimo atto dell’eterna trattativa”? Siamo sicuri che si stia parlando di ergastolo e non della riproposizione dell’eterno ritornello sui “mandanti occulti” che, nonostante tentativi durati quasi trent’anni non sono mai stati trovati? È sicuro che esistano, dottor Scarpinato?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Ecco l’intercettazione riferita da Scarpinato: il “giocattolo rotto” era la “vecchia” mafia. In una conversazione registrata il 2 agosto 2000 Giuseppe Lipari, l’uomo di Provenzano, si riferiva al cambio di strategia rispetto alle indicazioni dal carcere di riina: non più stragi, ma invisibilità per gestire gli appalti. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 16 ottobre 2021. Il Dubbio ha preso in grande considerazione le dichiarazioni del magistrato Roberto Scarpinato in merito alle intercettazioni nelle quali, a un certo punto, si parla di “giocattolo rotto” riferendosi ad un summit dell’estate del 2000 indetto da Bernardo Provenzano. Il tema del contenuto era stato esposto in commissione Giustizia della Camera, nel corso dell’audizione sull’ergastolo ostativo.

Nelle intercettazioni non si parla di trattative

Ora abbiamo visionato le intercettazioni ed emerge con più chiarezza che non si parla di alcun patto o trattative con lo Stato, ma cambio di strategia, rompendo con le indicazioni di Riina o Bagarella dal carcere. Come spiega il gip nell’ordinanza relativa al procedimento penale n. 3779/2003 della Dda di Palermo, il contenuto dell’intercettazione si sintetizza così: metabolizzare le conseguenze delle “scelte sbagliate” del passato (quelle di Riina) e ricucire i vecchi strappi, per poter rimettere il “giocattolo in piedi” e realizzare gli obiettivi di sempre, ovvero appalti e potere mafioso. Parliamo di una intercettazione che fu eccezionale per l’alto valore probatorio. Tant’è vero che è servita anche per confermare le parole del pentito Antonino Giuffrè, uno dei boss principali di Cosa nostra che partecipò a diversi summit organizzati da Provenzano. In particolare proprio gli incontri dell’estate del 2000 dove erano state affrontate – come dice lui stesso – «appalti … nell’ambito dei discorsi di Cosa nostra, come andavano processi, 41 bis, cioè c’erano un pochino le problematiche che c’erano in questo periodo».Ma ora veniamo alla famosa intercettazione.

Era il 2 agosto 2000 e Giuseppe Lipari parla con Salvatore Miceli

Si tratta di una conversazione registrata il 2 agosto 2000 all’interno del residence Conturrana di San Vito Lo Capo. Giuseppe Lipari, che vi trascorre le ferie e conversa con Salvatore Miceli, all’epoca già condannato per il reato di partecipazione all’associazione mafiosa Cosa nostra con sentenza che diverrà poi definitiva. Il clima della conversazione è estremamente confidenziale e le circostanze riferite da Lipari sono lo specchio fedele dello “stato” dell’organizzazione di quel momento. A questo punto è utile riportare i passaggi fondamentali. Solo così diventa comprensibile la vicenda del “giocattolo rotto”. È Miceli che si rivolge a Lipari. La discussione è sul dopo Riina, ovvero la gestione da parte di Provenzano: «Comunque tutte cose cambiate sono!». Lipari risponde: «Sono cambiate ma, si sta cominciando». Ed ecco che il suo interlocutore, Miceli, usa la frase estrapolata dai giornali di allora: «Ogni tanto mi fa ridere … dice … si è rotto il giocattolo! È scappato questo … è marsalese, è combinato male pure … e allora ci siamo incontrati cose … Salvatò, si è rotto il giocattolo!».

“Signori miei rimettiamo questo giocattolo in piedi”

Lipari dice a Miceli se conosce il carattere di Provenzano, il suo modo di gestire e la situazione di stallo dopo tutti gli arresti dell’ala corleonese di Riina. Poi va dritto al punto, riferendosi al summit dove ha partecipato Provenzano, Giuffrè e altri boss: «Qua sono … perciò … e giustamente quello è restio per una cosa, per dire “signori miei, rimettiamo questo giocattolo in piedi – che succede – se io, dice, non ricevo dal carcere le indicazioni di farlo … perché … significa che io devo andare contro di loro!”». In sostanza, per indicazioni del carcere, Lipari si riferisce a Riina e Bagarella che hanno una gestione diversa, quella stragista. «Contro Totuccio (Riina, ndr) … contro Bagarella», sottolinea Lipari. E aggiunge: «Perché … le situazioni furono quelle che furono … a questo punto io gli dissi: “Senti Bino (Provenzano, ndr), qua non è che abbiamo più due anni …, non ti seccare Bino”, io me la prendo questa libertà perché ci conosciamo».

Si decise il cambio di strategia: basta con le stragi

Come spiegato nell’atto giudiziario dove viene riportata l’intercettazione, la discussione del famoso summit fu proprio il cambio di strategia. Quella della “sommersione”, in maniera tale di agire indisturbati senza destare allarme. Lipari, infatti, spiega al suo interlocutore: «Gli dissi: “figlio mio, né tutto si può proteggere, né tutto si può avallare, né tutto si può condividere di quello che è stato fatto! Perché del passato ci sono cose giuste fatte … e cose sbagliate … bisogna avere un po’ di pazienza!”». Ci vengono in aiuto le dichiarazioni di Giuffrè, corroborate appunto da questa intercettazione. Escusso dai magistrati, spiega che durante il famoso summit, si parlò della gestione degli appalti. «Il discorso appalti era stato affrontato – ha spiegato Giuffrè – e in tutta onestà diciamo che era abbastanza un discorso sempre di attualità e che noi per quanto riguarda il discorso della tangente riuscivamo sempre a controllare abbastanza bene. Ed anche in questo sempre su consiglio di Pino (Lipari, ndr), cercare di non fare rumore cioè alle imprese quando magari c’era qualche impresa di questa che era un pochino tosta, diciamo che non si metteva a posto, di non fare nemmeno rumore, cioè facendo fuoco, danneggiamenti… cioè di muoversi con le scarpe felpate, cercare di non fare, muoversi senza fare rumore».

Il tavolino a tre gambe per spartire i lavori

Giuffrè ha anche ricordato il ruolo di Lipari nel cosiddetto tavolino a tre gambe: mafia, politici e imprenditori: «Il Siino e il cosiddetto Tavolino. Il Siino perché? Perché è stato a tutte le gare di una certa entità, di una certa consistenza e come abbiamo detto sono state tolte dalle mani del Siino ed è passato questo potere al cosiddetto Tavolino, cioè dove troviamo quella persona dietro le quinte di cui ho parlato poco fa Pino Lipari, assieme ad altre persone, Salamone, l’ingegnere Bini e i fratelli di Bocca di Falco Nino e Salvatore (Buscemi ndr) che non mi ricordo il nome. E ripeto, dietro le quinte il discorso veniva pilotato da Pino Lipari. Questo tavolo aveva appositamente la funzione di spartire sin dall’inizio i lavori garantendo le tangenti una volta che la gara fosse stata espletata ed appaltato i lavori agli uomini politici da un lato, e alla zona, alla famiglia mafiosa dove ricadeva il lavoro». Ma quindi, perché Lipari ha consigliato di rimettere il giocattolo a posto, non commettendo atti di sangue come fece Riina? Lo spiega sempre Giuffrè. Provenzano, assieme ad altre persone particolarmente a lui vicine come appunto Lipari, comincia a portare avanti il processo di sommersione, cioè, – ha sottolineato sempre Giuffrè davanti agli inquirenti – «rendere Cosa nostra invisibile affinché ci si potesse con calma riorganizzare».

I nomi era già contenuti nel dossier mafia-appalti

Non si può non notare che il tavolino a tre gambe – basti pensare i nomi citati da Giuffrè che ancora nel 2000 erano “attivi” -, era stato già svelato nel ‘91, quando venne depositato , per volere di Giovanni Falcone, il dossier mafia-appalti redatto dagli allora ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno. Altro che informativa “light”. Così leggera che, a distanza di anni, ritroviamo alcuni passaggi del dossier in diverse inchieste giudiziarie che si sono succedute nel tempo. Ricordiamo ancora una volta che Giuffrè è uno dei pentiti che ha fin da subito “svelato” la concausa delle stragi di Capaci e Via D’Amelio: mafia e appalti. Anche queste intercettazioni, evocate da Scarpinato, fanno capire quale sia sempre stato l’interesse primario della criminalità organizzata. Cosa, tra l’altro, che Falcone sottolineò durante un convegno organizzato il 15 marzo del 1991 presso Castel Utveggio, che si può trovare su Radio Radicale.

Alle ultime battute. Stato Mafia, il processo più scombiccherato del mondo. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Settembre 2021. Se esiste ancora un brandello di questa giustizia a brandelli, fra qualche ora o fra pochi giorni Marcello Dell’Utri dovrebbe uscire assolto in appello dall’ accusa di aver complottato contro lo Stato. Insieme a lui anche gli ex capi del Ros, Mario Mori, Giuseppe De Donno, Antonio Subranni. E il mafioso Leoluca Bagarella, anche in rappresentanza dei defunti Totò Riina e Bernardo Provenzano. Tutti condannati in primo grado senza prove né movente nel processo Trattativa, per una trattativa che non c’è stata. Mai si vide un processo più strampalato, mai si sono visti accomunati nella stessa aula e con la stessa accusa imputati così diversi, così opposti tra loro e le loro vite. Mai è stato contestato un reato come la minaccia a corpo politico dello Stato, cioè un’azione violenta per impedire la libera attività del governo e del parlamento, senza che nessuno se ne sia mai accorto. Andrà in scena nei prossimi giorni la sentenza d’appello del famoso Processo Trattativa, quello che ha messo insieme un gruppo di mafiosi, alcuni alti dirigenti del Ros e alcuni personaggi politici, accusati e già condannati in primo grado per aver congiurato contro lo Stato. Il movente? Aiutare la mafia. In che modo? Non si sa, perché il capo della congiura, Calogero Mannino, nel processo non c’è, assolto in procedimento parallelo, con una sentenza dei giudici indignati anche per l’accanimento dei pubblici ministeri. Come è finita nel 2018 nel processo di primo grado? Dei mafiosi è rimasto solo Leoluca Bagarella, Riina e Provenzano sono morti, il “pentito” Brusca assolto e Massimo Ciancimino ha visto prescritto il suo reato. Sono usciti così dal processo i due grandi accusatori. Dei politici è rimasto solo Dell’Utri, entrato in politica nella seconda repubblica e che nulla aveva a che vedere con la genesi di questa inchiesta. Alla sbarra saranno anche il comandante del Ros dei carabinieri Angelo Subranni, il suo vice Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno. I tre non hanno mai negato di essere entrati in contatto con don Vito Ciancimino con lo scopo di usarlo come cavallo di Troia all’interno della mafia per arrivare alla cattura di Totò Riina. Non va dimenticato il fatto che all’epoca del maxiprocesso voluto da Falcone tutti i boss dei corleonesi erano latitanti e che la politica dell’infiltrazione era parsa in quel momento l’unica via da percorrere, non solo ai carabinieri ma anche ai magistrati, compreso Giancarlo Caselli quando era arrivato alla procura di Palermo, non essendo ancora iniziata la stagione del “pentitismo” diffuso su larga scala. Ma le buone intenzioni vengono interpretate come apertura di credito nei confronti della mafia. I tre dirigenti del Ros avrebbero svolto il ruolo di staffette tra Cosa Nostra e lo Stato. Così dicono il “pentito” Giovanni Brusca e il teste farlocco Massimo Ciancimino (condannato per calunnia prima della prescrizione), i due accusatori usciti dal processo. Ma anche quelli che sono rimasti, i cospiratori, hanno visto le proprie fila decimate. Sparito Calogero Mannino, assolto nel processo parallelo con il rito abbreviato che ha fatto a pezzi tutta quanta la costruzione dell’ipotesi d’accusa, definita fantasiosa a arbitraria. Insieme all’esponente democristiano sono finite in fumo le fondamenta dell’inchiesta, perché proprio Mannino sarebbe stato il promotore della congiura, quella di aprire un dialogo amichevole con i capi dei corleonesi in cambio di una serie di favori alla mafia secondo le precise richieste fatte avere da Totò Riina con il famoso “papello”. Che però non è mai esistito, e questo è appurato. La presunta prova era un falso, hanno stabilito i giudici. E Mannino non è mai stato promotore di alcuna trattativa con la mafia per salvarsi la pelle. E la vicenda di quei 300 detenuti in regime di 41 bis (di cui solo una quarantina definibili come mafiosi, ma di basso rango) che il ministro Conso, dopo i pareri degli uffici dei giudici di sorveglianza, aveva singolarmente derubricato con l’invio a un regime di detenzione ordinaria, era stata motivata come conseguenza di una decisione della Corte Costituzionale. La quale, secondo un orientamento che verrà mantenuto anche negli anni successivi fino alle sentenze più recenti, aveva imposto trattamenti detentivi individualizzati e non legati solo alla gravità del reato. Sgombrato quindi il campo dalla presenza del capo dei congiurati, e poi anche del vice capo Nicola Mancino, che era stato rinviato a giudizio per falsa testimonianza e che è stato assolto, la pubblica accusa avrebbe potuto arrendersi. Invece no. La prima mossa è stato il tentativo, veramente maldestro, di mettere in discussione, con ricorsi alla corte costituzionale, alla cassazione e sa dio davanti a quale organo ancora (perché non al Tar?), la legge del 2017 che impedisce l’accanimento nei confronti di imputati assolti in due gradi di giudizio. E poi con il deposito presso il processo d’appello delle famose 78 pagine firmate dai sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, che cercano di demolire le motivazioni di tutti i giudici, a partire dal gip e dal gup fino a quelli dei tribunali, che hanno assolto Calogero Mannino. Ora, va bene che in Italia, unico paese del mondo occidentale, non si riesca ad attuare la separazione delle carriere. Ma non si è mai visto che l’organo dell’accusa impugni il pennarello blu e sottolinei tutti i presunti errori di valutazione di una serie di giudici. E nel mondo delle toghe come in quello della politica nessuno dice niente, se si esclude un’interrogazione parlamentare di Gianfranco Rotondi. Se il malloppo peserà sulle spalle dei giudici dell’appello che tra poco prenderanno la loro decisione, è difficile da valutare. Ma il presidente Angelo Pellino non ha notato l’anomalia che ha il sapore di prevaricazione finalizzata a influenzare la sentenza? Certo, nelle corti d’assise l’incognita sono i giudici popolari, che subiscono il martellamento mediatico di un solo colore, e non è mai quello del dubbio, quello di sentire anche le ragioni della difesa, oltre a quelle dell’accusa, sempre più altisonanti, sempre più gridate. L’incognita c’è ed è in agguato. Le prime sentenze sulla strage di via d’Amelio con le condanne degli innocenti e la gestione del falso pentito Scarantino sono lì a dimostrarlo. Giudici togati, quindi tecnici del diritto, e giudici popolari si abbeverarono fiduciosamente alle parole del pentito farlocco persino quando lui stesso denunciò di aver accusato persone che con l’omicidio Borsellino non avevano nulla a che fare. Non fu creduto. Furono creduti coloro che il finto pentito lo avevano costruito con le torture nel carcere speciale. Alla vigilia della camera di consiglio e della sentenza sul processo “trattativa” non resta quindi che sperare sul fatto che sia il presidente che il giudice laterale con le loro competenze tecniche da un lato e i giudici popolari con la propria integrità di persone per bene dall’altro, abbiano fatto quel che in genere la stampa non fa, e cioè che abbiano saputo ascoltare. E non abbiano staccato l’orecchio, come sempre fanno i giornalisti militanti in procura, dopo la requisitoria del pm. Ma è ben strano, questo processo. Perché la sceneggiatura è in continua evoluzione. Il testo cominciava con i politici terrorizzati dalla mafia, dopo la sentenza del maxiprocesso e l’assassinio di Salvo Lima nel 1992, che decidevano di accordarsi con la mafia perché non uccidesse più. Però il capo di quella congiura, quello che temeva più di tutti, Calogero Mannino, è stato assolto. Non ha trattato con la mafia. Quindi lo scambio di favori con i corleonesi non ci fu. E Allora? Allora l’hanno risolta in un altro modo, nell’evoluzione del copione. Quindi, se non ci fu trattativa politica nel 1992 e 1993, cioè durante gli ultimi governi della prima repubblica, allora forse un pochettino c’è stata nel 1994, quando presidente del consiglio era Silvio Berlusconi. E qui entriamo nella farsa, perché quell’esecutivo di centrodestra i 41 bis li ha addirittura inaspriti e resi definitivi. Ma poteva mancare Marcello Dell’Utri? No, infatti non manca. Sarebbe stato lui, a fare da messaggero tra i corleonesi e il governo. Per far ottenere alla mafia quale vantaggio? Nessuno. Dell’Utri avrebbe minacciato, quale corpo dello Stato, il governo del suo amico Silvio? E quale “regalo” Totò Riina avrebbe fatto a un esecutivo durato solo otto mesi? E i suoi amici che cosa avrebbero portato a casa? Un 41 bis eterno. Bella Trattativa! Ma Dell’Utri è rimasto nel processo, dopo la condanna in primo grado. È scandaloso, è sotto gli occhi di tutti che questa buffonata, si buffonata, di una Trattativa tra il mondo politico impaurito nel 1992 dopo l’omicidio Lima e la mafia, si risolva con il tenere prigioniero uno che all’epoca neppure faceva parte del mondo politico. Eppure come dimenticare l’epico titolo del solito Fatto dopo la sentenza di primo grado, “La trattativa c’è stata e B è il suo profeta”? Sono preoccupati, i travaglini, e oggi scrivono “Stato-mafia, il bis delle condanne è in salita”. Preoccupazione o avvertimento? Certo questa volta il procuratore generale Roberto Scarpinato rischia la reputazione in modo serio. Già deve raccontare al mondo che il grande complotto contro lo Stato è stato organizzato da Bagarella, tre alti carabinieri e l’ex capo di Publitalia. Senza offesa per Marcello Dell’Utri e gli ex vertici del Ros, come colpo di Stato pare un po’ miserello. E Scarpinato, che ha mandato avanti le 74 pagine dei suoi sostituti con grave sgarbo istituzionale nei confronti dei giudici che hanno assolto Mannino, rischia di fare il terzo flop. E si, perché la procura di Palermo ci aveva già provato nel 1998 con l’inchiesta “Sistemi criminali”, poi archiviata. Poi di nuovo nel 2000 con la storia del “papello” falso con le richieste di Totò Riina, archiviata. Bisognerà aspettare il 2008 con il teste farlocco Massimo Ciancimino per riuscire a incardinare il processo Trattativa. Che ormai non è più trattativa, ma minaccia contro i corpi dello Stato. In sintesi, i tre vertici del Ros che avrebbero trattato con i boss mafiosi per conto del mondo politico guidato da Mannino per far cessare le stragi in cambio di provvedimenti che alleggerissero le condizioni dei detenuti mafiosi, non hanno più un capo. Il capo dei congiurati è stato assolto. E Dell’Utri, non si sa bene perché, avrebbe complottato contro l’amico Silvio. È veramente il processo del secolo.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Stato-mafia, teorema crollato. La gioia del Capitano Ultimo: «Volevano infangare i nostri eroi». Mia Fenice giovedì 23 Settembre 2021 su Il Secolo D'Italia. «Con grande gioia apprendo questa notizia». Sergio De Caprio, il “Capitano Ultimo” che mise le manette ai polsi di Totò Riina, commenta così all’Adnkronos la sentenza del processo d’appello sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”. «Il mio pensiero va alle famiglie del generale Antonio Subranni, del generale Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno, a cui esprimo la mia grande vicinanza e con cui condivido il massimo disprezzo per quelli che hanno cercato di infangare l’onore di grandi combattenti della mafia». E poi ancora. «Io e i carabinieri combattenti li onoriamo ora come allora e li portiamo nel cuore», aggiunge De Caprio. Esprime soddisfazione anche Maurizio Gasparri. «Il generale Subranni è stato il primo comandante del Ros ed è stato un eroe della lotta alla criminalità. Il generale Mori è stato, è e sarà un protagonista del fronte della legalità e della lotta al crimine e sono onorato di avere difeso lui, Subranni ed altri in tutti questi anni da accuse infamanti e infondate. Con loro vengono assolti Marcello Dell’Utri, ingiustamente accusato, e De Donno». Per il senatore Gasparri componente del comitato di presidenza di Forza Italia: «Mori, Subranni e i carabinieri hanno combattuto il crimine e si sono inoltrati nella difficile strada della lotta alla mafia per difendere lo Stato, non certo per indebolirlo. Sono altri che hanno cancellato il 41bis, come Ciampi e Scalfaro che avrebbero dovuto rispondere di questi atti davanti a un tribunale». «Dell’Utri – dice ancora Gasparri –ha subito aggressioni senza ragione, perché qualcuno voleva riscrivere con le bugie la storia d’Italia. Chi ripagherà ora Subranni, Mori e tanti altri per anni e anni di processi che non ci dovevano essere? Ne dovranno rispondere gli accusatori che sono stati celebrati e che dovranno essere messi sotto i riflettori per capire quali oscure ragioni hanno imbastito processi che non dovevano nemmeno essere avviati. Ci sono presunti eroi della legalità che hanno messo in piedi questo teatro e che in sede politica chiameremo a rispondere». «La commissione d’inchiesta sulla magistratura, che da tempo invochiamo, dovrà riguardare anche questa vicenda e alcuni tra i suoi protagonisti. Vorremmo un confronto pubblico con certi togati. E anche tanti conduttori televisivi e personaggi della società mediatica – conclude – dovranno fare ammenda per quanto hanno detto. Viva ai Carabinieri, viva il Ros, viva Subranni, viva Mori».

"Per loro il massimo disprezzo": lo schiaffo di Capitano Ultimo. Francesca Galici il 24 Settembre 2021 su Il Giornale. L'assoluzione in appello degli ufficiali del Ros nel processo sulla trattativa Stato-mafia ha soddisfatto anche il capitano Ultimo. A distanza di 24 ore dall'assoluzione di Marcello Dell'Utri e degli ufficiali nel processo d’Appello sulla trattativa Stato-mafia, a parlare è Sergio De Caprio, meglio conosciuto come capitano Ultimo, ossia l'uomo che assicurò alla giustizia e mise le manette ai polsi di Totò Riina. "Con grande gioia apprendo questa notizia. Il mio pensiero va alle famiglie del generale Antonio Subranni, del generale Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno, a cui esprimo la mia grande vicinanza e con cui condivido il massimo disprezzo per quelli che hanno cercato di infangare l’onore di grandi combattenti della mafia", ha detto l'ex ufficiale dei carabinieri. Sergio De Caprio ha quindi aggiunto: "Io e i carabinieri combattenti li onoriamo ora come allora e li portiamo nel cuore". Parole di grande affetto e supporto da parte del capitano Ultimo nei confronti dei suoi colleghi, che per tanti anni hanno dovuto subire le ingiurie e un processo che alla fine li ha dichiarati innocenti. Gli imputati assolti dalla corte d'Appello erano stati condannati in primo grave con accuse gravissime e con pene altrettanto importanti. L'appello è durato oltre 2 anni, dallo scorso 29 aprile 2019. Nel corso del procedimento, grazie alla prescrizione, è stata stralciata la posizione di Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. Era stato coinvolto nel processo con l'accusa di calunnia aggravata nei confronti dell'ex capo della polizia Gianni De Gennaro e con l'accusa di concorso in associazione mafiosa. Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, ex ufficiali del Ros, invece, sono stati assolti nel processo d'Appello perché "il fatto non costituisce reato". Per loro l'accusa era di "minaccia a Corpo politico dello Stato". Stessa accusa per Marcello Dell'Utri che, invece, è stato assolto "per non aver commesso il fatto". Sono cadute in prescrizione anche le accuse al pentito Giovanni Brusca. È stato, invece, condannato Leoluca Bagarella, anche se con pena lievemente ridotta da 28 a 27 anni. Sono stati invece confermati i 12 anni a Nino Cinà.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 27 settembre 2021. «Quando arrestai Totò Riina lui tremava ed aveva paura dimostrando di non avere dignità di fronte alla sconfitta. Il suo era un comportamento da vigliacco ma il mio compito, in quel preciso momento, era soltanto quello di portare a termine un'operazione importante concentrandomi sul dispositivo che dovevo attuare e mettendo in sicurezza i miei uomini ed il prossimo». Sergio De Caprio, detto "Capitano Ultimo", così racconta di quella memorabile data del 15 gennaio del 1993 che portò all'arresto di Totò Riina in quella che era stata chiamata, in codice, "operazione belva". Capitano Ultimo era a capo della sezione Crimor dei Ros che da settembre del 1992, dopo le stragi che videro morire i giudici Falcone e Borsellino, si impegnò a catturare il "capo dei capi", il boss di Corleone Toto' Riina.

«Da indagini compiute si riuscì a comprendere come esistesse una pista comune che si snodava attorno al nome di Raffaele Ganci, capo della "famiglia" mafiosa del quartiere "Noce" di Palermo, ritenuto il tramite sicuro per arrivare al Riina che era latitante da venticinque anni». 

In che cosa consistevano le vostre indagini?

«In riprese video e servizi di pedinamento sui componenti della famiglia Ganci. Ed è stato così che i primi giorni di ottobre del 1992, Domenico Ganci, figlio di Raffaele, fu da noi seguito per le vie del quartiere Uditore, dove riuscì a far perdere le sue tracce lungo la via Bernini.  Contemporaneamente il Nucleo Operativo Carabinieri di Palermo 2, avviò indagini su Baldassarre Di Maggio, al tempo incensurato, e ritenuto in possesso di importanti informazioni sull'organizzazione di "Cosa Nostra" in quanto ex uomo di fiducia di Riina che, a seguito di dissidi su attività economiche gestite dall'organizzazione, si era dovuto allontanare dalla Sicilia temendo per la sua stessa vita».

L'operazione che portò alla cattura di Totò Riina quanto tempo durò?

«Circa sei mesi in cui eravamo incollati a comprendere ogni spostamento della famiglia Ganci che ritenevamo, a ragione, essere in collegamento con Riina. In uno di Sergio De Caprio è un militare italiano, colui che ha arrestato Totò Riina e condotto importanti indagini sulla malavita organizzata; a causa delle sue indagini antimafia è stato nel mirino di "Cosa Nostra". Ecco come alcuni collaboratori di giustizia raccontano i progetti di uccisione di Capitano Ultimo; il pentito Gioachino La Barbera riferiva in udienza pubblica che il killer Leoluca Bagarella aveva offerto ad un carabiniere che forniva notizie a "Cosa Nostra" un miliardo di lire per avere informazioni su dove alloggiava il capitano «Ultimo».

Il pentito Salvatore Cangemi riferiva di avere per questi pedinamenti, ci accorgemmo che Domenico Ganci era scomparso una volta entrato nello stabile di via Bernini 54 dove da indagini successive ci accorgemmo che esistevano utenze Enel intestate alla famiglia Riina». E le indagini su Baldassarre di Maggio?

«Andarono avanti finché l'8 gennaio del 1993 non venne arrestato e divenne collaboratore di giustizia. In quel momento avevamo due opzioni, la prima di intervenire e perquisire immediatamente un manufatto ubicato all'interno del cosiddetto "fondo gelsomino", invia Uditore, dove Di Maggio dichiarò di aver incontrato Riina e Raffaele Ganci anni addietro, ma con questa ipotesi io non ero d'accordo perché rischiavamo di rendere evidente l'operazione e, qualora fosse stato un errore, di farla saltare. La seconda, quella proposta da me, fu di tenere sotto controllo gli esponenti della famiglia Sansone - ritenuti particolarmente vicini a Riina - ed in particolare il complesso delle villette ubicate proprio in via Bernini 54, zona che avevamo individuato attraverso una intensa attività d'indagine e mai menzionata da Di Maggio nel corso dei colloqui sostenuti con gli investigatori. Così io feci immediatamente visionare a Di Maggio le immagini girate in quell'ultimo giorno in cui, il collaboratore di giustizia, riconobbe i figli e la moglie di Riina mentre escono dal complesso di via Bernini 54. Questa scoperta suggerì di proseguire l'osservazione la mattina seguente, ma con Di Maggio a bordo del furgone utilizzato per sorvegliare la zona e con una serie di squadre pronte ad operare i pedinamenti dei soggetti eventualmente individuati». 

Finché arrivò il famoso 15 gennaio 1993...

«Esattamente. La mattina del 15 gennaio 1993 alle ore 08.55, Di Maggio riconobbe Salvatore Riina mentre usciva in macchina proprio da via Bernini 54, accompagnato dall'autista poi identificato in Salvatore Biondino. Immediatamente avviammo il pedinamento finché pochi minuti dopo bloccammo l'auto in via Regione Siciliana, all'altezza del Motel Agip, arrestando il boss di Cosa nostra» 

È di giovedì 23 settembre la sentenza di assoluzione del generale Mori, che era a comando dei Ros durante l'arresto di Riina, in merito alla trattativa Stato-Mafia.  Quale è il suo giudizio su questo caso giudiziario?

 «Le sentenze vanno rispettate ma certamente è un caso importante perché mi auguro possa fermare questa deriva eversiva finalizzata a partecipato nel giugno 1993 a una riunione con Bernardo Provenzano, Ganci Raffaele e Leoluca Bagarella nel corso della quale Provenzano gli comunicava l'esistenza di un progetto per catturare il capitano Ultimo con l'obiettivo di tenerlo ostaggio e successivamente ucciderlo. Su di lui sono stati fatte pubblicazioni, film, fiction e docufilm come quella di Ambrogio Crespi "Capitano Ultimo, le ali del falco».

Oggi ha fondato una comunità che sostiene i bisognosi, trovando così un altro, nobile modo di servire lo Stato. mizzare il ruolo di Cosa nostra e nel delegittimare l'arma dei carabinieri. Ho chiamato il Generale Mori e con lui mi sono congratulato per il modo nobile con cui ha affrontato vent' anni di accuse. Un uomo d'onore buttato in pasto a degli sciacalli che l'hanno persino deriso. In questa vicenda c'è tutto il cortocircuito giudiziario-mediatico che distrugge le vite umane». 

È un caso, quello del generale Mori, di mala giustizia. Lei crede sia giusto ragionare su una riforma della Giustizia dove il magistrato che sbaglia deve pagare?

«Io nella vita ho sempre pensato che chi sbaglia debba pagare. È un principio sa nodi vita in comunità; le modalità devono essere poi ponderate dal legislatore; certo è che se il ruolo del magistrato è vissuto come un servizio alla società diviene un fattore positivo se, al contrario, è vissuto come una posizione di potere allora prende una piega diversa e distorta che non fa certamente del bene. 

Troppo spesso esistono lobby trasversali che cercano di delegittimare uomini d'onore per cercare di avere qualche momento di popolarità». 

Vuole fare qualche no me?

«No, perché non vorrei dimenticare nessuno di quelli che hanno partecipato a questo banchetto di delegittimazione dell'arma dei Carabinieri e l'elenco sarebbe troppo lungo».

Uno dei suoi primi servizi importanti fu l'indagine della "Duomo Connection" a Milano. Che ricordo ha di quei fatti risalenti alla fine degli anni Ottanta e inizi anni Novanta?

«Fu una esperienza entusiasmante condotta assieme alla dottoressa Ilda Bocassini e al giudice Giovanni Falcone in cui mettemmo a punto tutte le tecniche di indagine che sarebbero servite qualche anno dopo. "Seguire i soldi" diceva Falcone e così scoprimmo che i denari venivano addirittura seppelliti sotto terra! L'indagine della Duomo Connection portò alla luce un intrigo tra politica, edilizia e spaccio di stupefacenti molto importante».

Lei ha incontrato il generale Dalla Chiesa quando ed era molto giovane. Cosa le ha insegnato un uomo così importante?

 «Dalla Chiesa ebbi la fortuna di conoscerlo in accademia insieme ai miei colleghi e fui invitato a pranzo con lui. Ricordo che disse una frase straordinaria: "Vogliate bene ai vostri comandi di stazione". Quella frase fu preziosa e mi insegnò l'umiltà nei confronti di tutti. Noi il generale Dalla Chiesa cerchiamo di onorarlo con i nostri comportamenti tutti i giorni e non di celebrarlo». 

Cosa le ha insegnato l'arma dei carabinieri?

«Tutto, sono figlio di un militare, l'arma è stata la mia vita. Mi ha insegnato a mangiare da bambino, a scrivere, a leggere. I carabinieri, soprattutto quelli di basso grado, mi hanno insegnato a diventare uomo facendomi capire la bellezza di dividere in parti uguali con il prossimo». 

Per questo ha fondato la casa famiglia "Volontari Capitano Ultimo" di Roma, dove porta avanti progetti di solidarietà nei confronti dei meno fortunati?

«Dividere e condividere è qualcosa che sento profondamente dentro. È un insegnamento che ti permette di vivere meglio, abbiamo mille progetti tra cui una televisione dei mendicanti. Sin da piccolo mio padre mi insegnava a servire gli altri e non di sfruttarli e devo dire che, oggi che non c'è più, mi manca tantissimo». 

Lei ha mai avuto paura?

«Sì, e credo comunque che la paura sia una buona consigliera, perché ti permette di riflettere e di portare al massimo la tua concentrazione quando agisci. Ed è dalle tue azioni che dipendono le vite di altre persone».

Felice Cavallaro, Riccardo Lo Verso per il "Corriere della Sera" il 24 settembre 2021. «Certo, sono soddisfatto, ma come faccio a non pensare al fango che mi è stato rovesciato addosso?», dice Marcello Dell'Utri. Usa parole dure: «Questo processo è stato una cosa mostruosa e andava annullato in primo grado. Ma il clima era diverso e i giudici non se la sono sentita di smontare l'impalcatura. Quest' altra corte ha evidentemente letto le carte bene. I miei avvocati (Tullio Padovani, Francesco Centonze e Francesco Bertorotta), hanno ridotto in polvere accuse pazzesche. Ma non basta avere l'avvocato bravo. Bisogna trovare chi la ragione te la dà. Io sono ancora scioccato per le palate di fango». Il suo telefono squilla di continuo: «Gioiscono in tanti ora. A cominciare dal Cavaliere. Ha chiamato congratulandosi. Era importante. Anche per lui. Trattative? Ne ho fatte tante nella vita. Ma con gli imprenditori, non con la mafia. Al contrario di quanto pensava Ingroia e il resto della compagnia, servendosi dei soliti pentiti». Infine una stilettata: «Vorrei rilassarmi qui a Milano. Anche se ho perso la casa. Ma non i libri. Me ne sono rimasti quattro. Importanti come gli avvocati e le persone che non hanno mai creduto a queste c...». La voce del generale Subranni è roca per un malanno. Non sa se gioire di questa assoluzione attesa, «ma arrivata troppo tardi». Si è ritirato con la moglie Rosalia, avvocato, nella casa di campagna a Licata. I faldoni del processo sono diventati il suo unico impegno. «E lì ha perso sé stesso», sussurra la moglie. «Dovevo spulciare le parole sputate contro di me, ma adesso io... io non ricordo...», cerca di spiegare il generale. Ha un moto di indignazione: «Accuse ridicole su una trattativa mai fatta». Che è sempre stata la tesi del suo avvocato, Cesare Placanica: «Forse prima di mettere in piedi certe ipotesi accusatorie bisognerebbe ponderare bene le conseguenze». Subranni, intanto, ripensa alle parole della vedova di Paolo Borsellino che lo accusò di essere addirittura «punciuto», come i mafiosi. «La signora sbagliò di grosso - replica -. Aveva voluto i nostri numeri da mia moglie, si sentivano, sempre gentile, poi improvvisamente tirò fuori questa storia...». «Ho apprezzato di più un riferimento della figlia di Borsellino, Fiammetta - dice la moglie - quando ha parlato degli appalti, di un rapporto del Ros che, forse, bisognava guardare meglio». Il generale Mario Mori è di poche parole: «Sono soddisfatto per una verità che, a poco a poco e a fatica, è venuta a galla». «La trattativa è una bufala», aggiunge il suo legale, Basilio Milio. Anche Giuseppe De Donno, al telefono con l'avvocato Francesco Romito, si affida a una frase secca: «Soddisfatto per me e per l'Arma che non ha fatto niente di quanto contestato».

I professionisti dell’antipolitica. L’approvazione della riforma Cartabia nel Paese della trattativa Stato-Stampa. Francesco Cundari su L’Inkiesta il 24 settembre 2021. Nel giorno in cui un tribunale smonta le stravaganti teorie di una sottocultura pubblicistica eversiva e criminogena, diventa finalmente legge un provvedimento che ferma la discesa inarrestabile verso l’inciviltà. L’approvazione della riforma Cartabia è una buona notizia per molte ragioni, la prima delle quali è che comporta la cancellazione della riforma Bonafede. E questa è un’ottima notizia, resa ancora più significativa dalla coincidenza temporale con la sentenza d’appello nel processo sulla cosiddetta «trattativa Stato-mafia». Trattativa che a quanto pare non c’è mai stata (quando si arriva a dire che la trattativa c’è stata perché la mafia ha avanzato delle richieste, anche se nessuno le ha accolte, il problema non è più giuridico e tanto meno politico, è semplicemente un problema di italiano). Trattativa, soprattutto, che se anche ci fosse stata, mai avrebbe dovuto chiamarsi così, come fosse un negoziato bilaterale gestito dai legittimi rappresentanti di due organizzazioni che si riconoscono reciprocamente: lo Stato da un lato, la mafia dall’altro. Nel qual caso, peraltro, non si capisce perché la questione avrebbe dovuto essere affidata a un tribunale, e dove sarebbe stato il reato. E se invece il tradimento del ministro o dell’ufficiale Tizio fosse stato accertato, che è quanto la sentenza di ieri esclude, avremmo dovuto chiamarla, semmai, trattativa Tizio-Mafia. Come è possibile non rendersi conto che il fatto stesso di chiamarla Trattativa Stato-Mafia è il più grande regalo che si possa fare alla criminalità, è purissima propaganda mafiosa, è un tic linguistico pernicioso, figlio di una sottocultura eversiva e criminogena? Su molti di questi tic appare decisa a intervenire, meritoriamente, la ministra Marta Cartabia, compreso il modo in cui si danno i nomi e si presentano le inchieste appena avviate (oggetto di un apposito decreto legislativo), che è un pezzo fondamentale dell’ingranaggio in cui viene stritolata ogni giorno la presunzione d’innocenza in Italia. Intanto, con tutti i compromessi e i limiti di cui si è già discusso ampiamente, il varo della sua riforma della prescrizione ristabilisce il principio fondamentale della ragionevole durata del processo, che i Cinquestelle volevano abolire, da ultimo anche con la complicità del Pd. E questo, insieme con il voto a favore del taglio costituzionale dei parlamentari, è stato certamente uno dei punti più bassi toccati dai sostenitori dell’alleanza strutturale con i grillini. Per fortuna è arrivato il governo Draghi a interrompere questa discesa inarrestabile verso la barbarie e a invertire la rotta. Ma il fatto stesso che per interromperla ci sia voluto un governo di emergenza, guidato da un ex presidente della Bce, dimostra quanto profondamente abbia attecchito il virus del populismo, e quanto deboli siano gli anticorpi del nostro sistema politico, anche a sinistra.

Dell’Utri assolto al processo Stato-mafia. Assolti anche i carabinieri. Giovanni Bianconi, inviato a Palermo, su Il Corriere della Sera il 23 settembre 2021. Cadono le accuse per gli ufficiali dei carabinieri Mori, Subranni e De Donno e anche per Marcello Dell’Utri. Quanto ai boss, prescrizione per Brusca, pena ridotta a Bagarella, condanna confermata per Cinà. «Il fatto non costituisce reato»: la trattativa tra i carabinieri e Cosa nostra avviata tramite l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino al tempo delle stragi di Capaci e via D’Amelio fu dunque legittima, e non c’era il dolo né la volontà da parte degli ex ufficiali dell’Arma Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno di innescare o rafforzare il ricatto mafioso alle istituzioni. Cadono l’accusa e le condanne per minaccia a un Corpo dello Stato. Lo ha stabilito la corte d’assise d’appello di Palermo con la sentenza pronunciata ieri pomeriggio, dopo tre giorni di camera di consiglio, ribaltando quella di primo grado che il 20 aprile 2018 aveva giudicato colpevoli gli ex carabinieri.

La sentenza ribaltata

Per Marcello Dell’Utri l’assoluzione è ancora più radicale: lui «non ha commesso il fatto», cioè non ha veicolato la minaccia al governo guidato da Silvio Berlusconi nel 1994, che fu solo «tentata». Non arrivò dunque a destinazione. Anche l’ex senatore di Forza Italia nel 2018 era stato condannato, come intermediario del ricatto mafioso. Il verdetto d’appello rovescia quindi completamente quello che tre anni e mezzo fa aveva suscitato tanto clamore, sollevandone a sua volta. In questo caso infatti non escono sconfitti soltanto la Procura e la Procura generale che hanno sostenuto l’accusa nei due gradi di giudizio, ma anche i giudici della corte d’assise che avevano individuato reati e colpevoli. E il clamore — per qualcuno lo scandalo, anche se è così che funziona il sistema giudiziario — è ancora più grande perché questo processo non s’è limitato a mettere alla sbarra un pezzo di politica e di apparati investigativi, lo Stato che giudica se stesso; stavolta c’è stato un conflitto istituzionale arrivato ai massimi livelli, coinvolgendo l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, intercettato casualmente nei suoi colloqui con l’ex ministro Nicola Mancino. Uno scontro tra il Quirinale e la Procura di Palermo finito davanti alla Corte costituzionale. Furono i danni collaterali dell’indagine sfociata in un processo in cui l’allora capo dello Stato fu chiamato a testimoniare, e le sue dichiarazioni sul ricatto subito dallo Stato con le bombe del 1992 furono tra gli elementi fondanti delle condanne in primo grado.

La prospettiva

In appello, per quello che si può capire dal dispositivo, è cambiata la prospettiva con cui sono stati interpretati gli stessi fatti. Tutto ruota, nella sostanza, intorno all’iniziativa dei Ros dei carabinieri spiegata dallo stesso generale Mori nel 1998, al processo per le stragi del 1993, sintetizzando il dialogo con Ciancimino: «“Ma che cos’è questa storia? Ormai c’è un muro contro muro, da una parte Cosa nostra dall’altra lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?”. La buttai lì convinto che lui dicesse “cosa vuole da me?”, invece disse “ma sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo”. Allora dissi “Provi”». Per le difese era la semplice spiegazione di un’attività info-investigativa tutta in salita e comunque lecita; per l’accusa e i primi giudici un’offerta di disponibilità a trattare che rafforzò la convinzione mafiosa che le stragi producevano risultati. Ora i giudici d’appello hanno stabilito che non c’era la volontà né la consapevolezza, e nemmeno l’accettazione del rischio che con quella proposta si poteva agevolare il ricatto dei boss.

L’assoluzione di Mannino

E questo avevano già affermato i giudici che hanno assolto in tutti i gradi di giudizio l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, accusato dello stesso reato ma uscito prima di scena attraverso il rito abbreviato. Può darsi che quella sentenza definitiva dopo la pronuncia della Cassazione (arrivata a dicembre 2020, a proposito di tempi abbreviati...) abbia influito sul verdetto di ieri. Di certo per la Procura Mannino aveva innescato la trattativa temendo — dopo l’omicidio del collega di partito Salvo Lima il 12 marzo ’92 — di essere la vittima successiva e rivolgendosi al comandante del Ros per salvarsi la vita. Dunque l’anello iniziale della catena s’era già spezzato. Inoltre secondo il verdetto il ricatto al governo Berlusconi fu solo tentato; perciò al boss Bagarella è stato tolto un anno di pena (da 28 a 27), mentre è stata confermata la condanna del medico mafioso Antonino Cinà, considerato un tramite della trattativa che coinvolse i carabinieri. «Non siamo qui per giudicare la storia — aveva detto aprendo il processo il presidente della corte Angelo Pellino —. Gli imputati non sono archetipi socio-criminologici, ma persone in carne e ossa che saranno giudicate per ciò che hanno o non hanno fatto, se si tratta di reati. Questo è l’impegno della corte». Le assoluzioni di ieri sono figlie di quell’impegno, e le motivazioni che saranno rese note fra tre mesi spiegheranno come ci si è arrivati.

Dal "Corriere della Sera" il 24 settembre 2021. «La cosa peggiore di questa stagione segnata dalla presunta trattativa adesso sfumata nelle assoluzioni di uomini politici e ufficiali dei carabinieri è il tempo perso e il danno di immagine fatto all'Arma, all'intero Paese, visto che un certo storytelling ha superato i confini nazionali diventando verità assoluta pure per chi non conosce nemmeno le carte...». È durissimo il verdetto di Giovanni Fiandaca, il cattedratico di diritto penale a Palermo, il professore emerito in passato vicino al Pci e membro del Csm, che ha avuto come allievi proprio alcuni sostituti procuratori impegnati sin dal primo momento nell'impianto accusatorio. «Allievi infedeli», si lascia sfuggire ora che la sentenza di secondo grado conferma tutti i dubbi esposti già nove anni fa con un primo saggio critico e rilanciati nel 2014 con un libro scritto per Laterza con lo storico Giuseppe Lupo. Parla di «tempo perso» perché per lui «era chiaro già all'inizio del processo che mancavano i presupposti giuridici per ipotizzare un concorso nel reato previsto dall'articolo 338 del codice penale per minaccia a un corpo politico». Le sue critiche sono diventate ancora più nette dopo la sentenza di primo grado con una sfilza di condanne commentate nella rivista italiana di diritto e procedura penale «evidenziando i punti deboli sia sul versante della ricostruzione del fatto sia su quello dell'impianto giuridico». Sonore bacchettate per i pm e per la corte presieduta da Alfredo Montalto: «La contraddittorietà degli esiti processuali dimostra come l'impostazione accusatoria fosse ben lontana dalla regola probatoria dell'oltre ogni ragionevole dubbio». Stupito soprattutto dal persistere nelle accuse dopo l'assoluzione per l'ex ministro Calogero Mannino: «Proprio quella aveva fatto venir meno il primo pilastro dell'originaria impostazione».

Trattativa Stato-mafia, la diaspora del Pool: nessuno in Procura si sente sconfitto. Giovanni Bianconi il 24 settembre 2021. La Procura antimafia di Palermo che imbastì il processo sulla presunta trattativa tra Cosa nostra e lo Stato non esiste più da tempo. Tra i pubblici ministeri che hanno rappresentato l’accusa nel dibattimento di primo grado solo uno continua a fare il magistrato in servizio: Francesco Del Bene, che adesso lavora alla Direzione nazionale antimafia e della vicenda conclusasi con le assoluzioni dell’altro ieri ha sempre parlato solo nelle aule di giustizia. Degli altri, l’ex procuratore aggiunto Vittorio Teresi è andato in pensione, Nino Di Matteo siede al Consiglio superiore della magistratura e Roberto Tartaglia è diventato prima consulente della commissione parlamentare antimafia e poi vice-direttore delle carceri. Antonio Ingroia, il primo procuratore aggiunto a guidare il pool, ha da tempo lasciato la toga da magistrato per indossare quella di avvocato, dopo la poco fortunata avventura politica da candidato premier nel 2013. Del gruppo originario che condusse l’inchiesta c’erano altri due pm tuttora in servizio: Lia Sava, trasferitasi presto a Caltanissetta dove ha fatto il procuratore aggiunto e ora è procuratore generale; e Paolo Guido, l’unico rimasto in carica a Palermo. Ma nel 2012, al momento di chiudere le indagini preliminari, preferì non firmare l’atto conclusivo, perché in disaccordo su alcuni punti. In particolare sul coinvolgimento dell’ex ministro Calogero Mannino e di quello (strettamente connesso) dell’ex generale dei carabinieri Antonio Subranni, già comandante del Ros. Gli elementi a carico dei due, che secondo l’accusa innescarono la trattativa tra rappresentanti dello Stato e rappresentanti della mafia, non erano a suo giudizio sufficienti a giustificare un processo. Per Mannino pesava anche l’assoluzione dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa, come per l’ex senatore Dell’Utri per i fatti successivi al 1992. Oggi Paolo Guido è procuratore aggiunto di Palermo, coordina le indagini antimafia sul territorio di Trapani e Agrigento e le correlate ricerche dell’ultimo grande boss latitante, Matteo Messina Denaro. Sulla sentenza d’appello non vuole fare commenti, ma le sue riserve di nove anni fa sembrano coincidere con i motivi che hanno portato alle assoluzioni. L’uscita di scena di Mannino potrebbe avere pesato sul verdetto d’appello per gli imputati esterni a Cosa nostra; a cominciare proprio da Subranni, che poco c’entrava con il nocciolo della «trattativa», i contatti dei carabinieri con l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino. Anche il procuratore è cambiato. L’arrivo di Francesco Lo Voi risale al 2014, e quando fu scelto dal Csm qualcuno sospettò che la nomina fosse dovuta anche alle sue posizioni distanti rispetto all’inchiesta Stato-mafia. Che però nel frattempo era già approdata in aula, dove i pm di udienza sono liberi rispetto al capo dell’ufficio. E durante la sua gestione, a parte uno strappo con Di Matteo al momento del trasferimento di quest’ultimo alla Dna, non ci sono stati ostacoli frapposti al processo. Anzi, Tartaglia era diventato uno dei pm di punta della Procura, e le intercettazioni del boss Giuseppe Graviano confluite nel dibattimento furono avviate sotto la sua guida. Né si sono fermate le inchieste su mafia e politica, compresa quella finita a Roma sui presunti legami dell’ex sottosegretario leghista Siri con un imprenditore considerato vicino a Messina Denaro.

Il 20 aprile 2018, dopo le condanne in primo grado, il «trattativa» si riunì nell’ufficio di Lo Voi per commentare la vittoria. L’altro ieri è arrivata la sconfitta, ma in Procura non si registrano prese di posizione. Né dai pm in servizio né da coloro che sostennero l’accusa. A parte Ingroia, il primo a cambiare mestiere. Che continua a rivendicare non solo la legittimità, ma anche la giusta impostazione di indagine e processo: «La condanna dei mafiosi conferma l’esistenza della trattativa e del papello di richieste trasmesso a uomini dello Stato, il ribaltamento della prima sentenza è parziale e riguarda interpretazioni giuridiche di fatti accertati. La condanna dei mafiosi dimostra che il processo si doveva fare. Auspico un ricorso in Cassazione». Ma prima di annunciarlo, in Procura generale vogliono leggere le motivazioni della sentenza d’appello. Come avvocato di parte civile, Ingroia partecipa al processo di Reggio Calabria chiamato ‘Ndrangheta stragista, dove il boss Graviano è stato condannato per l’omicidio di due carabinieri nel gennaio 1994, collegato alle vicende palermitane. A ottobre comincerà l’appello. La storia della trattativa Stato-mafia non è finita.

Fiandaca: «Trattativa “Stato-mafia”? Danno d’immagine all’Arma e al Paese». Il professore di diritto penale, Giovanni Fiandaca boccia senza appello i pm e la corte che in primo grado condannarono carabinieri e politici. Il Dubbio il 24 settembre 2021. Il professore di diritto penale a Palermo, Giovanni Fiandaca, lancia accuse durissime nei confronti dei pubblici ministeri che avviarono il procedimento sulla presunta trattativa “Stato-mafia”. Le sue parole sono state riportate questa mattina dal “Corriere della Sera”, nell’edizione cartacea, con le quali boccia sonoramente l’impostazione accusatoria. «La cosa peggiore di questa stagione segnata dalla presunta trattativa adesso sfumata nelle assoluzioni di uomini politici e ufficiali dei carabinieri è il tempo perso e il danno di immagine fatto all’Arma e all’intero Paese, visto che un certo storytelling ha superato i confini nazionali diventando verità assoluta pure per chi non conosce nemmeno le carte…». Per Fiandaca gli «allievi infedeli», avrebbero perso tempo perché «era chiaro già all’inizio del processo che mancavano i presupposti giuridici per ipotizzare un concorso nel reato previsto dall’articolo 338 del codice penale per minaccia a un corpo politico. Fiandaca, tuttavia, aveva espresso critiche anche dopo la sentenza di condanna emessa dai giudici di primo grado, nella quale si evidenziavano «i punti deboli sia sul versante della ricostruzione del fatto sia su quello dell’impianto giuridico», criticando sia i pm che il collegio giudicante, all’epoca presieduto da Alfredo Montalto. «La contraddittorietà degli esiti processali dimostra come l’impostazione accusatoria fosse ben lontana dalla regola probatoria dell’oltre ogni ragionevole dubbio». Secondo Fiandaca, infine, l’assunzione di Calogero Mannino «aveva fatto venir meno il primo pilastro dell’originaria impostazione».

Paolo Colonnello per "la Stampa" il 24 settembre 2021. «Sono felice, commosso, mi tolgo un gran peso». La voce è ancora squillante ma l'accento palermitano è sempre più attenuato. Il "peso", come lo chiama lui, era gravosissimo: 12 anni di carcere in primo grado, annullati ieri pomeriggio dalla Corte d'Appello di Palermo, «per non aver commesso il fatto». Certo, Marcello Dell'Utri, 80 anni compiuti un paio di settimane fa, non è più l'uomo di una volta, quello ruggente e un po' sprezzante ritratto nelle foto degli anni d'oro, quando inventò Forza Italia, i club di fans per sostenere Silvio Berlusconi e diede vita a quella formidabile impalcatura di consenso ante litteram ottenuta attraverso l'esercito dei venditori di Publitalia, la sua creatura più riuscita, in fondo. Già condannato in via definitiva come concorrente esterno di associazione mafiosa («Un reato che non esiste, inventato per me» raccontò in una lontana intervista), l'ex senatore con quattro anni passati in carcere nel silenzio più assoluto e uno agli arresti domiciliari, è ora un uomo incanutito con i segni del tempo e del destino ben visibili in volto. Dell'Utri ieri ha atteso la sentenza di Palermo che l'ha mandato assolto dall'accusa di violenza o minaccia ai corpi dello Stato, giornalisticamente tradotta in "trattativa Stato-mafia", dalla sua abitazione di Milano Due. Aspettando la telefonata fatidica dell'avvocato Salvatore Centonze, il legale che lo ha accompagnato nell'ultimo decennio di battaglie giudiziarie, tra i libri che ricoprono le pareti di uno studio che si affaccia sul primo foliage settembrino del quartiere satellite per ricchi che fu la vera utopia del Cavaliere. 

E adesso?

«Adesso niente, oggi è il giorno della gioia, dell'allegria. Anche se mi hanno riversato tanto di quel fango addosso. Ma ormai è finita, anche se gli stent rimangono...». 

Che significa?

«Che in tutti questi anni, ho subito due infarti e ho dovuto farmi operare. Chi mi ripaga di questo danno? Nessuno. Ma non mi voglio lamentare, nossignore». 

Vorrebbe far causa allo Stato?

«Ma figuriamoci. E a chi poi? Lo Stato sono anch' io. No, basta così». 

Una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa e adesso un'assoluzione dall'accusa di aver portato le richieste della mafia a Berlusconi. Qualcosa stride, non le pare?

«È sempre stata la stampa a dire che ero un mafioso. Io non l'ho mai pensato di me stesso e dunque direi che questa assoluzione mette in dubbio anche la precedente condanna». 

Ci saranno ricorsi?

«Senta, io sono stanco di queste cose. Stanco, capisce?». 

Passeggiate ai giardinetti d'ora in poi, da bravo pensionato?

«Macché, vivo tra i miei adorati libri. Sopra, sotto, a fianco, dietro di me: ovunque sono sommerso da libri. Ogni giorno lo passo nella mia adorata biblioteca. Vado in via Senato e lì mi rinchiudo». 

Carcerato tra i tomi. C'è qualcuno che deve ringraziare?

«Certo: i miei avvocati e la mia famiglia innanzitutto che in questi anni ha sopportato quanto me questo calvario. E tutti quelli che hanno creduto nella mia innocenza nonostante tutto, nonostante il fango che mi è stato gettato addosso". 

Silvio Berlusconi lo ha sentito?

«La ringrazio per la telefonata...».

Un ultima domanda: qual è il libro che leggerà per festeggiare l'assoluzione?

«Pinocchio, il mio adorato Pinocchio. Il più bel libro che ci sia».

Estratto dell'articolo di Salvatore Merlo per ilfoglio.it il 14 ottobre 2021.

Ma è vero che Berlusconi le baciava le mani, e la chiamava don Dell’Utro?

“Certo che è vero. Noi raccontavamo persino spiritosaggini su Mangano, il famoso stalliere di Arcore. Ci inventavamo storie. Il Cavaliere mi sfotteva. Ridevamo come matti. Ma le pare che uno fa così se ha un mafioso in casa? Le racconto una cosa che la prego di non scrivere, perché chissà come viene interpretata. Qua nessuno sembra capire l’ironia”.

Ma no, carissimo don Dell’Utro, l’ironia è il giusto salvacondotto.

“Guardi che la usano contro Berlusconi”.

Ma no, ormai il Cav. è in via di santificazione.

“In effetti lui pensa di andare al Quirinale. Cosa che io… boh… mi pare improbabile. Anche se io a Silvio gli ho visto fare cose che sembravano impossibili. Quindi mai dire mai”.

In effetti lui fa tutto in grande.

“Sì, pure il Bunga Bunga”.

"Sa come lo chiamavamo noi Gianni Letta? “Smorza Italia”. Se c'era una nomina, lui la dava sicuro alla sinistra" 

""Craxi? faceva la pipì sulla tavoletta a casa di Berlusconi. E Silvio, per evitare che gli ospiti vedessero, sistemava" 

La mitologica Trattativa. Anzi, "quella gran minchiata della Trattativa", come dice lui.

"Certo che ho sofferto. Mi sono anche ammalato. Oggi ho una decina di stent", aggiunge. E poi, con cupo sarcasmo: "Diciamo che anzi ormai “vivo di stent”". 

"Mi ricordo quando moltissimi anni fa mi convocò Antonio Ingroia. Un “babbasunazzo”, come si dice da noi". Insomma un mezzo citrullo." 

"Confalonieri veniva a trovarmi in carcere, almeno una volta al mese. Mi portava i saluti di Silvio. Sempre. Ma la verità è che io Silvio me lo sognavo pure la notte. Ripensavo ad Arcore. Ai tempi belli e lontani. Quell'uomo mi ha cambiato la vita". 

L'ha fatta finire in galera anche.

"Mi ha reso ricco, ma soprattutto mi ha fatto divertire, mi ha fatto sognare, mi ha permesso di fare cose che altri non fanno in dieci vite. Senza di lui forse oggi sarei un ex direttore di banca in pensione.” 

Entrò in politica per farsi gli affari suoi?

"Credeva nella possibilità di fare dell'Italia la prima nazione in Europa. Ma è vero che in quegli anni c'erano dei rischi che gravavano sulle sue attività. Mi ricordo benissimo quando il Credito Italiano gli chiese di rientrare con il prestito. Capimmo che volevano fare con lui quello che già avevano fatto con Rizzoli". Spolparlo. "E allora reagimmo. La discesa in campo fu anche una difesa dell'azienda. Ma lui ci credeva al progetto di trasformare l'Italia".

A lei non piace Salvini.

"Per niente. Preferisco quelli che non urlano, che non sparano minchiate dalla mattina alla sera, che parlano poco. Meno parli più fai. E infatti Draghi mi ha convinto, mi piace lo stile. E mi fa anche simpatia epidermica. Non va neanche in televisione. Fantastico". 

 E Giorgia Meloni?

"Che le devo dire? E' brava. Ma è un'altra urlatrice. Dovrebbe lavorare sul tono. E' come se un attore, invece di conquistare la platea suadendo, cerchi di assordarla gridando. La gente brava la dovevamo portare noi prima". 

E invece?

"E invece è andata male. Il Berlusconi politico non c'è riuscito. Dopo di lui non resta niente. Mentre nel mondo dell'impresa è stato diverso".

Dell’Utri: “In aula mi sentivo come un turco alla predica. Quelle accuse erano assurde”. La Repubblica il 24 settembre 2021. "E' stato un processo mostruoso, era da annullare in primo grado. Averlo debellato è una prova di democrazia, finalmente. Le sofferenze le ho patite, gli stenti subiti, ma ora bisogna andare avanti e fare cose buone". Marcello Dell'Utri ha passato la giornata al telefono a rispondere alle tante persone che hanno voluto congratularsi per l'assoluzione. Non trattiene la gioia per una sentenza che non esita a definire "una svolta non solo per me ma anche per la giustizia italiana. "L'assoluzione è la migliore risposta a tutti quelli che spargevano odio", afferma con un tono duro. Poi scherza: "Sono contento di essere arrivato uno" , dice, rievocando la famosa frase attribuita a Gustavo Thoeni.

Dell'Utri, a fine 2019 è tornato libero dopo una condanna a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Ora incassa una assoluzione "per non avere commesso il fatto": cosa pensa della Giustizia?

"Ho recuperato un po' fiducia nella magistratura: per fortuna ci sono ancora dei magistrati che guardano le cose, leggono le carte e ascoltano i difensori. Era impossibile non riconoscere l'assurdità dell'impianto accusatorio".

Qual è stato il suo primo pensiero quando ha saputo dell'esito della sentenza?

"E' andato a tutti quelli che mi hanno sostenuto in questi anni, le persone e tutti gli amici che hanno creduto nella mia innocenza.  Mi voglio invece dimenticare tutti gli altri, quelli che odiano".

I giudici di secondo grado non hanno ritenuto che lei, ex politico fedelissimo di Silvio Berlusconi, fosse il collegamento fra la politica e cosa nostra in quella che viene ritenuta la seconda fase della trattativa del 1993 e 1994. Si aspettava l'assoluzione?

"Sono commosso, mi si è tolto un peso dal cuore, onestamente non me l'aspettavo. Ma me la sognavo. Intendiamoci, poteva accadere anche il contrario, il buon senso diceva che avrebbero dovuto assolvere e annullare questo processo, però purtroppo il buon senso nella giustizia non sempre funziona".

Come ha trascorso questi anni in attesa della conclusione di questo processo sulla trattativa Stato-mafia: in primo grado era stato condannato a 12 anni?

"Sono sempre stato tranquillo, altrimenti non sarei qui. Ho vissuto un film ma la trama era inventata totalmente. Io questo processo non l'ho neanche seguito. Mi sono sentito come un turco alla predica, di cosa stanno parlando? Ma avevo paura potessero credere a queste cose inventate servendosi dei soliti pentiti che hanno bisogno di dire cose per avere vantaggi per conto loro, servendosi di molta stampa che affianca le procure e soprattutto la procura di Palermo. Ripeto, non potevo essere certo di un’assoluzione, ma la speravo intimamente".

Eppure nel processo era accusato di avere avuto un ruolo di primo piano in una trattativa che prima era stata iniziata dai carabinieri.

"Non so esattamente di cosa fossi accusato. Credo fosse per aver ricevuto minacce dai mafiosi, che dovevo riferire a Berlusconi, minacciandolo a sua volta se non avesse provveduto a fare leggi a favore dei mafiosi. Tutta una cosa allucinante, Nel governo di Berlusconi ci sono state solo leggi contro i mafiosi".

Come spiega allora la condanna in primo grado?

"Il clima allora era tale che non bisognava vedere le carte. Io credo che oggi questa Corte abbia lavorato con criterio, cognizione e coscienza. I miei avvocati hanno smontato il processo dalle fondamenta, ho ascoltato le arringhe e non era possibile non riconoscere l'assurdità dell'impianto accusatorio".

Cosa farà in futuro, tornerà in politica?

"Ma non scherziamo".

E cosa farà, allora?

"Mi occuperò della mia collezione di libri conservati nella Fondazione di Milano. Sto per allestire la più grande biblioteca siciliana, che è mia intenzione donare un giorno alla Sicilia".

"Ancora non ci credo. Mi hanno infangato ma posso perdonare". Stefano Zurlo il 24 Settembre 2021 su Il Giornale. L'emozione del politico: " A ogni udienza non capivo di che cosa stessero parlando". 

Senatore Marcello dell'Utri... 

«Ancora non ci credo». 

Se l'aspettava? 

«In effetti è l'unica domanda da farsi». 

Sì, ma che cosa risponde? 

Si sente che è sollevato. Dirà che questa sentenza è stata una «svolta»; che in fondo in fondo era «tranquillo altrimenti... Non sarei qui»; che però di «tornare in politica non ci penso nemmeno, preferisco i miei libri». Lui, uno dei più grandi collezionisti di volumi antichi e non. Sono passate meno di due ore dalla lettura del verdetto della Corte d'Assise di Palermo. Marcello Dell'Utri assapora la sentenza che lo toglie dalla ragnatela vischiosa dei rapporti fra Cosa Nostra e lo Stato. Ci sarà tempo per leggere le motivazioni, intanto la pronuncia segna il flop di una delle più ambiziose indagini della storia giudiziaria italiana. «Ero accusato di aver ricevuto minacce da mafiosi che avrei dovuto riferire a Berlusconi minacciandolo a sua volta se non avesse provveduto a fare leggi a favore dei mafiosi. Una cosa allucinante, pensi che durante il governo Berlusconi ci sono state soltanto leggi contro i mafiosi». 

Insomma, era convinto di farcela? 

«Ci speravo, ma non ero sicuro di essere assolto. In questo Paese non basta avere avvocati bravissimi come i miei avvocati, che in aula avevano smontato tutta questa storia». 

Lei arrivava da una condanna di primo grado.

 «No, non mi parli del primo grado, ero nauseato». 

Il clima è cambiato? Oppure i giudici sono stati coraggiosi? 

«Su questo non dico niente. Dico che udienza dopo udienza stavo come un turco alla predica». 

Come chi? 

«Provi a pensare a un turco che va in chiesa e sta lì ad ascoltare. Cosa vuole che capisca?». 

Lei che cosa capiva? 

«Non capivo niente, o, meglio, non capivo di cosa parlavano. Dicevano che avevo incontrato questo, poi avevo incontrato quello, poi non so che cosa altro. Un film, totalmente inventato». 

C'erano delle accuse formulate dai pubblici ministeri di Palermo. 

«Qui non c'era il fatto. C'era un mostro, davvero ancora non ci credo. Era scontato che la condanna dovesse cadere, ma non ero sicuro che venisse giù. Era impossibile non riconoscere l'assurdità dell'impianto accusatorio. Il buonsenso diceva che avrebbero dovuto assolvermi e annullare questo processo, ma il buonsenso nella giustizia non sempre funziona». 

Forse il vento soffia da un'altra parte. 

«Sono stati dieci anni di fango. E sono contento per me, per la mia famiglia e pure per gli sconosciuti che mi hanno sostenuto. Aggiungo che sono disposto a dimenticare quello che mi hanno rovesciato addosso i giornali e le televisioni». 

Le parole lasciano spazio ad una smorfia, fra l'amaro e il sarcastico. Poi, il fondatore di Publitalia, l'amico di gioventù di Silvio Berlusconi, riprende a parlare e si capisce che è emozionato. «Sì, voglio davvero dire grazie ai tanti che non so nemmeno chi siano, ma mi sono stati vicini in questa storia interminabile». 

Che libro leggerà per festeggiare l'assoluzione? 

«Questa sera (ieri per chi legge, nda) non ho tempo per dedicarmi alla lettura». 

Non c'è un filosofo adeguato? 

«No, ci vuole un buon vino. E io ho scelto l'Amarone». Stefano Zurlo

Stato-Mafia, Labocetta: “Dell’Utri sopravvissuto al fango grazie ai suoi libri”. Redazione su Il Riformista il 24 Settembre 2021. “Esultai non poco quando – a dicembre di due anni fa – Marcello Dell’Utri ottenne la libertà. Oggi ho parlato lungamente con lui e ho provato una gioia immensa, una straordinaria emozione: la storia ha cancellato una pagina di fango gratuito, il tempo è stato galantuomo. I veri farmaci che gli hanno permesso di affrontare questo calvario giudiziario, che avrebbe distrutto chiunque, sono stati i suoi libri. E dai libri ripartirà insieme a quanti condividono la sua stessa passione: il grande impegno culturale. In quest’ottica il prossimo 9 novembre a Napoli, nel Teatro Sannazaro, insieme con Dell’Utri e Marcello Veneziani, autore di un capolavoro su Dante Alighieri a 700 anni dalla morte, onoreremo proprio il Sommo poeta, vero padre degli Italiani. Ringrazio con affetto il fraterno amico Dell’Utri per aver confermato un impegno assunto in tempi non sospetti. Sarà anche e soprattutto un modo per dire alla Politica – che purtroppo è ancora in esilio – che il suo ritorno nella nostra Nazione può avvenire solo se ci si affida ad un rivoluzionario progetto culturale. Grazie Dell’Utri, per non aver mai mollato. Insieme a tanti Italiani stiamo tornando a riveder le stelle”. Lo dichiara Amedeo Laboccetta, ex deputato di Napoli, presidente di Polo Sud.

Sentenza Stato-Mafia, parla la moglie di Dell’Utri: «A Palermo esiste un giudice, è la fine di un incubo». Il Corriere della Sera il 25 settembre 2021. Lo sfogo di Miranda Ratti: è la nostra vittoria, anche i nostri figli hanno pagato un prezzo altissimo. «A Palermo esiste un giudice. Che si chiama Angelo Pellino. Chapeau nei suoi confronti. Spero che questa sentenza segni un punto di partenza per la costruzione di uno Stato di diritto vero. Speriamo che si vada avanti nel modo giusto. Per noi finisce un incubo». A parlare, in una intervista rilasciata all’agenzia Adnkronos, è Miranda Ratti, moglie di Marcello Dell’Utri, l’ex senatore assolto «perché il fatto non sussiste» nel processo d’appello sulla trattativa tra Stato e mafia.

Le accuse. Dell’Utri era accusato di minaccia a corpo politico dello Stato. Un’assoluzione netta per l’ex politico che ha ormai finito di scontare una pena a sette anni di carcere per concorso estero in associazione mafiosa. Per i giudici della Corte d’assise d’appello di Palermo Dell’Utri non avrebbe fatto da «cinghia di trasmissione», come scrissero i giudici di primo grado che lo condannarono a 12 anni, della seconda trattativa messa in campo dai padrini di Cosa nostra nei confronti del governo Berlusconi, che si insediò nel 1994. 

«La nostra vittoria». «Questa è la nostra vittoria — dice ancora la signora Miranda — io che non credo nella magistratura, e mi riferisco ad esempio, al caso Palamara alla loggia Ungheria, posso dire oggi che c’è un giudice a Palermo». E ricorda questi ultimi anni, dopo la condanna definitiva, il carcere, la malattia, il processo trattativa. «Un prezzo altissimo che abbiamo pagato tutti in famiglia, anche i ragazzi — dice ancora —, c’era sempre questo “marchio” della mafia. Quando c’era gente che veniva a vedere la casa diceva: “Ah, ma questa è la casa di un mafioso”. E io rispondevo: “Si accomodi prego”. Soprattutto all’estero la gente non conosce le dinamiche politiche di uno Stato. E, alla fine, quello che scrive un giornale diventa verità».

"Finisce un incubo". Parla la moglie di Dell'Utri dopo l'assoluzione. Francesca Galici il 25 Settembre 2021 su Il Giornale. La signora Miranda Ratti, moglie di Marcello Dell'Utri, esprime soddisfazione per l'assoluzione del marito e ringrazia il giudice della corte d'Appello. Con la sentenza d'Appello che assolve Marcello Dell'Utri "perché il fatto non sussiste" nel processo d'appello sulla trattativa tra Stato e mafia, si chiude un incubo per l'ex senatore e la sua famiglia. "A Palermo esiste un giudice. Che si chiama Angelo Pellino. Chapeau nei suoi confronti. Spero che questa sentenza segni un punto di partenza per la costruzione di uno Stato di diritto vero. Speriamo che si vada avanti nel modo giusto", ha dichiarato Miranda Ratti, moglie di Marcello Dell'Utri in una intervista all'agenzia Adnkronos. L'ex senatore era accusato di minaccia a corpo politico dello Stato ma per lui c'è stata un'assoluzione netta perché, per i giudici della corte d'Appello, Dell'Utri non ha fatto da "cinghia di trasmissione", come scrissero i giudici di primo grado che lo condannarono a dodici anni. "Questa è la nostra vittoria. Io che non credo nella magistratura, e mi riferisco, ad esempio, al caso Palamara alla loggia Ungheria, posso dire oggi che c'è un giudice a Palermo", ha proseguito la moglie dell'ex senatore. Sono stati lunghi anni difficili per la famiglia Dell'Utri, non solo per l'ex senatore, come ha voluto ricordare Miranda Ratti: "Un prezzo altissimo che abbiamo pagato tutti in famiglia, anche i ragazzi. C'era sempre questo 'marchio' della mafia. Quando c'era gente che veniva a vedere la casa diceva: 'Ah, ma questa è la casa di un mafioso'". Quindi, la moglie dell'ex senatore ha fatto una riflessione: "Soprattutto all'estero la gente non conosce le dinamiche politiche di uno Stato. E, alla fine, quello che scrive un giornale diventa verità". Ora, con la sentenza di assoluzione in tasca e in attesa delle motivazioni, Marcello Dell'Utri e la sua famiglia vogliono cominciare una nuova vita. "Adesso si ricomincia, sia da parte nostra che da parte sua", ha proseguito Miranda Ratti, che ha ricordato anche che con la sentenza è stato annullato il divieto di espatrio, "così, finalmente, può farsi un pò di vacanza, visto che dal 2014 non ha fatto un solo giorno di vacanza". La signora Miranda Ratti è tornata sulla condanna a sette anni per concorso esterno: "Si è fatto il carcere ingiusto che nessuno gli ripaga. Ha rischiato anche la vita, con la sepsi in carcere. Ma stiamo scherzando? È stata una cosa drammatica". Quindi, la moglie dell'ex senatore ha ringraziato i legali che hanno seguito Marcello Dell'Utri negli ultimi anni: "Sono stati in grado di ricostruire e tirare fuori le vergogne di questa accusa. I pg dicevano 'si può dedurre che', ma mica si può fare un processo sulle deduzioni. Una cosa fuori dal mondo che un pg porti davanti a una corte una cosa così opinabile. Sono grata a questo giudice Pellino non solo per mio marito ma anche per i generali Mori, Subranni e per il colonnello De Donno". La signora Ratti ha concluso: "Adesso aspettiamo la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. Perché c'è ancora in ballo il ricorso dei nostri legali". 

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Sentenza Stato-mafia, assolti Dell’Utri e i carabinieri: ecco cos’era la presunta trattativa. Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 17 aprile 2018. La mafia avrebbe alzato il tiro contro le istituzioni dopo la sentenza definitiva sul maxiprocesso, lo Stato, per fermare l’ondata di sangue avrebbe intavolato un dialogo segreto con i boss. le fonti di prova (e i punti deboli) del teorema

Personaggi e interpreti

Il processo sulla cosiddetta trattativa stato mafia, che oggi è approdato alla sentenza d’appello ha fatto «ballare» politica e giustizia in Italia per una ventina d’anni. L’accusa si è mossa sulla base di uno scenario in base al quale di fronte all’offensiva di Cosa Nostra che insanguinò l’Italia a partire dagli anni ‘90, lo Stato avrebbe risposto cercando un accordo con i capi della mafia. Sul banco degli imputati davanti alla Corte d’Assise di Palermo si sono trovati rappresentanti delle istituzioni (gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno) , Marcello Dell’Utri e i capimafia Antonio Cinà, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca. All’inizio delle udienze nel processo erano accusati anche Totò Riina e Bernardo Provenzano, poi deceduti. Stralciata la posizione degli ex ministri Calogero Mannino (nel frattempo assolto) e Nicola Mancino (quest’ultimo accusato solo di falsa testimonianza). 

 La rottura: l’omicidio Lima

Il fatto da cui sarebbe scaturita la trattativa viene fissato dai pm di Palermo nell’omicidio dell’europarlamentare Dc Salvo Lima (marzo 1992): ritenuto contiguo ai clan, Lima agli occhi dei boss sarebbe stato ucciso in quanto non più in grado di garantire i rapporti tra Cosa Nostra e istituzioni. La frattura avviene in particolare dopo la sentenza definitiva sul maxiprocesso di Palermo. Rotti questi equilibri, la mafia si sarebbe vendicata alzando il tiro contro lo Stato. Tale strategia sarebbe passata attraverso gli omicidi «eccellenti» di Falcone e Borsellino, gli attentati del ‘93 a Milano, Firenze e Roma, tutti attribuiti a Totò Riina e ai suoi complici. 

Mannino diede il via alla trattativa?

Sempre nel quadro «disegnato» dall’accusa, il primo passo dello Stato verso la mafia viene compiuto da Calogero Mannino: divenuto bersaglio di minacce l’indomani dell’omicidio Lima (gli viene recapitata una corona funebre), l’esponente Dc contatta i vertici dei carabinieri e questi ultimi (in particolare il generale Mori) avrebbero a loro volta avvicinato l’ex sindaco di Palermo condannato per mafia Vito Ciancimino. Mori ha sempre ammesso questo contatto ma non lo ha mai inquadrato come un «patteggiamento» con Cosa Nostra. Da qui si sarebbe dipanata la trattativa i cui «segnali» sarebbero stati la revoca del carcere duro per oltre 300 condannati per mafia nel ‘93, la cattura di Riina («venduto ai carabinieri» in cambio della latitanza per Provenzano), l’omicidio Borsellino (ucciso perché contrario alla trattativa) e presunti incontri tra capimafia (ad esempio i fratelli Graviano) ed esponenti della politica. E più avanti un abboccamento per far convergere i voti di Cosa Nostra su Forza Italia attraverso Cinà, Dell’Utri e lo «stalliere» Vittorio Mangano. 

Il «papello» mai trovato

Cuore della trattativa sarebbe però il cosiddetto «papello»: un documento fatto recapitare da Riina agli esponenti delle istituzioni (attraverso i carabinieri) con una serie di richieste. Tra esse ci sarebbero state l’abolizione del carcere duro per i mafiosi e del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso. In cambio di quella richiesta veniva promessa una «pax» mafiosa e la cessazione degli attentati. Quel pezzo di carta, tuttavia, non è mai stato ritrovato. Anzi: una copia messa a disposizione degli inquirenti da parte di Massimo Ciancimino, figlio di Vito, si è rivelato una «patacca». Costata l’incriminazione allo stesso Ciancimino junior.

Le fonti di prova? I pentiti

Le fonti di prova per questa trama portate dalla procura all’attenzione della Corte sono state essenzialmente le deposizioni dei pentiti. Giovani Brusca in primis, ma anche Salvatore Cancemi, Nino Giuffrè e Gaspare Spatuzza. Tutti (ma solo loro) avvalorano il fatto che l’indomani del delitto Lima e degli attentati venne avviato il dialogo tra i carabinieri e i capimafia. Anche alcune sentenze avvalorano l’ipotesi che sia esistito un patteggiamento tra Stato e malavita organizzata ma sempre sulla scorta dei collaboratori di giustizia. Vengono ritenute inoltre rilevanti le intercettazioni in carcere dei colloqui di Totò Riina con un compagno di cella. In particolare una frase («Sono loro che si sono fatti sotto...») che alluderebbe secondo i pm a una volontà dello Stato di avvicinare i capi della mafia per intavolare la trattativa. Ci sono poi i colloqui tra i carabinieri e Vito Ciancimino, ai quali i giudici di primo e secondo grado hanno però dato valutazioni contrapposte.

I punti deboli dell’accusa

L’impianto dell’accusa, tuttavia, ha subito alcuni colpi che ne hanno messo in dubbio la solidità. Questi colpi sono arrivati in particolare da sentenze «esterne» al processo Stato-mafia ma ad esso connesse. Ad esempio, Calogero Mannino è stato assolto definitivamente dopo 25 anni di processi da tutte le accuse: dunque nel suo comportamento non è stato ravvisato alcun «avvicinamento» con le cosche. Anche il generale dei carabinieri Mario Mori è stato assolto dall’accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano: questa avrebbe dovuto essere una delle «monete di scambio» tra la mafia e le istituzioni. E infine era già crollata la credibilità di Massimo Ciancimino, le cui presunte rivelazioni (ad esempio sulla partecipazione di un fantomatico «signor Franco» dei servizi segreti alla partecipazione delle stragi mafiose) sono rumorosamente crollate a dispetto della loro eco mediatica.

Le intercettazioni di Napolitano

Le indagini sono arrivate anche a lambire il Quirinale e in particolare il presidente emerito della repubblica Giorgio Napolitano. Nicola Mancino, ex ministro degli interni, avrebbe chiamato più volte il Quirinale sostenendo che le indagini dovessero essere tolte alla procura di Palermo; i colloqui avvennero anche con il consigliere del Capo dello Stato, Loris D’Ambrosio il quale arrivò anche a sospettare che fossero stati sottoscritti «indicibili accordi» tra Stato e clan. Quelli di D’Ambrosio, nel frattempo deceduto, rimasero dei sospetti. Indagando su Mancino, tuttavia, i pm di Palermo intercettarono involontariamente alcuni colloqui tra quest’ultimo e Napolitano. La procura chiese a questo proposito di distruggere le telefonate irrilevanti e di conservarne altre che avrebbero potuto tornare utili in futuro. Nel 2012 Napolitano solleva però un conflitto di attribuzione davanti alla corte Costituzionale sostenendo che quelle intercettazioni fossero illegittime e non potessero divenire oggetto di valutazione se non nell’ambito del reato di alto tradimento o attentato alla Costituzione. Il 4 dicembre 2012 la Consulta ha dato ragione a Napolitano e ordinato l’immediata distruzione dei colloqui.

Trattativa Stato-mafia, Mancino: “Io vittima di un teorema ora crollato”. Concetto Vecchio su La Repubblica il 25 settembre 2021. L'ex presidente del Senato: "Il verdetto d'appello cancella in un colpo ciò che la procura di Palermo aveva costruito in dieci anni. Di Matteo fu molto duro nei miei confronti, ma poi non fece ricorso contro la mia assoluzione"

Nicola Mancino, cosa ha provato quando ha saputo dell'esito della sentenza Stato-mafia?

"Ho pensato che il verdetto cancellava d'un colpo ciò che la Procura di Palermo aveva costruito in dieci anni di indagini. È crollato un intero castello d'accusa".

Se l'aspettava?

"Sì e no, però trovo che abbia ragione il maestro Giovanni Fiandaca: i suoi allievi pubblici ministeri hanno preso una cantonata".

Mancino: «Io vittima di un teorema ora crollato». Parla l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, assolto in primo grado dall'accusa di falsa testimonianza nell'ambito del processo sulla presunta trattativa Stato-Mafia. Il Dubbio il 26 settembre 2021. «Sono stato vittima di un teorema che doveva mortificare lo Stato e un suo uomo. Sono stato volutamente additato ad emblema di una trattativa inesistente, relegato perciò per anni in un angolo. Non mi invitavano più neanche al Senato». A dirlo, in un’intervista a La Repubblica, l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, assolto in primo grado dall’accusa di falsa testimonianza nell’ambito del processo sulla presunta trattativa Stato-Mafia. L’accusa non fece ricorso in appello. «Alla fine mi è stata resa giustizia. Ma che sofferenza!», racconta. Nell’estate del 1992 «lo Stato venne colto di sorpresa – spiega -. Col senno di poi dobbiamo ammettere che non era preparato. Dobbiamo aggiungere che da allora la lotta alla mafia è stata efficace». Per Mancino gli attentati a Falcone e Borsellino «erano eventi non prevedibili». E alla domanda su cosa abbia provato quando ha saputo dell’esito della sentenza Stato-mafia, Mancino risponde: «Ho pensato che il verdetto cancellava d’un colpo ciò che la Procura di Palermo aveva costruito in dieci anni di indagini. È crollato un intero castello d’accusa». Secondo Mancino, «trovo che abbia ragione il maestro Giovanni Fiandaca: i suoi allievi pubblici ministeri hanno preso una cantonata». In aula il pm Nino Di Matteo lo accusò di omertà istituzionale. Un giudizio «ingeneroso», secondo Mancino: «Di Matteo fu molto duro nei miei confronti, dopodiché non fece ricorso in appello in seguito alla mia assoluzione». Una contraddizione, sostiene, «ma prese senz’altro la decisione più giusta». Sulla posizione di Ingroia, secondo cui la sentenza conferma la trattativa, Mancino è chiaro: «Penso che la trattativa non ci fu. Mi rifiuto di credere, da un punto di vista culturale e politico, che lo Stato potesse cedere alla mafia. Ciò premesso, prima di esprimere dei giudizi bisognerebbe sempre leggere le motivazioni». In ogni caso, secondo l’ex ministro, il processo non andava celebrato. «Voglio anche precisare che la trattativa non ha mai riguardato la mia persona. Ho sempre fatto il mio dovere io».  Nonostante la sofferenza, Mancino non ha chiesto un risarcimento allo Stato. «Qualche tentazione l’ho avuta. Poi ho pensato che sarebbe stato come fare causa contro me stesso, perché ero e sono un uomo dello Stato. E in fin dei conti per me era più che sufficiente l’assoluzione piena maturata in tribunale».  E nonostante ciò non firmerà i referendum sulla giustizia. «Ritengo che una materia così complessa come la giustizia, che pure ha bisogno di riforme, debba essere affrontata in Parlamento».

Trattativa Stato-Mafia, Martelli: "I carabinieri agivano in modo anomalo, ma non era un reato".  Gabriele Bartoloni su La Repubblica il 25 settembre 2021. L'ex ministro della Giustizia all'epoca dei fatti: "Se qualcuno tratta con la mafia per avere dei vantaggi personali è un conto, ma se lo si fa per trovare prove è un'altra cosa". Claudio Martelli era ministro della Giustizia all'epoca della "trattativa Stato-mafia". In trent'anni non ha mai cambiato opinione: "C'era un anomalia nel comportamento degli ufficiali - ammette l'ex Guardasigilli - ma di certo non un reato". Martelli parla di Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, gli ufficiali del Ros assolti in appello dai giudici di Palermo insieme all'ex braccio destro di Berlusconi Marcello Dell'Utri.

Anna Maria Greco per “Il Giornale” il 25 settembre 2021. Claudio Martelli, ministro della Giustizia tra il '91 e il '93, all'epoca delle stragi di mafia, e sostenitore della linea dura contro Cosa nostra, legge le vicende dei due processi di Palermo come uno scontro di potere tra pm e carabinieri e un tripudio di ambizioni personali. «Purtroppo se i pm vogliono scrivere la storia politica si generano disastri. Loro devono accertare i reati». 

Con la sentenza d'appello crolla il teorema della trattativa Stato-mafia, affermato in primo grado nel 2018?

«No, anzi viene confermato che c'è stata una trattativa tra apparati dello Stato, nello specifico i Ros dei carabinieri, con esponenti di Cosa Nostra come Ciancimino, per avere informazioni utili per le indagini, evitare nuove stragi e catturare Totò Riina. Ma un conto è la trattativa di un privato cittadino, un conto è quella di rappresentanti delle istituzioni con mafiosi, per convincerli a collaborare con la giustizia, offrendo benefici. Qualcosa che si fa spesso, sempre...».

Lei ha sempre parlato di cedimento dello Stato, diverso da una trattativa.

 «Verissimo e lo confermo. Nel maggio e poi nell'ottobre del '93, quando il mio successore alla Giustizia Conso tolse dall'isolamento del carcere duro prima 100 poi 300 mafiosi fu un atto di cedimento, un errore politico gravissimo. Ma non è un reato pensare, sbagliando, che così sarebbero finite le stragi». 

Conso disse di aver voluto mandare un «segnale di disponibilità all'ala moderata di Cosa nostra, guidata da Provenzano».

«Fu un errore colossale. Ma sull'iniziativa dei Ros di trattare con Ciancimino ci sono stati 5-6 processi, ingiusti, mentre sull'errore di Conso non ce ne potevano essere». 

Lei è sempre stato contrario ai contatti con Ciancimino.

«Mi lamentai con i superiori di Mori e Di Donno per la loro iniziativa, però al massimo si potevano individuare responsabilità professionali, disciplinari non certo penali. Avevamo appena varato la Dia e la Dna, per creare un coordinamento per i delitti di mafia tra intelligence, polizia, carabinieri e guardia di finanza. E invece Mori fece per conto suo. Chiesi perché non avesse informato i suoi superiori, lui poi spiegò di aver parlato con Subranni. Ma perché, invece, non informò il nuovo organo unitario?».

Si seguivano le vecchie logiche....

«È così, ma trattare con la mafia è altro. Qualche mese fa è stato liberato Giovanni Brusca, l'assassino materiale di Falcone, dopo una trattativa di anni perché collaborasse in cambio di un trattamento speciale, di sconti di pena. Una trattativa, appunto. L'intelligenza di questa sentenza non è che manda assolti tutti, ma che dice: non ci sono reati». 

L'assoluzione dell'ex ministro Mannino, considerato uno dei tramiti del ricatto mafioso, aveva già demolito il castello di carte dei pm palermitani?

«Beh sì, aveva tolto il mattone su cui avevano costruito tutto l'edificio».

Da ex Guardasigilli come giudica un processo che per un decennio ha impegnato il sistema giudiziario, condannato militari e politici ora assolti e costruito l'immagine infamante di uno Stato che scende a patti con la mafia, mentre ora rischia il fallimento?

«Lo giudico un disastro. All'origine di tutto c'è la condotta della procura di Palermo, guidata da Gian Carlo Caselli. I carabinieri prima furono accusati di non aver perquisito il covo di Riina dopo l'arresto (risposero che volevano vedere chi andava lì), poi di aver favorito la latitanza di Provenzano. C'è una lotta infinita tra corpi dello Stato all'origine dei processi. I pm volevano riaffermare il loro potere sui carabinieri, dire noi comandiamo e voi siete sottomessi all'autorità giudiziaria».

C'era un disegno politico?

«All'epoca era questione di potere, poi che nel tempo qualcuno abbia puntato a bersagli politici...».

Berlusconi, a capo del governo?

«Non c'è dubbio, sì. Quando i pm vogliono scrivere la storia si generano disastri». 

Con quest' ultima sentenza, come si riscrive la storia di quegli anni?

«Una storia di lotte di potere e ambizioni personali spropositate. Un episodio di cui sono testimone: Caselli era procuratore di Torino e nel dicembre 92 fu nominato a Palermo, mi chiese di posticipare l'insediamento di 30 giorni, perché aveva un importante processo, diedi l'assenso, ma pochi giorni dopo fu catturato Riina e si precipitò a Palermo, come avesse guidato l'operazione, per essere in conferenza stampa. Ambizione, vanità, il piatto era troppo gustoso per non ficcarcisi».

Di ambizioni personali se ne sono viste diverse. Ingroia?

«Un magistrato che scrive un libro e lo intitola: Io so. Nelle prime pagine avverte di non poter provare ciò che dice, come se non fosse un magistrato che questo deve fare. Poi si dimette, accetta un incarico in Guatemala, torna e fonda un movimento che fa flop. Che dire: una risata lo seppellirà».

"La trattativa Stato-mafia nel 1992 ci fu ma non è reato". Assolti Mori, De Donno e Subranni. Non colpevole Dell'Utri. Condannato solo Bagarella. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 23 settembre 2021. La Corte d’assise d’appello di Palermo demolisce la sentenza di primo grado del processo “Trattativa Stato-mafia”. Arriva l’assoluzione per l’ex senatore Marcello Dell’Utri ("per non avere commesso il fatto"), per gli ex generali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni ("perchè il fatto non costituisce reato"), in primo grado erano stati condannati a 12 anni. Assoluzione anche per l’ex colonnello Giuseppe De Donno, che aveva avuto 8 anni. Tutti erano imputati del reato di minaccia a un corpo politico, minaccia lanciata dai mafiosi con le bombe. La corte ha confermato invece la condanna per i boss Leoluca Bagarella, riducendola da 28 a 27 anni di carcere, e Antonio Cinà, 12 anni. Segno che la minaccia mafiosa ci fu, con le bombe del 1992 (Capaci e via d'Amelio) e del 1993 (tra cui via dei Georgofili a Firenze e via Palestro a Milano), ma gli uomini delle istituzioni imputati non la trasmisero ai vertici governativi. E nessuno, nel palazzo del governo, raccolse il ricatto. L'accusa per Bagarella è stata riqualificata in tentata minaccia al governo Berlusconi. Questa la decisione del collegio presieduto da Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania) tre anni e mezzo dopo la sentenza di primo grado, che era stata emessa dalla corte d’assise presieduta da Alfredo Montalto, il 28 aprile 2018. Una decisione che respinge le richieste dei sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, che avevano sostenuto l’accusa in secondo grado.

Nel corso del dibattimento era stata già dichiarata prescritta la condanna di Massimo Ciancimino, il supertestimone del processo, che in primo grado aveva avuto 8 anni per aver calunniato l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. La sentenza conferma la prescrizione per il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca.

Il ruolo degli ex ufficiali del Ros

Nella ricostruzione dei pubblici ministeri del primo grado (Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi), la trattativa fra Stato e mafia sarebbe stata articolata in due fasi. Nel 1992, gli ufficiali del Ros avrebbero cercato di fermare la strategia delle bombe intavolando un dialogo segreto con l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino. Dialogo mai negato dagli ufficiali finiti sotto accusa. Anzi, rivendicato, come “operazione di polizia” finalizzata non a concessioni, ma alla cattura di Riina. "Giammai, una trattativa può essere ritenuta illecita né sotto il profilo politico, né sotto quello giuridico – hanno argomentato gli ex ufficiali nel processo – competendo al potere esecutivo e alle forze dell’ordine promuovere tutte le iniziative ritenute necessarie per prevenire l’ulteriore commissione di gravi crimini". Mori, Subranni e De Donno avevano peraltro sempre negato di avere mai ricevuto il “papello” con le richieste di Riina per fermare le stragi.

Ricostruzione che in primo grado non era stata accolta. La sentenza di condanna aveva contestato "il dolo specifico di colui che abbia lo scopo di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso o che comunque abbia fatto propria tale finalità". L’assoluzione di oggi dice invece che l’attività degli ufficiali del Ros fu lecita. E accoglie in pieno la linea della difesa, sostenuta dagli avvocati Basilio Milio e Francesco Romito.

Le accuse a Dell’Utri

Per l’accusa, ci sarebbe stata anche una seconda trattativa dopo l’arresto di Riina, fra il 1993 e il 1994, condotta dal boss Bernardo Provenzano e dall’ex senatore Marcello Dell’Utri. Quest’ultimo, già condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, era stato ritenuto responsabile di aver fatto da “cinghia di trasmissione” di un’altra minaccia; destinatario finale, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, dal maggio 1994 al suo primo governo. Per i giudici di primo grado, il messaggio era stata recapitato, e anche accolto: stava infatti per essere approvata una norma che avrebbe fatto un gran favore ai boss. Questo veniva ricostruito nella sentenza della corte d'assise. Nel decreto Biondi era previsto che l’arresto per i mafiosi non sarebbe stato più obbligatorio in assenza di “esigenze cautelari”. Poi, un’intervista dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni fece saltare l’approvazione.

Adesso, la sentenza d’appello fa cadere anche questa ricostruzione.

Sentenza Trattativa, il post choc del fratello dell'agente ucciso con Borsellino: "Grazie anche a nome di Claudio". Salvo Palazzolo su La Repubblica il 24 settembre 2021. Lo sdegno di Luciano Traina, poliziotto in pensione: "Non possiamo dimenticare le parole di Brusca. La trattativa, che oggi dicono non fu reato, accelerò la strage di via D'Amelio". E' arrabbiato Luciano Traina, il fratello di uno degli agenti di scorta morti con il giudice Paolo Borsellino, il 19 luglio 1992. "Grazie anche a nome di Claudio", ha scritto su Facebook dopo la sentenza della corte d'assise d'appello di Palermo che ha assolto Mori e Dell'Utri. Ha postato una foto del funerale. Luciano Traina è un ex poliziotto della squadra mobile di Palermo, uno di quelli che arrestò Giovanni Brusca, il mafioso che azionò il telecomando della strage di Capaci.

Perché questo post?

"Ci hanno detto che la trattativa non fu reato. Ma non possiamo dimenticare che quel dialogo segreto dei carabinieri del Ros con l'ex sindaco Ciancimino accelerò la morte di Paolo Borsellino e dei ragazzi della scorta. L'ha detto Giovanni Brusca, riferendo le parole di Totò Riina nel giugno 1992: “Si sono fatti sotto, dobbiamo dare un altro colpetto”. Ovvero, il capo di Cosa nostra volle alzare il prezzo della trattativa. E diede mandato di organizzare la strage di via D'Amelio".

I giudici della corte d'assise d'appello hanno detto però che quel dialogo segreto avviato con l'ex sindaco mafioso di Palermo non fu reato.

"Sono amareggiato. Io ho fatto il poliziotto per tanti anni a Palermo, alla squadra mobile. Mai mi sarei sognato di andare a dialogare con i vertici dell'organizzazione mafiosa. Se l'avessi fatto, mi avrebbero arrestato".

Erano anni in cui non c'erano intercettazioni così sofisticate come oggi per fare le indagini. I carabinieri si sono sempre difesi dicendo che quel dialogo segreto con Ciancimino fu un'operazione di polizia, per entrare nei segreti di Cosa nostra.

"In quegli anni, c'era già la possibilità di fare intercettazioni. Con i miei colleghi siamo entrati dentro tanti segreti di mafia. La squadra mobile di Palermo ha arrestato fior di latitanti protagonisti delle stragi grazie alle intercettazioni, non certo facendo trattative".

Cosa succede adesso? Un pezzo consistente del movimento antimafia si è fondato sull'inchiesta Trattativa.

"Mi verrebbe di abbandonare tutto. Ma poi penso: che messaggio è stato dato ai giovani con questa sentenza? Un messaggio devastante: trattare con la mafia non è reato. E allora mi dico che devo continuare ad andare nelle scuole e nelle piazze. Per testimoniare i valori per cui sono morti Paolo Borsellino, mio fratello Claudio e tanti martiri di Palermo".

Trattativa Stato Mafia, i misteri di Cinà, il medico di Riina che resta condannato. La Repubblica il 25 settembre 2021. Su un personaggio e i suoi misteri i giudici d'appello della "Trattativa" sono stati d'accordo con i colleghi del primo grado: Antonino Cinà, il medico del capo dei capi Totò Riina, rinchiuso all'ergastolo, è la figura chiave di questa storia tutt'altro che chiusa. È l'unico imputato che si è visto confermare la condanna: 12 anni. Nessuno ha avuto dubbi sulla ricostruzione fatta dal pool di Palermo: "Prima fece da tramite tra l'ex sindaco Vito Ciancimino e Riina, per recapitare a quest'ultimo la sollecitazione alla trattativa pervenuta a Ciancimino dai carabinieri - scriveva la corte d'assise di primo grado, presieduta da Alfredo Montalto - poi, fece ancora da tramite tra Riina e Ciancimino per recapitare a quest'ultimo...

“IO, POLIZIOTTO ANOMALO A PALERMO”. Giampaolo Pansa il 3 settembre 1998 su La Repubblica, inviato a Palermo. Lei vuol sapere perché non vado alla fiaccolata del 3 settembre? Per dare la risposta più completa, dovrei farle vedere l'immagine che ho nella memoria. E' l'immagine di mio padre, Lenin Mancuso, steso sul lettino del pronto soccorso all' ospedale di Villa Sofia, nudo, sforacchiato da otto colpi, sei di carabina automatica Winchester e due di revolver calibro 38, coperto di sangue, cianotico, gli ultimi respiri sempre più corti, affannosi, un ansimare sordo che diventa rantolo.... Carmine Mancuso, ispettore-capo di polizia a Palermo, ha 40 anni, ma conserva una faccia da ragazzo e un carattere conseguente: istintivo, ribelle, dolcissimo, impetuoso, ironico. E' il presidente del Coordinamento Antimafia, libera associazione di cittadini che s' è fatta un'ottima (o pessima) fama replicando con durezza e Sciascia e alla figura da lui creata, quella dei professionisti dell'antimafia. Winchester e Kalashnikov Ripensata oggi, in una Palermo sospesa sul baratro del proprio futuro, una Palermo che potrebbe tornare indietro di anni, all' età dell'anti-Stato mafioso imperante con i suoi comitati d' affari sorretti dalle raffiche dei Winchester e dei Kalashnikov, la costruzione sciasciana sembra ancor più priva di senso. Quali professionisti? Piuttosto poveri cristi, che ogni mattina riprendono la resistenza contro un potere smisurato. Gente con storie personali che spiegano come la rabbia della Palermo 1988 abbia radici lunghe, ben infisse in un passato dove tutto si tiene. Racconta Carmine Mancuso: Mio padre era nato in un paese di Calabria, Rota Greca. Pensi alla sua data di nascita: il 6 novembre 1922, nove giorni dopo la marcia su Roma. Mio nonno era un socialista libertario iscrittosi al Pci appena fondato, e volle chiamare quel figlio Lenin. Un nome pesante per i tempi. Ma fu portato bene, anche dentro un mestiere dove chi si chiamava Lenin non aveva vita facile. Il mestiere di mio padre era il poliziotto. Nel 1943 entrò nella Squadra mobile di Palermo e lì rimase tutta la vita, raggiungendo il grado di maresciallo. Alla fine era un po' la memoria storica della Mobile palermitana: il sottufficiale che aveva visto tutto, dalla lotta al banditismo sino alla guerra di mafia, sempre più estesa, brutale, gonfia di sangue. In questa guerra, Lenin Mancuso incontra l'uomo accanto al quale morirà: Cesare Terranova, magistrato. Papà cominciò a lavorare con lui quando Terranova impostava l'indagine che poi sarebbe sfociata nel processo ai 114, a Catanzaro, quello con Liggio, Buscetta, Gerlando Alberti. Fu l'inizio d'un rapporto non soltanto professionale, ma d' una amicizia. Un legame fortissimo che continuò anche quando Terranova, eletto deputato con la Sinistra indipendente, interruppe il mestiere di magistrato per lavorare a Roma nella Commissione Antimafia, quella alle prese con le mutazioni dell'anti-Stato mafioso che scopriva la droga, la grande finanza, la compenetrazione sempre più intima con un potere politico deviato. Nell' estate 1979, dopo due legislature, Terranova decise di riprendere il lavoro di giudice. Lo ricorda quel tempo e quel clima? mi chiede Carmine La forza di Cosa Nostra s' espandeva trovando pochi ostacoli. Ma anche lo Stato dei cittadini disponeva di buoni combattenti a Palermo. La Procura era guidata da Gaetano Costa. Il capo della Mobile era Boris Giuliano, che stava inoltrandosi sul terreno minato del riciclaggio di denaro sporco. Infine c' era Terranova, destinato a diventare capo dell'Ufficio Istruzione. Anche i sassi sapevano che, una volta insediato in quell' incarico, Terranova non sarebbe rimasto a dormire. E poi l'esperienza di anni d' Antimafia gli consentiva di veder più in profondo di altri, di cogliere con maggior sicurezza certi intrecci, certi nessi, certe complicità sepolte. Terranova, Costa e Giuliano al lavoro insieme: ecco un rischio grave per Cosa Nostra, da evitare con una spietata prevenzione. Per prima fu decisa la morte di Boris Giuliano. La mattina del 21 luglio 1979, appena uscito di casa, mentre sorbiva un caffè al Bar Lux di via Di Blasi, il capo della Mobile fu ucciso. Racconta Carmine: Quel giorno io ero di servizio alle volanti. Papà mi chiamò da Sciacca dove stava in ferie. Mi parlò angosciato. Conosceva da anni Giuliano, l'aveva visto crescere, gli voleva bene, era il suo capo. Nel parlarmi, mi trasmise una sensazione di paura: Prevedo cose funeste disse. Poi ci furono i funerali, la Mobile in lutto, commozione, tensione. La risposta dello Stato? Soprattutto parole. Venne l'agosto e poi settembre. In attesa dell'incarico all' Ufficio Istruzione, Terranova faceva il presidente di sezione alla Corte d'appello. Ogni mattina mio padre andava a prenderlo a casa. Parcheggiava l'utilitaria in via Rutelli, saliva dal giudice, poi entrambi andavano a Palazzo di Giustizia. No, niente auto blindata. Viaggiavano sulla 131 di Terranova, lui al volante, papà a fianco, armato della Beretta d' ordinanza. Il martedì 25 settembre, Terranova doveva presiedere un processo. Il giudice e il maresciallo s' avviarono al lavoro. La 131 stava partendo quando fu affiancata da due giovani. Quello dalla parte di Mancuso cominciò a sparargli col Winchester. L' altro tirò sul giudice con la calibro 38. Terranova morì subito. Mancuso fu trovato ancora vivo, reclinato sul magistrato, quasi a proteggerlo. Aveva la mano destra sulla fondina della pistola che non aveva fatto in tempo ad estrarre. Era un uomo bellissimo... Io stavo a casa e fui avvisato dal funzionario di turno alla sala operativa. Corsi a prendere mia madre e andammo a Villa Sofia. Entrai d' impeto nella sala di medicazione. Mio padre era un uomo bellissimo, alto, slanciato, capelli neri ondulati, un attore del cinema. Dimostrava molto meno dei suoi 56 anni, c' è un acquarello di Guttuso che lo ricorda così. Lo vidi là, straziato dal Winchester, rantolante. Il medico mi cacciò via con un grido. Dopo qualche minuto, uscì anche lui, facendo un gesto di sconforto. Trascorsero poco più di tre mesi, poi gli squadroni della morte di Cosa Nostra ripresero il lavoro di prevenzione: a gennaio dell'80 uccisero il presidente della Regione, Mattarella, in maggio il capitano dei carabinieri Basile, in agosto il procuratore capo Costa. Nel frattempo, l'inchiesta sull' assassinio di Terranova e Mancuso s' era diretta verso Luciano Liggio, presunto mandante per motivi di rancore nei confronti del giudice. Ma Liggio fu assolto, sia pure con dubbio, tanto in primo che in secondo grado. Carmine ha una sua certezza: Liggio il mandante? Ridicolo. E' un'ipotesi che non rende giustizia alla logica. Quello di Terranova è stato un assassinio politico, l'anello d' una catena di delitti politici che arriva sino ai nostri giorni con l'omicidio dell'ex-sindaco di Palermo Insalaco. Tante morti. Troppe morti. Ma la repubblica italiana non ci ha ancora dato la spiegazione di queste morti. Con l'istinto semplificante di chi mira al nocciolo dei problemi, Carmine aggiunge: A ben guardare, Terranova era il Falcone di quegli anni. Dopo l'esperienza in Parlamento e all' Antimafia, conosceva meglio di prima la mafia, la politica, la magistratura e il modo in cui si muovono, si combattono o s' alleano. Insomma, Terranova forse era in grado di fare ciò che poi i giudici del pool antimafia hanno cominciato a fare, soprattutto con l'istruttoria su Vito Ciancimino, il passaggio a nord-ovest per arrivare al cuore dell'anti-Stato mafioso. Lei mi chiede chi è stato ad uccidere Terranova e mio padre. Vede, non esiste il Grande Vecchio della mafia. Esiste, invece, un coacervo d' interessi o un sistema di potere che impongono certe decisioni alle cosche. Queste decisioni nascono in un contesto politico che non è ancora stato scalfito. Lei lo ha chiamato il Grande Enigma. Qualcuno stava tentando di risolverlo, il pool antimafia guidato da Falcone. Guardi che fine rischia di fare, il pool! Ecco perché non vado alla fiaccolata. Temo che nel corteo ci sia anche gente non estranea a quel contesto, a quegli interessi, a quel sistema di potere che ha deciso certi delitti. E l'immagine di mio padre straziato sul lettino del pronto soccorso, mi rafforza nella decisione. Quell' immagine ha cambiato anche il destino umano di Carmine Mancuso. Io sono il primo figlio di Lenin Mancuso, il figlio della fame, nato in una casa dove allora mancava quasi tutto, tranne l'affetto. Vivevo nell' ammirazione per mio padre e sono entrato in polizia per imitarlo. Ho cominciato a capir qualcosa quando facevo l'agente a Milano. Avevo vent' anni ed ero in servizio a piazza della Scala, il 7 dicembre 1968, mentre gli studenti tiravano le uova marce sulle signore in pelliccia. Mario Capanna ci arringava col megafono: poliziotti, figli del popolo! L' ascoltavo e capivo d' essere dalla sua parte.... Carmine sorride: Mi sento anomalo anch' io, come la giunta di Palermo. Lo confesso: sono stato un poliziotto sessantottino, di nascosto, naturalmente. La sera, in borghese, andavo a cercar Capanna alla Statale. Siamo diventati amici, lo siamo ancora. Certo, erano anni aspri, violenti. Me lo ricordo bene, il collega Annarumma, quando fu ucciso in via Larga nel novembre 1969. Ero in servizio davanti al Palazzo di Giustizia, e da porta Vittoria vedevamo il fumo dei lacrimogeni venire da via Larga. Stavo alla caserma Sant' Ambrogio e quella notte ci ribellammo. Poi ho girato l'Italia e infine sono tornato a Palermo. Qui ho visto una violenza diversa, imparagonabile a quella d' allora: la violenza degli omicidi preparati, annunciati, eseguiti e poi festeggiati nell' impunità. Un' insurrezione della coscienza Quando toccò a mio padre, dapprima provai uno sgomento totale, un'angoscia indicibile, quindi caddi nella paura, nel terrore. Avevo inchiodata davanti agli occhi quella figura sul lettino, coperta di sangue. Poi, dentro di me, ci fu come un'insurrezione della coscienza, una voglia di reagire, di fare giustizia. Questo mi ha dato una specie di corazza, impenetrabile a qualsiasi pressione. E mi son reso conto che per ottenere giustizia la strada è lunga, ci vuole un grande impegno, anche culturale, nella lotta alla mafia. Ma questa lotta bisogna farla tutti i giorni, perché o vince la democrazia o vincono i poteri criminali, non c' è via di mezzo. Anche da questo è nata l'esperienza del Coordinamento Antimafia. Qualche giorno fa, Carmine è stato chiamato a Roma dal capo della polizia, Parisi, che gli ha detto di apprezzarlo e gli ha stretto la mano. Un po' di giorni dopo, a convocarlo è stato il questore di Palermo, Milioni: Mi dispiace, Mancuso, ma abbiamo deciso che lei deve essere protetto da una scorta. L' ispettore Mancuso soffre per questa scorta, per il disturbo che reca ai colleghi. Non la voleva, però ha dovuto accettarla. Ero sereno prima e lo sono adesso dice sorridendo. Lo so, lo so: da quando sto nel Coordinamento Antimafia, certa gente mi definisce impolitico, estremista, giacobino, isolato, esaltato. Ma non m' importa. La verità è che mi piacciono le posizioni nette. Tuttavia, non sono un leader, assolutamente. Non ne ho la statura, l'intelligenza, la cultura. Un leader è il sindaco Orlando. Lui è un'altra cosa! Mi piacciono gli uomini come Orlando, capaci di andare alle radici di certe contraddizioni, anche personali. Su Leoluca Orlando, Carmine il Semplice-Coraggioso mi regala un'immagine che colpisce: La giunta Orlando è una specie di primavera di Palermo. Orlando finirà come Dubcek, l'uomo della primavera di Praga? Spero proprio di no, con tutte le mie forze. Però i carri armati della cattiva politica si sono già messi in moto. Sento il frastuono dei motori. Scorgo il brandeggiare dei cannoni. Sì, settembre sarà un mese aspro, qui a Palermo.

C’è la mafia ma non lo Stato. I giudici demoliscono la trattativa. Condannati solo Bagarella e Cinà: assolto Marcello Dell’Utri. Dunque: Cosa nostra mise le bombe per ottenere qualcosa che secondo i giudici non arrivò. Le motivazioni diranno se gli interventi pro-boss furono solo coincidenze. Enrico Bellavia su L’Espresso il 23 settembre 2021.  Come è ovvio bisognerà leggere le motivazioni. E mai come in questo caso sta lì il perché i giudici d'appello di Palermo, come era stato pronosticato, abbiano escluso la responsabilità degli imputati, per così dire istituzionali, della trattativa Stato-mafia. Lo Stato esce di scena e resta solo Cosa nostra. La precedente assoluzione totale dell’ex ministro Calogero Mannino, faceva cadere un pezzo non da poco della ricostruzione dell’accusa. Veniva meno una dei contraenti del patto e la possibilità che avesse trovato sponda tra i carabinieri.

Ora il nuovo verdetto esclude il coinvolgimento del vertice del Ros, Antonio Subranni, Mario Mori (12 anni in primo grado) e Giuseppe De Donno (8 anni) ma anche quello di Marcello Dell’Utri, l’ex parlamentare forzista, braccio destro di Silvio Berlusconi, già condannato per mafia a 7 anni e a 12 anni nel primo grado di questo giudizio. Gli unici condannati restano Leoluca Bagarella, superstite della colonna mafiosa corleonese che avrebbe gestito il negoziato. Ventisette contro i 28 anni inflittigli in primo grado in riferimento alla minaccia al governo Berlusconi che per i giudici è solo tentata. Otto anni al medico Antonino Cinà, presunto portaordini dei boss, presso gli apparati investigativi. Tuttavia, senza partner, bisognerà capire in che modo i giudici hanno ritenuto che i boss fossero gli unici responsabili dei messaggi recapitati a suon di stragi. L’idea sembra essere quella di un’aspettativa di Cosa nostra non corrisposta. Di desiderata non raccolti. Non ha giovato negli anni lo screditamento complessivo del superteste Massimo Ciancimino, finito qui a giudizio per calunnia, prescritta, nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro e che nelle intenzioni dell’accusa costituiva il puntello necessario e imprescindibile dell’intero do ut des mafioso. Ovvero il famigerato papello che per il tramite del padre, l’ex sindaco mafioso Vito, i boss avrebbero fatto arrivare ai carabinieri con le richieste di favore nei confronti del vertice di Cosa nostra in cambio della fine delle bombe. L’ondivaga collaborazione di Ciancimino jr ha minato e fiaccato il processo complice l’enfasi mediatica che aveva circondato il personaggio, finito per essere una bandiera in un clima da stadio per una partita giocata tutta fuori dall’aula di giustizia. La prova regina dell’avvenuto accordo tra Stato e mafia è venuta meno. Resta il fatto che il dialogo con Ciancimino i carabinieri lo hanno avuto. E i giudici hanno finito con il credere che fosse una legittima quanta autonoma iniziativa per ottenere la cattura di Totò Riina, come sostenuto dagli imputati. Il dispositivo nudo e crudo dice solo che i boss ci provarono ma non ottennero ascolto. Resta da capire se e in che modo dovremo rassegnarci a considerare l’accelerazione impressa al progetto di morte per Paolo Borsellino, subito dopo l’eccidio di Giovanni Falcone, le parole di Riina (“Si sono fatti sotto”, “Serve un altro colpetto”, “Erano loro che mi cercavano”) e la teoria di interventi legislativi e governativi per depotenziare i pentiti, far cadere l’efficacia del carcere duro, fino alla cancellazione del 41 bis per decine e decine di imputati, siano solo delle coincidenze. Fatto sta che nel 1994 le bombe cessarono per davvero. E la leadership di Riina che le aveva volute non terminò con la sua cattura il 15 gennaio del 1993. Leoluca Bagarella, suo cognato, rimase ancora libero per un altro pezzo, esportando a Roma, Milano e Firenze la strategia del tritolo. È credibile che continuasse a chiedere senza ottenere nulla? E perché poi si arrese?

Mafia, smontata la trattativa: pm sconfitti. Samuele Finetti il 23 Settembre 2021 su Il Giornale. Assolti i carabinieri e l'ex senatore di Forza Italia Dell'Utri perché il fatto non costituisce reato. Ribaltata la sentenza di primo grado. Tutti assolti. La sentenza di appello del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia demolisce il primo grado e smonta per intero la tesi accusatoria dei pm di Palermo che chiedevano di confermare le condanne di primo grado. Assolti il generale dei Carabinieri Mario Mori, il suo parigrado Giuseppe De Donno e il colonnello Mario Subranni, condannati in primo grado a dodici anni il primo e il secondo, a otto anni il terzo, perché il fatto non costituisce reato. Assolto Marcello Dell'Utri, condannato in primo grado a dodici anni, perché il fatto non costituisce reato. Il dispositivo della sentenza è stato letto poco dopo le 17.00 nell'aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo. I giudici della Corte d'assise, presieduta da Angelo Pellino, erano entrati in camera di consiglio lunedì. Assolti dunque gli imputati politici e i militari dell'Arma. Pena ridotta da 28 a 27 anni per il boss Leoluca Bagarella, confermata quella a dodici anni per Antonino Cinà, l'ex medico di Totò Riina, confermata la prescrizione per Giovanni Brusca. Nell'aprile del 2018, la sentenza di primo grado aveva stabilito che, nei mesi delle stragi mafiose del 1992 e del 1993, alcuni uomini delle istituzioni avevano fatto da tramite in una vera e propria trattativa con i vertici di Cosa nostra. Più che di una trattativa - questa la tesi dei giudici - si era trattato di un ricatto: i boss avevano preteso l'allentamento della pressione antimafia in cambio di uno stop agli attentati. La trattativa con lo Stato sarebbe poi proseguita fino al 1994, quando entrò in carica il primo esecutivo guidato da Silvio Berlusconi. E a fare da tramite tra il Cavaliere e i boss sarebbe stato Marcello Dell'Utri. Una ricostruzione che la sentenza di oggi rade al suolo. Tra le due sentenze è diventata definitiva l'assoluzione di Calogero Mannino, più volte ministro, che i pm avevano accusato del reato di "violenza o minaccia verso un corpo politico dello Stato". Mannino era stato addirittura accusa di aver promosso la trattativa, nel timore di poter finire nel mirino delle cosche. Tra i primi a commentare l'esito dell'Appello proprio Marcello Dell'Utri: "Sono commosso, è un peso che se ne va dal cuore".

Samuele Finetti. Nato in Brianza nel 1995. Due grandi passioni: la Storia, specie quella dell’Italia contemporanea, che ho coltivato all’Università Statale di Milano, dove mi sono laureato con una tesi sulla strage di piazza Fontana. E poi il giornalismo, con una frase sempre in mente: «Voglio poter fare, soltanto, una cronaca di fatti e di parole veri». Ostinatamente prezzoliniano

"Un film inesistente, la giustizia funziona". Francesca Galici il 23 Settembre 2021 su Il Giornale. Dopo 25 anni, Marcello Dell'Utri, Mario Mori e gli altri ufficiali sono stati assolti dalla corte d'assise d'Appello di Palermo. L'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri è stato assolto "per non aver commesso il fatto" dalla corte d'assise d'Appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, che ha parzialmente riformato le condanne di primo grado per minaccia a corpo politico dello Stato. I giudici di secondo grado non hanno ritenuto che l'ex politico fosse il collegamento fra la politica e Cosa nostra in quella che viene ritenuta la seconda fase della trattativa del 1993 e 1994. Grande la soddisfazione per l'ex senatore Azzurro, che al termine dell'udienza è stato raggiunto dall'Adnkronos. "Questa assoluzione è una svolta non solo per me ma per la giustizia italiana, questo processo era mostruoso", ha dichiarato Marcello dell'Utri, che finalmente si può togliere anche qualche sassolino dalle scarpe: "Voglio ricordare e ringraziare tutti quelli che mi hanno sostenuto in questi anni mi voglio invece dimenticare tutti gli altri, quelli che odiano. Voglio anche ringraziare le persone e tutti gli amici che mi hanno sostenuto sempre e che hanno creduto nella mia innocenza. Innanzitutto un ringraziamento ai miei familiari e agli amici, che sono tanti, tantissimi. Questa assoluzione è la risposta più bella a tutti gli odiatori". "Quando sono andato a Palermo ad ascoltare le udienze mi sono sentito come un turco alla predica, non capivo di quello che dicevano di che parlavano", ha dichiarato Dell'Utri a Porta a Porta, nella puntata in onda questa sera. L'ex senatore ha proseguito: "Una cosa inesistente, però purtroppo avevo paura che potessero avallare queste cose inventate servendosi dei soliti pentiti che hanno bisogno di dire cose per avere vantaggi per conto loro, servendosi di molta stampa che affianca le procure e soprattutto la procura di Palermo. Non potevo essere certo di un’assoluzione, ma la speravo intimamente". Dell'Utri ha aggiunto: "Credo che questa corte di Assise d'Appello abbia lavorato con criterio, cognizione e coscienza. I miei avvocati hanno smontato il processo dalle fondamenta, era impossibile non riconoscere l'assurdità dell'impianto accusatorio". Una sentenza giunta inaspettata per l'ex senatore: "Io sognavo che mi assolvessero ma allo stesso tempo ero preoccupato. Sono sincero". Soddisfatti anche i legali di Dell'Utri, che hanno parlato di vittoria degli "anticorpi della democrazia". L'avvocato Francesco Centorze è apparso tranquillo al termine dell'udienza: "Dopo anni di processo una sentenza ha ricostituito la correttezza del quadro probatorio arrivando a una soluzione che riteniamo condivisibile. Non ci aspettavamo nulla ma abbiamo lavorato in questa direzione ed eravamo convinti che questo sarebbe stato l'esito, ma aspettarselo è un altro discorso". Una vittoria che per l'ex senatore, però, non sancirà il ritorno alla politica attiva: "Non ci penso nemmeno lontanamente, io preferisco tornare ai miei libri". L'avvocato ha riferito di un Marcello Dell'Utri commosso quando è venuto a conoscenza del risultato. "Aspettiamo le motivazioni prima di esprimere ogni valutazione", ha dichiarato il procuratore generale Giuseppe Fici subito dopo la sentenza d'Appello sulla trattiva Stato mafia che ha assolto l'ex senatore Marcello Dell'Utri. Anche Antonio Ingroia, ex procuratore aggiunto di Palermo e padre dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia: "Da una parte la Corte d'appello condanna per il reato di minaccia i mafiosi, dall'altro assolve i colletti bianchi. Quindi vuol dire che la trattativa c'è stata e che non è una bufala. Aspettiamo di leggere le motivazioni, ma una sentenza così è difficile da spiegare: solo se fossero stati tutti assolti sarebbe stato ribaltato il giudizio di primo grado con la conseguenza di riconoscere l'assenza della trattativa. Invece la condanna di Cinà conferma il papello e il suo arrivo a destinazione. La minaccia nei confronti dello Stato ci fu. Quindi questa sentenza conferma la trattativa, mentre esclude la responsabilità personale degli imputati condannati come tramite nel processo di primo grado". Anche l'ex generale dei Ros, Mario Mori, che è stato assolto nel processo d'appello sulla presunta trattativa Stato-mafia non nasconde la sua emozione e soddisfazione per il verdetto: "Esprimo solo la mia soddisfazione, non voglio aggiungere altro". Insieme a Mori sono stati assolti anche altri due ufficiali, Giovanni Subranni e Giuseppe De Donno. Condannati, invece, i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. L'ex presidente del Senato Nicola Mancino subito dopo la lettura del dispositivo del processo d'appello che ha ribaltato il verdetto di primo grado, ha dichiarato: "Il processo è stato lungo in appello viene messo in discussione tutto. Sono contento che ci sia stata questa sentenza però io ci sono arrivato per prima, dal 2018, dopo la sentenza di primo grado". Quindi Mancino prosegue: "La cosiddetta trattativa Stato-mafia alla fine è stata spazzata via da una sentenza di appello fatta scrupolosamente e spazza via l'intera vicenda giudiziaria che non doveva mai iniziare, non ci doveva stare".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

SteZu. per "il Giornale" il 24 settembre 2021. Tabula rasa. Alla roulette dei grandi processi tricolori qualcuno se l'aspettava. C'era già stata l'assoluzione di Calogero Mannino e quella del generale Mori nei cosiddetti processi satellite. Ma nel nostro Paese la scienza giudiziaria ha le sue variabili e quel che è certo può sempre sorprendere. Invece, ecco questo verdetto che - in attesa delle motivazioni - fa a pezzi la sentenza di primo grado e un'indagine che aveva provato a riscrivere un segmento di storia patria. Naturalmente, l'accusa sostiene e sosterrà anche in Cassazione di aver portato fatti e non congetture, ma resta la sostanza: le condanne non ci sono più. E si può anche azzardare che forse i tempi non sono più quelli di qualche anno fa, il vento del giacobinismo si è affievolito. Troppi scandali. Il sistema Palamara. Le critiche da destra ma anche da sinistra ad un modo disinvolto ed autoreferenziale di amministrare la giustizia. «I giudici - ha detto al Giornale Luciano Violante - devono soltanto punire e non riscrivere la storia». Un giudizio sferzante, pronunciato da chi era considerato un tempo il punto di riferimento del mitico partito delle toghe. E invece i Violante, i Cassese, i Nordio hanno fatto scuola: oggi la magistratura cerca una via d'uscita dalla trappola dell'ideologia e le corti sono meno, molto meno condizionate e condizionabili dai pm. La repubblica dei pubblici ministeri è in declino e certe folate girotondine non sono più di moda. Intendiamoci: con ogni probabilità il verdetto di Palermo sarebbe arrivato comunque e sarebbe stato altrettanto tranchant. Però è altrettanto vero che le sentenze sono figlie del tempo in cui vengono pronunciate e questa è un'epoca inedita, popolata di dubbi, di riflessioni, di distinguo. Qualcuno ritiene che ci sia una minore tensione ideale, ma la capacità di un giudice dev' essere quella di leggere un fatto, non di disegnare un affresco che spetta al sociologo, al giornalista, allo scrittore. C'è del nuovo, o almeno così appare nei canali dell'informazione che amplificano le voci delle minoranze più agguerrite, ma il vecchio non se ne vuole andare. Certi schematismi, se non a orologeria quantomeno tempestivi, funzionano tranquillamente come prima. Siamo alla vigilia delle amministrative e ieri, con disarmante puntualità, ecco addensarsi nubi e ombre sulla testa del candidato presidente del centrodestra per la Calabria, Roberto Occhiuto. Occhiuto è in vantaggio, molto avanti, almeno secondo i sondaggi, ma un quotidiano progressista, Domani, mette in prima pagina i «bonifici sospetti al futuro Presidente della Calabria». L'inchiesta, a quel che si capisce non c'è, c'è semmai in azione l'Antiriciclaggio di Banca d'Italia, ma un avviso di garanzia può sempre arrivare. Prima o dopo un articolo, a macchiare un'immagine o a impigliare una carriera. È dal 1992 almeno, dall'esplosione di Mani pulite, che la politica usa le inchieste per regolare i conti e per mettere in difficoltà avversari e outsider. Luca Palamara ha descritto quelle dinamiche nel suo libro, spiegando che a un certo punto la magistratura associata si era compattata contro Salvini. E aveva deciso di dargli torto, anche quando aveva ragione. La cosa sconvolgente è che ora questa deriva è arrivata fin dentro la magistratura, in un gioco di opposte fazioni. E gli stessi pm di Mani pulite, Francesco Greco e Piercamillo Davigo, sono impegnati alla fine della loro brillante carriera in un non esaltante duello. Il verdetto di Palermo potrebbe segnare una svolta garantista, anche se è presto per trarre conclusioni. Di sicuro una parte dei segreti italiani resta custodita in cassetti inaccessibili, ma altri presunti misteri finiscono nel cestino. Erano solo teoremi senza prove.

Trattativa Stato-mafia, le accuse che spiegano la sentenza. Armando Spataro su La Repubblica il 26 settembre 2021. Difficile, se non impossibile, pensare che uomini delle istituzioni volessero rafforzare le iniziative dei boss. Come era prevedibile, la sentenza della II Corte d'Assise di Appello di Palermo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia ha generato opposti commenti. In attesa delle motivazioni, è bene discuterne con freddezza, comunque nel rispetto di quanti si sono impegnati per far emergere la verità sulla "zona grigia" che spesso ha caratterizzato i rapporti tra mafia e istituzioni.

La sentenza di Palermo. Fondare la storia della Repubblica sulla teoria del complotto è propaganda. Alberto Cisterna su Il Riformista il 30 Settembre 2021. Non si spegne l’eco della sentenza della Corte d’appello di Palermo. Ed è comprensibile. Per anni si è evocata quell’indagine come la madre di tutte le inchieste sulla mafia. L’esplorazione laboriosa e difficile del territorio infido e melmoso in cui le istituzioni vengono a contatto con il nemico. Oggi si scopre quel che tanti hanno sempre saputo e spesso taciuto: che quel contatto è talvolta inevitabile, necessario anzi indispensabile per capire, annusare l’aria, percepire le direzioni e che non tutto può essere stigmatizzato come cedevole e collusivo. La questione è particolarmente delicata, ma porta dritto al cuore del peggiore dei dubbi: perché le mafie non siano state ancora sconfitte in questo paese, malgrado l’impiego di risorse enormi. Semplificando, sono proprio le opposte tifoserie sul processo palermitano che aiutano a capire: c’è chi pensa che l’avversario non sia stato battuto perché ha a disposizione formidabili complicità nei palazzi del potere che manterrebbero in vita un possente sistema criminale fatto da pezzi di cose varie (politica, servizi, multinazionali e via di seguito), e c’è chi pensa che le politiche repressive abbiano dato risultati straordinari, e impensabili un paio di decenni or sono, e che sia arrivato il momento di mettere da parte lo stato d’emergenza per cogliere la debolezza del nemico e favorirne la sostanziale sconfitta strategica. Troppo banale sostenere che la verità stia in mezzo. Quindi azzardiamo che una delle due fazioni, se proprio non è in torto, quantomeno non abbia del tutto ragione, il ché imporrebbe di per sé vigorose sterzate e dolorose prese d’atto. Al momento è impensabile.

La tesi dello Stato colluso e complice ha sostegni possenti, sedimentati. È sostenuta da dozzine di pubblicazioni, serie televisive, film, interviste, pièce teatrali e già tutto l’armamentario di quella che si potrebbe definire una sorta di “percezione collettiva” della mafia, se non una vera e propria mainstream culturale. A chiedere prove e processi, indagini storiche e ricerche scientifiche che dimostrino questa tesi si perderebbe tempo. Ci sono indizi, sospetti, suggestioni, convergenze, sovrapposizioni, tutta roba buona per quella che una volta si sarebbe definita la cultura del sospetto e che oggi è, come detto, soltanto una sorta di percezione prevalente. Il processo sulla Trattativa doveva essere, voleva essere, la prova definitiva di questa teoria del tradimento dentro le mura dello Stato. Le condanne per mafia di uomini politici o di appartenenti di primo piano alle istituzioni, in decenni di processi, si contano sulle dita di una mano o quasi; anche a voler conteggiare qualche prescrizione (operazione spericolata sotto un profilo giudiziario e anche morale, ma passi) non si arriverebbe alla decina e poco più. Un bottino magro, magrissimo. Fondare una storia della Repubblica su queste basi sarebbe pura propaganda, lo si fa’ ma con sempre maggiore imbarazzo tra storici e giuristi di rilievo (Salvatore Lupo e Giovanni Fiandaca tra i primi). La sfida lanciata con la Trattativa era, quindi, di grande importanza anche al di là, sia consentito dirlo, del destino degli imputati. È doloroso dirlo per quelle vite sfregiate, ma c’è sinceramente da ritenere che la Weltanschauung, la visione del mondo che costituisce il retroterra ideologico di quell’inchiesta prescinda del tutto dalle singole individualità, dai nomi di quegli imputati. Erano piuttosto rilevanti ruoli, posizioni apicali, topografie istituzionali, non nomi e cognomi, perché solo così poteva aver conferma la tesi di fondo di uno Stato parallelo, neppure clandestino, che opererebbe in sintonia con la mafia. Quindi sbaglia, e non poco, chi si limita a sostenere che vi sia stata una persecuzione contro Tizio o Caio. L’errore di questa lettura dei fatti è esiziale, perché non si confronta con l’essenza più intima di quell’impostazione che ha visto – è opinione personale – operare magistrati in assoluta buona fede, ma sospinti dalla necessità impellente di tradurre in una sentenza una precisa visione del mondo, dello Stato, della mafia e che si è consolidata in settori non trascurabili della società e della magistratura italiana. La storiografia, la sociologia, le scienze sociali in genere, volendo, sarebbero chiamate a uno sforzo immane per ricostruire questo quadro d’insieme e individuare le tappe attraverso cui questa mistica del complotto si è venuta sedimentando negli strati profondi della coscienza collettiva. Di fatto agevolando le stesse mafie che enorme vantaggio hanno tratto, nel giogo tirannico sulle popolazioni vessate, dall’essere immancabilmente descritte come fenomeno perpetuo, intangibile, invincibile, sproporzionato. Un gioco degli specchi. Ammoniva Carl Schmitt «attenzione a chi definisci come tuo nemico, perché definendo il tuo nemico definisci te stesso» (Ex captivitate salus) e in troppi ancora, non sempre in buona fede, descrivono il nemico solo per descrivere se stessi e disegnare le proprie ambizioni. Alberto Cisterna

La lezione della sentenza sulla Trattativa. Cosa ci insegna la sentenza Stato Mafia: Pm a caccia di segreti, non seguono fatti ma idee. Alberto Cisterna su Il Riformista il 26 Settembre 2021. Nulla ci sarebbe di più sbagliato del tentativo di mettere sul banco degli imputati, lasciato sgombro dagli uomini delle istituzioni, gli investigatori che hanno approntato e portato al suo epilogo il processo sulla cosiddetta Trattativa. Sarebbe un errore anche perché, in linea di mero principio, con loro dovrebbero essere chiamati a discolparsi i giudici di primo grado che, a Palermo, quell’ipotesi hanno non solo condiviso, ma addirittura proclamato come verità «al di là di ogni ragionevole dubbio». Il solo buonsenso porta a comprendere che non funziona così e che sarebbe bene mettere da parte liste di proscrizione, contumelie personali e disdicevoli ironie. Tre gradi di giudizio hanno in sé il rischio del metronomo, della contraddizione, dell’antinomia. Dalla condanna all’assoluzione o viceversa. È normale che accada. È giusto che accada. Il paese dovrebbe uscire rassicurato dalla sentenza d’appello che conferma – a dispetto di campagne giornalistiche unilaterali contro alcuni imputati, assalti mediatici di vario genere, racconti incontinenti della obiettività – che i giudici non sono una falange o una coorte che organizza complotti e coltiva progetti eversivi. Malgrado, è vero, esponenti di spicco della magistratura, logge, corpuscoli affaristici, genuflessioni carrieristiche consegnino un’impressione del tutto diversa. Punto e capo, quindi. Sarebbe sciocco pensarlo. La ferita sanguina, il lacerante destino di servitori dello Stato stimati tra i migliori, dozzine di libri, articoli, interviste, reportage, manifestazioni di piazza costituiscono il lugubre corteo funebre che accompagna la sentenza di ieri e con le ceneri di questa cremazione collettiva occorrerà pur fare i conti da oggi in poi prima di disperderle frettolosamente al vento o metterle sotto un pesante zerbino. Trarre un insegnamento se possibile. Settori di punta della magistratura italiana, segmenti importanti di essa, fortemente orientati ideologicamente, hanno sviluppato per decenni la cultura del processo, meglio delle indagini, come l’unico strumento capace di scoperchiare verità nascoste, di aprire armadi sigillati, di dischiudere nebbie fitte. Troppe investigazioni sono partite e partono senza un obiettivo preciso e si muovono nella convinzione che esistano solo verità apparenti; che per forza il male non può essere banale, ma ci sia un ordito a maglie fittissime da dipanare. Un approccio che era, e resta, possibile grazie a una disponibilità quasi illimitata di mezzi e di uomini e che si sviluppa grazie al monopolio nell’uso della polizia giudiziaria, dei pentiti, delle intercettazioni. Tutti ambiti, si badi bene, in cui non sono mancate gravissime manipolazioni, rese possibili anche dalla costituzione di vere e proprie cordate investigative che si sono spostate coralmente da una Procura all’altra replicando azioni e deviazioni. Se sull’esito di un’indagine si giocano, insieme, le carriere di giornalisti, poliziotti, pubblici ministeri e giudici è evidente che il rischio che qualcosa vada per il verso sbagliato è dietro l’angolo. C’è gente in buona fede e gente che lo è, come dire, un po’ meno. C’è chi costruisce a tavolino indagini da lanciare sulle prime pagine dei giornali e chi pazientemente dipana la propria matassa. Ma lo scenario di fondo resta lo stesso. Tutto è reso possibile dall’illimitata convinzione o dalla furbesca percezione che l’indagine possa anche non procedere dai fatti, ma si possa piuttosto piegare per avvalorare e dimostrare quanto si è prima deciso a tavolino che debba per forza esistere in natura da qualche parte. Un’esplorazione alla cieca nel cosmo e nella materia grigia o nera che lo occuperebbe. Un approccio non solo metodologicamente fallace e intellettualmente pericoloso, ma che sconta il prezzo enorme di essere incline a tagliare tutte le contraddizioni, annacquare tutte le aporie, sino a nascondere verbali, manipolare intercettazioni, stralciare atti, ammutolire pentiti distonici o, semplicemente, ignorare altri fatti. Non dipende, in genere, dalla capacità o dall’onestà intellettuale di questa o quella toga, ma dal fatto che l’indagine (e talvolta compiacenti investigatori) si presta naturalmente ad assecondare la bulimia conoscitiva o anche solo le convinzioni ideologiche dell’inquirente. Inquisitio generalis la si chiamava un tempo. Mancando fatti precisi, per i fatti più gravi un orizzonte temporale di riferimento nel passato – e persino nel futuro attraverso il falò delle tesi avverse con la mistica di depistaggio – e senza finanche una dimensione spaziale di contenimento, l’inchiesta si nutre di convinzioni, mette in convergenza fatti diversi, riallinea geometrie sghembe e genera, alla fine, un risultato esteticamente apprezzabile da vendere mediaticamente. E si agglutina il consenso.

Tutta roba da correggere e profondamente. La riforma Cartabia, contenendo a esempio i tempi delle indagini, appresta un primo, marginale rimedio. Ma è chiaro che altri scenari e altre soluzioni si impongano. Da questo punto di vista il processo concluso a Palermo – insieme ad altri si badi bene – si offre in ogni caso – e a prescindere dall’esito in Cassazione – come l’occasione per una più profonda riflessione sulle spinte ideologiche, politiche, storiche e morali che muovono l’inchiesta penale e su come esse possano tradursi in imputazioni e sentenze. Un lavoro che compete agli storici, quelli veri, che vogliano ricostruire attraverso quali percorsi nel processo italiano (e in nessuna altra parte al mondo) si sia potuta innescare una tale deriva. Un’azione che spetta alla politica che dovrebbe uscire dalla logica delle tifoserie e rivendicare il compito di accertare verità che le prove non possono ormai raggiungere. Alberto Cisterna

"Toghe sempre divise sulla trattativa Stato-mafia. Csm, serve il sorteggio per abbattere le correnti". Anna Maria Greco il 26 Settembre 2021 su Il Giornale. L'ex magistrato candidato alle Suppletive di Roma sulla sentenza di Palermo: "Verdetto prevedibile, dalle mie chat emergevano le posizioni diverse sul processo. Dopo le mie denunce non è cambiato nulla". Sono passati due anni e mezzo dalla famosa riunione all'hotel Champagne e Luca Palamara è candidato alle suppletive di Roma Primavalle del 3 ottobre. L'affaire che ha preso il suo nome, terremotando la giustizia e il Csm in particolare, con il libro scritto con Alessandro Sallusti «Il Sistema», gli ha dato la volata e ora l'ex presidente dell'Anm e membro del Csm punta ad entrare in parlamento.

È cambiato qualcosa in magistratura e al Csm, dopo il Palamaragate?

«Assolutamente no, i recenti fatti sulla procura di Milano e le nomine annullate a Roma e non solo testimoniano la permanenza degli accordi correntizi. Cambiano gli attori ma il Sistema rimane immutato. Troppo facile schierarsi dalla parte di chi è più forte, rinnegando e non spiegando come e perché si diventa vicepresidente del Csm, ad esempio. Sarebbe giusto che prima o poi Ermini lo dicesse. Non è più il tempo di don Abbondio».

Come non bastasse il suo scandalo, a destabilizzare il mondo giudiziario si sono aggiunte le rivelazioni di Amara sulla loggia Ungheria e la fiducia degli italiani nella giustizia precipita a minimi storici: candidarsi alle elezioni migliorerà quest'immagine?

«Sono state annunciate tante querele sulle dichiarazioni a verbale sulla loggia Ungheria, spetterà alla magistratura, dopo più di 2 anni, verificarne la fondatezza. Io ho sentito la necessità di squarciare il velo di ipocrisia che ha caratterizzato la mia vicenda, sul meccanismo delle correnti. Per questo ho voluto rafforzare il racconto già fatto nel libro Il Sistema, candidandomi alle suppletive. Un modo per testimoniare anche all'interno dell'istituzione ciò che non ha funzionato in questi anni nei rapporti tra politica e magistratura».

Si sta svolgendo a Cagliari il congresso di Area, cartello delle toghe progressiste e la presidente Ornano raccomanda di non fare di queste vicende un uso strumentale per riforme della giustizia e della magistratura che possano modificarne l'assetto costituzionale. Mette le mani avanti?

«Avrei messo volentieri a disposizione del congresso le mie chat, per dare la possibilità di valutare come illustri esponenti di Area fossero parte integrante del Sistema. Quando ero presidente dell'Anm la parola più in voga era autoriforma, per evitare una riforma dall'esterno. Ma è tempo di picconare il Sistema e accettare finalmente che tutto cambi».

Come si combatte lo strapotere delle correnti delle toghe, che lei ha esercitato così sapientemente?

«Da presidente dell'Anm ho constatato che l'unica riforma che davvero terrorizza le correnti è il meccanismo del sorteggio a Palazzo de' Marescialli. Così si potrebbe impedire la cooptazione dei candidati da parte delle segreterie delle correnti. Anche oggi sono già pronti i candidati vincenti per il nuovo Csm, ma ci sarebbero i tempi per impedire che il gioco si ripetesse. Tutto il resto sono palliativi. Dal 75 assistiamo ad un proliferare di leggi elettorali di fronte alle quali la magistratura associata è sempre in grado di trovare l'antidoto: basti pensare che alle ultime elezioni per 4 posti di pm sono stati candidati esattamente 4 candidati, uno per ogni corrente. Perché impedire a chi non fa parte delle correnti di misurarsi nella gestione dell'autogoverno? Il sorteggio lo consentirebbe».

Luciano Violante ha detto al «Giornale» che il Csm si è attribuito un totale autogoverno delle toghe, mentre non sta scritto in Costituzione, è così?

«Direi che anche alla luce delle recenti vicende, nessuna esclusa, è giusto valutare se dopo 73 anni quell'assetto configurato dal costituente sia ancora attuale, soprattutto sulla composizione del Csm, sui meccanismi di elezione e sulla sezione disciplinare».

Lei ha detto più volte che ora la sua missione è appunto aiutare, sulla base della sua esperienza, a riformare la giustizia. Il nuovo processo penale della ministra Cartabia è il primo passo. Come lo giudica?

«Affronta un tema diverso, rispetto al problema delle correnti e risponde all'esigenza di sveltire i processi, come chiede l'Europa, anche rispetto al Recovery fund. Ci sono stati orientamenti politici diversi, sicuramente questa riforma supera però delle criticità sui tempi dei processi sulle quali già il ministro Orlando si era per la verità pronunciato. Un'inversione di marcia, rispetto all'impostazione Bonafede».

Lei appoggia i referendum di Lega e Radicali, tranne quello sulla responsabilità civile dei magistrati. Servono a fare pressione?

«Riformare la giustizia è un'esigenza diffusa in larga parte dell'opinione pubblica e lo testimoniano anche le tante firme raccolte per i referendum».

Parliamo della sentenza d'appello sulla trattativa Stato-mafia, che ha sconfessato la precedente: se sarà confermata in Cassazione ai pm che senza prove hanno costruito il teorema di uno Stato che scende a patti con la mafia, colpendo ingiustamente i singoli accusati e danneggiando l'immagine della giustizia, non dovrebbe essere attribuita una grave responsabilità?

«Una formula di comodo mi farebbe rispondere che tutto rientra in una normale dialettica processuale. È certo che, squarciando il velo dell'ipocrisia e senza entrare nel merito del processo, dalla lettura delle mie chat, nonché dalla nomina dell'attuale procuratore di Palermo Franco Lo Voi (ritenuto meno schierato sul fronte della trattativa), si evinceva che all'interno della magistratura c'erano degli orientamenti diversi sul processo, come ho raccontato nel mio libro. Anche molti magistrati si esprimevano in termini fortemente critici sulla qualificazione giuridica dei fatti, compresi personaggi illustri, componenti del Csm e procuratori della Repubblica».

Facciamo qualche nome, come Pignatone e Fiandaca...

«Ma non solo».

Per Violante, che era considerato il capo del partito delle toghe rosse, i magistrati pretendono di decidere la politica giudiziaria, anche di riscrivere la storia, ma non è il loro compito.

«Questo problema non nasce oggi, ma nel 93 con l'eliminazione dell'autorizzazione a procedere, quando venne meno la linea di confine tra politica e magistratura, individuata dai padri costituenti. Le doverose indagini sulla rilevanza penale dei comportamenti dei politici finirono con l'essere strumentalizzate, trasformando la funzione del processo penale che dev'essere luogo di verifica dei fatti, per raggiungere altri fini».

La sentenza di Palermo. Sentenza sulla trattativa Stato Mafia, la politica resta prudente: il verdetto non entra in campagna elettorale. Claudia Fusani su Il Riformista il 25 Settembre 2021. Chi si aspettava il diluvio di dichiarazioni trionfati “contro” la magistratura forcaiola e qualche media che ha assunto in modo improprio il ruolo di giudice non solo dei fatti ma anche della storia, è rimasto deluso. Oppure soddisfatto. Fatto è che 24 ore dopo la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Palermo che ha ribaltato il verdetto di primo grado e sentenziato che la trattativa tra Stato e mafia per fermare le bombe di Cosa Nostra, ove mai vi sia stata, non fu reato, il verdetto non finisce in pasto alla campagna elettorale. La politica sembra aver compreso la prima grande lezione di questa vicenda giudiziaria lunga un paio di decenni di cui otto di dibattimento: evitare l’uso politico delle sentenze; rispettare il fine unico delle indagini: verificare i fatti. Non sono state ingaggiate gare di dichiarazioni ai microfoni e sui social. Hanno prevalso cautela, prudenza e – dal punto di vista dei politici – la legittima soddisfazione per un verdetto che restituisce onore allo Stato, a quello in divisa – gli ufficiali del Ros dell’Arma – e a quello che siede in Parlamento, Mannino prima e Dell’Utri poi e ha invece tenuta ferma la condanna dei boss mafiosi. Lo dice il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’intelligence Franco Gabrielli. Il prefetto, ex capo della polizia, persona che non ama i microfoni, ha voluto però rimarcare ciò che gli sta più a cuore: «Per cultura e per mestiere aspetto di leggere le motivazioni. Ovviamente non posso non essere felice, soprattutto per chi ha vestito una divisa, per aver avuto questo esito favorevole». Decisamente più scomposta la reazione di Marco Travaglio e de Il Fatto che è “nato” dodici anni fa per, tra le altre cose, sostenere il teorema di un pezzo di Stato colluso con la mafia. Il sarcasmo per cui “se trattano i mafiosi è reato e se invece lo fa lo Stato non lo è” è un azzardo alla logica e alla verità. Almeno finché non saranno pronte le motivazioni. Fino a quel momento il Pd preferisce tacere. Comunque non sbilanciarsi «su un tema così complesso per cui è necessario leggere prima le motivazioni». Meglio non disturbare troppo, in questa fase, l’alleato grillino che invece esce con le ossa rotte dal verdetto. «Non nascondo un senso di smarrimento – ha detto Marco Pellegrini, capogruppo M5s in Commissione antimafia – e spero che questa sentenza non costituisca un ostacolo involontario – ad esempio che i mafiosi fanno sempre tutto da soli – sulle grandi inchieste che riguardano gli intrecci indicibili tra mafia e pezzi deviati dello Stato». Il Movimento ha costruito buona parte del suo consenso in nome del complottismo e degli “accordi indicibili”. Giuseppe Conte preferisce occuparsi della campagna elettorale. E anche questo significa molto. La soddisfazione è invece comprensibilmente forte soprattutto dentro Forza Italia. La senatrice Licia Ronzulli e il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè insistono sul concetto di «onore e dignità restituiti a servitori dello Stato» e sulla gravità di aver «compromesso l’immagine dello Stato che qualcuno voleva vedere sottomesso e genuflesso davanti a Cosa Nostra». Più duro Maurizio Gasparri che s’è lanciato in invettive del tipo «denunceremo i propalatori di menzogne» oppure «c’è qualcuno che ha cercato di riscrivere la Storia ma non c’è riuscito». Quello che conta, in Forza Italia, è che Silvio Berlusconi sceglie di tacere. La decisione più giusta. Matteo Renzi prosegue nella sua campagna per una giustizia giusta e una magistratura liberata dalle correnti. La sentenza è un tassello in più in un ragionamento più vasto che il leader di Iv porta avanti da mesi sul fatto che «alcuni pm così come alcuni giornalisti hanno fatto carriera con il giustizialismo fino ad elevarlo ad arma politica». Non si può accettare, ad esempio, che «se non sei d’accordo con Travaglio sei colluso con la mafia». La politica questa volta sembra aver deciso di non “usare” la sentenza. Ed è una bella notizia.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

"Aspettare le motivazioni": la sentenza sulla trattativa delude Pd e 5S. Francesca Galici il 23 Settembre 2021 su Il Giornale. Il centrosinistra all'attacco dopo la sentenza di assoluzione di Marcello Dell'Utri e il Partito democratico parla di "zone d'ombra". L'assoluzione di Marcello Dell'Utri, arrivata dopo 25 anni di processo, ha innescato le reazioni politiche. Da parte sua, l'ex senatore non può che essere sollevato dal risultato, che lo vede assolto "per non aver commesso il fatto" ma i lunghi anni di aule giuridiche ne hanno segnato l'esistenza.

Gli Azzurri plaudono alla sentenza

Grande soddisfazione dalle parti di Forza Italia. La deputata Stefania Prestigiacomo ha commentato: "L'assoluzione di Marcello Dell'Utri e degli ex ufficiali dell'Arma Subranni, Mori e De Donno nel processo Stato-mafia spazza via anni di insinuazioni e falsità. Nessuno potrà restituire loro la serenità perduta, tuttavia oggi ha vinto lo Stato. I fatti sono stati anteposti alle illazioni. Credo si debba tutti riflettere su quanto accaduto".

A lei si è unito Giorgio Mulè: "Con la sentenza della corte d'assise d'Appello di Palermo si chiude una delle pagine più dolorose vissute dagli imputati del processo cosiddetto 'Trattativa Stato-Mafia' e dalle istituzioni. Nel rispetto dovuto alle sentenze viene oggi riconosciuto il calvario subito da servitori-eroi dello Stato che per lunghissimi anni hanno dovuto affrontare l'accusa infamante di essere scesi a patti con Cosa Nostra".

Il sottosegretario alla Difesa, alla luce della sentenza, rimarca che sia i militari coinvolti che Marcello Dell'Utri "non misero al servizio della mafia la loro funzione: i giudici gli restituiscono oggi l'onore che nessun garantista ha mai messo in dubbio. Chiunque abbia a cuore il senso della giustizia dovrebbe però interrogarsi sui tempi di questa vicenda iniziata quasi un quarto di secolo fa con un processo avviato oltre otto anni fa che ha segnato irrimediabilmente la carriera e la vita degli imputati assolti oggi".

Anche il senatore di Forza Italia e componente della Commissione Giustizia, Franco Dal Mas, ha ribadito i concetti esposti dai suoi colleghi: "Tredici anni di indagini, di pregiudizi, di teoremi fantasiosi rivelatisi fallaci. Troppe vite sono state lese da questo processo, troppe carriere sono state stroncate. Non posso che esprimere soddisfazione per questa sentenza che riabilita Dell'Utri e le altre vittime di accuse infamanti, ma non basta. Forse è il caso di cominciare a pensare alle carriere dei professionisti dell'Antimafia, come ebbe a definirli l'eretico Sciascia. Carriere che sono state edificate su teoremi caduti come un castello di carte".

L'indifferenza e i dubbi del Partito democratico

Nessuna reazione da parte di Enrico Letta, che si è limitato a commentare: "È evidente che parte di sorpresa c'è per il rovesciamento rispetto agli altri gradi di giudizio, ma su temi così complessi serve leggere le motivazioni e i ragionamenti fatti. Sicuramente sarà una sentenza che farà molto discutere, non ho nessun dubbio".

Umberto Buratti del Partito democratico ha completamente ignorato l'assoluzione di Dell'Utri, concentrandosi su quella dei militari coinvolti: "La sentenza sulla presunta trattativa Stato-mafia ha assolto gli ex ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. Tre servitori dello Stato e l'intera Arma dei Carabinieri hanno visto infangato il loro nome per lunghi anni. Chi potrà risarcirli? La sentenza di assoluzione, infatti, restituisce loro l'onore ma non cancellerà mai gli anni di dolore e preoccupazione per un'accusa incomprensibile". Il dem prosegue: "Finisce il calvario di grandi servitori dello Stato e si chiude con una sonora bocciatura processuale un'inchiesta che, a tratti, è sembrata una farsa utile a sbattere il mostro in prima pagina. Dobbiamo tutti interrogarci sul giustizialismo spettacolo che ammorba il Paese e proseguire sulla strada tracciata dalla Ministra Cartabia per una indispensabile, profonda e organica riforma della giustizia".

Più scettico il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando: "La sentenza della Corte d'appello sul processo Trattativa Stato-mafia ribalta il pronunciamento di primo grado. Ritengo, tuttavia, sia importante attendere le motivazioni per comprenderne pienamente le basi sui cui poggia. Rispetto il giudizio dei magistrati, tuttavia questa sentenza rischia di non diradare, anche in virtù di una sentenza di primo grado che ha messo in fila fatti inquietanti, le tante zone d'ombra su uno dei periodi più oscuri della nostra Repubblica e sul rapporto perverso tra mafia, politica e istituzioni che ha scandito a suon di bombe la storia italiana".

M5s: "Le sentenze non si commentano ma si rispettano"

In una nota delle deputate e dei deputati del Movimento 5 stelle componenti la commissione Giustizia hanno dichiarato: "Le sentenze non si commentano ma si rispettano. Questa è la nostra linea. Possiamo aggiungere solo che rimaniamo in attesa di conoscere nel dettaglio le motivazioni che hanno portato a tale sentenza. Da un passaggio del dispositivo della sentenza si evince che le assoluzioni di De Donno, Mori e Subranni sarebbero ricondotte alla consueta formula “perchè il fatto non costituisce reato'. Quindi tutto lascia intendere che i fatti siano confermati e questo per noi fa sì che a livello politico e istituzionale rimangano intatte tutte le responsabilità emerse".

Lupi: "Sconfitta per il giustizialismo"

Maurizio Lupi di Noi con l'Italia esulta per il risultato: "La sentenza sulla trattativa Stato-mafia rende giustizia alle istituzioni e condanna i mafiosi. Una sconfitta per il giustizialismo ed i teoremi, una vittoria per il diritto. Ora, dopo tanti anni, sarebbe giusto risarcire chi è stato infangato per aver servito lo Stato in un momento estremamente difficile".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Accuse che si autoconfermano. Il silenzio di Letta sulla sentenza di Palermo e la condanna dei riformisti. Francesco Cundari su L’Inkiesta il 25 settembre 2021. Il segretario del Pd dice che «per poter dire qualcosa bisognerà probabilmente prima leggere le motivazioni, cercare di capire quali sono i ragionamenti fatti» e che «è evidente che è una sentenza che farà molto discutere». Gli altri, evidentemente.

Domanda: «La sorprende questo verdetto, fa chiarezza su quello che è successo, oppure la magistratura ha ecceduto nella ricerca di responsabilità politica nelle strategie della mafia?».

Risposta: «È evidente che una parte di sorpresa c’è, perché si tratta di un rovesciamento completo rispetto a precedenti gradi di giudizio, ma io sono sempre stato molto attento al fatto che le sentenze si prende atto [sic] e giudizi politici, polemiche politiche non mi appartengono su questi temi. Credo che, soprattutto su temi così complessi, per poter dire qualcosa bisognerà probabilmente prima leggere le motivazioni, cercare di capire quali sono i ragionamenti fatti. È evidente che è una sentenza che farà molto discutere, non ho nessun dubbio su questo».

La domanda era di Lilli Gruber, la risposta di Enrico Letta (qui testualmente e integralmente riportata). Lo scambio si è svolto durante la puntata di “Otto e mezzo” andata in onda giovedì sera.

Tutto chiaro? Riassumendo, Letta non ha nessun dubbio sul fatto che la sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia farà discutere. Gli altri, evidentemente. Perché questo è tutto quello che il segretario del Partito democratico dice in merito.

Un’inchiesta su cui sono state scritte decine di libri, su cui sono state imbastite migliaia di ore di trasmissioni televisive, con cui sono state riempite intere annate di tutti i maggiori quotidiani, ovviamente da parte dei magistrati dell’accusa e dei loro numerosi sostenitori nella stampa, da prima ancora che fosse nemmeno cominciato il processo di primo grado. Per anni. E proprio adesso che arriva la sentenza d’appello, e ci dice che quella campagna martellante era infondata, adesso ci sentiamo dire che non è il momento di trarre conclusioni affrettate. Adesso bisogna sospendere il giudizio. Adesso bisogna leggere bene le motivazioni. Perché su queste cose, come dice Letta, non bisogna fare polemiche. Adesso.

Così afferma il segretario del Partito democratico, che si dice molto sorpreso dal fatto che l’appello abbia rovesciato la sentenza di primo grado su una “trattativa” così sintetizzata, già parecchi anni fa, dal mai abbastanza rimpianto Massimo Bordin: «Allora Riina, guarda, noi adesso ti mettiamo in galera, al 41 bis. Ci stai 25 anni. Poi, quando proprio stai per titrare le cuoia, allora, forse, ti facciamo uscire». E Riina: «Ottimo, accetto subito questa trattativa. Dove si firma?».

No, non è una cosa seria.

Dopo avere alimentato la peggiore cultura mafiosa parlando di “Trattativa Stato-mafia” – espressione insensata ed eversiva – oggi la stampa traduce l’assoluzione «perché il fatto non costituisce reato» di tutti gli ufficiali coinvolti (oltre che di Marcello Dell’Utri, per la parte di sua competenza) con la formula: la trattativa c’è stata, ma non è reato. Veicolando il messaggio che le cose siano andate esattamente come sostenevano gli accusatori, ma per qualche misterioso motivo – un cavillo giuridico, o magari l’effetto di un’altra oscura macchinazione – tutti gli ufficiali che quella trattativa avrebbero condotto, guarda un po’, sono stati assolti.

Così, ancora una volta, si riproduce l’infernale meccanismo dell’accusa che si autoconferma: del resto, se era lo Stato a trattare con la mafia, come si poteva pensare che fosse lo Stato a condannarsi? Ed ecco dunque che la campagna può ripartire più forte di prima, fondata com’è su un sillogismo a prova di bomba, che è del resto la dinamica fondamentale di tutti i complottismi. L’accusa vince sempre: quando il tribunale condanna, com’è accaduto in primo grado, perché ha condannato, confermando dunque la tesi accusatoria; e quando assolve, perché proprio l’assoluzione diventa la prova di un complotto ulteriore, che conferma l’esistenza del complotto precedente.

È sempre la stessa storia. In Italia si può parlare di un’inchiesta – anzi, se ne deve parlare – solo fino a quando si tratta di accuse non dimostrate. E si può andare avanti indisturbati per decenni. Quando però si dimostra che quelle accuse erano infondate, ecco che di colpo scopriamo quanto sia importante approfondire prima di parlare, leggere bene le carte, verificare attentamente le motivazioni. Per condannare ci basta un indizio. Per assolvere non è sufficiente una sentenza.

Ecco cosa avrebbe potuto dire Enrico Letta, per esempio.

Trattativa Stato-Mafia, Maria Elena Boschi umilia Travaglio: "Fatto carriera su questo. Quando nei talk-show..." Libero Quotidiano il 23 settembre 2021. "Una giornata storica": così Maria Elena Boschi, ospite di Barbara Palombelli a Stasera Italia su Rete 4, ha commentato la sentenza della corte d'assise d'appello di Palermo, con la quale sono stati assolti al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e l'ex senatore Marcello Dell'Utri, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. "Solo i boss mafiosi sono stati condannati. Chi non ha commesso il reato sono i rappresentanti delle istituzioni secondo quello che ci dice la sentenza", ha continuato la deputata di Italia viva. La renziana, poi, ha fatto un ragionamento: "Dobbiamo riconoscere che non c'è soltanto un problema di funzionamento dell'ordinamento giudiziario - da questo punto di vista spero che la riforma Cartabia aiuti ad accelerare i tempi dei processi per tutti i cittadini - ma c'è anche un altro tema". La Boschi ha sottolineato che "oggi ha vinto la giustizia rispetto al giustizialismo". E poi ha lanciato qualche frecciatina: "Non ci dimentichiamo che in questi anni ci sono stati anche alcuni giornalisti, una parte del mondo dell'informazione, che hanno fatto la propria carriera andando nei talk-show a parlare di questo accordo Stato-mafia come se fosse una verità assoluta e oggi la sentenza ci dice che non è così". Si riferisce forse a Travaglio?

Silvio Berlusconi, la vignetta del Fatto quotidiano: una bomba di fango sulla campagna per il Quirinale.  Libero Quotidiano il 26 settembre 2021. "Perdono" in tribunale, i manettari del Fatto quotidiano. Ma sulle loro pagine avanzano imperterriti a sospettare, attaccare, infangare. Il processo sulla trattativa Stato mafia si è risolto in una colossale bocciatura del teorema per anni cavalcato da Marco Travaglio e soci, perché secondo i giudici la molto presunta "trattativa" tra esponenti di Cosa Nostra e rappresentanti dello Stato "non rappresenta reato". I contatti "diplomatici", come ovvio, ci sono stati (come in ogni guerra) ma questo non significa che lo Stato abbia cercato di proteggere o favorire i boss.  Eppure, nonostante il castello di carte sia caduto sul tavolo, in redazione al Fatto procedono come se nulla fosse. Come? Tirando in ballo Silvio Berlusconi, ovviamente, e rovesciando in capo all'ex premier, leader di Forza Italia, un'altra bella carriolata di melma. Il merito, si fa per dire, è del prode Mannelli, che ormai sembra aver sostituito il rosso Vauro Senesi come matita armata di Travaglio. In prima pagina, ecco una bella vignetta sulla "trattativa continua", e già qui viene un brivido: sono proprio irriducibili. Da una parte qualcuno chiede al Cav: "Ti fai processare o no?". Il sogno dichiarato di mezza Italia, d'altronde. Anzi, una ossessione. Risponde Berlusconi, secondo Mannelli: "Mi fate capo dello Stato o no?". Insomma, da mandante delle stragi di mafia a presidente della Repubblica: in questo caso quello di Travaglio non è solo una ossessione, ma un incubo a occhi aperti. 

Travaglio il manettaro rosica.  Pietro Senaldi e la trattativa Stato mafia: "Il teorema di Travaglio, finisce per infangare pure Falcone". Libero Quotidiano il 25 settembre 2021. La sentenza sulla trattativa Stato-Mafia che ha assolto i tre ex carabinieri e Marcello Dell’Utri è stato un duro colpo per Marco Travaglio e per tutti i giustizialisti di questo paese. “Li ha mandati in crisi tutti - ha sottolineato Pietro Senaldi - con il direttore del Fatto che nel suo ultimo articolo ha ripetuto tutte le accuse così da far sembrare gli assolti colpevoli. Una mascalzonata, dopodiché Travaglio sostiene che, pur non essendo stata accertata la rilevanza penale, la trattativa ha comunque valenza storica e politica. Quindi c’è la condanna politica perché c’è stata una interlocuzione tra mafia e istituzioni. Allora vorrei ricordare a Travaglio che di questo passo dobbiamo dire che anche Falcone non ha combattuto la mafia? Perché ha trattato con essa, dato che Buscetta era mafioso. Ovviamente no, sono le solite cavolate di Travaglio per trasformare in pareggio una sconfitta”. 

Francesco Merlo per la “Repubblica” il 26 settembre 2021.

La lettera: Caro Merlo, sulla sentenza per la trattativa Stato-Mafia le chiedo: anche quando fosse stata negata e si fosse trattato di "contatti" come più volte ammesso dal generale Mori, è lecito attivare contatti con criminali per combattere il crimine? Ho insegnato per tutta la vita e spesso ho discusso con i giovani sul principio machiavellico "il fine giustifica i mezzi". Su un punto non si è mai verificato dissidio: nello Stato di diritto non si dialoga con i delinquenti, si agisce per assicurarli alla giustizia mai contravvenendo alle leggi. Non capisco la letteratura sul contesto, la complessità, le situazioni particolari. Capisco solo che il sistema giudiziario è in agonia e che ai giovani non si possono comunicare più quelle certezze minime senza le quali i punti di riferimento restano vuoti di contenuto e perciò di significato. Licia Fierro 

Cara professoressa Fierro, leggo nella sua amarezza una voglia di colpevoli a prescindere, una delusione per l'assoluzione che non capisco. Quei contatti degli uomini dello Stato con i mafiosi non erano "trattative", cedimenti, scambi illeciti. Ai suoi studenti comunichi, dunque, questa bella certezza minima di funzionamento della giustizia: non una corte levantina dietro la quale si nascondono trafficanti di cavilli o cavalli di Troia, ma la Corte d'Assise d'Appello (otto giudici, sei popolari) presieduta da un giudice, Angelo Pellino, di specchiata reputazione e grande esperienza, ha stabilito che gli ex ufficiali dei carabinieri Giuseppe De Donno, Mario Mori e Antonio Subranni sono innocenti. Questi funzionari dello Stato cercavano di trasformare i mafiosi in confidenti, collaboratori o agenti provocatori come accade in tutte le indagini del mondo. Ma lei, forse influenzata da un giornalismo scellerato, vede nel "contatto" non un lecito strumento investigativo di cui l'investigatore risponde, ma la guardia che si fa ladro illudendosi di fare meglio la guardia, il carabiniere che si contamina come i pirati di sua maestà, il buono-cattivo, il mezzo Falcone e mezzo Riina. Forse ha letto troppo Machiavelli. Gli imputati non hanno commesso i reati per i quali sono sotto processo da 10 anni con conseguenze devastanti per le loro vite. E non c'è Machiavelli nel codice penale.

Trattativa Stato-mafia e quei problemi Travaglio nell’interpretare la sentenza. Il dispositivo della sentenza d'appello del processo trattativa Stato-mafia smonta i fatti narrati in questi ultimi 10 anni e c’è chi travisa, di nuovo, l’episodio del “Subranni punciutu” riferito da Paolo Borsellino alla moglie. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 27 settembre 2021. Il dispositivo della sentenza trattativa Stato-mafia è così semplice e lineare che pure un bambino riuscirebbe a comprenderlo. Ma Marco Travaglio no, si ostina a dire che la sentenza conferma i fatti narrati dal suo giornale, da trasmissioni e improbabili inchieste tv replicate fino allo sfinimento. Ma quali sono i fatti che non sarebbero stati sconfessati? In estrema sintesi, ripercorriamo il teorema propagandato.

Subranni era così amico di Mannino che lo arrestò

Dopo l’esito del maxiprocesso, Totò Riina decide di ammazzare i politici che non sarebbero intervenuti per evitare la condanna alla cupola mafiosa. Nel mirino c’era anche l’ex ministro dc Calogero Mannino che, impaurito, ha chiamato l’allora capo dei Ros Antonio Subranni (così amico, ma talmente intimo che poi sarà lui ad arrestarlo – da innocente – per concorso esterno in associazione mafiosa) e gli ha detto di trattare con la mafia, scendere a patti per evitare di essere ucciso. A quel punto Subranni ha chiamato Mario Mori e gli ha ordinato di trovare qualche referente mafioso per intavolare una trattativa. Con l’allora capitano Giuseppe De Donno hanno individuato l’ex sindaco di Palermo Ciancimino. I fatti narrati ci dicono che i Ros, tramite don Vito, in concorso con la mafia hanno veicolato la minaccia al governo: fai leggi a favore dei mafiosi, o continuiamo con le stragi. Poi, sempre secondo i fatti raccontati da Travaglio (un copia incolla della pubblica accusa), a partire dal 1994, quando fa il suo ingresso sulla scena politica Silvio Berlusconi nella veste di Presidente del Consiglio, il ruolo di “cinghia di trasmissione” delle minacce mafiose cambia interprete e viene assolto non più dai Ros e, per i quali, quindi, il reato si è consumato nel 1993, bensì dall’ex senatore Marcello Dell’Utri che, grazie ai rapporti con Vittorio Mangano, esponente di spicco della mafia trapiantato in Lombardia, alimenta la trattativa e veicola, in concorso con la mafia, la minaccia al governo.

Calogero Mannino è stato assolto definitivamente per non aver commesso il fatto

Bene, questi sono i fatti che secondo Travaglio non sarebbero stati sconfessati. Ora, passiamo alla verità emersa processualmente che comprenderebbe, appunto, anche un bambino. Mannino è assolto definitivamente dall’altra sentenza per non aver commesso il fatto.

Mori e De Donno assolti dall’accusa di aver minacciato il governo

Quindi è già crollato la genesi raccontata dal teorema: Mori e De Donno hanno agito autonomamente, sotto impulso di nessun uomo delle istituzioni. Ora l’attuale sentenza li assolve perché il loro colloquio con Ciancimino non era volto, in concorso con la mafia, a minacciare il governo. Fuori un altro pezzo del teorema.

Marcello Dell’Utri assolto per non aver commesso il fatto

Rimane Dell’Utri. Il dispositivo ci dice che non ha nemmeno trattato tramite Mangano e quindi non ha commesso il fatto. Via un altro importante pezzo del teorema. Quindi che cosa ne rimane dei fatti narrati per 10 anni da Travaglio? Solo che i Ros hanno “trattato” con Vito Ciancimino. E questa, come si suol dire, è la scoperta dell’acqua calda visto che nessuno lo ha mai negato o tenuto nascosto: dei contatti intrapresi con Ciancimino, la Procura di Palermo ne è venuta a conoscenza appena si è insediato Caselli nel ‘93.

Travaglio attacca anche Fiammetta Borsellino

Nessun illecito, e ora lo conferma pure la Corte D’Appello presieduta dal giudice Angelo Pellino. Nel suo editoriale dove si divertirebbe a smontare presunte bufale, Travaglio se la prende pure con Fiammetta Borsellino. In un’intervista su Libero, fatta da Giovanni Jacobazzi, la figlia di Borsellino dice: «Sotto accusa chi aiutò mio padre».

Ed ecco la puntuale battuta di Travaglio: «Suo padre è per caso lo stesso che disse a sua madre prima di morire: “Ho visto la mafia in diretta, mi han detto che Subranni è punciutu”, cioè associato alla mafia?». Ed ecco che anche qui, così come per il dispositivo, Travaglio presenta evidenti problemi di comprensione del testo.

Borsellino aveva chiaramente capito l’intenzione di infangare i Ros

Nella frase “ho visto la mafia in diretta” Borsellino si riferiva al suo interlocutore, avendo chiaramente capito la sua intenzione di infangare i Ros. Non a caso, come ha testimoniato la signora Agnese, ha avuto conati di vomito. Con chi si era visto? Non è dato sapere. Dalla sua agenda personale sappiamo però che Borsellino, quel giorno, è stato in Procura dalle 17 in poi, dopodiché è rientrato a casa per l’ora di cena; poi l’angosciosa chiacchierata con la moglie. Sicuramente è pura coincidenza che questo evento sia capitato il giorno dopo la riunione in procura, dove Borsellino ha riportato le lamentele dei Ros per la conduzione del procedimento di mafia-appalti. Esiste un precedente. Borsellino, il 25 giugno 1992, si incontrò riservatamente con i Ros e la prima cosa che disse a De Donno fu: «Attenzione che qualcuno sta parlando male di te». Ci credo che ha avuto i conati di vomito quando, ancora una volta, qualcuno ha tentato di infangare i Ros, coloro che hanno messo mano all’inquietante connubio mafia, politica e grandi imprese nazionali.

«Sotto attacco i giudici che hanno smontato la trattativa. Intervenga il Csm». «Parlare di trattativa è ontologicamente scorretto». Parla Cesare Placanica, difensore del generale Antonio Subranni nel processo conclusosi pochi giorni fa in Corte d’Appello a Palermo. Simona Musco su Il Dubbio il 28 settembre 2021. «Parlare di trattativa è ontologicamente scorretto». A dirlo al Dubbio è Cesare Placanica, difensore del generale Antonio Subranni nel processo sulla presunta trattativa Stato- mafia conclusosi pochi giorni fa in Corte d’Appello a Palermo. E lo fa smontando pezzo per pezzo le obiezioni di chi, oggi, sostiene che, nonostante le assoluzioni, il dispositivo dia ragione alla tesi dell’accusa. Ma non solo: Placanica punta il dito contro chi, in queste ore, attacca i giudici, “colpevoli” di aver assolto il generale Mario Mori e gli altri “colletti bianchi”. «Perché Anm e Csm non li difendono da chi sta aggredendo la giurisdizione?».

Avvocato, il direttore Travaglio sostiene che il Dubbio non abbia capito il dispositivo della sentenza del processo Trattativa. Ce lo può spiegare lei?

La trattativa non ha mai avuto valore giuridico in questa vicenda. L’unica cosa che conta è la minaccia ai danni dello Stato. Cominciamo col definire ontologicamente la “trattativa”. Cosa ha provato il processo? Che Mori e De Donno andarono a casa di Ciancimino per parlarci e carpire informazioni. Ma quelle conversazioni sono coperte normativamente dall’articolo 203 del codice di procedura penale, che testualmente parla di informatori della polizia giudiziaria e dei servizi di sicurezza. Secondo tale articolo, il giudice non può obbligare gli agenti a rivelare il nome dei propri informatori. Questo fatto accade quotidianamente, anche oggi e non lo viene a sapere nessuno.

Forse si parla di trattativa perché tutto è rimasto segreto?

La norma prevede che gli ufficiali di polizia giudiziaria possano avere contatti con qualunque soggetto, e normalmente li hanno, e che possano mantenere il segreto su questa loro fonte. Un fatto provato dal processo è che Fernanda Contri, segretaria generale della presidenza del Consiglio, dopo la morte di Falcone e prima di quella di Borsellino, incontra Mori, che le dice: “Stiamo andando avanti con le indagini sulla morte di Giovanni, abbiamo la speranza di far collaborare Ciancimino, con cui stiamo intensamente dialogando”. De Donno dice queste stesse cose a Liliana Ferraro, vice di Falcone al ministero della Giustizia e vicinissima a lui. Ferraro non solo lo dice al processo, ma aggiunge di averne parlato immediatamente con il ministro Martelli – che lo conferma – nonché con Borsellino all’aeroporto di Fiumicino. E dice che dalla sua reazione ha capito che Borsellino lo sapeva. Si ricordi che il dialogo con Ciancimino iniziò dopo la morte di Falcone e prima di quella di Borsellino, tra le quali passano poco meno di due mesi.

Quindi cosa significa l’assoluzione di Mori, Subranni e De Donno?

Siccome la minaccia, ovvero le bombe, era in corso – per questo vengono condannati i mafiosi -, per essere condannati per la minaccia gli uomini del Ros avrebbero dovuto aderirvi, volerla e dare supporto al seguito della stessa, che sono le ulteriori bombe. È mai possibile immaginare che Mori potesse volere che Riina continuasse a mettere le bombe? Il processo sulla trattativa è solo questo.

“Trattativa” quindi è un termine per il grande pubblico?

Certo. Non è stata nemmeno definita. La trattativa sono i colloqui investigativi, codificati dal 203, che accadono tutti i giorni in Italia.

Nell’intervista rilasciata al Dubbio, Ingroia sostiene che Mori e gli altri avrebbero dovuto rivolgersi ai magistrati per riferire della minaccia.

Questa è l’altra assurdità con cui si commenta questa sentenza. Ed è una sciocchezza per due motivi: oltre al fatto che si trattava di colloqui informali, che la minaccia fosse in corso, dopo l’omicidio di Lima e dopo che era stata fatta saltare un’autostrada per uccidere Falcone, era una notizia nuova? Borsellino non lo sapeva? C’era al mondo qualcuno che non lo sapesse? Mori e De Donno si interfacciarono con Ciancimino non per sventare minacce, ma ulteriori fatti. Ed era loro dovere proteggere il confidente a sua segretezza: lo dice il codice. Quando la cosa si concretizzò, furono gli stessi uomini finiti a processo a portare Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia in carcere a interrogare Ciancimino. Non hanno tenuto nascosto nulla: quando hanno pensato che il loro informatore fosse disponibile a verbalizzare hanno agito. E di fronte a Caselli e Ingroia Ciancimino ha detto le stesse identiche cose.

Perché c’è tutta questa confusione allora?

Perché è voluta. Il processo era banalissimo sin dall’inizio e non è un caso che Mannino sia stato assolto per tre gradi di giudizio. Parliamo del pilastro senza il quale il teorema della trattativa non sta in piedi. L’uomo che coinvolge lo Stato è lui, perché secondo l’impostazione accusatoria, dopo l’omicido di Lima, teme di essere la prossima vittima. Così corre da Subranni, che manda gli altri a parlare con Ciancimino. La sentenza di primo grado ipotizza, illaziona ma non prende atto delle cose e nemmeno della sentenza Mannino, che ora ha forza di giudicato. E il procedimento di Mannino è tranciante nelle motivazioni. Non c’è stato l’incipit dello Stato, perché l’uomo che coinvolge lo Stato è Mannino. Se viene meno lui chi lo coinvolge?

Ma una richiesta c’è stata o no?

A chi? Questo non lo dice nemmeno la sentenza di prima grado. Il dato assorbente è quello: le persone oggi assolte non concorrono in nessun modo nella minaccia. La fisicità di un vero “papello” non è mai stata accertata nel processo. È emerso che Cosa Nostra avesse delle pretese, ma in nessun modo è emerso che queste siano state riportate ad un organo politico. Si fa finta di non considerare questo passaggio, ma non esiste alcuna prova che ciò sia mai successo. C’è stata solo una deduzione: siccome ad un certo punto c’è stato un provvedimento sul 41 bis, ne hanno fatto derivare che il messaggio fosse stato recapitato allo Stato. Ma un elemento probatorio rappresentativo del fatto che ciò sia accaduto non c’è.

L’allentamento sul 41 bis però dipende da una sentenza della Consulta. Se la trattativa c’è stata, bisognerebbe supporre che anche i giudici costituzionali fossero coinvolti?

Non solo loro, anche i magistrati di sorveglianza. La questione venne sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Ancona il 9 gennaio 1993 e la Corte costituzionale sostenne che le eccezioni erano condivisibili e che serve una motivazione specifica per mandare qualcuno al 41 bis: non si può procedere come se fosse una deportazione. Insomma, i giudici stabilirono che è necessario decidere caso per caso e che il carcere non può essere contrario al senso di umanità. La spinta alla rivisitazione del 41 bis deriva da questo.

Quali sono gli strascichi di questo processo?

Le sentenze possono essere criticate, ma ciò che mi colpisce è non solo la scarsa conoscenza dei dati, ma l’attacco personale, con il quale si adombra di malafede l’organo giudicante. E altrettanto mi colpisce l’assenza di difesa da parte di chi dovrebbe farla. Anm, Csm: dove siete? Perché non difendete i giudici della Corte d’Assise di Palermo da questi attacchi? I giudici devono avere serenità, i giudici coraggiosi servono solo nei Paesi senza democrazia. Non possiamo consentire che questo clima determini la necessità di coraggio da parte dei giudici del nostro Stato. La giurisdizione è sacra e va preservata. Non è un caso che il commentatore più feroce, che è Travaglio, attacchi la giurisdizione, indicando i giudici quasi come complici di un andazzo che stende una linea di nebbia e di ombra sulle nefandezze, solo perché si sono permessi di fare il loro lavoro. Bisognerebbe smetterla di creare tifoserie e cominciare a isolare gli ultras, che appartengono a tutte le categorie, per difendere il valore essenziale della giurisdizione. E bisognerebbe riflettere se e quanto la spinta mediatica possa aver influenzato processi di questo tipo e con quali risultati.

ABRACARTABIA.  Marco Travaglio Fatto Quotidiano il  29 Settembre 2021. In attesa del prossimo film di Woody Allen, chi vuol farsi qualche sana risata può vedersi le audizioni alla Camera sul dlgs Cartabia per “rafforzare la presunzione di innocenza”. Cioè per abolire la cronaca giudiziaria. Ormai, fra depenalizzazioni, prescrizioni, improcedibilità, cambi di giurisprudenza à la carte, minacce ai giudici e altre porcherie, il rischio che un potente sia condannato è inferiore a quello che Italia Viva superi il 3%. Infatti ciò che spaventa lorsignori non è più di finire in galera, ma sui giornali: cioè che si sappia quel che fanno. Quindi i pm e le forze dell’ordine potranno parlare delle loro inchieste “solo quando è strettamente necessario per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico”. Cioè: meglio per loro se si stanno zitti, così i media non scrivono più nulla e la gente non sa più una mazza. Ogni tanto – abracadabra! – sparirà qualcuno da casa, parenti e amici penseranno al peggio e chiameranno Chi l’ha visto?, i giornali segnaleranno il curioso fenomeno dei desaparecidos come nell’Argentina anni 70: anni dopo si scoprirà che era stato arrestato, ma non era strettamente necessario dirlo. Nel caso in cui un pm o un agente temerario si ostinino a informare di un’indagine, dovranno astenersi "dall’indicare pubblicamente come colpevole” l’indagato o l’imputato. Uno spasso: per legge il pm che chiede al GIP di arrestare tizio deve indicare i “gravi indizi di colpevolezza” a suo carico: ora dovrà aggiungere che sembra colpevole, ma è sicuramente innocente. Anche se l’ha colto in flagrante o filmato o intercettato mentre accoltellava la moglie, o spacciava droga, o frugava negli slip di un bambino. E persino se ha confessato. Formula consigliata: “È innocente, arrestiamolo”. Severamente vietato poi “assegnare ai procedimenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. Retata di narcotrafficanti, mafiosi, terroristi, scafisti, papponi, pedofili, tangentisti? Operazione “Giglio di Campo” o “Tutta Brava Gente”. Anche fra i reati da contestare, evitare quelli che fanno pensar male: non più “associazione per delinquere”, ma “sodalizio conviviale”. La stampa dovrà cospargere le pagine di vaselina, evitando termini colpevolisti quali “criminalità organizzata” (tutt’al più disorganizzata, ecco). Ma questo già avviene su larga scala, infatti ieri l’Ordine dei giornalisti e la Fnsi han dato buca alla Camera. Se già i media chiamano statisti i pregiudicati, esuli i latitanti e perseguitati i colpevoli prescritti, il dlgs Cartabia è pleonastico. Anche grazie ai giudici che si portano avanti col lavoro e cancellano brutture come la trattativa Stato-mafia, condannando solo i mafiosi. Che trattavano sì, ma da soli. Infatti ora si chiama “trattativa mafia-mafia”.

Travaglio. L'altra bestia. Marco Travaglio Fatto Quotidiano il  30 settembre 2021Morta prematuramente la Bestia salviniana in un festino con coca e romeni nella cascina di Morisi, consoliamoci con l’altra formidabile macchina spara merda, attiva da cinque anni a edicole e reti unificate contro una sola persona: Virginia Raggi. Il celebre titolo di Libero “Patata bollente”, stigmatizzato con raccapriccio dall’intero tartufismo nazionale, è solo l’apice di un’ignobile campagna iniziata il giorno dell’elezione di una sindaca “rea” di essere donna, grillina e per giunta onesta. Le ridicole accuse penali, tutte cadute in tribunale e in appello, non bastavano: bisognava dimostrare che era pure corrotta (Corriere, Repubblica e Messaggero, per una storiella di nomine e polizze, evocarono Tangentopoli e il Giornale annunciò il suo arresto) e mignotta (Repe l’assessore Berdini su La Stampale inventarono una liaison col dirigente Romeo). Qualunque cosa accadesse a Roma (ma anche fuori) era colpa sua. Lei però restò in piedi, allora si cominciò a dire che aveva i giorni contati, prossima al ritiro per un posto da sottosegretario, scaricata da Grillo, Conte&C. Infatti. Così si disse che non la rivotava nessuno: poi arrivarono i sondaggi e si capì che se la poteva giocare. Panico. Così si ricominciò a inventare. Il disastro dell’Atac (ereditata in fallimento e risanata), gl’impianti per i rifiuti (competenza regionale), i cinghiali (idem), la “discarica fuorilegge” ad Albano (legittima per il Tar), lo stadio della Roma (da quando c’è lei, farlo è il male assoluto, ma anche non farlo), la grande occasione persa delle Olimpiadi (cioè del default della capitale indebitata per 15 miliardi da quelli bravi di prima), i “no a tutto”(ha candidato Roma a Expo2030 e Draghi ha appena firmato), la strage di pesci nel Tevere (li ammazza lei uno per uno), la città inondata dalle bombe d’acqua (a Roma sono colpa sua, a Milano della pioggia), le piste ciclabili “elettorali”(bandi di due anni fa), il museo della Shoah “elettorale”(progetto del ‘97, lavori iniziati con Veltroni nel 2005), i fuochi d’artificio pagati dal Municipio di Ostia per la sua cena elettorale (si fanno ogni anno e dal ristorante manco si vedono), la cena “fuorilegge perché senza Green Pass”(in una terrazza all’aperto dove la legge lo esclude), il mancato vaccino perché “No Vax ” o “Ni Vax”(è guarita dal Covid e ha gli anticorpi ancora alti). Ignazio Marino ricorda che la Raggi si è scusata mentre il Pd ricandida i suoi pugnalatori? Rep risponde per Gualtieri che lei candida il cameriere che testimoniò sulle cene a sbafo: come se andare in tribunale per fare il proprio dovere fosse uguale ad andare dal notaio per cacciare Marino. E ora tutti in coro: viva i buoni, abbasso la Bestia! Anzi, morta una Bestia ne resta un’altra. Marco Travaglio FQ 30 settembre 2021

“Il processo mediatico è un diritto intangibile!”, Travaglio si gioca il tutto per tutto. Clamoroso editoriale firmato dal direttore del Fatto. Il quale dichiara che i politici “non temono più di finire in galera ma sui giornali”, e che dunque la sputtanopoli quotidiana può anche prescindere dall’accertamento processuale. È un proclama estremo, una rivendicazione di chi si sente prossimo alla sconfitta. Ma che non per questo va sottovalutato. Errico Novi su Il Dubbio il 29 settembre 2021. Marco Travaglio firma sul Fatto quotidiano un editoriale che sembra una rivendicazione. Proclama il diritto, a suo giudizio intangibile, al processo mediatico. Attacca le norme sulla presunzione d’innocenza. Con contorno di dileggio per la ministra Cartabia. Come ha scritto Daniele Zaccaria sul Dubbio di oggi, un quotidiano-manifesto dell’intransigenza come il Fatto si trova in questi giorni a reagire contro la botta della sentenza di Palermo. Tutto bene, nel senso che, a parti invertite, un giornale garantista farebbe lo stesso. Ma nell’altolà di Travaglio al decreto sulla giustizia mediatica c’è qualcosa che va oltre la polemica: c’è il segno di una sconfitta che incombe. Di un vento che è cambiato forse irreparabilmente. Dichiarare “ciò che spaventa lorsignori non è più di finire in galera, ma sui giornali: cioè che si sappia quel che fanno” ha del clamoroso, e può spiegarsi solo con la logica del tutto per tutto. È la difesa di un mondo e di un modo di intendere l’informazione giudiziaria forse al tramonto. Una certificazione di sconfitta.Non possiamo essere certi che andrà così. Ma come nelle partite decisive, meglio mettere al sicuro il risultato che cantare vittoria in anticipo.

Ma sì, adottiamo il lodo Travaglio: addio processi, basta la gogna. Per il direttore del Fatto Quotidiano il diritto al processo mediatico è sacro, altro che presunzione d'innocenza. Scrive l'avvocato Giuseppe Belcastro.  Giuseppe Belcastro, avvocato, co-responsabile Osservatorio Informazione giudiziaria Ucpi, su Il Dubbio il 29 settembre 2021. Tra frizzi e lazzi, nello spassoso editoriale di ieri, il Direttore Travaglio declina molti esilaranti esempi di ciò che accadrebbe se il decreto Cartabia – che recepisce la direttiva europea sulla presunzione di innocenza – fosse approvato così com’è (degli “inasprimenti” richiesti dall’Unione Camere penali italiane non parliamone neppure). Non avendo una penna così acuminata, né una verve satirica bastevole a contrastare tanto simpatico umorismo, direi che la partita è persa a tavolino. Per abbandono. Una riflessione però, forse mi riesce. Tutto questo divertentissimo arringare si regge sull’idea che rafforzare la presunzione di innocenza equivalga ad abolire la cronaca giudiziaria. Certo, se la cronaca giudiziaria è l’acritico amplificatore della narrazione di una parte (l’accusa), in un momento in cui nessuno ha ancora accertato un bel niente (le indagini) e senza il minimo rispetto di chi, alla fine, può anche essere assolto (l’indagato) e proprio per questo resta fino a sentenza presunto innocente, beh, allora ha perfettamente ragione Travaglio. E anzi, visto che le cose stanno così, anche il problema dei tempi della giustizia è finalmente risolto: a che serve il processo? A nient’altro che a dileggiare quei Giudici che, con sfrontata tracotanza, osassero affermare infine che le narrazioni di cui si diceva sono storielle; il che, per inciso, accade anche troppo spesso. Non resta allora che ringraziare per la brillante idea capace, in un sol colpo, di raggiunge gli obbiettivi primari che affaticano da anni studiosi e politici, i quali saranno pure preparati, ma mancano di spirito. Era semplice in fondo, solo che sbagliavamo la formula. Altro che Abracadabra. Sim Sala Bim e il processo è sparito! (Qualcuno, intanto, dica a Michael Giffoni di non aversene a male: da queste parti le cose vanno così).

“Non capisci nulla”, “Devi saper perdere”. Furiosa lite Travaglio-Sallusti.  Redazione di Libero Quotidiano il 25 Settembre 2021. Ieri ci eravamo chiesti: chissà se basterà ripetere per tre volte la parola “assoluzione” per riportare a più miti consigli gli irriducibili manettari di questo Paese. La risposta, non che ne attendessimo una differente, ce l’ha fornita ovviamente il Re della categoria: Marco Travaglio. Il direttore del Fatto Quotidiano, sconvolto dall’assoluzione di Dell’Utri&co., non si capacita di come i giudici della corte d’Assise di Palermo possano aver cancellato 25 anni di teoremi sulle stragi di mafia del 1992-93. E così s’ostina a ripetere una cantilena: quella del “la trattativa c’è stata, ma per le toghe trattare coi delinquenti non è reato”. Tradotto: comunque vada, ho ragione io. Ieri sera Travaglio ha ripetuto la scenetta anche di fronte alle telecamere di La7. I giudici hanno assolto gli ex ufficiali dei Carabinieri Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni perché “il fatto non costituisce reato”? Poco importa. Le toghe hanno smontato le accuse contro l’ex senatore Marcello Dell’Utri perché “non ha commesso il fatto”? Chi se ne importa. In fondo la “stampa delle procure” sulla Trattativa ha costruito un filone mediatico, così come il partito delle manette, il Movimento Cinque Stelle, ha cavalcato festante le condanne in primo grado nel 2018. Dunque ammettere la sconfitta per loro deve essere davvero doloroso. Se non impossibile. Ospite nel salotto di Lilli Gruber, Travaglio ha fatto trapelare tutto il nervosismo accumulato con la batosta. E ne è nato un duro scontro col direttore di Libero, Alessandro Sallusti. “Vedi che non riesci a capire – ha attaccato Travaglio mostrando i fogli del dispositivo – sono due pagine, ci vuole tanto sforzo? Te le mando se non ce le hai”. Immediata la replica di Sallusti: “Io capisco che noi giornalisti siamo dei tuttologi, ma non possiamo insegnare ai migliori investigativi del Paese” come fare il loro mestiere. A quel punto il direttore del Fatto non ci ha visto più. Ed è partito con le offese: “Tu sei un nientologo, non capisci nulla di quello che c’è scritto. Il fatto non costituisce reato vuol dire che il fatto c’è, ma non è illecito. Vuol dire che hanno trattato a nome tuo e a nome mio con la mafia senza dircelo. Mentre lo Stato faceva finta di combattere la mafia. E la mafia si è convinta che trattando con lo Stato le conveniva fare altre stragi. E ha fatto fuori Falcone, Borsellino, gli uomini della scorta e le stragi del ’93”. Perfetti i due affondi di Sallusti. Primo: il “fatto non costituisce reato” vuol dire che “non costituisce reato, punto”. Quindi il processo non andava nemmeno celebrato, con tanti saluti ai vari pm che sulla Trattativa hanno costruito carriere. E secondo: caro Travaglio, a un certo punto, “bisogna pure saper perdere”.

Stato mafia, Renato Farina: Travaglio e i manettari rosicano, la trattativa non c'era e loro minimizzano. Libero Quotidiano il 25 settembre 2021. Si è illuminata la scena di un delitto. Ma il delitto non è quello che la Procura pretendeva di aver delineato. Il delitto è stato il processo. Per i danni che ha causato a persone innocenti, per la diffamazione insistita di persone e istituzioni, e soprattutto perché, sotto la maschera di procedure formalmente legali, si è consumato un tentativo di rovesciare l'ordine costituito. Diciamolo: un putsch togato. La Corte d'Assise d'Appello di Palermo ha infine placcato, con mossa decisa e chiara come il sole, questo pasticciaccio infame a pochi metri dalla meta. Deo gratias. Davanti a questa sentenza si sono manifestati diversi livelli di scontento. Individuarli è molto istruttivo. Prima però, anche se note a tutti, è il caso di ricordare, con una certa personale soddisfazione, le decisioni della Corte sicula. L'accusa, esponendo immediatamente le sue tesi con intonazioni definitive, ha conficcato un cuneo d'acciaio nel cuore dello Stato, identificandolo come complice di Cosa nostra. Con l'aria di fare un processo locale, con procedure buone per un furto di banane, ha impegnato polizia giudiziaria e forze investigative enormi. Un normale processo? Mezzi abnormi. Intercettazioni arrivate fin nelle stanze del Quirinale, con morti di crepacuore. In realtà abbiamo assistito per la durata di dieci anni, da quando cioè i locali pm formalizzarono le loro tesi, a una sorta di scommessa sulla pelle della democrazia. Ingroia, quindi Di Mat- g teo e poi tanti altri hanno so. stenuto che i carabinieri al servizio di vertici istituzionali hanno venduto l'Italia alla mafia, aiutandola a far stragi. Non uso il condizionale perché questo modo verbale non è mai stato usato, neppure nella formulazione delle ipotesi peggiori. Torquemada era un moderato e un cultore del dubbio, rispetto a costoro.

UNA STORIA SEMPLICE - I giudici hanno ribaltato l'assunto colpevolista, un kappaò senza resurrezione. Hanno stabilito che la trattativa c'è stata, ma non è stata affatto un reato. Forse, aspettiamo le motivazioni, doverosa. Ci piace qui citare un giurista con i fiocchi e i controfiocchi, Giovanni Fiandaca, che lo scrisse ben otto anni fa su Il Foglio, e cercò invano di strappare i predestinati alla dannazione, e perciò subito vilipesi, dalle mani ungulate di pm e loro appendici mediatiche. Fiandaca fu sommerso dal silenzio dei grandi (?) giornali e dalle contumelie dei mozzaorecchi e delle loro tricoteuses. Scrisse il giurista: «Gli intermediari non mafiosi della trattativa Stato-mafia agivano sorretti dalla prevalente intenzione di contribuire a bloccare futuri omicidi e stragi: un obiettivo, dunque, in sé lecito, addirittura istituzionalmente doveroso». Do-ve-ro-so. Si erano posti l'«obiettivo salvifico di porre argine alle violenze mafiose - e non già di supportare Cosa nostra nei suoi attacchi contro lo Stato». È così semplice, una storia semplice, intitolò Leonardo Sciascia un suo racconto. Ma certo. Gli ufficiali del Ros Mori, Subranni e De Donno dinanzi a chi spargeva morte si erano mossi per salvare gli ostaggi, cioè gli italiani. Invece i mafiosi Bagarella, Cinà, Brusca hanno trattato, loro sì, per attentare allo Stato. C'è una differenza o no tra i terroristi che tengono la pistola alla tempia di innocenti e chi cerca di mettere al sicuro la gente, prende tempo, appronta una scappatoia? Basta la buona fede, non c'è bisogno del quoziente intellettuale di Cartesio. Il processo era in sé stesso dunque, assai prima della sentenza, una trappola dettata dal pregiudizio politico e culturale contro chi lottava contro la mafia senza essere della parrocchia togata. In questo modo si è aperta la strada giudiziaria alla delegittimazione dello Stato, alla sua parificazione morale a Cosa Nostra. Non c'è bisogno di avere le lampadine in testa come Archimede Pitagorico o Eta Beta per arrivarci. A questo punto per i sostenitori sperticati o coperti di questo colpo al cuore dello Stato si è posto il problema di salvare i soldatini Ingroia, Di Matteo ed epigoni. Sono state due le tecniche praticate per dribblare l'ostacolo di una sentenza che ghigliottina il Robespierre che la stava manovrando.

DUE TECNICHE - 1) C'è quella volgarotta di quanti la buttano sul ridere al loro funerale. Rovesciano la vacca e si sganasciano perché ha le tette. È il caso del Fatto Quotidiano, che nei giorni scorsi aveva lanciato con tono limaccioso un altolà alla Corte perché si guardasse bene dal dare torto alla procura. Davanti alla mala parata, Travaglio cambia tono e sceglie quello della barzelletta sfigata da seminarista in gita per provare a scansarsi. E sostiene a tutta pagina e maiuscolotto: «IMPAR CONDICIO. Trattare con la mafia si può, con lo Stato no». Capita la battuta? Grande satira, non è vero? Per Marco Travaglio lo Stato e la mafia sono la stessa cosa. Chi cercava di negoziare per liberare dei bambini in mano ai banditi è uguale ai killer. E se promette un salvacondotto, è complice. Ma va' là, l'insuccesso ti ha dato alla testolina. Non spiace qui notare che i natali del processo sulle trattative coincidono, ma guarda un po', con quelli del Fatto: dieci anni buttati via, affinità elettive. 2). C'è un altro modo per edulcorare il colpo, ovattarne l'enormità, impedire che abbia strascichi fuori di Palermo e della piccola vicenda di uomini assolti. Minimizzare. Il campione di questa dottrina dell'incipriare il bernoccolo, zuccherare il fiele è con ampio distacco Carlo Bonini su Repubblica. Inizia con il dire che qui non si è attraversato nessun Rubicone. Nessuna partita decisiva. Nessun contraccolpo a Roma. In fondo la sentenza non chiarisce un tubo, dice. I titoli sembrano il risultato di un corso accelerato di depistaggio, odi opacità omertosa, come usa scrivere lui quando è in forma: «La verità impossibile nella stagione delle ombre». Ancora: «La sentenza e la zona grigia». Nel testo abbondano aggettivi come «labirintico», crescendo irresistibili di avverbi come «psicologicamente e compiutamente», manca lapalissianamente. Insomma: siamo al porto delle nebbie. Il Corriere della Sera? Giovanni Bianconi una cosina la dice. E cioè che il processo, al di là della sentenza, è stato «un errore». Forse citava il capo della polizia di Napoleone, Joseph Fouché che a proposito dell'esecuzione senza prove del duca di Enghien disse: «È peggio di un crimine, è un errore». Sia quel che sia, non si può cercare di impiccare impunemente la brava gente e lo Stato con lei.

Trattativa, giusto criticare i teoremi dei pm. Ma il guaio vero è che alcuni giudici li hanno assecondati. C’è un’altra questione riproposta con prepotenza dalla sentenza della Corte d’Appello di Palermo: lo spirito critico, l’indipendenza intellettuale, la capacità di resistere alle pressioni della magistratura giudicante. Il Dubbio il 26 settembre 2021. Il tema del dibattito – nella trincea garantista – è giustamente il frenetico attivismo delle Procure, l’occupazione dei media con accuse non ancora provate, i provvedimenti sbagliati che provocano ferite, a uomini e imprese, che nessuna assoluzione tardiva potrà guarire. Ma c’è un’altra questione, altrettanto importante, riproposta con prepotenza dalla sentenza della Corte d’Appello di Palermo. La questione dello spirito critico, dell’indipendenza intellettuale, della capacità di resistere alle pressioni della magistratura giudicante. Attenzione: qui non mi riferisco ai giudici per le indagini preliminari che decidono fuori dal contraddittorio. Ma ai tribunali, alle corti d’assise, ai giudici del dibattimento – insomma – che in questi anni si sono sintonizzati (spesso inconsapevolmente) sulle frequenze della polizia giudiziaria e delle procure motivati da malintese esigenze di difesa sociale. Mi riferisco al “giudice emotivo”, incapace di fidarsi della prova, attratto dal teorema, vinto dalla ricostruzione suggestiva. Al giudice che ha finito per adattare la prova al fatto anziché arrendersi alla mancanza, all’insufficienza, alla contraddittorietà della prova del fatto. La Corte d’Assise e la Corte d’Appello di Palermo hanno esaminato le stesse carte. Studiato gli stessi fogli. Solo che la seconda lo ha fatto con distacco. Ha usato diritto e buon senso, giudizio e prudenza, dopo aver spento la tv, richiuso i giornali, messo lo smartphone in modalità off- line. Ci siamo occupati dei pubblici ministeri. Qualcuno ha posto la questione dei giudici per le indagini preliminari. Abbiamo parlato meno delle sentenze pavide e di quelle scritte perché poi non si dicesse che. Fino a quando non è stata letta la sentenza di ieri. Francesco Verri (Avvocato)

Bene la sentenza sulla trattativa. Ora cancelliamo la cultura del sospetto. Il processo sulla trattativa aveva una valenza politica molto più ampia del semplice ventaglio di imputati. Veicolava una lettura che autorizzava a immaginare condizionamenti innominabili e inaccettabili che avevano viziato e male indirizzato il corso degli eventi dopo la tempesta del 1992- 93. Paolo Delgado su Il Dubbio il 26 settembre 2021. La sentenza di assoluzione nel processo sulla “trattativa Stato- mafia”, non inattesa dopo l’assoluzione di Calogero Mannino nello stesso procedimento ma ugualmente deflagrante, segna o può segnare un punto di svolta nella lettura storica del passato recente italiano e nella cultura politica del Paese. Il processo sulla trattativa aveva una valenza politica molto più ampia del semplice ventaglio di imputati. Proponeva, senza dichiararlo apertamente, una lettura precisa della nascita della seconda Repubblica e della genesi del ventennio segnato dalla straripante presenza di Silvio Berlusconi. Veicolava una lettura che autorizzava a immaginare condizionamenti innominabili e inaccettabili che avevano viziato e male indirizzato il corso degli eventi dopo la tempesta del 1992- 93. Spostava il confronto politico dal piano proprio delle visioni e dei progetti diversi a quello, di tutt’altra natura, tra il malaffare da una parte e l’onestà e la legalità dall’altro. Si potrebbe pensare che, avendo ormai Berlusconi perso la centralità che aveva, la faccenda sia di interesse esclusivamente storico, non certo secondaria ma relativamente poco influente sulle dinamiche politiche del presente, dopo averle pesantemente condizionate in passato. Non è così o lo è solo in parte. Silvio Berlusconi può essere un comprimario sul palco della politica attuale, il suo partito, da nave ammiraglia, può essersi trasformato in fanalino di coda della coalizione di destra ma quella coalizione resta una sua creazione, ha incisa nel dna l’eredità genetica della destra della seconda Repubblica. Dunque l’ombra di quella nascita tenuta a battesimo da poteri criminali e di una crescita accompagnata per mano da quegli stessi poteri sulla strada per loro più conveniente ha continuato sin qui a gravare anche sulla destra in larga parte “deberlusconizzata” di Salvini e Meloni. È possibile ora immaginare una tenzone politica anche durissima ma combattuta sul terreno proprio, quello dei progetti diversi, magari opposti, anche inconciliabili ma senza scivolare nella criminalizzazione degli avversari, senza poter giocare la carta facile e quasi sempre bugiarda della moralità contro l’ignominia banditesca. Sarebbe un passo avanti enorme perché il risultato di quello slittamento dello scontro politico su un terreno improprio, spesso scelto a freddo come comoda scorciatoia, è stato disastroso da tutti i punti di vista. Ha svilito, squalificato e delegittimato la politica senza renderla nemmeno di un milligrammo più etica. La sentenza di giovedì scorso, soprattutto se abbinata a quella altrettanto clamorosa su Mafia Capitale, ha però una valenza se possibile ancora più vasta e che chiama in causa l’intera cultura politica, non solo giudiziaria, dell’Italia degli ultimi trent’anni. In queste due maxi- inchieste, di gran lunga le più importanti e significative dell’ultimo decennio, le convinzioni dei pm, le loro ipotesi, i loro sospetti sono state molto più determinanti nella costruzione delle prove che non gli elementi concreti a sostegno. Sono stati tirati per i capelli alcuni elementi mentre altri sono stati sottovalutati o ignorati. La stessa logica è stata molte volte spensieratamente travolta e stravolta in nome delle “intime convinzioni” degli inquirenti. A ogni critica, per decenni, si è risposto che bastava difendersi “nel processo” invece che “dal processo”. In apparenza le due sentenze in questione sembrano confermare la perentoria affermazione, però solo in apparenza. Processi che si prolungano per anni e anni, accompagnati da inchieste televisive, film e docufilm, migliaia di articoli impattano e modificano la disposizione dell’opinione pubblica e condizionano l’interpretazione della realtà in relativa indipendenza dalla sentenza finale. Quella logica del sospetto che vale di per sé come mezza condanna si estende poi al di là delle aule di tribunale, permette di reclamare ( e ottenere) dimissioni non solo in assenza di prove ma persino di capi d’accusa penalmente rilevanti. Poche cose hanno inquinato la vita pubblica del Paese negli ultimi decenni più di questa cultura, spalleggiata, adottata e condivisa quasi sempre dai media. Non è escluso che quella parabola sia arrivata al suo punto di caduta.

I due Di Maio sulla trattativa “Stato-Mafia”. Nel 2018 disse «c’è stata» oggi…Oggi il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, afferma che le sentenze vanno rispettate, ma nel 2018 esultò: «La trattativa "Stato-Mafia" c'è stata». Il Dubbio il 26 settembre 2021. Sulla presunta trattativa “Stato-mafia”, interviene anche il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, esponente di vertice del Movimento Cinque Stelle. «La sentenza va rispettata, come tutte le sentenze» ha dichiarato ieri a “Mezz’ora in più”, condotto da Lucia Annunziata. «Le sentenze vanno rispettate» ha aggiunto l’ex vicepremier del governo Conte, «altrimenti se noi politici cominciamo a commentarle iniziamo a ingerire in altri poteri dello Stato». Di tutt’altro tenore erano state le dichiarazioni dello stesso Di Maio nell’aprile del 2108, quando disse che «la trattativa Stato-Mafia c’è stata. Con le condanne di oggi muore definitivamente la Seconda Repubblica, grazie ai magistrati di Palermo che hanno lavorato per la verità». Una giravolta, quella di Di Maio, già avvenuta con l’ex sindaco di Lodi, Uggetti, al quale aveva chiesto scusa dopo la sentenza d’assoluzione arrivata in secondo grado.

Stato-mafia, dopo Palermo Di Maio “licenzia” Travaglio e Morra. La sentenza sulla trattativa Stato-mafia «va rispettata. Se noi politici cominciamo a commentarle andiamo a ingerire con un altro potere dello Stato». Parola di Luigi Di Maio. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 28 settembre 2021. La sentenza sulla trattativa Stato-mafia «va rispettata. L’ho detto anche in passato. Se noi politici cominciamo a commentarle andiamo a ingerire con un altro potere dello Stato». Messe così, queste parole, sembrerebbero uscite dalla bocca composta di un qualsiasi esponente del Partito democratico. Ma se così fosse non avrebbe alcun senso riportarle, svuotate dalla formula di rito “le sentenze si rispettano sempre”. Invece a pronunciarle è stato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, esponente di spicco ed ex frontman di un partito, il Movimento 5 Stelle, che ha costruito un’intera fortuna sulla narrazione di un Paese marcio, corrotto nel midollo, gestito a suon di trame e insabbiamenti. A prescindere dalle sentenze (di condanna o d’assoluzione, non importa) o dal semplice buonsenso. Per questo le parole di Di Maio diventano notizia.Le mura della Farnesina hanno fatto cambiare prospettiva a un leader – che solo tre anni fa chiedeva l’impeachment per Sergio Mattarella, colpevole, a suo lasciar intendere, di aver calpestato la volontà popolare – e lo hanno trasformato in un uomo delle istituzioni. Che ribalta tutta la vecchia retorica pentastellata e la butta nel cassetto dei ricordi spiacevoli da non aprire, gettando nello sconforto molti sacerdoti delle manette facili. C’è chi, come il presidente della commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra, dopo il pronunciamento della Corte di Assise di Appello palermitana arriva a scomodare il Pasolini del «io so ma non ho le prove» per dire senza imbarazzo che «le sentenze dei tribunali sono certamente importanti» ma è «compito del politico democratico far emergere verità se si vuole fare giustizia». E prima che il grillino “sospeso” Morra si trasformi anche in giudice, Di Maio interviene per stroncare tentazioni analoghe tra quanti, nel M5S, continuano a subire il fascino di quelle sirene. Con buona pace di Marco Travaglio e del Fatto quotidiano, organo non ufficiale del partito, che dal giorno della sentenza di Palermo non fanno altro che urlare ai reduci: non rompete le righe, la trattativa c’è stata, troveremo le prove prima o poi. Ma questa volta Grillo “il megafono” non rilancia più il messaggio.

Morra si sostituisce ai giudici "Il politico accerti la verità". Stefano Zurlo il 26 Settembre 2021 su Il Giornale. Stato-Mafia, l'ex grillino non accetta la sentenza. La proposta di Salvini: "Generale Mori senatore a vita". C'è la verità giudiziaria. Piccola piccola e talvolta deludente. E poi, per citare il sempre attualissimo Pier Paolo Pasolini, ci sono le certezze morali. Quelle non possono essere messe in discussione dal verdetto di Palermo che ha restituito l'onore a tre ufficiali dei carabinieri. Nicola Morra riprende un discorso fluviale, già iniziato subito dopo la sentenza su Facebook, e rilancia la ricerca della Verità, quella che non può accomodarsi dentro un provvedimento della magistratura ma può orientare le coscienze e definire l'identità di un Paese. Il Presidente della Commissione Antimafia dunque ributta la palla nel pozzo dei presunti misteri italiani e pazienza se per una volta la magistratura l'ha asciugato. «Il potere - spiega Morra - tende a imporre la sua narrazione, il suo story telling, per ammansire, placare, sedare e farsi accettare». Forse il politico 5 Stelle, cui Davigo (che smentisce) avrebbe mostrato sulle scale i verbali dell'avvocato Amara, allude anche al verdetto di Palermo? «Compito del politico democratico, del rompi scatole, del grillo parlante, è far emergere verità se si vuole fare giustizia, sebbene in questo modo si vada controcorrente, correndo il rischio dell'isolamento, dello screditamento continuo, del fango». Per la verità il fango è quello che ha ricoperto gli imputati ora assolti, dopo un'interminabile gogna di anni e anni. Ma la riflessione è tutta su un altro versante: la distanza che c'è fra quello che emerge in un'aula di corte d'assise e quanto si nasconde dietro le quinte. Morra, dopo aver saccheggiato mezzo Pantheon della cultura occidentale, da Tucidide a Socrate, si concentra, nientemeno, su Al Capone: «Se si studia la sua storia processuale, si scopre che la sua carriera criminale si concluse solo il 17 ottobre 1931 quando la giuria popolare giudicò Capone colpevole non di omicidi, di stragi, di gravi fatti di sangue, ma solo di una parte delle imputazioni contestategli per evasione fiscale». Insomma, il curriculum del gangster era altra cosa, la magistratura arrivò a sfregiarne l'immagine, anche se la condanna era poca cosa rispetto alla carriera del boss. Ecco, una parte del Palazzo, quella cresciuta a pane e complotti, dopo aver inneggiato alla decapitazione per via giudiziaria di pezzi interi della classe dirigente, si accorge ora che la vicenda è più complessa e profonda e non può essere misurata e pesata col metro del codice penale. Bisogna intendersi sulle parole: la Trattativa, che poi andrebbe declinata al plurale le Trattative, non fu l'oscura abdicazione di una parte delle istituzioni, ma una scia di situazioni e contatti ai confini fra Stato e anti-Stato in anni difficilissimi, e il primo errore che si può fare è leggerla con un pregiudizio manicheo: i buoni che stanno con i cattivi. La Trattativa, nel senso spiegato, probabilmente ci fu ma non andò come ci hanno fatto credere. Lo Stato non si piegò. Restano in ogni caso le sofferenze e le umiliazioni patite da chi per troppo tempo è stato additato come il nemico al servizio dei boss. Così dopo l'assoluzione, il Riformista propone di nominare il generale Mario Mori senatore a vita. E il leader della Lega Matteo Salvini, seguito da Luca Squeri di Fi, si dice d'accordo: «Appoggio l'iniziativa. Tributiamo la dovuta riconoscenza al generale e all'Arma». Matteo Renzi invece si rivolge al suo vecchio partito: «Invito il Pd a spendere parole chiare sul garantismo, come Giorgio Napolitano e non Giuseppe Conte ha insegnato a fare». Napolitano, pure lui lambito da questo processo.

Trattativa Stato-Mafia, lo slalom di Travaglio: come titola il Fatto dopo l'assoluzione dei principali imputati. Libero Quotidiano il 23 settembre 2021. "Dopo tre giorni di camera di consiglio nell'aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo, la corte d'Assise d'Appello ha emesso la sentenza del processo di secondo grado: l'ex senatore di Forza Italia non ha commesso il fatto. Assolti perché il fatto non costituisce reato gli ex alti ufficiali del Ros Mori, Subranni e De Donno. Confermata la condanna a 12 per il medico di Riina, mentre al cognato reato scontato di un anno perché la minaccia al primo governo Berlusconi è stato riqualificata in tentata minaccia proprio a causa dell'assoluzione di Dell'Utri". Così scrive il Fatto quotidiano dopo la sentenza d'appello che ribalta il primo grado di giudizio sulla Trattativa Stato-Mafia. Il Fatto, che con il suo direttore Marco Travaglio ha fatto dell'inchiesta sulla trattativa una bandiera, non co sta nonostante l'assoluzione dei principali imputati in Appello. "Una trattativa tra uomini dello Stato ed esponenti di Cosa nostra c’è stata. Solo che non costituisce reato: almeno per quanto riguarda le condotte contestate agli esponenti delle Istituzioni. È questa la decisione che chiude il processo d’Appello sulle interlocuzioni tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra nel biennio delle stragi. A emettere la sentenza, dopo più di tre giorni di camera di consiglio, la corte d’Assise d’Appello di Palermo", si legge nell'edizione on line del quotidiano. Secondo la ricostruzione della Procura, dopo il giudizio della Cassazione che aveva reso definitive le condanne del Maxiprocesso, Cosa nostra avrebbe avviato la sua rappresaglia, anche contro i politici che non sarebbero stati capaci di intervenire per aggiustare la sentenza. Da qui, nel 1992, prima l'omicidio dell'europarlamentare Dc Salvo Lima, poi le stragi (Capaci e via D'Amelio), nonché quelle del 1993 in "continente". Mannino, temendo per la sua vita, avrebbe avviato i contatti con i boss attraverso i carabinieri. Un'ipotesi questa completamente smontata dai giudici che l'hanno processato che hanno invece rimarcato come l'ex ministro abbia sempre contrastato la mafia. Ma che per il Fatto invece non esiste.

Marco Travaglio per il "Fatto quotidiano" il 24 settembre 2021. Per la serie "La sai l'ultima?", la sentenza d'appello sulla trattativa Stato-mafia conferma integralmente i fatti, ma condanna solo la mafia e assolve lo Stato. E così afferma un principio che sarebbe perfetto per l'avanspettacolo, un po' meno per il diritto penale: trattare con lo Stato è reato, trattare con la mafia non è reato. Sarà avvincente, fra tre mesi, leggere le motivazioni della Corte d'assise d'appello di Palermo. Ma lo sarebbe ancor più poter assistere alla loro stesura, cioè vedere i giudici che mettono nero su bianco questa trattativa asimmetrica con la Legge del Dipende: è reato solo per i mafiosi da un lato del tavolo e non per i carabinieri e i politici dall'altro: più che una trattativa, una commedia (anzi una tragedia) degli equivoci. Ricapitoliamo. Il boss Bagarella - a cui a questo punto va tutta la nostra solidarietà - si becca 27 anni di galera per aver minacciato a suon di bombe (insieme a Riina e Provenzano, prematuramente scomparsi) i governi Amato e Ciampi nel 1992-'93 e per aver tentato di minacciare pure il governo Berlusconi nel '94. Il medico mafioso Cinà - a cui a questo punto va la nostra solidarietà - si becca 12 anni per il suo ruolo di tramite e postino dei pizzini e dei papelli che si scambiavano Vito Ciancimino, imbeccato dai carabinieri del Ros Subranni, Mori e De Donno, e il duo Riina-Provenzano. Ma i carabinieri del Ros Subranni, Mori e De Donno, che dopo l'assassinio di Salvo Lima (marzo '92) e soprattutto dopo Capaci (maggio '92) commissionarono al mafioso Ciancimino la trattativa con Cosa Nostra per salvare la pelle a politici collusi che rischiavano la pelle per non aver mantenuto gli impegni sull'insabbiamento del maxiprocesso, vengono assolti perché "il fatto non costituisce reato". Quindi il fatto - cioè non tanto la trattativa, quanto la sottostante "minaccia a corpo politico dello Stato" attivata a suon di stragi da Cosa Nostra e veicolata ai governi Amato e Ciampi dal trio del Ros - sussiste eccome: però, quando trasmettevano le minacce mafiose per mettere in ginocchio i governi con l'unico effetto di rafforzare Cosa Nostra e di scatenare altre stragi, a partire da quella di via D'Amelio, i tre ufficiali dei carabinieri non commettevano reato. Perché? Lo scopriremo dalle motivazioni. Probabilmente mancava il "dolo", l'intenzionalità. Lo facevano a loro insaputa? Pensavano di agire a fin di bene? Erano sovrappensiero? Non capivano niente? Sia come sia, la lotta alla mafia era in buone mani. Parliamo dello stesso Ros che nel '92 non perquisì il covo di Riina, lasciandolo setacciare ai mafiosi favorendo Cosa Nostra, ma furono assolti perché mancava il dolo. Nel '93 non arrestarono Nitto Santapaola a Terme di Vigliatore (Messina). E nel '95 non catturarono Provenzano, che il pentito Ilardo gli aveva consegnato in un casolare di Mezzojuso, favorendo Cosa Nostra, ma furono assolti perché mancava il dolo. Dei fulmini di guerra. Nel '94 lo scenario cambia: Cosa Nostra sospende l'ultima strage, quella fallita il 23 gennaio allo stadio Olimpico di Roma, e tre giorni dopo B. annuncia la sua discesa in campo. Poi vince le elezioni grazie anche ai voti di mafia e 'ndrangheta. Bagarella e Brusca (colpevole anche lui, ma prescritto) mandano Vittorio Mangano a trovare il suo vecchio capo Marcello Dell'Utri nella sua villa di Como per ricordargli ciò che deve fare il governo dell'amico Silvio. Che infatti il 13 luglio infila tre norme pro mafia nel decreto Biondi. Anche questo episodio sembra confermato dal dispositivo della sentenza: infatti Bagarella e Brusca sono ritenuti colpevoli anche di quella minaccia al governo B.. Una minaccia, però, non più consumata (altrimenti verrebbe ricondannato anche Dell'Utri), ma soltanto "tentata". Così anche Dell'Utri può essere assolto "per non aver commesso il fatto": cioè per non aver trasmesso a B. la minaccia di Bagarella&C. portata da Mangano. Evidentemente la Corte non ritiene sufficienti le prove che B. fosse stato avvertito dal suo compare. Si sa che Marcello a Silvio nasconde sempre tutto. Mangano lo avvisa che, senza leggi pro mafia, le stragi ricominciano, e cosa fa? Si tiene tutto per sé e non dice niente al suo capo e amico, mettendone a rischio la pelle. Fortuna che Silvio, ignaro di tutto, si precipita ugualmente a varare tre norme pro mafia. Si pensava che fosse sotto minaccia e agisse per paura. Ora invece scopriamo che lo fece per piacer suo: una passione personale, un afflato spontaneo, una sintonia istintiva con Cosa Nostra. Un viatico in più per il Quirinale. In attesa di leggere le motivazioni, torna alla mente lo sfogo di Riina con un agente della penitenziaria nel 2013: "Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me". Per una volta nella vita, diceva la verità: fu lo Stato, tramite il Ros, ad avviare la trattativa. E anche questa sentenza lo conferma. Tutti i negazionisti vengono sbugiardati: le parole di Massimo Ciancimino, Brusca e decine di pentiti sono confermate. I veri bugiardi sono le centinaia di uomini dello Stato che prima hanno taciuto e poi negato tutto: a saperlo prima che la trattativa Stato-mafia è reato solo per la mafia, avrebbero confessato anche loro con un bell'"embè?". Bastava aver letto Sciascia: "Lo Stato non può processare se stesso". E, quando gli scappa di processarsi, presto o tardi si assolve.

I falsi epiteti del direttore del Riformista, Piero Sansonetti. Giorgio Bongiovanni su antimafiaduemila il 29 Aprile 2020. Il neo vice capo del Dap, Tartaglia, nel mirino prima ancora di iniziare. Neanche il tempo di iniziare il proprio lavoro come vice-capo del Dap (oggi il plenum del Csm ha autorizzato la conferma di collocamento fuori ruolo) che il pm Roberto Tartaglia finisce nel mirino dei soliti "giornaloni" e commentatori "antiprocesso trattativa Stato-mafia". A rendersi protagonista è il solito Riformista, diretto da Piero Sansonetti. "Un piccolo Di Matteo a capo delle carceri. Santocielo!" titola in prima pagina. E poi all'interno: "Un Travaglista vero, antimafioso di professione". Certo, non c'era bisogno di leggere il quotidiano di oggi per sapere come Sansonetti la pensasse su certi temi. E' uno di quelli che sostenne apertamente che "la trattativa Stato-mafia fu sacrosanta" perché "salvò vite umane" nonostante sia un dato di fatto che dopo quel dialogo, avviato tra i carabinieri del Ros ed il sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, non furono salvate vite, anzi, morirono vittime innocenti con gli attentati di via d'Amelio, Firenze, Milano e in Calabria. Bombe che, piaccia o non piaccia, in qualche maniera furono percepite come una minaccia dagli alti vertici delle nostre istituzioni. Basti ricordare la testimonianza dell'ex Capo della Stato, Giorgio Napolitano, di cui più volte ha parlato anche il nostro editorialista e scrittore Saverio Lodato, che, ascoltato in un’udienza straordinaria al Quirinale, il 28 ottobre 2014, disse in maniera chiara che le bombe del '92 e '93 furono un “aut-aut” allo Stato, un “ricatto a scopo destabilizzante di tutto il sistema”. Certi argomenti, oggi, tornano prepotentemente alla ribalta nel momento in cui vi sono magistrati che lanciano un grido d'allarme sulle scarcerazioni di una serie di boss mafiosi detenuti in Alta Sicurezza o al 41 bis. Ed ecco che la solita stampa torna alla carica, a priori, andando oltre il diritto di critica che può essere anche aspro nell'esprimere la libertà di pensiero, ma senza sfociare in uno spudorato attacco alla persona. Ogni volta che accade si prova una sensazione di costernazione. Molte volte il nostro giornale si è trovato a difendere nel merito dei fatti i magistrati dagli attacchi che arrivano dagli ambienti più disparati (della politica, da altri pezzi delle istituzioni, da funzionari di Stato, avvocati o intellettuali), ma restiamo in qualche maniera feriti ogni volta che queste invettive provengono da una stampa che, certamente, può esprimere citriche ed opinioni in maniera costruttiva, ma senza travalicare i fatti che, è noto, restano fatti e non possono essere cancellati.

Cosa c'entrano gli attacchi personali e gratuiti?

E' quello che è accaduto oggi con Roberto Tartaglia la cui figura è stata denigrata già per l'aver fatto parte del pool di magistrati che ha avuto l'ardire di mettere sotto processo, oltre ai boss, anche ufficiali dell'arma ed ex senatori, ottenendo delle condanne pesantissime in primo grado. Come se cercare di far luce su certi fatti sia qualcosa di aberrante.

Ma si sa che quel pezzo di storia, tanto scomodo da ricordare e su cui ancora non si ha una verità piena, è indigesto. Nel suo doppio articolo, Sansonetti scrive una lunga serie di spudorati attacchi, inesattezze e falsità che dimostrano quantomeno una certa ignoranza (nel senso che si ignora) nell'esposizione dei fatti che sono fin qui emersi da sentenze e processi. Dalle stragi, alla trattativa Stato-mafia, fino ad arrivare alla carriera del generale Mario Mori, dipinto come il "solito" eroe di Stato nonostante le stesse sentenze di assoluzione rimarchino delle gravi responsabilità su certe azioni che si sono consumate, sia rispetto alla mancata perquisizione del covo di Totò Riina, che per il mancato blitz a Mezzojuso, dove si nascondeva Bernardo Provenzano, nel 1995. Una litania ripetuta allo sfinimento. Di fronte ad un giornalista di lunga data come il direttore de Il Riformista, vogliamo pensare che sia davvero per un'arrogante supponenza rispetto ad una non conoscenza dei fatti. Anche se vi è più di un sospetto che possa esservi pura e semplice malafede. E non è solo questione di dialettica. Perché si è sibillini nel momento in cui si usa l'espressione "professionista dell'antimafia" e si cita Sciascia, si cerca di far tornare alla mente vecchie considerazioni, anche se, vale la pena di ricordarlo, quella locuzione non fu mai usata da Sciascia.

Eppure, ogni volta che il bersaglio ha il volto di un magistrato, di un investigatore, o di un collaboratore di giustizia, ecco che si torna a parlare di professionismo dell'antimafia. Ma c'è dell'altro. Perché Sansonetti rimescola il falso per attaccare, come fosse un mantra, il pm Di Matteo e su Tartaglia propone una biografia pubblicata dall'Ansa, dando libero sfogo ad una lunga serie di cattiverie gratuite. Scrive Sansonetti: "C'è scritto che ha indagato sui corleonesi di Totò Riina e ha svolto indagini per la cattura di Matteo Messina Denaro. Vabbè: Riina è stato catturato (dal generale Mori, cioè quello che Tartaglia ha contribuito a mettere sotto processo) nel gennaio 1993: Tartaglia aveva 10 anni. Quinta elementare. E Messina Denaro, se non siamo male informati, è ancora libero. Ecco: le carceri ora sono in mano a questo qua. Al 'piccolo Di Matteo'". Se gli sproloqui si commentano da soli può essere utile andare a vedere cosa c'è scritto nell'agenzia incriminata. E viene difficile comprendere quale sia lo scandalo. Si dà atto, infatti, dell'impegno di Tartaglia nell'inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia ma anche delle decine di inchieste condotte sui clan, come quella 'Apocalisse', che ha portato all'arresto di oltre 100 boss mafiosi e che, si legge nell'agenzia, “ha fatto luce sugli assetti delle più potenti 'famiglie' palermitane, tra cui quella dei corleonesi di Totò Riina, si è occupato di diversi filoni investigativi sulle ricerche del boss latitante Matteo Messina Denaro”. Ma Tartaglia, nel corso dei suoi anni palermitani si è occupato anche di misure di prevenzione antimafia, ed ha gestito diversi detenuti al 41 bis - Riina, Bernardo Provenzano e Salvatore Madonia per citarne alcuni - e collaboratori di giustizia importanti come Giovanni Brusca e Gaspare Spatuzza. Anche per questo motivo non può lasciare stupiti la nomina a numero due del Dap accolta oggi dal Csm. Ma per i Sansonetti di turno il vero problema, forse, è un altro. Che Tartaglia, assieme ai suoi colleghi, è stato tra quei magistrati che ha investigato cercando di far luce su quelle trame oscure tra eversione nera, Servizi deviati e criminalità organizzata. Tutte cose che, è emerso nel corso dei processi, il "buon" generale Mario Mori conosce. Ma di queste cose i lettori de Il Riformista non sentiranno mai parlare.

Caltanissetta, Sansonetti condannato per diffamazione Di Matteo. Redazione La Sicilia.it 21 ottobre 2020. Il Tribunale di Caltanissetta ha condannato il giornalista Piero Sansonetti per aver diffamato, con un articolo pubblicato il 28 settembre 2014 dal quotidiano "Cronache del Garantista", il procuratore di Palermo Nino Di Matteo. Il giornalista dovrà risarcire 50mila euro al magistrato. Nell’articolo dal titolo «La rozza aggressione del pm contro De Mita», il direttore Sansonetti, raccontando l’interrogatorio del 25 settembre 2014 dell’onorevole Ciriaco De Mita nel corso del processo sulla trattativa Stato-mafia scrisse: «il procuratore Di Matteo a un certo momento ha iniziato a rimproverarlo, in modo minaccioso e intimidatorio» ed anche: "gridava come uno sbirro asburgico». Nella sentenza di condanna il giudice ha ritenuto che «le espressioni utilizzate dal giornalista, fin dal titolo, sono in grado di proiettare nella mente del lettore la perpetrazione di un’aggressione verbale e l’utilizzo di toni intimidatori da parte del pubblico ministero ai danni del teste». «Sia dalla trascrizione di udienza, che in misura maggiore e dirimente, dall’ascolto dell’audio dell’esame del teste, ci si avvede invece che i toni utilizzati dal procuratore Di Matteo rimangono pacati e non trascendono per tutto l’espletamento della prova», aggiunge il magistrato che definisce «alcune espressioni adoperate dal giornalista immotivatamente denigratorie e del tutto esorbitanti dalla forma civile della critica». 

Trattativa, distrutto il teorema ma c’è chi sostiene il contrario. Gli ex Ros non hanno veicolato alcuna minaccia al governo e Dell’Utri non ha commesso il reato: due fatti fondamentali per l’accusa che non si sono mai verificati. Damiano Aliprandi su il Dubbio il 24 settembre 2021.  Era prevedibile. È bastato un titolo fuorviante del Fatto Quotidiano e Repubblica, strenui seguaci della tesi sulla trattativa, che i vari giornali – con il classico copia incolla – hanno a loro volta titolato la notizia della sentenza: «La trattativa Stato-mafia c’è stata, ma non costituisce reato». Addirittura c’è Marco Travaglio che si spinge oltre: «La sentenza d’appello sulla trattativa Stato-mafia conferma integralmente i fatti».

La sentenza ha smantellato i fatti teorizzati dall’accusa. Non serve essere un luminare della scienza e del diritto per capire che i fatti teorizzati dalla procura generale di Palermo sono stati smantellati per due banali motivi che si evincono dal dispositivo stesso: gli ex Ros , rapportandosi con Vito Ciancimino, non hanno veicolato alcuna minaccia al governo (questo il fatto che non costituisce reato) e l’ex senatore Marcello Dell’Utri non solo non ha commesso il reato, ma non ha nemmeno intrapreso alcun dialogo (il fatto) con la mafia per proseguire la trattativa. Solo questi due elementi fanno ben capire che i “fatti” ricostruiti dall’accusa non si sono mai verificati. Poi bisogna leggere le motivazioni del giudice Angelo Pellino per capire tutto il resto, come ad esempio ha valutato le testimonianze di alcuni pentiti, come inquadra la questione del medico Antonino Cinà. Nessuno di noi ha la sfera di cristallo. Eppure taluni giornalisti, danno per certo che la Corte ritenga vera la questione del papello.

Non è corretto veicolare sui media un messaggio errato. Legittimo difendere le proprie opinioni anche se le sentenze le sconfessano (a Il Dubbio lo facciamo spesso), ma disonesto se si piegano i fatti ad esse. Scorretto se addirittura si veicola un messaggio errato e pericoloso ai lettori, soprattutto nel momento in cui la fiducia nella magistratura è in fortissima crisi.

Gli ex Ros i “colletti bianchi” li arrestavano. Far intendere che la Corte abbia salvato i “colletti bianchi” e sacrificato i “poveri” sanguinari corleonesi, vuol dire sprofondare l’opinione pubblica nell’abisso più profondo dell’ignoranza. Partiamo da un fatto: a torto o a ragione, gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno sono proprio coloro che i “colletti bianchi” li mettevano dentro. Lo stesso ex ministro democristiano Calogero Mannino non li ama: infatti è stato il colonnello Mario Mori ad arrestarlo. La Corte d’Appello non ha salvato nessuno. Ha applicato il diritto e valutato le prove. Il capo d’imputazione è ben preciso. Non è la “trattativa” (che fortunatamente non costituisce reato, altrimenti possiamo dire addio alla lotta alla mafia o al terrorismo), ma “violenza o minaccia ad un Corpo politico”. Hanno analizzato uno per uno gli imputati e, secondo la lettura del dispositivo, la traccia che poi sarà argomentata nelle motivazioni è chiara. Punto primo. Mori e De Donno hanno avuto certamente un contatto con Vito Ciancimino. Cosa mai nascosta e riferita fin da subito alle autorità appena l’allora discusso Pietro Giammanco ha lasciato la procura palermitana. Il contatto prevedeva degli scambi: «Aiutaci a catturare i boss e noi ti trattiamo bene». Colui che avrebbe dovuto fare da tramite è il medico di Riina Antonino Cinà. Ecco la trattativa.

La sentenza è chiara: la minaccia allo Stato è arrivata dalla mafia. Il fatto è accaduto, ma da parte dei Ros non c’è stata alcuna minaccia al governo: non hanno fatto da tramite per veicolare la richiesta dei benefici della mafia. Chi è che allora ha minacciato il governo affinché lo Stato si piegasse alle loro richieste? Con la condanna di Leoluca Bagarella, la risposta è una sola: la mafia. Molto probabilmente il riferimento è al governo del 1993.

Poi, sempre secondo la traccia del dispositivo, gli stessi mafiosi hanno “tentato” di minacciare (infatti qui la Corte riqualifica il reato) il governo Berlusconi. La minaccia non si è concretizzata, d’altronde furono catturati gli ultimi corleonesi stragisti (i fratelli Graviano) e la stagione delle bombe si concluse. Fin qui è ciò che si può trarre dal dispositivo.

La trattativa teorizzata dall’accusa non ha avuto luogo. La trattativa Stato-mafia, quella teorizzata dalla pubblica accusa, non ha avuto luogo. Quella dei Ros fu un “colloquio investigativo”. Sintetizziamo i fatti del teorema giudiziario narrato. Particolare rilievo rivestirebbero le circostanze che hanno portato alla cattura di Riina (15 gennaio 1993) e la presunta trattativa che l’avrebbe resa possibile e che, con la intermediazione di Vito Ciancimino, sarebbe intervenuta fra l’allora colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, da una parte, e Bernardo Provenzano, dall’altra. Tale trattativa, di cui sarebbero stati mandanti e garanti esponenti politici e delle Istituzioni, sarebbe sfociata nell’accordo che, in cambio della collaborazione alla cattura di Riina e alla cessazione delle stragi mafiose, avrebbe assicurato a Provenzano una sorta di immunità. In seguito, la trattativa sarebbe proseguita e avrebbe indotto, nel corso del 1993, anche alcuni cedimenti sul piano del rigore penitenziario fino a proseguire nel ’94.

La vicenda Provenzano è stata chiarita dal processo Mori Obinu. La vicenda Provenzano è chiarita dal processo Mori Obinu: non c’è stata alcuna mancata cattura, nessun patto sporco. Il cedimento dello Stato del rigore penitenziario non c’è mai stato, casomai rafforzato. Il contatto Ros–Ciancimino c’è stato e non costituisce reato. Del resto – come aveva spiegato molto bene la sentenza Mori Obinu –, «stante quella drammatica situazione della primavera/estate del 1992, che necessariamente si caratterizzava proprio per la menzionata strategia stragista intrapresa da Cosa Nostra, è evidente che qualunque approccio investigativo che avesse avuto di mira i vertici della organizzazione mafiosa non poteva che essere particolarmente pungolato dalla impellente necessità di mettere fine alle stragi». Ecco, questo è il fatto che avvenuto, ma non punito dalla Corte attuale; i Ros non hanno veicolato alcuna minaccia al governo. In poche parole: il teorema trattativa Stato-mafia è pura castroneria.

La Trattativa “non costituisce reato”: assolti De Donno e Mori. Condannati per minacce solo i boss mafiosi. Marcello Dell’Utri assolto per non aver commesso il fatto. Dopo tre giorni di camera di consiglio nell'aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo, la corte d'Assise d'Appello ha emesso la sentenza del processo di secondo grado che stravolge le condanne del primo: l'ex senatore di Forza Italia non ha commesso il fatto. Assolti perché il fatto non costituisce reato i tre ex alti ufficiali del Ros. Confermata la condanna a 12 per il medico di Riina, mentre al cognato reato scontato di un anno perché la minaccia al primo governo Berlusconi è stato riqualificata in tentata minaccia. Giuseppe Pipitone su Il Fatto Quotidiano il 23 settembre 2021. Una trattativa tra uomini dello Stato ed esponenti di Cosa nostra? C’è stata, solo che non costituisce reato. Almeno per quanto riguarda le condotte contestate agli esponenti delle Istituzioni. È questa la decisione che chiude il processo d’Appello sulle interlocuzioni tra pezzi delle istituzioni e la mafia nel biennio delle stragi. A emettere la sentenza, dopo più di tre giorni di camera di consiglio, la corte d’Assise d’Appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, con a latere il giudice Vittorio Anania. Il dispositivo letto all’interno dell’aula bunker del carcere Pagliarelli riforma largamente le decisioni del processo di primo grado. Assolti politici e carabinieri – Alla fine del secondo grado i giudici hanno deciso di assolvere i vertici del Ros dei carabinieri, Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno dall’accusa di violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato perché il fatto non costituisce reato. Diversa la formula usata per assolvere l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri: secondo la corte lo storico braccio destro di Silvio Berlusconi il reato non lo ha proprio commesso. Alla fine a essere condannati sono solo i mafiosi: il reato contestato a Leoluca Bagarella è stato derubricato in tentata minaccia nei confronti del primo governo Berlusconi: la pena, dunque, è stata abbassata a 27 anni con un anno di sconto rispetto al primo grado. Confermati, invece, i dodici anni di carcere inflitti ad Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina. Presenti all’interno dell’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo i rappresentati della pubblica accusa, i sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, che avevano chiesto la conferma delle condanne di tre anni e mezzo fa. A parte Cinà, collegato in videoconferenza dal carcere di Sassari, invece, nessuno tra gli imputati è comparso al bunker. Le condanne di primo grado – Il 20 aprile del 2018 i giudici del processo di primo grado avevano condannato a dodici anni di carcere Mori e Subranni. Stessa pena per Dell’Utri e Cinà, che secondo l’accusa è il “postino” al papello, le richieste di Riina per fare cessare le stragi. Otto gli anni di detenzione che erano stati inflitti all’ex capitano dei carabinieri De Donno, ventotto quelli per il boss Bagarella, cognato del capo dei capi. Erano state prescritte le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci, mentre era stato assolto Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza: per l’ex ministro della Dc la procura non aveva fatto ricorso, quindi la sentenza è poi diventata definitiva. Sono state invece dichiarate prescritte nel luglio del 2020, dunque durante il processo d’Appello, le accuse a Massimo Ciancimino, uno dei testimoni fondamentali del processo, che in primo grado era stato condannato a 8 anni per calunnia a Gianni De Gennaro. Non sono arrivati alla sentenza di primo grado, invece, i due imputati principali: Totò Riina e Bernardo Provenzano, i vertici di Cosa nostra deceduti in carcere tra il 2016 e il 2017.

La trattativa? Ci fu, ma non è reato – Ora arrivano le decisioni dell’Appello che sono completamente diverse. Certo bisognerà aspettare di leggere le motivazioni – saranno depositate tra 90 giorni – ma di sicuro c’è che la sentenza di oggi stravolge gran parte della ricostruzione operata dai giudici di primo grado. Assolvere i carabinieri con la formula “perchè il fatto non costituisce reato“, vuol dire che il fatto c’è, è stato commesso ma evidentemente senza dolo, neanche eventuale. E il fatto, in questo caso, è l’accusa di aver trasmesso al governo in carica tra il 1992 e 1993 – quelli di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi – la minaccia stragista dei mafiosi. Per la corte Mori, Subranni e De Donno aprirono effettivamente un canale di comunicazione con Cosa nostra ma senza alcuna intenzione di commettere un reato. Ecco perché per Cinà è stata confermata la condanna di primo grado: il medico di Riina, infatti, è accusato di aver fatto da postino al papello, cioè il foglio di carta con le richieste avanzate dal capo dei capi per far cessare le stragi. Quel pezzo di carta era destinato ai carabinieri. Visto che Cinà è stato condannato, vuol dire che per i giudici il papello è effettivamente passato di mano: ma se il medico di Riina aveva effettivamente intenzione di veicolare la minaccia delle stragi nei confronti dello Stato, evidentemente per i giudici così non è stato per i militari. E’ probabile che su questa decisione abbia influito l’assoluzione definitiva di Calogero Mannino: secondo l’originaria tesi dell’accusa l’ex ministro della Dc è l’uomo che chiede ai carabinieri di aprire la trattativa, perché intimorito dalle minacce ricevute proprio da Cosa nostra. Mannino, però, ha scelto di farsi processare con l’abbreviato ed è stato assolto in via definitiva: per i giudici non chiese di trattare con Cosa nostra ma continuò addirittura a combatterla. Quando invece all’operato dei carabinieri con Ciancimino, per il giudici del rito abbreviato si trattava solo di una “operazione info-investigativa di polizia giudiziaria”. Una tesi che l’assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, adottata dalla corte d’Assise d’Appello, potrebbe avvalorare: servirà aspettare il deposito delle motivazioni per capirlo.

L’assoluzione piena di Dell’Utri – Diversa, invece, la situazione di Marcello Dell’Utri. Se il segmento della trattativa che riguardava i carabinieri poteva essere collegato all’assoluzione di Mannino, quello del fondatore di Forza Italia era completamente sganciato dai destini di Mori, De Donno e Subranni. Secondo la sentenza di primo grado, l’ex senatore è l’uomo che trasmette la minaccia mafiosa di Cosa nostra al primo governo Berlusconi. Una contestazione che invece per la corte d’Assise d’Appello Dell’Utri non ha commesso. Dunque per i giudici del processo di secondo grado l’ex senatore non era la “cinghia di trasmissione” dei desiderata dei boss nei confronti del primo esecutivo di Forza Italia. Si potrebbe spiegare in questo modo la riqualificazione di una parte delle contestazioni avanzate nei confronti di Bagarella. Anche secondo la corte d’Assise d’Appello il cognato di Riina è colpevole di minaccia ai governi in carica nel 1992 e 1993. Cambia tutto l’anno successivo, quando a Palazzo Chigi entra Berlusconi: in quel caso i giudici hanno modificato il reato di minaccia ad un Corpo politico dello Stato in una tentata minaccia. Vuol dire che per i giudici non c’è la prova che il messagio intimidatorio sia arrivato a Palazzo Chigi, o comunque che il governo in carica l’abbia recepito, reagendo di conseguenza. Ne deriva che questa parte del reato contestato a Bagarella si è già prescritta, per questo motivo la condanna del boss mafioso è stata abbassata di un anno.

Le reazioni dei legali (e pure della politica) – Chiaramente opposte le reazioni delle parti presenti in aula.” Aspettiamo le motivazioni e leggeremo il dispositivo”, si limita a dire il sostituto procuratore generale Fici. E’ un’assoluzione di cui io e il collega che difende Giuseppe De Donno siamo stati sempre convinti. Finalmente la verità è venuta fuori a costo di sacrificio e di grande lavoro”, esulta l’avvocato Basilio Milio, storico legale dell’ex generale dei Ros. “Dopo anni di processo una sentenza ha ricostituito la correttezza del quadro probatorio arrivando a una soluzione che riteniamo condivisibile”, dichiara Francesco Centonze, che difende Dell’Utri. Commenti arrivano persino dalla politica con Matteo Salvini che decide di accodarsi all’esultanza degli imputati: “Felice per l’assoluzione di chi ha servito lo Stato ed è stato ingiustamente accusato per anni. Ennesima prova del fatto che una vera e profonda Riforma della Giustizia, tramite i Referendum promossi dalla Lega, è necessaria”. I deputati del M5s in commissione Giustizia, invece, hanno diffuso una nota per sottolineare che “da un passaggio del dispositivo della sentenza si evince che le assoluzioni di De Donno, Mori e Subranni sarebbero ricondotte alla consueta formula ‘perché il fatto non costituisce reato’. Quindi tutto lascia intendere che i fatti siano confermati e questo per noi fa sì che a livello politico e istituzionale rimangano intatte tutte le responsabilità emerse”. Molto amareggiato il commento di Salvatore Borsellino, che definisce la sentenza come “l’ipotesi peggiore che potessi immaginare perché sull’altare di quella trattativa è stata sacrificata la vita di Paolo Borsellino. Questo significa che mio fratello è morto per niente”.

Per la Trattativa condannati solo i mafiosi, assolti Dell’Utri e i carabinieri: ecco perché (in attesa delle motivazioni dell’Appello).  Come mai i giudici del processo di secondo grado sono arrivati a decisioni così nettamente diverse da quelle del primo? Per ogni valutazione, ovviamente, occorrerà aspettare di leggere le motivazioni. Dal dispositivo della sentenza, però, emergono già tre fatti che aiutano a comprendere quale percorso ha fatto la corte per arrivare a cancellare gran parte delle condanne. Giuseppe Pipitone su Il Fatto Quotidiano il 24 settembre 2021. La Trattativa “non costituisce reato”: assolti De Donno e Mori. Condannati per minacce solo i boss mafiosi. Marcello Dell’Utri assolto per non aver commesso il fatto. Alla fine è rimasta una trattativa mafia-mafia. È con una battuta che un investigatore commenta la sentenza del processo di secondo grado, uscendo dal bunker del carcere Pagliarelli di Palermo. Sono circa le 17 e 30 quando il presidente della corte d’Assise d’Appello, Angelo Pellino, seguito dal giudice a latere, Vittorio Anania, e dai sei popolari, compare nell’aula del penitenziario siciliano. Poco più di due minuti e mezzo per leggere il dispositivo della sentenza che nei fatti cancella gran parte delle condanne del primo grado. Gli ex alti ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno assolti dall’accusa di violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato perché il fatto non costituisce reato. L’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri assolto per non aver commesso il fatto. Confermata parzialmente la condanna per il boss Leoluca Bagarella, che grazie a una riqualificazione ottiene uo piccolo sconto di dodici mesi sulla pena, abbassata a 27 anni. L’unica condanna confermata in toto, 12 anni di carcere, è quella per Antonino Cinà, medico di Totò Riina. Una decisione quest’ultima che, come vedremo, aiuta a intuire quale possa essere il senso delle decisioni dei giudici.

I tre elementi del dispositivo (in attesa delle motivazioni) – Per la corte d’Assise di Palermo, dunque, i colpevoli del processo sulla cosiddetta Trattativa tra esponenti dello Stato e boss mafiosi sono solo questi ultimi. O meglio quelli rimasti in vita: i vertici di Cosa nostra, Totò Riina e Bernardo Provenzano, sono morti durante il processo di primo grado, mentre per Giovanni Brusca è stata confermata la prescrizione del reato. Unici condannati, dunque, sono Bagarella e Cinà mentre incassano l’assoluzione – seppur con formule diverse – i carabinieri e l’unico politico rimasto a processo, cioè Dell’Utri. In primo grado avevano preso condanne pesanti: 12 anni all’ex senatore di Forza Italia, a Mori e a Subranni, otto per De Donno. Come mai dunque i giudici del processo di secondo grado sono arrivati a decisioni così nettamente diverse da quelle del primo? Per ogni valutazione, ovviamente, occorrerà aspettare di leggere le motivazioni, che saranno depositate tra tre mesi. Dal dispositivo della sentenza, però, emergono già tre fatti che aiutano a comprendere quale ricostruzione ha fatto la corte per arrivare a cancellare le condanne emesse il 20 aprile del 2018.

“Il fatto non costituisce reato”: dunque è stato commesso – La prima cosa da tenere a mente è che gli imputati erano accusati del reato disciplinato dall’articolo 338 del codice di penale: violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Per la pubblica accusa, dunque, erano tutti colpevoli di aver trasmesso ai governi in carica tra il 1992 e il 1994 le minacce provenienti dai vertici Cosa nostra: altre bombe e altre stragi se lo Stato non avesse messo un freno alla lotta alla mafia. E quindi, secondo la sentenza di primo grado, i mafiosi Bagarella e Cinà e i carabinieri Mori, De Donno e Subranni recapitarono il ricatto mafioso ai governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi; il medesimo Bagarella e Dell’Utri invece trasmisero le richieste al primo esecutivo di Silvio Berlusconi. Scegliendo due formule diverse di assoluzione, dunque, la corte d’Assise d’Appello considera diversi i due segmenti del processo. Assolvere i carabinieri “perchè il fatto non costituisce reato“, vuol dire che il fatto c’è, è stato commesso ma evidentemente senza dolo, neanche eventuale: non c’era insomma né volontà e neanche consapevolezza di potere infrangere la legge. Per la corte Mori, Subranni e De Donno aprirono effettivamente un canale di comunicazione con Cosa nostra ma l’obiettivo non era agevolare la mafia o far piegare le istituzioni al volere dei boss.

Il giudicato su Mannino e le parole di Firenze – È possibile che su questa scelta abbia influito la sentenza su Calogero Mannino: secondo l’originaria tesi dell’accusa l’ex ministro della Dc è l’uomo che chiede ai carabinieri di aprire la trattativa, perché intimorito dalle minacce ricevute proprio da Cosa nostra. Mannino, però, ha scelto di farsi processare con l’abbreviato ed è stato assolto in via definitiva: per i giudici non chiese di trattare con Cosa nostra ma continuò addirittura a combatterla. Quando invece all’operato dei carabinieri, per i giudici del rito abbreviato si trattava solo di una “operazione info-investigativa di polizia giudiziaria”. Una tesi che l’assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, adottata dalla corte d’Assise d’Appello, potrebbe avvalorare. Bisognerà aspettare le motivazioni per capirlo. Un’altra ipotesi può essere legata al fatto che essendo i carabinieri esponenti dello Stato non potevano trasmettere una minaccia allo stesso corpo istituzionale di cui fanno parte: in pratica – sembra essere il ragionamento dei giudici – se comunicarono le richieste di Riina alla politica fu solo per cercare di mettere un freno alla violenza di Cosa nostra, non per limitare l’azione dello Stato nella repressione dei boss. D’altra parte i primi a parlare di trattativa furono proprio Mori e De Donno al processo di Firenze sulle stragi del 1993: riferendosi ai mafiosi, il generale spiega di essersi chiesto “non si può parlare con questa gente?”. È a quel punto De Donno aggancia Vito Ciancimino: ecco un altro motivo che potrebbe spiegare perché i giudici della corte d’Assise d’Appello li hanno assolti con la formula del fatto che non costituisce reato, dichiarando però implicitamente che il medesimo fatto è stato commesso.

Cosa vuol dire la condanna di Cinà – D’altra parte che le condotte dei militari ci siano state, seppur senza alcun tipo di dolo, lo dimostra la conferma della condanna di Cinà. Il medico di Riina è accusato di aver fatto da postino al papello, cioè il foglio di carta con le richieste avanzate dal capo dei capi per far cessare le stragi. Quel pezzo di carta era destinato a Massimo Ciancimino, che lo avrebbe passato al padre Vito e da quest’ultimo sarebbe poi stato consegnato ai carabinieri. Quella di Cinà è l’unica condanna confermata integralmente dalla corte d’Assise d’Appello: vuol dire che in questo caso per i giudici il reato di violenza o minaccia a un corpo dello Stato si è consumato in modo totale. Cosa che evidentemente non hanno ravvisato per i carabinieri.

Il caso Bagarella e la minaccia solo tentata a B. – Ancora diverso è il caso di Bagarella, per il quale la condanna relativa ai fatti del 1992 e 1993 è stata confermata. Nel 1994, invece, secondo la corte il ricatto al governo Berlusconi non si è consumato: ecco perché ha modificato il reato di minaccia ad un Corpo politico dello Stato in una tentata minaccia. Ne deriva che questa parte del reato contestato a Bagarella si è già prescritta, per questo motivo la condanna del boss mafioso è stata abbassata di un anno. Vuol dire che per i giudici non c’è la prova che il messaggio intimidatorio sia arrivato a Palazzo Chigi, o comunque che il governo in carica l’abbia recepito, reagendo di conseguenza. Qui sarà molto interessante leggere in che modo la corte motiverà questa decisione. Nelle 5252 pagine che la corte d’Assise aveva utilizzato per spiegare i motivi delle condanne di primo grado si considerava provata che la reazione del primo governo Berlusconi alle minacce mafiose si era concretizzata con l’inserimento di una norma nel decreto Biondi, meglio noto come “salvaladri”. Era una modifica minima e molto tecnica, di cui all’epoca non si accorsero né i giornali e neanche i ministri competenti, che aveva come obiettivo quello di alleggerire la custodia cautelare per i mafiosi. Nello stesso decreto c’era un’altra modifica che obbligava i pm a svelare le indagini per mafia dopo tre mesi, di fatto vanificandole. Di queste modifiche, sempre secondo la sentenza di primo grado, Dell’Utri informò in “anteprima” Vittorio Mangano, che la riferì a sua volta ad altri mafiosi.

L’assoluzione di Dell’Utri – Evidentemente a questa ricostruzione la corte d’Assise di Appello non crede, visto che ha assolto lo stesso Dell’Utri per non aver commesso il fatto. Quindi l’ex senatore, già condannato in via definitiva per concorso esterno fino al 1992, considerato fino a quella data trait d’union tra Berlusconi e Cosa nostra, due anni dopo non ha più rivestito il ruolo di uomo cerniera tra Berlusconi e i boss. E dunque per i giudici non è Dell’Utri che ha recapitato il messaggio estorsivo dei mafiosi all’uomo di Arcore. O in ogni caso non c’è la prova che l’ex senatore avesse comunicato a Berlusconi il contenuto degli incontri con Mangano, inviato proprio da Bagarella (e da Brusca) nella villa di Como per “consegnare” la minaccia mafiosa. Una ricostruzione, quella della corte d’Assise d’Appello, che potrebbe pure collegarsi al fatto che Dell’Utri è stato assolto in via definitiva dall’accusa di concorso esterno per i fatti successivi al 1992. All’epoca l’ex senatore commentò quella condanna solo per gli anni precedenti con una provocazione: “I giudici mi fanno passare per mafioso fino al ’92, ma cadono in contraddizione: se fosse vero, la mafia non mi avrebbe mollato proprio nel ’92, quando poteva sperare nei veri vantaggi del potere, della politica”.

Rita Dalla Chiesa a La Confessione (Nove) di Peter Gomez: “L’omicidio di mio padre? Politico. Andreotti gli disse: chi si mette contro la Dc in Sicilia torna con i piedi davanti”. Il Fatto Quotidiano il 24 settembre 2021. Rita Dalla Chiesa a La Confessione (Nove) di Peter Gomez: “Berlusconi coinvolto in stragi di mafia? Non ci ho mai voluto credere, mi farebbe troppo male”.  “Nei diari di mio padre c’era scritto di un colloquio tra lui e Andreotti, in cui gli diceva. “Attenzione, perché chi si mette contro la mia corrente politica in Sicilia, poi torna con i piedi dalla porta”. Così Rita Dalla Chiesa, ospite de La Confessione, il programma condotto da Peter Gomez, in onda il 24 settembre alle 22.45 su Nove, ha raccontato del clima in cui maturò l’omicidio, di matrice mafiosa, del padre, il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa morto il 3 settembre 1982 nella strage di via Carini in cui morirono anche la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. “Al funerale era pieno di politici, ma non c’era Giulio Andreotti”, ha confermato l’ex conduttrice di Forum. “Oggi c’è un collaboratore di giustizia, l’abbiamo saputo tre anni fa, il quale dice che il mandante dell’omicidio di suo padre è stato, sarebbe stato, un politico, oggi scomparso, molto vicino ad Andreotti. Lei che ne pensa?”, ha chiesto il direttore de Ilfattoquotidiano.it. “Che è vero”, ha risposto lapidaria la figlia del Generale. “Lei, già da subito, si è convinta che la decisione di quell’omicidio fosse una decisione politica”, ha insistito il conduttore. “Sì, ho maturato questa convinzione perché ho visto la solitudine nella quale avevano lasciato mio padre – ha detto Rita – Perché nei diari di mio padre, che poi Falcone mi fece leggere, ne parlai anche con Chinnici (Rocco Chinnici, ndr), c’era scritto di un colloquio che mio padre aveva avuto con Andreotti. E Andreotti gli aveva detto: “Attenzione perché chi si mette contro la mia corrente politica in Sicilia (quella della Democrazia cristiana, ndr), poi torna con i piedi dalla porta, ecco, questo era il significato”, ha concluso il noto volto televisivo.

Trattativa Stato-mafia, Antonio Padellaro non se ne fa una ragione: "Sentenza sconcertante. Sono basito". Libero Quotidiano il 24 settembre 2021. Si parla della sentenza sulla trattativa Stato-mafia in studio da Tiziana Panella a Tagadà, su La7, nella puntata del 24 settembre e Antonio Padellaro è sconvolto: "Una sentenza sconcertante. La frase di rito è sempre la stessa: aspettiamo le motivazioni. Beh, spero che queste siano soddisfacenti", dice l'editorialista de Il Fatto quotidiano che non riesce a capacitarsi di come possa essere stato assolto Marcello Dell'Utri nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.  Secondo Padellaro i giudici hanno fatto qualcosa "di poco comprensibile". "Così come viene presentata è una sentenza che lascia basiti", tuona, "si condannano solo i mafiosi e non chi ha trattato...". Di più. Scandaloso per il giornalista è il fatto che parliamo "di sentenze che si riferiscono a fatti di 30 anni fa. I giudici hanno sicuramente agito in modo più onesto e oggettivo, ma il sospetto che lo 'spirito del tempo' abbia avuto la sua influenza resta. Forse è cambiato qualcosa nel clima del Paese, certe storie è meglio accantonarle. Scurdammoce o passato...". "Sarà avvincente, fra tre mesi, leggere le motivazioni della Corte d'assise d'appello di Palermo. Ma lo sarebbe ancor più poter assistere alla loro stesura, cioè vedere i giudici che mettono nero su bianco questa trattativa asimmetrica con la Legge del Dipende - ha scritto oggi Marco Travaglio nel suo editoriale sul Fatto - è reato solo per i mafiosi da un lato del tavolo e non per i carabinieri e i politici dall'altro: più che una trattativa, una commedia (anzi una tragedia) degli equivoci". 

La Legge del Dipende. Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano il 24 settembre 2021. Per la serie “La sai l’ultima?”, la sentenza d’appello sulla trattativa Stato-mafia conferma integralmente i fatti, ma condanna solo la mafia e assolve lo Stato. E così afferma un principio che sarebbe perfetto per l’avanspettacolo, un po’ meno per il diritto penale: trattare con lo Stato è reato, trattare con la mafia non è reato. Sarà avvincente, fra tre mesi, leggere le motivazioni della Corte d’assise d’appello di Palermo. Ma lo sarebbe ancor più poter assistere alla loro stesura, cioè vedere i giudici che mettono nero su bianco questa trattativa asimmetrica con la Legge del Dipende: è reato solo per i mafiosi da un lato del tavolo e non per i carabinieri e i politici dall’altro: più che una trattativa, una commedia (anzi una tragedia) degli equivoci. Ricapitoliamo. Il boss Bagarella – a cui a questo punto va tutta la nostra solidarietà – si becca 27 anni di galera per aver minacciato a suon di bombe (insieme a Riina e Provenzano, prematuramente scomparsi) i governi Amato e Ciampi nel 1992-’93 e per aver tentato di minacciare pure il governo Berlusconi nel ’94. Il medico mafioso Cinà – a cui a questo punto va la nostra solidarietà – si becca 12 anni per il suo ruolo di tramite e postino dei pizzini e dei papelli che si scambiavano Vito Ciancimino, imbeccato dai carabinieri del Ros Subranni, Mori e De Donno, e il duo Riina-Provenzano. Ma i carabinieri del Ros Subranni, Mori e De Donno, che dopo l’assassinio di Salvo Lima (marzo ’92) e soprattutto dopo Capaci (maggio ’92) commissionarono al mafioso Ciancimino la trattativa con Cosa Nostra per salvare la pelle a politici collusi che rischiavano la pelle per non aver mantenuto gli impegni sull’insabbiamento del maxiprocesso, vengono assolti perché “il fatto non costituisce reato”. Quindi il fatto – cioè non tanto la trattativa, quanto la sottostante “minaccia a corpo politico dello Stato” attivata a suon di stragi da Cosa Nostra e veicolata ai governi Amato e Ciampi dal trio del Ros – sussiste eccome: però, quando trasmettevano le minacce mafiose per mettere in ginocchio i governi con l’unico effetto di rafforzare Cosa Nostra e di scatenare altre stragi, a partire da quella di via D’Amelio, i tre ufficiali dei carabinieri non commettevano reato. Perché? Lo scopriremo dalle motivazioni. Probabilmente mancava il “dolo”, l’intenzionalità. Lo facevano a loro insaputa? Pensavano di agire a fin di bene? Erano sovrappensiero? Non capivano niente? Sia come sia, la lotta alla mafia era in buone mani. Parliamo dello stesso Ros che nel ’92 non perquisì il covo di Riina, lasciandolo setacciare ai mafiosi favorendo Cosa Nostra, ma furono assolti perché mancava il dolo. Nel ’93 non arrestarono Nitto Santapaola a Terme di Vigliatore (Messina). E nel ’95 non catturarono Provenzano, che il pentito Ilardo gli aveva consegnato in un casolare di Mezzojuso, favorendo Cosa Nostra, ma furono assolti perché mancava il dolo. Dei fulmini di guerra. Nel ’94 lo scenario cambia: Cosa Nostra sospende l’ultima strage, quella fallita il 23 gennaio allo stadio Olimpico di Roma, e tre giorni dopo B. annuncia la sua discesa in campo. Poi vince le elezioni grazie anche ai voti di mafia e ’ndrangheta. Bagarella e Brusca (colpevole anche lui, ma prescritto) mandano Vittorio Mangano a trovare il suo vecchio capo Marcello Dell’Utri nella sua villa di Como per ricordargli ciò che deve fare il governo dell’amico Silvio. Che infatti il 13 luglio infila tre norme pro mafia nel decreto Biondi. Anche questo episodio sembra confermato dal dispositivo della sentenza: infatti Bagarella e Brusca sono ritenuti colpevoli anche di quella minaccia al governo B.. Una minaccia, però, non più consumata (altrimenti verrebbe ricondannato anche Dell’Utri), ma soltanto “tentata”. Così anche Dell’Utri può essere assolto “per non aver commesso il fatto”: cioè per non aver trasmesso a B. la minaccia di Bagarella&C. portata da Mangano. Evidentemente la Corte non ritiene sufficienti le prove che B. fosse stato avvertito dal suo compare. Si sa che Marcello a Silvio nasconde sempre tutto. Mangano lo avvisa che, senza leggi pro mafia, le stragi ricominciano, e cosa fa? Si tiene tutto per sé e non dice niente al suo capo e amico, mettendone a rischio la pelle. Fortuna che Silvio, ignaro di tutto, si precipita ugualmente a varare tre norme pro mafia. Si pensava che fosse sotto minaccia e agisse per paura. Ora invece scopriamo che lo fece per piacer suo: una passione personale, un afflato spontaneo, una sintonia istintiva con Cosa Nostra. Un viatico in più per il Quirinale. In attesa di leggere le motivazioni, torna alla mente lo sfogo di Riina con un agente della penitenziaria nel 2013: “Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me”. Per una volta nella vita, diceva la verità: fu lo Stato, tramite il Ros, ad avviare la trattativa. E anche questa sentenza lo conferma. Tutti i negazionisti vengono sbugiardati: le parole di Massimo Ciancimino, Brusca e decine di pentiti sono confermate. I veri bugiardi sono le centinaia di uomini dello Stato che prima hanno taciuto e poi negato tutto: a saperlo prima che la trattativa Stato-mafia è reato solo per la mafia, avrebbero confessato anche loro con un bell’“embè?”. Bastava aver letto Sciascia: “Lo Stato non può processare se stesso”. E, quando gli scappa di processarsi, presto o tardi si assolve.

La trattativa Stato-Mafia non esiste, assolto Dell'Utri e i carabinieri: la sconfitta di Marco Travaglio, anni di balle e fango. Libero Quotidiano il 24 settembre 2021. Alessandro Sallusti smonta Marco Travaglio sulla trattativa Stato-mafia. Ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo, su La7, nella puntata del 24 settembre, il direttore di Libero sottolinea che sono "tutte inchieste finite nel nulla e che hanno inquinato la democrazia". Il direttore del Fatto quotidiano prova a rispondere: "Puoi dire quello che vuoi, ma il fatto sussiste: hanno stabilito che i carabinieri lo potevano fare, i mafiosi no".  "La sentenza dice che il fatto c'è", insiste Travaglio. "La trattativa l'hanno iniziata i carabinieri, a capocchia". Ma Sallusti ribatte: "Sussiste che non è reato. Io non voglio insegnare a tre carabinieri il mestiere ma la sentenza dice che non hanno trattato". "Leggiti queste due pagine, non capisci nulla", lo insulta quindi Travaglio. "Bisogna saper perdere nella vita", lo zittisce Sallusti. La discussione è nata dopo che Marco Travaglio aveva detto: "Io sconfitto? Io non ero imputato, sono un giornalista che ha raccontato la trattativa". Il direttore del Fatto aveva aggiunto: "Questa sentenza non scrive mai che il fatto non sussiste, infatti sono stati condannati i mafiosi. Dell'Utri è stato assolto perché non c'è la prova che abbia trasmesso le minacce dei mafiosi a Berlusconi. Quindi non c'è una sola parola che devo correggere", aveva concluso. 

Travaglio: "Trattativa stato-mafia c'è stata, io non sconfitto". Adnkronos il 24 settembre 2021. "La sentenza dice che il fatto c’è, hanno trattato con la mafia. La sentenza dice che hanno trattato e non è reato". Marco Travaglio si esprime così a Otto e mezzo, in un confronto serrato con Alessandro Sallusti, dopo la sentenza del processo sulla trattativa stato-mafia. "Non c’è una sola parola, da me scritta in 10 anni sul processo trattativa stato mafia, che vada cambiata. Mi sento sconfitto? No, nel processo non ero imputato, parte civile, avvocato o magistrato. Sono un giornalista che ha raccontato la trattativa", dice Travaglio. "Sono andato a rileggermi quello che ho scritto: non c’è una parola che debba essere modificata su tutto quello che abbiamo scritto dopo la sentenza. Questa sentenza non scrive mai 'il fatto non sussiste', che significherebbe 'non è successo niente'. C’è scritto, a proposito dei carabinieri, 'il fatto non costituisce reato'. A proposito di Marcello Dell’Utri, c'è scritto ‘non ha commesso il fatto’. Che è stato commesso da qualcun altro. E infatti sono stati condannati i mafiosi", dice Travaglio. "Io -aggiunge- ho avuto 300 processi in sede penale e sono stato assolto in 299 casi. Dovrei dire che 299 processi non dovevano essere fatti? Certo che andavano fatti. I processi servono per vedere se i fatti sono avvenuti e se sono reato". 

Otto e mezzo, Alessandro Sallusti zittisce Travaglio: "Palamara un guru? Ma se tu credi a Spatuzza..." Libero Quotidiano il 24 settembre 2021. In studio a Otto e mezzo su La7 Alessandro Sallusti e Marco Travaglio "se le suonano" anche su Luca Palamara. "Il sistema che ha raccontato spiega che del giudicante non gliene frega niente a nessuno, perché il giudizio arriva anni dopo la necessità di qualcuno di deviare il corso delle cose", sottolinea il direttore di Libero dopo la sentenza che ha "smontato" il teorema della trattativa Stato-mafia cavalcato per anni dal Fatto quotidiano. "Il fatto non sussiste reato", spiegano i giudici, e Sallusti riflette proprio su quello che succede nei tribunali italiani. "Ma quindi certi processi non andrebbero proprio fatti", chiede Lilli Gruber. "Adesso Palamara è diventato il guru - interviene Travaglio -, dobbiamo pendere dalle labbra di uno che è stato radiato dalla magistratura per averne combinate di tutti i colori, un magistrato imputato per corruzione...". Ma Sallusti prende la palla al balzo e risponde a Travaglio usando le sue stesse armi: "Ma se tu credi a Spatuzza, uno che scioglie i bambini nell'acido...". "A me preoccupa molto il messaggio - prosegue imperterrito il direttore del Fatto -, questa è una sentenza preoccupante perché ci dice che lo Stato ha trattato con la mafia, uno, e secondo che non è reato quando lo fa lo Stato, ma è reato quando lo fa la mafia. Tipico di una giustizia anni 50, quando i signori non si toccavano mai...". Replica di Sallusti: "A me viene in mente che c'è un rapinatore in banca con degli ostaggi, e fuori ci sono i poliziotti. Ufficialmente aprono una trattativa, in realtà stanno prendendo per tempo e capire come fermare i ladri". 

Stato-mafia, Alessandro Sallusti: “Perché i magistrati hanno creduto ai mafiosi?” Libero Quotidiano il 24 settembre 2021. Non ci fu nessuna trattativa tra lo Stato e la mafia per mettere fine alla stagione stragista del 1993, semmai la mafia ha fatto credere il contrario per vendicarsi con lo Stato e con tre governi, compreso il primo Berlusconi, che non ne vollero sapere di allentare la morsa investigativa e giudiziaria sulle cosche. È questo il senso della clamorosa sentenza della Corte di Appello di Palermo di ieri (tutti assolti, compreso Marcello Dell'Utri) che mette fine a quasi dieci anni di veleni che i mafiosi hanno sparso a piene mani e che illustri magistrati hanno fatto loro.  Parliamo di procuratori importanti, da Antonio Ingroia (già finito in disgrazia di suo) a Nino Di Matteo, attuale membro del Consiglio superiore della magistratura. Ancora più in sintesi: non l'Arma dei carabinieri, non Silvio Berlusconi via Dell'Utri hanno mai avuto a che fare con la mafia. Ora c'è da chiedersi perché tra i mafiosi e uomini di Stato la magistratura aveva creduto ai primi e permesso di infangare i secondi. E perché illustri colleghi - capofila Marco Travaglio - anche di importanti quotidiani siano stati al gioco inquinando la democrazia oltre ogni limite. La vera storia di questa inchiesta e di questo processo non è quella raccontata dalle carte ed è ancora tutta da scrivere. È la storia di un braccio di ferro tra fazioni di magistrati che per ambizioni personali e orientamenti politici hanno scatenato una feroce guerra dentro gli apparati dello Stato, usando anche documenti da subito apparsi falsi (il famoso papello in cui Totò Riina poneva le sue condizioni per sospendere gli attentati), senza risparmiare neppure il Quirinale, regnante Napolitano intercettato al telefono con l'ex ministro Mancino, e provocando la morte per infarto del consigliere giuridico del Colle Loris D'Ambrosio. Una guerra sporca insomma, perché ieri è stato stabilito che «i fatti non sussistono» e «non costituiscono reato». Siamo quindi di fronte a una bufala, a un falso storico montato e usato per fini di potere dentro la magistratura e per fini politici da molti mezzi di informazione. Con un enorme danno alla credibilità del Paese, a una precisa parte politica (Forza Italia) e a tanti uomini - in primis Marcello Dell'Utri - le cui carriere e vite sono state massacrate senza alcuna ragione. Sarà banale e retorico dirlo ma lo diciamo: chi pagherà per questo scempio?

 Stato-mafia, Filippo Facci contro Marco Travaglio: "Oggi Indro Montanelli lo prenderebbe a schiaffi". Filippo Facci su Libero Quotidiano il 24 settembre 2021. «Sentenza storica» è un’espressione che ci sta tutta, perché si è dissolta una coltre spaventosa di fandonie successive al 1992, quando, dapprima legittimamente, Mani pulite indagò sulla corruzione mentre «Mafia e appalti» di Falcone e Borsellino indagò sui rapporti tra mafia e imprenditori e politici, indagini che poi sono diventate tutt' altra cosa: un depistaggio durato trent' anni. Prese il via una tetra narrazione che coincise con la criminalizzazione dei partiti (distrutti in buona parte) e a Palermo criminalizzò pezzi dello Stato con la complicità vergognosa di alcuni media e l'indifferente connivenza anche dei media maggiori. Ora il depistaggio è finito e non c'è più un solo pezzo dello Stato che non sia uscito pulito da processi che non dovevano nascere, figli deformi di una storiografia giudiziaria malata, un vortice che ha risucchiato pezzi di Stato che avevano creato i Ros dei Carabinieri, e poliziotti geniali perseguitati dopo che avevano arrestato Totò Riina, e politici colpevoli solo di essere nati in Sicilia e di essere sopravvissuti. Sul selciato escrementizio, dopo la lettura del dispositivo, rimangono solo i corpi virtuali degli Antonio Ingroia, Antonino Di Matteo e altri magistrati assurti al ruolo comico di eroi del nulla (minacciati da nessuno) e paladini della più colossale bugia raccontata dal Dopoguerra, affiancati dalle salme mediatiche dei Marco Travaglio più altri scarabei stercorari che un Montanelli redivivo, da tempo, avrebbe preso a schiaffi.

EROI DEL NULLA - Il reato di «trattativa» non esiste, ma non è esistita neppure una trattativa, è proprio infelice come termine: i servi di procura già anticipano la linea. «Una trattativa tra Stato e mafia c'è stata, solo che non costituisce reato», dicono. Per sostenerlo sono ridotti a estrapolare pezzetti di sentenze di altri processi falliti - lo fanno da una vita - come quello per la strage di Firenze di via dei Gergofili, dove si cita banalmente «l'avvio poi interrotto di iniziali contatti emersi tra rappresentanti politici locali e delle istituzioni e vertici mafiosi»: anche se questi «contatti», ieri, sono stati derubricati a ordinaria attività investigativa con l'obiettivo di catturare Totò Riina, come già accertato dal processo che ha assolto l'ex ministro Calogero Mannino. Borsellino e Falcone si muovevano in ambienti dove le connivenze con la mafia (di certi giudici, per esempio) c'erano davvero, così come c'erano in alcuni partiti: eppure i malati mediatici, con libri e migliaia di articoli e persino un film, sono riusciti a inventare connivenze con Forza Italia quando Forza Italia, probabilmente, non era neppure nella mente del suo creatore. Per decenni hanno delegittimato la democrazia usando persino Falcone e Borsellino come scudi di un perverso teorema processuale, scassando l'anima al Paese e riuscendo a scomodare persino un capo dello Stato. Ora è finita davvero: quello della Cassazione sarà solo un controllo formale, e già lo sanno. Non sono riusciti a riscrivere la storia d'Italia. Non ce l'hanno fatta a farla puzzare come loro. La sentenza di primo grado non stava in piedi, e lo sapevano tutti: così, ora, sono cadute le accuse per gli ufficiali dei carabinieri Mori e Subranni e De Donno e anche quelle per Marcello Dell'Utri, mentre dei boss ci importa meno, anche se restano gli unici veri mafiosi di questi processi.

«PERSONE, NON ARCHETIPI» - Non ci fu reato. Non ci fu nessuna tiratissima violazione dell'articolo 338 e annessa minaccia al governo Berlusconi del 1994. Nessun uomo dello Stato veicolò le stragi di Cosa Nostra del 1992 e 1993. Marcello Dell'Utri non fece da ponte per messaggi mafiosi. I vertici dei carabinieri fecero solo un'operazione info-investigativa. Il giudice Angelo Pellino, col giudice a latere Vittorio Anania e sei componenti della giuria popolare, è giunto con coraggio a una sentenza che - aveva detto - non doveva essere «storica»: «Gli imputati non sono archetipi socio-criminologici, bensì persone in carne e ossa che saranno giudicate per ciò che hanno o non hanno fatto». Aveva detto così, ma la sentenza è diventata storica lo stesso: dimostrando, Pellino, anche una certa forza d'animo rispetto all'asfissiante pressione ambientale palermitana. Piacerebbe che ci fosse stato, in aula, anche il defunto avvocato Piero Milio, ex senatore radicale e padre di Basilio, il giovane legale del generale Mori che ne ha raccolto le redini. Piacerebbe che ci fosse stato anche Massimo Bordin, il giornalista della rassegna stampa di Radio Radicale che aveva seguito interamente questo processo (praticamente solo) a differenza dei colleghi che si attaccavano alle sottane dei pubblici ministeri. Ora riposano in pace.

Stato-Mafia, Filippo Facci smonta le teorie di Nino Di Matteo e delle toghe di Palermo: "Tutte le loro cantonate". Filippo Facci su Libero Quotidiano il 25 settembre 2021. La trattativa che non ci fu, o che non si dovrebbe chiamare trattativa, o che, se anche ci fu, fu benemerita: dizionario ultra-minimo per capirci qualcosa o, doverosamente, per continuare a non capirci niente. Cicerchia Luciana. Giudice della corte d'Assise d'appello di Firenze a cui, da anni, si appendono le argomentazioni di chi sostiene che la trattativa vi fu. Ecco il cristallino passaggio della sua sentenza: «Molto più complessa e non definitiva è la conclusione alla quale si può pervenire nei limiti del presente processo in ordine all'esatta individuazione dei termini e dello stato raggiunto dalla cosiddetta Trattativa, la cui esistenza, comprovata dall'avvio poi interrotto di iniziali contatti emersi tra rappresentanti politici locali e delle istituzioni e vertici mafiosi, è però logicamente postulata dalla stessa prosecuzione della strategia stragista». Conso Giovanni. Defunto giurista ed ex Guardasigilli che testimoniò che prese in solitudine la decisione di non rinnovare il 41bis (carcere duro) nel 1993, legge ai tempi incostituzionale, come confermarono altri testi come Violante, Martelli, Amato, Rognoni, Andò, Pomodoro, Contri, Ferraro, Gratteri, Savina e Principato. Al giudice di primo grado (del processo ribaltato l'altro ieri) non importò. 

Cronisti 1. Ce ne sono tre che non solo hanno professato la loro faziosità, ma sono stati testi d'accusa nel processo: Antonio Padellaro e Sandra Amurri (Fatto Quotidiano) e Saverio Lodato (ex Unità, ora Antimafia Duemila). I primi due ci avevano già provato nel processo a Calogero Mannino.

Cronisti 2. Tra i colpevolisti più sfacciati: i complottardi carpiati con avvitamento Lo Bianco Giuseppe & Rizza Sandra (Fatto Quotidiano), autori di infiniti libri sul tema; Bianconi Giovanni, grigio colpevolista del Corriere travestito (male) da equidistante; Palazzolo Salvo di Repubblica; La Licata Francesco della Stampa; Lodato Saverio di Antimafia Duemila», movimento il cui presidente, Giorgio Bongiovanni, ha sostenuto pubblicamente di avere le stimmate e di essere la reincarnazione di uno dei bambini veggenti di Fatima. De Caprio Sergio, detto Ultimo. Eroe. Ex capo dei Ros dei carabinieri noto per aver arrestato Totò Riina il 15 gennaio 1993 in coordinamento col generale Mori, grazie a quello che il tribunale di Palermo ha definito «l'intuito investigativo del cap. De Caprio». Fu accusato di favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra per la ritardata perquisizione del covo di Riina, che pure aveva catturato lui.

Dell'Utri Marcello. Ora assolto, in primo grado fu ritenuto una sorta di ambasciatore dell'ulteriore ricatto che dal 1994 avrebbe condizionato il primo governo Berlusconi. Nel dispositivo si diceva che per fermare le stragi del 1992-93 ben tre governi della Repubblica accettarono di venire a patti con Cosa nostra. Di Matteo Antonino (detto Nino). Continuatore dell'inchiesta sulla «trattativa» iniziata da Ingroia e, in precedenza, co-protagonista del fallimentare processo sulla strage di Via D'Amelio che uccise Paolo Borsellino e che fece finire in galera degli innocenti per ben 18 anni. Fontana Mario. Giudice del processo Mori-Obinu (mancata cattura di Bernardo Provenzano) la cui sentenza spiegò che non ci fu nessuna «trattativa» tra Stato e mafia. La sentenza costituiva un fantasma che tutti avvertivano ma che nessuno voleva vedere per come distrusse ogni tesi a riguardo. Diffamati da Marco Travaglio, Fontana e altri due giudici a latere ricavarono 150mila euro di risarcimento dal diffamatore. Ingroia Antonio. Primo propulsore del delirio trattativa, da pm, prima che lasciasse la magistratura per buttarsi in politica con esiti catastrofici. Nel 2018 gli hanno finalmente tolto l'inutile scorta.

Mannino Calogero. Ex parlamentare democristiano siciliano assolto con rito abbreviato dall'accusa di violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario (art. 338 c.p.) con la formula «per non aver commesso il fatto», L'accusa aveva chiesto nove anni. Nelle motivazioni della sentenza definitiva già si apprendeva che la «trattativa» dei Ros era solo «ordinaria attività investigativa» con l'obiettivo di catturare Totò Riina.

Nell'annullare una precedente il procuratore generale della Cassazione scrisse che «Nella sentenza di condanna di Mannino non c'è nulla, torna ossessivamente sugli stessi concetti ma non c'è nulla che si lasci apprezzare in termini rigorosi e tecnici, nulla che possa valere a sostanziare l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa sentenza costituisce un esempio negativo, da mostrare agli uditori giudiziari di come una sentenza non dovrebbe essere mai scritta». Montaldo Alfredo. È il giudice della condanna in primo grado, sul quale ledifese riponevano poche speranze non solo per il comportamento in istruttoria, ma per via del curriculum. È lo stesso il giudice, tra l'altro, che nel 1995 tenne Calogero Mannino in carcere per una vita, e che, dopo che Mannino aveva perso 40 chili tra le sbarre, disse che era stata una sua scelta dietetica perché si nutriva solo di verdure. La sua sentenza di primo grado portò a 12 anni di condanna per gli ex generali Mario Mori e Antonio Subranni, altri 12 per Marcello Dell'Utri, otto per l'ex colonnello Giuseppe De Donno. La sentenza assolse l'ex ministro Dc Nicola Mancino che gongolò stucchevolmente come se al centro del processo ci fosse stato solo lui. Molti giornalisti non mancarono di collegare scioccamente la sentenza al «mutato clima politico», cioè alla presenza grillina al governo. 

Mori Mario. Eroe. Uomo che di fatto ha condotto Riina a 25 anni di 41bis. Già processato e assolto lamancata cattura di Provenzano e la mancata perquisizione del covo di Riina. Ora per la «trattativa». Morosini Piergiorgio. Gip che subentrò a Michele Alaimo a margine del processo di primo grado (quello rivoltato l'altro giorno) e che fu colto come un pessimo segnale dalle difese: nel precedente 2011 Morosini aveva scritto un libro (Attentato alla giustizia) in cui si citavano ampiamente «i recenti sviluppi sulla "trattativa" tra Stato e mafia che sarebbe sullo sfondo delle stragi del 1992 e 1993». Durante il processo di primo grado non furono accolti una montagna di documenti della difesa e furono respinti testi anche del calibro di Ilda Boccassini, Giuseppe Ayala e Antonio Di Pietro. Travaglio Marco. Scarabeo stercorario (specie sacer) nell'antichità collegato a Khepri, il dio del sole nascente (specie Conte) che si supponeva creasse il Sole ogni giorno in modo analogo a quello con cui lo scarabeo crea la pallottola di sterco.

Processo trattativa, Renzi contro Travaglio: "Parole gravissime". Adnkronos il 24 settembre 2021. "Travaglio scrive che dà la solidarietà a Bagarella, ai mafiosi condannati". "La sentenza riguarda tre servitori dello Stato che sono stati accusati del peggiore dei crimini. È una cosa enorme quella che è accaduta. Leggete il Fatto Quotidiano di oggi, il direttore Travaglio scrive che dà la solidarietà a Bagarella, ai mafiosi condannati. Lo dico qui in una terra profondamente ferita dalla mafia: pensa di essere ironico, ma come si fa?". Così Matteo Renzi, presentando 'Controcorrente' a Catania, dopo la sentenza del processo sulla trattativa stato-mafia. "Abbiamo ricordato qualche giorno fa la memoria del giudice Livatino. La sua vita personale è un esempio come quelle di Falcone e Borsellino. Poi è arrivato Ingroia che pensava di essere Falcone. In questo contesto si è affrancata la narrazione di Travaglio 'è Stato la mafia', liberando così la mafia dalle sue evidenti colpe", dice il leader di Italia Viva. "Io credo nella giustizia che non la fa Travaglio con un editoriale, dobbiamo uscire dal populismo giudiziario scritto sui giornali e sui tweet: si aspettano le sentenze. Basta usare la giustizia come arma per distruggere un avversario politico così come ha fatto il Pd con Berlusconi. Uno che prende un avviso di garanzia non è già condannato, siamo in una Costituzione garantista e non giustizialista. È una barbarie la giustizia via social”.

Guido Crosetto, bomba sulla magistratura: "Lui era a capo del Pd...", le informazioni riservate in mano a Matteo Renzi. Libero Quotidiano il 24 settembre 2021. "Una parte della sinistra ha immaginato di trarre vantaggio dalle vicende giudiziarie di chi stava dall’altra parte". A dirlo non è Silvio Berlusconi ma Matteo Renzi. Un lungo discorso pronunciato in Aula davanti a tutti che ha scoperchiato il vaso di Pandora. Ma non sono tanto le parole che hanno stupito, quanto più chi le ha pronunciate. "Ieri un ex PdC, ex segretario del Pd, in Senato, ha fatto un discorso durissimo sulla magistratura - scriveva Guido Crosetto su Twitter -. L’uso improprio dei poteri affidati a chi dovrebbe custodire la giustizia è una ferita aperta da decenni, che la politica ha paura di affrontare. Sui quotidiani, oggi, zero. Paura?". Secondo il fondatore di Fratelli d'Italia l'ex premier ammette che "le persone cui noi abbiamo affidato il compito di amministrare la giustizia, e che dunque per questo motivo hanno poteri enormi e straordinari sulla vita delle altre persone, non l'hanno svolto in modo asettico e super-partes, ma hanno fatto parte del gioco e hanno cercato, con le loro azioni, di modificare gli scenari politici e di tenere sotto scacco la politica e le istituzioni repubblicane. Quindi una cosa gravissima", la definisce al Giornale. A maggior ragione se a dirlo è Renzi, il fu segretario del Pd, colui che "conosce benissimo il partito che più di tutti è stato avvantaggiato da questa magistratura". La speranza a questo punto non può che essere quella di un fronte garantista che si opponga a quello giustizialista, "perché ad oggi il fronte giustizialista teneva insieme il Pd, il MoVimento 5 Stelle ed anche parti della destra". E da quel momento "non c'è più stata un'istituzione nazionale, regionale o provinciale che sia più stata libera di agire e che abbia potuto fare il suo lavoro senza fare nulla di male, nulla di illegale, negli ultimi anni". 

Vendetta su Renzi dopo la denuncia sui magistrati. Massimo Malpica il 27 Settembre 2021 su Il Giornale. Appena parla dello strapotere dei pm rispunta l'indagine di Bankitalia sui fondi di Presta. Sarà sospetta l'operazione, ma pure la tempistica non scherza. Matteo Renzi appena mercoledì scorso, intervenendo in Senato sulla riforma Cartabia, aveva pronunciato «uno degli interventi più difficili» della sua vita politica, mettendo nel mirino lo strapotere della giustizia e il suo uso politico. Circa due mesi prima, a metà luglio, il senatore di Italia Viva aveva saputo di essere indagato, insieme al manager dei vip Lucio Presta, per finanziamento illecito e false fatturazioni, relativamente al compenso percepito per il documentario «Firenze secondo me» con bonifici che, per gli inquirenti, sarebbero appunto in realtà un finanziamento, illecito, alla politica. E ora, quattro giorni dopo quelle dichiarazioni nell'Aula di Palazzo Madama, ecco la relazione degli ispettori di Bankitalia che, rivela il Corriere della Sera, lo scorso 25 agosto hanno segnalato alle fiamme gialle come «operazioni sospette» alcune movimentazioni sui conti di Presta, che poco prima che si sapesse dell'indagine avrebbe trasferito le sue quote nella società Arcobaleno Tre (che ha prodotto il documentario di Renzi) a una commercialista, Laura Aguzzi, che avrebbe poi, a inizio luglio, movimentato un conto che risultava dormiente da quasi quattro anni, con gli 007 della Banca d'Italia che nella loro relazione, citata dal Corriere, non mancano di rimarcare esplicitamente «la coincidenza temporale con le notizie di stampa che vedono Presta indagato per finanziamento illecito e false fatturazioni per aver elargito a Matteo Renzi una somma rilevante per il tramite della società stessa». Insomma, se a luglio Renzi, respingendo al mittente le accuse di finanziamento illecito, aveva assicurato di non aver paura di «qualche velato avvertimento» comunicato «via stampa in un determinato giorno», ora può aggiungere un altro «memo», anche se indiretto e via Bankitalia, dalla tempistica quanto meno sospetta. Un avviso che piove nella stessa settimana in cui il leader di Iv si era tolto più di un sassolino dalle scarpe quanto al suo rapporto con la giustizia e sul «malfunzionamento» di quest'ultima, citando tra l'altro, in Aula, l'aver preso «due avvisi di garanzia» subito dopo aver detto «che c'era una procura che stava oltrepassando i limiti dell'azione giudiziaria». Massimo Malpica 

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 26 settembre 2021. Quando ha saputo di essere indagato per i soldi versati a Matteo Renzi, il manager Lucio Presta ha trasferito le quote della sua società «Arcobaleno Tre» a una commercialista che ha movimentato un conto «dormiente» dal 2017. Lo evidenzia l'Unità antiriciclaggio di Bankitalia in una segnalazione di operazione sospetta che è già stata trasmessa alla Guardia di Finanza. La relazione, datata 25 agosto 2021, mette in luce tutti i passaggi di soldi «anomali», ma soprattutto sottolinea la coincidenza con l'inchiesta della procura di Roma che contesta allo stesso Presta, al figlio Niccolò e al senatore di Italia Viva il reato di finanziamento illecito. Il sospetto è che i 700 mila euro versati a Renzi per la realizzazione del documentario Firenze secondo me non fossero giustificati dalla prestazione professionale ma servissero per elargire i soldi necessari ad acquistare la villa dove lo stesso Renzi ora vive con la famiglia. Accusa che il senatore ha sempre negato: «È tutto tracciato, non temo niente e nessuno». Il 31 luglio 2018 Renzi firma due scritture private con la «Arcobaleno Tre» per il documentario. La prima prevede un compenso da 125 mila euro lordi: 75 mila euro per l'attività di autore e altri 50 mila per la cessione di tutti i diritti di utilizzo delle opere prodotte. L'altra ha lo stesso importo: 75 mila per l'attività di conduttore e altri 50 mila per la cessione dei diritti d'immagine. Due mesi dopo arrivano altri due contratti, ognuno da 75mila euro lordi. Sono 400mila euro per un prodotto venduto a Discovery Network. C'è poi un accordo per la promozione dell'immagine del senatore in Italia e all'estero nei settori dello spettacolo, televisione, cinema e teatro. Dunque - dice l'accusa - dovrebbe essere Renzi a pagare i Presta per questa attività, invece nella scrittura privata c'è una clausola che fissa gli «obblighi dell'artista» e gli riconosce 100 mila euro. Altri 200 mila gli vengono elargiti per due programmi che però non sono mai stati realizzati. Scrivono gli ispettori di Bankitalia: «La società "Arcobaleno Tre", titolare di un conto corrente acceso nel 2016 e pressoché immobilizzato da fine 2017, ha fatto registrare un'improvvisa ripresa dell'operatività tramite il versamento di un cospicuo assegno tratto dalla medesima società. L'operazione è stata eseguita dalla commercialista Laura Aguzzi che l'ha motivata con l'intenzione di cambiare banca di riferimento senza fornire giustificativi. Non si può fare a meno di notare la coincidenza temporale con le notizie di stampa che vedono Presta indagato per finanziamento illecito e false fatturazioni per aver elargito a Matteo Renzi una somma rilevante per il tramite della società stessa». In particolare segnalano che «il 5 luglio 2021 è stato versato un assegno di 850 mila euro tratto dalla "Arcobaleno Tre" e appena una settimana dopo, il 12 luglio, parte della somma è stata trasferita alla banca di partenza tramite bonifico di 250 mila euro con causale "giroconto"». Nella segnalazione gli specialisti dell'Uif aggiungono: «Circa i rapporti tra il politico e l'impresario si richiama la segnalazione inoltrata da Intesa Sanpaolo ove si evidenziavano bonifici in arrivo sul conto intestato a Comitato Leopolda 9 e 10, disposti da "Arcobaleno Tre" presso il Monte dei Paschi di Siena. Poco prima della diffusione delle notizie di stampa relative all'inchiesta giudiziaria, la maggioranza delle quote di "Arcobaleno Tre" è passata a Laura Aguzzi e Marco Contessi con relativo ridimensionamento della percentuale in capo ai figli di Paola Perego e di Presta. Quest' ultimo era già formalmente uscito dalla compagine societaria l'anno prima, ma solo a luglio 2021 è stata comunicata alla banca la sua cessazione dal ruolo di titolare effettivo della società "Sdl 2055", sebbene tale ruolo gli derivasse dalla titolarità di "Arcobaleno Tre" che detiene il 30% delle quote di quest' ultima». Lucio e Niccolò Presta sono indagati anche per false fatturazioni. La «Arcobaleno Tre» è stata perquisita agli inizi di luglio, l'accusa è che «i reati ipotizzati siano stati realizzati mediante rapporti contrattuali fittizi, con l'emissione e l'annotazione di fatture relative a operazioni inesistenti, finalizzate anche alla realizzazione di risparmio fiscale, consistente nell'utilizzazione quali costi deducibili inerenti all'attività d'impresa, costi occulti del finanziamento della politica».

Quella italiana non è una storia criminale. Trattativa Stato Mafia, la sentenza condanna stampa e Pm. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 24 Settembre 2021. È finita. La Trattativa non c’è stata. Scarpinato e Travaglio hanno perso. Lo aveva detto nella prima seduta il presidente della corte d’assise d’appello Angelo Pellino: «Non faremo processi alla storia». Così è stato, e ci è voluto anche un bel po’ di coraggio, visto il clima giudiziario-politico e anche giornalistico. Assolti i vertici del Ros, assolto Dell’Utri. Ma ci sono voluti 30 anni per liberare Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni e il senatore Dell’Utri, oltre a Calogero Mannino e Nicola Mancino, già assolti precedentemente, dall’infamia di esser stati collusi con la mafia. Si, perché trent’anni sono passati da quel 1992 in cui tutto sarebbe cominciato secondo la squadra dei pm “antimafia”. Trent’anni in cui Silvio Berlusconi, che pure in questo processo avrebbe dovuto essere parte lesa, ma che sulla bocca dei procuratori veniva sempre trattato con sospetto, è stato il perseguitato politico numero uno, che ha trascinato con sé involontariamente anche Dell’Utri e che avrebbe dovuto, in caso di condanne in questo processo, essere il boccone ghiotto per i prossimi giorni. Ma da ieri è finita la rilettura della storia d’Italia come storia criminale e mafiosa della politica. Quella storiografia cui hanno lavorato, insieme a un pezzo significativo della magistratura, i principali quotidiani capeggiati da intere generazioni di cronisti giudiziari e inviati accovacciati sotto le toghe dei procuratori e il principale loro sostenitore, il direttore del Fatto quotidiano Marco Travaglio. Se ragionassimo con lo stesso metro di misura di Roberto Scarpinato, procuratore generale di Palermo, dovremmo dire che sono stati loro, i pubblici ministeri, a ordire un complotto contro lo Stato. Contro quel Mario Mori che fu il braccio destro di Falcone, contro Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, sospettati di collusione con la mafia sulla base di parole vendute da qualche “pentito” e cianfrusaglie uscite dalla bocca del testimone più farlocco della storia. Quel Massimo Ciancimino che è stato già condannato per calunnia, mentre il falso “papello” di Totò Riina finiva nel cestino di altri giudici. Contro Marcello Dell’Utri, che avrebbe trasmesso al governo Berlusconi del 1994 le minacce dei boss che chiedevano aiuto per i mafiosi in carcere in regime di 41 bis. La storia di quel periodo dice però che il governo di centrodestra il 41 bis lo aveva inasprito e addirittura trasformato da provvedimento emergenziale e provvisorio a definitivo. Berlusconi avrebbe favorito la mafia con il decreto Biondi (e qui verrebbe da ridere), un provvedimento sulla custodia cautelare che non riguardava affatto la mafia, e che fu ritirato dopo la sceneggiata televisiva degli uomini del pool Mani Pulite. E che Travaglio ha trasformato da “salvaladri” a “salvamafia”. Così, tanto per dare una mano al processo. La “storia criminale” dei magistrati storiografi comincia dopo la sentenza della cassazione nel maxiprocesso voluto da Giovanni Falcone con le condanne dei boss dei corleonesi e la conferma degli ergastoli. La reazione di Cosa Nostra non si era fatta attendere, con l’omicidio di Salvo Lima, potente democristiano di Sicilia. I boss erano in gran parte latitanti, e questo era un punto debole della lotta dello Stato contro la mafia e anche delle sentenze, compresa quella del maxiprocesso. I due governi di quello scorcio di fine della Seconda repubblica erano fragilissimi, e così il Parlamento, decimato dalle inchieste di tangentopoli. Era scattata la più feroce repressione con la riapertura delle carceri speciali di Pianosa e Asinara, le botte e le torture, quelle che portarono alla costruzione del falso pentito Scarantino, mentre la mafia uccideva Falcone e Borsellino. Carceri speciali e 41 bis, lo Stato non aveva saputo fare altro, in quei momenti. Qualcuno, i carabinieri del Ros, si era però attivato per arrivare alla cattura di Totò Riina, cercando di usare l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino come cavallo di Troia. Normale, o forse eccezionale, in quel periodo, attività investigativa, come riconosciuto dai giudici che hanno assolto Calogero Mannino. Ma proprio su di lui si sono concentrati a un certo punto, non si sa perché, i sospetti degli inquisitori palermitani. Forse perché è siciliano, o perché democristiano, o perché, avendo sempre combattuto la mafia, poteva essere una vittima predestinata? Fatto sta che una semplice attività investigativa è stata trasformata in minaccia contro lo Stato. La famosa “Trattativa”. La mafia avrebbe usato i politici (un Mannino terrorizzato dalla paura di essere ucciso) e i carabinieri per avere riforme che attenuassero il regime speciale del 41 bis o addirittura scarcerassero qualche mafioso. In cambio avrebbero cessato le stragi. Poiché però nulla di tutto ciò si è verificato –le bombe non sono cessate, le riforme o le scarcerazioni non sono avvenute- in che cosa concretamente è consistita la famosa trattativa? In niente. Pure, in tutti questi anni, a partire dal 2008 quando Massimo Ciancimino è diventato un’icona antimafia, ci sono stati pubblici ministeri e gip e l’intera corte d’assise di Palermo del processo di primo grado che ha condannato a 12 e 8 anni di carcere gli imputati, che a quella favola hanno creduto. La favola della trattativa. Che poi è diventata complotto e minaccia: Mannino e i carabinieri contro i governi Ciampi e Amato, Dell’Utri contro quello presieduto dal suo amico Berlusconi. C’è da chiedersi perché questi pubblici ministeri si siano così intestarditi. Pura ricerca di potere e visibilità? Megalomania di voler riscrivere la storia a proprio piacimento? Odio politico? Qualcosa è scattato nella loro fantasia, dal momento che ci hanno lavorato per un bel po’ di anni. Se si considera anche l’operazione “Oceano”, che puntava diritta contro Silvio Berlusconi e di cui non c’è memoria (tranne che negli archivi della Dia), tre erano stati i tentativi falliti dei pubblici ministeri siciliani “antimafia” nei confronti del potere politico, prima di riuscire ad arrivare a un processo. Stiamo parlando di un’attività politico-giudiziaria durata circa 25 anni. Dopo “Oceano” ecco infatti “Sistemi criminali” -siamo nel 1998- un polpettone che metteva insieme tutte le stragi, da Bologna a Via D’Amelio, ipotizzando l’esistenza di una sorta di spectre composta da massoni, piduisti, imprenditori, politici, terroristi, e un deus ex machina che puntava alla destabilizzazione a suon di bombe. L’ipotesi era così strampalata che l’inchiesta finì archiviata. Ma erano passati solo due anni quando appare all’orizzonte il famoso “papello” con le richieste di Totò Riina allo Stato per far cessare le stragi. Siamo nel 2000, ma anche questa inchiesta avrà lo sguardo volto all’indietro di 30 anni, al fatidico anno 1992 in cui tutto successe in Italia: tangentopoli al nord e antimafia militante al sud. Il papello si rivelerà un falso, ma il teorema resisterà nella testa dei pm e verrà rispolverato in seguito, nonostante l’archiviazione anche di questa inchiesta nel 2004. Il problema era che non si riusciva mai a dare un nome e un volto al famoso deus ex machina, il politico che rappresentasse quel terzo livello in cui Giovanni Falcone non aveva mai creduto. Ci penserà Massimo Ciancimino, il figlio minore di don Vito, che si rivelerà il teste meno attendibile della storia giudiziaria italiana e che verrà poi condannato per calunnia (mentre il famoso “papello” sarà dichiarato un falso), ma che diventerà il pilastro –siamo ormai arrivati al 2008- del “processo Trattativa”. Che, un passo alla volta, è arrivato fino al 2021. In un clima finalmente cambiato. In cui i giudici sono finalmente liberi. In cui un presidente può dichiarare di non voler riscrivere né giudicare la storia. E può liberare uomini valorosi come gli ex vertici del Ros e una persona per bene come Marcello Dell’Utri da una tortura che sarebbe diventata pena di morte in caso di condanna. È finita. Finalmente è finita.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

"Assoluzioni assurde" Da Travaglio a Ingroia gli ultimi giapponesi del giustizialismo. Stefano Zurlo il 25 Settembre 2021 su Il Giornale. Gli ultrà dei magistrati non si rassegnano alla caduta del teorema sulla trattativa Stato-mafia. E il giornalista si dice solidale con Bagarella. Aspettano le motivazioni. Ma intanto sono loro ad anticiparle: una condanna senza appello dell'assoluzione. Gli orfani della trattativa si stracciano le vesti: la giustizia va benissimo quando conferma i loro teoremi, è da strattonare quando rovescia i loro pregiudizi. Marco Travaglio sul Fatto parla di una sentenza «da avanspettacolo» e gioca con le parole, trasformando il verdetto in un perfido scioglilingua: «Trattare con lo Stato è reato, trattare con la mafia non è reato». Insomma, la condanna del boss Bagarella, cui il direttore del Fatto quotidiano indirizza la sua ironica solidarietà, a questo punto è uno scandalo perché farebbe a pugni con l'assoluzione degli ufficiali dei carabinieri. Le sentenze, dunque, si rispettano solo quando sono uno specchio dei propri convincimenti. Naturalmente, il fatto che il verdetto fosse in qualche modo atteso perché preceduto da altre assoluzioni in processi collegati diventa un'aggravante. Se l'accusa ha fatto cilecca anche con Mannino e con Mori, è colpa dei giudici e della corte d'appello di Palermo che ha restituito l'onore ai militari forse perché avevano agito «a loro insaputa o sovrappensiero». Da Siracusa, dove presenta il suo libro Controcorrente, Matteo Renzi contrattacca: «Non si può dire che o ha ragione Marco Travaglio o siamo tutti collusi con la mafia», ma per i duri e puri le complicità sono ovunque, soprattutto ai piani alti dello Stato e tutto il resto è ipocrisia e menzogna. Le vedove della trattativa non ammettono che la procura, forse, si è allargata, andando a riscrivere un pezzo di storia italiana e perdendo così di vista i fatti e gli eventuali reati. Per carità, l'epica dei pm che scoperchiano la botola dei segreti e dei rapporti inconfessabili non può essere messa in discussione, perché negli anni ha generato una militanza ed è diventata un genere letterario. Una visione del mondo non può entrare in crisi per un verdetto che rompe quell'interpretazione a reti unificate. Antonio Ingroia, il pm che scandagliò quei presunti rapporti e oggi è avvocato, non si arrende: «Certamente lo Stato non esce assolto da questa vicenda. Sono un po' curioso di leggere le motivazioni per capire come sia possibile che ne rispondano solo i mafiosi ma nessun colletto bianco». Come dire, scetticismo e gocce di veleno per una pronuncia che sarebbe degna di un equilibrista.

Tutti vogliono leggere le motivazioni, ma nessuno ha la pazienza di aspettare e il verdetto viene tirato di qua e di là, nel tentativo di farlo combaciare con le teorie coltivate negli ultimi vent'anni. Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho va a Skytg24 e riesce a leggere le assoluzioni come una conferma delle condanne di primo grado. I due verdetti si danno idealmente la mano: «Dal punto di vista dell'Antimafia, la sentenza determina esclusivamente un'indicazione sull'interpretazione, ma quel che l'Antimafia ha sviluppato è stata la ricostruzione di un percorso: i comportamenti posti in essere, i collegamenti che ci sono stati con i vertici mafiosi, tutto ciò che è riportato nella sentenza di primo grado poi verificato nella sentenza di secondo grado». Appunto, le assoluzioni sembrano non scalfire la narrazione di questi decenni: «Diciamo che la valutazione della sussistenza del reato ha riguardato l'aspetto psicologico di coloro che hanno operato». Dettagli, rispetto a un impianto che resterebbe in piedi. Il partito giustizialista è anche negazionista: un'assoluzione assoluzione è impossibile e gira e rigira la si presenta come una nuova condanna. Anche se chi si aggrappava al verdetto di primo grado precipita nel lutto. Salvatore Borsellino pronuncia parole terribili che naturalmente vanno rispettate: «Sono amareggiato, mio fratello Paolo è morto invano». I presunti esperti non smobilitano, restano acquattati nella giungla, pronti a cogliere le trame del nemico che ha solo vinto un round. «Le assoluzioni - ribatte Maurizio Gasparri - smentiscono quanti attribuivano ai carabinieri una resa alla mafia», ma molti continuano a vedere lo stesso film. «Esiste una verità giudiziaria - afferma il presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra - poi esiste la verità dei fatti che si conquista scavando fino in fondo, anche nel torbido. Per verità e giustizia c'è ancora molto da lavorare». Un attimo di smarrimento, poi la lotta può ripartire. Stefano Zurlo

I giustizialisti di cartapesta. Paolo Guzzanti il 24 Settembre 2021 su Il Giornale. La parola fine a una caccia alle streghe che ha colpito non solo Berlusconi ma l'onore dell'intera Repubblica. Un altro mostro di cartapesta viene giù dalla diabolica Disneyland italiana: la trattativa fra Stato e mafia, uno dei mostri più laboriosi, complicati, fabbricato a tavolino, non c'è stata. Mai. Assolti tutti: da Marcello Dell'Utri - l'unico ad essere assolto «per non aver commesso il fatto» - che, nel fantastico e travagliato bestiario del travaglismo e dintorni, avrebbe dovuto fare da ponte per incastrare Berlusconi e la mafia e farlo apparire non una vittima di minacce e soprusi, ma un compare di Totò Riina. Tutto falso e anche fabbricato. Il povero generale Mario Mori, che ho conosciuto da Presidente di una commissione d'inchiesta ed ebbi da lui, capo del Sisde, la più totale e completa collaborazione, è stato assolto perché il fatto non costituisce reato. Fu lui ad arrestare il capo dei capi, Riina, che ha finito male i suoi giorni in galera. E lo stesso dicasi per gli altri ufficiali del Ros, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. L'unico condannato resta, con lo sconto di un anno, il boss Leoluca Bagarella. La storia è una delle più torbide e angoscianti della vera notte buia della Repubblica. L'inchiesta aveva lo scopo di disonorare tutti i servitori dello Stato che hanno annichilito Cosa Nostra, la quale, da allora, è ridotta ad una associazione molto poco potente, facendone i loschi congiurati di un complotto: quello per intavolare illegalmente una «trattativa» col crimine organizzato, cedendo favori nella vita all'interno delle carceri in cambio della garanzia che Cosa Nostra avrebbe smesso con lo stragismo che era cominciato con l'attentato sull'autostrada di Capaci, era proseguito con le bombe di via D'Amelio e poi con una serie di attentati terroristici sulla penisola, a Roma e a Firenze in particolare, ciò che non era mai accaduto nella storia della mafia siciliana. Troppe furono le cose che accaddero allora e che non erano mai accadute né prima né dopo. Oggi questa faccenda insanguinata ci appare anche come una prebenda messinscena per uccidere Falcone che viveva a Roma come dirigente del ministero di via Arenula, l'uccisione di Paolo Borsellino, di cui notoriamente Falcone si serviva quando aveva bisogno di qualche indagine, visto che lui non era più un procuratore. Ad oggi dobbiamo dire che ancora non sappiamo nulla, a parte i nomi della bassa manovalanza, non si conoscono i moventi di quel delitto la mafia non dà Oscar alla carriera, scrisse allora un magistrato -, per far fronte a quale immediato pericolo Cosa Nostra avesse deciso di eliminare Giovanni Falcone e di farlo in un modo inutilmente spettacolare come una operazione di commando militare. Ma lo scopo finale della messinscena della mai avvenuta trattativa era chiarissimo: attaccare Dell'Utri perché siciliano e sodale di Berlusconi, per poter poi attaccare Berlusconi, facendone un complice persino nei due delitti più infami della storia del nostro Paese, quelli che spensero le vite di Falcone e Borsellino. Per raggiungere lo scopo di quella caccia alle streghe furono usati tutti gli strumenti delle guerre segrete. La Procura, sconfitta, non ha commentato e in questo fa bene. Ma tutti sanno che i giudici hanno partecipato mediaticamente a molti dibattiti, facendo propaganda per il loro prodotto, prima che si arrivasse alla sentenza. Giova ricordare che la Suprema corte di Strasburgo ha chiesto al governo italiano se davvero da noi sia possibile processare un cittadino della Repubblica di nome Berlusconi Silvio senza garantire tutti i diritti della difesa e usando anche una legge retroattiva. L'Europa è sconcertata e per questo sta chiedendo a gran voce al presidente del Consiglio Draghi di condurre alla svelta e in modo molto incisivo le riforme di cui il nostro Paese ha bisogno, a cominciare proprio da quella della giustizia. Ieri l'altro abbiamo assistito all'intervento del presidente Renzi al Senato in cui ha frustato il Parlamento per il cattivo uso che ha fatto del suo potere di eleggere membri laici nel Consiglio superiore della magistratura e dichiarando che le correnti del Csm sono la causa primaria della sopraffazione giudiziaria sul Parlamento. Il che è vero. Anche se non è tutto. Comunque, quella di ieri 23 settembre è stata una data importantissima perché è stata messa la parola fine a una delle tante cacce alle streghe che hanno prodotto e riverberato infamie pur di colpire il centrodestra liberale rappresentato da Berlusconi. A questo punto l'opinione pubblica sente l'urgenza di sapere come sono andate davvero le cose: giorno dopo giorno cadono tutti i mattoni dei castelli d'accusa che furono eretti per sbarrare il passo al più votato presidente del Consiglio italiano, espropriando di fatto quote di democrazia alla Repubblica italiana. Quelle accuse totalmente inventate hanno finora permesso di non capire quanto ci fosse di autentico e quanto di teleguidato nel comportamento di alcuni mafiosi. Oggi sappiamo che non c'è stata alcuna trattativa, che i criminali sono tutti morti in galera scontando la loro pena, che lo Stato non si è mai arreso e non ha mai trattato. Ma adesso chi paga l'onere dell'onore calpestato dell'intera Repubblica? Ci si può solo augurare che il prossimo Parlamento, quando finalmente verrà eletto, si assuma anche il compito di restituire la verità rubata. Paolo Guzzanti

Ingroia non si arrende: "Lo Stato non esce assolto". Federico Garau il 23 Settembre 2021 su Il Giornale. Per l'ex magistrato antimafia la condanna dei boss è la prova più evidente dell'esistenza della trattativa: a mancare sono le condanne dei "colletti bianchi". La conferma della trattativa Stato-Mafia arriva direttamente dalla condanna degli affiliati a Cosa Nostra coinvolti nella vicenda, mentre a risultare inspiegabile ed ingiustificabile è l'assoluzione dei "colletti bianchi", vale a dire dei rappresentanti della controparte di tale accordo: a sostenerlo è il padre dell'inchiesta, l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. L'avvocato contesta il verdetto della Corte d'Appello, al termine della quale sono stati assolti gli ex ufficiali dei carabinieri e Marcello Dell'Utri e condannati esclusivamente i capimafia Bagarella e Cinà. "Aspettiamo di leggere le motivazioni, ma una sentenza così è difficile da spiegare: solo se fossero stati tutti assolti sarebbe stato ribaltato il giudizio di primo grado con la conseguenza di riconoscere l'assenza della trattativa", affonda Ingroia, come riferito da AdnKronos. "La condanna di Cinà conferma il papello e il suo arrivo a destinazione. La minaccia nei confronti dello Stato ci fu", aggiunge. "Quindi questa sentenza conferma la trattativa, mentre esclude la responsabilità personale degli imputati condannati come tramite nel processo di primo grado". Assurdo che debbano rispondere delle proprie responsabilità solo gli uomini di Cosa Nostra, usati come capro espiatorio della vicenda, aggiunge l'avvocato, mentre nessun uomo dello Stato ha pagato il fio. "Certamente lo Stato non esce assolto da questa sentenza, escono assolti solo quegli uomini dello Stato che erano stati imputati", precisa Ingroia. Per quanto concerne l'esito della sentenza, l'ex magistrato antimafia si dice non sorpreso nè deluso: "C'era già stata l'assoluzione di Mannino, era una delle possibilità in campo. Io ho la coscienza a posto, so che ci sono stati giudici che hanno confermato in toto tutta l'impostazione". A lasciare basito Ingroia è il fatto che i giudici della Corte d'Appello abbiano confermato l'esistenza di una trattativa in cui la mafia minacciava lo Stato, usando intermediari delle istituzioni: "Sono un pò curioso di leggere le motivazioni per capire come sia possibile che ne rispondano solo i mafiosi ma nessun colletto bianco. Vedremo se la Procura generale farà ricorso per Cassazione", commenta Ingroia, che in conclusione cita una frase dell'ex capo di Cosa Nostra: "Spererei alla fine di questa vicenda processuale di non dover dare ragione post mortem a Totò Riina quando diceva di essere diventato il parafulmine di tutti i misteri italiani, dove lo Stato italiano si rifugia dietro l'ombra dei capimafia". A fare da contraltare ai discorsi dell'ex magistrato sono le parole di entusiasmo per la sentenza espresse da Matteo Salvini e da Matteo Renzi. "Felice per l'assoluzione di chi ha servito lo Stato ed è stato ingiustamente accusato per anni", dichiara infatti il segretario del Carroccio, come riportato da Agi. "Ennesima prova del fatto che una vera e profonda Riforma della Giustizia, tramite i Referendum promossi dalla Lega, è necessaria". Il leader di Italia Viva, anch'egli forte sostenitore del referendum dei Radicali, ha affidato le sue parole ai social: "Oggi si scrive una pagina di storia giudiziaria decisiva per il nostro Paese", esordisce Matteo Renzi su Facebook. "Viene condannato il mafioso, vengono assolti i rappresentanti delle Istituzioni. Ciò che per anni i giustizialisti hanno fatto credere nei talk show e sui giornali era falso: non c'è reato. Ha vinto la giustizia, ha perso il giustizialismo", conclude.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattu

Ingroia, “l’inventore” della Trattativa. «I colletti bianchi la fanno franca». L'ex pm Antonio Ingroia, oggi avvocato, fu il "padre" dell'inchiesta sulla presunta trattativa "Stato-Mafia". «La condanna di Antonino Cinà è indicativa». Il Dubbio il 24 settembre 2021. L’avvocato Antonio Ingroia, un tempo pm antimafia, che coordinò il procedimento penale sulla presunta trattativa “Stato-mafia”, al Fatto Quotidiano, commenta la sentenza d’assoluzione messa dai giudici di secondo grado. «Sorpreso? No. perché c’era stata già l’assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino. Ci poteva stare quindi una riforma parziale della sentenza, ma nella mia previsione non mi aspettavo che venissero assolti tutti i colletti bianchi. E’ una sentenza double face, che conferma la sostanza dell’impianto accusatorio della Procura di Palermo, perché nel momento in cui condanna i mafiosi, riconosce che la minaccia c’è stata». «La condanna di Antonino Cinà è cruciale – ha detto Ingroia – perché è l’uomo del “Papello”: è arrivata la conferma che il “Papello” c’è stato ed è anche arrivato a destinazione al governo. Dopo di che, gli ufficiali dell’Arma dei carabinieri, sono stati assolti perché il fatto non costituisce reato. Quindi non sarebbero stati consapevolmente e intenzionalmente portatori di una minaccia dei mafiosi. Sarebbero stati portatori dei messaggi che provenivano dalla mafia, e presumo, ma questo lo leggeremo nelle motivazioni della sentenza, lo avrebbero fatto perché davvero ritenevano ed erano convinti che bisognava “trattare” perché lo Stato non poteva tenere la linea di intransigenza». «Quindi ambasciator non porta pena?» ha chiesto il giornalista del “Fatto Quotidiano. «Se fosse così, non posso condividere un’impostazione del genere, non posso condividere che non sia penalmente rilevante che un uomo dello Stato si faccia portatore di un richiesta da parte della mafia, in piena stagione stragista, nella consapevolezza che quella richiesta contiene una minaccia», mentre l’assoluzione di Dell’Ultri, secondo Ingroia, dimostra come non ci furono pressioni sul primo governo Berlusconi. «Questo si, Bagarella è stato condannato per tentata minaccia, mentre Dell’Utri è stato assolto con formula piena. Evidentemente significa che non venne portata nessuna minaccia a Berlusconi e al suo governo. Però un pm malizioso potrebbe dire non aveva bisogno di usare minacce per convincere Berlusconi a fare qualche favore alla mafia. Ma se Bagarella ha tentato di portare la minaccia, sembrerebbe che lui qualcosa ha fatto, con qualcuno ha parlato, e questo qualcuno potrebbe essere, direttamente o indirettamente, Dell’Utri. Solo che poi l’ex senatore a sua volta non ha veicolato questa minaccia da parte di Cosa Nostra, o quantomeno non è dimostrato». Trattativa “Stato-mafia” una bufala? Ingroia ha risposto così. «È una tesi smentita dalla sentenza stessa, perché nel momento in cui i giudici hanno condannato Cinà, stanno dicendo esattamente il contrario, ovvero che la Trattativa, o meglio la minaccia, c’è stata». E infine: «Ho paura che una sentenza simile abbia ripercussioni psicologiche sull’opinione pubblica. Mi lascia un sapore amaro pensare che gli italiani, che magari non conoscono bene tutte le sottigliezze del diritto penale, possano credere che nel nostro Paese come al solito ci sia una classe dirigente, prevalentemente i colletti bianchi, che la fa franca, mentre i mafiosi fanno la fine dei capri espiatori altrui».

Ingroia: «Non cambio idea, la sentenza è chiara: la trattativa ci fu…» L'ex pm - ora avvocato - che coordinò il processo di Palermo: «I giudici dicono che c’è stata una trattativa, che c’è stato un papello, che è arrivato al governo tramite gli ufficiali dei Ros. Ma non avendolo fatto con l’intenzione di minacciare lo Stato per loro non è un reato». Simona Musco su il Dubbio il 25 settembre 2021. Per Antonio Ingroia, oggi avvocato e un tempo tra i pm antimafia che coordinarono il procedimento penale sulla presunta trattativa “Stato-mafia”, la sentenza d’appello di Palermo è chiara: la trattativa ci fu. Ma «ambasciator non porta pena, se vogliamo sintetizzare il senso della sentenza…». Dottore, lei parla di una sentenza double face, ma ancora sappiamo solo una cosa: il comportamento degli uomini dello Stato imputati in questo processo non fu reato. Non è presto per dire che una trattativa, comunque, ci fu? Certo, bisogna leggere le motivazioni per avere un quadro chiaro. Ma ho provato a decifrare il dispositivo, che è molto articolato, perché ci sono assoluzioni con formule diverse, condanne in forma diversa, alcune confermate, altre derubricate, quindi ho cercato di prevedere quale potrebbe essere la motivazione su queste basi. È chiaro che l’assoluzione di Marcello Dell’Utri è diversa da quella degli ufficiali del Ros, la condanna di Antonino Cinà e Leoluca Bagarella per il 1992 è diversa da quella di Bagarella per il 1994. Sulla base di questo, posso dire che almeno per il ‘92 è certo che c’è stato il papello e l’avvio della trattativa.

Se lo scopo dei militari era quello di catturare i latitanti non è forse più opportuno parlare di una strategia d’indagine?

Non è mai stato messo in dubbio che gli uomini del Ros volessero combattere la mafia, né è stato mai sostenuto che ne fossero complici. Ma dal dispositivo non mi pare che i giudici abbiano accolto la linea difensiva, ovvero che si trattasse di una strategia investigativa. I giudici dicono che c’è stata una trattativa, che c’è stato un papello, che questo papello è passato dalle mani degli ufficiali dei carabinieri – che non hanno mai ammesso questa cosa – e che è arrivato al governo. Solo che secondo i giudici, il fatto che gli ufficiali dei carabinieri siano stati ambasciatori di questa minaccia mafiosa non costituisce reato, perché non era fatto con l’intenzione di minacciare lo Stato.

Ma che questo papello sia arrivato ai vertici dello Stato è stato dimostrato dal processo?

I giudici sono evidentemente convinti di questo, perché altrimenti Cinà non sarebbe stato assolutamente condannato per minaccia consumata, ma come nel caso di Bagarella nei confronti del governo Berlusconi la sua accusa sarebbe stata derubricata a minaccia tentata. Nel caso di Bagarella, la Corte d’Appello ha ritenuto che la minaccia non sia arrivata e si sia fermata nel segmento Cosa Nostra – Dell’Utri. Nel 1992, invece, dev’essere per forza arrivata, altrimenti la formula assolutoria avrebbe dovuto essere “per non aver commesso il fatto”.

Durante il processo sono state depositate le audizioni dei colleghi di Borsellino davanti al Csm, dalle quali è emerso che lo stesso magistrato stimava gli uomini del Ros e soprattutto credeva nel dossier mafia-appalti. Perché non è stato adeguatamente approfondito, come chiede anche la figlia Fiammetta?

Ma io credo che invece sia stato approfondito. Ovviamente, coinvolgendo la responsabilità di magistrati di Palermo, se ne occupò la procura di Caltanissetta: alcuni magistrati sono stati indagati, poi la procura ritenne che non ci fossero sufficienti elementi per fare un processo e l’indagine venne archiviata. Però c’è stata. Che Borsellino fosse interessato a quel dossier è cosa risaputa, l’ho dichiarato in tanti processi, ma non c’entra nulla con la trattativa. Anzi, sono questioni parallele.

Ma in teoria fu proprio la trattativa ad accelerare l’organizzazione dell’attentato a Borsellino, sebbene per altri la sua morte sia da ricollegare proprio a quel dossier…

Ma questo è un altro discorso, non riguarda il processo di Palermo. La strage di via D’Amelio non c’entra. Nel processo di Palermo non è mai entrata in maniera significativa la circostanza che Borsellino sapesse o meno della trattativa, se la stessa c’entrasse con la sua morte… Sono cose separate.

Lo scopo della mafia, con questa trattativa, era quello di ottenere dei benefici. Ma l’azione repressiva dello Stato non è venuta meno: 416 bis e 41 bis sono rimasti in piedi e fu la Consulta a rivedere i parametri per il carcere duro. Quale sarebbe stata la conseguenza di questa azione?

Non ebbe degli effetti immediati, sicuramente, ma che nell’arco di qualche anno le condizioni cambiarono e che il clima politico e legislativo – che dal 1992 al 1994 era particolarmente forte – si sia un po’ allentato è evidente, sfido chiunque a dire che non sia così. Dopodiché, se sia o meno effetto della trattativa è un’altra questione che non riguarda il processo, perché se poi la minaccia ebbe effetto, se vi fu veramente la trattativa è secondario rispetto al processo. Il processo riguarda una minaccia: c’è stata questa minaccia? Chi ne è stato il responsabile? Questo era l’oggetto del processo. I giudici di primo grado hanno detto che la minaccia c’è stata e che erano responsabili sia i mafiosi che l’avevano pensata sia gli uomini dello Stato che l’avevano agevolata, portandola al destinatario. I giudici d’appello hanno confermato il fatto, però hanno ritenuto che il reato era riscontrabile solo per chi ha ideato e inviato la minaccia e non chi ne è stato ambasciatore. Come dire: ambasciator non porta pena, per sintetizzare il senso della sentenza.

Però secondo lei comunicare un’informazione ai vertici dello Stato è reato.

Io penso che di fronte ad una palese ed evidente minaccia un ufficiale di polizia giudiziaria avesse il dovere di portare a conoscenza della magistratura un reato che si stava commettendo sotto i suoi occhi, invece di portarlo alla politica e quindi al governo. La polizia giudiziaria lavora per la magistratura e quando ha notizie di reato non le porta alla politica, ai ministri o al governo, le porta ai magistrati. Non risulta che questa cosa sia stata comunicata ad un magistrato, tranne che ciò non sia avvenuto segretamente. Ma questo possono saperlo solo gli ufficiali, che hanno sempre negato.

Un altro aspetto di questo processo è il fatto che si sia trasformato in una questione di tifo: questa degenerazione non fa male alla lotta alla mafia?

Questo non fa bene né alla giustizia né alla lotta alla mafia. L’enfatizzazione mediatica, la spettacolarizzazione, sia delle condanne sia delle assoluzioni, è un danno. Sono d’accordo con lei: è una battaglia contro i mulini a vento, purtroppo. Siamo entrati da anni, ormai, in un tunnel in cui qualsiasi pubblico evento viene spettacolirazzato. La politica è diventata più superficie che contenuto e purtroppo questa cosa ha contagiato anche il mondo della giustizia.

Stato Mafia, Antonio Ingroia e la "prova lampante": che fine hanno fatto i pm della Trattativa. Libero Quotidiano il 25 settembre 2021. "La Procura antimafia di Palermo che imbastì il processo sulla presunta trattativa tra Cosa nostra e lo Stato non esiste più da tempo. Tra i pubblici ministeri che hanno rappresentato l'accusa nel dibattimento di primo grado solo uno continua a fare il magistrato in servizio: Francesco Del Bene, che adesso lavora alla Direzione nazionale antimafia e della vicenda conclusasi con le assoluzioni dell'altro ieri ha sempre parlato solo nelle aule di giustizia". Lo rivela il Corriere della Sera. Mentre gli altri, come l'ex procuratore aggiunto Vittorio Teresi è andato in pensione, Nino Di Matteo siede al Consiglio superiore della magistratura e Roberto Tartagliia è vicedirettore delle carceri. Antonio Ingroia è diventato avvocato. Del gruppo originario due sono tuttora in servizio: Lia Sava procuratore general a Caltanissetta e Paolo Guido, "l'unico rimasto in carica a Palermo. Ma nel 2012, al momento di chiudere le indagini preliminari, preferì non firmare l'atto conclusivo, perché in disaccordo su alcuni punti. In particolare sul coinvolgimento dell'ex ministro Calogero Mannino e di quello (strettamente connesso) dell'ex generale dei carabinieri Antonio Subranni, già comandante del Ros", ricorda sempre il Corriere. Paolo Guido oggi è procuratore aggiunto di Palermo, coordina le indagini antimafia sul territorio di Trapani e Agrigento e le correlate ricerche dell'ultimo grande boss latitante, Matteo Messina Denaro. Ma è solo Ingroia che continua a rivendicare non solo la legittimità, ma anche la giusta impostazione di indagine e processo: La condanna dei mafiosi conferma l'esistenza della trattativa e del papello di richieste trasmesso a uomini dello Stato, il ribaltamento della prima sentenza è parziale e riguarda interpretazioni giuridiche di fatti accertati. La condanna dei mafiosi dimostra che il processo si doveva fare. Auspico un ricorso in Cassazione".

Quei veleni sulla lotta politica da “Mani pulite” alla “trattativa”. La verità è che una trentina d’anni fa gli scribi giudiziari della storia - intesi come certi inquirenti e i cronisti, commentatori, analisti che ne raccoglievano e amplificavano iniziative, convinzioni e umori- si passarono le consegne fra Milano e Palermo per deformare la conclusione della cosiddetta prima Repubblica e l’incubazione della seconda. Francesco Damato su Il Dubbio il 26 settembre 2021. Diciamoci la verità, tutta la verità, a commento della sentenza d’appello di Palermo che ha declassato a un fatto che “non costituisce reato” la presunta trattativa fra lo Stato e la mafia. Della quale l’intera vicenda giudiziaria ha preso addirittura il nome più generalmente usato sui giornali e nelle stesse aule dei tribunali. Sono stati perciò assolti gli ufficiali dei Carabinieri accusati di averla condotta, e nuovamente condannati i mafiosi che dall’altra parte non avrebbero compiuto ma solo cercato di attentare con violenze e minacce al funzionamento di un corpo politico o amministrativo o giudiziario dello Stato, come dice l’articolo 338 del codice penale cavalcato dall’accusa. Diciamocela, questa verità, senza fare sconti a nessuno: né ai magistrati inquirenti, né a quelli giudicanti di primo grado, sconfessati appunto in appello, né ai giornalisti. O, se preferite, a noi giornalisti, fra i quali ve ne sono alcuni oggi quasi soddisfatti anch’essi del nuovo verdetto, ma sino a qualche tempo fa partecipi – spero in buona fede- di una colossale opera di mistificazione della storia e di avvelenamento della lotta politica. La verità è che una trentina d’anni fa gli scribi giudiziari della storia – intesi come certi inquirenti e i cronisti, commentatori, analisti che ne raccoglievano e amplificavano iniziative, convinzioni e umori- si passarono le consegne fra Milano e Palermo per deformare la conclusione della cosiddetta prima Repubblica e l’incubazione della seconda. Che, secondo costoro, non stava avvenendo nel 1993 col passaggio referendario e legislativo dal sistema elettorale proporzionale a quello prevalentemente maggioritario, che prese il nome latinizzato dell’attuale capo dello Stato, cioè Mattarellum, ma con le stragi mafiose e col tentativo “spregiudicato e disperato”, ancora ieri lamentato su Repubblica da Carlo Bonini, di prevenirle, limitarne i danni e addirittura strumentalizzarle con la infausta “trattativa”. Alla quale molti tolsero via via anche le virgolette originariamente usate per cautela. A Milano, senza offesa per protagonisti, attori e comparse di “Mani pulite”, i cui superstiti peraltro hanno finito o stanno finendo la loro carriera scambiandosi querele o minacciandosele, la cosiddetta prima Repubblica fu travolta da una decapitazione selettiva dei partiti, e relative correnti, che da anni, e sotto gli occhi di tutti, si finanziavano irregolarmente, diciamo pure illegalmente. Né potevano fare diversamente per la scelta ipocrita da tutti compiuta di destinare alle forze politiche un finanziamento pubblico insufficiente a coprire davvero le loro spese, che pure erano evidenti con le sedi di cui disponevano, il personale, le manifestazioni, i giornali, e magari anche l’arricchimento personale di alcuni che raccoglievano illegalmente – ripeto fondi per la loro parte politica e ne trattenevano per sé un po’, o un bel po’, secondo i casi. Tutto divenne o fu scambiato per corruzione, in buona e cattiva, anzi cattivissima fede. Già minato dalla caduta del muro di Berlino, nel 1989, e dalla dissoluzione fortunatamente senza sangue del comunismo, si era spontaneamente esaurito il sistema bipolare italiano derivato per decenni dalla presenza del partito comunista più forte dell’Occidente e dall’azione di contrasto degli avversari, salvo tregue come quella della cosiddetta solidarietà nazionale nel 1976. L’unico a capirlo e a dirlo più o meno chiaramente in pubblico fu l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga auspicando, pur con picconate verbali, un’evoluzione ordinaria e ordinata degli equilibri politici. Gli altri preferirono ricorrere all’ascia giudiziaria, liquidando come ladri quelli che resistevano al governo o, sul versante opposto, continuando a scambiare per comunisti quelli che di fatto non lo erano più per chiusura, diciamo così, della ditta. A Palermo, anziché saltare in groppa alla lotta alla corruzione, vera o presunta che fosse, si saltò in groppa alla lotta alla mafia, anche lì vera o presunta che fosse, per abbattere vecchi equilibri e crearne di nuovi. E poiché la mafia, quella vera, proprio in quel periodo aveva deciso di ricorrere agli attentati sanguinosi per spezzare l’assedio che magistrati di valore come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avevano pazientemente tessuto, contrastati spesso dai loro stessi colleghi per basse ragioni di carriera, anche le stragi furono strumentalizzate più per lotte politiche che per altro. E così fu possibile che, o per liberarsi più rapidamente dei vecchi equilibri o per scongiurarne di nuovi, Giulio Andreotti divenne il capomafia, più o meno, da abbattere e Silvio Berlusconi l’erede da soffocare in culla presentandolo come il nuovo referente della criminalità organizzata, disposto ad assecondarla direttamente o attraverso i suoi amici, a cominciare da Marcello Dell’Utri, peraltro siciliano doc, per consolidare il potere appena conquistato con la sorprendente vittoria elettorale del 1994. O addirittura per conseguire quella vittoria. È potuto così accadere che un’operazione “spregiudicata e disperata”, come – ripeto- la definisce ancora Carlo Bonini su Repubblica, anche dopo l’assoluzione in appello degli alti ufficiali che la condussero, pur avendo portato alla cattura di boss mafiosi come Totò Riina e Bernardo Provenzano, morti entrambi in carcere, fosse scambiata per una torbida congiura, o qualcosa del genere. E ciò anche a costo di trascinare ad un certo punto nelle polemiche, e nella stessa vicenda giudiziaria, un onestissimo presidente della Repubblica come Giorgio Napolitano, e altrettanto onesti collaboratori come il compianto consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, morto di crepacuore. Vergognatevi, scribi della malora.

Sdegno per Buzzi e Carminati che firmano i referendum: ma lo sapevate che l’imputato ha anche dei diritti civili? Un articolo del Corsera racconta l'adesione dei due principali accusati per Mafia capitale. E chi altri dovrebbe sostenere i quesiti se non qualcuno che ha ingiustamente scontato al 41 bis le misure cautelari? Simona Giannetti su Il Dubbio il 24 settembre 2021. Simona Giannetti, avvocato e militante Radicale. Esercizio di un diritto o propaganda di regime? Dalle pagine del Corriere della Sera di ieri scopriamo che un imputato non può neanche esercitare il proprio diritto di firmare una proposta di referendum. Peggio ancora se si chiama Carminati o Buzzi ed è stato condannato per il noto processo “Mafia Capitale”; anzi oggi solo “Capitale”, dopo il taglio della Cassazione alle teorie accusatorie della Procura romana. Il motivo del disdegno per la firma della proposta dei quesiti referendari sembrerebbe semplice: essere un condannato. L’articolo inizia cosi: “Roma, Forse vi siete persi una storia…”. La storia è quella di un gazebo per la raccolta delle firme del referendum “Giustizia giusta” – promosso dal Partito Radicale con la Lega -, organizzato dal quotidiano Il Riformista e dal suo direttore Piero Sansonetti; non solo, al gazebo si presentano a firmare Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Fine della storia. E invece no, perché sul Corriere si parla di due imputati descritti con il loro passato anche lontano, che stavolta non sono coinvolti in un processo ma in un “sit- in referendario”. Non solo, la storia prevede anche “il divo”: Luca Palamara. Ora, al netto della descrizione di una giornata romana di settembre con sole e gabbiani a pochi passi da Montecitorio, sarebbe stato interessante precisare, dalle pagine di un autorevole quotidiano come il Corriere, che l’articolo75 della Costituzione riserva il diritto di firma ad ogni elettore, purché non sia un condannato definitivo. Ebbene, purtroppo per il Corriere i signori Buzzi e Carminati sono solo degli elettori, molto prima di essere imputati. Ma la notizia, oltre alla minuziosa descrizione dei loro abiti e del loro arrivo al gazebo, è che gli stessi avrebbero anche la pretesa di cambiare la Giustizia. Persa sembra essere stata l’occasione di ricordare che il signor Carminati – precisamente descritto come quello con il casco – in seno al processo del “Mondo di mezzo” lo avevano anche mandato in regime di “carcere duro”, come si chiama in gergo, cioè in regime ex articolo 41 bis, salvo poi dire che il suo reato non era mafia: a quanto pare poco conta, nella narrazione della vita dell’elettore in questione, questo disguido sulla sua libertà personale e dignità, evidentemente lontano dall’obiettivo della divulgazione. Eppure, sarebbe stata buona l’occasione per ricordare la riduzione dell’abuso della custodia cautelare in carcere, che poi è anche un quesito referendario, e magari dedicargli uno spunto di riflessione, soprattutto là dove ci sono milioni di euro spesi dallo Stato italiano per risarcire ogni anno individui incarcerati ingiustamente. In effetti trascorrere una carcerazione preventiva in regime di 41 bis non dovuto potrebbe anche essere un buon motivo per decidere di andare a firmare un referendum per la giustizia giusta: bontà sua, dell’elettore, accidentalmente imputato, che decida di farlo. Ma c’è di più. È un peccato che il giornale storico della Milano degli anni di Tangentopoli, che molto poco si è occupato delle attualissime e localissime vicende del Palazzo della Procura da cui uscirono atti segreti con destinazione la tromba delle scale del Csm, abbia altresì dimenticato di cogliere l’occasione di riportare i numeri di questa campagna referendaria, in cui ormai ben oltre 500mila elettori hanno già firmato, perché sia permesso ai cittadini di occuparsi della riforma dell’ordinamento giudiziario e rompere un abbraccio mortale tra politica e magistratura. Forse si poteva cogliere l’occasione per ricordare che in fondo l’ex consigliere del Csm Luca Palamara, anch’egli ampiamente citato come presente al gazebo della raccolta delle firme, altro non sia che un capro espiatorio di ciò che da solo non poteva reggere in piedi a suon di chat e messaggini, oltre che inevitabilmente un testimone di quel Sistema, di cui in questo caso non si è letto molto sulle pagine del giornale in questione. Dunque, i signori Buzzi e Carminati vorrebbero riformare la giustizia, e tutto questo sembra decisamente un colpo basso per il moralismo di un’Informazione che gioca sul populista disegno secondo cui se sei un imputato non devi esistere, pensare, avere dignità di elettore. Non solo, non si può neanche fare a meno di pensare male, che, come diceva un noto presidente si fa peccato ma spesso ci si azzecca: ad oggi il referendum potrebbe anche essere una realtà. Forse quel sogno di Marco Pannella ed Enzo Tortora, che camminano a braccetto nei volantini dei gazebo della campagna del Partito Radicale, si sta per avverare. Il messaggio non troppo in bottiglia sembra voler alludere all’idea che se firmi per il referendum, o sei un imputato o sei il suo difensore: la propaganda del Sistema continua, forse. Del resto nessuno ha mai creduto che con l’espulsione di Luca Palamara dalla Magistratura sarebbe cambiato qualcosa. Anzi, è anche troppo facile cadere nella tentazione di ricordare Tomasi di Lampedusa: deve cambiare tutto, perché nulla cambi. E allora perché non andare a firmare per arrivare al milione di firme per la giustizia giusta?

Una sentenza che vale più di una riforma. Nicola Porro il 24 Settembre 2021 su Il Giornale. Ciò che ha dell'incredibile non sono le assoluzioni di ieri nel cosiddetto processo Stato-Mafia, ma il fatto che per venti anni siamo stati ostaggio di un gruppo di procuratori che ha costruito un teorema tanto mostruoso quanto fragile. Ciò che ha dell'incredibile non sono le assoluzioni di ieri nel cosiddetto processo Stato-Mafia, ma il fatto che per venti anni siamo stati ostaggio di un gruppo di procuratori che ha costruito un teorema tanto mostruoso quanto fragile sin dalle fondamenta. Ci auguriamo che sia la fine dei processi, anzi delle accuse costruite sui teoremi. Il reato di trattativa avrebbe coinvolto diversi governi, presidenti della Repubblica, generali dei carabinieri, ministri e forze politiche di tutti gli schieramenti. Il teorema è così riassumibile: dopo le stragi di mafia di inizio anni '90, un pezzo delle istituzioni è più o meno sceso a patti con la mafia per evitare che si ripetessero e per tutelare incolumità personali (è il caso di Calogero Mannino, per primo assolto). Ad un certo punto si è addirittura pensato che circolasse un vero e proprio contratto che sancisse questo accordo: un «papello» che, ovviamente, non è mai stato prodotto. Una costruzione favolosa. Financo l'arresto di Riina da parte di uno degli imputati, ieri assolto, come il generale Mori, è stato considerato dall'accusa come una prova della trattativa. Verrebbe da dire: così vale tutto. Se non fosse che di mezzo è passata la vita di decine di persone che per venti anni hanno sofferto la più infamante delle accuse, soprattutto se uomini delle istituzioni: «flirtare» con i boss. E così ieri pomeriggio la Corte di Assise di Palermo ha assolto i generali del Ros Mori e Subranni, il colonnello De Donno e Marcello dell'Utri che sarebbe stato, secondo l'accusa, lo sponsor della trattativa con Berlusconi. Nulla di tutto ciò si è verificato. Questa clamorosa assoluzione si intreccia con la recente riforma della giustizia, spacciata come epocale. Essa tra l'altro prevede che «per celebrare un processo non sia sufficiente avere elementi per sostenere l'accusa». Il pm infatti dovrebbe richiedere l'archiviazione «quando gli elementi acquisiti nelle indagini non consentono una ragionevole previsione di condanna». Secondo il legislatore è sufficiente questa ipocrita petizione di principio, senza la previsione di alcun parametro oggettivo, affinché i procuratori, semplifichiamo, invece di andare a processo chiedano archiviazioni. E non perché li ritengano innocenti, ma perché pensino di non avere elementi sufficienti perché un giudice li condanni. Una cosa è pretendere che il procuratore, se in possesso di prove a tutela dell'indagato, le produca (cosa peraltro che non sarebbe avvenuta a Milano nel processo Eni), una cosa obbligarlo ad avere anche la testa del giudice terzo. Chi ha pensato questa norma pensa di vivere in un altro mondo. Con una sua decisione la corte di Assise di Palermo ha fatto molto di più di una riforma che non c'è. Nicola Porro

Stato-mafia: Diritto e Storia non sono coincidenti. Patrizia Zangla su mondonuovonews.com il 27 settembre 2021. La sentenza della Corte di assise di appello sulla Trattativa Stato-Mafia lascia perplessi. Quando sarà disponibile potremo leggere le motivazioni, ora possiamo aprire a più ragionamenti. “Il fatto non costituisce reato” ha detto il presidente della corte d’appello di Palermo assolvendo Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni. È la sentenza d’appello sulla “Trattativa Stato-mafia”che ribalta il primo giudizio, smantella l’impianto accusatorio della procura di Palermo e sfilaccia l’inchiesta. Il fine è dunque sconfessare il teorema Stato-mafia e far cadere la consequenziale tesi del nesso che lega la Trattativa a via D’Amelio? La strage di via D’Amelio ci riporta a Palermo, al lontano 19 luglio 1992, attentato in cui perdono la vita il giudice Borsellino e la sua scorta, a distanza di pochi mesi dall’uccisione di Giovanni Falcone saltato in aria il 23 maggio sull’autostrada A29 nei pressi di Capaci. Col giudice, la moglie e la scorta. “Un nido di vipere” così Paolo Borsellino ebbe a definire il suo ufficio alla Procura di Palermo. “Covo di vipere” che trova anche chi cerca di comprendere e mettere insieme pezzi e frammenti di storia.

 Il punctum dolens. Un passo indietro. Torniamo alla pronuncia d’appello del “Borsellino quater”, le motivazioni della Corte d’assise di appello di Caltanissetta riferiscono l’ipotesi che vede Paolo Borsellino ucciso dalla mafia «per vendetta e cautela preventiva». La prima, “la vendetta”, come conseguenza all’esito del maxiprocesso, la seconda, la “cautela preventiva”, relativa alle sue indagini. Ecco, il punctum dolens, le sue indagini. I suoi sospetti. I suoi ragionamenti riportati sulla sua agenda. Agenda rossa scomparsa. Ma anche le sue esternazioni e confidenze alla moglie; il giorno prima dell’attentato, le riferisce  che “non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, ma i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò accadesse”. Tra le ultime indagini anche quelle relative al troncone “Mafia e Appalti”. Non era una novità l’attenzione al coinvolgimento di Cosa Nostra al settore degli appalti pubblici, già Giovanni Falcone aveva compreso il legame fra politica e imprese aggiudicatarie degli appalti. Quel fitto e antico legame fra mondo imprenditoriale, politico e mafioso. Falcone dunque andava fermato, per quello che aveva fatto e perché avrebbe potuto ricevere la nomina di capo della Direzione Nazionale Antimafia. E andava fermato anche Paolo Borsellino. Immediatamente. Ed ecco che di nuovo il veleno delle vipere avvelena la ricostruzione storica. Dati certi si diceva. Certo è che l’arrivo di Borsellino nel nuovo ufficio della Procura di Palermo è avvertito con preoccupazione Cosa Nostra, Pino Lipari, vicino ai vertici dell’organizzazione mafiosa, lo aveva commentato asserendo che avrebbe creato fastidi a “quel santo cristiano di Giammanco”.

La Trattativa. Torniamo alla Trattativa. Ora molti intorpidiscono le acque putride. Se ne parla come di una narrazione forzata, nata a tavolino da alcuni ostinati giudici manichei e politicizzati, mossa da un chiaro fattore criminocentrico, che alcuni leggono come pregiudizio mafiocentrico,  vale a dire quello che vuole l’esistenza di un terzo livello a carattere politico-massonico-mafioso. Un livello tanto sfuggente da essere inesistente. Ma non sempre quanto sfugge non esiste. Come ci insegna la filosofia aristotelica, la Logica per antonomasia, è il cercare la grande risorsa. Solo cercando possiamo chiarire se esiste o se non esiste qualcosa. Che significa? Significa che bisogna cercare ancora. Il problema è l’acqua putrida e avvelenata. Antonio Ingroia -pm antimafia cui si deve il procedimento penale sulla Trattativa  Stato-mafia- ha commentato la sentenza d’assoluzione messa dai giudici di secondo grado. Non si è detto sorpreso, perché anticipata dall’assoluzione dell’allora ministro Calogero Mannino, tuttavia si attendeva “una riforma parziale della sentenza”, non l’assoluzione “di tutti i colletti bianchi”. Ha aggiunto: “E’ una sentenza double face, conferma la sostanza dell’impianto accusatorio della Procura di Palermo, perché nel momento in cui condanna i mafiosi, riconosce che la minaccia c’è stata». Più dati scaturiscono dalla sentenza. A Leoluca Bagarella è riqualificata la pena, a Antonino Cinà sono confermati 12 anni. Antonino Cinà è l’uomo del Papello. Ora, se si condanna l’uomo del Papello, logica suggerisce che il Papello ci sia stato. In questo aggrovigliato modus operandi si afferma quanto si smentisce perché si condanna una persona -appunto Cinà-  affermando l’esistenza di quanto l’ha prodotta, dunque affermando che c’è stata la minaccia di una Trattativa. Andiamo alle assoluzioni dall’accusa di minaccia degli ufficiali dell’Arma dei carabinieri, gli ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e del senatore Marcello Dell’Utri, che in primo grado avevano avuto condanne pesanti.

Il reato non c’è. Da qui la loro assoluzione. A riguardo Fiammetta Borsellino ha invece dichiarato: «Io non li ho mai assolti gli ufficiali dei Carabinieri, ma ho avuto sempre molti dubbi, oggi confermati dalla giustizia con la sentenza di appello”, e rimarca piuttosto il clima ostile dentro la Procura di Palermo in cui operava il padre Paolo, fatto che ci riporta al Procuratore Giammanco. Parere opposto a quello dello zio, Salvatore Borsellino, che argutamente osserva: “Bagarella e Cinà non possono aver fatto la trattativa da soli”. C’è un altro rischio sotteso, le implicazioni sociali e storiche di questa sentenza. Come è letta dalla gente comune poco avvezza al diritto? Rischia di condurre a cambiare la percezione dei fatti agli occhi dell’opinione pubblica. Molti commentatori e politici semplificano, banalizzano, talvolta confondono i dati. Viene applicata la facile tautologia: chi non paga non è colpevole, chi paga lo è. Colpevole è dunque Cinà, che paga, gli altri non sono colpevoli perché non pagano. Si apre qui l’altro versante scabroso: l’assoluzione di Mario Mori, Giuseppe De Donno, Antonino Subranni e Marcello Dell’Utri dall’accusa di “minaccia contro un corpo dello Stato”. «Bagarella è stato condannato per tentata minaccia, mentre Dell’Utri è stato assolto con formula piena. Evidentemente significa che non venne portata nessuna minaccia a Berlusconi e al suo governo. Però un pm malizioso potrebbe dire non aveva bisogno di usare minacce per convincere Berlusconi a fare qualche favore alla mafia. Ma se Bagarella ha tentato di portare la minaccia, sembrerebbe che lui qualcosa ha fatto, con qualcuno ha parlato, e questo qualcuno potrebbe essere, direttamente o indirettamente, Dell’Utri. Solo che poi l’ex senatore a sua volta non ha veicolato questa minaccia da parte di Cosa Nostra, o quantomeno non è dimostrato» (Dichiarazione di Antonio Ingroia).

Altro quesito, fra i tanti, ancora insoluto: cosa di fatto avrebbe accelerato la decisione di morte di Paolo Borsellino?

Secondo questa sentenza, la Trattativa non sembrerebbe essere stata elemento-acceleratore, e allora cosa? Il dossier Mafia e Appalti come riferisce il processo Borsellino ter? Quel dossier -dei generali Mori e De Donno- archiviato il 15 luglio a pochi giorni prima della strage di Via D’Amelio. Il giorno prima, il 14 luglio, sembra che Borsellino ne avesse chiesto conto senza esito. Eppure è agli atti – dichiarazione di Giovanni Brusca- quel dialogo segreto dei carabinieri del Ros con l’allora sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. Quando Brusca riferisce le parole di Totò Riina del giugno 1992:

“Si sono fatti sotto, dobbiamo dare un altro colpetto”.

‘Un colpetto’ per alzare il prezzo della Trattativa in corso, dando mandato di organizzare la strage di via D’Amelio.

Le conclusioni?

La corte d’appello di Palermo ci dice che la Trattativa c’è stata, ma non costituisce reato, vale a dire, i fatti esistenti non sono penalmente rilevanti, ma sono esistenti.

Una formula giuridica che dice molto più di quanto sembra.

Dice che gli ex ufficiali del Ros – condannati in primo grado per minaccia a corpo dello Stato – hanno avuto contatti con la mafia -lo hanno ammesso anche loro-, ma lo hanno fatto nell’ambito del loro lavoro. Come dire, per “ragion di Stato”.

L’assoluzione di Marcello dell’Utri, già senatore di Forza Italia, ci dice invece che non ha commesso quel  fatto. Sembrerebbe – le motivazioni dovrebbero confermarlo- che non sia penalmente rilevante che un uomo dello Stato si faccia portatore di una richiesta da parte di cosa Nostra, in una fase storica in cui si vive una stagione stragista.

Ovvio chiedersi: è lecito dunque che un uomo dello Stato si interfacci con Cosa Nostra. Non è forse questa una minaccia per lo Stato?  

Il processo penale ha fatto il suo -manca il terzo grado di giudizio- alla ricostruzione storica spetta di proseguire la sua indagine. La sentenza tramortisce, ma la mancata individuazione di responsabilità penali non pregiudica lo sforzo ricostruttivo storico, anzi. L’esegesi e l’interpretazione storiografica sono spesso altro da quella giudiziaria. 

Resta evidente il dato storico: l’esistenza di vicende complesse e oscure della storia italiana dalla metà degli anni ’60 ad oggi, che comprende l’evoluzione di Cosa nostra e le sue articolazioni e intersecazioni con poteri e potentati.

Processo trattativa, Mori: "Non commento per evitare altre polemiche". Da adnkronos.com il 27 settembre 2021. "Preferirei non parlare di questo processo perché sono sicuro che si creerebbero altre polemiche che non è il caso in questo momento di suscitare, anche perché non sappiamo, in effetti, come ha valutato la Corte d'Assise d'appello di Palermo la mia vicenda, quella del generale Subranni e quella del colonnello De Donno. Come si dice in questi casi aspettiamo le motivazioni". A dirlo, intervistato a 'Quarta Repubblica', è il generale Mario Mori dopo l'assoluzione nell'appello del processo trattativa Stato-mafia. "Quando uno fa questo tipo di professione qualche contraccolpo se lo deve aspettare, di queste dimensioni temporali no", replica poi al giornalista che gli chiede se si aspettava questo 'calvario giudiziario'. "Se ho avuto paura di essere ucciso dalla mafia? Il lavoro che abbiamo fatto noi è un lavoro particolare, è come la droga. Tu quando ragioni metti in conto il fatto che ti può succedere ma poi lo cancelli perché sei preso dal quotidiano, che è un quotidiano difficile, non ci pensi. Poi quando torni a casa magari dici 'Ho rischiato'", ha detto ancora Mori. 

Mafia: Mori, "scoprimmo per primi rapporti boss e appalti, ma a Borsellino fu vietato occuparsene".  27 Settembre 2021. News Adnkronos il 27 settembre 2021. “La mafia viene colpita non tanto con la cattura dei latitanti, ma soprattutto nel sostentamento economico e che non si otteneva tanto con il pizzo quanto con il condizionamento degli appalti. Io presi un ufficiale brillante, il capitano Giuseppe De Donno e lo misi a fare ricerche solo sugli appalti. Ne parlai con Giovanni Falcone che rimase un po’ perplesso, non riusciva a capire come. Per Falcone De Donno era come un figlio, lo chiamava ‘Peppe’ e progressivamente si individuò il rappresentante di Cosa nostra delegato a trattare gli appalti, questa fu la prima scoperta”. Sono le parole del generale Mario Mori intervistato da ‘Quarta Repubblica’. “La seconda scoperta fu devastante – aggiunge Mori – nelle indagini sugli appalti si pensava che le vittime fossero i politici e gli imprenditori, invece concorrevano nel reato con i mafiosi. Questa era la verità che noi scoprimmo”. Poi Falcone fu trasferito a Roma, nel 1991, e mi disse: “consegnami il rapporto su mafia e appalti, io feci resistenza e gli dissi che non era completo. E lui lo volle entro l’indomani e mi disse ‘E’ meglio che lo riceva io, perché sai quanti guai avrete con questo rapporto…”. “E poi lo portò a Giammanco che era il capo della Procura di Palermo”, aggiunge. “Io mi resi conto in pochi giorni che non se ne parlava più di questo rapporto, mi arrabbiai molto e rappresentai la situazione, ma senza risultati, finché a luglio del 1991 la Procura emise degli arresti tra cui Angelo Siino e degli imprenditori. I legali chiesero gli atti relativi. Invece fu preso tutto il malloppo e fu dato a tutti e cinque gli avvocati, dopo mezz’ora la mafia sapeva tutto, fin dove potevamo arrivare. Lì ci fu un po’ di tensione”. “All’epoca pensai che sbagliarono tecnicamente – aggiunge Mori – invece dopo sono successi altri fatti. All’inizio del 1992 Paolo Borsellino lascia Marsala e torna a Palermo. Giammanco non gli delega le inchieste su Palermo ma di altre province, quindi non può interessarsi formalmente a mafia e appalti. Mentre era a Marsala chiese a noi copia del dossier mafia e appalti”, dice ancora Mario Mori. “Il 25 giugno del 1992 Borsellino mi telefona per chiederci di vederci riservatamente dai carabinieri, non in Procura, Intanto non voleva farlo sapere e formalmente non poteva interessarsene”, dice. “Subito dopo la morte di Falcone, la procura spezzetta l’indagine e divide l’inchiesta in vari tribunali sparsi per la Sicilia – prosegue Mori – Se la spezzetti la distruggi”. “Il 4 luglio ci fu una riunione e Borsellino disse che i carabinieri erano delusi, ma nessuno gli disse che questa indagine era stata spezzettata”.

Mafia: Mori, 'dossier appalti concausa uccisione Borsellino'. Adnkronos il 27 settembre 2021. "Io ritengo che il dossier mafia e appalti fu una concausa dell'uccisione di Paolo Borsellino". Ne è convinto il generale Mario Mori che lo ha detto intervistato da 'Quarta Repubblica' in onda stasera. "Ma non è finita qui", aggiunge Mori. "Quella era l'inizio dell'indagine - aggiunge - c'era un gruppo di potere fatto da imprenditori, politici e mafiosi che decidevano gli appalti e si spartivano i proventi". "Quando andammo a Napoli - dice- facemmo la stesa cosa di Palermo con il procuratore Cordova, con una variante: ci abbiamo messo un uomo che doveva prendere contatti con i camorristi. Abbiamo preso un ufficiale del Ros che come rappresentante delle imprese che realizzava l'alta velocità Roma-Napoli si inserì in questo mondo e dopo un po' venne contattato da imprenditori vicini alla Camorra, dal clan dei Casalesi che voleva il 3 per cento degli importi totali". E poi dice: "Il Nucleo investigativo dei Carabinieri fu una mia creazione".

Fu la mafia degli appalti a volere l’omicidio di Borsellino. Le parole del giudice Alberto Di Pisa. Nicola Salvetti su destra.it il 27 Settembre 2021. La sentenza del processo sulla trattativa tra Stato e mafia continua ad alimentare dibattiti e interpretazioni. In un’intervista rilasciata alla giornalista dell’agenzia di stampa AdnKronos, Elvira Terranova, l’ex procuratore capo di Marsala Alberto Di Pisa ricostruisce alcuni importanti  passaggi storici. “Ricordo che il giorno in cui fu esposta la bara di Giovanni Falcone nell’atrio del Palazzo di giustizia di Palermo, chiesi a Paolo Borsellino se secondo lui la strage di Capaci avesse una finalità destabilizzante. E lui mi guardò negli occhi e mi rispose: ‘No, non è così. Anzi. Direi che l’intento è quello di avere un effetto ‘stabilizzante’. E aggiunse: ‘Ora intendo riprendere al più presto in mano l’indagine su mafia e appalti”. Di Pisa è stato per molti anni al fianco di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Fu anche uno dei giudici che istruirono il primo maxiprocesso a Cosa nostra. In passato si è occupato di inchieste come l’omicidio del sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, ma anche del processo a Vito Ciancimino. Un effetto “stabilizzante” perché? “Perché mirava a mantenere il sistema di potere di quel momento”, dice il magistrato. “Io ho sempre pensato che la trattativa Stato-mafia non c’entri niente con la strage di Via D’Amelio – afferma -. Come tutti i delitti eccellenti. Dietro un omicidio ci sono quasi sempre gli appalti, quello è l’interesse economico di Cosa nostra”. E ricorda: “Poco prima di essere ucciso, Paolo Borsellino, ebbe una riunione con i carabinieri del Ros, con Mori e Subranni, proprio sul problema degli appalti, un tema che intendeva riprendere e che riteneva fondamentale per la lotta alla mafia, mentre la Procura lo aveva trascurato”. L’indagine su mafia e appalti fu archiviato il giorno prima di ferragosto del 1992, cioè nemmeno un mese dopo la strage di via D’Amelio, dopo la richiesta avanzata, pochi giorni dopo la morte di Borsellino, il 22 luglio 1992, dall’allora pm Guido Lo Forte, con l’avallo dell’allora procuratore Pietro Giammanco. “Certo, un’archiviazione che arrivò poco dopo la strage – dice oggi Di Pisa -. Il fatto temporale dà da pensare…”. E poi ricorda anche la telefonata arrivata la mattina, quasi all’alba, del 19 luglio 1992, il giorno della strage di via D’Amelio al giudice Borsellino da parte del Procuratore Giammanco: “Gli disse che gli avrebbe affidato le indagini su Palermo, sulla mafia di Palermo e quindi, probabilmente, anche il dossier mafia e appalti. Certo, una telefonata arrivata alle sette di mattino, nel giorno della strage fa riflettere. Come se non potesse più aspettare fino all’indomani…”. Quello stesso giorno Paolo Borsellino aveva cercato Alberto Di Pisa, in una casa al mare da parenti, a Marina Longa. “Voleva parlarmi con urgenza, ma purtroppo non c’ero”. Di Pisa ha sempre criticato il processo sulla trattativa Stato-Mafia, e sulla sentenza di appello, che ha ribaltato il verdetto di primo grado, assolvendo tutti gli ufficiali dei carabinieri e Marcello Dell’Utri, dice: “Ho sempre detto che era un fatto mediatico, un teorema politico e mediatico. Dal punto di vista giuridico, questo processo non stava in piedi. Ora bisogna aspettare le motivazioni. Perché ‘il fatto non costituisce reato’ può voler dire due cose: o che l trattativa c’è stata ma non costituisce reato, oppure che c’è stata ma manca l’elemento psicologico del reato, il dolo. Bisogna vedere cosa intendono fare i giudici”. E aggiunge: “D’altra parte anche il caso Moro, il governo trattò con le Brigate rosse ma nessuno aprì un procedimento. Un fatto che è sempre avvenuto, cioè che lo Stato tratta con i criminali per salvare delle vite umane”. (Fonte AdnKronos)

Il generale Mori: “Borsellino voleva occuparsi del dossier mafia appalti. Fu ucciso anche per questo”. Giovanni Pasero lunedì 27 Settembre 2021 su Il Secolo d'Italia. «Rifarei tutto, la soddisfazione e la gioia di avere incontrato personaggi unici come Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, Cossiga, non ha eguali». Così il generale Mario Mori, intervistato da Quarta Repubblica, assolto nel processo Stato-Mafia, dopo un calvario giudiziario durato 14 anni. Intervistato da Nicola Porro, il generale Mori si è detto convinto che la morte di Borsellino ha avuto una origine precisa. «Io ritengo che il dossier mafia e appalti fu una concausa dell’uccisione di Paolo Borsellino».  «Ma non è finita qu»”, aggiunge Mori. «Quella era l’inizio dell’indagine – aggiunge – c’era un gruppo di potere fatto da imprenditori, politici e mafiosi che decidevano gli appalti e si spartivano i proventi». «La mafia viene colpita non tanto con la cattura dei latitanti. Ma soprattutto nel sostentamento economico e che non si otteneva tanto con il pizzo quanto con il condizionamento degli appalti. Io presi un ufficiale brillante, il capitano Giuseppe De Donno e lo misi a fare ricerche solo sugli appalti. Ne parlai con Giovanni Falcone che rimase un po’ perplesso, non riusciva a capire come. Per Falcone De Donno era come un figlio, lo chiamava ‘Peppe‘ e progressivamente si individuò il rappresentante di Cosa nostra delegato a trattare gli appalti, questa fu la prima scoperta». “La seconda scoperta fu devastante – aggiunge Mori – nelle indagini sugli appalti si pensava che le vittime fossero i politici e gli imprenditori, invece concorrevano nel reato con i mafiosi. Questa era la verità che noi scoprimmo”. Poi Falcone fu trasferito a Roma, nel 1991, e mi disse: “Consegnami il rapporto su mafia e appalti, io feci resistenza e gli dissi che non era completo. E lui lo volle entro l’indomani e mi disse: “È meglio che lo riceva io, perché sai quanti guai avrete con questo rapporto…”. “E poi lo portò a Giammanco che era il capo della Procura di Palermo”, aggiunge. “Io mi resi conto in pochi giorni che non se ne parlava più di questo rapporto, mi arrabbiai molto e rappresentai la situazione, ma senza risultati, finché a luglio del 1991 la Procura emise degli arresti tra cui Angelo Siino e degli imprenditori. I legali chiesero gli atti relativi. Invece fu preso tutto il malloppo e fu dato a tutti e cinque gli avvocati. Dopo mezz’ora la mafia sapeva tutto, fin dove potevamo arrivare. Lì ci fu un po’ di tensione”. «All’epoca pensai che sbagliarono tecnicamente – aggiunge Mori – invece dopo sono successi altri fatti. All’inizio del 1992 Paolo Borsellino lascia Marsala e torna a Palermo. Giammanco non gli delega le inchieste su Palermo ma di altre province, quindi non può interessarsi formalmente a mafia e appalti. Mentre era a Marsala chiese a noi copia del dossier mafia e appalti, dice ancora Mario Mori. «Il 25 giugno del 1992 Borsellino mi telefona per chiederci di vederci riservatamente dai carabinieri, non in Procura. Intanto non voleva farlo sapere e formalmente non poteva interessarsene», dice. «Subito dopo la morte di Falcone, la procura spezzetta l’indagine e divide l’inchiesta in vari tribunali sparsi per la Sicilia – prosegue Mori – Se la spezzetti la distruggi». «Il 4 luglio ci fu una riunione e Borsellino disse che i carabinieri erano delusi, ma nessuno gli disse che questa indagine era stata spezzettata». 

“Sciascia, nient’altro che la verità”. Il forum de l’Arsenale delle idee. Manuela Lamberti il 10 Febbraio 2021 su destra.it. Il forum de l’Arsenale delle idee di venerdì 12 febbraio alle ore 18,30  presenta un libro che affronta con  sguardo acuto e disincantato uno scrittore e personaggio del Novecento che, come pochi, ha descritto le caratteristiche di un mondo fatto di uomini che “non contraddicevano e non si contraddicevano”  e che ha raccontato  la sua Sicilia e l’ Italia, contraddicendo. Andando contro. Il libro di Pierfranco Bruni e Mauro Mazza, non è solo un tributo alla grandezza dello scrittore, ma anche un’ indagine disincantata sulle luci e le ombre del percorso di un intellettuale che ha difeso Sofri, che si pose contro le posizioni sulla mafia di Falcone e Borsellino, ma che comunque denunciò in modo coraggioso e lucido i mali della giustizia italiana. Una ricognizione a tutto tondo che affronta i modi in cui si sono concretizzati nell’ autore cultura e impegno civile. Sciascia ha avuto il merito di sollevare il velo che copriva tante ipocrisie, affrontando il mostro della guerra ideologica degli anni di piombo. Un’icona ” Todo modo”, un film ispirato all’ omonimo romanzo, nascosto per anni anche alla visione privata , di cui sono girate solo poche copie pirata, oggi  fruibile in un’ edizione restaurata, che rappresenta il paradigma di un’ epoca pesante, in cui la verità del Gattopardo è stata amministrata da maschere pirandelliane. Merito agli autori di restituirci Sciascia, di farci venire voglia di tornare a leggerlo, per riscoprire dove trovano radice i mali che non hanno mai lasciato la nostra Italia.

Mafia e Stato: la lezione di Sciascia. Nicola Porro il 26 Settembre 2021 su Il Giornale. I n queste giorni in cui ancora risuonano quelle poche parole del giudice coraggioso di Palermo che in pochi minuti ha smontato anni di follie giudiziarie sulla trattativa Stato mafia, conviene rileggere Il Giorno della Civetta di Leonardo Sciascia. Scritto nel 1961 è il primo romanzo che esplicitamente si occupa di mafia. E lo fa con il sapore aspro e molto siciliano, della sua ineluttabilità. C'è poco da fare quella mafia non si poteva combattere e il coraggioso carabiniere, il capitano Bellodi, che aveva incastrato il capo mafioso, don Mariano, finirà per vedere smontata la sua indagine e il boss tornare ricco e libero. Famosa la classificazione degli uomini fatta da don Mariano Arena mentre veniva interrogato: «io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in 5 categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà... Pochissimi gli uomini; i mezz'uomini pochi, perché mi contenterei l'umanità si fermasse ai mezz'uominiE invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi... E ancora più in giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere con le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre». Nella vicenda dei tre carabinieri dei Ros (Mori, Subranni, De Donno) che costruirono l'inchiesta (958 pegine) sui rapporti tra Mafia e affari poi di fatto smontata dal giudice Pietro Giammanco, nell'arresto di Totò Riina da parte degli stessi carabinieri, poi sotto inchiesta proprio per le modalità di quell'operazione, e infine nella lunga teoria di accuse che diversi procuratori (senza successo) mossero a quella pattuglia di carabinieri, è facile intuire chi siano gli uomini e chi gli «ominicchi» o se preferite i «quaquaraquà». Dopo circa venticinque anni dall'uscita del Giorno della Civetta, Sciascia scrisse il celebre pezzo sul Corriere della sera sui professionisti dell'antimafia: in cui lucidamente, lui che per primo parlò di mafia e di caparbi carabinieri, espresse fortissimi dubbi su quella che era diventata un'etichetta retorica, grazie alla quale si stava per formare in Italia, una casta di intoccabili.

Nicola Porro è vicedirettore de il Giornale e si occupa in particolare di economia e finanza. In passato ha lavorato per Il Foglio e ha condotto il programma radiofonico "Prima Pagina" su Rai Radio Tre. Attualmente, oltre a scrivere per il Giornale, gestisce il blog "Zuppa di Porro" su ilGiornale.it e, su RaiDue, conduce il programma d'approfondimento "Virus, il contagio delle idee", il venerdì in prima

Stato-mafia, il disegno politico dei pm è fallito. Per sempre. Sono serviti 25 anni di accuse, di confessioni di sedicenti pentiti e ore e ore di udienze, per decidere che a Palermo, nel lontano ‘92, non ci fu alcuna vera trattativa tra Cosa nostra e pezzi dello Stato. Davide Varì su Il Dubbio il 24 settembre 2021. Dunque erano servitori dello stato e non amici dei mafiosi. Sono serviti 25 anni di accuse, di confessioni di sedicenti pentiti e ore e ore di udienze, per decidere che a Palermo, nel lontano ‘92, non ci fu alcuna vera trattativa tra Cosa nostra e pezzi dello Stato. Sono serviti 25 anni per scoprire che quell’indagine altro non era se non un teorema, una suggestione alimentata da un gruppo di magistrati e da pezzi larghissimi della stampa italiana. Diciamolo chiaramente, ma nel modo più asettico possibile: quella sulla Trattativa era un’indagine politica. Politica nel senso più neutro e addirittura alto del termine. No, non era politica perché aveva l’obiettivo, la volontà di colpire un partito, un leader o un movimento. Nulla di tutto questo, era molto di più: una costruzione grandiosa che nasceva da una lettura tutta politica dei fatti contestati. I magistrati hanno provato a far passare l’idea che gli ultimi 25 anni della storia repubblicana fossero stati condizionati, di più, guidati e determinati, da Cosa nostra. Anzi, dal rapporto tra Cosa nostra e pezzi dello Stato. Si tratta di una lettura manichea, binaria: da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. Una “verità” che non ammette sfumature, che cancella i chiaroscuri e perciò del tutto inverosimile. Ma è anche un racconto “criminocentrico” che semplifica in modo pericoloso la complessità degli eventi e della mafia stessa. L’impressione è che in questi anni gli inquirenti abbiano ordinato le tessere di un puzzle del tutto immaginifico, ma i cui contorni avevano in mente da anni. Un teorema che poggia sull’ossessione del terzo livello: la presunta supercupola politico-massonico-mafiosa che guiderebbe il Paese. Ed era quello che volevano dimostrare e che non sono riusciti a fare: il disegno politico è fallito. Per sempre.

Trattativa Stato-mafia, crolla la madre di tutti i teoremi. I giudici: gli ex Ros Mori, De Donno, Subranni e il senatore Marcello dell'Utri non siglarono alcun patto scellerato con Cosa nostra. Condanne confermate solo per i mafiosi: tentarono di piegare lo Stato, senza trovare sponde. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 24 settembre 2021. «Mario Mori sta subendo una grave ingiustizia come fu con il caso Tortora». Lo aveva detto Massimo Bordin durante un convengo del Partito Radicale, l’ultimo perché dopo pochi giorni sarebbe morto lasciando un vuoto incolmabile. E ovviamente ha avuto ragione. Dopo un lungo travaglio giudiziario, la Corte d’assise d’appello di Palermo ha assolto, al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. Assolto anche l’ultimo politico rimasto imputato, ovvero l’ex senatore Marcello Dell’Utri, per non aver commesso il fatto. In sostanza, nessuno di loro ha commesso il reato per il quale erano stati condannati in primo grado: minaccia a corpo politico dello Stato. Restano solo i mafiosi, ad essere condannati, ovvero Bagarella e Cinà. Ma attenzione, con la riqualificazione del fatto come «tentata minaccia pluriaggravata a corpo politico dello Stato». Ovviamente si dovranno attendere le motivazioni, ma questa riqualificazione della sentenza si può tradurre in un fatto: non c’è stato alcun patto scellerato tra uomini delle istituzioni e la mafia, non c’è stata la trattativa invece teorizzata dalla Procura generale di Palermo. A compiere la tentata minaccia ai tre governi è stata la mafia stessa, molto probabilmente – ma saranno le motivazioni a spiegarcelo – gli attentati continentali del ’93 erano serviti per minacciare lo Stato: la finalità era di piegarlo e avere, magari, dei benefici. La Storia ci dice che lo Stato non solo non si è piegato, ma ha reagito con determinazione. Infatti, ribadiamolo, il reato, per la Corte d’appello, è di “tentata minaccia”. Sicuramente è una grande sconfitta per la Procura generale di Palermo. Non è la prima in realtà. C’è Roberto Scarpinato che ha concluso la propria carriera da capo procuratore generale con una chiara decostruzione del suo impianto accusatorio. Crolla, di fatto, pesantemente la tesi giudiziaria portata avanti da decenni. Ovviamente si dirà che la trattativa c’è stata, perché la Corte d’appello dice che il fatto non costituisce reato. Che i Ros abbiano instaurato un dialogo con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, nessuno l’ha mai messo in dubbio. Gli stessi Ros non l’hanno mai nascosto. Lo sapeva Paolo Borsellino (del tentativo di dialogo con Ciancimino, e non ebbe alcunché da dire), lo sapeva la dottoressa Liliana Ferraro, lo sapeva la stessa Procura di Palermo presieduta da Caselli. Un dialogo volto alla cattura dei latitanti. Pensare che Totò Riina abbia interpretato tale dialogo come un patto per avere i benefici, non solo non è dimostrato, ma sarebbe addirittura esilarante. Quindi sì, che i Ros abbiano “trattato” con Ciancimino è un fatto oggettivo: se li avesse aiutati a risalire ai latitanti, avrebbero protetto le loro famiglie. Come può costituire reato tale fatto? Resta il nodo di Cinà, il medico di Riina, colui che ha fatto da ambasciatore. Si aprono diversi scenari. Ovviamente è da escludere il fatto che abbia veicolato il famoso papello, visto che non c’è una sola prova che ne dimostri l’esistenza. Molto più probabile, ma saranno le motivazioni a svelare l’arcano, che abbia bluffato, e questo potrebbe essergli costato chiaro. Ma siamo nel campo delle ipotesi e solo le motivazioni potranno fare chiarezza. L’esito non era scontato. La Corte d’appello è riuscita a non farsi travolgere da uno tsunami mediatico senza precedenti. Messa in onda del film della Guzzanti, tra l’altro datato e superato, due trasmissioni televisive in prima serata e le relative repliche, grandi giornali, convegni promossi da associazioni di destra e di sinistra. Una narrazione unica che non ha eguali. Eppure, i giudici della Corte hanno resistito e applicato il diritto. Valutare le prove, studiare le carte, prendere in considerazione le altre sentenze (non solo quella di Mannino) che hanno già decostruito la tesi della trattativa. Non parliamo di sprovveduti. C’è il giudice Angelo Pellino che ha dimostrato nel passato di essere molto scrupoloso. Basterebbe leggere le motivazioni della sentenza del processo Mauro Rostagno. Dove ha analizzato tutte le piste possibili, comprese quelle più fantasiose, vagliato ogni testimone. Un documento che si legge con facilità, perché la verità è sempre quella più semplice. Attenzione, semplice ma indicibile nel contempo. L’assoluzione nei confronti degli ex ros Mario Mori e Giuseppe De Donno è anche un omaggio a Falcone e Borsellino. O meglio, viene ristabilita la loro dignità. Tutte e due si fidavano ciecamente dei due carabinieri. De Donno era il braccio destro di Falcone: con il verbale recentemente desecretato, ora sappiamo che non solo aveva parlato dell’indagine su mafia e appalti, ma che davanti alla commissione Antimafia aveva voluto sottolineare la loro professionalità. Borsellino si è visto con gli ex Ros riservatamente, si fidava così tanto che aveva detto loro di riferire solo a lui. Ora la coraggiosissima sentenza di secondo grado ci dice che i due giudici uccisi dalla mafia, hanno fatto bene a fidarsi. Non erano stati ingenui.

La sentenza d'Appello a Palermo. Trattativa Stato-Mafia, tutti assolti: crolla il castello di accuse contro Dell’Utri, Mori e De Donno. Redazione de Il Riformista il 23 Settembre 2021. Tutti assolti. La Corte d’assise d’Appello di Palermo ha infatti ribaltato la sentenza di primo grado del processo sulla cosiddetta ‘Trattativa Stato-Mafia‘: assolti gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, accusati di minaccia a corpo politico dello Stato, quasi tutti condannati a 12 anni di reclusione in primo grado di giudizio (De Donno otto). I giudici palermitani, che si sono chiusi in camera di consiglio lunedì 20 settembre, hanno dichiarato prescritte le accuse al pentito di mafia Giovanni Brusca. Pena ridotta per il boss Leoluca Bagarella, confermata invece quella a 12 anni per il capomafia Nino Cinà. Questa dunque la decisione del collegio presieduto da Angelo Pellino a tre anni e mezzo di distanza dalla sentenza di primo grado che il 28 aprile 2018 condannò gli ex ufficiali del Ros e l’ex senatore berlusconiano. Respinte le richieste dei sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera: “Aspettiamo le motivazioni e leggeremo il dispositivo”, ha detto laconicamente il primo dopo le assoluzioni eccellenti arrivate nel processo. Gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno sono stati assolti con la formula perchè il “fatto non costituisce reato“, mentre Dell’Utri “per non aver commesso il fatto“. Nei confronti di Bagarella il reato è stato riqualificato in tentata minaccia a corpo politico dello Stato, dichiarando le accuse parzialmente prescritte e comportando una lieve riduzione della pena, passata da 28 a 27 anni. Nel corso del dibattimento era già dichiarata prescritta la condanna di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito e “supertestimone” del processo, che in primo grado aveva avuto 8 anni per aver calunniato l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. “E’ un’assoluzione di cui io e il collega che difende Giuseppe De Donno siamo stati sempre convinti. Finalmente la verità è venuta fuori a costo di sacrificio e di grande lavoro”, ha commentato la sentenza l’avvocato Basilio Milio, legale del generale Mario Mori. Una sentenza che stabilisce che la trattativa “non esiste, è una bufala, un falso storico”. “Siamo felici perché il nostro assistito è stato dichiarato estraneo a questa imputazione, dopo 25 anni di processi, in relazione al periodo successivo al “94”, “festeggia l’avvocato Francesco Centonze, legale che assieme a Francesco Bertorotta e Tullio Padovani  ha difeso l’ex senatore Dell’Utri nel corso del processo in corso a Palermo. “Evidentemente non è stato il trait d’union tra la mafia e la politica”, non manca di sottolineare il legale del cofondatore di Forza Italia. Per la cosiddetta ‘Trattativa Stato-Mafia’ era già stato processato separatamente e assolto definitivamente con rito abbreviato l’ex ministro DC Calogero Mannino, accusato di violenza e minaccia a corpo politico dello Stato.

Crolla, come già accaduto durante il processo a Mannino, il castello accusatorio e la ricostruzione di quegli anni da parte dei magistrati palermitani secondo cui gli ufficiali del Ros, tramite l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, avviarono con Cosa Nostra un ‘dialogo’ per interrompere la stagione delle stragi di mafia. Sul piatto nei confronti dei mafiosi ci sarebbero state concessioni ai mafiosi detenuti al 41bis e l’alleggerimento dell’azione ‘militare’ contro Cosa Nostra. Dopo il 1993 sarebbe stato Marcello Dell’Utri a fare da “cinghia di trasmissione” tra i clan e gli interlocutori istituzionali. Una ricostruzione che la sentenza d’Appello fa cadere.

IL DISPOSITIVO DELLA SENTENZA – Ecco il testo del dispositivo del processo di Appello pronunciato dalla Corte di assise di Appello di Palermo: “In parziale riforma della sentenza emessa dalla Corte di assise di Palermo in data 20 aprile 2018 – si legge – assolve De Donno Giuseppe, Mori Mario e Subranni Antonio dalla residua imputazione a loro ascritta per il reato di cui al capo A, perché il fatto non costituisce reato. Dichiara – prosegue il dispositivo – non doversi procedere nei riguardi di Bagarella Leoluca Biagio, per il reato di cui al capo A, limitatamente alle condotte commesse in pregiudizio del governo presieduto da Silvio Berlusconi, previa riqualificazione del fatto… come tentata minaccia pluriaggravata a corpo politico dello stato, per essere il reato così riqualificato estinto per intervenuta prescrizione. E per l’effetto ridetermina la pena nei riguardi di Bagarella in anni 27 di reclusione. Assolve Dell’Utri Marcello dalla residua imputazione per il reato di cui al capo A, come sopra riqualificato, per non avere commesso il fatto e dichiara cessata l’efficacia della misura cautelare del divieto di espatrio già applicata nei suoi riguardi”.

La Corte ha revocato le statuizioni civili nei riguardi degli imputati De Donno, Mori, Subranni e Dell’Utri e rideterminato in 5 milioni di euro l’importo complessivo del risarcimento dovuto alla Presidenza del Consiglio dei ministri. La Corte d’assise “conferma nel resto l’impugnata sentenza anche nei confronti di Giovanni Brusca e condanna gli imputati Bagarella Cinà alla rifusione delle ulteriori spese processuali in favore delle parti civili (Presidenza del Consiglio dei ministri, presidenza della regione siciliana, comune di Palermo, associazione tra familiari contro le mafie, centro Pio La Torre”.

La Corte d'appello scagiona carabinieri e Dell'Utri. La trattativa Stato Mafia non c’è stata, finita la caccia alle streghe. Piero Sansonetti su Il Riformista il 24 Settembre 2021. Datemi retta, segnatevelo questo giorno: 23 settembre 2021. La sentenza di Palermo farà storia. Forse è finita la caccia alle streghe. È durata tanto, tanto, troppo. L’hanno guidata dei Pm pasticcioni, alcuni anche in buonafede, e un bel po’ di giornalisti spregiudicati al loro servizio. È stata il pilastro sul quale hanno costruito quella “società antimafia” che della mafia non sapeva niente ma sapeva fare affari economici e profitti politici, e giudicava, e metteva al ghetto, e condannava e puniva e faceva le liste di proscrizione, e si impanicava, e vendeva etica a prezzi vantaggiosissimi. Segnatevelo il 23 settembre. Forse è finita la storia dei processi costruiti per realizzare show politici. E il ripetersi periodico delle trasmissioni della Rai e della Sette realizzate senza nessun rispetto per la verità. Fondate sulla calunnia, sul falso, sull’isteria. I Santori, i Travagli, i Purgatori, i Ranucci: adesso dovranno osservare un po’ di silenzio, forse. Non potranno più mettersi sul petto la medaglia di chi ha infilzato Marcello Dell’Utri e il valoroso generale Mori, e li ha sputtanati, e ha denunciato la loro amicizia coi mafiosi che non c’è mai stata.  Avranno qualche scrupolo in più a calunniare. Forse si sta chiudendo proprio la stagione della repubblica mediatico giudiziaria, quella iniziata nel ‘92, trent’anni fa, e poi cresciuta, cresciuta, cresciuta. Quella che ha travolto la politica, la democrazia, la libertà, la vita vissuta di centinaia di persone per bene. Forse sta facendo capolino di nuovo il diritto. Poi nei prossimi giorni avremo il tempo per elencare la lunga teoria di vittime innocenti. Anche quelli che non ci sono più, molti. Quelli che hanno pagato con la vita la furia dei linciatori. La sentenza pronunciata ieri pomeriggio dalla Corte d’Assise d’appello di Palermo è importantissima. Non perché ci fossero molti dubbi su questa storia della trattativa Stato-mafia. Chiunque si fosse occupato un po’ della questione e disponesse di qualche neurone nel cervello e di un po’ di onestà intellettuale dentro al sangue, sapeva benissimo come stavano le cose. Sapeva che non c’è mai stata questa trattativa. Che i carabinieri di Mori, che erano la punta di lancia della squadra di Falcone e Borsellino, avevano avvicinato i mafiosi solo per arrestarli. E per beccare Riina, latitante imprendibile da decenni. E lo avevano preso. E sapevano che Marcello dell’Utri con tutto questo non c’entrava niente di niente. Non solo non c’era una prova che è una della loro colpevolezza. C’erano montagne di prove a discarico. Contro di loro solo le parole folli di due farabutti noti come Salvatore Brusca e Massimo Ciancimino. Brusca è un assassino seriale, Ciancimino un calunniatore grossolano portato sugli scudi e in Tv da Michele Santoro e solo per questo considerato attendibile. Del resto tutto quello che sto scrivendo era stato affermato in modo solenne in almeno tre processi, nei quali Mori era stato ampiamente assolto, insieme al generale Subranni e al colonnello De Donno. E poi era stato assolto, dopo anni di carcere e di persecuzioni anche Calogero Mannino, ex ministro Dc, che era stato indicato come il capo della trattativa. Alla fine pure i Pm, credo, si erano un po’ convinti di aver preso una cantonata. Ma andavano avanti a testa bassa, testardi, tenaci, convinti che comunque, alla fin fine, specialmente in un processo così politico, l’accusa avrebbe avuto ragione perché è suo diritto avere ragione. E così è stato in primo grado: una sentenza demenziale, fondata sull’acqua fresca, aveva condannato Mori e De Donno e Subranni e Dell’Utri a pene fino a 12 anni. Follia. Poi però c’è stato l’appello e nonostante il tentativo di influenzare la corte con varie trasmissioni Tv, degne di un paese a diritto zero, persino trasmissioni del servizio pubblico, anche recenti, i giudici hanno serenamente riconosciuto che le accuse erano solo un castello pazzo da eliminare al più presto. Hanno raso al suolo le accuse. C’è una domanda che è impossibile non porsi. Perché la Procura di Palermo, e poi la Procura generale, hanno voluto costruire questa mostruosità?

Io penso che ci siano tre ragioni, che si sono intrecciate e sommate. Una politica, una giudiziaria, una di costume.

Quella politica ha un cognome e un nome: Berlusconi Silvio. La teoria della trattativa aveva quell’obiettivo lì: colpire Berlusconi. Che quando è iniziata questa corsa folle era Presidente del Consiglio. Era molto potente e il suo partito era il primo partito in Italia. L’idea che si fecero Pm e giornalisti è che la trattativa potesse in qualche modo coinvolgere Berlusconi. Ricordo, ancora dopo la sentenza di primo grado, quindi nel 2018 (quando era ormai chiaro a tutti che la trattativa non c’era stata) uno scontro furibondo che ebbi in Tv con un giornalista del Fatto il quale sosteneva che comunque Berlusconi aveva delle responsabilità oggettive. Del resto, ancora ieri il Fatto Quotidiano, in attesa della sentenza di appello, ha pubblicato un lungo articolo sull’ipotesi dei rapporti tra Berlusconi e la mafia. Nell’articolo, per la verità, era del tutto smentita, anche con un certo segno, la tesi del titolo. Ma il titolo era quello. La forza del processo è sempre stata politica: l’antiberlusconismo e la convinzione che prima o poi fosse possibile coinvolgere Berlusconi. Chi ha fatto le spese di questa tendenza è stato naturalmente Marcello Dell’Utri, individuato come l’anello debole del berlusconismo e aggredito con una vera e propria, lunga, feroce persecuzione.

La seconda ragione è quella giudiziaria. I magistrati che entrarono in azione dopo l’uccisione di Falcone, e poi di Borsellino, nel 1992, non erano tutti preparatissimi. Alcuni, molto probabilmente, erano anche corrotti. Almeno, questo è quello che pensavano Falcone e Borsellino. E così commisero degli errori tragici. La maggior parte di loro li commise involontariamente. L’errore più noto è stato quello di credere al falso pentito Scarantino, che raccontò una montagna di balle su l’uccisione di Borsellino e della scorta, sviò le indagini, nonostante gli ammonimenti della Ilda Boccassini che diceva: “non gli credete, non gli credete…” e rese praticamente impossibile l’accertamento della verità. Il secondo errore macroscopico fu l’archiviazione del dossier “mafia- appalti” preparato dall’allora colonnello Mori, insieme a Falcone, e che scoperchiava il vaso di Pandora dei rapporti di Cosa Nostra con le imprese del Nord. Borsellino chiese di poter lavorare lui a quel dossier, ma Scarpinato (oggi Procuratore generale di Palermo, cioè capo della Procura che è stata sconfitta dalla difesa di Mori e Dell’Utri) e Lo Forte chiesero l’archiviazione, pochi giorni prima della morte di Borsellino (che non sapeva di questa richiesta) e la ottennero pochi giorni dopo l’eccidio di via D’Amelio. Probabilmente Mori è stato messo in mezzo in questo folle processo, anche per quella colpa. Lui è stato uno dei pochi che la lotta alla mafia l’ha fatta davvero, che la sapeva fare, che portava i risultati. Dava molto fastidio, andava stangato. Gli hanno rovinato la vecchiaia, ma non sono riusciti a stangarlo. Mori è una roccia. Piccolo, magro magro, ma fatto di fil di ferro. Ha sconfitto le Brigate Rosse, ha dato un colpo micidiale alla mafia e ora ha sconfitto anche i calunniatori. Complimenti, generale.

La terza ragione è quella che ho definito di costume. Cosa intendo dire? Intorno a questo processo si è costruita tutta la leggenda dell’antimafia militante, quale alimentata da persone varie, politici, molti giornalisti, moralizzatori di vario genere, tutta gente che di mafia non sa nulla e che alla mafia non ha mai torto un capello, ma che sa far spettacolo, sa mostrarsi pura, sa indicare gli impuri da mettere sul rogo insieme a Giordano Bruno. Rinunciare alle teorie del processo Trattativa, mollare la presa su Dell’Utri e Mori sarebbe stato un colpo di immagine molto forte. E avrebbe colpito al cuore una organizzazione che oggi ha un enorme potere politico, che condizione e intimidisce intellettuali e giornalisti, e intorno alla quale ruota anche un discreto giro d’affari.

Bene: 23 settembre. Tutta questa storia è finita. Un giudice serio, una Corte d’assise onesta hanno scritto la parola fine. Dai, che forse possiamo anche cominciare a lavorare per restituire a questo paese una magistratura. Una magistratura, dico. Non quella raccontata da Palamara, non un centro di poteri e di inguacchi e di persecuzioni e di torbidi accordi. No: dico una magistratura vera.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Chiudiamo gli anni dell'inquisizione. Mario Mori sia nominato senatore a vita, la proposta a Mattarella per risarcire uno straordinario servitore dello Stato. Piero Sansonetti su Il Riformista il 25 Settembre 2021. Il generale Mario Mori è il vero trionfatore del processo di Palermo. Gli sconfitti sono moltissimi. In primo piano la Procura di Palermo, la procura generale di Palermo, gran parte del giornalismo italiano. Vogliamo fare qualche nome? Non è mai una cosa graziosa fare i nomi, però un po’ di chiarezza serve. Nino Di Matteo, Antonio Ingroia, Roberto Scarpinato, Marco Travaglio, Andrea Purgatori, Sigfrido Ranucci, Michele Santoro. Di alcuni di queste persone sono perfino quasi amico, di altri (non di tutti) ho una certa stima. Però c’è poco da discutere. Alcuni di loro hanno clamorosamente sbagliato, e i loro sbagli sono costati carissimi (anche la vita) a diversa gente rispettabile. Altri si sono approfittati delle balle sulla trattativa per farsi pubblicità e per fare soldi. Difficile smentirmi. Per prima cosa però vorrei parlare di Mario Mori. Generale dei carabinieri. Da quando sono piccolo ho sempre avuto questo difetto: non amo i carabinieri. Tendo, anzi, a considerarli sbirri. Però la faziosità ha un limite. Mario Mori è un uomo che da giovane ebbe un ruolo decisivo nella sconfitta della lotta armata. Uno può giudicare come vuole i suoi metodi e le sue azioni “di guerra”. Però quella guerra la vinse e raramente ho sentito dire dell’establishment, o nella magistratura, o nei partiti, o nei giornali di ogni colore e tendenza, che fu sbagliato dare la caccia alle Br. Mori è anche uno degli uomini che nella sua maturità lavorò con Falcone e Borsellino e diede guerra alla mafia. È uno dei pochi, tra i viventi, che davvero diede guerra alla mafia e vinse perdipiù molte battaglie. Spalleggiò Falcone, preparò un dossier (poi gettato alle ortiche da una magistratura cieca) che scopriva gli altari dei rapporti tra Corleonesi e imprese del Nord, catturò Riina e diversi altri capi mafia, creò le condizioni per l’arresto di Provenzano. Voi spesso sentite la Bindi, o Travaglio, o Di Matteo, o quelli di “Libera” o di varie associazioni antimafia, o addirittura Nicola Morra, parlare con molta retorica di lotta alla mafia. Però, tutti costoro, alla mafia non hanno mai torto un capello. Né hanno mai rischiato che qualcuno torcesse un capello a loro. Mario Mori ha rischiato la vita per anni e ha inferto alla mafia colpi micidiali. Infine, da anziano, Mario Mori è stato preso di mira dalla Procura di Palermo, e poi dalla procura generale, e poi da quasi tutti i giornali, ed è stato mandato non so più se quattro o cinque volte a processo sempre con la stessa accusa: quella di aver trattato con le cosche e di aver concesso loro qualcosa. Qual è il motivo di queste accuse assolutamente infondate? In parte, probabilmente, l’invidia. In parte forse anche il disegno un po’ arzigogolato di arrivare a Berlusconi. In parte più semplicemente una scarsissima abilità professionale. Mori è un grande investigatore. Aveva metodi complessi e seri di investigazione, sperimentati e studiati con professionisti di primissimo ordine: Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino. I Pm che hanno indagato su di lui non avevano la minima idea di come si dovesse svolgere un’indagine, dei trucchi, delle trappole, dei sistemi sofisticati di investigazione. Conoscevano poco e niente della mafia. Avevano, molti di loro, creduto a falsi pentiti, a depistatori. Non avevano strumenti tecnici e intellettuali per misurarsi con un gigante come il piccolo carabiniere d’acciaio venuto dal Nord ma che conosceva la Sicilia assai meglio di loro. Così è successo che Mario Mori è stato perseguitato. In modo clamoroso, spettacolare. Il più tenace e intelligente combattente antimafia è stato processato con l’accusa di essere amico dei mafiosi. Il servitore incorruttibile dello Stato è stato accusato di attentato allo Stato. Per anni e anni. Trascinato nel fango da decine di giornalisti che non avevano capito un fico secco, indicato come il bersaglio da colpire per i Giusti (e guardate che sono migliaia e migliaia i farabutti che si impancano a giusti). E solo dopo molti anni, l’altra sera, è stato definitivamente assolto. Ora speriamo che la Procura generale abbia il pudore di non insistere e di non ricorrere in Cassazione. Anche per evitare un nuovo schiaffo in faccia. Sono ormai almeno quattro le Corti che hanno stabilito che la trattativa non c’è mai stata: hanno assolto Mannino, Mancino, Dell’Utri, Mori, Subranni, De Donno e svariati altri innocenti. Sono milioni gli euro che son stati buttati via per questa che è l’inchiesta più fantasiosa della storia della Repubblica: è ora di mettere la parola fine. Anche per rispetto verso le vittime della mafia. A partire da Falcone e Borsellino, dei quali Mori è stato il braccio destro. E a questo punto noi del Riformista ci rivolgiamo a Mattarella, un presidente che spesso abbiamo criticato e spesso applaudito. Presidente, faccia un gesto che riscatti lo Stato, il cui prestigio è macchiato dal processo ingiusto a Mori. Nomini Mori senatore a vita. Dimostri che lo Stato sa essere equo e riconoscente con le persone che allo Stato hanno dedicato la propria vita. Mori se lo merita questo riconoscimento.

Dell’Utri. Marcello Dell’Utri ha ottenuto una assoluzione piena. Pensate che il comitato di redazione del Corriere della Sera, appena qualche giorno fa, si è indignato e ha protestato con il direttore perché non aveva impedito la pubblicazione di un annuncio di auguri a Dell’Utri per i suoi ottant’anni. Il Cdr del Corriere ritiene che Dell’Utri sia una persona sub-umana che non ha diritto che i suoi amici gli facciano gli auguri. Più che un sindacato sembra una sezione dell’Inquisizione. Beh, la Corte ha detto che Dell’Utri è totalmente innocente. Del-tut-to. Il Comitato di redazione del Corriere invierà al suo direttore una lettera di ritrattazione della lettera precedente? Sia chiaro: l’ex senatore Dell’Utri è stato vittima anche lui di un linciaggio. Anni alla gogna. E poi cinque anni in galera accusato di un reato che non esiste. “Concorso esterno in associazione mafiosa”. Una specie di insulto alla lingua italiana e alla logica formale. In particolare cosa gli imputano? Di avere accettato, negli anni ottanta, un ricatto della mafia. Spiego meglio: lo accusano di essere stato vittima della mafia. E quindi mafioso? Le vie della logica -dicevamo – sono infinite. e abbastanza aggrovigliate. Infatti, non trovando nessun reato nel comportamento di Dell’Utri, gli hanno appioppato quel reato lì, scombiccheratissimo: concorso esterno in associazione. Roba da psichiatri. La Corte europea però ha stabilito che questo reato scombiccherato può anche essere preso in considerazione, ma comunque non prima del 1992. I fatti attribuiti a Dell’Utri sono degli anni ottanta. Difficilmente Dell’Utri sarebbe stato condannato in modo così irragionevole se non fosse stato imputato anche per la trattativa. Ditemi quello che vi pare, ma a me sembra che meriti delle scuse. dai giudici? Direi di sì, ma soprattutto da un discreto numero di giornalisti.

Travaglio. Il povero Marco, certo, ha preso una tranvata. Non se l’aspettava. Ieri, sul suo giornale, ha dato la notizia della clamorosa assoluzione di tutti, che seppellisce le sue tesi, i suoi spettacoli teatrali, gli show in televisione, i libri, centinaia di articoli e titoli e calunnie e calunnie e calunnie, inventandosi una tesi davvero originale: i giudici hanno assolto Mori e dunque mi hanno dato ragione. la trattativa c’è stata. Che è un po’ come se l’allenatore della Sampdoria, l’altra sera, dopo aver perso quattro a zero col Napoli, avesse dichiarato: la partita ha dimostrato che la Sampdoria è molto più forte del Napoli. Travaglio sostiene che la Corte ha stabilito che la trattativa c’è stata visto che ha assolto Mori perché “il fatto non costituisce reato”. Dice Travaglio: ah, vedi che allora il fatto c’era! Già, Marco, ma il fatto non era la trattativa. Ti spiego bene (magari chiedi anche qualche consiglio ai tuoi editorialisti, che la faccenda la conoscono bene, per esempio Scarpinato…): Il fatto non era la trattativa. Erano le indagini attraverso le quali Mori e i carabinieri cercarono (con successo) di catturare Totò Riina. In questo lavoro presero anche contatto con l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, che era organico alla mafia. E con lui trattarono l’arresto di Riina. È chiaro? Mori non trattò con Riina, Mori arrestò Riina. Sono due cose molto diverse. Arrestare Riina non è reato. E fronteggiò le minacce che, armi e dinamite alla mano, la mafia rivolgeva contro lo Stato. Non è difficilissimo da capire. Anche se i Pm e i giudici di primo grado non l’hanno capito. Lo avevano capito però moltissimi altri tribunali che ripetutamente avevano assolto Mannino e Mori spiegando chiaro chiaro che la trattativa non c’era stata. E anche Dell’Utri non c’entrava niente. Se non altro per la semplice ragione che il governo Berlusconi non concesse nulla di nulla alla mafia, e anzi inasprì il 41 bis. Tu scrivi che Berlusconi fece tre concessioni alla mafia con il decreto Biondi (che poi non fu mai varato). Marco: non è vero. Te l’avrà raccontato qualche sostituto poco informato, ma è una notizia del tutto falsa come quella che l’ivermectina cura il covid. Il decreto Biondi non concedeva niente alla mafia. 

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Parla l'ex del Pool. Il vice di Falcone rade al suolo il processo Stato mafia, per Peppino Di Lello è stato “un romanzone”. Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Ottobre 2021. «Mi chiedi come ha reagito la città alla sentenza di appello del processo “Trattativa”? Direi con totale indifferenza. Gli unici che si sono fatti notare sono stati alcuni garantisti ritardatari. In prima fila quelli del Pd». Comincia così l’intervista che Andrea Fabozzi ha realizzato con Peppino Di Lello e che è stata pubblicata ieri sul manifesto. Forse molti di voi non sanno chi è Peppino Di Lello. Ve lo dico io: uno dei più capaci e coraggiosi magistrati italiani degli anni 70 e 80. Che indagò seriamente sulla mafia, senza strombazzare, senza narciserie, senza chiacchiere. E che ha messo sul piatto veramente la sua vita, senza retorica perché allora a fare il magistrato che si occupava di mafia la vita la rischiavi davvero, non per modo di dire. C’erano almeno 50 probabilità su cento, forse di più, di restare ucciso. Di Lello lavorava con Rocco Chinnici, che fu assassinato nel 1983. E poi entrò a far parte del famoso pool messo in piedi da Antonino Caponnetto. In quel pool erano pochi pochi: quattro. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Peppino Di Lello. Politicamente molto distanti, ma molto vicini nella loro idea di giustizia, di indagine e anche di ruolo del magistrato. Non conosco quale fosse l’orientamento politico di Guarnotta, so che Falcone era su posizioni di centrosinistra, Borsellino di centrodestra, Di Lello di estrema sinistra. Quando lasciò la magistratura, Di Lello, dopo la morte di Falcone e Borsellino, partecipò a un paio di tornate elettorali con Rifondazione Comunista, e fu eletto una volta, credo, al Parlamento europeo e un’altra volta al Senato. Personalmente lo ho conosciuto nei primi anni di questo secolo in un luogo molto lontano da qui: a Porto Alegre, dove si radunavano i giovani (ma anche qualche vecchietto) convinti che fosse giusto combattere il dominio capitalista e liberista sulla globalizzazione. Peppino pensava che avessero ragione. Anche io, che all’epoca lavoravo per l’Unità, e che conoscevo Di Lello per la sua fama, perché negli anni 80 mi ero occupato di mafia, ma non sul campo: da Roma. Prima di passare alla politica, Di Lello ha lavorato a lungo, e soprattutto ha lavorato al famoso maxiprocesso, quello nel quale Giovanni Falcone sferrò una mazzata mortale sul gotha della mafia. Capite bene che Di Lello, sempre molto contrario alla pubblicità, è uno di quelli che se vi parla della mafia, e soprattutto delle storie di quegli anni, ve ne parla perché sa. Conosce, ha visto, ha indagato, ha saputo, ha studiato. Ho scritto “uno di quelli”, ma sarebbe più giusto scrivere “uno dei pochissimi”. Oggi sembra che tutti erano allievi di Falcone nel pool, ma non è vero. Perciò mi pare che l’intervista al manifesto sia importantissima, e ne copio qui, per i nostri lettori, ampi stralci:

Chiede Fabozzi: “Al romanzone trattativa», come lo hai definito in un tuo pezzo, manca solo il capitolo finale della Cassazione. Dopo le assoluzioni della Corte di assise di appello i sostenitori delle tesi della procura spiegano che la sentenza riconosce comunque che una trattativa c’è stata. I carabinieri l’hanno condotta, anche se non è stata riconosciuta come reato. Sei d’accordo?

“Per niente. Non dobbiamo dimenticare – risponde Di Lello – qual era la tesi della pubblica accusa: che la politica, cioè Calogero Mannino, avrebbe avviato la trattativa per interesse personale, cioè salvarsi la pelle. E questo avrebbe indotto i mafiosi ad accelerare sempre le stragi proprio per avere più morti e più forza contrattuale con lo Stato. Le concessioni alle quali i mafiosi puntavano erano l’abolizione del carcere duro, la restituzione dei patrimoni e la revisione dei processi. Bene. Non solo tutto questo non c’è stato, ma addirittura è stato il governo Berlusconi a inasprire alcune misure. Stabilizzando 41-bis nell’ordinamento penitenziario e allargando, con l’aiuto della Cassazione, lo spettro dei sequestri e delle confische. Di revisione dei processi non si è mai parlato. Quando io, adesso, leggo i tifosi della procura di Palermo raccontare che sì, è vero, magari nell’immediato non ci furono concessioni dello stato di fronte alle richieste dei boss, ma poi più avanti… Ma quando mai! Non si allargò proprio niente. I mafiosi volevano indietro la roba, i soldi, e volevano la cancellazione degli ergastoli. Non si può spacciare l’alleggerimento del carcere duro per un po’ di mafiosi di mezza tacca, deciso da Conso anche perché al 41 bis c’era ormai un numero esagerato di detenuti, per chissà quale concessione. Non scherziamo. La sentenza di appello ha completamente smantellato l’impianto accusatorio, del resto incoerente dal principio. Se fossero state vere quelle accuse, allora, dal punto di vista logico, carabinieri e politica andavano imputati di concorso nelle stragi visto che avrebbero rafforzato in Cosa nostra la convenienza di fare attentati. (…)

“Io credo che nel processo di primo grado abbia pesato molto la mancata perquisizione del covo di Riina da parte dei Ros. Questo fatto non c’era nel processo Trattativa, ma sicuramente ha fischiato nelle orecchie dei giudici popolari. Come una specie di prova che qualcosa da nascondere nei rapporti tra polizia giudiziaria e cupola mafiosa in fondo c’era. La grande contraddizione della procura di Palermo è che al termine delle indagini sulla mancata perquisizione del covo, un episodio accaduto all’interno del periodo in cui ci sarebbe stata la trattativa, ha sempre chiesto l’archiviazione. E stata la gip a imporre il giudizio, al termine del quale i pm hanno chiesto l’assoluzione. (…)

“Ci sarà stata un’operazione di polizia giudiziaria, anche spregiudicata, da parte dei carabinieri che cercavano innanzitutto di mettere le mani su Riina. Non hanno informato chi di dovere? Male, ma non facciamo finta di scoprire solo adesso come si muovono abitualmente i corpi militari di polizia giudiziaria. Qualcuno si ricorda del generale Dalla Chiesa che consegna il memoriale di Moro direttamente ad Andreotti invece che al procuratore della Repubblica? Certo, è così, i Ros in particolare sono molto autoreferenziali. (…)

“Quello che oggi possiamo dire, aspettando la Cassazione, è che la ricostruzione della procura di Palermo è stata smentita dalla sentenza di appello. La storia adesso è questa. Ovviamente, e non ci sarebbe bisogno di dirlo, questo esito non mette in discussione la profondità dei rapporti che ci sono sempre stati tra mafia e politica e anche tra la mafia e i corpi di polizia. Ma non è con i romanzi che li si combatte. In questo processo la condanna etica del concetto di trattativa ha preceduto quella penale. Ti domando: la relazione che lo Stato cerca con i collaboratori di giustizia non è essa stessa una trattativa? Certamente, è una trattativa istituzionalizzata, codificata. E ha consentito molti successi nella lotta alla mafia. Ricordo che Tommaso Buscetta mise immediatamente, già nei primissimi colloqui con Falcone, le mani avanti. Disse: ‘Io di me non parlerò mai’. E infatti non disse nulla dei suoi traffici di droga e dei suoi omicidi. E purtuttavia la sua è stata una collaborazione fondamentale, com’è noto a tutti per la storia del maxi processo. Anche quella fu una trattativa. Gli dicemmo: “Va bene Buscetta, dei fatti tuoi non parliamo e andiamo avanti. Dicci tutto quello che sai su tutto il resto”. (…)

Chiede allora Fabozzi: in questi giorni la figlia di Paolo Borsellino, Fiammetta, ha detto: mio padre non pubblicizzava le sue inchieste e non avrebbe gradito il clamore mediatico che c’è stato attorno al processo Trattativa. Come andavano le cose ai vostri tempi?

“Con i giornalisti parlavamo pochissimo. Non abbiamo quasi mai fatto conferenze stampa o comunicati stampa. Ma la differenza fondamentale è che allora non si organizzavano eventi di sostegno al processo e certo noi non vi avremmo partecipato. Negli ultimi anni, durante la lunga inchiesta e il lungo processo Trattativa, abbiamo assistito a scene da vergognarsi. I teatri con gli striscioni per i magistrati inquirenti, le raccolte di firme, le trasmissioni televisive in cui sono stati perennemente ospiti. Oggi Ingroia che condanna la spettacolarizzazione dell’inchiesta mi fa ridere. Come se lui non c’entrasse niente. Era persino sul palco, alla festa del Fatto quotidiano, quando fischiarono il presidente della Repubblica Napolitano. C’erano lui e Di Matteo ed erano entrambi magistrati in servizio. A proposito di esaltazione, a un certo punto in tv Di Matteo ha accusato l’ex ministro Bonafede, suo grande fan, di aver ceduto anche lui a una specie di trattativa per non averlo promosso al ministero. Disse che Bonafede si era piegato alla richiesta dei boss. E io ho scritto che se era vero si doveva dimettere Bonafede, ma se non era vero si doveva dimettere Di Matteo dal Csm. Non abbiamo saputo più niente e tutto è passato in cavalleria. Anche io ho partecipato a qualche dibattito sul processo trattativa e mi pento amaramente, i miei dubbi e le mie osservazioni critiche sono finite travolte e Di Matteo è stato esaltato come l’idolo dell’Italia”

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

La figlia di Borsellino: «Processo pompato mediaticamente, mio padre non l’avrebbe mai permesso». Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso da Cosa Nostra, accusa i pm di aver pompato mediaticamente la presunta trattativa "Stato-mafia". Il Dubbio il 24 settembre 2021. In un’intervista rilasciata a caldo all’Adnkronos, Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, ucciso nella strage di via D’Amelio, a Palermo, nel lontano 1992, a distanza di pochi mesi, dalla scomparsa di Giovanni Falcone, esprime tutte le sue perplessità sulla presunta trattativa “Stato-mafia”, criticando duramente i pm che aprirono le indagini. «Io non li ho mai assolti gli ufficiali dei Carabinieri ma ho avuto sempre molti dubbi, dubbi che oggi sono stati confermati dalla giustizia con la sentenza di appello. E poi ho ritenuto scorretto pompare mediaticamente un processo da parte di chi è titolare, prima ancora che questo processo avesse concluso le fasi di giudizio, un comportamento scorretto che mio padre non avrebbe mai approvato». «Si è assistito a un lancio mediatico del processo trattativa – ha detto Fiammetta Borsellino – fin dal suo inizio, quando veniva pubblicizzato con i libri. Quando non era concluso neppure il primo grado. Altro punto di critica enorme, insieme con gli altri. Ripeto, purtroppo io i miei dubbi su questa operazione li avevo espressi fin dall’inizio. La grande amarezza è che queste energie investigative dedicate al processo trattativa potevano essere indirizzate verso delle piste che, secondo me, volutamente non si sono percorse. Ancora una volta – ha aggiunto – siamo di fronte al fatto che si sono seguite piste inesistenti quando da sempre abbiamo ribadito che bisognava approfondire quel clima che mio padre viveva dentro la Procura di Palermo». Secondo Fiammetta Borsellino «si doveva approfondire il filone dei dubbi e del senso di tradimento che mio padre manifestò parlando a mia madre dei colleghi, il perché non si è voluto indagare sul Procuratore Giammanco. Secondo noi queste erano le piste su cui si doveva indagare, non altre…”». Qualcuno sostiene che la trattativa accelerò la morte di Paolo Borsellino? «Per noi l’accelerazione è stata data dal dossier mafia e appalti ma non lo dice la mia famiglia – dice ancora Fiammetta – lo dice il processo Borsellino ter, che l’elemento acceleratore è stato il dossier mafia e appalti che è stato archiviato il 15 luglio, cioè pochi giorni prima della strage. Nonostante mio padre il 14 luglio avesse chiesto conto e ragione del perché a quel dossier non venisse dato ampio respiro. Un dossier dei generali Mori e De Donno. Per questo non mi ha mai convinto questa tesi. E i dubbi li ho sempre espressi. Bisogna farsele delle domande. Ho avuto sempre tanti dubbi».

La figlia del magistrato: "Quante risorse sprecate". “Trattativa Stato-Mafia un processo di piazza che ha infangato innocenti: mio padre disapproverebbe”, parla Fiammetta Borsellino. Redazione su Il Riformista il 25 Settembre 2021. Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, ha seguito in questi anni le vicende giudiziarie palermitane. Ha seguito anche il processo “stato-mafia” e ora lo commenta con grande sobrietà e con poche parole. In parte con una brevissima intervista all’AdnKronos, in parte con una dichiarazione al Riformista. “Io non li ho mai assolti gli ufficiali dei Carabinieri ma ho avuto sempre molti dubbi, dubbi che oggi sono stati confermati dalla giustizia con la sentenza di appello. Li conoscevo, sapevo che avevano collaborato lealmente con Falcone e con mio padre. Per me era impossibile credere che avessero collaborato con la mafia. E poi ho ritenuto scorretto pompare mediaticamente un processo da parte di chi è titolare, prima ancora che questo processo avesse concluso le fasi di giudizio, un comportamento scorretto che mio padre non avrebbe mai approvato. Si è assistito a un lancio mediatico del processo trattativa fin dal suo inizio, quando veniva pubblicizzato con i libri. Quando non era concluso neppure il primo grado. Altro punto di critica enorme, insieme con gli altri. Dopodiché oggi rifletto su quello che è successo. Quante risorse, quanta attività quante energie sono state spese per questo processo che inseguiva un’ipotesi molto improbabile, e che metteva alla sbarra persone che poi si sono rivelate innocenti. E invece bisognava usare quelle risorse e quelle energie per indagare davvero, e per scoprire chi fossero quelli che hanno permesso che mio padre morisse. Voglio dire: chi fossero quelli dei quali parlava e dei quali non si fidava mio padre”.

Parla la figlia di Paolo Borsellino. Sentenza Stato-Mafia, Fiammetta Borsellino smonta l’indagine: “Seguite piste inesistenti in un processo mediatico, mio padre tradito…” Redazione su Il Riformista il 24 Settembre 2021. Fiammetta Borsellino, figlia minore del giudice Paolo, lo dice chiaramente: “Ho avuto sempre molti dubbi, che oggi sono (ieri, ndr) sono stati confermati dalla giustizia con la sentenza di appello”. E’ questo il commento che arriva dalla figlia del magistrato ucciso dalla mafia sulla sentenza emessa ieri dalla Corte d’assise di Appello di Palermo in merito alla presunta ‘Trattativa Stato-Mafia‘, che ha visto assolti gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, accusati di minaccia a corpo politico dello Stato, condannati a 12 anni in primo grado (De Donno a otto). Sentita dall’AdnKronos dopo la sentenza, Fiammetta Borsellino non manca di sottolineare come abbia ritenuto “scorretto pompare mediaticamente un processo da parte di chi è titolare, prima ancora che questo processo avesse concluso le fasi di giudizio”, un comportamento “che mio padre non avrebbe mai approvato”. Un processo che la figlia di Paolo Borsellino giudica innanzitutto come mediatico: “Si è assistito a un lancio mediatico del processo trattativa – spiega – fin dal suo inizio, quando veniva pubblicizzato con i libri. Quando non era concluso neppure il primo grado. Altro punto di critica enorme, insieme con gli altri”. Quanto al merito del processo, secondo Fiammetta Borsellino il problema resta quello che si sono seguite “piste inesistenti quando da sempre abbiamo ribadito che bisognava approfondire quel clima che mio padre viveva dentro la Procura di Palermo”. Il riferimento è ai “dubbi” e al “senso di tradimento” che Paolo Borsellino manifestò parlando alla moglie dei suoi colleghi magistrati, racconta la figlia Fiammetta, in particolare del “procuratore Giammanco. Secondo noi queste erano le piste su cui si doveva indagare, non altre…“. Quindi la figlia del magistrato dà una sua versione sul decesso del padre, diversa da quella che vede la presunta ‘Trattativa Stato-Mafia’ come fattore che ha accelerato la morte di Borsellino. “Per noi l’accelerazione è stata data dal dossier mafia e appalti ma non lo dice la mia famiglia – dice Fiammetta all’AdnKronos – lo dice il processo Borsellino ter, che l’elemento acceleratore è stato il dossier mafia e appalti che è stato archiviato il 15 luglio, cioè pochi giorni prima della strage. Nonostante mio padre il 14 luglio avesse chiesto conto e ragione del perché a quel dossier non venisse dato ampio respiro. Un dossier dei generali Mori e De Donno. Per questo non mi ha mai convinto questa tesi. E i dubbi li ho sempre espressi. Bisogna farsele delle domande. Ho avuto sempre tanti dubbi”.

Giustizialisti senza vergogna. Tutte le balle contro Giovanni Conso, fango sull’ex ministro persino da morto. Luigi Manconi su Il Riformista il 29 Settembre 2021. Caro Direttore, i giustizialisti non sono più quelli di una volta. Un tempo, i negazionisti dello stato di diritto e delle garanzie, erano attrezzati e agguerriti, meticolosi e fin acribiosi nel documentare fatti e dati. Oggi, tra loro, dominano trasandatezza e sciatteria: e le non poche sconfitte li hanno resi pressapochisti e pasticcioni. Non per questo meno feroci. Di conseguenza è impossibile tacere, tenuto conto che tra le loro vittime c’è chi – come quel grande galantuomo di Giovanni Conso – non può più difendersi da solo. Nelle scorse ore i sostenitori – a – ogni – costo – della trattativa tra mafia e Stato hanno reiterato, per l’ennesima volta, una menzogna che, nelle intenzioni, dovrebbe accreditare la tesi dei vantaggi e dei benefici ottenuti dalle organizzazioni criminali grazie a quel sordido negoziato tra esse, uomini degli apparati dello Stato ed esponenti politici di alto livello. Una delle prove, in apparenza la più potente e la più suggestiva consisterebbe nella mancata proroga della misura del 41 bis per 520 detenuti appartenenti alla criminalità organizzata di stampo mafioso. Sarebbe stata questa la principale posta in gioco della cosiddetta trattativa. Preliminarmente va ricordato che uno dei magistrati inquirenti più acuti, Giuseppe Nicolosi, della Procura di Firenze, davanti alla commissione parlamentare Antimafia, ebbe a dire che la revoca del 41 bis sarebbe stata “indifferente rispetto ai desiderata di Cosa Nostra”. E che “non c’era praticamente nessuno a cui potesse interessare”. Ma c’è dell’altro, molto altro. Secondo i critici, la sospensione del 41 bis per numerosi reclusi altamente pericolosi, sarebbe stata disposta dall’allora ministro della Giustizia Conso, sia perché direttamente coinvolto nell’operazione, sia perché sottoposto a pressioni da diversi soggetti (e tra essi, l’allora Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro). E, a beneficiare della mancata conferma del 41 bis, sarebbe stato un lungo elenco di centinaia di detenuti di altissima pericolosità. Ma quell’elenco, provvidenzialmente, venne sottoposto a una attenta disamina da parte dei consulenti della commissione Antimafia e, in precedenza, da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), che nel gennaio del 2011 inviò una relazione alla Procura di Palermo. Secondo i primi, tra i beneficiari della revoca, appena uno su dodici avrebbe avuto rinnovata in una fase successiva e in ragione della sua documentata pericolosità, la misura del 41 bis. Dunque, la declassificazione voluta da Conso era né più né meno che una scelta obbligata, secondo legge. In altre parole sia i consulenti della Commissione Antimafia sia il Dap, concordavano nel ritenere che il 41 bis, allora adottato per la prima volta come provvedimento individuale, fosse stato applicato con eccessiva larghezza e in maniera assai estensiva. E tra coloro ai quali la misura fu sospesa per decisione del ministro, solo 23 – per alcuni appena 18 – erano siciliani. Il che, certamente, non annulla, ma senza dubbio attenua, la rilevanza dell’interesse della mafia per la loro declassificazione e per il loro ritorno a un regime carcerario ordinario. E va ricordato che, per 8 di essi, fu lo stesso Conso successivamente a ripristinare “il regime speciale”. Ecco, su falsità di tal fatta, sono stati costruiti, in questo decennio, un grande racconto di genere e una mitografia fascinosa, interamente basati su una trama lessicale affidata al paradigma delle coincidenze maliose, delle prove artefatte, degli indizi suggestivi e fallaci. Luigi Manconi

Chi era Giovanni Conso, il ministro che voleva riformare codice penale e separare le carriere. David Romoli su Il Riformista il 29 Settembre 2021. È desolante pensare che uno dei giuristi più raffinati e colti della sua epoca verrà probabilmente ricordato da molti soprattutto per una bufala infamante come quella della trattativa Stato-mafia. Lo è a maggior ragione perché quella favola nera raccontata tante volte da diventare vera è una lente deformante che distorce il senso di una riflessione e di un operato politico spesi sempre con l’obiettivo di correggere le storture che rendono o possono spesso rendere la giustizia ingiusta. Conso era, con Sergio Cotta e Leopoldo Elia, uno dei pilastri della cultura giuridica progressista cattolica. È stato vicepresidente del Csm, presidente della Corte costituzionale, ministro della Giustizia in due governi consecutivi, Amato e Ciampi dal febbraio 1993 al maggio 1994, ma il suo rapporto con la politica non è mai diventato davvero strutturale. A differenza di Elia, vero ponte tra il mondo del diritto e quello della politica, Conso è sempre rimasto un giurista che forniva alla politica la sua esperienza e il suo lavoro senza mai diventare neppure in parte un politico. Professore a Urbino e alla Lumsa, passò dalla teoria alla pratica per la prima volta nel 1974: vicepresidente della commissione istituita presso il ministero della Giustizia con l’incarico di redigere il nuovo Codice penale, presieduta da Giandomenico Pisapia. Quell’incarico non venne mai portato a termine. La commissione fu sciolta dopo due anni e il nuovo codice vide la luce solo nel 1989, frutto di una commissione diversa, sempre guidata da Pisapia, che aveva accolto solo in parte le indicazioni del lavoro degli anni ‘70. Il senso di quel lavoro lo illustrò comunque lo stesso Conso, in un lungo articolo pubblicato nel 1978 dalla Stampa, la cui attualità, a oltre 40 anni di distanza, è sconcertante ma eloquente. In materia di carcerazione preventiva, il futuro presidente della Consulta scriveva che “il margine di discrezionalità a disposizione del magistrato resta così lato da aprire continuamente la porta a mandati di cattura tanto ‘leggeri’ nella motivazione quanto ‘pesanti’ negli effetti”. Nel nuovo codice la custodia cautelare avrebbe dovuto “collocarsi come ultima spiaggia cui fare ricorso solo quando gli altri strumenti apparissero non adeguati”. Questo “principio di adeguatezza” doveva rappresentare per Conso “la chiave di volta del nuovo sistema”. Col tempo Conso si era anche convinto della necessità di separare le carriere dei magistrati, dopo l’opposizione iniziale. “Ritengo che sia ineluttabile: il processo deve essere accusatorio e non più inquisitorio, parità di parti, terzietà del giudice. E terzietà del giudice ha convinto anche me”, affermava nel 2009 spiegando il suo ripensamento. Conso si trovò a guidare il ministero di via Arenula nella fase più difficile nella storia dei rapporti tra politica e giustizia: nel cuore della tempesta di tangentopoli. Di fronte allo smantellamento dell’intero sistema politico da parte della Procura di Milano decise una mossa drastica: un decreto che depenalizzava il finanziamento illecito dei partiti e che avrebbe avuto effetti retroattivi, salvando così molti dei coinvolti nelle inchieste di tangentopoli ma anche l’edificio istituzionale della Repubblica. Il Pds fu in un primo momento d’accordo. Poi la procura di Milano insorse, i grandi giornali decisero di aprire il fuoco sul decreto, il Pds rovesciò nel giro di poche ore la linea che aveva deciso di adottare e bocciò il decreto. Per la prima volta nella storia della Repubblica il presidente della Repubblica Scalfaro scelse di non controfirmare un decreto, facendolo decadere. Lo chiamarono “colpo di spugna”. In realtà anche in quell’occasione Conso scelse di non assecondare la furia giustizialista, vendicativa e superficiale che con i complessi equilibri della vera giustizia aveva ben poco a che vedere. Fu sconfitto e con lui lo fu, purtroppo e per decenni, un’intera concezione del diritto e della giustizia che era stata sino a quel momento patrimonio della sinistra laica e cattolica. David Romoli

La sentenza di Palermo. “L’industria del fango ha chiuso: sconfitti i populisti e denigratori”, intervista a Basilio Milio. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 24 Settembre 2021. Basilio Milio è uno di quei vincitori del processo che rimangono dietro le quinte: è lui ad aver preso le redini dello studio legale Milio di Palermo. Ed è stato lui negli ultimi anni a ricucire quella trama della verità di cui tanti tiravano i brandelli. La sua voce sembra ancora risuonare nell’aula bunker. «La trattativa tra Stato e mafia è una favoletta inventata, data in pasto al pubblico per distrarlo da storie poco commendevoli». Mentre il generale Mario Mori è «da anni vittima di un killeraggio mediatico» e di una «giurisdizione politico-mediatica che tace davanti all’indagine ‘mafia e appalti’. Perché?». Basilio Milio, legale storico del generale Mario Mori, aveva parlato per oltre quattro ore, davanti alla Corte d’Assise d’appello di Palermo, prima di chiedere “l’assoluzione” per l’ex ufficiale dell’Arma “perché il fatto non sussiste”. E la sentenza di ieri ha verificato la correttezza della sua ricostruzione, che da difesa di parte è assurta a difesa della verità oggettiva sostenuta con tanta energia nell’arringa fiume tenuta nell’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo. Mai un momento ha ceduto alla fake news della trattativa tra pezzi dello Stato e boss mafiosi: “non è mai esistita”. E sempre, senza esitazioni, ha ribadito che il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno chiesero l’interlocuzione di Vito Ciancimino “nell’ambito di una attività info-investigativa per la cattura di latitanti”. Punti sui quali la sentenza mette la parola fine.

Avvocato, soddisfatto per l’esito del processo?

Molto. Sono sempre stato fiducioso verso questi giudici che si sono sempre dimostrati corretti, preparati e scrupolosi. Hanno letto tutti gli atti. Quando incontri questi giudici che guardano ai fatti e non alle suggestioni, l’esito è questo.

C’è stato un momento in cui ha pensato che avrebbe potuto non andare così?

No, non per la composizione togata. Onestamente mai. Quello che con sincerità mi preoccupava era il condizionamento derivante dal circo mediatico che ha tentato con insistenza di influire. Soprattutto sui giudici popolari. Sono persone comuni, più inclini alle pressioni. Non avevo dubbi invece sui giudici togati, ho visto negli anni del processo una attenzione enorme anche verso i dettagli.

Come ha commentato l’esito il Generale Mori?

Ci siamo appena sentiti, l’ho chiamato subito. Era molto soddisfatto. Era fiducioso, come tutti gli uomini di legge. Mi ha detto: “Poco a poco e con fatica, ma alla fine la verità viene fuori”.

Vede cambiare un po’ il clima? Il partito della trattativa è diventato quello del complotto, ha perso credito ovunque.

Spero che il clima cambi e che anche questa sentenza possa contribuire. Sono appena uscito dall’aula bunker e ci sono venti persone, soprattutto ragazzini, con gli striscioni che dicono: “Signor giudice, condanni lo Stato-mafia”. E questo non mi fa ben sperare.

Sono ragazzi armati dal partito del complotto…

Partito del complotto che produce delle carriere politiche, che innesca dei casi editoriali… C’è una industria vera e propria, dietro alla teoria della Trattativa che vediamo finalmente sconfitta. Speriamo dunque che cambi clima a tutti i livelli, anche in quello culturale, e che si smetta di dare tutto quel peso a queste fandonie.

Che da oggi sono fandonie in forza di legge. Aspettando le motivazioni della sentenza, di fandonie possiamo parlare.

Fandonie, certo. Io definisco tutto il plot sulla Trattativa un’arma di distrazione di massa. Serve a distrarre l’opinione pubblica da altre vicende.

Da quali vicende?

Da quelle giudiziarie poco chiare, o a spingere determinate forze politiche ad andare al potere. Penso a chi della Trattativa ha fatto una delle sue grandi battaglie: il Movimento Cinque Stelle.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

La conferma delle condanne. Per i Pm della trattativa Stato-mafia solo Brusca e Ciancimino sono credibili. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Giugno 2021. Come se il passo falso nei confronti dell’ex ministro Mannino non fosse esistito. Come se, crollato il muro portante, non si fosse ormai sbriciolato il castello-teorema dell’accusa. Come se. Non desistono, i procuratori generali palermitani del processo “trattativa” tra lo Stato e la mafia, neppure dopo l’assoluzione definitiva di Calogero Mannino, quello che fu il punto di partenza e che in quest’aula non c’è. Non desistono e chiedono la conferma delle condanne di primo grado per violenza a corpo politico dello Stato: 12 anni di carcere al generale Mario Mori, 8 anni al colonnello Giuseppe De Donno, 12 al senatore Marcello Dell’Utri e all’ex capo dei Ros Antonio Subranni. Richiesta di conferma anche per Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. Quindi Giovanni Brusca – che sta seguendo il processo da uomo libero in luogo segreto e protetto- e Massimo Ciancimino per questi magistrati mai sfiorati dall’ombra del dubbio, sono i più credibili, le loro parole sono d’oro e vanno conservate nello scrigno delle prove provate. Ma occorre ricordare che, se non risponde al vero il fatto che, all’inizio degli anni novanta e dopo l’assassinio di Salvo Lima, sarebbe stato proprio Mannino, terrorizzato dal timore di essere il successivo obiettivo di Cosa Nostra, a cercare i boss per “trattare” la propria salvezza, che cosa rimane di tutta quanta l’impalcatura che ha portato al processo di Palermo? La sequenza dei fatti è molto precisa. Si parte dalla sentenza del maxiprocesso del 30 gennaio 1991, la prima in cui si processarono i singoli imputati ma anche l’intera cupola di Cosa Nostra. Una sentenza che fu anche criticata, ma che sicuramente fece perdere la testa ai boss ancora latitanti, che avviarono una stagione di stragi senza precedenti, da Lima a Falcone e poi a Borsellino. Questi sono i fatti, ma è la rilettura dei pentiti (e di chi dà loro credibilità), che hanno ricostruito quel periodo come caratterizzato dall’abbraccio tra i mafiosi e gli uomini dello Stato, a essere completamente strampalata. Tanto che i due tentativi delle prime indagini chiamate “Sistemi Criminali” finirono in nulla, con la stessa richiesta di archiviazione da parte del procuratore aggiunto Roberto Scarpinato. Qualunque tentativo, da parte dello Stato, di far cessare le stragi, viene interpretato come complotto o addirittura come complicità con la mafia. A parte il fatto che, se qualcuno, anche con l’uso di collaboratori di giustizia o di confidenti di polizia, fosse riuscito a far terminare la mattanza di quegli anni o anche solo salvare la vita a qualcuno, avrebbe meritato una medaglia, non un processo. Ma tant’è. Se gli uomini del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno agganciano Vito Ciancimino nella speranza di arrivare al latitante Totò Riina, la loro è un’attività investigativa doverosa da parte di uomini dello Stato, o subdolo tradimento nei confronti della propria divisa? Ci vuole una bella mentalità da cultura del sospetto per ignorare la loro buona fede. E ritenere che gli alti ufficiali in realtà abbiano fatto i postini di Totò Riina, facendosi tramite delle sue richieste per riporre l’ascia di guerra. Ma i pubblici ministeri della prima fase dell’inchiesta, hanno soprattutto volutamente ignorato un piccolo particolare. Cioè –e questi sono fatti- che nello stesso tempo quegli stessi uomini dei carabinieri Riina l’hanno arrestato. E quando in seguito gli stessi accusatori non avevano trovato di meglio che imputare lo stesso Mori per la mancata perquisizione della casa di Riina e la cattura di Provenzano, le sentenze furono di assoluzione. Ma tutto questo non è mai bastato a scalfire la cocciutaggine dell’impianto d’accusa. Vale di più la parola del più scombinato teste di mafia che sia mai apparso all’orizzonte, Massimo Ciancimino. Che non è credibile se calunnia De Gennaro (reato prescritto), ma emette dalla bocca monete d’oro se accusa i carabinieri. Siamo alla storia del famoso papello e del contro-papello del capo di Cosa Nostra. Il quale tra l’altro non avrebbe chiesto, come invece fecero le Brigate rosse durante il sequestro Cirillo e il rapimento Moro, qualcosa di grosso, come per esempio la scarcerazione di qualche compagno, di un complice. No, il boss dei boss si sarebbe limitato a sollecitare soltanto un alleggerimento delle condizioni di detenzione dei suoi amici. Cose da sindacalisti moderati, insomma. Ma il clima di follia in cui nel corso di venticinque anni circa, si è sviluppata questa inchiesta, ha portato persino a insultare un grande giurista e persona per bene come il ministro Conso, che si era limitato a togliere qualche 41-bis a condannati per reati non gravi, di cui pochissimi mafiosi. Solo chi ha vissuto in Parlamento quegli anni sa quanto la situazione fosse difficile e delicata. Non erano governi forti, gli ultimi della prima repubblica devastata dai massacri politici di tangentopoli e poi da quelli sanguinari della mafia. Ma non si può affidare alla parola dei “pentiti” la credibilità politica di un’intera classe dirigente. Se si è in buona fede, si è un po’ strani. La verità è che in Sicilia come in Calabria e altrove, schiere di pubblici ministeri continuano a restare aggrappati ai collaboratori di giustizia, quasi fossero l’ultimo baluardo per uscire vittoriosi dai processi. Il “caso Mannino” però ha rotto il giocattolo, perché è ormai un punto fermo. Assolto in ogni grado di giudizio. Non ha preso l’iniziativa di avviare nessuna trattativa. Il procuratore Scarpinato e i suoi sostituti Sergio Barbiera e Giuseppe Fici sanno benissimo di avere le armi spuntate, perché in realtà non hanno nessuna prova in mano. Marcello Dell’Utri avrebbe fatto da raccordo tra lo Stato, la mafia e addirittura la ‘ndrangheta, come è stato ripetuto ieri in aula a Palermo? E dove sono le prove? Gli uomini del Ros erano complici di Totò Riina? Peccato che siano stati proprio loro ad arrestarlo. E se, oltre a lui, hanno condotto in carcere anche i fratelli Graviano, allora sono colpevoli di aver favorito la latitanza di Provenzano. La prova? Nessuna. Ma i procuratori generali nell’aula bunker di Palermo preferiscono continuare a parlare di “menti raffinatissime” che elaborarono la Trattativa, perché “le verità anche scomode, devono essere raccontate”. Quella di un Dell’Utri “tessitore” di relazioni e di Berlusconi, che in questo processo è un po’ vittima del complotto contro lo Stato, nell’epoca in cui era presidente del consiglio nel 1994, e un po’ “mafioso”. Non è imputato, ma vittima degli spifferi, del calunniate calunniate, qualcosa resterà. Che vale anche per lui, non solo per i magistrati. “Verità inconfessabili, una verità che è dentro lo Stato, della trattativa Stato-mafia, che tuttavia non scrimina mandanti ed esecutori istituzionali”, ha detto il pg Sergio Barbiera, citando poi a sproposito le parole del Presidente Mattarella. Mentre il suo collega Giuseppe Fici mette le mani avanti: non siamo ossessionati da Mannino. Già, ma le 78 pagine di una sorta di memoria per criticare la sua assoluzione, allegate al processo che cosa sono? Complimenti all’ex esponente dc per aver trovato giudici diversi da quelli che nel processo di primo grado hanno condannato i suoi coimputati e che oggi la procura generale vorrebbe per forza colpevoli, contro ogni evidenza?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Sentenze ignorate, calunniatori e filoni nuovi. Perché il super-processo non stava in piedi. Mariateresa Conti il 25 Settembre 2021 su Il Giornale. Altro che "ne bis in idem", si è insistito su temi d'accusa per i quali Mori e Mannino erano già stati assolti. È crollato il testimone chiave Ciancimino. Sei anni di processo di primo grado, altri due di processo d'appello. Per non parlare di tutta la fase preliminare d'indagine, cominciata da Antonio Ingroia quando ancora indossava la toga, proseguita da Nino Di Matteo, oggi al Csm. Oltre un decennio speso a dare la caccia a «un fatto che non costituisce reato», per dirlo con la sentenza di due giorni fa. Eppure, a volerli guardare, gli elementi che non reggevano c'erano, eccome se c'erano. Bastava leggere le sentenze assolutorie (8 pronunciamenti in tutto, compreso quello di giovedì) dell'ex ministro Calogero Mannino e del generale Mario Mori, tutte acquisite e tutte agli atti. A cominciare dalle più antiche, quelle al prefetto Mori per la mancata perquisizione del covo di Riina nel 1993 e per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995 in un casolare di campagna in cui si teneva un summit, a Mezzojuso. Quella su Riina risale al 2006, il processo trattativa non era ancora nato (e tanto era granitica che l'allora pm Ingroia decise di non fare appello), L'altra un po' più recente, è diventata definitiva nel 2017. Identico discorso per la sentenza assolutoria dell'ex ministro Calogero Mannino, definitiva da un anno. Mannino, che ha scelto il rito abbreviato per il processo trattativa, è stato assolto in tutti e tre i gradi di giudizio. Eppure nell'impostazione dell'accusa nulla è cambiato rispetto al ruolo, smentito per sentenza, dell'ex ministro. E neppure rispetto alle accuse ai generali Mori e Subranni e al colonnello De Donno. Anche una sentenza di condanna agli atti, quella dell'ex senatore Marcello Dell'Utri, era istruttiva, molto. E avrebbe dovuto essere presa in considerazione. Dell'Utri infatti è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti antecedenti al 1992. Qui invece gli si assegna un ruolo di tramite delle minacce della mafia a Berlusconi tra il '93 e il '94. Peccato che non ce ne sia prova alcuna. E peccato che ci sia invece la controprova. Come ha detto in arringa l'avvocato di Dell'Utri, Francesco Centonze non c'è una prova che sia una «che ci sia stato un solo provvedimento legislativo, una norma, un codicillo varato dal governo Berlusconi favorevole a Cosa nostra». Dell'Utri, per la cronaca, è stato assolto «per non aver commesso il fatto». Gran parte delle accuse si sono poi sviluppate sulle dichiarazioni a rate di Massimo Ciancimino, l'ex supertestimone che alla fine si è beccato una condanna per calunnia (poi caduta in prescrizione). Ricordate i chili di «pizzini» portati in Aula? C'era persino il celebre «papello», il padre di tutti i pizzini, la prova documentale che la trattativa ci fu. Peccato che sia stato accertato che era proprio un falso, magari con contenuti realistici ma falso. Infine, un filone inesplorato, quello delle indagini che Paolo Borsellino conduceva sul rapporto Mafia e appalti del Ros. In primo grado la testimonianza di Antonio Di Pietro, invocata dalla difesa, non era stata ammessa: «superflua». In questo processo d'appello invece è arrivata. E va in rotta di collisione, ha ricordato in arringa l'avvocato di Mori, Basilio Milio, con la tesi accusatoria che ad accelerare l'uccisione di Borsellino sia stata la trattativa. Già, perché parla dell'interesse di Borsellino per quel rapporto e per quelle indagini. Interesse che le sentenze di Caltanissetta e di Catania sulla strage di Capaci individuano come acceleratore della sua uccisione. Altro che trattativa. Mariateresa Conti

LO STATO ASSOLTO ANCHE IN APPELLO, LA TRATTATIVA FATTA CON I FANTASMI. Sono stati condannati il boss Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, ed il medico mafioso Antonino Cinà. Il primo incassa 27 anni di reclusione, il secondo 12 anni. Francesco Viviano su Il Quotidiano del Sud il 24 settembre 2021. È stato un processo fantasma ed ai fantasmi che era già morto quando nel dicembre del 2020 l’”ispiratore” della cosiddetta “Trattativa” tra lo Stato e La mafia, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, era stato assolto, in via definitiva, dall’accusa di avere “sollecitato” una “trattativa” con la mafia per fermare le stragi dopo quelle di Capaci e di via D’Amelio (1992) dove furono uccisi i magistrati, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con gli uomini della loro scorta. Ed anche l’ex senatore Nicola Mancino, anche lui tirato in ballo nel processo, era stato anche lui assolto. Era già chiaro allora, con quella sentenza, che la cosiddetta “trattativa” non c’era stata. Ed ieri è arrivata l’ennesima conferma con la sentenza della Corte d’Assise d’Appello che ha assolto, per non avere commesso il fatto, gli altri imputati di questo processo e cioè il senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri e i Generali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e l’ex colonnello Giuseppe De Donno. Sono stati invece condannati, e non capisco perché, gli “scecchi morti” (assassini morti) il boss Leoluca Bagarella (cognato del capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina) ed il medico mafioso Antonino Cinà, il primo a 27 anni e l’altro a 12 anni di reclusione. Bagarella e Cinà sarebbero stati i mafiosi con i quali i generali Mori, Subranni, il colonnello Giuseppe De Donno e Marcello Dell’Utri, avrebbero “trattato”. E, secondo la sentenza di ieri, non si capisce con chi avrebbero trattato visto che gli interlocutori istituzionali, i carabinieri ed il politico Dell’Utri, sono stati assolti. Stranezze di questa giustizia all’italiana, dove dopo tanti anni di inchieste e di processi, con condanne in primo grado che hanno distrutto la vita e le carriere degli imputati ieri assolti, non si capisce nulla. Ma proprio nulla. Se Calogero Mannino era stato già assolto ed ieri i suoi coimputati sono stati pure assolti, non si capisce con chi avrebbero “trattato”. Per la cronaca tra gli imputati c’erano anche il boss Giovanni Brusca che sciolse nell’acido il figlio del pentito Santino Di Matteo ed il figlio dell’ex sindaco mafioso Massimo Ciancimino usciti dal processo con varie motivazioni. Una inchiesta ed un processo che aveva preso l’avvio proprio dalle loro testimonianze, soprattutto quella dello “scanna cristiani” Giovanni Brusca che parlò per primo di questa fantomatica “trattativa” di cui lui non sapeva nulla, ma proprio nulla, perché (è processuale) Brusca rivelò in una udienza che lui aveva appreso della “Trattativa” leggendo un articolo di giornale, firmato da chi scrive, che aveva rivelato che c’era un inchiesta della Procura della Repubblica di Caltanissetta, dove si parlava di “contatti” tra i Carabinieri, Vito Ciancimino ed il medico mafioso, Antonino Cinà. Quindi Brusca, per sua stessa ammissione, non sapeva nulla della “trattativa” eppure quell’inchiesta approdò ad un processo con un testimone chiave, Brusca, che non sapeva nulla. Misteri della Giustizia italiana. Insomma ho sostenuto, anche pubblicamente che se io fossi stato carabiniere, in quel momento storico, soprattutto dopo la strage Borsellino, quando l’allora capo del pool dell’Ufficio Istruzione, Antonino Caponnetto, al funerale del suo “pupillo” Paolo Borsellino, in lacrime disse che lo “Stato era stato sconfitto”, si perché le cose bisogna che siano esaminate nel momento storico in cui accadono e non dopo tanti anni. Ed in quel momento, nel momento in cui lo “Stato era stato sconfitto” tutti, carabinieri, polizia, guardia di finanza, guardia forestale, vigili urbani, furono sollecitati a fare qualcosa per arrestare i mafiosi e fermare quelle stragi. E tra questi c’era anche Mario Mori, che fece quello che uno sbirro vero avrebbe fatto e cioè avvicinare mafiosi, come Vito Ciancimino, per tentare di arrestare il principale ispiratore della strategia stragista e cioè il capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Che venne arrestato proprio dai carabinieri del Ros, guidati proprio dal Generale Mario Mori, un arresto che avvenne però stranamente il giorno in cui si era insediato a Palermo come Procuratore della Repubblica, Giancarlo Caselli che proprio con Mario Mori aveva già lavorato a lungo. Il generale Morì poi però fini nel calderone delle inchieste e dei processi scaturiti dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca che, come detto, aveva capito tutto sulla “trattativa” leggendo un articolo firmato da chi scrive. Naturalmente la sentenza ha dato soddisfazione al giovane ma ben ferrato avvocato Basilio Milio che subito dopo la sentenza ha detto: “È un’assoluzione di cui io e il collega che difende Giuseppe De Donno siamo stati sempre convinti. Finalmente la verità è venuta fuori a costo di sacrificio e di grande lavoro”. sulla trattativa Stato-mafia”. “Abbiamo sentito – ha aggiunto Milio – sia il generale Mori che De Donno e sono molto contenti. La sentenza stabilisce che la trattativa non esiste. È una bufala, un falso storico”. E credo che sia giusto registrare il commento del Capitano Ultimo, il carabiniere che arrestò Totò Riina. “Il mio pensiero va alle famiglie del generale Antonio Subranni, del generale Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno, a cui esprimo la mia grande vicinanza e con cui condivido il massimo disprezzo per quelli che hanno cercato di infangare l’onore di grandi combattenti della mafia”. Sergio De Caprio, il “Capitano Ultimo” che mise le manette ai polsi di Totò Riina, commenta così all’Adnkronos la sentenza del processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia. “Io e i carabinieri combattenti li onoriamo ora come allora e li portiamo nel cuore”.

PiazzaPulita, Paolo Mieli: "Trattativa Stato-mafia, un buco pazzesco nell'inchiesta. In mezzo anche Scalfaro e Ciampi". Libero Quotidiano il 24 settembre 2021. La corte d'assise di Palermo ha assolto al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e l'ex senatore Marcello Dell'Utri, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. "Una sentenza clamorosa", la definisce Paolo Mieli ospite di Corrado Formigli a PiazzaPulita. Nel salotto di La7 il giornalista premette che "la trattativa ci fu, ma che era in questione se questa trattativa fosse stata avviata per ammorbidire la mafia o se lo Stato si piegò e per colpa di chi". Secondo questa sentenza infatti "lo Stato non si piegò". Come ricorda Mieli dal 1861 in poi di trattative di questo tipo ce ne sono state a "bizzeffe". Questa volta però è stato diverso, "perché quello che sembrava dalla sentenza di primo grado e che lo Stato si fosse piegato, avesse dato in cambio qualcosa - prosegue l'editorialista del Corriere della Sera -. C'era un buco pazzesco nell'inchiesta ed era che questa trattativa iniziò tra il '92 e il '93, in mezzo però c'erano anche Scalfaro e Ciampi". Quelli che Mieli definisce "dei miti". Proprio qui sta il punto: "Si dribblava il periodo tra il '92 e il '93. Si saltava a pié pari fino a Dell'Utri. È bizzarro". Da qui la conclusione: "Dobbiamo prenderci la responsabilità, bisogna che qualcuno ammetta che si è sbagliato qualcosa. Io sono uno di quelli". "Farà discutere, ma prendo atto". Trattativa inesistente, come rosica Enrico Letta: a denti stretti dalla Gruber.

I grandi pentiti, gli 007 e la pista americana. Ecco tutti gli enigmi mai risolti dalla Procura. Felice Manti il 25 Settembre 2021 su Il Giornale. Le indagini di Caltanissetta si fermarono prima di scoprire cosa dissero davvero Buscetta e Mutolo a Falcone e Borsellino. I veri killer impuniti. Adesso che è finita la caccia ai fantasmi, adesso che la folle idea che dietro le stragi di mafia ci fosse la nascita di Forza Italia e l'ascesa di Silvio Berlusconi c'è una verità che merita risposte. Chi ha ucciso veramente Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? A chi hanno giovato quelle morti? Ha agito la mafia, ma su ordine di chi? E perché Falcone fu ostacolato anni prima dal Csm nella corsa a poltrone prestigiose nella procura di Palermo? Sin dall'inizio le indagini sulla morte dei due magistrati hanno registrato interferenze, depistaggi, manipolazioni. Lo sa bene Gioacchino Genchi, il consulente della Procura di Caltanissetta che in quei maledetti cinquanta giorni tra le due stragi analizzava le due agende elettroniche (una Casio e una Sharp) sulle quali Falcone registrava ogni cosa, come ricorda Edoardo Montolli, autore del libro I Diari di Falcone e Il caso Genchi. «Il processo sulla Trattativa è una delle più grandi assurdità partorita dalla giustizia italiana», disse Genchi nel 2014. La risposta alla strage di Capaci è invece forse nel viaggio in America di Falcone, dove avrebbe incontrato Tommaso Buscetta dopo il delitto di Salvo Lima? I magistrati di Caltanissetta guidata da Giovanni Tinebra, (che l'ex legale Eni Pietro Amara oggi accosta solo da morto alla famigerata loggia Ungheria), non vollero approfondire, Genchi se ne andò sbattendo la porta dopo una lite furiosa con Arnaldo La Barbera, considerato poi il suggeritore del depistaggio. È nella pista americana la chiave? E cosa disse veramente a Falcone l'autista di Riina Gaspare Mutolo nel 1991 nel carcere di Spoleto, incontro segreto di cui c'è traccia nell'agendina Sharp? Anche Borsellino quando ascoltò le rivelazioni del boss tre giorni prima di morire arrivò a casa sconvolto e secondo la moglie vomitò per la tensione, non prima di averne trascritto ogni dettaglio nella famosa agenda rossa. Sparita da via D'Amelio. Sono passati 29 anni dalle stragi e ancora non sappiamo tutto neanche degli esplosivi. Fu la 'ndrangheta a fornirli dalla nave Laura C. affondata a largo di Saline Joniche? Le rivelazioni del killer pentito Maurizio Avola a Michele Santoro nel libro-inchiesta Niente altro che la verità sono poco credibili quando pretendono di confinare le stragi solo dentro il perimetro mafioso. I telefoni di Nino Gioè e Gioacchino La Barbera, registi della strage di Capaci, clonavano due numeri non ancora assegnati dalla Sip a Roma in una filiale che nascondeva una base dei servizi. Anche il commando era atipico. Non boss potenti ma mafiosi di secondo e terzo livello, tipo l'attendente di Riina Salvatore Biondino, che una volta in aula confessò a un legale: «Possibile che lo abbiamo fatto noi, quattro sprovveduti?». Ne è convinto anche l'autista di Falcone, Giuseppe Costanza: «Ha pagato solo la manovalanza, mai gli altri responsabili». Adesso spetta alla Procura di Palermo fornire le risposte. E ai giornali il compito di non sposare tesi strampalate, come conferma l'amaro sfogo all'Huffington Post di Giovanni Fiandaca, giurista e mentore di Antonio Ingroia e Antonino di Matteo, colpevole di essersi bevuto le panzane del finto boss Vincenzo Scarantino: «Anche per i giornalisti contribuire alla lotta alla mafia non può equivalere a sostenere acriticamente ogni processo penale per fatti di mafia». Soprattutto se Il Fatto non sussiste. Felice Manti

Il mea culpa generalizzato non basta. Berlusconi va risarcito: dopo 20 anni di insulti e gogna merita il Quirinale. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 24 Settembre 2021. Un momento, fermi tutti, cazzo compagni, parliamone! A me sembra, dico forse, che ci stia passando fra le gambe una sfera ma che neanche la vediamo. Perplessità in sala: di che sfera parla, quello lì? Ma sì, dài, la sfera di Flatlandia dell’abate Abbot, quando nel mondo piatto dei poligoni uno scapigliato rettangolo notò un punto che si allargò in un cerchio sempre più grande che raggiunse il diametro massimo e poi cominciò a rimpicciolirsi finché sparì. Il poligono capì che era passata una sfera e che dunque esisteva una terza dimensione. Che c’entra? Be’, è un metodo di principio. I grandi eventi capitano sotto gli occhi, tutti li vedono ma non ne capiscono il significato. Se qualcuno vuole per forza dirlo a tutti – “guardate: è una sfera” – lo appendono per i pollici e lo fanno ritrattare, come fecero a Galileo. Oggi siamo forse in presenza di una sfera? Così sembra e se l’impressione è giusta, la sfera è geniale. A quali fenomeni stiamo assistendo da qualche tempo, tutti diversi e occasionali, ma tutti coincidenti come dieci bombe nella stessa buca. Obiettivo: svelare, con levità e un certo tono casuale, la verità di come NON andarono le cose per cui il cittadino italiano Berlusconi Silvio, appena sceso in politica per mandare all’aria il piano tanto ben preparato, fu per prima cosa appeso per i pollici da un avviso di garanzia recapitato a mezzo stampa e lì lo hanno tenuto per oltre trent’anni. Non aveva mai avuto un processo prima, ma lo lapidarono con cinquanta processi subito dopo. Fu allestita la più bella e compatta campagna mediatica dove ci potevi mettere dentro tutto, mafia, le malefemmine, lusso e lussuria, idolatria, tasse inevase, mancava solo l’omicidio. Ma già lo avevano messo al forno dei fatti di Capaci e via D’Amelio. Una strage non si scopre, in Italia: si assegna. Bologna? Ha da essere fascista, e sennò a chi la diamo? Ai palestinesi? Ma che stiamo pazziando? E sennò a che serve l’equilibrio politico nella Magistratura correntizia e delle logge Ungheria? Mica stiamo a pettinare le bambole o asciugare gli scogli col phon, qui la storia siamo noi e guai a chi racconta quella vera. Bref: come scriveva Giuseppe Gioachino Belli sui chierici di piazza di Spagna a proposito della concordia sul magnare equivocando sulla parola latina “magna” che sta per “grande”, «Er magna è una parola che innamora: e oggi prima l’ha detta un musico, poi dua e poi, tutto er coro giù: misericordiam tuam». Qualcosa di simile è accaduto da quando in Europa hanno deciso che per l’Italia bisognava sbrigarsi a dare una raddrizzata rimandando a casa l’avvocato ignoto Conte e tutta la sua baracca. La LePen in Francia non ha chance. Dunque, Salvini non è un pericolo se sta al passo, ma se deraglia, va fuori con la Meloni. Il tribunale di Strasburgo, esaminato il caso Berlusconi non emise una sentenza ma una domanda spedita per posta al governo italiano, cioè a Draghi che si riassume così: “Ma davvero il cittadino Berlusconi Silvio è stato condannato? Pregasi informare con dettagliata risposta”. Non sappiamo se lo ha fatto. Ma ecco che il Csm e la magistratura tutta cominciano a dar segni di decomposizione, urla e grida escono dal palazzo decorato con tante piccole teste di Mussolini con l’elmetto. E poi in Parlamento e nei suoi dintorni si comincia a dire sussurrando quel che mercoledì ha detto Matteo Renzi urlando: il re è nudo, che fa sempre effetto, nel senso che i giochi sono ormai tutti scoperti. E lì la spiegazione tecnica: le cattive correnti cui i poveri magistrati devono iscriversi se vogliono fare carriera sono loro il vero cancro perché dominano il Parlamento e si beffano delle sue leggi e tutti ricordiamo il golpettino davanti ai microfoni, ai tempi non troppo remoti di Mani pulite, e che scoprirono le armi di una insurrezione popolare inesistente ma che sarebbe diventata il grillismo. Atteggiamenti ai limiti dell’insurrezione contro il Parlamento, del resto identificato come scatola di tonno, altro che il Sei gennaio a Capitol Hill. E oggi, gli ultimi due invecchiati rampolli ancora attivi del vecchio Pool – Greco e Davigo – si prendono a legnate come il diavolo e Pulcinella nei teatrini dei giardinetti. E poi abbiamo letto e sentito Luciano Violante riconoscere quel che va riconosciuto, e Romano Prodi dichiarare in televisione che quelli (i magistrati) sono pazzi a trattare così Berlusconi, e meno male che Helmut Kohl aveva visto lungo accogliendo Berlusconi fra i popolari. E insomma, non passa ormai giorno senza che qualcuno del vecchio sistema che saldava politica e magistratura e giornalisti portavoce, non porti nuova materia alla sfera di cui dicevamo all’inizio e che completa, vibra la sua musica con parole sussurrate ma intellegibili che dicono più o meno così: abbiamo fatto da trent’anni una gran maialata, abbiamo dato in pasto un cittadino che ci dava fastidio alle corti di giustizia facendogli sputare sangue, abbiamo aizzato o alimentato e premiato con carriere sfolgoranti giornalisti giudiziari e ogni sorta di satiri artisti che si sono nutriti del nostro prodotto popolare che è Berlusconi, ma alla fine che cosa è rimasto? Guardatevi intorno: un Berlusconi ancora ben in piedi anche se un po’ acciaccato dal cuore, dal Covid, dal cancro e perfino da una statuetta di ferro che gli spaccò naso e fronte, ma che non ha mai mollato e ormai tutta l’Europa guarda con occhio diverso. Perché? Sono forse diventati buoni? No, non sono diventati buoni ma hanno solo scoperto che il vero cancro era il populismo corrosivo e velenoso e che era necessaria una operazione di restauro global. Una che consentisse il passaggio dalla Guerra dei Trent’anni contro l’Uomo Nero di Arcore alla nuova era del futuro in cui il mondo è altrove: via della Seta cinese perché si è di fatto in guerra (commerciale) con la Cina e Berlusconi giorno dopo giorno è andato confermandosi un gigante. È rimasto fermo sulle sue posizioni liberali, ha capito per primo che l’uscita degli Stati Uniti dal teatro europeo era cosa fatta anche senza Trump e ha gridato a gran voce che l’Europa deve darsi una politica estera con una forza armata competitiva: si vis pacem para bellum. O almeno fai finta. Tutto il mondo sta cambiando drammaticamente e da noi l’“erre-enne-a messaggero” è Matteo Renzi: l’uomo che in percentuale vale quanto le tracce di albumina nell’esame delle urine, ma che di fatto si è guadagnato i galloni di Grand Commis e Agent Sécret dell’Europa dei nuovi Taillerand. E infatti, ricordate: arriva Renzi e licenzia Conte. Arriva Renzi e licenzia la magistratura. Arriva Renzi e si fa quel che l’Europa che conta ha detto. Questo significa un sacco di cose quanto a spessore e importanza dell’Italia in Europa e nel mondo, ma sta di fatto che persino Draghi se l’è inventato Berlusconi quando lo candidò alla Banca centrale europea contro il parere di Cossiga. E allora la sfera comincia ad apparire nella sua lucente semplicità. Ci si accorda su un vasto quasi indolore ma ben visibile mea culpa, si ammette che il cittadino Berlusconi Silvio aveva ragione, che Kohl aveva ragione quando lo volle contro il parere di Prodi (che lo riconosce sportivamente) e che dunque che male c’è? Berlusconi è vivo e lotta con noi e noi gli diamo questo riconoscimento mandandolo al Quirinale. Ci starà quanto la sua salute gli permetterà ma difficilmente per sette anni, mentre là sotto, al nuovo Matignon o Palazzo Chigi, Draghi si sbriga a fare tutto il fattibile, prima di passare all’up-grade di sé stesso. Forse non c’è nulla di vero, ma difficilmente le cose succedono per caso e del resto se ne parla. Si sta ammorbidendo il pubblico italiano che è stato intossicato dall’antiberlusconismo, persino il comico Paolo Rossi ha recitato un onesto mea culpa, e dunque i giochi stanno prendendo una precisa direzione. E tutti notano quel cerchietto che è apparso fra Montecitorio e Palazzo Madama, c’è chi dice un cerchio e chi un effetto ottico ma cresce e cresce mentre Berlusconi si fa saggista e riprogetta il mondo liberale. Ben giocato, chiunque sia l’autore, secondo noi viene dal Pci perché queste idee sopraffine possono essere elaborate soltanto da chi ha studiato in maniera spregiudicata e da chi è pronto senza problemi a rimangiarsi tutto gridando nel megafono dello strillone: “Compagni, è cambiata la linea: la frase che avete letto sull’Unità conteneva un errore: dove c’era scritto “Berlusconi non è il male della Terra, va letto il sale della Terra. E pedalare di conseguenza, che manca poco. Ah, dimenticavo: l’Europa ce lo chiede”.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

"Erano loro che cercavano me". Riina, le bombe, le ombre delle istituzioni: storia e segreti della "trattativa". Oggi i giudici in camera di consiglio per la sentenza d'appello. In primo grado condannati gli ex ufficiali del Ros Mori, Subranni, De Donno, e l’ex senatore Dell’Utri. Fra 1992 e 1993, avrebbero dialogato con Cosa nostra per fermare gli attentati; in cambio sarebbe arrivato l'allentamento del carcere duro. Salvo Palazzolo su la Repubblica il 20 settembre 2021. "Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me", continuava a ripetere il “capo dei capi” di Cosa nostra, Totò Riina, negli ultimi anni della sua vita. E' morto il 17 novembre 2017. Era sommerso dagli ergastoli, ma chiedeva sempre di assistere a tutte le udienze del suo ultimo processo, anche in barella. Eppure, in quel dibattimento rischiava solo qualche anno di carcere. Ma erano i suoi coimputati a interessarlo particolarmente. Voleva vederli in videoconferenza, voleva sentire le loro parole. Compagni d'udienza davvero particolari: per la prima volta gli uomini dello Stato. Anche loro sotto accusa, insieme a Riina, per il reato di attentato a un corpo politico. Eccoli: gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, l'ex senatore Marcello Dell'Utri. Toto Riina "Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me", sussurrò un giorno del maggio 2013 il padrino di Corleone agli agenti della penitenziaria. In aula, neanche una parola. Perché in quel processo si parlava del segreto più grande di Cosa nostra, la trattativa che pezzi delle istituzioni avrebbero fatto con i vertici della mafia, mentre l'Italia era dilaniata dal tritolo. Prima, nel 1992, le stragi Falcone e Borsellino. Poi, l'anno successivo, le bombe di Roma, Milano e Firenze. Una trattativa prima con l'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, poi con altri interlocutori - ha sostenuto l'accusa - per fermare la strategia stragista di Cosa nostra. In cambio, sarebbe stato allentato il regime del carcere duro.

I funerali di Toto Riina. Riina è morto prima del verdetto di primo grado, che è stato emesso della corte d'assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto: il 20 aprile del 2018 sono stati condannati gli altri mafiosi imputati - Leoluca Bagarella, il cognato del “capo dei capi”, a 28 anni; Antonino Cinà, il medico di Riina, a 12 anni - sono stati condannati anche gli uomini dello Stato: il collegio ha inflitto 12 anni a Mori, Subranni e Dell'Utri; 8 anni a De Donno. Assolto invece l'ex ministro dell'Interno, Nicola Mancino, assoluzione ormai definitiva. E, ora, siamo alla vigilia della sentenza d'appello: il collegio presieduto da Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania) è chiamato a riconsiderare gli elementi raccolti. Converrà ripercorrere le mosse e le parole di tutti i protagonisti di questa storia. Perché è una vicenda ancora carica di misteri, che chiama in causa non soltanto gli imputati del processo, ma anche altri rappresentanti delle istituzioni. E' una storia cruciale negli eventi drammatici del 1992: dice la sentenza di primo grado che il dialogo segreto avviato dai carabinieri del Ros, Mori e De Donno, con l'ex sindaco mafioso Ciancimino "può certamente avere determinato l'effetto dell'accelerazione dell'omicidio di Borsellino"; dopo la strage Falcone, Riina volle subito approfittare del "segnale di debolezza proveniente dallo Stato". Un'accusa pesante, che la difesa respinge. La strage di Capaci Ma, di sicuro, ci fu una "accelerazione" dopo la strage di Capaci: l'ha detto l'ex fidato di Riina, Giovanni Brusca, l'uomo che azionò il telecomando quel 23 maggio 1992; dopo l'arresto avvenuto nel 1996, ha deciso di collaborare con la magistratura e per primo ha parlato di una "trattativa" fra pezzi dello Stato e i vertici della mafia. "A fine giugno Riina disse: “si sono fatti sotto, ci vuole un altro colpetto”". Questa storia continua a intersecarsi con le inchieste delle procure di Caltanissetta e Firenze, che stanno cercando fare luce sulla stagione delle bombe del 1992-1993.

Riina e il "traditore". Il “capo dei capi” aveva davvero una gran voglia di parlare negli ultimi tempi della sua vita. Dopo quella frase consegnata agli agenti della penitenziaria, i pubblici ministeri Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi pensarono di intercettare Riina in carcere, durante l'ora d'aria che trascorreva con un mafioso della Sacra Corona Unita, Alberto Lorusso, nel carcere milanese di Opera. Intuizione azzeccata. Perché all'ora d'aria, il padrino di Corleone detenuto dal 15 gennaio 1993 parlava davvero tanto. "E' un racconto importante, che vale quanto le dichiarazioni del primo grande pentito di mafia, Tommaso Buscetta", hanno scritto i giudici della corte d'assise di Palermo. Ecco dunque le verità di Riina, che non sospettava di essere intercettato dalla Dia. In quei giorni, era assalito dal tarlo del sospetto. Il sospetto di un gran traditore, quello l'aveva fatto arrestare. Un solo nome aveva in testa: Bernardo Binnu Provenzano, il suo compagno di sempre. Anche lui era indagato inizialmente nell'inchiesta 'Trattativa Stato-mafia', ma è morto in carcere il 13 luglio 2016. Negli anni Cinquanta, Riina e Provenzano erano i picciotti più fidati di Luciano Liggio e scorrazzavano con le lupare per le viuzze di Corleone; dieci anni dopo erano alla conquista di Palermo; nel 1978 sferravano insieme l'offensiva contro gli uomini migliori della società civile e dello Stato, una scia di sangue proseguita fino al 1992. "Mi spiace prendere certi argomenti - diceva Riina il 19 agosto parlando del suo amico di sempre - questo Binnu Provenzano chi è che gli dice di non fare niente?". Ovvero, di fermare le stragi dopo l'arresto del 'capo dei capi'. "Qualcuno ci deve essere che glielo dice, perché non devo fare niente? Quindi tu collabori con questa gente... a fare il carabiniere pure... e non dici... a rispondergli giusto, regolarmente, e dirgli: perché devo fare questo?". Riina accusava senza mezzi termini Provenzano di avere avuto un ruolo determinante nella trattativa fra pezzi dello Stato e i vertici della mafia. "Ai tempi miei, di Totò Riina, 'u zu Totò Riina solo trattava cose e persone importanti - diceva ancora con tono solenne - Però... è inutile questo trio... di uomini... non ce n'è che a trovare le idee di un cristianu ... che si mettono a disposizione per fare i carabinieri". Un chiarissimo sfogo contro Provenzano, per come si sarebbe comportato. Dopo l'arresto di Riina, l'organizzazione si spaccò, tra i 'falchi' (i Graviano, Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella), che volevano la prosecuzione della linea dura con le stragi in continente, e le 'colombe' (Provenzano, Pietro Aglieri e Carlo Greco): "Quello è un bambino che adesso si è ammalato - Riina parlava ancora di Provenzano - però Binnu... non capisco... come lo hanno fottuto... disgraziati... Lui i piccioli (i soldi, ndr) ce li ha. Tanto è vero che la moglie ce li ha conservati... ce li ha messi a gazzane (nelle mensole, ndr)".

Provenzano e le "stragi di Stato". In quei giorni arrivò a disconoscerlo: "Provenzano non era del convento mio - disse a sorpresa il 4 agosto 2013 - certo lo rispettavo, ma lui era convinto che le cose erano a tarallucci e vino. Era un ragazzo dabbene, non un ragazzo che poteva fare malavita, non aveva niente a che vedere con la mafia". Parole che sembrano incredibili: "Era un ragazzo meraviglioso - aggiunse con tono severo - ma che tu non mi fai dormire tranquillo a me no. Dice, ma questa è sfiducia? No, non è sfiducia, è conoscere, cercare di conoscere la vita degli uomini". Riina arrivò persino a criticare Provenzano nelle sue scelte familiari: "Questo non ha capito niente. Lasciò i suoi figli in mezzo alla strada, e suo fratello se li è venuti a prendere a Corleone. Hanno fatto malavita mischini, poverini". Riina raccontava a modo suo un altro dei giorni importanti che precedettero la stagione delle stragi: il ritorno a Corleone della moglie e dei figli di Provenzano, quaranta giorni prima della bomba di Capaci. Provenzano aveva deciso di farli uscire dalla latitanza, sapeva che dopo il 23 maggio la storia della mafia e dell'antimafia sarebbe cambiata per sempre. Riina ribadiva di avere "avvertito" Provenzano, non è chiaro per cosa: "Però io ce l'avevo detto, Binnu usciamone, e lui mi ha detto: per ora sono messo, che so... ci sono cristiani... che ti ha detto? Perfetto. Eh... Binnu... meschino, mi è dispiaciuto, era una persona, un grande uomo ed un signore... era serio". La strage di via dei Georgofili, a Firenze, il 27 maggio 1993 Cosa era accaduto per davvero fra Riina e Provenzano? Quale scelta li aveva divisi? Per la procura di Palermo fu davvero Provenzano a vendere Riina ai carabinieri. Intanto lui, il 'capo dei capi' in carcere dal 1993, continuava a incensarsi: "Con me hanno tutti da perdere, perché io sono un tedesco nato, i tedeschi dovrebbero venire a scuola da me per imparare il tedesco buono". E ancora: "A me il terreno mi ha buttato e il cielo mi ha accolto... Minchia, stavo sempre dalla parte della ragione". E non gli importava che alla fine Provenzano avesse proseguito la stagione delle stragi che aveva avviato lui. Riina voleva altre stragi in Sicilia, non oltre lo Stretto. "Provenzano ha fatto queste stragi di Stato, disonesta mia madre... ci ha pensato lui... A Firenze ci devi mandare a Binnu Provenzano", diceva al compagno dell'ora d'aria. "Se io sono siciliano perché le devo andare a fare fuori dalla Sicilia?". E, poi, ecco un riferimento al famigerato papello, le richieste che avrebbe fatto avere allo Stato per bloccare i massacri del 1992: "La cosa si fermò, tre quattro mesi.... ma non è che si è fermata... comunque... io l'appunto gliel'ho lasciato". L'appunto. A chi lo consegnò? Questo Riina non l'ha mai detto.

Il generale Mori e l'ex sindaco Ciancimino. All'inizio di questa indagine, partita nel 2008 dopo le dichiarazioni di Massimo Ciancimino (il figlio di don Vito), il presunto motore della 'Trattativa' si chiamava Calogero Mannino, l'ex ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno. Secondo i pubblici ministeri di Palermo, ad avviare la trattativa con i vertici di Cosa nostra, all'inizio del '92, sarebbe stato lui, perché temeva di essere ucciso. C'è traccia di un dialogo riservato che avrebbe avuto con il maresciallo Giuliano Guazzelli, che pur non facendo parte dei reparti investigativi dell'Arma era in ottimi rapporti con l'allora comandante del Ros Antonio Subranni. Ma le accuse contro Mannino, che ha chiesto di essere giudicato col rito abbreviato, sono cadute. E l'assoluzione è ormai diventata definitiva. Il generale Mario Mori Dunque, adesso, l'inizio della storia ha un'altra data. E altri nomi. Maggio 1992, dopo la strage Falcone, l'allora capitano De Donno contatta l'ex sindaco mafioso Vito Ciancimino tramite il figlio. Mori dice di essere entrato in gioco solo dopo la strage Borsellino. Ciancimino junior lo smentisce, ma la sentenza di primo grado l'ha dichiarato testimone inattendibile. Però, un dialogo segreto ci fu, fra i carabinieri e Ciancimino. Loro hanno sempre detto, per discolparsi: "Era un contatto per provare a far cessare le stragi". Hanno ribadito: "Giammai, una trattativa può essere ritenuta illecita né sotto il profilo politico, né sotto quello giuridico, competendo al potere esecutivo e alle forze dell'ordine promuovere tutte le iniziative ritenute necessarie per prevenire l'ulteriore commissione di gravi crimini". Ma, la sentenza di primo grado ha smontato questa ricostruzione. Dice "che non può ritenersi lecita una trattativa da parte di rappresentanti delle istituzioni con soggetti che si pongano in rappresentanza dell'intera associazione mafiosa". E ricorda che in un'altra stagione drammatica per il Paese, quella dei giorni del rapimento di Aldo Moro, "lo Stato scelse la via dell'assoluta fermezza". Cosa che non sarebbe accaduta dopo la strage Falcone. L'iniziativa dei carabinieri fu più che un'azione di polizia spregiudicata, gli imputati finirono per stimolare "il superamento del muro contro muro", accusa la sentenza della corte d'assise di Palermo, che attribuisce a Mori, De Donno e Subranni "il dolo specifico di colui che abbia lo scopo di agevolare l'attività di un'associazione di tipo mafioso o che comunque abbia fatto propria tale finalità". Ecco perché le pesanti condanne, nonostante sia stato giudicato "inattendibile" Massimo Ciancimino. Ma altre prove accusano i tre ufficiali dell'Arma. Ad esempio, il racconto dell'ex ministro dei lavori pubblici di Provenzano, Pino Lipari, che ha accettato di raccontare in aula alcuni dettagli importanti di quella stagione: "Ciancimino mi disse di avere consegnato il papello al capitano De Donno". Il "papello", ovvero il foglio con le richieste di Riina per fermare le stragi, che sarebbe arrivato all'ex sindaco tramite il medico di Riina, Cinà. I carabinieri hanno sempre negato di aver ricevuto quel documento. E hanno ribadito di avere operato soltanto per provare ad arrivare alla cattura di Riina, poi in effetti bloccato la mattina del 15 gennaio 1993. Vito Ciancimino e suo figlio Massimo Eppure, anche l'allora colonnello Mori aveva usato l'espressione "trattativa". Depose per la prima volta a Firenze, al processo per la strage dei Georgofili, subito dopo le prime dichiarazioni di Brusca. Il 27 gennaio 1998, l'ufficiale del Ros dichiarò: "Dissi a Ciancimino, ormai c'è un muro contro muro. Ma non si può parlare con questa gente?". Sullo sfondo, resta una domanda cruciale. Borsellino aveva scoperto la trattativa fra pezzi dello Stato e i vertici della mafia? E per davvero fu ucciso perché voleva ostacolare quel dialogo segreto? La corte di Palermo ha scritto: "È una conclusione che trova una qualche convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie Agnese, poco prima di morire Borsellino le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi". Tanti, troppi misteri ci sono ancora attorno alla morte di Paolo Borsellino.

Dell'Utri, il secondo tramite. Dopo i carabinieri, entra in scena un altro intermediario fra lo Stato e la mafia: Marcello Dell'Utri. È il 1993. Non sarebbe stato più Riina il terminale, perché ormai in carcere, ma Bernardo Provenzano. Mentre le bombe continuavano ad esplodere, fra Roma, Milano e Firenze, i boss avrebbero provato a mettere in campo un altro ricatto per ottenere i benefici che cercavano. "Dell'Utri ha fatto da motore, da cinghia di trasmissione del messaggio mafioso", questa l'accusa. "Il messaggio intimidatorio fu trasmesso da Dell'Utri e recapitato a Berlusconi". Ecco, cosa ha scritto la sentenza di condanna: "Nel 1994, Dell'Utri riuscì poi a convincere Berlusconi ad assumere iniziative legislative che se approvate avrebbero potuto favorire l'organizzazione". Il presupposto è nei rapporti che Dell'Utri avrebbe intrattenuto con l'organizzazione mafiosa dal 1974 al 1992, e per queste relazioni è stato condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Dell'Utri ha già scontato sette anni, perché ritenuto il gran mediatore di un accordo fra Cosa nostra e l'imprenditore Berlusconi, che cercava protezione: prima, per la propria famiglia; poi, per i ripetitori in Sicilia. Ma questa è un'altra storia misteriosa. Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi Berlusconi si è sempre avvalso della facoltà di non rispondere. Anche nel corso del processo d'appello per la 'Trattativa Stato-mafia'. E la cosa non è piaciuta davvero alla moglie di Dell'Utri: "È meglio che non parlo - ha detto Miranda Ratti all'AdnKronos, il 25 settembre 2019 - meglio che non dico quello che penso. Ricordo solo che la testimonianza di Berlusconi era stata ritenuta decisiva persino dalla Corte di assise d'appello di Palermo. Qui c'è la vita di Marcello in gioco". Una dichiarazione accorata, senza precedenti. Rafforzata anche da altre parole, attribuite dall'agenzia di stampa "all'entourage di Dell'Utri": "Sorpresa, rabbia, incredulità. E una grandissima amarezza". Che è successo fra i due amici di sempre? Un terremoto nella galassia che dagli anni Settanta ha tenuto insieme Berlusconi e l'allora segretario-amico tuttofare arrivato da Palermo, diventato il motore di tante attività imprenditoriali e poi uno dei fondatori di Forza Italia. Dell'Utri si aspettava che Berlusconi smentisse l'assunto su cui si fonda la condanna di primo grado del processo 'Trattativa': di aver ricevuto per il suo tramite le minacce di Cosa nostra quando era presidente del Consiglio, nel 1994. Minacce di nuove stragi, i boss puntavano ad ottenere un alleggerimento del carcere duro e una legislazione più favorevole. Ma Berlusconi ha preferito il silenzio, trincerandosi dietro la sua iscrizione nel registro degli indagati della procura di Firenze, per concorso nelle stragi del 1993. Indagine che condivide con Dell'Utri. Marcello Dell'Utri I giudici del processo di primo grado non hanno avuto dubbi: i padrini siciliani avevano già ricevuto garanzie precise da Marcello Dell'Utri. Ma, poi, un'intervista dell'allora vicepremier Maroni (messo in guardia dal procuratore Caselli) fece saltare la riforma del processo Berlusconi che avrebbe favorito i boss. È scritto anche questo nella sentenza di primo grado. "Soltanto Silvio Berlusconi, quale presidente del Consiglio - dice la corte d'assise di Palermo - avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo quale quello che fu tentato con l'approvazione del secreto legge del 14 luglio 1994 numero 440 e quindi riferirne a Dell'Utri, per tranquillizzare i suoi interlocutori", ovvero i mafiosi. I giudici ricostruiscono così: non solo "Berlusconi sapeva dei contatti fra Dell'Utri e Cosa nostra". Non solo, il fidato Dell'Utri "riferiva quanto si volta in volta emergeva sai suoi rapporti con l'associazione Cosa nostra mediati da Vittorio Mangano", lo stalliere di villa Arcore negli anni Settanta. Il 'decreto Biondi', che ufficialmente si occupava di corruzione e concussione, in realtà conteneva una piccola devastante norma che modificava il codice di procedura penale. E l'arresto per i boss non sarebbe stato più obbligatorio in assenza di "esigenze cautelari". C'era anche un altro regalo per Cosa nostra: dopo tre mesi, i magistrati dell'antimafia avrebbero dovuto comunicare l'esistenza delle indagini ai diretti interessati. Un dono senza precedenti per le cosche siciliane, in quel periodo impegnate in una trattativa a largo raggio con lo Stato. Nel 1993, le bombe esplose fra Roma, Milano e Firenze avevano già portato l'allentamento del carcere duro, con la revoca di 300 secreti di 41 bis firmati dall'allora ministro della Giustizia Giovanni Conso. Per l'accusa, un altro tassello della ricostruzione. L'ex Guardasigilli Conso ha però sempre respinto l'accusa, ribadendo che era stata una sua decisione "personalissima", non suggerita da nessuno. I boss puntavano ad ottenere di più. Programma ambizioso, ma in quel momento non appariva impossibile. Perché il nuovo presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, insediatosi l'11 maggio 1994, era anche l'imprenditore che continuava a pagare Cosa nostra, in virtù del "patto di protezione". "I pagamenti sono proseguiti fino al dicembre 1994", ha scritto il presidente della corte d'assise Montalto, citando le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giusto Di Natale. Dichiarazioni che erano già emerse nel processo per mafia contro Dell'Utri: "Una volta Pino Guastella mi disse di annotare 250 milioni di lire nel libro mastro. Disse: "Scrivi u sirpiente, che queste sono le antenne televisive si Berlusconi che si trovano a Monte Pellegrino". Il serpente stava per il Biscione". Parole che all'epoca del primo processo furono considerate troppo generiche in assenza si riscontri, e Dell'Utri venne assolto dalle accuse di mafia dopo il 1992. Salvatore Riina, il capo di Cosa nostra morto il 17 novembre 2017 Ma, adesso, c'è un "formidabile riscontro", hanno scritto i giudici di Palermo. Nelle intercettazioni in carcere, Salvatore Riina parla proprio della stessa cifra: "A nuatri - a noi - ci dava 250 milioni ogni sei mesi. Duecentocinquanta milioni. Soldi che ci spettavano a nuatri". Eccolo, il "formidabile riscontro". Riina conferma le parole che tanti anni fa mise a verbale il cassiere del libro mastro del clan di Resuttana, quello che ha competenza sul Montepellegrino dei ripetitori.

Documenti e tracce del dialogo segreto. Ma quando è emerso per la prima volta un indizio della cosiddetta "trattativa"? Tre anni prima delle rivelazioni del pentito Giovanni Brusca ai magistrati, qualcuno ai vertici dello Stato aveva già scoperto il dialogo segreto fra Cosa nostra e pezzi delle istituzioni. Proprio mentre era in corso, nel settembre 1993: un mese e mezzo prima, i boss avevano lanciato la loro ultima sfida a Milano, con un'altra bomba, dopo quelle di Roma e Firenze. La linea ufficiale dello Stato era quella della fermezza, soprattutto nelle carceri. Ma, intanto, pezzi delle istituzioni avrebbero trattato con pezzi della mafia, per arrivare a un compromesso. Una verità drammatica, allora inedita anche per i pm che indagavano sulle stragi Falcone e Borsellino: per la prima volta, veniva prospettata dal servizio centrale operativo della polizia, che aveva raccolto alcune importanti informazioni. Immediatamente, lo Sco mise in allerta la commissione parlamentare antimafia, allora presieduta da Luciano Violante, con un documento "riservato". Quel documento, però, è rimasto chiuso per tanti anni negli archivi della commissione antimafia. È saltato fuori nel 2011, durante le indagini che i commissari di Palazzo San Macuto hanno condotto sul '92-'93. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino "Protocollo 123G/731462/10/I-3. Roma, 11/9/1993. Oggetto: Attentati verificatisi a Roma, Firenze e Milano. Per quanto d'interesse si trasmette appunto riservato concernente gli attentati". Firmato, il direttore del servizio. Su questo foglio, che porta l'intestazione dello Sco, c'è un timbro della commissione antimafia: "Arrivato il 14/9/1993". "Obiettivo della strategia delle bombe - scriveva lo Sco - sarebbe quello di giungere a una sorta di trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che attualmente affliggono l'organizzazione: il 'carcerario' e il 'pentitismo' ". Non fu per un'intuizione investigativa che per la prima volta la parola "trattativa" finì in un documento dello Stato. Lo Sco precisava: "Nel corso di riservata attività investigativa funzionari dello servizio hanno acquisito notizie fiduciarie di particolare interesse sull'attuale assetto e sulle strategie operative di Cosa nostra". Da qualcuno ben informato gli investigatori avevano saputo che dopo il fallito attentato a Maurizio Costanzo (a Roma, il 14 maggio), "i successivi attentati non avrebbero dovuto realizzare stragi - così scrivevano - ponendosi invece come tessere di un mosaico inteso a creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una "trattativa", per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa nostra anche canali istituzionali". L'attentato contro Maurizio Costanza In tre pagine, datate "Roma, 8/9/93", c'erano già i protagonisti della trattativa: i boss e non meglio identificati "canali istituzionali". Lo Sco (allora diretto da Nicola Simone, con Antonio Manganelli e Alessandro Pansa fra i più stretti collaboratori) proseguiva: "Per raggiungere l'obiettivo della 'trattativa' - secondo le fonti informative - la strategia del terrore potrebbe proseguire con analoghe iniziative criminali e, poi, con una seconda fase in cui verrebbero eseguiti attentati volti all'uccisione di personaggi impegnati nella lotta alla mafia". Era un'altra drammatica realtà: dopo Milano, Cosa nostra puntava a far saltare in aria un pullman di carabinieri, a Roma. Ma poi, all'improvviso, i boss si fermarono. Chissà se la nota dello Sco finì mai sulla scrivania del ministro della Giustizia Conso, che a novembre aveva fatto scadere 140 decreti di 41 bis. L'ennesimo mistero.

Le bombe, i ricatti e le leggi a favore di Cosa nostra: storia e segreti della Trattativa Stato-mafia. Dopo le condanne, è attesa per l’Appello. In attesa della sentenza del processo di secondo grado ecco tutto quello che c'è da sapere sul processo di Palermo: dalle condanne di primo grado e la ricostruzione dell'accusa alle richieste delle difese, passando per quelli che possono essere i punti deboli del procedimento, come l'assoluzione in via definitiva di Mannino. E poi il silenzio di Berlusconi, citato come teste da Dell'Utri, il ruolo degli altri ufficiali dei carabinieri e le parole di Riina sussurrate a un agente di Polizia penitenziaria durante una pausa del procedimento di primo grado: "Erano loro che cercavano me”. Giuseppe Pipitone su Il Fatto Quotidiano il 21 settembre 2021. Lo Stato può processare se stesso? È la domanda che da oltre un decennio accompagna le indagini sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Dopo tre anni di indagini e cinque di processo, i giudici di primo grado avevano risposto affermativamente: non solo lo Stato può processare se stesso, o meglio alcuni suoi esponenti, ma li può pure condannare. E infatti il 20 aprile del 2018 la corte d’Assise presieduta da Alfredo Montalto aveva considerato colpevoli quasi tutti gli imputati del processo sul Patto segreto che durante la stagione delle bombe aveva portato lo Stato a cedere alla minaccia dei boss. Ora, però, tocca ai giudici del processo di secondo grado esprimersi. Nella tarda mattinata del 20 settembre la corte d’Assise d’Appello, presieduta da Angelo Pellino e con a latere Vittorio Anania, si è ritirata in camera di consiglio all’interno dell’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo. Dovrà decidere se dare ragione alla pubblica accusa, rappresentata dai sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, che ha chiesto di confermare tutte le condanne del primo grado. Oppure se ascoltare i difensori degli imputati, sconfessando dunque le oltre cinquemila pagine con le quali la corte d’Assise aveva motivato la sentenza del 2018. Le condanne di primo grado – Quel giorno i giudici avevano condannato a dodici anni di carcere gli ex vertici del Ros dei carabinieri, Mario Mori e Antonio Subranni. Stessa pena per l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri e per Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina. Otto gli anni di detenzione erano stati inflitti all’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno, ventotto quelli per il boss Leoluca Bagarella. Erano state prescritte le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci, mentre era stato assolto Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza: per l’ex ministro della Dc la procura non aveva fatto ricorso, quindi la sentenza è poi diventata definitiva. Sono state invece dichiarate prescritte nel luglio del 2020, dunque durante il processo d’Appello, le accuse a Massimo Ciancimino, uno dei testimoni fondamentali del processo, che in primo grado era stato condannato a 8 anni per calunnia a Gianni De Gennaro. Non sono arrivati alla sentenza di primo grado, invece, i due imputati principali: Totò Riina e Bernardo Provenzano, i vertici di Cosa nostra deceduti in carcere tra il 2016 e il 2017. Il reato contestato – Gli imputati condannati in primo grado sono stati tutti riconosciuti colpevoli del reato disciplinato dall’articolo 338 del codice di penale: quello di violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. In pratica sono stati condannati per aver veicolato al governo l’intimidazione della mafia: altre bombe e altre stragi se non fosse cessata l’offensiva antimafia dell’esecutivo. Anzi degli esecutivi, cioè i tre governi che si sono alternati alla guida del Paese tra il giugno del 1992 e il 1994: quelli di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi alla fine della Prima Repubblica, quello di Silvio Berlusconi, all’alba della Seconda. La minaccia dei boss, secondo la sentenza di primo grado, è stata “trasmessa” in un primo momento dagli alti ufficiali dei carabinieri che presero contatti con Vito Ciancimino, e in un secondo momento da Dell’Utri, fondatore di Forza Italia e storico braccio destro di Berlusconi. E dunque mentre la piovra assassinava magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, inermi cittadini nelle stragi di Firenze e Milano, uomini delle istituzioni hanno cercato un contatto: sono diventati il canale che ha condotto fino al cuore dello Stato la minaccia violenta dei corleonesi. Il Maxi Processo e l’inizio della stagione delle bombe – È Riina l’uomo che decide di dichiarare guerra allo Stato quando diventano definitivi gli ergastoli del Maxi Processo istruito da Falcone e Borsellino. C’è una data che cambia per sempre la storia d’Italia: il 30 gennaio del 1992. Quel giorno a Roma la Cassazione condanna i boss mafiosi al carcere a vita: è la prima volta che succede, nonostante i politici avessero assicurato il contrario. È il “fine pena mai” lo spettro che scatena la furia del capo dei capi di un’organizzazione criminale all’epoca capace di un’enorme potenza di fuoco. Già dalla fine del 1991 il boss corleonese aveva cominciato a riunire periodicamente i suoi in un casolare nelle campagne di Enna per dettare la linea: in caso di pronuncia sfavorevole bisognava “pulirsi i piedi”. Bisognava, cioè, massacrare tutti quei politici che non avevano rispettato i patti. Il primo è Salvo Lima: la sua chioma bianca riversa nel sangue di Mondello il 12 marzo del 1992 è l’atto numero uno della guerra allo Stato. Ma è anche un messaggio diretto a Giulio Andreotti nel giorno in cui iniziava la campagna elettorale per le politiche di aprile. “Il rapporto si è invertito: ora è la mafia che vuole comandare. E se la politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola”, scriveva Falcone su La Stampa, poche settimane prima di saltare in aria nella strage di Capaci. “Fare la guerra per fare la pace”, è quello che andava dicendo in quel periodo Riina ai suoi soldati più fidati. Come Brusca, che in aula ha ricordato: “A fine giugno Riina disse: si sono fatti sotto, ci vuole un altro colpetto”. Era il 2013, invece, quando, durante una pausa del processo di primo grado, lo stesso Riina si era rivolto con queste parole a un agente di Polizia penitenziaria: “Ma io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me”. I punti deboli: l’assoluzione definitiva di Mannino – Chi è che si era fatto sotto con Riina? Chi erano quelli che cercavano il capo dei capi? Secondo l’accusa i carabinieri di Subranni e Mori, attivati da Calogero Mannino, intimorito dalle minacce ricevute proprio da Cosa nostra. Questo passaggio, che è poi il prequel della Trattativa, è il principale punto debole della ricostruzione operata a suo tempo dalla procura di Palermo e confermata dalla procura generale – fino a poco tempo fa guidata da Roberto Scarpinato – nel processo d’Appello. Mannino, infatti, ha scelto di farsi processare con l’abbreviato ed è stato assolto in via definitiva. Nell’aprile del 2018, quando il giudice Montalto ha condannato gli imputati del procedimento principale, l’ex ministro della Dc era stato assolto solo in primo grado. La corte d’Assise dribblò quella sentenza così: “Subranni ha recepito (anche) le preoccupazioni esternategli in modo sempre più pressante, già all’indomani dell’uccisione di Salvo Lima, da Calogero Mannino, il quale temeva – deve dirsi, peraltro, fondatamente – di poter essere una delle possibili successive vittime della vendetta in tale contesto, nasce l’iniziativa del Ros comandato da Subranni diretta a intraprendere i contatti con Vito Ciancimino col fine precipuo di raggiungere, attraverso l’intermediazione del predetto che si sapeva essere particolarmente vicino ai corleonesi di Cosa nostra, direttamente i vertici dell’associazione mafiosa”. Ora però la sentenza di assoluzione di Mannino è stata confermata in via definitiva: non chiese di trattare con Cosa nostra ma continuò a combatterla. Seguendo questa ricostruzione i giudici definiscono la tesi dell’accusa “non solo infondata, ma anche totalmente illogica ed incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti”. Per cercare di confutare queste critiche, i sostituti pg Fici e Barbera hanno depositato agli atti del processo d’Appello una complessa e dettagliata memoria. I dubbi sul reato e l’accelerazione dell’uccisione di Borsellino – L’altro punto che può rappresentare una crepa nella tesi della pubblica accusa è rappresentato dal reato contestato agli imputati. Non esiste infatti il reato di Trattativa, neanche quando si tratta d’interloquire con la mafia. E infatti ai mafiosi, ai carabinieri e a Dell’Utri viene contestata la violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato: il reato che hanno compiuto è quello di aver veicolato la minaccia stragista di Cosa nostra fino al governo in carica in quel momento. E in questo modo hanno incoraggiato la convinzione di Riina: piazzare bombe era una buona strategia. “Al governo gli devo vendere morti, al governo morti gli devono dare”, diceva il capo dei corleonesi in una delle tante intercettazioni in carcere dell’inverno 2013. E’ per questo motivo, sempre secondo la corte d’Assise, che meno due mesi dopo Falcone salta in aria pure Borsellino. Per quale motivo, visto che dopo pochi giorni il Parlamento avrebbe dovuto votare il decreto sul 41-bis – il cosiddetto carcere duro per i mafiosi – e in quel momento una maggioranza in grado di approvarlo non c’era? Quel decreto sarà votato subito dopo la strage di via d’Amelio: a che pro dunque alzare il tiro, provocando la reazione dello Stato? Semplice: dopo la strage di Capaci a Cosa nostra era arrivato un segnale. “Non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo”, è uno dei passaggi fondamentali delle motivazioni delle condanne di primo grado. “Le stesse menti raffinatissime che avevano sostenuto la coabitazione tra il potere criminale e le istituzioni, avviando la trattativa, consentono a Riina di dire che lo Stato si è fatto sotto e ciò induce ulteriore violenza”, ha detto il pg Fici durante la requisitoria. Il ruolo di Dell’Utri, l’uomo cerniera – Comincia la Trattativa e tra gli oggetti dello scambio c’è pure la stessa libertà di Riina: che infatti viene arrestato nel gennaio del 1993 proprio dagli uomini di Mori. Sarà un caso, ma tra le frasi che il capo dei capi decide di farsi sfuggire chiacchierando con l’agente penitenziario, ci sono anche queste parole: “Io sono responsabile di tutte queste cose? A me mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono i carabinieri”. Di sicuro c’è solo che subito dopo l’arresto il covo di Riina a Palermo non viene perquisito proprio per decisione dei militari: due settimane dopo, quando finalmente gli investigatori entrano nella villa che aveva ospitato la latitanza del capo dei capi, non trovano nulla. Mani ignote hanno ripulito ogni stanza, svuotato la cassaforte e ritinteggiato persino le pareti. Il bastone del comando di Cosa nostra, con annessi documenti top segret e segreti inconfessabili, finisce nelle mani di Provenzano. Secondo la ricostruzione dell’accusa, dopo l’arresto di Riina e dei fratelli Graviano “i pezzi deviati dello Stato che avevano sostenuto la trattativa hanno garantito una latitanza protetta per Bernardo Provenzano”. L’assoluzione post 1992 e i soldi a Cosa nostra – E’ in quel momento, mentre il sistema politico italiano veniva travolto da Tangentopoli e le bombe mafiose insanguinavano il Paese, che succede qualcosa di nuovo. “Nasce Forza Italia”, ha fatto notare la procura generale nella requisitoria, definendo Dell’Utri come l’uomo che in quel momento ha “curato la tessitura dei rapporti tra Cosa nostra e ‘ndrangheta e il potere politico“. Problema: per i contatti con Cosa nostra successivi al 1992 Dell’Utri è stato già assolto in via definitiva, nella stessa sentenza che invece lo ha condannato per concorso esterno relativamente al periodo precedente. “I giudici mi fanno passare per mafioso fino al ’92, ma cadono in contraddizione: se fosse vero, la mafia non mi avrebbe mollato proprio nel ’92, quando poteva sperare nei veri vantaggi del potere, della politica”, aveva commentato all’epoca l’ex senatore. Analisi assolutamente condivisibile e che infatti i giudici del processo di primo grado hanno condiviso. “Con l’apertura alle esigenze dell’associazione mafiosa Cosa nostra, manifestata da Dell’Utri nella sua funziona di intermediario dell’imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo sceso in campo in vista delle politiche del 1994, si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992″, si legge nelle 5252 pagine delle motivazioni redatte dalla corte d’Assise. Che considera provato un fatto decisivo: i pagamenti da Berlusconi a Cosa nostra non si sono interrotti nel 1992 ma sono proseguiti “almeno fino al dicembre 1994″, quando cioè Berlusconi era entrato già a Palazzo Chigi. Il tramite di questo legame è sempre Dell’Utri, che “interloquiva con Berlusconi anche riguardo al denaro da versare ai mafiosi ancora nello stesso periodo temporale (1994) nel quale incontrava Vittorio Mangano per le problematiche relative alle iniziative legislative oggetto dei suoi colloqui con il medesimo Mangano, così che non sembra possibile dubitare che Dell’Utri abbia informato Berlusconi anche di tali colloqui e, in conseguenza, della pressione o dei tentativi di pressione”. Le leggi a favore dei boss raccontate ai boss – A leggere la sentenza di primo grado, in pratica, non solo il primo esecutivo guidato da Forza Italia portò avanti progetti di legge favorevoli a Cosa nostra, ma gli stessi mafiosi vennero a sapere di quelle norme molto prima dei ministri competenti. “Ci si intende riferire al fatto che in quella occasione del giugno – luglio 1994 Dell’Utri ebbe a riferire a Mangano ‘in anteprima’ di una imminente modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia senza clamore, o per meglio dire nascostamente tanto che neppure successivamente fu rilevata, inserita nelle pieghe del testo di un decreto legge che rimase pressoché ignoto, nel suo testo definitivo, persino ai Ministri sino alla vigilia, se non in qualche caso allo stesso giorno, della sua approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del Governo presieduto da Berlusconi”. La norma in questione, in pratica, aveva come obiettivo quello di modificare la custodia cautelare per i mafiosi. Che cosa voleva dire tutto ciò? Per i giudici del primo grado che le richieste di Cosa nostra arrivarono a Palazzo Chigi: “Anche il destinatario finale della pressione o dei tentativi di pressione – scrivono – e cioè Berlusconi, nel momento in cui ricopriva la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste che un’inattività nel senso delle richieste dei mafiosi avrebbe potuto fare insorgere”. Il testimone B. non risponde – Una ricostruzione che naturalmente i legali di Dell’Utri contestano completamente. Per dimostrare che l’ex senatore non è un mafioso ma un manager appassionato di libri antichi – nonostante la condanna definitiva per concorso esterno – l’avvocato Francesco Centonze ha chiamato come teste proprio Berlusconi. L’ex cavaliere avrebbe dovuto difendere quello che è uno dei suoi amici più antichi. E invece ha preferito produrre una documentazione che attesta il suo status d’indagato da parte della procura di Firenze per le stragi del 1993 e avvalersi della facoltà di non rispondere. “E’ meglio che non dico quello che penso. Ricordo solo che la testimonianza di Berlusconi era stata ritenuta decisiva persino dalla Corte di assise d’appello di Palermo. Qui c’è la vita di Marcello in gioco”, disse in quei giorni Miranda Ratti, consorte di Dell’Utri. Non sono imputati in questo procedimento ma giocano un ruolo nella ricostruzione dell’accusa anche i fratelli Graviano. Mentre a Palermo si celebrava l’appello della Trattativa, Giuseppe Graviano ha tenuto il suo show davanti alla corte d’Assise di Reggio Calabria: ha parlato di “imprenditori del nord che non volevano fermare le stragi”, ha sostenuto di aver incontrato Berlusconi “almeno tre volte” a Milano mentre era latitante, di averlo conosciuto tramite suo nonno, che negli anni ’70 avrebbe finanziato l’uomo di Arcore con venti miliardi di lire. Accuse tutte da dimostrare, che per l’avvocato Niccolò Ghedini erano “palesemente diffamatorie”, anche se non si è poi avuta notizia di una denuncia da parte del legale dell’ex premier. Anche i sostituti pg di Palermo le hanno valutate come scarsamente credibili e non le hanno prodotte agli atti del processo. Nel frattempo la tranche dell’inchiesta sulla Trattativa in cui era ancora indagato lo stesso Graviano è stata archiviata perché è scattata la prescrizione. Chi è il presidente della Corte d’Assise – È su questo che si basa il processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Un procedimento complesso, che dieci anni fa portò a uno scontro frontale tra la procura di Palermo e il Quirinale per il caso delle intercettazioni tra Mancino e Giorgio Napolitano. E che ha incrociato negli anni decine di indagini e processi celebrati da altre procure: l’ultimo è quello sulla cosiddetta ‘Ndrangheta stragista. Prima c’era stato il cosiddetto Borsellino quater, sulla strage di via d’Amelio, celebrato a Caltanissetta. Ma ci sono anche le indagini fiorentine sulle bombe del 1993 e il fallito attentato allo stadio Olimpico del 1994, che vedono indagati Berlusconi e lo stesso Dell’Utri. Senza considerare quello per il mancato arresto di Bernardo Provenzano nel 1995, dal quale il generale Mori è stato assolto in via definitiva. E’ su questo che la corte d’Assise Appello presieduta da Pellino è chiamata ad esprimersi. Il giudice è noto perché da presidente della corte d’Assise di Trapani ha celebrato il processo per l’omicidio di Mauro Rostagno, condannando all’ergastolo il boss Vincenzo Virga. In precedenza è stato il giudice a latere che ha redatto le motivazioni della sentenza sull’omicidio di Mauro De Mauro: nonostante l’assoluzione di Riina quelle pagine legano la scomparsa del giornalista de L’Ora all’assassinio di Enrico Mattei. Insomma, a decidere su un processo che fa luce su uno dei periodi più misteriosi della storia di questo Paese è un giudice che ha una lunga esperienza sui misteri italiani.

Trattativa Stato-mafia, il bis delle condanne è in salita: ecco perché. Marco Lillo su Il Fatto Quotidiano il 18 settembre 2021. Tra pochi giorni la Corte di assise di appello di Palermo dovrà decidere se la sentenza di primo grado sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia del 20 aprile 2018 vada confermata o annullata. Il processo iniziato nel 2012 ha visto alla sbarra insieme i boss Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca (Totò Riina e Bernardo Provenzano sono morti durante il processo), il medico mafioso Antonino Cinà e l’allora comandante del Reparto Operativo Speciale dei carabinieri, Antonio Subranni, l’ex vicecomandante Mario Mori e l’ex colonnello Giuseppe De Donno più l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri. In primo grado Bagarella si è visto infliggere ben 28 anni; Cinà, Dell’Utri, Mori e Subranni dodici anni; De Donno otto anni e Giovanni Brusca è stato salvato dalla prescrizione. Massimo Ciancimino è stato condannato per calunnia a otto anni. Nel processo parallelo l’ex ministro Dc Calogero Mannino, con il rito abbreviato, è stato assolto con sentenza confermata in appello e definitiva nel 2020. I sostituti procuratori generali che sostengono l’accusa in appello (Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, guidati dal procuratore generale Roberto Scarpinato) dopo lo stop su Mannino hanno chiesto comunque la conferma delle condanne per gli altri imputati.

Il reato Minaccia a corpo polito dello Stato. Il reato contestato non è la trattativa in sé ma la minaccia a corpo politico o amministrativo dello Stato, prevista dall’articolo 338 del codice penale. Il tema non è quindi se prima i carabinieri e poi Dell’Utri abbiano trattato con la mafia, ma se abbiano turbato l’azione dello Stato, dal 1992 al 1994, veicolando la minaccia di Cosa Nostra attuata con le stragi e gli attentati nel periodo 1992-1994. Le domande cui dovrà rispondere la Corte di assise di appello sono in sostanza due: la minaccia allo Stato attuata con le stragi è stata veicolata dai carabinieri del Ros e poi da Marcello Dell’Utri alle istituzioni? Le presunte ‘trattative’, che vedono come protagonisti da un lato i carabinieri e Dell’Utri e dall’altro gli emissari della mafia, configurano un reato? I carabinieri del Ros – Subranni, Mori e De Donno – sono stati condannati per l’innesco della Trattativa con don Vito Ciancimino dopo la strage di Capaci mentre Marcello Dell’Utri, co-fondatore di Forza Italia, è stato condannato per le pressioni veicolate al governo Berlusconi nel 1994. La sentenza di appello è attesa a partire dal 21 settembre. Le possibilità teoriche sono tre: conferma della condanna per tutti; assoluzione per tutti; oppure condanna per il primo segmento della Trattativa e non per il secondo o viceversa. La Corte potrebbe cioè assolvere solo Dell’Utri e condannare Mori, Subranni e De Donno. Oppure potrebbe condannare solo Dell’Utri. Più difficile ipotizzare uno ‘smembramento’ del destino dei tre ex carabinieri. Il presidente della Corte di assise di appello è Angelo Pellino, ricordato come il presidente della Corte di Trapani che nel 2014 ha condannato i boss per l’uccisione di Mauro Rostagno. Giudice a latere è Vittorio Anania, che ha indossato la sua prima toga, prestatagli da un collega, al picchetto d’onore per le morti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Difficile fare previsioni, ma la strada verso la conferma della condanna è in salita. L’ostacolo più grande è il giudicato definitivo della Cassazione che assolve l’ex ministro democristiano Calogero Mannino per gli stessi fatti. I due processi, quello con il rito abbreviato contro Mannino e quello ordinario contro tutti gli altri imputati, hanno avuto esiti diversi su fatti praticamente uguali. E questa non è una buona notizia per l’accusa.

Mannino assolto definitivamente nel 2020. Infatti la Procura generale capeggiata da Roberto Scarpinato ha cercato senza successo di ottenere dalla Cassazione e dalla Corte costituzionale la possibilità di ribaltare l’appello perso contro Mannino. Invano. Dopo la riforma del 2017, quando c’è una doppia assoluzione, il ricorso al terzo grado è inammissibile. La questione di legittimità costituzionale di questa norma è stata rigettata. Risultato: per la giustizia italiana Mannino è innocente e non ha attivato la Trattativa per salvarsi la vita contattando il generale Subranni. Non ha mai aiutato Cosa Nostra. Anzi l’ha combattuta. Il verdetto definitivo su Mannino bolla la tesi della Procura generale (sostenuta dagli stessi pm oggi nell’altro processo) così: “Non solo infondata, ma anche totalmente illogica e incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti”. La strada per la conferma della condanna è dunque un vicolo stretto e tortuoso. Quando nel 2018 furono condannati Subranni e compagni, c’era già l’assoluzione del 2015 del primo grado di Mannino. La Corte d’assise d’appello ora per confermare la condanna però dovrà saltare un muro più alto. L’assoluzione di primo grado per Mannino è diventato un giudicato. Dopo l’assoluzione di Mannino, la Corte d’assise scavalcò quel verdetto di primo grado così: “Al Subranni, invero, deve ricondursi l’ideazione della trattativa con i vertici mafiosi da cui ebbe a scaturire la minaccia rivolta da questi al governo della Repubblica. Subranni, infatti, ha recepito (anche) le preoccupazioni esternategli in modo sempre più pressante, già all’indomani dell’uccisione di Salvo Lima, da Calogero Mannino, il quale temeva – deve dirsi, peraltro, fondatamente – di poter essere una delle possibili successive vittime della vendetta (…) in tale contesto, nasce l’iniziativa del Ros comandato da Subranni diretta a intraprendere i contatti con Vito Ciancimino col fine precipuo di raggiungere, attraverso l’intermediazione del predetto che si sapeva essere particolarmente vicino ai corleonesi di Cosa Nostra, direttamente i vertici dell’associazione mafiosa”. Per la sentenza di primo grado, Mori e De Donno avrebbero quasi confessato la ‘trattativa’ nel 1998 quando testimoniarono al processo di Firenze sulle stragi continentali. La Corte li ha condannati anche sulla base delle loro parole perché l’iniziativa di andare a parlare nel 1992 con il mafioso Vito Ciancimino era tesa “non già come preteso dagli imputati allo sviluppo investigativo di indagini dirette a identificare i responsabili della strage di Capaci e a catturare i grandi latitanti di Cosa Nostra, ma all’intendimento di ristabilire in un certo senso una “normalità” di rapporti con gli esponenti dell’associazione mafiosa, e cioè quella “coabitazione” (…), di modo da far salva la vita a coloro che temevano di essere travolti dalla furia mafiosa (in primis l’On. Mannino che, come si è già detto, in tal senso aveva sensibilizzato l’amico Subranni)”. Un anno dopo, la Corte di appello del processo Mannino ha confermato l’assoluzione dell’ex ministro nella sentenza ormai definitiva firmata dalla presidente Adriana Piras che fa a pezzi questa tesi. Il Ros avrebbe fatto “un’operazione info-investigativa di polizia giudiziaria comunicata da Mori e De Donno al loro diretto superiore gerarchico che allora era il generale Subranni (…) realizzata attraverso la promessa di benefici personali a Ciancimino (…) tale operazione si proponeva attraverso la sollecitazione a un’attività di infiltrazione di Vito Ciancimino in Cosa Nostra, che ne avrebbe dovuto contattare i capi, il precipuo fine della cattura di Totò Riina”. Insomma nessun input politico di Mannino. Nessuna trattativa finalizzata a far finire le stragi in cambio di benefici a Cosa Nostra. Solo un tentativo di arrestare Riina con la soffiata di Ciancimino in cambio di benefici individuali a don Vito. Addirittura, sempre per la sentenza di appello che assolve Mannino, non sarebbe provato nemmeno che il mancato rinnovo nel novembre 1993 di circa 300 decreti di isolamento carcerario al 41-bis fosse dettato dal cedimento alla minaccia stragista. Questa lettura minimalista è rigettata dalla sentenza firmata dal presidente Alfredo Montalto nel 2018 secondo la quale nell’azione del Ros di Mario Mori c’era “il chiaro invito a Ciancimino (…) a prestare la propria opera per recapitare ai vertici mafiosi un messaggio di apertura al dialogo (“Ma non si può parlare con questa gente?”) finalizzato a “normalizzare” l’anomalia creatasi a seguito dell’uccisione di Salvo Lima e della prevedibile e prevista uccisione di altri politici oltre che della vendetta che aveva travolto il Dott. Falcone, nel rapporto di secolare coabitazione tra mafia e Istituzioni di modo da far cessare la totale contrapposizione (il “muro contro muro”) che, evidentemente, a Mori (e a Subranni che lo aveva incaricato), rispetto alla ‘coabitazione’, appariva invece innaturale”.

I pm a maggio depositata la memoria sull’ex ministro. La Corte di assise di appello ora dovrà scegliere tra queste due opposte tesi. I sostituti procuratori generali Fici e Barbiera hanno depositato a maggio una memoria di 78 pagine in 21 punti che contesta le omissioni e l’illogicità nella motivazione della sentenza Mannino e la mancata assunzione di prove asseritamente decisive. In testa le testimonianze dei collaboratori Francesco Onorato e Giovanni Brusca. E poi il travisamento della testimonianza di Agnese Borsellino sulle confidenze ricevute dal marito poco prima della strage di via D’Amelio sul generale Subranni. La Corte d’assise di appello potrebbe opporre il giudicato assolutorio su Mannino oppure potrebbe rivalutare quei fatti e darne diversa lettura. Forse solo la sorte processuale di Marcello Dell’Utri potrebbe essere più facilmente slegata da quella di Mannino e dei carabinieri. Dell’Utri in fondo è stato assolto già in primo grado per la prima fase della Trattativa ed è stato condannato solo per il suo ruolo di ‘mediatore’ nel periodo successivo alla vittoria di Forza Italia nel 1994. Secondo i giudici di primo grado, avrebbe incontrato Vittorio Mangano due volte nel 1994 per parlare delle modifiche legislative delle norme sugli arresti dei boss che Cosa Nostra chiedeva al governo Berlusconi, a suon di bombe. Nella ricostruzione della Corte di assise, i mandanti di quell’iniziativa di Mangano sarebbero stati i boss Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca. A raccontare le confidenze ricevute sugli incontri sul lago di Como dallo stesso Mangano è stato un collaboratore di giustizia vicino a Mangano, Salvatore Cucuzza, poi morto. Nel precedente processo per concorso esterno in associazione mafiosa contro Dell’Utri però Cucuzza non era stato ritenuto attendibile sul punto. Tanto che in quella sentenza, divenuta definitiva nel 2014, Dell’Utri è stato condannato sì, ma per i suoi rapporti con Cosa Nostra solo fino al 1992. Mentre è stato assolto per il periodo successivo. I giudici del processo sulla Trattativa hanno però superato l’ostacolo di quel giudicato favorevole all’ex senatore con elementi nuovi. Si sono così convinti che Cucuzza dica il vero: per la Corte di Assise, Mangano incontrò Dell’Utri, percepì la minaccia e la riferì a Berlusconi. “Il destinatario finale della “pressione” o dei “tentativi di pressione”, e cioè Berlusconi, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste”. Certo, manca un testimone diretto della trasmissione della minaccia a Berlusconi, mai indagato. La Corte d’assise ammette che “si tratta di una prova indiretta”. Ora bisognerà vedere se quella prova basterà anche in appello.

Trattativa Stato-mafia, la difesa degli ex Ros: «È un processo senza prove». I giudici della Corte di Assise di appello sono entrati in camera di consiglio. Passeranno alcuni giorni prima di conoscere il verdetto sul processo trattativa Stato-mafia. Il collegio presieduto da Angelo Pellino con a latere Vittorio Anania, non si allontanerà dal bunker del carcere Pagliarelli. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 20 settembre 2021. «In un processo, quello che non è provato non esiste. La procura generale ha perso l’ennesima occasione per dimostrare le prove, perché anche nel corso delle repliche non ha detto nulla sulla “minaccia al corpo politico dello Stato”, il capo di imputazione». Sono le parole dell’avvocato Basilio Milio, difensore del generale Mario Mori, durante la controreplica finale al processo d’appello trattativa Stato-mafia. La difesa si è ritrovata costretta a ribadire concetti, con riferimenti documentali, che il sostituto procuratore generale ha riaffrontato durante la sua replica dei giorni scorsi. Dalla questione del dossier mafia-appalti, come causa dell’accelerazione della strage di Via D’Amelio, alla collaborazione del pentito Pietro Riggio che nulla a che vedere con gli ex Ros imputati visto che non erano più ai reparti speciali all’epoca dei presunti fatti, alla questione del telefonino sequestrato a Giovanni Napoli (il favoreggiatore della latitanza di Provenzano) e poi restituito dopo aver estratto i dati. Anche l’avvocato Francesco Romito, difensore dell’ex Ros Giuseppe De Donno, ha dovuto controreplicare affrontando la questione Riggio. In particolare il fatto che da infiltrato in Cosa Nostra, secondo il legale era giusto l’arresto dopo che i Ros nisseni (ricordiamo che non c’entrano con gli imputati) hanno scoperto che commetteva dei reati. La figura dell’infiltrato – istituto regolato giuridicamente – non permette di compiere crimini, ma essere solo osservatori. D’altronde, nel nostro Paese, non è contemplato giuridicamente nemmeno l’agente provocatore. Nelle controrepliche è intervenuto anche l’avvocato Francesco Centonze, legale dell’ex senatore Marcello Dell’Utri. «La Pg – ha detto l’avvocato – ci ha intrattenuto su una analisi direi sociologica, casistica e aneddotica sul messaggio mafioso, ma non ha citato fatti relativi a questo processo o documenti relativi a questo processo, o testimonianze relative a questo processo». I giudici della Corte di Assise di appello sono entrati in camera di consiglio. Passeranno alcuni giorni prima di conoscere il verdetto. Il collegio presieduto da Angelo Pellino con a latere Vittorio Anania, non si allontanerà dal bunker del carcere Pagliarelli. Prima di entrare in camera di consiglio, il presidente Pellino ha annunciato che uno dei giudici popolari si è ritirato per motivi di salute ed è stato sostituito.

Trattativa Stato-mafia, quel romanzo di una strage basato sul nulla. L’impianto accusatorio del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia è stato costruito su una serie di ipotesi, per le quali non ci sono stati riscontri, basate sulle dichiarazioni “oscillanti” del pentito Giovanni Brusca, sul falso “papello” consegnato da Ciancimino Jr e su una serie di racconti suggestivi. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 16 settembre 2021. Dopo lunedì prossimo, 20 settembre, ci sarà la tanta attesa sentenza sul processo d’appello della presunta trattativa Stato-mafia. Gli imputati principali sono gli ex Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni. I politici della Prima Repubblica, quelli che secondo la tesi giudiziaria avrebbero dato l’avvio alla trattativa per garantirsi l’incolumità dalla mafia corleonese, sono usciti fuori dal processo. Assolti. L’ex ministro democristiano Calogero Mannino, che ha scelto il rito abbreviato, è stato assolto fino in Cassazione per non aver commesso il fatto. Mentre l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino è stato scagionato in primo grado per non aver commesso falsa testimonianza. L’unico politico imputato rimasto è quello della Seconda Repubblica. Parliamo dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, colui che avrebbe proseguito, al posto dei Ros, la trattativa: in quel caso, la vittima sarebbe stato il governo Berlusconi. Poi ci sono gli imputati mafiosi: Totò Riina e Bernardo Provenzano che nel frattempo sono morti, e Leoluca Bagarella. Mentre esce di scena, perché assolto in primo grado, il mafioso pentito Giovanni Brusca. La corte d’Appello ha dichiarato prescritto il reato di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Sia Brusca che Ciancimino, usciti incolumi dal processo, sono stati i testimoni chiave che hanno permesso di avviare il processo trattativa. Senza di loro, il processo non si sarebbe mai potuto imbastire.

IL FAMOSO “PAPELLO” CHE HA PERMESSO L’AVVIO DEL PROCESSO È UN FALSO

Significativo ricordare che Ciancimino junior è stato condannato in primo grado per calunnia (poi prescritto) e, soprattutto, si è accertato che il cosiddetto “papello” con le richieste di Riina (prova decisiva che ha potuto dare l’avvio al processo) è un falso. Ma per la corte di primo grado è inconferente. Anche se è un falso, per i giudici rimangono comunque vere le richieste del “capo dei capi”.

Una non prova che nel contempo è anche una prova. Di fatto, nell’immaginario collettivo e giudiziario, il papello diventa certo. Perfino Riina, intercettato nel 2013 quando era al 41 bis dove per la Prima volta ammette di aver ordinato gli attentati, si imbestialisce su questa vicenda che gli addossano. Una non prova, ricordiamo, che ha permesso l’avvio del processo. Da ricordare, infatti, che la procura di Palermo fece due tentativi non andati a segno. Il primo è avvenuto nel 1998 attraverso l’avvio del procedimento chiamato “Sistemi Criminali” che, in sostanza, teorizza un collegamento tra tutte le stragi, da quella di Bologna fino ad arrivare a Capaci e Via D’Amelio.

IL TERZO LIVELLO STIGMATIZZATO DA GIOVANNI FALCONE  IN OGNI OCCASIONE

Una specie di terzo livello composto da massoni, estremismo nero, imprenditori, P2 e mafie di vario genere che hanno dato l’avvio alle stragi per destabilizzare la vita democratica nel nostro Paese. Un teorema che in realtà affiorava già ai tempi di Giovanni Falcone, visto che lui stesso l’ha stigmatizzato in tutte le occasioni. In una intervista al quotidiano l’Unità, fatta pochissimi giorni prima di morire, Falcone disse testualmente: «Se per terzo livello intendiamo una sorta di organizzazione che si trova al di sopra degli organismi di vertice di Cosa Nostra, composta da politici e imprenditori, creiamo una trama per un film tipo “La Piovra”. Finiremo con il creare la “Spectre di Fleming”. La realtà è molto più grave, molto più complessa. È peggiore: negare l’esistenza del terzo livello significa infatti affermare che comanda Cosa Nostra e non gli uomini politici. Questo, sfido chiunque a dimostrare il contrario, mi sembra molto più grave».

DAL 1998 LA PROCURA DI PALERMO HA PROVATO A DIMOSTRARE IL CONTRARIO

Gli allora procuratori di Palermo, nel 1998, inconsapevolmente provarono, di fatto, a sfidare Falcone per dimostrare il contrario. Ma non ci riuscirono. Hanno archiviato “Sistemi Criminali” perché non hanno trovato elementi per provare il loro teorema. Ma da questa archiviazione, nasce un altro procedimento mettendo sotto indagine Riina, Vito Ciancimino e il medico Antonio Cinà. Siamo nel 2000.

L’ipotesi che guidò i pm palermitani fu che, nel ’92, Riina, con la mediazione di Vito Ciancimino e l’apporto da veicolatore del medico mafioso Antonio Cinà, avesse esercitato un ricatto allo Stato, spendendo un suo “papello” di richieste dì benefìci per Cosa nostra, dettate da Riina come contropartita della cessazione dell’attacco stragista allo Stato ad una controparte composta da appartenenti alle istituzioni pubbliche e o politiche.

L’identità di tale controparte istituzionale non risultava però accertata e uno degli obiettivi che quell’indagine si prefiggeva era proprio di identificarla. Nemmeno risultava accertato quali risultati utili all’organizzazione mafiosa tale ricatto avesse conseguito a livello istituzionale.

Nulla di fatto. Nel 2004 i pm di Palermo chiedono l’archiviazione a causa dell’insufficienza di prova e soprattutto dalla non poca confusione dei risultati probatori raggiunti.

NEL 2008 ENTRA IN SCENA CIANCIMINO JR. E SI AVVIA IL PROCESSO

Ma entra in scena Massimo Ciancimino, colui che – ricordiamo ancora una volta – poi sarà condannato per calunnia e il “papello” da lui consegnato dichiarato falso. L’inchiesta a quel punto viene riaperta nel 2008. Sarà grazie a lui che le indagini vengono estese nei confronti degli ex Ros e anche nei confronti di Mannino: eccolo qua, trovata anche la parte politica che avrebbe avviato la trattativa.

Grazie a Ciancimino – in quel frangente elevato a icona antimafia -, questa volta il terzo tentativo è andato a buon segno: si è potuto imbastire l’attuale processo trattativa.

Attenzione, per motivi giornalistici si parla di “trattativa”, ma il reato è la “minaccia ad un corpo politico dello Stato”. In sostanza le vittime sono i tre governi che si sono succeduti dal ’92 fino al ’94. Ma dove sarebbe condensata la presunta “minaccia”? Qual è l’oggetto materiale attraverso il quale si è potuto veicolarla? È il famigerato papello con le richieste di Riina. La “prova” l’ha consegnata Ciancimino. Quel papello che, com’è detto, risulterà un falso.

COSA AVREBBE RICEVUTO IN CAMBIO LA MAFIA: NULLA

Ora però manca anche la prova dello scopo raggiunto dalla trattativa. La procura di Palermo l’ha trovata: la mancata proroga, da parte dell’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso, dei 41 bis a circa 300 detenuti. Anche qui, però, qualcosa non torna.

Le giudici che hanno assolto Mannino in entrambi i gradi, hanno dimostrato l’ovvio: l’allora ministro Conso, persona perbene e fine giurista, non ha subito alcuna pressione o minaccia. O meglio, una “pressione” l’ha avuta. Ma non dalla mafia o da chi avrebbe veicolato tale minaccia. La “pressione” è giunta dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 1993: il 41 bis non si tocca, però per farlo rientrare nei ranghi della nostra costituzione, non bisogna rinnovare automaticamente il 41 bis. In pratica, il rinnovo o meno, va valutato caso per caso.

ECCO PERCHÈ IL MINISTRO CONSO NON HA RINNOVATO IL 41 BIS A 336 DETENUTI

Riportiamo quindi i fatti analizzando scientificamente i dati. Un metodo razionale e logico, non dietrologico: per questo meno intrigante. A differenza di cosa dice la tesi accusatoria e il sentire comune, i fatti ci dicono che dei 336 detenuti non sottoposti al rinnovo del 41 bis, soltanto 18 appartenevano alla mafia. Non solo.

A sette di loro, peraltro, nel giro di poco tempo, dopo una ulteriore valutazione, è stato nuovamente riapplicato. Ma erano boss di calibro i pochi mafiosi ai quali non è stato rinnovato il 41 bis? Assolutamente no.

Dalle carte risulta che né dalla Procura di Palermo e né dalle forze dell’ordine, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro.

I ROS “TRATTAVANO CON VITO CIANCIMINO E INFORMARONO LA PROCURA

Risolto l’arcano, bisogna fare chiarezza su un punto importante. Si gioca molto sul fatto che lo stesso ex Ros Mario Mori ha parlato di trattativa quando fu sentito come teste al processo di Firenze di fine anni 90. Un termine sul quale tuttora si specula.

Gli ex Ros mai hanno nascosto di aver intrapreso un colloquio con don Vito Ciancimino. Hanno “trattato” con lui. Ma in che termini? Tutto scritto nero su bianco fin dal 1993, quando arrivò a capo della procura di Palermo Giancarlo Caselli, dopo le dimissioni di Pietro Giammanco. Subito gli riferirono dei colloqui intrapresi e chiesero di poter continuare.

Caselli – come ha recentemente testimoniato al processo d’Appello sulla trattativa – ha acconsentito ed è andato a sentirlo al carcere di Rebibbia, assieme all’allora magistrato Ingroia, con la presenza di De Donno. Dal verbale emerge che Ciancimino ha raccontato tutto ciò che è accaduto con i Ros. Tutto. Dalla richiesta del passaporto, fino a fare anche il nome dell’intermediario: ovvero Cinà.

ANCHE BORSELLINO NON FECE ALCUNA OBIEZIONE  AL TENTATIVO DEI ROS

Caselli non ci ha visto nulla di male. Esattamente come Borsellino: quando quest’ultimo apprese dalla dottoressa Liliana Ferraro i primi tentativi di colloquio intrapreso da De Donno (il dialogo vero e proprio con la presenza di Mori, il più alto in grado, è iniziato ad agosto del ’92, dopo la strage di Via D’Amelio), non fece alcuna obiezione né segno di stupore.

Era, appunto, un tentativo autonomo da parte dei Ros di arrivare alla cattura dei boss. Ma in che cosa consisteva? Se Ciancimino l’avesse aiutati a risalire ai latitanti, in cambio avrebbero trattato bene la famiglia, proteggendola da eventuali ritorsioni. A quella proposta, Ciancimino si adirò perché avrebbe voluto qualcosa di più.

Grazie alla testimonianza dell’altro figlio (non Massimo, ma Roberto), si apprende che Ciancimino pensava di risolvere il suo processo (dove in seguito sarà anche condannato). Pretesa, ovviamente, assurda e inapplicabile. Cosa che, appunto, gli fece notare il figlio che è anche avvocato.Quindi, c’è un punto fermo. I Ros, appena se ne andò via Giammanco (di cui non si fidava nemmeno Borsellino), riferirono alla procura di Palermo i contatti che ebbero con Ciancimino.

Il verbale del ’93 parla chiaro. Ovviamente Caselli dice che non poteva immaginarsi che quella fosse la cosiddetta trattativa che poi dopo anni sarà teorizzata dall’accusa. All’epoca, così come Ingroia che sarà uno dei titolari del processo, non era a conoscenza degli elementi che poi uscirono fuori. Ha ragione Caselli.

Il problema è che i “nuovi” elementi usciti fuori sono basati su illazioni, su ragionamenti basati su un papello inesistente, sulle testimonianze di un Brusca che con il tempo ha fatto dichiarazioni oscillanti. Basti pensare che Brusca, inizialmente, riferì di aver sentito parlare di una trattativa con Bossi, il fondatore della Lega. Poi cambia versione in corso d’opera. Addirittura sposta la data dell’inizio trattativa a cavallo tra le due stragi. Le prove dell’avvenuta trattativa, di fatto, non ci sono. Rimangono solo chiacchiere. Talmente inconsistenti che ogni tanto esce fuori qualche pentito di basso rango che dice di conoscere verità inconfessabili. Casualmente volte a corroborare la tesi vigente.

IL RUOLO DELLA GIURIA POPOLARE E IL CLAMORE DEI PROCESSI MEDIATICI

La giuria popolare sarà decisiva per la sentenza. I giudici popolari avranno una grande, enorme responsabilità nel decidere sulla sorte degli imputati del processo trattativa Stato-mafia. Saranno coscienziosi, curiosi di approfondire seriamente senza farsi fuorviare dai mass media, i giornali, i gruppi Facebook, le immaginette virali, senza farsi ammaliare da taluni magistrati onnipresenti in Tv e nei convegni? Chissà se durante il processo hanno compreso quanto sia differente la realtà dei fatti rispetto ai palcoscenici mediatici. Chissà se valuteranno bene le presunte prove. Chissà se hanno ben compreso che forse potranno ristabilire la verità distorta da questa tesi giudiziaria. Chissà se si sono resi conto che non contano le parole di qualsiasi giornalista, opinionista, santoni, improbabili pentiti, ma solo la verità documentata.

Sarebbe interessante, ma ovviamente non fattibile, conoscere la storia individuale di ognuno dei giudici popolari. Capire se hanno quella coscienza critica, dovuta anche dalle avversità della vita, che permetterà loro di saper decidere ben sapendo che è in gioco la preziosa vita di una persona. La decisione finale è riservata a loro. Nel caso di parità, prevale la sentenza più favorevole agli imputati.

LE VERITA’ EMERSE NELLE SENTENZE MANNINO E NELLA BORSELLINO QUATER

C’è un dato di fatto. Abbiamo diverse sentenze che non collimano con la tesi della trattativa. C’è la sentenza Mannino: in entrambi i gradi di giudizio, le giudici non si sono limitate ad assolvere l’ex democristiano, ma hanno decostruito la tesi giudiziaria in maniera capillare.

C’è poi la sentenza del Borsellino Quater di secondo grado che non entra nel merito della trattativa (non è di sua competenza), ma la esclude categoricamente come movente dell’accelerazione della strage di Via D’Amelio: per la Corte nissena, la causa dell’accelerazione era quella “preventiva”, ovvero togliere Borsellino di mezzo perché aveva dimostrato seria intenzione di indagare a fondo (ancora non aveva la delega) su mafia appalti, una indagine scaturita dal dossier redatto dai Ros stessi sotto la supervisione di Falcone.

D’altronde, ma questa è un’aggiunta non contemplata nella sentenza, Borsellino stesso – cinque giorni prima di morire – partecipò all’ultima riunione della procura di Palermo facendo sue le lamentele di Mori e De Donno relative a quel procedimento.

Aggiungiamo, inoltre, le sentenze di Capaci, uno e due, dove escludono la trattativa per le stragi (comprese quelle continentali), ma contemplano appunto il discorso dell’esito del maxiprocesso, la dura reazione dello Stato e la questione relativa ai grandi appalti. Sull’ipotesi trattativa rimangono in piedi due sentenze di primo grado: quella di Palermo e quella recente su Matteo Messina Denaro.

E quindi? In sostanza abbiamo decine di sentenze che arrivano a conclusioni diverse. Il tutto e il contrario di tutto. Allora è lecito chiedersi: se lunedì la Corte di Palermo dovesse condannare gli ex Ros Mori e De Donno, Dell’Utri compreso, come si potrà dire che giustizia è stata fatta quando chiaramente i dubbi permangono?

Si può finire in prigione, quando, sulla medesima vicenda, i giudici di varie Corti arrivano a conclusioni diverse? In un Paese democratico e civile, nel dubbio, si assolve.

Cosa nostra, la strage di Capaci e l'ombra dei Servizi. Per il pentito Gioacchino La Barbera la mafia non agì da sola. Aaron Pettinari su Antimafiaduemila il 19 Settembre 2015. “C'era un uomo, durante la preparazione della strage di Capaci, che non avevo mai visto prima. Non era dei nostri, era sui 45 anni. Arrivò con Nino Troia, il proprietario del mobilificio di Capaci dove fu ucciso Emanuele Piazza, un giovane collaboratore del Sisde che pensava di fare l'infiltrato”. E' il racconto del pentito Gioacchino La Barbera, l'ex boss di Altofonte che sistemò il tritolo per la strage e diede il segnale per l'esplosione, in un'intervista rilasciata al quotidiano “La Repubblica”. Raggiunto nella località protetta in cui vive, con un'altra identità, il collaboratore di giustizia, rivive il giorno dell'Attentatuni, in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo ed i tre agenti di scorta, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo. “Fui io a dare il segnale agli altri appostati sulla collina – ricorda - Ero in contatto telefonico con Nino Gioè. Sapevamo che il giudice sarebbe arrivato di venerdì o sabato... Era tutto pronto, e il cunicolo già imbottito di esplosivo. Ce lo avevo messo io, due settimane prima. Quando mi dissero che la macchina blindata era partita da Palermo per l’aeroporto mi portai con la mia Lancia Delta sulla via che costeggia l’autostrada Palermo-Punta Raisi, all’altezza del bar Johnnie Walker... Seguii il corteo delle macchine blindate parlando al cellulare con Gioè. Andavano più piano del previsto, sui 90-100 chilometri orari... Chiusi la telefonata dicendo vabbè ci vediamo stasera... amuninni a mangiari ‘na pizza. Poi sentii un boato, fortissimo, poi vidi alzarsi un’enorme nuvola di fumo alta quasi cinquanta metri...”. Sulla presenza di quel soggetto estraneo La Barbera non sa dire molto. In questi anni gli investigatori gli hanno mostrato diverse fotografie ma non lo ha mai riconosciuto. “Evidentemente – aggiunge – mi hanno mostrato quelle sbagliate”.

Mandanti o concorrenti esterni. L'ipotesi di un possibile intervento di soggetti esterni a Cosa nostra, così come il coinvolgimento di mandanti esterni sulla delibera di morte, non è peregrina. A Caltanissetta, dove si stanno celebrando i processi Capaci bis e Borsellino quater, per il momento non sarebbero stati trovati riscontri determinanti in tal senso ma, come ha più volte detto l'ex Procuratore capo Sergio Lari prima di riceve il nuovo incarico di Procuratore generale, “non si può smettere di indagare”. Del resto gli elementi oscuri che restano da approfondire sono diversi, a cominciare dalle testimonianze sulla presenza di un aereo misterioso che sorvolava il tratto Palermo-Punta Raisi nel giorno della strage, fino alla presenza di uomini in mimetica sul tetto della Mobiluxor, il mobilificio a ridosso dell’autostrada. Non solo. Resta assolutamente un mistero la ragione per cui Cosa nostra, anziché uccidere Falcone a Roma, dove spesso girava anche privo di scorta, ha voluto compiere un attentato così eclatante lungo l'autostrada. Diversi collaboratori di giustizia raccontano come, fin dal febbraio del 1992, Falcone era stato pedinato nella capitale da un gruppo di fuoco guidato da Matteo Messina Denaro e dagli uomini della famiglia di Brancaccio: doveva essere assassinato lì a colpi di kalshnikov, senza bisogno di ricorrere ad alcuna azione clamorosa. Poi arrivò il contrordine di Riina. Perché Falcone bisognava ucciderlo in modo eclatante, a Palermo. Perché quel cambio di strategia? E come facevano i boss a conoscere con precisione l'arrivo di Falcone a Punta Raisi? Domande che restano aperte. Chi era l'uomo di cui parla Gioacchino La Barbera? Può essere lo stesso che ha visto Gaspare Spatuzza all'interno del garage di via Villasevaglios, mentre la Fiat 126 rubata a Pietrina Valenti veniva trasformata in autobomba per uccidere Borsellino in via d’Amelio? “Non era un ragazzo, né un vecchio – ha raccontato il pentito di Brancaccio - doveva avere 50 anni. Non l’avevo mai visto prima, né lo vidi dopo quella volta. Di certo non era di Cosa nostra. Ma non mi allarmò la presenza di quell’uomo perché se era lì era perché Giuseppe Graviano lo voleva. In questi anni mi sono sforzato di dare indicazioni su di lui, ma lo ricordo come un negativo sfocato di una foto”. Può essere uno uomo appartenente ai servizi deviati? Nel giugno del 2013, durante la sua deposizione al Borsellino quater, Spatuzza ha anche aggiunto qualche dettaglio: “Ho fatto pure una descrizione, effettuando un riconoscimento fotografico ma non è che posso dire cose. Tra le possibilità c'è che possa appartenere alle forze dell'ordine e la mia vita la gestiscono loro, sono io la prima persona ad avere interesse a vederla in carcere. Ma proprio non ricordo. Questo è un mistero fondamentale da risolvere e io sono qui per la verità”. Purtroppo, per il momento, non è stato individuato alcun soggetto e chissà che le parole di La Barbera non possano dare nuovi spunti.

Il “suicidio” di Gioé. Sempre nell'intervista a La Repubblica quest'ultimo torna anche sulla morte di Nino Gioé, non senza qualche timore: “Non so se si è suicidato. Rispondendo a questa domanda mi fa mettere nei guai funzionari della Dia che con me si sono comportati bene... Che mi hanno aiutato. Sapevo che avevano fatto dei verbali con lui. Gioè stava collaborando, ne sono certo. Ero nella sua stessa sezione, insieme a Santino Di Matteo, e Gioè era l’unico a ricevere visite. La mia finestra dava sulla strada e vedevo un viavai di macchine e di persone che arrivavano per lui. Pochi giorni prima della sua morte, dal carcere di Rebibbia mi trasferirono a Pianosa mentre Di Matteo fu tradotto all’Asinara”. Quanto alle dichiarazioni del boss Francesco di Carlo, secondo cui le stragi furono pianificate in una riunione cui parteciparono anche iscritti alla P2, “so - dice il pentito - di riunioni con generali e di incontri tra Riina ed ex ministri democristiani. I loro nomi sono stati fatti, come quelli dei giudici che aggiustavano i processi...”. Il pentito poi dice che vi fu una collaborazione dei servizi segreti per l'omicidio Lima (“C'erano uomini dei servizi sul Monte Pellegrino”) e che l'omicidio Mattarella “fu voluto dai politici” mentre Dalla Chiesa fu ucciso probabilmente “per fare un favore”.

Il confronto dimenticato. Ma La Barbera, rispondendo alle domande della collega Raffaela Fanelli torna anche sulla vicenda che l'ha visto protagonista con Vincenzo Scarantino: “Mi assumo la responsabilità di quello che sto dicendo: all’inizio della mia collaborazione mi fu proposto di fare un confronto audio visivo con lo stesso Scarantino alla presenza dei carabinieri che l’avevano in gestione, funzionari della Dia e i magistrati di Caltanissetta che allora si occupavano del caso. Durante il confronto lo sbugiardai. Dissi subito che Scarantino non sapeva cose importanti di Cosa Nostra. Di quel confronto non c’è traccia: sono spariti verbali e registrazioni”. Il riferimento al confronto con il falso pentito si mescola di fatto alla nota querelle di alcuni avvocati di boss mafiosi scaturita nel ’95 a seguito di una loro richiesta (in un primo momento inevasa) di poter leggere i verbali di confronto tra lo stesso Scarantino e i collaboratori di giustizia: Salvatore Cancemi, Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera. Il 13 gennaio 1995 quei “faccia a faccia” avevano palesemente rivelato l’inconsistenza della caratura mafiosa del picciotto della Guadagna. Un occhio di riguardo meritano le dichiarazioni dell’ex boss di Porta Nuova (deceduto nel 2011). “Tu sei un bugiardo – aveva detto Cancemi a Scarantino – chi è che ti ha detto questa lezione? Chi te l’ha fatta questa lezione? Dicci la verità, devi dire la verità, ma chi ti conosce, ma chi sei? Ma questa lezione chi te l’ha fatta?” (…) “Ma veramente date ascolto a questo individuo? Signori giudici, questo sta offendendo l’Italia, tutta l’Italia sta offendendo costui!”. “Attenzione, state attenti è falso, non credete nemmeno a una virgola di quello che vi sta dicendo”. (…) “Queste parole gliele hanno messe in bocca, gli hanno fatto una lezione e ora la sta ripetendo”. Il deposito posticipato di questi atti al processo “Borsellino bis” era costato una denuncia da parte dei quegli stessi legali nei confronti dei pm Annamaria Palma, Carmelo Petralia e Nino Di Matteo per “comportamento omissivo”. A loro volta i magistrati avevano denunciato per calunnia i tre avvocati. Il 25 febbraio 1998 il Gip di Catania aveva definitivamente archiviato l’inchiesta sui sostituti procuratori di Caltanissetta in quanto priva di alcun “comportamento omissivo”.

I documenti della casa di Riina. Infine l'ex boss di Altofonte parla dei documenti spariti dalla villa di Totò Riina dopo il suo arresto: “Dopo il suo arresto accompagnai, insieme a Nino Gioè, i figli e la moglie di Riina fino alla stazione, da lì presero un taxi per Corleone. Poi seguii la pulizia e l’estrazione della cassaforte dalla villa di via Bernini e portai in un parcheggio la golf bianca intestata a un giardiniere della provincia di Trapani, non ricordo se Marsala o Mazara. Un’auto che ritirò Matteo Messina Denaro, con tutto quello che era stato trovato nella cassaforte. L’auto non era di valore quindi posso pensare che fossero più importanti i documenti”.

Dossier Processo trattativa Stato-Mafia. Il pentito La Barbera e il “detto-non detto” che alimenta gli interrogativi. Aaron Pettinari su Antimafiaduemila l'1 Novembre 2015. Al Capaci bis il collaboratore di giustizia ascoltato dopo l'intervista a La Repubblica. E' un'udienza alquanto anomala quella andata in scena venerdì pomeriggio al processo Capaci bis, effettuato in trasferta presso l'aula bunker di Firenze, e che vede imputati Salvo Madonia, Vittorio Tutino, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo e Lorenzo Tinnirello. Se il giorno precedente è stata la prima volta del neo pentito Cosimo D'Amato ieri è stata la volta del collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera, richiamato per la seconda volta a deporre innanzi alla Corte d'assise di Caltanissetta presieduta da Antonio Balsamo. L'esigenza di questa nuova audizione è nata di seguito ad un'intervista rilasciata a La Repubblica lo scorso settembre, dove l'ex boss di Altofonte forniva diversi elementi di novità in particolare rispetto all'omicidio Lima e lo svuotamento del covo di Riina con le carte che sarebbero state consegnate a Matteo Messina Denaro. Un'esame di due ore dove il collaboratore di giustizia ha in parte smentito l'intervista, anche negando di aver affermato certe cose, anche se nel complesso restano aperti diversi interrogativi. Se in alcuni passaggi, ha fatto notare il pm, effettivamente il testo scritto non coincide con quanto risulta dalla sbobinatura della registrazione dell'intervista, dall'altra le giustificazioni presentate rispetto ad alcune dichiarazioni rese alla giornalista Raffaella Fanelli si commentano quasi da sole e non convincono. Dal “non so nulla” al “forse ho esagerato io con la giornalista” per concludere con il “Perché l'ho detto? Per farmi bello”. Elementi che certo non contribuiscono a fare chiarezza soprattutto di fronte a dichiarazioni impresse su un nastro. Così, punto per punto, il pm nisseno Stefano Luciani ha sviscerato i principali temi sviluppati dall'ex boss di Altofonte nell'intervista, avvalendosi anche della trascrizione audio della stessa per cui vi sono delle contraddizioni rispetto a quanto riferito in passato.

Emanuele Piazza e l'uomo ignoto in Cosa nostra. Primo tema affrontato è stato quello dell'uomo misterioso, giunto a Capaci con Nino Troia, e quel riferimento alla scomparsa di Emanuele Piazza. (“C'era un uomo, durante la preparazione della strage di Capaci, che non avevo mai visto prima. Non era dei nostri, era sui 45 anni. Arrivò con Nino Troia, il proprietario del mobilificio di Capaci dove fu ucciso Emanuele Piazza, un giovane collaboratore del Sisde che pensava di fare l'infiltrato”, era scritto nell'articolo ndr). “Su Emanuele Piazza non so nulla – ha detto ieri – Quello che so l'ho appreso dai giornali”. Eppure, così come fatto notare dal pm, in uno scambio di sms con la giornalista, è proprio lui a confermare con un “Sì” secco ad una domanda articolata (“il Nino Troia di cui mi parli era quello del mobilificio di Capaci dove portarono Emanuele Piazza?”, ndr). “Con quel sì volevo togliermi il messaggio – ha spiegato in aula il teste – Non intendevo che conosco i fatti. Assolutamente no. Ma era per non spiegare con un messaggio che poteva essere lungo. E' una fantasia sua”. Riguardo all'uomo sconosciuto in Cosa nostra giunto con Troia La Barbera ha ribadito, di non aver riconosciuto lo stesso nelle fotografie che gli sono state mostrate dagli inquirenti ma di non aver mai detto che “evidentemente mi sono state mostrate le foto sbagliate” né di aver parlato dello stesso come di un soggetto appartenente ai servizi segreti. Un dato che lo stesso pm Luciani conferma in base alle trascrizioni dell'audio aggiungendo che “l'ipotesi che viene fatta su quell'uomo è che fosse il proprietario del villino così come aveva riferito in passato”.

I verbali di Gioé. Altro tema caldo è proprio quello del suicidio di Gioé su cui l'ex boss di Altofonte ha espresso diverse considerazioni. Nell'intervista La Barbera parla di funzionari che avrebbero fatto verbali con Gioé, “amici della Dia” contro cui non può andare anche perché “se non dicono la verità quelli che hanno fatto i verbali perché non lo dicono? Io non lo so”. Ed è proprio su questo che il pm Luciani insiste particolarmente evidenziando come non vi siano differenze tra la trascrizione audio dell'intervista e quanto pubblicato su “La Repubblica”. “E' vero che lei ha sempre detto di aver saputo dallo stesso Gioé che stava facendo verbali, ma da queste parole – ha incalzato il magistrato – io sono autorizzato a ritenere che lei sa queste cose dei colloqui investigativi, dei verbali, che questi presi e fatti sparire anche perché poi a suo dire 'se dice queste cose si mette contro amici'”. La Barbera ha cercato di ridimensionare: “Io non so cosa succedeva nei vari interrogatori. E' lei (la giornalista) che ha esagerato un pochino a scrivere come se sapessero qualcosa, ma non ho detto così”. Ma Luciani ha incalzato: “Quello che lei dice lo fa in una registrazione ed è riportato fedelmente nel pezzo giornalistico”. A quel punto è lo stesso La Barbera ad aver ammesso: “Ho esagerato un po’ perché sicuramente ci sarà qualche verbale.. io non lo so però lì parlando con la giornalista ho esagerato nel dire che si sono fatti verbali. Io l’ho pensato e si pensava che lui stesse collaborando con giustizia ma si parla di verbali tra virgolette, sono cose che penso io ma non sono a conoscenza diretta di verbali scritti”. Nonostante le spiegazioni, però, resta la domanda aperta su quella frase espressa dal pentito in maniera non dubitativa sull'esistenza di verbali, poi fatti sparire, con l'allusione che gli stessi possano essere legati alla morte di Gioé, che non sarebbe certo avvenuta con un suicidio.

L'incontro del “Capo dei capi” con Mannino. Durante l'esame il pentito, ha smentito se stesso dicendo di non essere a conoscenza di incontri tra Riina e l'ex ministro Calogero Mannino o fra mafiosi e generali. Se sul secondo punto il pm Luciani ha dato atto che “nei file audio non vi è traccia di sue dichiarazioni che dicono di riunioni con generali”, su quegli incontri tra il Capo dei Capi e l'ex parlamentare della Dc nelle trascrizioni appare evidente come sia proprio La Barbera a confermare più volte il fatto (“Ma questo incontrava il latitante...invece di farlo arrestare lo incontra?” chiedeva la giornalista. E La Barbera rispondeva: “Certo, infatti quando poi si è fatto un po’ un passo indietro che si è visto che è cambiato un po’ tutti ognuno si doveva giustificare”). Anche in questo caso l'ex boss di Altofonte non è stato troppo convincente nella giustificare quelle parole: “No non l’ho mai saputo. Sono usciti fuori questi discorsi fatti così tra persone.. ma non esiste.. si doveva ammazzare, di tutto quello che ero a conoscenza ho parlato con i magistrati”. Quindi il pentito ha lamentato di non sapere di essere stato registrato, alimentando una polemica con la giornalista. Al tempo stesso però, rispondendo alle domande del pm, ha ammesso di aver dato l'ok per l'intervista. Partendo dal fatto che vi è un audio-video che può chiarire sicuramente ogni aspetto resta aperto, come ribadito dal pm, il quesito è semplice. Perché queste cose le dice alla giornalista? La risposta la dà lo stesso La Barbera: “Per farmi bello... non lo so nemmeno.. e se l'ho detto non è verità. Quello che è valido è ciò che dico ai magistrati”.

Dai Servizi dietro all'omicidio Lima alle carte di Riina per Messina Denaro. Altro tema delicato presente nell'intervista rilasciata a La Repubblica è quello del coinvolgimento dei Servizi per l'omicidio Lima. Rispondendo alla Fanelli aveva detto di sapere che c'era qualcuno sul Monte Pellegrino ma oggi La Barbera ha smentito: “Io so che c'è stato un periodo che Salvatore Biondino mi ha partecipato che attenzionavano da là la casa del dottor Falcone all'Addaura perché si diceva che portavano là Salvatore Contorno quando tornava a Palermo, siamo a fine '92. Nel racconto magari mi riferivo a questo”. Ma Luciani ha incalzato: “Vede nella registrazione emerge altro. Lei non parla in questi termini. Lei dice che 'conta poco se poteva esserci una collaborazione dei servizi segreti, perché c’era Monte Pellegrino' e lo fa riferendosi all'omicidio Lima”. A quel punto La Barbera ha ammesso: “Niente presidente.. ho detto una cosa non vera.. se l’ho detta nella registrazione”. Ed il pm ha replicato: “Il se lo togliamo”. Genericamente il pentito ha poi smentito di aver mai saputo di un coinvolgimento di Cosa nostra su gravi fatti di sangue anche se “L'unica volta che mi hanno parlato di un coinvolgimento dei servizi segreti con Cosa nostra è stata per la vicenda di Paolo Bellini”. La Barbera ha anche detto di non saper nulla di verbali spariti in merito al confronto avuto con Vincenzo Scarantino nel gennaio 1995, confermando di aver visto lo stesso solo in quella occasione, e di non aver mai saputo se all'interno della macchina che consegnò ai trapanesi nel 1993 vi fossero stati nascosti i documenti nascosti nel covo di Riina. Sull'esistenza di una trattativa tra Stato e mafia il collaboratore di giustizia ha aggiunto che “stando ai fatti ho sempre risposto che per le cose che sono successe ci doveva essere una trattativa. Posso dedurlo, ma non conosco fatti o colloqui venuti fra cosa nostra e politici. La mafia, doveva trattare con lo Stato per il 41 bis, per la legge sui collaboratori. Ma alla domanda secca, 'ci fu la trattativa Stato-mafia?', non so rispondere. Quando ci sarebbe stata? Da prima di Capaci fino al mio arresto. Credo che ci siano state durante o prima”. Infine La Barbera ha detto di non sapere nulla riguardo all'omicidio Mattarella mentre nell'intervista dello scorso settembre è riportato che lo stesso sapeva che era “voluto da politici”. “Di questo – ha detto Luciani nel porre la domanda – non vi è traccia nelle registrazioni e nelle trascrizioni. Questo lo ha detto alla giornalista?”. “Sì forse sì – ha confermato il pentito – A volte uno si espone un po' di più, ma mi concentro quando parlo con magistrati o con il Presidente, non con una giornalista e a volte mi lascio andare con qualcosa di più ma la verità è questa. Non so neanche chi ha partecipato a quell'omicidio, ero piccolo, avevo 19 anni, quello che so è quello che ho letto dopo”. Al termine dell'audizione il Presidente Balsamo ha deciso di acquisire il verbale dell'8 ottobre 2015 del pentito e le registrazioni audio-video dell'intervista. Il processo è stato quindi rinviato al prossimo 6 novembre.

Processo trattativa: le intercettazioni di via Ughetti, la mafia e gli uomini del Sisde. Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari su Antimafiaduemila il 16 Dicembre 2016. Oggi l'audizione del commissario Salvatore Bonferraro. La presenza di uomini del Sisde nella famosa palazzina di via Ughetti, il covo in cui si erano nascosti nei mesi successivi all'arresto di Riina i boss Antonino Gioé e Gioacchino La Barbera; la sensazione di essere seguiti da qualcuno mentre si conducevano le indagini e le attività di intercettazione per scoprire gli esecutori sulla strage di Capaci; gli accertamenti compiuti sulla famiglia Ciancimino. Sono solo alcuni degli argomenti affrontati oggi in aula al processo trattativa Stato-mafia, con la deposizione del sostituto commissario di Polizia Salvatore Bonferraro. Quest'ultimo, dal settembre del '92 ad oggi, è in servizio presso il centro Dia di Palermo ed ha partecipato in prima persona ad una lunghissima serie di indagini. Tra queste proprio quelle che portarono alla famosa intercettazione di via Ughetti in cui i mafiosi furono registrati parlando de “l'attentatuni” di Capaci. “Arrivammo lì su indicazione dei pentiti - ha ricordato il teste rispondendo alle domande del pm Nino Di Matteo - Loro ci suggerirono di seguire Antonino Gioé e tale “Mezzanasca”, che poi fu individuato in Mario Santo Di Matteo, per arrivare alla cattura di Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella, all'epoca latitanti. Gioé e La Barbera vivevano in condizioni di clandestinità, anche se ancora non erano latitanti. Loro si trovavano in un appartamento al decimo piano e noi eravamo in uno al quarto. Questo stabile era di nuova costruzione, l'impresa costruttrice era la Co.se.da. srl e Antonino Seidita, successivamente tratto in arresto per associazione mafiosa, era il costruttore”. Dagli accertamenti svolti nel corso del tempo emerse poi che, proprio nell'appartamento di fronte a quello in cui si trovavano Gioé e La Barbera aveva trovato riparo Salvatore Benigno, uomo d'onore della famiglia di Misilmeri, condannato all'ergastolo in quanto responsabile per le stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano. Ad anni di distanza non appare come una coincidenza la presenza dei tre boss nello stesso stabile. Ma a rendere tutto ancora più inquietante sono alcuni episodi che hanno visto proprio Bonferraro come protagonista. A domanda diretta del pm se fosse mai stata registrata la “presenza di esponenti dei servizi segreti in quel palazzo”, il teste ha risposto con decisione: “E' successo un fatto durante un cambio serale. La sera del sedici marzo 1993 scesi in ascensore e quando si aprirono le porte del piano terra mi trovai due persone che erano del Sisde. Si trattava di Nunzio Purpura, funzionario adesso del centro Sisde di Palermo, e Antonina Lemmo, anche lei appartenente al Sisde che diventò poi sua moglie. In merito a questo incontro feci anche una relazione di servizio il giorno successivo”. Ma non fu quello l'unico episodio “inconsueto”. “Parlando con un collega, descrivendo le fattezze del Purpura – ha aggiunto Bonferraro – mi disse di aver incontrato questa persona mentre facevano un servizio di osservazione su Giovanni Scaduto. Scaduto si incontrava giornalmente con Gioé e La Barbera ed è il genero di Salvatore Greco, detto il Senatore. Fa parte dello stesso gruppo di Gioé. Ebbene mentre loro osservavano lo Scaduto il Purpura li guardava. Addirittura si accorsero di essere seguiti durante un pedinamento”. La presenza di Purpura e della donna non è l'unico “filo” che si legherebbe ai Servizi. Da altre indagini, infatti, dagli accertamenti sui tabulati telefonici di Lorenzo Narracci, ex funzionario del Sisde e tuttora in servizio all'Agenzia per la sicurezza interna (Aisi), emersero in quei primi mesi ben quattro chiamate con la Co.se.da. srl.

Le indagini su Ciancimino. Altro tema affrontato ha riguardato gli accertamenti compiuti su tutti i componenti della famiglia Ciancimino. In particolare sono stati ricostruiti i passaggi della richiesta di passaporto da parte dell'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito, nonostante già possedesse una carta d'identità valida per l'espatrio. Se in un primo momento per la Questura di Palermo non vi erano condizioni ostative per il rilascio di documenti validi per l'espatrio, dopo l'intervento della terza sezione penale della Corte d'appello di Palermo, che aveva richiesto informazioni sugli spostamenti di Ciancimino, viene emesso il nuovo ordine di arresto e il 19 dicembre don Vito finisce in manette, a Roma. Bonferraro ha anche parlato degli approfondimenti svolti sugli ingressi in carcere avvenuti per parlare con l'ex sindaco di Palermo, a Rebibbia. Oltre al figlio Massimo ed, ovviamente, i suoi avvocati, vi sono gli interrogatori con i magistrati di Palermo, Giancarlo Caselli ed Antonio Ingroia. Non solo. E' emerso anche un colloqui antecedente, datato 22 gennaio 1993, tra Ciancimino senior, il colonnello Mario Mori ed il capitano Giuseppe De Donno. "Dagli atti non è possibile sapere la durata - ha detto Bonferraro in aula - ma c'è una nota della direzione, a firma del direttore del carcere Massimo Di Rienzo, che autorizza l'accesso per il colloqui con il detenuto". Ed alla domanda dei pm se vi fosse da qualche parte un riferimento ad un'autorizzazione dell'autorità giudiziaria ha risposto in maniera lapidaria: "No". 

La circostanza su Annacondia. Altro dettaglio importante emerso nella testimonianza di Bonferraro riguarda i colloqui investigativi che hanno visto come protagonista l'ex boss di Trani Salvatore Annacondia. Quando nel giugno 2015 venne ascoltato al processo trattativa aveva dichiarato di aver rivelato ben prima delle stragi '93, in alcuni colloqui con un funzionario della Dia di Bari, che sarebbero scoppiate delle bombe fuori dalla Sicilia. Il pentito pugliese, raccontando l'episodio, aveva specificato che “non facevo interrogatori con gli ufficiali della Dia di Bari, ma con il pubblico ministero, però avevo sempre quattro persone con un funzionario 24 ore al giorno per la sicurezza. Si parla del più e del meno, e in una di queste sere dissi che succederanno attentati a musei e cose vecchie. Poi, davanti alla Commissione parlamentare antimafia, feci il nome di quel funzionario”. Oggi Bonferraro ha riferito che dagli accertamenti effettuati emerge che solo in due occasioni non vi sarebbero note o relazioni di servizio dopo i colloqui investigativi. Ed uno di questi episodi è avvenuto il 25 novembre del '92.

Mattarella invia le agende di Ciampi. All'inizio dell'udienza il presidente della Corte d'assise, Alfredo Montalto, ha tenuto a ringraziare pubblicamente il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per “l'assoluta disponibilità e la preziosa collaborazione assicurate al fine di consentire l'acquisizione al fascicolo del dibattimento di documenti ritenuti utili per il completamento dell'istruttoria, nonostante gli stessi non siano attualmente accessibili al pubblico”. Dunque ha comunicato che “le fotocopie delle pagine delle agende del Presidente Ciampi” sono ora a disposizione delle parti. Il Presidente ha anche deciso di ammettere l'audizione dei nuovi teste. Si tratta del collaboratore di giustizia catanese Giuseppe Di Giacomo, che in carcere ha raccolto alcune confidenze dal boss di Brancaccio Filippo Graviano di cui ha già parlato al processo Capaci bis, e l'ex ufficiale dei Carabinieri (oggi in quiescenza), Nicolò Gebbia, già Comandante del reparto operativo dei Carabinieri di Palermo e Comandante della Compagnia dei Carabinieri di Marsala. In precedenti udienze i pm avevano spiegato come lo stesso ufficiale aveva chiesto di essere sentito dai magistrati lo scorso 13 settembre  ed hanno dunque chiesto la deposizione “per riferire in ordine a quanto appreso nello svolgimento della sua carriera di ufficiale dei Carabinieri, ed in particolare nel periodo in cui comandava la compagnia Carabinieri di Marsala, in ordine a rapporti diretti e o indiretti tra l'odierno imputato Subranni ed i cugini Nino ed Ignazio Salvo ed il senatore Andreotti”. Audizione, quest'ultima che si terrà il prossimo 22 dicembre.

Cosa nostra e Servizi segreti in via Ughetti, a Palermo.  Aaron Pettinari su Antimafiaduemila il 23 Maggio 2020. Ritrovato un verbale di Brusca, agli atti del caso Agostino. “Ma ti ricordi, dducu a Capaci?, .....In sostanza, dducu a Capaci, unni ci ficimu l’attentatuni”, dove “Santino, avia l'officina...”. E' questo uno degli stralci della nota intercettazione ambientale, durante le indagini sulla strage di Capaci, nel famoso covo di via Ughetti 17, a Palermo, in cui si nascondevano Gioacchino La Barbera (poi divenuto collaboratore di giustizia) e Antonino Gioé (morto suicida in carcere in circostanze misteriose nell'estate del 1993). I due furono arrestati, ma attorno a quel covo si concentra un alone di mistero per una serie di curiose coincidenze che attestano, in quello stesso periodo, delle registrazioni effettuate dagli agenti della Dia, la presenza di altri soggetti implicati nelle stragi di mafia e uomini dei Servizi Segreti. Oggi, nel giorno dell'anniversario dell'attentato, in cui morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti di Scorta, Salvo Palazzolo, sul quotidiano La Repubblica, racconta del ritrovamento di un verbale dell'ex boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca, che già nel 1997 rivelava che il costruttore di quello stabile, Antonino Seidita, successivamente tratto in arresto per associazione mafiosa, era anche in contatto con i servizi di sicurezza. Il verbale è finito agli atti dell'inchiesta sull'assassinio del poliziotto Antonino Agostino, ucciso il 5 agosto 1989 assieme alla moglie Ida Castelluccio. La Procura generale che ha chiuso le indagini nei confronti dei boss Nino Madonia (capomandamento di Resuttana già detenuto dal 1987) e Gaetano Scotto (boss dell'Acquasanta indicato da diversi collaboratori di giustizia come ponte tra Cosa nostra e i servizi segreti deviati), e Francesco Paolo Rizzato (amico del poliziotto, indagato per favoreggiamento) ha rinvenuto il documento. Brusca definiva Seidita come un "socio occulto del capomafia Salvatore Cancemi, era vicino o legato ai servizi segreti". Il verbale è del 5 marzo 1997. Quella traccia non venne approfondita, al tempo, dagli organi inquirenti. Ma delle tracce erano comunque rimaste. 

Quelle telefonate tra Seidita e il funzionario del Sisde. Alcuni anni fa, come ricorda il quotidiano, da un'indagine della Procura di Caltanissetta emersero alcuni contatti telefonici tra un funzionario dei servizi segreti (Lorenzo Narracci, ex funzionario Sisde la cui posizione fu poi archiviata, ndr) e la società di Seidita, la Co.se.da. srl. Osservando i tabulati telefonici si scoprì l'esistenza di quattro telefonate tra un numero di telefono (il 337/806133) intestato a una società di copertura dell’ex Sisde (la "G.u.s.", Gestione unificata servizi) e il cellulare intestato alla ditta del costruttore palermitano. "Il 26 gennaio 1993, alle 8,19, la conversazione era durata 74 secondi. Il 29, alle 16,45, 107 secondi; due minuti più tardi, 58 secondi; il 1° febbraio, alle 16,14, il telefonino dei Servizi era entrato in contatto con il cellulare intestato alla ditta Seidita per 287 secondi" scrive La Repubblica. Ovviamente non è dato sapere i contenuti di quelle comunicazioni. Certo è che per le forze dell'ordine già nel 1993 il nome di Seidita era noto. La sua storia si interseca con una figura importantissima di Cosa nostra, l'ex boss di Porta Nuova Totò Cancemi (poi divenuto collaboratore di giustizia ed oggi deceduto), con cui era in società. Su Seidita si è concentrata in questi mesi la Procura generale di Palermo. Il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato e i sostituti Domenico Gozzo e Umberto De Giglio hanno scritto ai colleghi della procura di Caltanissetta chiedendo gli atti che erano stati raccolti sul costruttore vicino all'associazione mafiosa. Così agli atti dell'inchiesta sul caso Agostino è stata depositata anche la nota della Dia nissena in cui si dà atto che il numero di telefono, il 337/ 806133, "intestato al Gus, era in uso a Lorenzo Narracci". Come spiega La Repubblica, nonostante l'archiviazione delle indagini nei suoi riguardi, su quelle telefonate nulla si è saputo, in quanto sono emerse soltanto successivamente. 

Bonferraro racconta la presenza dei Servizi in via Ughetti. Attorno al palazzo di via Ughetti vi sono anche altri elementi di mistero che fanno proiettare lo sguardo verso i servizi di sicurezza. Nel dicembre 2016, al processo trattativa Stato-mafia, si è tenuta la deposizione di Salvatore Bonferraro, sostituto commissario di Polizia che dal settembre del '92 ad oggi, è in servizio presso il centro Dia di Palermo e fu tra gli investigatori che si occupò delle indagini sulla strage di Capaci. In aula, di fronte alla Corte d'Assise, raccontò gli accertamenti svolti nel corso del tempo da cui emerse che, proprio nell'appartamento di fronte a quello in cui si trovavano Gioé e La Barbera, aveva trovato riparo Salvatore Benigno, uomo d'onore della famiglia di Misilmeri, condannato all'ergastolo in quanto responsabile per le stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano. Ad anni di distanza non appare come una coincidenza la presenza dei tre boss nello stesso stabile. Non solo. Sempre Bonferraro riferì di aver visto in quel palazzo anche la presenza di esponenti dei servizi segreti. “E' successo un fatto durante un cambio serale - raccontò nel 2016 - La sera del sedici marzo 1993 scesi in ascensore e quando si aprirono le porte del piano terra mi trovai due persone che erano del Sisde. Si trattava di Nunzio Purpura, funzionario del centro Sisde di Palermo (divenuto capo centro nel novembre 1997 fino al 2004, ndr), e Antonina Lemmo, anche lei appartenente al Sisde che diventò poi sua moglie. In merito a questo incontro feci anche una relazione di servizio il giorno successivo”. Ma non fu quello l'unico episodio “inconsueto”. “Parlando con un collega, descrivendo le fattezze del Purpura - ha aggiunto Bonferraro - mi disse di aver incontrato questa persona mentre facevano un servizio di osservazione su Giovanni Scaduto. Scaduto si incontrava giornalmente con Gioé e La Barbera ed è il genero di Salvatore Greco, detto il Senatore. Fa parte dello stesso gruppo di Gioé. Ebbene mentre loro osservavano lo Scaduto il Purpura li guardava. Addirittura si accorsero di essere seguiti durante un pedinamento”. Episodi che tornano alla ribalta ora e su cui si è concentrato l'occhio degli inquirenti che cercano di far luce anche sui rapporti tra mafia e Servizi. A 28 anni dalle stragi anche questi sono aspetti che andrebbero approfonditi e dietro cui, potrebbero nascondersi ulteriori frammenti di verità.

I segreti delle stragi nella morte del ''suicidato'' Nino Gioè. Aaron Pettinari su Antimafiaduemila il 17 Agosto 2021. In questo pazzo Paese, dagli albori della Repubblica fondato sul mistero ed il segreto di Stato, la ricerca della verità è stata sempre osteggiata e bistrattata. Pezzi mancanti, prove sparite e depistaggi, purtroppo, hanno accompagnato lo spartito fin qui scritto. Per il momento non resta altro che raccogliere i frammenti, porsi domande e cercare di mettere in fila i pezzi. Il risultato che si ottiene è quello di una tela dai colori macabri che mostra le tinte più fosche di uno Stato silente, se non addirittura complice di fatti e misfatti. C'è chi sostiene che per giungere alla verità serva un "pentito di Stato", ma quando in gioco c'è la vita o la morte ecco che le bocche vengono cucite in maniera quasi indelebile.

"Nella storia delle stragi ci sono 15 morti strane, tra omicidi e suicidi”. E' questa una delle constatazioni dell’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, intervenuto questa estate alla conferenza da noi organizzata in occasione delle commemorazioni di via d'Amelio. Morti inspiegabili come quella del giovane urologo Attilio Manca o quella di Luigi Ilardo (boss reggente di Caltanissetta, infiltrato per conto dello Stato ed ucciso poco prima che venisse ufficializzata la sua collaborazione con la giustizia).

Morti come quella del boss di Altofonte, Antonino Gioè. Era la notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993 quando venne ritrovato impiccato con i lacci delle scarpe nella cella in cui trascorreva la detenzione nel carcere di Rebibbia. Erano trascorse appena poche ore dalle bombe delle stragi di via Palestro a Milano e delle due basiliche di Roma. Le indagini ufficiali bollarono frettolosamente il fatto come un suicidio, ma oggi è evidente a tutti che dietro a quel decesso vi fosse molto altro. 

Le prime indagini. Secondo gli inquirenti di allora con quel gesto il capomafia, che si trovava a Punta Raisi il giorno della strage di Capaci, si sarebbe tolto la vita prima che fosse la stessa Cosa nostra ad intervenire. La sua "colpa" sarebbe stata nelle intercettazioni registrate dalla Dia nel covo di via Ughetti (la famosa palazzina in cui si era nascosto nei mesi successivi all'arresto di Riina assieme a Gioacchino La Barbera). Lì sono stati registrati i dialoghi in cui si parla dell'“Attentatuni” di Capaci, di droga ed anche altri riferimenti su possibili attentati al Palazzo di Giustizia di Palermo o contro gli agenti di polizia penitenziaria in servizio a Pianosa. Tra le intercettazioni della Dia anche una conversazione in cui si fa riferimento al capomafia corleonese Leoluca Bagarella. “Ma 'stu Bagarella cu cazzu si senti? Oh, lo dico per scherzare, ah” disse al telefono. Ma queste non sono prove schiaccianti sulla morte, e quei fatti non hanno mai convinto troppo. Vi fu anche un'indagine giudiziaria a carico dei tre agenti penitenziari che furono indagati per istigazione al suicidio di Gioè. Nell'abitazione di uno di questi vi era stato il ritrovamento della copia della lettera di "commiato" presumibilmente scritta da Gioè e che fu rinvenuta sul tavolo della cella dopo la sua morte. I tre agenti vennero prosciolti da ogni accusa, il caso venne archiviato, ma rimasero i dubbi su quel decesso. Nel 2013 i giornalisti Maurizio Torrealta ed Emanuele Lentini, su Left, ripartirono da quei faldoni di indagine per poi giungere ad una conclusione logica: è impossibile che Gioè si sia impiccato. Basta analizzare le foto scattate in quella notte nella cella numero 3 della sezione B del reparto G7 di Rebibbia. I segni della corda sul collo non vanno verso l'alto, come sarebbe lecito aspettarsi se si fosse appeso alla grata, ma verso il basso. Il che fa pensare più ad una corda tirata da qualcuno 

Il ritrovamento del corpo di Nino Gioè nella sua cella di detenzione. Ed anche l'autopsia, firmata da tre medici, forniva diversi elementi che andrebbero chiariti. Nella relazione che fu disposta dal pm 8 giorni dopo il decesso di Gioè, si rileva che il detenuto aveva due costole fratturate, la sesta e la settima, nella parte destra. In un altro passaggio, però, si legge che le costole rotte sarebbero quelle di sinistra. Possibile che sia solo distrazione? Ma la cosa più assurda è il dato che le fratture sarebbero state provocate da un massaggio cardiaco esterno. Non si può non evidenziare che la sesta e la settima costola siano le ultime della gabbia toracica mentre il massaggio cardiaco si esegue ben più in alto, ad altezza del plesso solare. Nelle foto, inoltre, appaiono escoriazioni sulla fronte, a destra, ed una ecchimosi bluastra al sopracciglio sinistro, come se in quei punti fosse stato colpito. Senza considerare che il rachide cervicale era intatto, e ciò significa che il boss di Altofonte non è morto per la classica strattonata dell'impiccagione. Ma ci sono anche altri aspetti che non tornano. Basta rileggere i verbali con le ricostruzioni degli agenti su ciò che avvenne quella notte. Gioè si sarebbe ucciso con un rudimentale cappio fatto con i lacci delle scarpe da ginnastica, quindi si sarebbe appeso alla grata della finestra. Dalle immagini si evince che sotto la grata della finestra vi era un tavolo, il che, come evidenziarono i due colleghi, rende impossibile che il corpo sia rimasto sospeso proprio in quel punto. "Se Nino Gioè si fosse davvero appeso alla grata con il viso rivolto verso la finestra, come viene raccontato dalle guardie penitenziarie, le sue gambe si sarebbero appoggiate sul tavolo, impedendo che il peso del corpo provocasse il soffocamento. Il tavolino, inoltre, nella foto risulta apparecchiato, con ancora l'insalata nel piatto, un bicchiere con un cucchiaio sporco, due bottiglie e una brocca. Su quel tavolo ci sono anche i tre fogli manoscritti di Gioè". 

La lettera del mistero. In quella misteriosa lettera il detenuto cerca in ogni modo di allontanare i sospetti di rapporti tra la mafia, i suoi familiari e gli amici e nella sua introduzione presenta queste parole: "Stasera ho ritrovato la pace e la serenità che avevo perduto 17 anni fa. Perse queste due cose ero diventato un mostro e lo sono stato fino a quando ho preso la penna per scrivere queste due righe che spero solo che possano servire a salvare degli innocenti e dei plagiati che solo per mia mostruosità si troveranno coinvolti in vicende giudiziarie". "In questo mio estremo momento - scriveva ancora - giuro che quello che sto scrivendo è la pura verità. Fra le tante cose che ho detto ci saranno ancora moltissime fandonie in questo momento non ricordo altre persone che ho infangato con le mie chiacchiere e infamie. Io rappresento la fine di tutto e penso che da domani, o a breve, i pentiti potranno tornarsene alle loro case certamente con molto più onore del mio, che non ho". La lettera si conclude con il boss che chiede perdono "a mia madre e a Dio". Secondo gli inquirenti della prima ora la "prova" della volontà di farla finita togliendosi la vita. Ma forse c'è dell'altro. Perché nella lettera vi sono diversi riferimenti al covo di via Ughetti a Palermo fino a nominare il boss calabrese Domenico Papalia e l'ex estremista nero Paolo Bellini, oggi sotto processo a Bologna per l'attentato del 2 agosto 1980 alla Stazione Centrale. Quest'ultimo, addirittura, nella lettera viene definito come un infiltrato (“Dimenticavo di dire che mio fratello Mario nell’andare a tentare di recuperare il credito ha consegnato al creditore una tessera dello stesso creditore il che adesso mi rendo conto che quest’ultimo fosse un infiltrato; mio fratello non lo ha incontrato ed il figlio gli ha detto che il padre era ricercato. Supponendo che il sig. Bellini fosse un infiltrato sarà lui stesso a darvi conferma di quanto sto scrivendo. L’ultima volta che ho incontrato quest’uomo è stato presso la cava Buttitta solo per pura fatalità me lo sono fatto portare in quel posto dove ero andato per cercare di convincere il sig. Gaetano Buttitta a comprare del lubrificante da me…”). 

Il peso di Gioè in Cosa nostra. Certo è che Antonino Gioè era uno di quei soggetti che sapeva molte cose all'interno dell'organizzazione criminale. Un elemento chiave di raccordo, capace di mettere in relazione vari mondi. Lo conferma il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo (oggi deceduto) che in passato aveva parlato di una serie di incontri avuti in Inghilterra, nel carcere di Full Sutton, con agenti dei Servizi di sicurezza, ai quali aveva indicato Nino Gioè (suo cugino, ndr) quale "persona che poteva essere loro utile". Gioè è l'uomo che, appunto, gestiva il contatto con l'ex estremista nero, il quale si rese protagonista di una trattativa parallela tra Stato e mafia con la proposta di un occhio di riguardo verso alcuni boss in carcere in cambio del recupero di opere d'arte rubate. I due si conobbero per la prima volta in carcere nel 1981 e caso vuole che i due si incontrassero nuovamente, così come raccontato da Bellini, proprio nel 1991 nelle zone di Enna. Luoghi chiave nella storia delle stragi perché proprio in quell'anno e in quelle campagne, secondo le testimonianze di diversi collaboratori di giustizia, venne decisa la strategia stragista consultando mondi esterni a quello di Cosa Nostra. Gioè era presente anche nella collina di Capaci, accanto a Giovanni Brusca. E' emerso nel corso dei processi sulla strage di Capaci che lo stesso utilizzasse un cellulare fantasma. Ovvero Gioè chiamava da un numero che risultava disattivato da mesi. A raccontare il dato è l'ex poliziotto ed ex consulente informatico, oggi avvocato, Gioacchino Genchi. Da quel cellulare il 23 maggio 1992, il giorno della strage, chiamò più volte un numero americano, del Minnesota. Alle 15.17, per 40 secondi; alle 15.38, per 23 secondi; alle 15.43, per 522 secondi. Chi rispondeva, dal Minnesota? E' una delle domande rimaste aperte. Ma Nino Gioè era anche uno dei pochi boss che aveva un canale diretto con Totò Riina. Quindi conosceva diversi segreti su quella terribile stagione di bombe e sangue. 

Il covo di via Ughetti. Punto di contatto Cosa nostra-Servizi. C'è anche un'altra singolare coincidenza che riguarda la storia di Gioè e la sua "vicinanza" ai servizi di sicurezza. Un filo che arriva proprio in via Ughetti, in quel covo dove fu arrestato. Un anno fa fu ritrovato un vecchio verbale dell'ex boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca, che già nel 1997 rivelava che il costruttore di quello stabile, Antonino Seidita, successivamente tratto in arresto per associazione mafiosa, era anche in contatto con i servizi di sicurezza. Un verbale finito agli atti dell'inchiesta sull'assassinio del poliziotto Agostino. Non solo. Nel dicembre 2016, al processo trattativa Stato-mafia, si tenne la deposizione di Salvatore Bonferraro, sostituto commissario di Polizia per anni in servizio presso il centro Dia di Palermo. Fu tra gli investigatori che si occupò delle indagini sulla strage di Capaci. In aula, di fronte alla Corte d'Assise, raccontò gli accertamenti svolti nel corso del tempo da cui emerse che, proprio nell'appartamento di fronte a quello in cui si trovavano Gioè e La Barbera, aveva trovato riparo Salvatore Benigno, uomo d'onore della famiglia di Misilmeri, condannato all'ergastolo in quanto responsabile per le stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano. Ad anni di distanza non appare come una coincidenza la presenza dei tre boss nello stesso stabile. Sempre Bonferraro riferì di aver visto in quel palazzo anche la presenza di esponenti dei servizi segreti. “E' successo un fatto durante un cambio serale - raccontò nel 2016 - La sera del sedici marzo 1993 scesi in ascensore e quando si aprirono le porte del piano terra mi trovai due persone che erano del Sisde. Si trattava di Nunzio Purpura, funzionario del centro Sisde di Palermo (divenuto capo centro nel novembre 1997 fino al 2004, ndr), e Antonina Lemmo, anche lei appartenente al Sisde che diventò poi sua moglie. In merito a questo incontro feci anche una relazione di servizio il giorno successivo”. Ma non fu quello l'unico episodio “inconsueto”. “Parlando con un collega, descrivendo le fattezze del Purpura - ha aggiunto Bonferraro - mi disse di aver incontrato questa persona mentre facevano un servizio di osservazione su Giovanni Scaduto. Scaduto si incontrava giornalmente con Gioè e La Barbera ed è il genero di Salvatore Greco, detto il Senatore. Fa parte dello stesso gruppo di Gioè. Ebbene mentre loro osservavano lo Scaduto il Purpura li guardava. Addirittura si accorsero di essere seguiti durante un pedinamento”. 

Morto che parla. Analizzando ogni passaggio è chiaro che quella di Gioè è una morte che parla ed è sempre più evidente che la tesi del suicidio va totalmente messa da parte. Dopo il suo arresto il boss di Altofonte era stato inserito sotto il regime del 41 bis, ma gli fu immediatamente tolto dopo appena 24 ore. Come riportato da alcuni giornali dell'epoca dal suo arresto aveva avuto solo un colloquio con il proprio difensore di fiducia e tredici colloqui con i familiari, l'ultimo dei quali il 17 luglio. Famiglia che nei giorni successivi alla morte avanzò i primi dubbi sulla morte di Gioè con tanto di sit-in dietro la cancellata del tribunale di Palermo per chiedere la salma del fratello. In quell'occasione distribuirono persino dei volantini con un'interrogazione rivolta al ministro Conso da alcuni deputati federalisti per sapere se magistrati e investigatori avevano incontrato Gioè in carcere prima del "presunto" suicidio. E in questi anni diversi collaboratori di giustizia si sono detti convinti che Gioè stesse addirittura collaborando con la giustizia. “Mi trovavo presso il carcere di Rebibbia e passeggiavo all'esterno durante l'ora d'aria - aveva raccontato Mario Santo Di Matteo nel 2014, sentito nel processo Borsellino quater - da una finestra si affaccia Gioè. Mi sembrava un barbone per come era messo in viso. Gli chiesi come stava se faceva colloqui con la famiglia. Mi disse che stava bene che mangiava pesce spada e che tutti i giorni vedeva il fratello. In quel momento capii che stava combinando qualcosa e pensai che stesse collaborando. E all'indomani mattina mi portano all'Asinara. Lì dopo qualche giorno che si diffuse la notizia della morte vennero ad interrogarmi e mi dissero che Gioè aveva parlato di me nella lettera. Io sono sempre convinto che si sia ucciso perché aveva saltato il fosso”. Anche l'ex mafioso Angelo Siino, nel processo d'appello per la strage di Capaci, disse al pm Tescaroli di aver saputo che era stato visto parlare "con agenti o carabinieri o organi dello Stato poco prima del suicidio in carcere". Altri collaboratori dicono che poco prima quella sera stranamente è stata chiusa la porta che dava accesso al corridoio di Gioè e che molti capiranno che stava per accadere qualcosa di strano. Ad alimentare il sospetto, in quella notte, il trasferimento, avvenuto alle ore 24.15, del detenuto Orazio Pino a Torino per assistere a un processo. Un orario assolutamente anomalo per una procedura simile, in grado di permettere l'entrata e l'uscita dal carcere di personale esterno. Di tanti pentiti Francesco Di Carlo è sicuramente stato quello più convinto nel ritenere che il cugino sia stato "suicidato" proprio per quello che sapeva e avrebbe potuto dire. 

L'intrigo La Barbera. Ma è possibile anche un'ipotesi ulteriore. Ovvero che Gioè avesse addirittura iniziato un percorso di collaborazione. E' il collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera ad alimentare il sospetto nel 2015 quando, in un'intervista rilasciata alla collega Raffaella Fanelli, pubblicata su La Repubblica, aveva affermato: "Non so se si è suicidato. Rispondendo a questa domanda mi fa mettere nei guai funzionari della Dia che con me si sono comportati bene... Che mi hanno aiutato. Sapevo che avevano fatto dei verbali con lui. Gioè stava collaborando, ne sono certo. Ero nella sua stessa sezione, insieme a Santino Di Matteo, e Gioè era l'unico a ricevere visite. La mia finestra dava sulla strada e vedevo un viavai di macchine e di persone che arrivavano per lui. Pochi giorni prima della sua morte, dal carcere di Rebibbia mi trasferirono a Pianosa mentre Di Matteo fu tradotto all'Asinara". Successivamente, sentito nel processo Capaci bis, aveva ridimensionato le proprie dichiarazioni: “Ho esagerato un po’ perché sicuramente ci sarà qualche verbale.. io non lo so però lì parlando con la giornalista ho esagerato nel dire che si sono fatti verbali. Io l’ho pensato e si pensava che lui stesse collaborando con la giustizia ma si parla di verbali tra virgolette, sono cose che penso io ma non sono a conoscenza diretta di verbali scritti”. Nonostante le spiegazioni, però, è rimasta assolutamente aperta la domanda su quella frase espressa dal pentito in maniera non dubitativa sull'esistenza di verbali, poi fatti sparire, con l'allusione che gli stessi possano essere legati alla morte di Gioé. 

D'Ambrosio dixit. La vicenda di Gioè è in qualche maniera entrata anche negli atti del processo sulla trattativa Stato-mafia, non solo per la vicenda Bellini. Di lui parlò il magistrato Loris D’Ambrosio (deceduto, colpito improvvisamente da un ictus, il 26 luglio 2012 dopo essere stato sentito dai pm di Palermo). Il consigliere del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nelle conversazioni intercettate con l'ex ministro Nicola Mancino, affermava: “Questa storia del suicidio di Gioè. Secondo me è un altro segreto che ci portiamo appresso... non è mica chiaro a me questa cosa”. Ai magistrati di Palermo spiegò: “A me quel suicidio non mi è mai suonato... Insomma che cosa in realtà è accaduto nelle carceri in quel periodo, questa è la vera domanda che mi pongo io al di là del 41 bis... insomma questo suicidio così strano... ecco mi... ha turbato, mi turbò nel ’93 e mi turba ancora”. Un turbamento interiore che aveva manifestato anche al Presidente della Repubblica Napolitano nella sua lettera di dimissioni (poi respinte) in cui scriveva “vivo il timore di essere stato considerato un umile scriba usato come scudo ad indicibili accordi”. 

Le colonne d'ercole per la verità. Per comprendere ulteriormente l'importanza del caso Gioè vale la pena ricordare ciò che disse il magistrato Gianfranco Donadio il 29 novembre 2017 davanti la Commissione Parlamentare antimafia nel momento in cui affermò che i casi delle morti di Luigi Ilardo e Nino Gioé "sono i due pilastri che fissano un po’ le Colonne d'Ercole, i limiti della verità dicibile". In quell'audizione Donadio, facendo riferimento proprio a quell'intervista di La Barbera in cui si parlava del pentimento di Gioè, si poneva alcuni interrogativi: "Con chi parlò Gioè? Furono formati i verbali? Appunti di PG?". Sul punto ha anche provato a darsi una risposta individuando nel rapporto della Dia a firma del dottor Micalizio, anche noto come Oceano, in cui veniva realizzata un'analisi accurata sullo stragismo negli anni 1992-1993. "Si tratta - spiegava Donadio - di un rapporto di analisi che percorre la strada dell'ibridazione di cosa nostra, che diventa un'organizzazione vicina ad ambienti della destra eversiva, che si interseca con strategie massoniche e leghiste (la Lega nazionalpopolare di cui vi ho parlato, che vuol dire Delle Chiaie) e con le strategie di alcuni ambienti massonici". E sarà quello il rapporto da cui trasse spunto la nota inchiesta sui "Sistemi criminali", condotta dalla Procura di Palermo. Gioè contribuì dando informazioni? Possibile. Del resto anche il pentito Leonardo Messina al tempo aveva riferito delle riunioni di Enna e del contesto generale in cui maturarono le stragi. E sempre Gioè avrebbe potuto confermare ciò che la Dia mise nero su bianco nella famosa nota del 10 agosto 1993, dove si informava l’allora ministro dell'Interno, Nicola Mancino, di come “un’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis” avrebbe potuto “rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”. E' quello il documento in cui per la prima volta compare il termine “trattativa”, utilizzato per descrivere quello che stava accadendo nell'immediato post stragi. Erano passati pochi giorni dalle bombe di Roma e Milano, e si parlava di una strategia “per insinuare nell’opinione pubblica il convincimento che in fondo potrebbe essere più conveniente una linea eccessivamente dura per cercare soluzioni che conducano ugualmente alla resa di Cosa Nostra a condizioni in qualche modo più accettabili per Cosa Nostra”.

Quella via stretta. Negli ultimi anni i frammenti di verità raccolti ci hanno permesso di ricostruire diversi pezzi di storia. Il processo trattativa Stato-mafia, il processo Borsellino quater, il processo 'Ndrangheta stragista hanno dato in questo senso un notevole contributo e la speranza è che anche il processo sul Depistaggio di via d'Amelio e ancor di più quello sul delitto dei due coniugi Antonino Agostino e Ida Castelluccio, si possa continuare ad aggiungere pezzi. Magari partendo proprio dai "cold case" e dalle morti anomale di cui parlava Roberto Scarpinato. Le tracce ci sono ed anche se la via appare stretta è giusto percorrerla fino in fondo. A Firenze dal 2017 è stata riaperta l'inchiesta sui mandanti esterni delle stragi. E magari potrebbe anche essere utile riprendere in mano casi come la morte di Nino Gioè. Lo scorso ottobre il pentito Pietro Riggio, che dal 2018 ha avviato una nuova fase della propria collaborazione con la giustizia raccontando una serie di circostanze sulla strage di Capaci, è stato sentito nel processo Stato-mafia. Diciamo subito che l'attendibilità del collaboratore è tutta da dimostrare e sul punto vi sarebbero elementi contrastanti. Certo è che su Gioè il Riggio ha affermato di aver appreso che la morte di Nino Gioè non è ascrivibile alla voce "suicidi". In quel tragico anno del 1993 Riggio si sarebbe trovato molte volte a Roma in quanto membro della Commissione paritetica per i trasferimenti presso il ministero della Giustizia. Ed è in quella veste che sarebbe venuto a conoscenza di una serie di azioni effettuate all'interno delle carceri. "C'era un modus operandi a dir poco barbaro - ha dichiarato di fronte alla Corte d'Assise d'Appello - i detenuti venivano picchiati sistematicamente con metodi quasi nazisti. Io lo so che la polizia penitenziaria aveva delle direttive ben precise e so che lo Stato copriva in quel momento la polizia penitenziaria qualsiasi cosa fosse accaduta. A Roma ho avuto modo da raccogliere le lamentele dei colleghi di Rebibbia e di quelli che avevano avuto a che fare con questo. Una sera parlando con un mio collega, Gianfranco Di Modugno, un pari corso mio, parlai anche della morte di Gioè. Tutti sapevano che non si era suicidato. Mi racconta Di Modugno che Gioè, il giorno in cui decise di voler collaborare, aveva fatto una lettera. Non la lettera che fu ritrovata, ma un'altra ben precisa in cui accusava e faceva dei nomi; dove parlava di stragi e dei contatti con servizi segreti con cui lui aveva avuto a che fare". In quell'udienza del 26 ottobre il pentito disse anche dell'esistenza di una vera e propria squadra di agenti "persone fidate, in mimetica, che arrivano all'interno delle sezioni, si prendono le chiavi e mandano tutti fuori. I miei ex colleghi devono avere il coraggio di dire che sono stati mandati via e sono entrate altre persone e si sono appropriate della sezione. Devono avere la dignità di parlare, perché è il momento di poter parlare. Loro sono stati esautorati e nessuno sa cosa è successo là dentro". E sempre rivolgendosi alla Corte ha anche raccontato l'esistenza del cosiddetto metodo 'della scala'. "In poche parole - ha spiegato - per far parlare un detenuto o minacciarlo, loro mettevano una corda al collo del detenuto e tiravano dal basso verso l'alto e non il contrario, come si può pensare quando il detenuto si impicca e va dall'alto verso il basso. E per non legargli le mani e lasciargli dei segni, usavano dare dei pugni nel costato in modo che il detenuto, o chi si trovava in quei frangenti, non potesse tenersi per divincolarsi nella corda, perché tendeva a pararsi nel costato mentre loro tiravano con la corda". La Procura di Roma ha interesse a riaprire il fascicolo? E' facile pensare che il verbale di udienza, per competenza, sia stato trasmesso dalla Procura di Palermo o che, quantomeno, di questo si stia parlando alla Procura nazionale antimafia che da tempo è tornata ad occuparsi, con un pool specifico, di tutte le stragi e di delitti eccellenti.

La morte di Gioè si inserisce in questo contesto. Il perché lo ha spiegato ancora una volta Scarpinato, nel suo intervento lo scorso luglio: "La cosa che fa riflettere è la continuità nel tempo di questo potere malato e omicida che prima utilizzò le stragi di Capaci e via d’Amelio per condizionare i nuovi assetti di potere dopo la fine della prima Repubblica e poi intervenne sistematicamente per impedire che potessero venire alla luce in sede giudiziaria le verità destabilizzanti per i nuovi soggetti politici che si celavano dietro la strage di via d’Amelio e le altre stragi”. Si tratta di un potere “capace di intervenire tempestivamente, occultamente, chirurgicamente una volta che la maglia dell’impunità rischiava di sfilarsi in qualche punto aprendo una breccia attraverso la quale la luce della verità poteva illuminare il volto dei mandanti esterni”. Ed è per questo motivo che figure come Nino Gioè e Luigi Ilardo andavano fermate. Le loro morti, secondo Scarpinato, "sono stati una lectio magistralis, un’esibizione straordinaria di potere che ha chiuso e tappato le bocche. Biondino, Bagarella, Graviano, Madonia, tutti in carcere, sanno che c’è un potere che è in grado di entrare nelle carceri e di ucciderli. Sanno che se hanno dei figli un pirata della strada potrebbe investirli". Colpirne uno (o in questo caso bisognerebbe dire pochi) per educarne cento.

Si è spento a 92 anni. Chi era Alfonso Giordano, il giudice che smontò la balla della trattativa Stato-Mafia. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 13 Luglio 2021. Alfonso Giordano, scomparso ieri all’età di 92 anni, non era un magistrato qualunque. Era stato il presidente della Corte che aveva visto istruire le accuse dal pool antimafia e governato la celebrazione dell’intero, gigantesco Maxi Processo di Palermo, il colpo al cuore di Cosa nostra entrato nella storia come più esteso processo penale italiano. Dopo averlo presieduto con tale maestria da aver costruito sentenze che ressero fino al terzo grado di giudizio – merce diventata poi rara, tra i magistrati – è stato presidente della Corte d’appello di Lecce, poi della Corte d’Appello di Palermo, dove ha terminato la sua carriera di magistrato. È stato Presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione ed è stato insignito, subito dopo il pensionamento, da parte del Capo dello Stato della onorificenza di Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica Italiana. Alle elezioni comunali di Palermo del 21 novembre 1993, si candidò a sindaco della città con l’Unione di Centro, risultando terzo con oltre 23.000 voti, dopo Leoluca Orlando ed Elda Pucci. Era asettico alla polemica ma fermo nelle ragioni della sua profonda competenza del fenomeno mafioso. E quando la Rai pretese di trasformare quasi in fiction nazionalpopolare le ombre cinesi della cosiddetta “Trattativa Stato-mafia” che tanto appassionano qualche complottista, Alfonso Giordano era pronto a protestare, a far sentire la voce del sempre autorevole Presidente di un Maxi processo estraneo alla mitologia. Con il Riformista aveva parlato, rilasciandoci una lunga intervista nel gennaio scorso nella quale ci aveva detto parole inequivocabili: «Alla storia della cosiddetta Trattativa non credo e nessuno che conosce i fatti può credervi. Si era incaricato di smentirla Giovanni Falcone. La aveva considerata una ipotesi inesistente Paolo Borsellino». Ricostruendo puntualmente la requisitoria sull’organizzazione mafiosa, fu tranchant: «La fecero molto bene Falcone e Borsellino. Conclusero che la mafia era gelosa delle sue cose e che la Commissione, che rappresentava il vertice della Cupola, emetteva le sue sentenze senza dare ascolto né a servizi deviati né a emissari della massoneria, né ad altri». Insistette sull’inesistenza di chissà quali segreti nella favoleggiatissima agenda rossa di Borsellino («Aveva una agendina rossa, sì, con gli appuntamenti e qualche numero di telefono, mica con segreti di Stato») e nell’ultimo messaggio affidatoci volle mettere in guardia dalle ricostruzioni fantasiose, dalle alchimie e dalla facilità con cui si finisce per credere a certi pentiti: «Sui collaboratori di giustizia dobbiamo stare molto attenti. I depistaggi esistono sempre. Chiedo ai colleghi magistrati di mettere sempre il massimo dell’attenzione sull’attendibilità di chi collabora, perché le finalità della collaborazione sono sempre diverse da quelle che noi immaginiamo». Tanti i ricordi ed i saluti commossi che hanno raggiunto la famiglia. «Mi inchino commosso – ha dichiarato il sottosegretario alla difesa, Mulé – nel ricordo del giudice Alfonso Giordano, magistrato siciliano integerrimo. La magistratura e l’Italia perdono un uomo che seppe essere straordinario in tempi non ordinari». «Il nome del presidente Giordano – ha detto il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando – resta indimenticabile e scritto nella storia di liberazione del nostro paese e della nostra città dalla criminale ipoteca della mafia e dal suo sistema di potere affaristico e politico». E Pietro Grasso lo indica come un esempio per le nuove generazioni: «Abbiamo tutti il dovere di ricordare la sua figura ai più giovani».

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

“Alfonso Giordano, un gigante della giustizia”, il ricordo del regista anti-mafia Ambrogio Crespi. Redazione su Il Riformista il 13 Luglio 2021. Ambrogio Crespi con un post su Facebook ricorda il giudice Alfonso Giordano che è scomparso a 92 anni nella giornata di domenica e che ha curato la prefazione del libro “Il caso Crespi” sulla vicenda giudiziaria del regista anti-mafia. Alfonso Giordano, Presidente del primo maxprocessi alla mafia e Presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione, ha scritto pagine di storia. Ho avuto l’onore di conoscerlo e di parlarci. Ha letto le mie carte processuali ed ha scritto la prefazione del libro “Il Caso Crespi” affermando “qualcosa stride nei due documenti giudiziari e soprattutto poco convincenti appaiono certe credulità che hanno costituito i plinti dell’edificio usato per condannarlo in primo grado a dodici anni di reclusione, ridotti a sei in fase d’appello. In ogni caso dire che la motivazione dei due atti giudiziari non appare del tutto persuasiva non pare conclusione inadeguata nell’esame della fattispecie. E ciò speriamo sinceramente possa preludere a un successivo giudiziale pronunciamento che consenta di ottenere una chiara visione della realtà dei fatti”. A lui e alla sua famiglia oggi rivolgo una preghiera, ad un gigante della giustizia. Se continuo ad avere fiducia nella giustizia è grazie anche ad Alfonso Giordano.

Palamara: «Il Csm non desecretò gli atti su Falcone e Borsellino». Luca Palamara in audizione in Commissione parlamentare antimafia ha parlato dei rapporti intercorsi fra la trattativa Stato-mafia e le nomine. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 2 luglio 2021. Il Consiglio superiore della magistratura non avrebbe inizialmente desecretato tutti gli atti relativi alle vicende di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino «per evitare che potessero in qualche modo essere messi in discussione gli equilibri politico istituzionali che in quel momento governavano il mondo interno della magistratura». A dirlo è stato mercoledì scorso Luca Palamara, chiamato in audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia presieduta dal pentastellato Nicola Morra. Fra i tanti argomenti toccati dall’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, ampio spazio è stato dedicato ai rapporti intercorsi fra la trattativa Stato- mafia e le nomine, da parte del Csm, dei vertici degli uffici inquirenti del capoluogo siciliano. La desecretazione degli atti avvenne durante la scorsa consiliatura, in occasione della ricorrenza dei venticinque anni della morte dei due magistrati. Vice presidente del Csm era Giovanni Legnini (Pd), mentre Palamara, oltre ad essere il presidente della Commissione per gli incarichi direttivi, era il direttore dell’Ufficio studi e documentazione di Palazzo dei Marescialli. Gli atti del fascicolo di Borsellino, in particolare, confluirono anche in un volume dal titolo “L’antimafia di Paolo Borsellino”. Nel testo, ancora oggi acquistabile tramite il portale del Csm, si raccontava il percorso professionale del magistrato, gli incarichi avuti, le valutazioni di professionalità. Fra gli atti degni di nota, anche il famoso verbale dell’audizione di Borsellino davanti alla prima Commissione del Csm nell’ottobre del 1991 nell’ambito della procedura per il trasferimento per incompatibilità ambientale dell’allora procuratore di Trapani Antonino Coci. La pubblicazione dei verbali, ha ricordato Palamara, si era fermata alla data del 23 luglio 1992, «evitando di pubblicare la seduta del 30 luglio del 1992». Palamara si riferisce alla audizione svolta dal «gruppo di lavoro per gli interventi del Csm relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata». Nella seduta del 30 venne ascoltata la sorella di Falcone, Maria, e diversi colleghi dei due magistrati uccisi che avevano lavorato con loro a Palermo. Il verbale in questione verrà, comunque, reso pubblico lo scorso anno. Fra gli atti che invece non si trovano, ci sarebbe l’audizione fatta da Falcone nella primavera del 1990 davanti alla Commissione parlamentare antimafia. In quell’occasione il magistrato aveva riferito dell’esistenza «di una centrale unica degli appalti» con valenza sull’intero territorio nazionale.

Giacomo Amadori per "la Verità" l'1 luglio 2021. L'ex presidente del Senato, Piero Grasso, esponente di punta del Pd, ha provato ad appellarsi a ogni cavillo del regolamento allo scopo di impedire la «libera audizione» dell'ex pm Luca Palamara di fronte alla commissione Antimafia. Al punto di far perdere la pazienza al presidente, Nicola Morra, ma anche a chi, vicino a lui, a un certo punto ha esclamato stizzito: «C'è il segretario, cazzo». Come a dire che c'era chi poteva controllare numero legale e altre questioni meglio di Grasso che, con il suo faccione, cercava di remare contro collegato da casa. «Capisco che voglia mettere i bastoni» ha commentato Morra, prima di concedere la parola a Palamara, al quale, evidentemente, qualcuno avrebbe preferito tappare la bocca. E forse dopo si è capito anche il perché. Infatti l'ex presidente dell'Anm ha depositato un appunto in cui sono citate diverse personalità di spicco del Pd. Del resto quello di Palamara è un osservatorio privilegiato del rapporto strettissimo tra toghe e sinistra, anche perché a un certo punto della sua carriera, tra la fine del 2017 e l'inizio del 2018, fu in predicato per un posto da parlamentare nelle file dei dem. Nel documento un ampio capitolo è dedicato alla nomina del procuratore di Palermo, ovvero dell'inquirente che avrebbe dovuto sostenere l'accusa nel processo sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia. Il candidato di Palamara, all' inizio, è Guido Lo Forte, a cui era stato assicurato sostegno anche dall' ex procuratore di Roma, il siciliano Giuseppe Pignatone: «Quest' ultimo, in quel momento era un pezzo forte del "Sistema", anche perché nel frattempo aveva allacciato un ottimo rapporto con il presidente Giorgio Napolitano», scrive Palamara. «Ma Lo Forte nell' ambiente era considerato un magistrato sostenitore dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, che come noto lambiva, per usare un eufemismo, il Quirinale». Il presidente emerito in questa vicenda è cruciale, visto che era stato intercettato nel procedimento palermitano e stava cercando in tutti i modi di stoppare la pubblicazione delle conversazioni che lo riguardavano. Palamara fa riferimento anche a una trattativa sulla Trattativa. A Palermo incontra uno degli inquirenti del processo, Antonio Ingroia: «Il quale mi riferirà di aver appreso dall' allora direttore di Repubblica Ezio Mauro che unitamente al predetto Mauro io sarei stato incaricato dal Quirinale per mediare i rapporti tra la Procura di Palermo e il Quirinale sulla vicenda intercettazioni». Un incarico che Palamara sembra ammettere: «Al riguardo io posso confermare di aver condiviso in quel periodo il disagio che Loris D'Ambrosio (consigliere giuridico di Napolitano, ndr) stava provando per il suo coinvolgimento nella vicenda (era stato intercettato anche lui, ndr) e soprattutto per la difficoltà di gestire il rapporto con il senatore Nicola Mancino (altro papavero piddino captato da Palermo, ndr) che in più occasioni gli chiese di interloquire direttamente con il presidente Napolitano. In tale ambito e in tale contesto affrontammo anche il problema relativo alla necessità di trovare un punto di equilibrio con la Procura di Palermo». In un altro passaggio l'ex toga ricorda la mossa di Napolitano: «In prossimità del plenum che doveva, come da accordi, varare l'operazione Lo Forte, arriva al Csm una lettera del capo dello Stato che invita a rispettare nelle nomine l'ordine cronologico, che non vede Palermo al primo posto. La nomina di Lo Forte quindi slitta, e siccome il Csm è in scadenza tutto viene rinviato alla tornata successiva». Cioè quella in cui verrà eletto Palamara. Il quale prosegue: «Pignatone sente puzza di bruciato e nonostante sia molto amico di Lo Forte cambia cavallo. Mi convoca e mi dice: "Si va su Lo Voi (Franco, ndr)". Su decisioni di questa portata il Quirinale è sempre in partita». L'ex toga ricorda un pesantissimo editoriale di Eugenio Scalfari contro i pm di Palermo proprio di quei giorni. «È questo il clima che riaffiora al Csm nel dicembre del 2014, in occasione della nomina del nuovo procuratore di Palermo. Me lo fa capire anche il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini (altro esponente Pd, ndr), che suo malgrado si allinea sul candidato Lo Voi, il meno rigido dei tre sull' inchiesta Stato-mafia. Rimango sorpreso, ma sono uomo di mondo e studio la pratica». A questo punto Palamara si inventa «un trucco concordato con le altre correnti», un tecnicismo, che garantisce la vittoria a Lo Voi. Confermata dalla quarta sezione del Consiglio di Stato «presieduta da Riccardo Virgilio, che nei racconti di Pignatone era a lui legato da rapporti di antica amicizia», ha sottolineato l' ex presidente dell' Anm. Il quale ha ricordato anche un incontro a casa sua tra Virgilio e Pignatone, in cui i due avrebbero parlato «in maniera molto fitta e riservata». Nel suo appunto e nell'audizione Palamara ha evidenziato anche la contrarietà dei vertici della magistratura al conferimento di un incarico presso la Direzione nazionale antimafia al pm palermitano Nino Di Matteo, al centro di «invidie e gelosie di prime donne», e svela anche un retroscena sulla scelta del capo della stessa Dna: «La nomina di Di Matteo è in concomitanza con quella di Federico Cafiero De Raho alla Procura nazionale antimafia in relazione alla quale visti i suoi trascorsi alla Procura di Reggio Calabria vi è stata una diretta interlocuzione con l'allora ministro degli interni Marco Minniti». Sembra di capire che il calabrese Minniti si sia interessato alla nomina del magistrato che aveva guidato la Procura reggina. Palamara, infine, fa riferimento al procedimento Tempa rossa, che portò l'ex ministro Federica Guidi a dimettersi senza essere mai stata indagata e che «arrivò a sfiorare Elena Boschi, che infatti venne interrogata a Roma». E qui Palamara svela un clamoroso retroscena: «Per me fu abbastanza singolare che, dopo l'interrogatorio della Boschi, Luigi Gay, Laura Triassi e Francesco Basentini (i pm del fascicolo, ndr) vollero incontrarmi per tranquillizzarmi sull' andamento della indagine quasi a cercare una copertura da parte del Csm. [...], presenti le scorte, l'incontro avvenne presso il bar Vanni. Mi venne riferito che l'interrogatorio della Boschi non era durato due o tre ore come dicevano i primi lanci Ansa, ma molto di meno e che le lungaggini erano dovute a una circostanza molto più banale e grottesca: il computer si era inceppato e con grande imbarazzo di tutti nessuno sapeva cosa fare. Le circostanze da chiedere alla Boschi erano minime. Non mi capacitavo a quel punto della necessità di tutto quel clamore sulla vicenda. Comunque mi era chiaro che essendo prossimo il procuratore Gay alla pensione tanto Basentini che la Triassi ambivano ad incarichi semidirettivi. Basentini verrà poi nominato procuratore aggiunto di Potenza».

Magistratopoli. Da un anno a Nola, trasferita per "incompatibilità". Terremoto a Nola, il procuratore capo Triassi trasferito dal Csm dopo gli esposti dei colleghi. Redazione su Il Riformista il 24 Luglio 2021. Terremoto nella Procura di Nola. Il Consiglio superiore della magistratura ha disposti il trasferimento d’ufficio per il procuratore capo Laura Triassi, un provvedimento adottato per “incompatibilità con l’ufficio di attuale assegnazione e con gli uffici che, nell’ambito del distretto, hanno competenze ordinamentali e procedimentali che presuppongono un coordinamento con la Procura di Nola”. Come ricorda l’Ansa, il procedimento sulla Triassi era stato avviato lo scorso 14 giugno dalla prima commissione del Csm dopo una nota prodotta dal procuratore generale presso la Corte di Appello di Napoli Luigi Riello a seguito di una serie di audizioni. Il riferimento era ad una serie di condotte poste in essere dal procuratore capo di Nola Triassi e al procuratore aggiunto Stefania Castaldi. Ad aprile 12 dei 13 sostituti procuratori della Repubblica presso il Tribunale di Nola avevano anche depositato un esposto al procuratore generale, poi integrato, nel quale Triassi e Castaldi venivano ritenute causa di “un profondo disagio e penoso malessere” per l’intero ufficio che, veniva sottolineato, avrebbe determinato “verosimilmente, molteplici ed imminenti richieste di trasferimento ad altra sede”. Nell’esposto si evocava anche il rischio di una “crisi dell’indipendenza interna dei sostituti dell’ufficio” alla luce di numerosi episodi diretti “compromettere la dignità della funzione giurisdizionale dei sostituti dell’Ufficio”. Triassi era alla guida della procura di Nola da poco più di un anno. Redazione

Palamara all'Antimafia: «Gratteri e Di Matteo non fanno parte del sistema delle correnti». Il Quotidiano del Sud l'1 luglio 2021. «Penso di aver operato solo perché venissero attuati i principi di giustizia giusta. Mi sono trovato ad operare in quel meccanismo e quel meccanismo imponeva delle scelte e degli accordi. Io non mi sento di dire che tutte le nomine che sono state fatte sono state negative. Perché oggi dirigono uffici giudiziari quelli che sono stati eletti con quel meccanismo». Così Luca Palamara, ascoltato in audizione in Commissione parlamentare Antimafia. «Poi ha fatto comodo dare una rappresentazione diversa, ma chi oggi ricopre cariche importanti le ha ricoperte in virtù di un meccanismo che inevitabilmente imponeva il passaggio correntizio», aggiunge. «Per la esperienza diretta di quella che è stata la mia attività, Basentini non aveva requisiti per ricoprire quell’incarico al netto del curriculum che non metto in dubbio», afferma intervenendo sulla nomina dell’ex capo del Dap Francesco Basentini. «Dico che per quel determinato incarico che gestisce una mole di informazioni, il profilo del capo Dap è molto importante perché se si mette un magistrato che capisce certi meccanismi, penso a Di Matteo – prosegue Palamara facendo riferimento soprattutto all’esperienza sul fronte della lotta alla mafia – quella gestione e mole di informazioni può rafforzare ancora di più il personaggio di Di Matteo nella magistratura – continua – E quando si rafforza un personaggio così il sistema si preoccupa per trovare un punto di equilibrio». Come riferisce Palamara, il «punto di equilibrio poteva essere trovato nel nome di Basentini», una scelta che «evitava il rafforzamento» di Di Matteo. «Quando Gratteri è in predicato di diventare ministro della Giustizia, anche in quel caso nella magistratura si teme che Gratteri possa diventare ministro della Giustizia», afferma ancora in audizione. «Fatto sta che il nome di Gratteri, per come appreso in ambito politico, venne depennato dalla lista originaria», continua Palamara precisando che «Gratteri e Di Matteo non fanno parte del meccanismo che rappresenta lo schema dei partiti politici, le correnti attraverso cui si detiene ed esercita potere». L’esclusione dal gruppo stragi di Nino Di Matteo? «Fu una scelta presa autonomamente da Cafiero De Raho», scelta che fu «oggetto di dibattito anche nel Csm», spiega. «Ma la scelta e la motivazione – precisa – fu appannaggio esclusivo di De Raho e nessuna interferenza ci fu per quanto mi riguarda». E ancora: «La scelta di Basentini e del capo di gabinetto Baldi non sono scelte dettate dalle correnti, non hanno fornito il nominativo», spiega Palamara in merito alla nomina dell’ex capo del Dap Francesco Basentini. Nomina che, dice, fu «frutto di una sorta di scelta diversa che in quel contesto si stava verificando anche all’interno del ministero». «Per una pregressa conoscenza tra Minniti e Cafiero, risalente a quando Cafiero era procuratore a Reggio Calabria, ebbi modo di interfacciarmi con Minniti e ci fu quello scambio “Salvate il soldato Cafiero” per significare che la professionalità di Cafiero non dovesse essere persa e in qualche modo recuperata al passaggio successivo», afferma ancora Palamara rispondendo a una domanda su una chat tra Palamara e l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti, raccontando della mancata nomina di Federico Cafiero De Raho nel 2017 alla Procura di Napoli e poi la successiva nomina a procuratore nazionale antimafia. Palamara ha aggiunto che «è capitato, e non solo con la nomina di Cafiero, di avere interlocuzioni con il mondo della politica».

Giuseppe Graviano scrive una lettera alla ministra ed è “febbre” da trattativa. Non c’è nulla di scandaloso o allarmante nella lettera inviata da Graviano alla ministra: lo fanno numerosi ergastolani ostativi - oltre ai detenuti ordinari - e la corrispondenza viene controllata dal Gom. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 15 giugno 2021. Giuseppe Graviano, dal suo 41 bis, ha mandato una lettera alla ministra della Giustizia Marta Cartabia e si crea l’ennesima suggestione. Dopo che ne ha dato notizia Il Fatto Quotidiano, subito – come da copione – si muove il presidente della commissione antimafia Nicola Morra e i pm di Firenze che indagano sulle stragi.

Numerosi ergastolani ostativi mandano quotidianamente lettere al ministero della Giustizia. Ma quale sia lo scandalo non è dato sapere, visto che numerosi ergastolani ostativi – oltre ai detenuti ordinari – mandano quotidianamente missive al ministero della Giustizia per evidenziare le problematiche della loro carcerazione.

Il teorema giudiziario della trattativa spada di Damocle per ogni governo. Ma se a farlo è Graviano, scoppia il caso. Non si sa per quale motivo, il Fatto Quotidiano chiede alla guardasigilli di renderlo pubblico e addirittura – senza però rivelare il contenuto – parla di avvertimento. Ai nostri occhi, l’avvertimento sembra provenire da chi rende nota questa notizia, quasi facendo intendere che ci sia una trattativa in corso. Un teorema giudiziario che è diventata una spada di Damocle per qualsiasi governo, per qualsiasi uomo delle istituzioni, per qualsiasi funzionario del Dap che compie il suo lavoro. Non se ne esce, ogni gesto, ogni cosa fatta secondo le regole penitenziarie, diventa oscuro, quasi losco. Oramai, lo Stato di Diritto è diventato ostaggio dell’infinito teorema giudiziario.

Si rievoca anche una lettera scritta da Graviano nel 2013 all’allora ministra della Salute Lorenzin. D’altronde, nel medesimo articolo, si rievoca un fatto risalente al 2013 quando Giuseppe Graviano scrisse una missiva indirizzata all’allora ministra della Salute Beatrice Lorenzin, parlando tra le altre cose della necessità dell’abolizione dell’ergastolo ostativo citando le dichiarazioni di Umberto Veronesi e di costituzionalisti. Ma quale sarebbe lo scandalo? E cosa sarebbe così scandaloso? Ma l’argomento principale della missiva erano le sue condizioni di salute, il problema del cibo non adatto alle sue esigenze, del trattamento inumano e degradante che secondo lui subisce. E quindi? La ministra Lorenzin, da parte sua, ha già spiegato di non averne mai saputo nulla e che di solito questo tipo di corrispondenza non passa dalle scrivanie dei ministri, ma viene smistata agli uffici competenti. Infatti funziona così.

Dalle parole di Graviano per qualcuno si potrebbe ipotizzare l’ennesimo papello. Ma i colleghi giornalisti lo ignorano. Il che è grave visto che a questo punto, fare il giornalista oramai è improvvisare, trattare argomenti non conosciuti e quindi non offrire un bel servizio alla collettività. Giuseppe Graviano, durante il processo ‘ndrangheta stragista, ha detto che il ministero gli avrebbe risposto che stava portando avanti tutto quello che aveva chiesto. Da come scrive il Fatto, sembra quasi che il ministero di allora avrebbe dato seguito alla presunta richiesta di un presunto papello. Siamo di nuovo ai retropensieri dettata dall’ignoranza del diritto penitenziario, delle regole di procedura, della decontestualizzazione degli eventi.

Ogni lettera di un detenuto al 41 bis è visionata dal Gom. Punto primo. Ogni lettera che proviene dal 41 bis è sottoposta al visto ed eventualmente alla censura, se i Gom individuano eventuali messaggi criptici. Quindi, se è giunta a destinazione, vuol dire che non c’era nulla di sconvolgente. Punto secondo. Nel 2013 era in corso la battaglia politica del Partito Radicale, in particolare da Marco Pannella, per l’abolizione dell’ergastolo ostativo. Se ne parlava in tv, si era creato un movimento da parte di numerosi detenuti ergastolani. Carmelo Musumeci in primis con i suoi libri, appelli sottoscritti da numerose autorevoli personalità dello spettacolo, della politica, del mondo intellettuale. Ci fu soprattutto l’azione referendaria dei Radicali su questo tema e altri riguardanti la giustizia in generale.

Giuseppe Graviano non ha mai nascosto la sua insofferenza al 41 bis. Graviano che non ha mai nascosto la sua insofferenza nel 41 bis, ha inviato una lettera come tanti altri detenuti che erano, e sono tuttora, nella sua condizione. Nessun messaggio criptico, nessun indicibile patto. Punto terzo. Non sappiamo cosa gli ha testualmente risposto il Dap nel 2013 e se effettivamente una risposta ci sia stata. Ma chi è a digiuno di come funziona il mondo, complicato, del sistema penitenziario (quasi tutti, a partire dal Fatto Quotidiano e L’Espresso), non sa che il Dap – ora molto meno frequentemente – risponde formalmente alle richieste dei detenuti con una dicitura del tipo: «Le sue richieste saranno sottoposte all’ attenzione degli uffici competenti». Nulla di strano, ma a chi ignora la prassi, potrebbe apparire “singolare”. Sarebbe strano e malevolo il contrario che il Dap si disinteressasse delle segnalazioni.

Il Dubbio pubblica molte lettere inviate da detenuti a via Arenula. E purtroppo accade, visto che Il Dubbio spesso pubblica in contenuti di numerose lettere o appelli dei detenuti rimaste inevase. All’epoca, tra l’altro, parliamo del 2013, c’era al Dap come responsabile del 41 bis il magistrato Roberto Piscitello. Di certo non si può dire che fosse morbido con i reclusi al carcere duro. Figuriamoci con Graviano condannato per le stragi.

Tanti ergastolani ostivi hanno ripongono speranze nella ministra Cartabia. Punto quarto. Che Giuseppe Graviano scriva alla ministra Cartabia una volta insediata, non c’è da meravigliarsi. Tanti ergastolani ostativi, così come i detenuti ordinari, avevano – e hanno – riposto speranza in un carcere dal volto umano, e più vicino alla Costituzione. Marta Cartabia è l’incarnazione della speranza per ovvi motivi. Chi ha letto le intercettazioni di Graviano al 41 bis, un giorno sì e un giorno no, parla di come vive nell’afflizione del 41 bis. Quando fu ascoltato dai pm che lo intercettarono, espose nuovamente il problema. Nulla di trascendentale, nulla di “indicibile”. È naturale che riponga la speranza nella nuova ministra. Cosa c’è di sconvolgente o oscuro? Non è solo lui, ma il nome di Graviano fa effetto, serve per creare nuove suggestioni. Qualcuno vorrebbe ricreare il caso “scarcerazioni”? Magari ricreare il caso “scarcerazioni”: mesi e mesi di polemiche su quella circolare del Dap che è stata in realtà apprezzata dai magistrati di sorveglianza e non da ultimo dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. Ancora una volta si punta alla morbosità del lettore fuorviato da una propaganda mediatica basata su illazioni. Un retropensiero, l’ennesimo, che aiuta ad asseverare ipotesi che rasentano l’inverosimile: non ne abbiamo bisogno. Non è da cane di guardia della democrazia come dovrebbe essere un giornalista, ma è da cane di guardia di taluni procuratori, politici e dell’indotto che si è creato. Un concetto difficile farlo accettare e soprattutto farlo capire. Vogliamo vietare anche la speranza di scrivere una lettera alle istituzioni? Tutti, anche i peggiori criminali che magari si sono ravveduti, hanno diritto alla speranza. Vogliamo vietare anche la speranza di scrivere una lettera alle istituzioni? Se una lettera dal 41 bis, passa al vaglio della censura, vuol dire che non c’è nulla di oscuro. Ma abbiamo bisogno di proseguire con quelle teorie fantasiose che Giovanni Falcone stigmatizzava già ai sui tempi. Evidentemente, non è cambiato nulla. E forse, mai nulla cambierà.

Trattativa Stato mafia, l’avvocato di Mori: «Si ristabilisca la verità non solo per i Ros, ma anche per Falcone e Borsellino». L’arringa, durata tre ore, dell’avvocato Basilio Milio, difensore di Mario Mori, al processo trattativa Stato mafia alle battute finali. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 29 giugno 2021. «Tutti, a partire dalla requisitoria del sostituto procuratore, hanno parlato di trattativa. Però signori giudici, voi tutti, mi riferisco in particolar modo ai giudici popolari, dovete sapere che l’oggetto di questo reato non è la trattativa, ma è la minaccia al governo e nessuno, compreso il procuratore generale, ne ha mai fatto cenno». Così ha esordito nell’arringa durata tre ore, l’avvocato Basilio Milio, il difensore di Mario Mori, al processo trattativa Stato mafia oramai alle battute finali.

Il colloquio tra gli ex Ros e Ciancimino portato a conoscenza della procura nel 1993. Un incipit importante, perché mai nessuno ha messo in discussione l’avvenuto colloquio investigativo tra gli ex Ros e l’allora don Vito Ciancimino. Colloquio riservato per riuscire ad arrivare ai latitanti di Cosa Nostra. Colloquio che è stato portato a conoscenza nel 1993 quando arrivò Gian Carlo Caselli come nuovo capo della procura di Palermo al posto di Pietro Giammanco. E già da allora si usò la parola “trattativa”, nel senso che si stava trattando con Ciancimino. Nulla di oscuro. Quest’ultimo, come ha ben spiegato l’avvocata Federica Folli, legale del medico Antonino Cinà, aveva pensato a sé stesso. Ciancimino pensava, anche bluffando, di ottenere vantaggi su sé stesso visto che era imputato per mafia.

Per l’avvocato Milio i documenti costituiscono la prova della non avvenuta minaccia al corpo politico dello Sato. Ma l’avvocato Basilio Milio, ha appunto ricordato che il reato per il quale il generale Mario Mori è imputato, è “minaccia al corpo politico dello Stato”. Ed è partito da lì, per spiegare passo dopo passo, che non c’è una sola prova che la minaccia al governo sia avvenuta. Non solo. Secondo l’avvocato Milio, i documenti, verbali acquisiti dalla Corte d’Assise d’Appello presieduta dal giudice Angelo Pellino, costituiscono la prova della non avvenuta minaccia.

Ciancimino non parla mai con i Ros della spaccatura tra Riina e Provenzano. La tesi trattativa Stato mafia, in sintesi, dice che tra Riina e Provenzano c’era stata una spaccatura. Per questo i Ros hanno poi trattato con Provenzano per far arrestare Riina. In cambio lo Stato avrebbe contraccambiato con vari favori.  «Siamo sicuri che Vito Ciancimino e Salvatore Cancemi abbiano detto a Mori che vi era una spaccatura tra Riina Provenzano?», si chiede l’avvocato Basilio Milio. «La risposta è no! Anzi, siamo sicuri del contrario! – prosegue l’avvocato – Vito Ciancimino non parla mai con i carabinieri né di Riina né di Provenzano e né di spaccature. Salvatore Cancemi dice anche qualcosa di più: il 22 luglio 93, lo sapete che dice ai magistrati che lo interrogano?  Provenzano vuole sequestrare e uccidere il capitano Ultimo perché aveva arrestato Riina!».

Mafia-appalti causa dell’accelerazione della strage di Via D’Amelio. Un punto importante, perché, come ricorda l’avvocato Basilio, la sentenza di primo grado non riporta tutto ciò. Perché? «Altrimenti non si sarebbero potuti dare 12 anni al generale Mori!». Ma è solo uno dei tanti punti che l’avvocato ha decostruito e reso chiarezza. Gran parte della sua arringa è stata dedicata al movente mafia appalti come causa dell’accelerazione della strage di Via D’Amelio. Una ricostruzione lineare, piena di colpi di scena, grazie alla tanta documentazione, compreso le prove sopravvenute che ha chiesto alla Corte di acquisire. «Voi giudici popolari – continua l’avvocato – nel momento in cui sarete in camera di consiglio per decidere, ricordatevi che ora siete i colleghi di Borsellino e spero che ricorderete di queste mie parole».  Confida che ristabiliscano la verità. «Non solo per i Ros, ma anche per Falcone e Borsellino che sono morti per combattere seriamente la mafia». Non le entità, non gli ectoplasmi, ma, come ha ricordato l’avvocato Basilio, «quel connubio tra imprese nazionali, mafia e politica». Quello sì, che è indicibile e singolarmente tenuto nascosto all’opinione pubblica.

Il Pg nella requisitoria dell'Appello per la presunta trattativa, riferendosi al processo Mannino, dice anche che «Il giudice di Palermo censura la disattenzione, neanche solo colposa, di Falcone, Pignatone e Lo Forte». Ma Falcone lavorava già a Roma e non ha mai nascosto le sue critiche ai colleghi di Palermo, come risulta dalle testimonianze. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 12 giugno 2021. Al processo d’Appello sulla presunta trattativa Stato-mafia, durante l’ultima requisitoria da parte dei sostituti procuratori della procura generale di Palermo, è stato commesso un altro errore di distrazione. Il Dubbio si permette di segnalarlo anche questa volta. L’oggetto del discorso è la gestione del procedimento mafia appalti, scaturito dal dossier redatto dagli attuali imputati, gli ex Ros Mori e De Donno, e nato sotto l’impulso del giudice Giovanni Falcone. Non entriamo nel merito della difesa dell’operato dei magistrati di Palermo, all’epoca titolari di quel procedimento, fatta dal Pg. Riemerge nuovamente il discorso relativo alla teoria della doppia informativa. In sostanza, l’accusa del processo trattativa, dice che i Ros avrebbero omesso, in un primo momento, i nomi di politici importanti. Tra di loro, quello di Calogero Mannino.

La gip di Caltanissetta, Gilda Loforti, respinse la teoria della doppia informativa. La teoria della doppia informativa è stata però respinta dall’allora dottoressa Gilda Loforti, gip di Caltanissetta, tramite l’ordinanza del 2000 che in sostanza decostruisce la memoria dei titolari del procedimento mafia-appalti, che all’epoca dovettero difendersi dalle forti critiche dei giornali di allora.

Anche la giudice di Palermo nel processo Mannino la respinse. Tale tesi è stata riproposta anche al processo stralcio trattativa nei confronti di Mannino. Respinta, per l’ennesima volta, dalla giudice di Palermo Marina Petruzzella. Ebbene, legittimamente, il Pg del processo d’appello trattativa, ribadisce la sua convinzione che anche in questo caso, la giudice si sbaglia.

L’errore del Pg: «Il giudice di Palermo censura Falcone, Pignatone e Lo Forte». Anzi, dice di più. Ed è qui che ci permettiamo di evidenziare l’errore. «Il giudice dell’abbreviato Mannino – osserva il Pg durante la sua ultima requisitoria -, dice che i magistrati che conducevano le indagini mafia-appalti avrebbero dovuto saperlo quali erano l’oggetto delle intercettazioni. Dice che avrebbero dovuto essere più attenti!». Il Pg prosegue: «Il giudice di Palermo, quindi, censura la disattenzione, neanche soltanto colposa, del dottor Falcone, del dottore Pignatone, del dottore Lo Forte, dei magistrati che seguivano in concreto le indagini». Ecco l’errore. La giudice del processo Mannino, come l’allora giudice Gilda Loforti, non accusa assolutamente Giovanni Falcone.

Fu proprio Falcone a criticare i suoi colleghi di Palermo sulla gestione di mafia-appalti. Anche, perché, come vedremo, dai verbali emerge che è stato Falcone stesso a criticare i suoi colleghi. Il giudice ucciso a Capaci ha seguito effettivamente tutte le indagini dei Ros partite dall’anno ‘88 e scaturite con il dossier depositato – per volere stesso di Falcone – il 20 febbraio del 1992. Parliamo di indagini che riguardano – come si legge nel dossier sottoscritto anche da Falcone – «fatti accertati in Palermo, nella regione Sicilia e nel territorio nazionale dal 1988 in poi». Grazie alle informative precedenti al dossier, Falcone – come altri magistrati della procura di Palermo – era perfettamente a conoscenza, già con le informative inviate a partire da settembre 1990, della esistenza di una complessa attività investigativa volta alla “identificazione” dei personaggi della politica e della imprenditoria nazionali.

Falcone aveva lasciato la procura di Palermo e si era trasferito a Roma. Sappiamo, ma anche il Pg lo ha effettivamente detto durante la requisitoria, che Falcone – dopo il deposito del dossier mafia-appalti – da lì a poco aveva lasciato la Procura e si era trasferito al ministero della Giustizia. Le critiche nei confronti dei titolari del procedimento mafia appalti, non erano assolutamente quindi indirizzate a Falcone: lui a Palermo non c’era già più. La giudice del processo di primo grado a Calogero Mannino, nel dire che i magistrati di Palermo avrebbero dovuto lavorare meglio, si è rivolta ai titolari di allora. E Falcone, appunto, non c’entra. Ci permettiamo di segnalare questa distrazione, perché la giuria popolare potrebbe immaginare che la feroce critica nei confronti della gestione di quel procedimento, tanto caro a Paolo Borsellino visto che aveva considerato quel dossier il movente della strage, fosse rivolta anche nei confronti di Giovanni Falcone. Tutt’altro invece.

Due testimonianze autorevoli confermano le critiche di Falcone. A questo punto, sveliamo dei verbali inediti che si trovano nel fascicolo dell’allora Gip Gilda Loforti, dove si evince che Giovanni Falcone – conoscendo appunto il dossier e le informative precedenti dei Ros visto che ha seguito passo dopo passo l’indagine –, a detta di due autorevoli testimonianze, si mostrò molto critico nei confronti della Procura soprattutto a seguito di quei solo sei arresti.

Liana Milella pubblicò, all’indomani della strage di Capaci, le annotazioni dei diari di Falcone. Ribadiamo, Il Dubbio si limita solo a riportare i fatti documentati e già cristallizzati in altri atti giudiziari.Il primo è un verbale di assunzione di informazioni del 1997 riguardante Liana Milella, all’epoca giornalista del Sole 24ore. È stata sentita avendo, all’indomani della strage di Capaci, pubblicato sul giornale le annotazioni dei diari di Falcone che lui stesso le aveva consegnato.

La giornalista: «Era preoccupato e disse che alla Procura di Palermo non aveva più spazi». Il motivo della consegna dei diari, ha detto Milella, era perché «era preoccupato di mostrare, almeno alle persone a lui più vicine, quali fossero i reali motivi che lo avevano indotto a lasciare Palermo». Non solo. «Anche prima di consegnarmi i suoi “appunti” – ha raccontato Milella -, Falcone disse che alla Procura di Palermo non aveva più spazi e le possibilità operative per lavorare efficacemente». E ha aggiunto: «Ciò a causa della contrapposizione che si era venuta a creare con il Procuratore Giammanco e con i sostituti procuratori a Giammanco più vicini, tra i quali in particolare il Dr. Lo Forte e il Dr. Pignatone».

Milella scrisse più di un articolo critico sulla gestione del procedimento mafia-appalti. Ma veniamo a mafia-appalti. Alla domanda se avesse avuto o meno qualche confidenza da Falcone relativamente alla gestione di quel dossier dei Ros, Milella ha risposto che lei scrisse più di un articolo critico sulla gestione di quel procedimento da parte della Procura e del fatto che fossero stati arrestati “pesci piccoli”. Ebbene la giornalista Milella ha aggiunto: «Falcone, in più occasioni, ed in particolare dopo gli arresti, aveva commentato, con grande delusione, gli sviluppi di quell’inchiesta dicendomi che riteneva riduttiva la scelta di arrestare solo certe persone e riferendomi che non si volevano sviluppi di alcun genere nei confronti dei politici».

Martelli nel 1998: «Falcone osservò che Giammanco aveva trascurato o insabbiato quell’indagine». L’altro verbale è del 1998 e riguarda la testimonianza dell’ex ministro Claudio Martelli. L’argomento è sempre mafia-appalti ed è stata posta la domanda se Falcone mai ne parlò con lui, relativamente alla gestione del procedimento. «Quel che ricordo – ha raccontato Martelli – è che Falcone osservò che Giammanco aveva trascurato o insabbiato quell’indagine. Quando poi è sorto un certo clamore (i giornali critici, ndr), allora il procuratore di Palermo aveva avuto la bella pensata di venire a Roma e, con un atto irrituale, di consegnare al ministro quella documentazione. Per questo Falcone mi suggerì di non incontrare Giammanco. Non escludo che vi sia traccia formale della decisione mia o degli Uffici, di considerare irrituale e irricevibile la trasmissione di quegli atti dalla Procura di Palermo al ministero della Giustizia».

La giudice del processo Mannino ha bacchettato i magistrati di Palermo. Ecco perché ci permettiamo di evidenziare l’errore dell’accusa durante l’ultima sua requisitoria al processo trattativa Stato-mafia. No, la giudice che ha assolto Mannino, non ha bacchettato Falcone, il quale non era tra i titolari. Ma ha bacchettato i magistrati di Palermo che, a quanto risulta dai verbali, erano criticati anche da Falcone stesso. Ovviamente è legittimo non essere d’accordo, e addossare la colpa ai Ros. Ma a questo punto, evidentemente anche Falcone aveva preso degli abbagli. Anche se ci permettiamo di dire che il giudice ucciso a Capaci era di una intelligenza difficilmente imitabile. Borsellino, non a caso, ha seguito le sue orme fino alla fine della sua vita annientata quel maledetto 19 luglio 1992 in Via D’Amelio.

Sa.Ca. e GLB per “Il Fatto Quotidiano” l'8 giugno 2021. Giovanni Brusca, lo scannacristiani o u verru (il porco), il boss stragista poi diventato collaboratore di giustizia, da alcuni giorni è un uomo libero, ma ieri ha voluto lo stesso seguito l'udienza del processo Trattativa Stato Mafia. Da "una località segreta" si è collegato in video conferenza con l'aula bunker Pagliarelli, per seguire la requisitoria dei magistrati della corte d'appello di Palermo Giuseppe Fici e Sergio Barbiera. Anche il boss di San Giuseppe Jato era tra gli imputati, prima che la prescrizione facesse cadere l'accusa di violenza o minaccia al corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Nelle oltre 5 mila pagine della sentenza di primo grado, i giudici scrivono che Brusca si era "dissociato dai correi mafiosi sin dal 1996, e sia pure dopo un inizio travagliato, ha intrapreso sempre più decisamente la via della collaborazione con la giustizia". Inoltre, "ha fornito un importantissimo contributo, svelando, già nell'agosto 1996 la minaccia mafiosa e fornendo elementi decisivi per la più complessa ricostruzione dei fatti e per l'individuazione di alcuni degli autori", "primi fra tutti Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella". Il boia del piccolo Giuseppe Di Matteo, è stato il primo a parlare della Trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia: "Totò Riina mi disse che aveva fatto un papello di richieste dirette a una persona che non so indicare e che si attendevano risposte. Si tratta della vicenda dei contatti con lo Stato".

Nuove rivelazioni e accuse di Brusca e i pentiti si sbugiardano a vicenda. Guerra sotterranea tra pentiti di mafia senza che nessuno li metta a confronto per capire chi dice il vero e chi dice il falso. Francesco Viviano su Il Quotidiano del Sud il 10 giugno 2021. C’è una guerra sotterranea, ma neanche troppo, tra pentiti di mafia, alcuni dei quali di grande spessore, che si accusano a vicenda, si sbugiardano a vicenda, che si offendono pesantemente, e intanto nessuno, almeno fino a ora, li mette a confronto per capire chi dice il vero e chi dice il falso. Ma la cosa più grave è che alcuni di questi pentiti che si accusano e si sbugiardano a vicenda rappresentano dei veri pilastri per i pubblici ministeri impegnati in processi ancora in corso. Uno per tutti il cosiddetto processo per la cosiddetta “trattativa Stato-Mafia” (della quale Giovanni Brusca sapeva poco o niente, ma ne parleremo più avanti) dove sono imputati generali dei carabinieri, politici o ex politici, etc etc.

IL MISTERO DI “FACCIA DA MOSTRO”

Gli esempi di pentiti che dicono quello che vogliono, che ritrattano e poi riaccusano, sono molti, ma per brevità citiamo soltanto alcuni casi. L’ultimo in ordine di tempo è proprio lo “scanna cristiani” Giovani Brusca (il mafioso che premette il pulsante per fare esplodere la carica di tritolo che provocò la strage di Capaci e che fece sciogliere nell’acido il corpo del figlio 12enne del pentito Santino Di Matteo), da qualche settimana ritornato in libertà, che lancia un sasso pesantissimo che farà discutere. L’insinuazione di Giovani Brusca riguarda un altro pentito, Vito Galatolo, ex boss del quartiere Acquasanta di Palermo. Brusca elimina dalla scena dei preparativi per la strage di via D’Amelio, dove furono uccisi il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, il defunto agente di polizia e uomo dei servizi segreti, Giovanni Aiello, più noto con il soprannome “Faccia da mostro” che avrebbe partecipato, secondo l’altro pentito Gaspare Spatuzza, ai preparativi per la strage Borsellino. Per tanti anni Brusca non avrebbe detto nulla su “Faccia da mostro” e, inspiegabilmente, tre giorni prima di tornare definitivamente in libertà dopo oltre 20 anni trascorsi in galera, sia pure con molti permessi, telefona al suo storico avvocato, il professor Luigi Li Gotti e, senza essere sollecitato, rivela che “Faccia da mostro” non sarebbe Giovanni Aiello ma il suo collega pentito, Vito Galatolo. «Tre giorni prima di tornare in libertà, Giovanni Brusca era in permesso – racconta al Quotidiano del Sud l’avvocato Li Gotti – Giovanni Brusca mi telefona per salutarmi e mi dice che aveva bisogno di sfogarsi. Mi dice “c’è tutta questa storia dei servizi segreti” nella strage di via D’Amelio, ma noi mafiosi non avevamo bisogno dei servizi segreti, non c’era bisogno di questo “Faccia da mostro”, per Brusca “faccia da mostro” sarebbe Vito Galatolo».

LA TRATTATIVA STATO-MAFIA

«Andate a guardare la foto di Vito Galatolo – dice Brusca all’avvocato Li GottI – e vedete che faccia ha». Come a dire, secondo Brusca, che i servizi segreti nella strage Borsellino non c’entrano per nulla. Poi Brusca aggiunge: «Spatuzza potrebbe essersi confuso perché lui ancora non era un uomo d’onore e magari non conosceva il boss Vito Galatolo».

Insomma, una bella zeppola che mina in parte il processo sulla “Trattativa” ancora in corso. Speriamo che qualche magistrato o avvocato lo chiami al processo per chiarire questa torbida vicenda. E, tornando alla presunta “trattativa” tra Totò Riina e lo Stato, Brusca sapeva ben poco e chi scrive ricorda benissimo quando, durante una udienza del processo per la strage di via D’Amelio che si svolgeva a Caltanissetta, Brusca disse che sì, sapeva che Totò Riina aveva presentato un “papello” (richieste per ottenere benefici per Cosa Nostra in cambio dell’interruzione della stagione stragista, ndr) allo Stato. A chi e come, però, Brusca non sapeva e durante un’udienza disse di aver appreso dei carabinieri del medico mafioso Antonino Cinà e dell’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino che erano i protagonisti della “Trattativa”, dai giornali. «Ho dedotto tutto leggendo un articolo di Francesco Viviano su Repubblica” (dove si citavano i carabinieri, Cinà e Ciancimino, ndr) disse candidamente Giovanni Brusca. Poi fu prodigo di dettagli e particolari, ma prima non sapeva quasi nulla. Strano no? Ma le anomalie su alcuni pentiti (tra questi, alcuni che hanno davvero consentito di disarticolare Cosa Nostra, ndr) non finiscono qui. Tornando a “Faccia da mostro” e a Vito Galatolo, ci sono da registrare le pesantissime accuse che un altro pentito della sua “famiglia”, Gaetano Fontana, lancia a un altro pentito di un’altra “famiglia”, Francesco Onorato, tra i killer dell’eurodeputato democristiano, Salvo Lima. «Quel pentito mente ed è più vigliacco dei mafiosi» ha detto recentemente Gaetano Fontana riferendosi al suo “collega”, collaboratore di giustizia, Francesco Onorato. Gaetano Fontana si riferisce, in particolare, a un omicidio che lui ha commesso, l’uccisione di un ragazzo, Paolo Gaeta, assassinato negli anni ’90. Fontana era stato assolto da questo omicidio, ma quando decise di collaborare con la giustizia confessò l’assassinio di Paolo Gaeta.

LE STRANEZZE

E, stranamente, di questo stesso omicidio si è accusato anche Francesco Onorato. «Francesco Onorato ha detto sempre una bugia su questa cosa, ha mentito sempre, non c’è mai stato Francesco Onorato. Io ricordo tutti i dettagli perché purtroppo l’ho commesso e mi dispiace perché Gaeta era un bravo ragazzo». E tiene a rimarcare: «Io dico: ben vengano i collaboratori di giustizia, i mafiosi collaboratori di giustizia che dicono la verità, ma i mafiosi che già sono vigliacchi di suo, che devono collaborare con la giustizia e devono dire bugie sono più vigliacchi dei primi». Ma non è finita: Gaetano Fontana, che sicuramente ha avuto degli attriti con Francesco Onorato, racconta anche altri retroscena inquietanti. Secondo Fontana, Francesco Onorato, da pentito, era andato a Milano a cercare proprio Fontana. «Ho temuto per la mia vita – ha raccontato Fontana – e quando ho scoperto che si aggirava nei pressi del mio negozio, a Milano, ho pensato che stesse “preparandomi” qualcosa». Insomma molte cose non quadrano nel mondo dei pentiti: qualcuno prima o poi dovrebbe occuparsene per tentare di capire chi dice il vero e chi dice il falso inquinando processi e verità.

Al processo di Palermo. Vogliono sbattere in cella Mario Mori, l’uomo che ha travolto la mafia. Piero Sansonetti su Il Riformista l'8 Giugno 2021. La Procura generale di Palermo ha chiesto alla Corte d’assise una nuova condanna per tutti gli imputati accusati di avere trattato con la mafia, nel 1993, per far cessare le stragi messe in programma dai corleonesi. 12 anni per Mario Mori e per Marcello dell’Utri. A me pare una richiesta addirittura temeraria. Per svariate ragioni. Quella fondamentale è che le motivazioni della richiesta urtano in modo frontale con molte sentenze definitive già emesse da un grande numero di tribunali e dalla Cassazione, le quali smontano una ad una le motivazioni della Procura generale di Palermo. I principali protagonisti di questo processo – a parte i Pm show – sono Giovanni Brusca e Mario Mori. Brusca è l’autore di 150 omicidi. Mori è un ex generale dei carabinieri che ha catturato Totò Riina e moltissimi altri capimafia e che con il suo lavoro ha inferto un colpo micidiale a Cosa Nostra. Brusca però è stato assolto e per Mori è stata chiesta la condanna. Perché Brusca è stato assolto? Per premiarlo di avere accusato Mori. Ci sono altre prove contro Mori oltre alla testimonianza di Brusca? No: solo prove a discarico. È una commedia, questo processo. O meglio, è una tragedia. Pensate che i magistrati che ieri hanno parlato a nome della Procura generale hanno costruito gran parte delle loro accuse sull’ipotesi che la trattativa stato-mafia l’abbia condotta l’on Mannino, che però è stato assolto per questo reato già tre o quattro volte. Pensate che hanno portato come nuovo indizio il fatto che il generale Mori avrebbe consegnato ai magistrati un doppio dossier (quello su mafia-appalti) il primo depurato dai nomi dei politici, e pensate che questa storia del doppio dossier è stata già affossata da una sentenza solenne della procura di Caltanissetta. E poi, a proposito del dossier mafia-appalti, che è stato uno dei lavori più impegnativi di Mori, pensate che è stato archiviato pochi giorni dopo la morte di Borsellino, che voleva lavorarci personalmente. Sapete da chi è stata chiesta l’archiviazione (recentemente l’ex Pm Ingroia ha detto: insabbiato)? Tra gli altri da Roberto Scarpinato, che oggi è il Procuratore generale di Palermo, cioè è il titolare dell’accusa. Ci sarà mica conflitto di interessi? Domani provo a chiederlo ai 5 Stelle.

P.S. Poi c’è la richiesta di condanna di Marcello Dell’Utri, che avrebbe trattato con la mafia, si suppone, a nome di Forza Italia, nel 1993. Circa un anno prima che Forza Italia nascesse. Succede. Certi imputati riescono ad abbattere tutte le barriere spazio-temporali. Ma non la danno a bere ai Pm, con questi sotterfugi…

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Processo Stato-mafia, il Pg: «Ho sbagliato, quell’agendina non era di Totò Riina». Diamo atto al Pg Giuseppe Fici di essersi scusato con la Corte e di aver ammesso l’errore evidenziato dal nostro giornale. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'8 giugno 2021. Il procuratore generale Giuseppe Fici ha ammesso il suo errore e ha chiesto scusa alla Corte durante la requisitoria di lunedì scorso al processo d’appello sulla presunta trattativa Stato-mafia in svolgimento a Palermo. Il riferimento è allo “svarione” evidenziato nelle pagine de Il Dubbio il 5 giugno scorso.

Lo “svarione” durante l’udienza del 31 maggio. È accaduto che durante la requisitoria dell’udienza precedente (31 maggio scorso), il Pg Fici ha detto testualmente: «Nel rileggere le conversazioni intercettate in carcere tra il predetto Riina Salvatore e il Lo Russo (il suo compagno d’ora d’aria, ndr), particolare attenzione ha destato un passaggio di queste conversazioni quando il Riina, nel commentare il giorno del suo arresto, ha fatto anche riferimento alla circostanza che gli venne trovata addosso un’agendina, e il capitano che operava in quel momento all’interno del covo gli avrebbe detto che non gli sarebbe stata sequestrata perché a loro – ai carabinieri sul posto – non interessava quei numeri».

L’agendina era del compagno di Riina al 41 bis. Il Pg ha aggiunto: «Di fatto poi l’agendina non gli venne rinvenuta!». Per il procuratore generale questa circostanza si va ad aggiungere ad una lunga catena di disattenzioni e omissioni. Il Dubbio ha fatto notare che, in realtà, la vicenda dell’agendina non riguarda Totò Riina, ma il suo compagno d’ora d’aria al 41 bis Alberto Lorusso, boss della Sacra Corona Unita.

Lunedì il Pg ha ammesso l’errore. Lunedì scorso, 7 giugno, alla conclusione della sua requisitoria al processo trattativa Stato-mafia, il Procuratore generale Fici ha ammesso il suo errore, spiegando che glielo ha detto qualcuno, ma ha commesso lo sbaglio di non aver letto bene le intercettazioni. Ha anche spiegato di aver disposto degli accertamenti su questa misteriosa agendina, ma una volta realizzato l’errore ha subito revocato il mandato. «Devo fare una errata corrige – ha detto il Pg -. Nella scorsa udienza ho fatto riferimento ad una circostanza errata. Ho voluto verificare in udienza, mi ero fatto trasmettere la trascrizione delle conversazioni in carcere tra Riina e Lorusso. Ho dato una veloce lettura, ho riscontrato quello che mi ricordavo che mi era stato detto. Ma ho letto male».

Le scuse alla Corte e agli interessati. Il Pg ha così giustificato il suo errore: «Riesco a fare bene, forse, quando mi ci metto a fare una cosa sola, ma non due assieme. Quindi ho riferito una circostanza sbagliata». E aggiunge: «Nel frattempo avevo disposto anche degli accertamenti che poi ho revocato perché da un’attenta lettura della conversazione di entrambi, risulta che è stato Lorusso e non Rina a parlare di un’agendina. Chiedo scusa alla Corte a tutti gli interessati per questo errore». Diamo atto alla correttezza del procuratore generale. Ma ci permettiamo di ribadire un consiglio non richiesto. Da una attenta visione delle quasi 2000 pagine di intercettazioni relative a Totò Riina al 41 bis, Il Dubbio, così come ha notato l’errore, ricava una lettura totalmente diversa dei fatti.

Totò Riina nelle intercettazioni smentisce la tesi della trattativa. Il capo dei capi smentisce la tesi sulla trattativa Stato-mafia, spiega molto bene cosa aveva in realtà in cassaforte (nulla di importante), ha anche ammesso di essere stato l’ideatore delle stragi (la sua prima ammissione). Ha anche spiegato il motivo. In particolare ha voluto uccidere in maniera eclatante Giovanni Falcone, perché oltre al discorso dell’esito del maxiprocesso, si era “permesso” di definirlo un “costruttore”. Il riferimento è molto probabilmente al discorso pubblico di Falcone su mafia-appalti e la sua volontà di far coordinare le indagini tra varie procure d’Italia.

L’accelerazione per l’uccisione di Borsellino. Stessa cosa per Paolo Borsellino: voleva proseguire il lavoro del suo amico e collega. L’accelerazione c’è stata. «In tre o quattro giorni, ho dovuto lavorarci per posizionare la macchina», dice sostanzialmente Riina. E di averlo fatto dopo che qualcuno gli ha detto di fare presto e dopo che, dall’interno, la mafia ha ricevuto la notizia che Borsellino sarebbe andato dalla madre nel pomeriggio. Da vedere, quindi, cosa Borsellino ha fatto durante i suoi ultimi giorni di vita. Forse si scoprirà che chiedere la condanna degli ex Ros, è una “indicibile” e profonda ingiustizia.

Svarione al processo trattativa, il Pg attribuisce l’agendina di un altro boss a Totò Riina. Al processo per la presunta trattativa Stato-mafia l’accusa ha fatto confusione nelle intercettazioni, attribuendo il racconto di Alberto Lorusso, suo compagno di socialità, a Totò Riina. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 5 giugno 2021. Dalle intercettazioni di Totò Riina al 41 bis, la procura generale di Palermo ha finalmente individuato un passaggio dove l’ex capo dei capi di Cosa nostra avrebbe raccontato qualcosa di gravemente compromettente durante la fase del suo arresto da parte dei Ros. L’unico passaggio di Riina, dove davvero potrebbe rafforzarsi la tesi della trattativa Stato-mafia. Ma è così? Ora riveliamo l’arcano.

Il mistero dell’agendina sparita. In sostanza si parla di una agendina misteriosa che un capitano (potrebbe essere Ultimo?) avrebbe sottratto a Riina. Il Pg ne parla durante la sua requisitoria di lunedì scorso al processo d’appello trattativa. «Nel rileggere le conversazioni intercettate in carcere tra il predetto Riina Salvatore e il Lo Russo (il suo compagno d’ora d’aria, ndr) – spiega il Pg durante la requisitoria – , particolare attenzione ha destato un passaggio di queste conversazioni quando il Riina, nel commentare il giorno del suo arresto, ha fatto anche riferimento alla circostanza che gli venne trovata addosso un’agendina, e il capitano che operava in quel momento all’interno del covo gli avrebbe detto che non gli sarebbe stata sequestrata perché a loro – ai carabinieri sul posto – non interessava quei numeri». Il Pg aggiunge: «Di fatto poi l’agendina non gli venne rinvenuta!».

Dalle intercettazioni emerge che l’agendina era di Lorusso. Per il procuratore generale questa circostanza si va ad aggiungere ad una lunga catena di disattenzioni e omissioni. In effetti è un episodio decisamente inquietante e ciò porrebbe numerosi interrogativi. Peccato però che Il Dubbio è andato a rileggere le intercettazioni, scoprendo così che quell’episodio è stato effettivamente narrato durante le chiacchierate tra i due. Però non riguarda Totò Riina, ma il suo compagno d’ora d’aria Alberto Lorusso. Precisamente alla trascrizione del colloquio area passeggio del 10 agosto 2013, Lorusso dice a Riina: «Però … vi posso dire una cosa io?». Al che racconta tutta la storia: «lo portavo nel portafoglio una piccola agenda con i numeri della famiglia mia, i numeri di mio fratello, di mia sorella, della mia cosa… i numeri dell’avvocato … no? Il Capitano dei Carabinieri vide l’agenda là l’orologio, l’agenda, il portafoglio, i documenti, la patente poggiati là… ha preso l’agenda in mano… mi guardò e mi disse… neanche voglio vedere che cosa sta nell’agenda, dice, non vorrei trovare, non vorrei trovare qualche numero telefonico chissà di chi e l’ha lasciata l’agenda». Non è il racconto di Riina, ma è una vicenda che riguarda l’allora sua, come si suol dire nell’offensivo gergo carcerario, “dama di compagnia”. Lorusso aggiunge: «Non c’era niente, non c’era niente perché… Allora questi, quello mi ha fatto capire, quello mi ha fatto capire che teneva paura che forse nella mia agendina piccola, davanti nel portafoglio, ci potesse essere non so che cosa… e loro potessero passare i guai». Risolto il mistero dell’agendina di Riina: non era la sua, ma del boss della Sacra corona unita Lorusso.

Riina nelle intercettazioni fa chiarezza sulla “mancata perquisizione”. Il procuratore generale di Palermo si è evidentemente confuso con la lettura delle intercettazioni. Cose che capitano. A questo punto, visto che tutti i magistrati sostenitori della tesi della trattativa concordano – ed è esattamente così – nel ritenere genuine le intercettazioni di Riina, ci permettiamo umilmente di consigliare di leggerle bene. Ad esempio, molto probabilmente saranno sfuggiti tutti i passaggi dove il capo dei capi smentisce la trattativa, persino il discorso dei presunti documenti spariti dalla sua cassaforte a causa della cosiddetta “mancata perquisizione”. Prendiamo ad esempio sempre la trascrizione di quel giorno stesso, quando appunto Lorusso parla della sua agendina. Il tema è la tesi processuale che vede qualche manina oscura far sparire documenti scottanti di Riina ritrovati nel suo covo, o meglio la sua abitazione dove viveva la famiglia. Non è vero nulla, dice il capo dei capi. «Questa … questa è la casa. Che cosa è successo poi – racconta Riina – … che mia moglie, verso le dieci le undici mia moglie se n’era andata… i picciutteddi… i figli… dice, io tutte cose … e poi… ci sono andati a scattiari i miei nipoti a prenderla… Là dentro c’era una stanza che era con la porta blindata avevo tappeti, avevo quadri… avevo il bene di Dio… e poi … tutte cose hanno preso. Eh… una cassetta nel muro, dietro il quadro … così… quando ..».

Lorusso lo interrompe: «Una cassetta piccola, una cassetta dietro il quadro, di quelle…». Ed ecco che Riina risponde in modo categorico: «Sai, si, però non ci tenevo niente io… ci tenevo solo là … oggetti di famiglia!».

Riina a Lorusso: nella cassaforte di casa mia non ho mai tenuto niente

A quel punto Riina approfondisce: «E là sotto… là… in questa… sarà che sono rimasti quadri, queste cose… avevo una valigia di brillantini dei picciutteddi… non avevo cose di traffici, di questi che riguardano, traffici in casa, niente. Perciò qualcuno gli diceva qualcuno di questi che fanno i pentiti… lui deve avere un tesoro, deve avere dentro, documenti, delle cose importanti. Ma i …».

Lorusso gli finisce la frase: «Non c’era niente». Riina conferma: «Non ho mai tenuto niente!». Lorusso gli dice che quindi erano fantasie loro. «Erano fantasie di loro – rimarca Riina – . Tanto è vero che poi i miei nipoti, le mie cognate… a mio cognato l ‘hanno denunciato per furto… dice che fu… no furto… per questa, questa cosa di questa casa. Insomma in questa casa che risultò pulita, tutti i mobili cummigghiati (coperti), belli sistemati, sistemato… ed hanno denunciato quattro, cinque miei parenti… uno per tutti… poi hanno fatto cadere… hanno fatto scadere la denuncia…».

In pratica, da queste intercettazioni appare chiaro che la vicenda dei documenti scomparsi, è una “fantasia loro”, giusto per usare le parole di Riina. In realtà teneva gioielli, oggetti di valore, tanto che la moglie ha fatto una denuncia per furto. Ma sicuramente sarà un passaggio sfuggito ai Pg, per questo ci permettiamo di segnalarlo.

Il capo dei capi non crede che Provenzano l’abbia tradito

Resta anche sullo sfondo un altro dato. Totò Riina, come si evince dalle intercettazioni, soprattutto quella del 3 novembre del 2013, in più occasioni dice che non crede alla tesi che Provenzano l’abbia tradito, venduto in nome di una trattativa. «Provenzano – dice Riina – ha portato sempre acqua nel mulino… eh… , il mulino… macinato. Quindi… inc… il mulino è macinato. Quindi se uno è traditore non mi porta acqua… in questa maniera!».

Più avanti Riina giunge alla sua conclusione: «Eccomi perché non posso credere queste illazioni che vogliono fare … il magistrato, le cose… perché… un altro detenuto magari può dire… l’ho sentito dire… la televisione… dice che è pronto a collaborare… lascia stare…, per il suo tornaconto e per il nostro tornaconto. No, non… Binnu (Provenzano, ndr) non è persona di queste… non è persona di queste. Però quando io mi sono reso conto che lui … la carrettella pesava … eh … ogni minuto io gli mettevo un peso che pesava, pesava…, Binnu… tu… inc… l’ho lasciato libero. Sempre, sempre, debbo dire la verità, non… confidenza non gliene davo e se si parlava di cose nostre… non… gli dicevo… cose mie personali».

In realtà è solo uno dei tanti passaggi interessanti che si scovano nelle migliaia di pagine di intercettazioni. Tanti sono gli spunti, gli indizi che si possono ricavare. Compresa l’accelerazione della strage di Via D’Amelio e chi era presente all’esecuzione. Ma questo sarà un capitolo che Il Dubbio affronterà a parte.

L'indagine e i buchi neri. Trattativa Stato Mafia, per la verità bisogna ripartire dalla pista del giudice Chelazzi. Amedeo Laboccetta su Il Riformista il 26 Marzo 2021. Il sistema mediatico giudiziario sta provando a mettere in piedi una nuova fiction: Berlusconi e Dell’Utri, la coppia stragista. Roba da ridere, ma non per certa magistratura e per certi giornalisti, abituati, quando serve a qualcuno, a criminalizzare il nemico del momento. Eppure basterebbe dedicare un po’ di tempo, come ha fatto chi scrive dal 2008 al 2013, e scavare negli archivi della Commissione Parlamentare Antimafia per avere la conferma che nel 1993 fu un governo di centrosinistra, con il silenzio e l’avallo delle opposizioni, ad arrendersi allo stragismo mafioso. Ma andiamo con ordine. Dopo le tragiche morti di Falcone e Borsellino, il mondo politico era letteralmente impaurito. Si navigava a vista. In quel clima di totale sbandamento e confusione, il Capo dello Stato dell’epoca, Oscar Luigi Scalfaro, avviò un’operazione a dir poco opaca. Decise di silurare il Capo del Dap, l’ottimo Dottor Nicolò Amato. Attraverso un intervento extraistituzionale, fece nominare al posto di Amato un suo amico magistrato, Adalberto Capriotti. L’uomo che a soli pochi giorni dal suo insediamento firmò una proposta di revoca del 41 bis per alcune centinaia di mafiosi, camorristi ed appartenenti alla ‘ndrangheta. Volendo così offrire «un segnale di alleggerimento alle organizzazioni criminali». Il Governo Ciampi approvò all’unanimità. Il Ministro Conso firmò il provvedimento. Mancino all’epoca guidava il Viminale, da dove erano giunti più messaggi per arrivare a una distensione con le organizzazioni criminali. Ben presto oltre 500 mafiosi beneficiarono del provvedimento. Non vi fu alcuna trattativa con la mafia portata avanti dall’allora Colonnello Mori, come più volte si è detto e tentato di far credere. Questa è la verità. Al di là di certe sentenze. Vi fu invece una vera resa dello Stato nei confronti di Cosa Nostra. Un cedimento pesantissimo dello Stato, pensando così di fermare la strategia stragista fatta di bombe ed attentati vari. E il Parlamento dette il suo complice avallo. Nessuno si oppose. Sia a sinistra che a destra. Né il Presidente della Camera Giorgio Napolitano, né il Presidente della Commissione Antimafia Luciano Violante. Tutti muti. Gli unici che accennarono ad una qualche resistenza furono la Dia, il raggruppamento del Ros, ed i Sostituti di Palermo Croce ed Aliquò, che inviarono un garbato fax sul tema. Ma il gesto di resa non produsse effetti. Gli attentati continuarono. Ed è qui che entra in campo un coraggioso e serio magistrato sul quale il “sistema” ha fatto da tempo cadere il silenzio. Il giudice Gabriele Chelazzi, aggiunto della Dda di Firenze, buon amico di Pier Luigi Vigna. Un magistrato che ha ridato dignità all’Italia facendo condannare il Gotha di Cosa Nostra. Chelazzi portò avanti un lavoro certosino. Nel 2003 arrivò vicinissimo a tutte le responsabilità delle istituzioni e del panorama politico. Aveva interrogato Scalfaro, Ciampi, Conso, Mancino, e il famoso Monsignor Curioni, il Cappellano delle carceri, quando una notte, nel chiuso di una stanza della caserma della Guardia di Finanza in Roma, cessò di vivere. Il giorno precedente aveva scritto una drammatica lettera destinata al Ministero, al Csm, ed altre Istituzioni, con la quale denunciava di essere stato sostanzialmente abbandonato e pesantemente ostacolato dalla magistratura nel corso del suo difficile e complesso lavoro. Quella lettera va letta per intero. La scovai tra gli atti secretati della Commissione Antimafia e la resi pubblica. Vi fu una reazione rabbiosa da parte del Pd. La Capogruppo di quel partito, onorevole Garavini (oggi renziana), chiese le mie dimissioni. Pur se notevolmente isolato non mollai, e continuai il mio lavoro. Ma torniamo a Chelazzi, l’uomo che, ben 10 anni prima di Ingroia e compagni, aveva capito tutto. Si è detto che Chelazzi sia morto per arresto cardiaco il 17 aprile del 2003 a soli 59 anni. Certo, i grandi dolori e le grandi amarezze possono uccidere… Ricordo che il 2 luglio del 2002 Chelazzi fu ascoltato in Antimafia. Ma per soli 15 minuti. I Parlamentari dell’epoca avevano un impegno in Senato. Il Presidente Roberto Centaro lo ringraziò dicendo che aveva fornito un quadro interessantissimo, che avrebbe comportato «audizioni molto lunghe ed approfondite». Invece Chelazzi non fu più sentito… Quando il Presidente Pisanu, verso la fine della sedicesima legislatura, presentò in Commissione la sua relazione conclusiva su ciò che accadde negli anni delle stragi, tentò maldestramente di cancellare, dopo averlo in una prima fase evidenziato, l’opaco ruolo svolto dal Presidente Scalfaro. Lo contestai duramente. E sta tutto nei verbali. Basta tirarli fuori. Se qualcuno vorrà avere la bontà di leggere quelle pagine capirà molte cose. In quella stessa occasione chiesi a Pisanu ed alla Commissione di togliere il vincolo della segretezza alla famosa lettera di Chelazzi. Non è stato mai fatto. Un documento che rappresenta un gravissimo atto di accusa nei confronti di alcuni magistrati. Persone che misero in atto ogni serie di ostacoli a un’indagine sulle responsabilità del centrosinistra nel cedimento al ricatto di Cosa Nostra. È un’indagine che probabilmente non si doveva fare. Altro che Berlusconi e Dell’Utri. La nuova telenovela sulla quale il “sistema” ben descritto nel libro di Sallusti e Palamara si sta buttando a pesce in queste ore. All’epoca sostenni che la Procura di Firenze aveva abbandonato il filone delle indagini di Chelazzi fino a trovare il proprio oracolo nel pentito Spatuzza. E mi chiedevo come fosse stato possibile che il Dottor Ingroia a Palermo si fosse elevato ad alfiere del teorema della trattativa Stato/mafia, basato sulle bugie del figlio di un sindaco mafioso (Ciancimino), già egli stesso condannato per riciclaggio di beni mafiosi, salvo poi innestare all’ultimo, su questo teorema fallimentare, una parte delle indagini di Chelazzi quando non era più possibile ignorarle. Ecco, se si vuol far veramente luce su ciò che accadde in quegli anni terribili bisogna ripartire da tutto il lavoro prodotto da Chelazzi, e non inseguire certo pentitismo che riaffiora in queste ore. Per organizzare un nuovo tormentone nei confronti di Berlusconi e Dell’Utri. Mi auguro che in Parlamento vi sia ancora un drappello di uomini e donne libere. Soprattutto un’area di persone coraggiose, disponibili a non genuflettersi verso la vera casta che condiziona dai tempi di tangentopoli la vita degli Italiani. Nel mondo dei media, grazie a Dio, qualche testata libera e coraggiosa esiste ancora. E di questi tempi non è certo poca cosa.

Trattativa Stato-mafia, i documenti sconfessano le “nuove” trame. Alla vigilia della conclusione dell’appello del processo trattativa Stato-mafia spunta il giallo del cellulare di uno dei referenti di Provenzano. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 25 marzo 2021. Si parte da capi d’accusa ben precisi nei confronti degli imputati al processo presunta trattativa Stato-mafia, ma strada facendo spuntano fuori altri elementi. Ma sono sempre gli stessi. Quelli che fanno giri immensi, ma che poi ritornano. Sì, perché nonostante i processi clone nei confronti degli ex Ros, poi finiti con l’assoluzione, le tesi giudiziarie medesime riaffiorano in corso d’opera. L’ultimo atto del processo d’appello della trattativa Stato-mafia, ora agli sgoccioli perché a maggio dovrebbe finalmente iniziare la discussione, riguarda la vicenda della perquisizione di Giovanni Napoli. Parliamo di un veterinario, arrestato per essere stato un referente mafioso di Mezzojuso e soprattutto per aver dato sostegno logistico a Bernardo Provenzano. Una vicenda che si inquadra nel discorso della mancata cattura di quest’ultimo. Un argomento, questo, in realtà già sviscerato dalla sentenza di assoluzione del processo Mori-Obino. I due ex ufficiali erano stati accusati di aver favorito la mancata cattura dell’allora superlatitante, ma assolti definitivamente dall’accusa sostenuta dal procuratore generale Roberto Scarpinato e l’allora sostituto pg Luigi Patronaggio.

I floppy furono consegnati a Gioacchino Genchi. Ma i procuratori generali del processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia, hanno delegato degli accertamenti alla Direzione investigativa antimafia. Hanno ritenuto sospetto il fatto che la perquisizione in casa di Napoli e la prima, non riuscita, analisi dei floppy sia stata affidata a due carabinieri, uno da poco arrivato al Ros e un altro appena ventenne senza alcuna esperienza. Un giallo? In realtà non c’è stato alcun insabbiamento, dal momenti in cui i Ros – di comune accordo con la procura di Palermo – hanno consegnato i floppy disk a uno dei più qualificati e conosciuti esperti informatici dell’epoca, ovvero Gioacchino Genchi. Lui stesso si lamenta di averli tuttora in casa, nonostante abbia più volte sollecitato la Procura a ritirare il materiale e a liquidare la parcella per la consulenza. Sicuramente c’è una spiegazione plausibile, ma i Ros cosa c’entrano in tutto ciò?

Un altro mistero che mistero non è. Si aggiunge però un altro mistero, che come vedremo più avanti mistero non è. Dopo pochi giorni dall’arresto di Giovanni Napoli, i Ros restituirono alla moglie due telefonini e un rilevatore di microspie satellitari. Ed è qui che nasce un dubbio. Come mai? Hanno almeno fatto delle analisi? Non è questione di poco conto e per capire meglio bisogna fare un passo in dietro. Durante il processo trattativa Stato-mafia di primo grado, l’allora pubblico ministero Antonino Di Matteo interroga il pentito Ciro Vara, il quale racconta di avere ricevuto delle confidenze da Giovanni Napoli: « … in certi dischetti avevano registrato delle cose interessanti che conservava il Napoli, tanto è che quando hanno fatto la perquisizione a casa del Napoli, poi il comandante della stazione dei carabinieri di Mezzojuso poi dopo qualche giorno ha consegnato questi dischetti e effettivamente mi diceva il Napoli c’era qualche, qualche cosa interessante da estrapolare… qualche cosa che poteva essere utile agli inquirenti… mi ha detto soltanto queste testuali parole, che c’erano questi dischetti, sono stati sequestrati e che c’erano delle cose interessanti che riguardavano Provenzano, e che sono stati restituiti dopo pochi giorni. Solo questo». Ora sappiamo che i floppy disk non sono mai stati restituiti, ma fatti analizzare da Genchi. Infatti i procuratori generali che rappresentano l’accusa al processo d’appello trattativa Stato-mafia, dicono che il pentito Ciro Vara potrebbe aver fatto confusione quando ha parlato delle confidenze ricevute da Napoli. Quest’ultimo parlò di floppy disk, ma in realtà si trattava dei telefonini. E in effetti tutto torna. Sono stati i telefonini a essere restituiti. Tutto scritto nero su bianco dalle note che i Ros hanno mandato all’allora procuratore aggiunto di Palermo Maria Teresa Principato, magistrata seria e che da anni è stata impegnata nella cattura del super latitante Matteo Messina Denaro, tanto da fargli terra bruciata con arresti e sequestri di beni. Dalle note inviate in procura, emerge che, prima di restituire il telefonino, i Ros lo hanno analizzato ricavando ben 96 utenze. Nella nota datata 10 novembre 1998 e sottoscritta dal capitano Michele Sini, si legge infatti che «nel corso dell’operazione di perquisizione (l’abitazione di Napoli, ndr), il personale di questa sezione anticrimine riveniva apparati cellulari nella disposizione del prevenuto». E aggiunge che «da un successivo esame della memoria del Motorola micro tac avente nr. di serie 5802YG1P7S si riusciva ad estrarre nr. 96 numeri telefonici». Prosegue: «Si trasmette, pertanto, l’unito verbale di restituzione materiale, nonché l’annotazione redatta e comprensiva dei numeri telefonici esistenti in memoria».

Tutto alla luce del sole. I Ros hanno spiegato tutto quello che hanno fatto, ogni singola operazione, alla procura competente. Ma ritornando alla confidenza che Napoli fece al pentito Vara, c’erano elementi importanti che potessero destare preoccupazione ai mafiosi, in particolare a Provenzano, visto che si parla del suo tesoro? Ebbene sì. I Ros hanno analizzato tutte le utenze telefoniche e fatto visure per ognuno delle società legate ai nomi che erano entrati in contatto telefonico con Giovanni Napoli. Tutto scritto nero su bianco, tant’è vero che emerge una incredibile mappatura riguardante gli affari. Parliamo degli appalti. Compaiono diverse società che già erano attenzionate (il dossier mafia-appalti) dai Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno quando Falcone e Borsellino erano ancora in vita. In queste utenze analizzate erano usciti fuori i nomi di chi si adoperò per costringere aziende nazionali a fare affari con i corleonesi.

Anche Provenzano aveva il suo “ministro dei lavori pubblici”. Solo un esempio per far comprendere la portata. Nella nota dei Ros dove si annota l’analisi fatta al telefonino, si legge testualmente di presunte responsabilità di uno degli utenti in contatto con Napoli nell’appalto delle forniture al sistema di Telecontrollo del consorzio Basso Belice Carboj. «In particolare– si legge nella nota dei Ros inviata alla procura di Palermo -, gli indiziati, avvalendosi della forza intimidazione del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento, avrebbero, attraverso forme di corruzione costate al gruppo Gal – Isytech – Motorola oltre trecento milioni di lire, già pagati sotto forma di viaggi in Israele e negli Stati Uniti oltre che con soldi consegnati in contanti, consentito l’aggiudicazione della fornitura del Sistema di Telecontrollo del consorzio Basso Belice Carbo, a favore della Motorola». Precisiamo. Parliamo di presunti fatti risalenti agli anni 90, ma che rendono bene l’idea dell’importanza degli affari con gli appalti. Sappiamo che anche Provenzano aveva il suo “ministro dei lavori pubblici”, ed era Giuseppe Lipari. Tutto questo serve per dire che non c’è alcun giallo sulla perquisizione dell’appartamento di Giovanni Napoli. L’operazione è stata trasparente e senza tenere nulla all’oscuro della Procura. L’unico dato negativo che emerge è la smemoratezza dei Ros che parteciparono all’operazione, tant’è vero che – sentiti come testimoni al processo trattativa Stato-mafia in corso – non si ricordavano nemmeno cosa hanno firmato o meno. Non ricordarlo da adito a non poche suggestioni. Ma quello che conta in un’aula di tribunale, almeno in uno Stato di diritto, sono le prove. Se trattativa c’è stata, bisogna capire quali favori avrebbe ricevuto in cambio la mafia. Finora sono oggettivamente difficili da visualizzare. Vedremo cosa diranno i pg durante la discussione e cosa risponderà la difesa. La sentenza potrebbe arrivare a ridosso dell’anniversario della strage di Via D’Amelio.

Via D’Amelio, il medico di Riina Cinà non ha avuto ruoli. La trattativa perde pezzi? Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 19 Feb 2021. La gip di Caltanissetta ha accolto la richiesta di archiviazione dei pm per Antonino Cinà, difeso dagli avvocati Giovanni Di Benedetto e Federica Folli. Antonino Cinà non solo non ha ricoperto alcun ruolo apicale della mafia corleonese, ma nemmeno è responsabile della strage di Via D’Amelio. La giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta, Valentina Balbo, sciogliendo la riserva assunta all’udienza camerale del 24 settembre 2020, ha accolto la richiesta di archiviazione presentata dai pm nisseni. Antonino Cinà, difeso dagli avvocati Giovanni Di Benedetto del foro di Palermo e Federica Folli del foro di Parma, è stato un semplice intermediario tra Vito Ciancimino e Salvatore Riina e non gli viene riconosciuto alcun altro protagonismo. Ma andiamo con ordine. Tutto nasce dal fatto che la cosiddetta trattativa Stato-mafia fosse considerata la causa dell’accelerazione della strage di Via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. Da una parte c’è la tesi giudiziaria palermitana che inquadra i contatti tra gli ex Ros, Mario Mori e Giuseppe De Donno, e Vito Ciancimino non come una semplice “trattativa” per arrivare a decapitare i corleonesi, ma come patto per porre fine alle stragi: in cambio la mafia avrebbe ottenuto dei favori esplicitati da un presunto papello a firma di Totò Riina. Quali? Difficile individuarli visto che sono stati arrestati tutti e i boss principali, a partire dal capo dei capi, sono finiti ininterrottamente al 41 bis. Carcere duro che fu varato dal Parlamento subito dopo le stragi. Dall’altra c’è la versione dei Ros stessi, che poi viene confermata dal verbale del 1993 riguardante l’interrogatorio fatto a Vito Ciancimino. Ovvero che la “trattativa” (termine che compare proprio nel verbale) consisteva semplicemente in una proposta avanzata dai Ros: «Consegnino alla Giustizia alcuni latitanti grossi e noi garantiamo un buon trattamento ai suoi familiari». In che cosa sarebbe consistita la collaborazione dell’ex sindaco di Palermo? Ricostruendo un sistema mafia- appalti attraverso Vito Ciancimino stesso che avrebbe ripreso dei contatti con il mondo imprenditoriale in odor di mafia, assicurando al suo «interlocutore- ambasciatore» che avrebbe potuto ricreare un rapporto tra le imprese senza che potesse «riprodursi l’effetto Di Pietro». Chi era questo interlocutore? Dal verbale risulta che Ciancimino dichiarò che era il dottor Antonino Cinà, personaggio di primissimo piano: era il medico di fiducia di Riina, Provenzano e Bagarella, cioè del vertice di Cosa nostra. Il dottor Cinà, ricordiamo, è anche tra i condannati in primo grado nel processo “trattativa”. Ora c’è il processo d’appello in corso. Lo scopo ultimo di questa trattativa era quello di arrestare tutti i coinvolti e magari raggiungere esponenti mafiosi di alto livello, come riferì il generale Mori durante una sua dichiarazione spontanea nel processo sulla trattativa. Si trattava in pratica di far diventare Vito Ciancimino «una sorta di agente sotto copertura». La cosa però saltò, non se ne fece più nulla, perché poi Ciancimino – mezzora dopo quel colloquio con i Ros – venne tratto in arresto. Come mai i pm di Caltanissetta hanno chiesto l’archiviazione per Cinà? La questione è semplice. Oltre al fatto che non ricoprisse alcun ruolo apicale, escludono la trattativa come causa dell’accelerazione della strage. Anche perché i primi veri contatti con Ciancimino si ebbero dopo la strage di Via D’Amelio. Ma riportiamo il passaggio del pubblico ministero. Attraverso una sintetica, ma puntuale, disamina di quanto emerso dalle investigazioni e dalle istruttorie dibattimentali espletate in quasi un trentennio sulle stragi del 1992, il pm nisseno conclude che «prescindendo dalle dichiarazioni rese da Massimo Ciancimino (il figlio di “Don Vito”, ndr) il compendio probatorio in atti non consenta di ritenere univocamente dimostrato che il Colonnello Mori abbia avuto diretti contatti con Vito Ciancimino prima della strage di via D’Amelio e che gli appartenenti al Ros. dei Carabinieri fossero stati messi a conoscenza, sempre prima dell’attentato del 19 luglio 1992, dei punti contenuti nel cd. “papello” redatto da Salvatore Riina». Il pm va al dunque, sottolineando che «al di là delle considerazioni di tipo logico, infatti (può dirsi quasi scontato che, laddove informato, il dottor Borsellino mai avrebbe avallato natura e finalità di quei contatti) non aiutano allo scopo prefisso nemmeno le dichiarazioni rese da Giovanni Brusca». Il pm cita il verbale di interrogatorio dell’ 8 maggio del 2009: «non ho mai parlato con Riina del fatto che il dottore Borsellino sia stato ucciso in quanto ostacolo alla trattativa. Si tratta di una mia interpretazione basata sulla conoscenza che ho dei fatti di Cosa nostra ma anche delle vicende processuali cui ho partecipato. Mi venne detto da Riina che vi era “un muro” da superare ma in quel momento non mi venne fatto il nome di Borsellino. È sicuro, comunque, che vi fu una accelerazione nell’esecuzione della strage». Il pm nisseno, quindi, spiega che «può dirsi estremamente chiaro come il Brusca abbia collegato solo in maniera deduttiva le considerazioni che gli aveva fatto il Riina sull’ostacolo da superare alla persona del dottor Borsellino. Deduzione che però, allo stato, non è assistita da alcun elemento oggettivo in grado di farla assurgere a dignità di prova. Dal complesso delle sue esposte considerazioni discende, senza bisogno di ulteriori considerazioni, l’impossibilità lo stato di un utile esercizio dell’azione penale potendosi prevedere sulla scorta degli elementi a disposizione esiti non favorevoli del giudizio eventualmente instaurato». A tal proposito è bene ricordare che le motivazioni del Borsellino quater recentemente depositate dalla Corte d’Appello di Caltanissetta, non solo confermano questo assunto, ma escludono categoricamente la trattativa come causa dell’accelerazione: viene invece inquadrata nel discorso dell’interessamento di Borsellino nell’indagine mafia appalti di cui ancora non era titolare, una strage accelerata per “cautela preventiva”. La giudice delle indagini preliminari specifica che per la posizione di Cinà non è rilevante il fatto che la cosiddetta trattativa sia o meno esistita in quei termini. Quello che interessa sapere, invece, è se abbia ricoperto o meno ruoli attivi, oppure “passivi” sapendo che la sua azione da intermediario avrebbe causato la strage. La giudice prende le mosse proprio dalle dichiarazioni in merito rese da Massimo Ciancimino a più riprese. Prende in considerazione quella resa il 29 gennaio 2008 ed emerge che Cinà era un mero intermediario tra il padre Vito e Salvatore Riina e non gli viene riconosciuto nessun altro protagonismo, neppure quello di consegnare “il papello” di richieste fatte da Cosa nostra. Ma non solo. La giudice fa riferimento a un manoscritto di Vito Ciancimino dove emerge un dato fondamentale: l’incontro con Antonino Cinà e il suo fare altezzoso, alla notizia che i Carabinieri avrebbero voluto avere un contatto con i vertici mafiosi, viene collocato dopo la strage di via d’Amelio. «Non si comprende, dunque – scrive la giudice -, come avrebbe mai potuto Cinà, la cui condotta si innesta in un momento successivo alla strage di via D’Amelio, contribuire ad accelerarne il verificarsi». Riportando anche uno stralcio della sentenza trattativa di primo grado, la giudice sentenzia che non aggiunge elementi di novità tali da giustificare l’imputazione di Cinà per il delitto di strage del 19 luglio 1992. Tali esiti dimostrano solo che Cinà era ritenuto latore di dichiarazioni tra Salvatore Riina, i vertici mafiosi e Vito Ciancimino. Non c’è nessun elemento che lo qualifichi come figura apicale che avrebbe in qualche modo potuto dare il proprio contributo ad assumere determinazioni in materia di omicidi eccellenti come quello di Paolo Borsellino.

Bologna, richiesta l’archiviazione per Mori: “mancato rispetto di una delle regole sul giusto processo”. La corte di Assise di Bologna, nella sentenza Cavallini, aveva denunciato Mori per "falsa testimonianza e reticenza". Richiesta l'archiviazione anche per l’ex Nar Valerio Fioravanti. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 9 luglio 2021. La procura di Bologna chiede l’archiviazione di una serie di denunce che la Corte d’assise di Bologna ha avanzato nella sentenza Cavallini. Tra loro l’ex Nar Valerio Fioravanti per falsa testimonianza e calunnia, il generale Mario Mori per falsa testimonianza e reticenza. Ma anche Elena Venditti, Giovanna Cogolli , Roberto Romano, Pierluigi Scarano, Fabrizio Zani. La corte di Assise di Bologna, dopo aver esaminato la testimonianza resa dall’ex generale Mario Mori nel corso dell’udienza del 3 ottobre 2018, lo ha denunciato per “falsa testimonianza e reticenza” per aver affermato “di non essersi mai occupato della destra eversiva in quanto lui è sempre stato occupato in “altro”, in aperto contrasto “con una nutritissima serie di evidenze processuali e investigative di segno contrario, provenienti anche da dichiarazioni da lui stesso rilasciate”, arrivando secondo la Corte, perfino, a bluffare “invitando i presenti ad andare a leggersi le sentenze-ordinanze del G.I. di Milano dott. Salvini del 1995 e del 1998, che dicono cose ben diverse da quanto da lui sostenuto”. Ebbene, i pm hanno sottolineato che il fatto non sussiste. Perché? Non c’è stata nessuna falsità o reticenza. “Lo stesso Presidente della Corte – si osserva nella richiesta di archiviazione -, non solo durante tutta la deposizione non ha fatto alcun richiamo al teste su eventuali falsità o reticenze riscontrate, ma si è limitato a fare al teste, all’esito dell’esame, soltanto due semplici domande”. Il generale Mori ha risposto, infatti, a quelle domande. Ebbene, i Pm le hanno vagliate e hanno trovato un ampio riscontro negli accertamenti esperiti dal Ros di Bologna nei rapporti 14 e 22 giugno 2021, che, all’esito di attente indagini, dopo aver  ricostruito la carriera e gli incarichi del prefetto Mori all’interno dell’Arma dei carabinieri e nei Servizi di sicurezza, e le attività di polizia giudiziaria svolte da lui personalmente o quale  comandante di reparto e fatte oggetto delle domande rivoltegli durante l’esame  dibattimentale o delle critiche mossegli dalla Corte di Assise nel par. 36.3 della sentenza  n. 1 del 2020, non ha riscontrato falsità o reticenze in quanto affermato dal Mori. Non solo. I pm bacchettano il presidente della Corte. “Si deve, però – scrivono i sostituti procuratori – , porre in evidenza il mancato rispetto di una delle regole sul giusto processo da parte della Corte di Assise, che ha basato il suo assunto non sul verbale delle spontanee dichiarazioni rese dal gen. Mori nel processo davanti al Tribunale di Palermo nel quale era imputato, che, in violazione dell’art. 238 c.p.p., non ha neppure acquisito così da non sottoporlo “ad autonoma valutazione critica, secondo la regola generale di cui all’art. 192, co. 1, c.p.p.” (come richiesto da Cass. sez. I, 16 maggio 2019, n. 41405), pur essendo imprescindibile per valutare complessivamente la veridicità e la portata effettiva delle dichiarazioni rese da Mori in quella sede in rapporto alla accusa mossa a Bologna nei confronti del Cavallini per la strage del 2 agosto 1980”. E cosa ha fatto invece la Corte? “Molto più riduttivamente – scrivono i pm – , invece, nel valutare la testimonianza resa dal prefetto Mori a Bologna, ha richiamato solo i frammenti di brani di quelle spontanee dichiarazioni da lui rese a Palermo ed estrapolati dal Tribunale di Palermo per essere riportati nella sentenza 20 aprile 2018, che, come si è detto, non essendo ancora definitiva, poteva e può tuttora essere utilizzata “solo come prova dei fatti documentali da essa rappresentati”.

La trattativa Stato-mafia secondo Report: verbali e assoluzioni omesse e taglia e cuci di intercettazioni. I difensori degli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, Basilio Milio e Francesco Romito, si sono dovuti rivolgere di nuovo alle Istituzioni per protestare contro la trasmissione di Rai3. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'1 giugno 2021. Taglia e cuci di alcuni passaggi delle intercettazioni di Totò Riina, omissione delle sentenze di assoluzione che hanno decostruito in modo capillare le accuse portate avanti in merito alla cosiddetta mancata cattura di Bernardo Provenzano o sulla vicenda della mancata perquisizione dell’abitazione di Totò Riina. Non solo. Omissione nel raccontare di come è effettivamente andata la vicenda di Mario Mori, quando da giovane fu cacciato dal piduista Maletti, all’epoca capo del servizio segreto militare (Sid). Non è stato raccontato a cosa ha portato l’indagine dell’allora procuratore di Firenze Gabriele Chelazzi: la difesa degli ex Ros ha recuperato tutto il lavoro del magistrato, ben prima della procura di Palermo, e grazie ad esso è stato possibile ottenere una sentenza di assoluzione per Mori e Obinu.

Gli avvocati degli ex Ros costretti a rivolgersi alle Istituzioni. Parliamo dell’ennesima puntata di Report che ha avuto come scopo, quello di sostenere la tesi della presunta trattativa Stato-mafia e colpire gli ex Ros, in particolare Mario Mori, imputati al processo d’appello oramai agli sgoccioli. Anche in questo caso, durante la trasmissione, sono intervenuti i magistrati che rappresentano l’accusa nell’Appello di Stato-mafia quando il processo è ancora in corso. Gli avvocati Basilio Milio e Francesco Romito, rispettivamente difensori degli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno , riguardo alla puntata di Report, andata in onda su Rai3 il 24 maggio scorso, per la seconda volta si sono ritrovati costretti a rivolgersi al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, al vice presidente del Csm, David Ermini, al presidente della commissione Vigilanza Rai, Alberto Barachini, a quello della commissione Antimafia, Nicola Morra e al presidente della Rai, Marcello Foa.

I difensori di Mori avevano chiesto il rinvio della trasmissione per l’imminenza della fine del processo Stato-mafia. I legali ci vanno giù duro. In premessa fanno sapere che, nonostante la loro espressa richiesta di rinviare la trasmissione di qualche settimana, attesa l’imminente definizione del processo di Appello della presunta trattativa Stato-mafia, nell’ambito del quale, proprio il 24 maggio è iniziata la requisitoria, e «nonostante la piena e incondizionata disponibilità dei sottoscritti a fornire ogni risposta a quesiti posti e/o documento utile alle vicende da trattare al fine di garantire un’informazione completa ed obiettiva», osservano che nessuno degli autori e dei giornalisti ha ritenuto di contattarli ai suddetti fini. «Ci si domanda – scrivono i legali nella lettera alle autorità – se le ragioni siano da rinvenire nel fatto che l’obiettivo esclusivo era quello di realizzare un’intervista da inserire, ad usum delphini, nella ricostruzione teorematica e faziosa già premeditata, quasi a mo’ di “legittimazione” della trasmissione».

Per i difensori di Mori l’inchiesta di Report «non aveva i requisiti di completezza e imparzialità». La denuncia è chiara. Secondo gli avvocati Milio e Romito, Report ha trasmesso un servizio dove hanno dato per certo i rapporti tra Cosa Nostra e il generale Mori. Secondo gli avvocati, l’inchiesta giornalistica è stata realizzata ancora una volta «con un approccio – scrivono – rivelatosi del tutto deficiente dei necessari requisiti di completezza ed imparzialità, tratta talune vicende che hanno interessato il generale Mori, utilizzando alcuni documenti smentiti da altri mai citati, manipolando intercettazioni, omettendo di citare sentenze ormai irrevocabili anche da circa un ventennio, così determinando oggettivamente una indebita interferenza sul processo in corso».

In trasmissione magistrati che sostengono l’accusa nel processo Stato-mafia. Ma la denuncia più grave è rivolta a quei magistrati inquirenti, rappresentanti l’accusa nel processo d’Appello sulla presunta trattativa Stato-mafia, tuttora in corso, che continuano a rilasciare interviste a Report, propinando – scrivono gli avvocati alle autorità – «le proprie ipotesi, peraltro smentite da documenti a loro conoscenza che non vengono mai menzionati». Documenti che gli avvocati descrivono accuratamente nella lettera. Partono dall’accusa che il conduttore di Report fa nei confronti di Mori. «Dai verbali, dai documenti, da informative segrete – dice Sigfrifo Ranucci in trasmissione – emerge il passato del giovane Mori. Un passato che se fosse vero sarebbe imbarazzante e anche inquietante. Emerge un giovane impegnato, aderente ad un’organizzazione paramilitare come la “Rosa dei Venti” della quale facevano parte uomini dei Servizi segreti, neofascisti, uomini legati alla destra eversiva e poi un Mori che avrebbe fatto opera di proselitismo per iscrivere nuovi adepti ad una loggia riferibile alla P2 di Licio Gelli. Una lista segreta».

Mario Mori fu solo un teste nell’indagine sulla “Rosa dei venti”. È vero? La risposta è no. Dai documenti, che gli avvocati hanno e avrebbero messo volentieri a disposizione se fossero stati interpellati nel merito, emerge che il coinvolgimento di Mori nell’indagine della Procura di Padova sulla “Rosa dei Venti” fu limitato alla sua escussione come teste da parte dell’allora magistrato Tamburino. Quest’ultimo cercava di identificare un giovane capitano dei Carabinieri che aveva fatto servizio a Conegliano Veneto e che stato tirato in ballo dalle dichiarazioni di Amos Spiazzi. Per questo sono stati escussi diverse persone per identificare il personaggio. Ebbene è stato certificato che il giovane capitano in questione non era Mario Mori, ma Mauro Venturi. Quest’ultimo era l’ufficiale di cui parlava Spiazzi (e che Tamburino voleva identificare) come colui dal quale attendeva direttive in relazione al Golpe Borghese. Il Venturi fu indagato, gli fu perquisita l’abitazione, e poi venne prosciolto con sentenza ordinanza del giudice di Roma.

Mario Mori non risulta in alcun elenco della P2. Assodato che Mori non c’entrava nulla con la “Rosa dei venti” e il tentato golpe Borghese, c’è da domandarsi se fosse iscritto alla P2. Ovviamente non compare nella lista. A quel punto si disse che molto probabilmente esiste una lista riservata con i nomi di tutti i personaggi aderenti ai servizi segreti. Ovviamente mai trovata, ma soprattutto inesistente da un punto di vista logico. Gli avvocati, infatti, scrivono che, in quelle ritrovate a Castiglion Fibocchi, «vi erano i vertici dei Servizi (Miceli, Maletti, Santovito), ufficiali superiori e inferiori delle Forze Armate e dell’Arma dei Carabinieri (anche diversi capitani tra cui il noto Antonio Labruna), parlamentari, ministri e perfino magistrati». E Mori, infatti, non vi compare.

Le intercettazioni di Riina trasmesse sono il frutto di fusione di momenti diversi. Degne di nota, tra le varie decostruzioni fatte con documenti in mano delle suggestioni portate avanti da Report, sono le intercettazioni di Totò Riina. Per corroborare l’ipotesi, del tutto smentita da sentenza definitiva, che Mori non avrebbe perquisito il covo di Riina per fare in modo di far sparire documenti compromettenti conservati in cassaforte, Report trasmette alcune intercettazioni del capo dei capi mentre era al 41 bis. Ebbene, tra le altre, a un certo punto mettono in onda questa intercettazione: «Minchia, furbu, furbu, furbu. Sono uno più vigliacco dell’altro perché io non ho potuto mai capire perché non vennero a fare la perquisizione». Non esiste: secondo gli avvocati è frutto fusione di affermazioni fatte in momenti diversi. Per dimostrarlo, hanno trascritto tutti i passaggi delle intercettazioni.

Sant’Agostino: “La verità è come un leone; non avrai bisogno di difenderla. Si difenderà da sola”. Dal testo originario emerge l’esatto contrario, ossia che Riina appella Mori “furbo” in relazione all’affermazione che secondo lui, Riina, non tenesse documenti a casa. Infatti, Riina stesso parla chiaro, senza però che Report lo riporti: «Io, onestamente, devo dire la verità, non scrivevo niente non tenevo niente dentro la casa». Ancora più avanti svela pure cosa aveva in cassaforte: «Lo sapete che cosa ci tenevo nella … là dentro? … spagnolo … questi… un revolver ci tenevo». Gli avvocati concludono stigmatizzando la citazione di Pennac fatta da Report, «L’uomo non si nutre di verità, ma si nutre di risposte», quali che siano. «Preferiamo – concludono nella lettera – Sant’Agostino – “La verità è come un leone; non avrai bisogno di difenderla. Si difenderà da sola” – pur dovendo prendere atto che, purtroppo, in Italia c’è ancora bisogno di qualcuno che difenda la verità, costantemente vilipesa».

Report, "la mafia voleva uccidere Sigfrido Ranucci": il testimone confessa, chi ha fermato tutto. Libero Quotidiano il 04 gennaio 2021. La mafia voleva uccidere Sigfrido Ranucci, il conduttore della trasmissione in onda su Rai 3, Report. La rivelazione in un video pubblicato su Twitter dal profilo del programma, in cui Francesco Pennino, intervistato dallo stesso Ranucci nella puntata che andrà in onda stasera, rivela al giornalista che i Madonia volevano assassinarlo nel 2010, subito dopo pubblicazione del libro “Il Patto”, scritto a quattro mani da Ranucci e Nicola Biondo. Pennino, che in quel periodo si trovava in carcere e aveva incontrato alcuni esponenti della famiglia Madonia, ha spiegato che il progetto di omicidio non andò in porto perché stoppato da Matteo Messina Denaro, boss tuttora latitante. "I Madonia volevano pagare per ammazzarti", dice nel video Pennino a Ranucci.

"Bastardo", "Ti deve prendere un tir e devi rimanere un vegetale". Ranucci minacciato, ecco chi è l'ex politico (e non solo) che lo insulta. Libero Quotidiano il 29 dicembre 2020. Report ha preparato una puntata sulle stragi che manderà in onda lunedì 4 gennaio alle 21.30 su Rai1. La trasmissione di approfondimento condotta da Sigfrido Ranucci è spesso e volentieri nell’occhio del ciclone per i temi molto delicati che tratta, come ad esempio l’ultimo sul presunto scandalo riguardante il piano pandemico italiano mai aggiornato dal 2006. Nella prossima puntata, invece, Report si occuperà della strage di Bologna e di quelle del ’93: in particolare nelle anticipazioni si legge che la trattativa Stato-mafia verrà raccontata come mai è stato fatto finora. Proprio le anticipazioni hanno scatenato la reazione scomposta di Francesco Biava, ex capo segreteria di Gianni Alemanno al ministero delle politiche agricole: “Bastardo. Domani vomiterai le tue menzogne, da una rete pubblica, senza che nessun contraddittorio sia possibile, pagato con i soldi del nostro canone, in perfetto stile staliniano”. Report ha condannato tale post e ha mostrato anche altri messaggi scabrosi indirizzati a Ranucci: “Speriamo che lo prenda un tir in pieno ma che rimanga vegetale”, un orrore che non ha giustificazioni. 

Le menti raffinatissime. Report Rai PUNTATA DEL 04/01/2021 di Paolo Mondani, Giorgio Mottola, collaborazione di Norma Ferrara, Alessia Pelagaggi e Roberto Persia. Dalla Strage di Bologna allle bombe del '92-'94. Report dedica una puntata speciale alla trattativa Stato-mafia, alle stragi del 1992 e quelle del 1993 per cui sono indagati dalla Procura di Firenze anche Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Con testimonianze inedite e documenti esclusivi verrà ricostruito per la prima volta in televisione il ruolo ricoperto da alcuni settori delle istituzioni nelle stragi del 1992 e in quelle degli anni precedenti. Un filo nero collegherebbe infatti l'attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 alle bombe di Capaci e via D'Amelio in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Mafia, massoneria, terroristi di destra e servizi segreti deviati avrebbero contribuito per anni ad organizzare e ad alimentare una strategia stragista che puntava alla destabilizzazione della democrazia nel nostro paese. Lo raccontano a Report magistrati, collaboratori di giustizia e protagonisti dei piani eversivi. Report farà luce sul ruolo inconfessabile ricoperto dagli uomini dello Stato nella pianificazione e nell'esecuzione delle stragi. Una verità a cui probabilmente era arrivato Paolo Borsellino. Quando viene ucciso in via D'Amelio, sparisce l'agenda rossa che portava sempre con sé, dove conservava tutti gli appunti sulle indagini da lui svolte in prima persona sulla strage di Capaci. Che fine ha fatto l'agenda rossa di Paolo Borsellino? Grazie a testimonianze esclusive, Report è in grado di aggiungere un tassello importante alla ricostruzione della vicenda.

- I volti delle 5 donne che avrebbero partecipato alle stragi di via Palestro a Milano e via dei Georgofili. Gli identikit furono realizzati subito dopo l'esplosione delle bombe. Le donne raffigurate nella foto nr6 e nella nr11 (che per per la prima volta rendiamo pubblica) sono state viste subito prima della strage nei pressi di via dei georgofili il 27 maggio del 1993. La donna nella nr6 è stata notata da un portiere di un palazzo mentre era a bordo di una mercedes che si è fermata davanti a due uomini che aspettavano sul marciapiede. Dalla mercedes ne è scesa la donna che si è avvicinata ai due uomini, ha bestemmiato e li ha invitati a sbrigarsi. Quindi i due uomini hanno caricato sulla mercedes una grossa borsa da viaggio sul sedile posteriore e l'auto è ripartita seguita da un Fiorino, lo stesso modello di furgone usato poi per la strage. Le altre tre donne bionde (foto 14-15-16) sono state invece viste nei pressi di via Palestro poco prima dell'esplosione della bomba. Una di loro è stata riconosciuta all'interno di una Fiat Uno nei pressi della museo di arte contemporanea. Qui lo stesso modello di auto è stato usato poco dopo per compiere l'attentato. Secondo la pista investigativa le cinque donne sarebbero esponenti di quei servizi deviati che potrebbero aver avuto un ruolo centrale negli attentati del 1993.

LE MENTI RAFFINATISSIME Di Paolo Mondani e Giorgio Mottola.  Collaborazione Norma Ferrara, Alessia Pelagaggi e Roberto Persia.Immagini Dario D’India, Alfredo Farina e Alessandro Spinnato. Montaggio e grafica Giorgio Vallati.

GIUSEPPE LOMBARDO - PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA Licio Gelli era il perno. Perché attraverso la P2 lui controllava i Servizi.

GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD Essere lontani da Cosa Nostra se si agisce in Sicilia è molto difficile.

CONSOLATO VILLANI - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Dietro le stragi c'erano i servizi segreti deviate.

GIOACCHINO GENCHI - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO La principale intenzione era quella di non trovare i veri colpevoli.

PIETRO RIGGIO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA - 19/10/2020 PROCESSO D'APPELLO TRATTATIVA STATO-MAFIA L'indicatore dei luoghi dove erano avvenute le stragi fosse stato Marcello Dell'Utri.

ROBERTO TARTAGLIA – EX PM PROCESSO TRATTATIVA STATO-MAFIA Chi è che insegna a Salvatore Riina il linguaggio che abbina la cieca violenza mafiosa alla raffinata guerra psicologica di disinformazione che c’è dietro l'operazione della Falange Armata?

NINO DI MATTEO - MAGISTRATO PROCESSO TRATTATIVA - MEMBRO CSM È successo anche questo, scoprire che un presidente della Repubblica aveva mentito.

SILVIO BERLUSCONI - EX PRESIDENTE DEL CONSIGLIO Io su indicazione dei miei avvocati intendo avvalermi della facoltà di non rispondere.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Buonasera, parleremo del periodo stragista che va dal 1992 al 1994, della presunta trattativa tra Stato e Mafia. Lo faremo con documenti e testimonianze inedite, tra le quali quella di Salvatore Baiardo, l’uomo che ha gestito la latitanza dei fratelli Graviano, una potente famiglia mafiosa, oggi accusata di essere l’autrice della strage di via d’Amelio. Cercheremo di capire anche quale è stato il ruolo della P2, dei servizi segreti deviati e della destra eversiva. Insomma di chi nell’ombra ha agito insieme a Cosa Nostra. Per farlo però non possiamo prescindere dal partire dalle novità giudiziarie che emergono dalla nuova inchiesta sulla strage di Bologna, 1980. Quella che Pertini ha definito “l’impresa più criminale della storia della Repubblica". I nostri Paolo Mondani e Giorgio Mottola.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO 2 agosto 1980. Bologna. 85 morti, 200 feriti. Quarant'anni dopo, pochi mesi fa, la procura generale di Bologna fa il passo decisivo.

PAOLO BOLOGNESI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI BOLOGNA 2 Come dicono i magistrati, Gelli e Ortolani sono stati gli organizzatori e i finanziatori della strage. La strage è stata organizzata dai vertici della loggia massonica P2, protetta dai vertici dei servizi segreti italiani, eseguita da terroristi fascisti.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Licio Gelli, già condannato per aver depistato le indagini, insieme ad Umberto Ortolani, suo braccio destro, è accusato di aver finanziato i terroristi neri che piazzarono la bomba alla stazione e aver pagato Federico Umberto D'Amato, potentissimo capo dell'Ufficio Affari Riservati del ministero dell'Interno, indicato come l'organizzatore della strage.

PAOLO BOLOGNESI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI BOLOGNA I servizi segreti italiani anziché lavorare per impedire di farla, hanno fatto in modo che potesse essere eseguita senza che ci fossero dei problemi.

GIORGIO MOTTOLA Quindi rispetto alla strage Federico Umberto d'Amato ha rappresentato un po' gli apparati deviati dello Stato…

PAOLO BOLOGNESI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI BOLOGNA Parlare di apparati deviati, almeno io, non sono assolutamente d'accordo perché qui noi stiamo parlando dei vertici dei servizi segreti italiani. Vertici, non l'usciere dei servizi o il postino dei servizi. Vertici. E allora quando parliamo di vertici vuol dire che ci sono delle responsabilità politiche in chi li ha nominati.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Le responsabilità politiche sono tutte dei governi degli anni '70. Ma torniamo alla strage: il 13 settembre 1982, Licio Gelli venne arrestato in Svizzera con in tasca un appunto di movimenti bancari. Ai giudici milanesi che lo interrogarono sul crack del Banco Ambrosiano fu trasmesso solo il prospetto con le cifre, senza il frontespizio dove era scritto “Bologna” e il numero di conto aperto da Gelli presso la UBS di Ginevra. Il figlio del Presidente dell'Ambrosiano Roberto Calvi ricorda bene quell'appunto.

CARLO CALVI - FIGLIO DEL BANCHIERE ROBERTO CALVI Le inchieste che sono state svolte nell'ambito della liquidazione del Banco Ambrosiano hanno potuto appurare che la cartelletta “Bologna” che fu sequestrata a Licio Gelli dettagliava dei pagamenti a Londra camuffati attraverso una rete di antiquari. Questo gruppo di antiquari a Londra forniva sostegno agli espatriati della Banda della Magliana e del neofascismo e del terrorismo neofascista che si erano rifugiati a Londra successivamente alla bomba di Bologna del 2 agosto 1980.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il frontespizio con scritto “Bologna” e il numero di conto intestato a Licio Gelli rimane nascosto per 40 anni. Secondo i giudici bolognesi, cinque milioni di dollari di quel conto servirono a finanziare i terroristi di destra e a comprare gli apparati di sicurezza.

PAOLO BOLOGNESI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI BOLOGNA Questi sono stati degli assassini prezzolati e bisogna cominciarlo a dire anche a quelli che non hanno fatto altro in questi anni di dare, trovare tutte le scuse per salvaguardare i terroristi e farsela con le vittime.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO 3 Ma come sarebbero arrivati quei soldi agli estremisti neri? I sospetti si concentrano sulla società Odal. Di cui Otello Lupacchini si era occupato 30 anni fa.

OTELLO LUPACCHINI - PROCURA GENERALE TORINO Dietro a Odal c'era innanzi tutto Stefano Delle Chiaie, c'era Adriano Tilgher, c'era il Pietro Citti, c'erano i fratelli Roberto e Carmine Palladino.

GIORGIO MOTTOLA Ah, proprio i massimi esponenti della destra.

OTELLO LUPACCHINI - PROCURA GENERALE TORINO Quindi c'era il gotha della destra di Avanguardia Nazionale.

GIORGIO MOTTOLA I rapporti fra Delle Chiaie e Federico Umberto D'Amato…

OTELLO LUPACCHINI - PROCURA GENERALE TORINO Quello che si è spesso detto è che Delle Chiaie fosse un infiltrato all'interno di Avanguardia Nazionale per conto di Federico Umberto D'Amato.

GIORGIO MOTTOLA Che cos'è Sofint?

OTELLO LUPACCHINI - PROCURA GENERALE TORINO Sofint aveva rapporti con la Odal il cui unico cliente era per l'appunto Sofint.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO In pratica, la Odal dipendeva in tutto e per tutto dalla Sofint, società romana del faccendiere Flavio Carboni, già condannato per il crack del Banco Ambrosiano. Sofint divenne famosa anche perché Carboni e il suo socio Romano Comincioli (uomo di Berlusconi) tentarono una gigantesca speculazione immobiliare in Costa Smeralda, per realizzare la quale Carboni si servì di boss mafiosi come Pippo Calò e di esponenti della Banda della Magliana quali Domenico Balducci ed Ernesto Diotallevi.

OTELLO LUPACCHINI - PROCURA GENERALE TORINO Sofint è una società finanziaria internazionale, di qui il nome, attraverso la quale vennero effettuate una serie di operazioni che sostanzialmente coprivano un'attività di riciclaggio.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Cosa emerge dalle indagini sulla strage di Bologna? Che Licio Gelli avrebbe pagato i neofascisti scappati a Londra dopo la strage di Bologna. Dallo stesso conto, secondo il figlio di Calvi, avrebbe anche pagato gli uomini della banda della Magliana. E sempre Gelli avrebbe comprato il silenzio di Federico Umberto D’Amato, capo dei servizi di sicurezza. Avrebbe comprato la sua complicità e la copertura deve aver funzionato bene se è vero che ci sono voluti 40 anni prima che venisse reso noto agli investigatori il frontespizio di quella cartellina con scritto sopra “Bologna” e poi che i conti correnti fossero intestati a Licio Gelli. Ma a distanza di 40 anni dalle ceneri della strage di Bologna emerge anche una figura: Paolo Bellini - killer di avanguardia nazionale, killer della ‘ndragheta, ladro anche di opere d’arte. È quello stesso Paolo Bellini che ad un certo punto il colonello dei Ros Mario Mori, l’uomo che ha condotto la trattativa con la mafia nel periodo stragista, infiltra in Cosa Nostra, pochi mesi prima che cominciassero le bombe lo manda giù in Sicilia, laddove con Cosa Nostra anche la destra eversiva è di casa.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Località Tre Fontane, provincia di Trapani, siamo a fine luglio del 1980, pochi giorni prima della bomba di Bologna. Francesca Mambro e Valerio Fioravanti esecutori della strage, sono qui in vacanza, a casa di Ciccio Mangiameli, noto estremista di destra siciliano. Lo uccideranno nel settembre successivo perché secondo i giudici bolognesi Mangiameli si era dissociato dal progetto della strage. E volevano ammazzargli anche moglie e figlia.

ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Io, diciamo, lo contrastavo, dicevo ma tu perché fai questa politica? che cosa vuoi…

PAOLO MONDANI Ah, lei contrastava Fioravanti?

ROSARIA AMICO Sì. Una volta gli ho detto: ma tu da bambino eri maltrattato? Perché visto che maltratti…"Io sono sempre stato trattato benissimo". Ma, ci dissi, non mi sembra.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Esecutori materiali della strage furono Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini, condannati in via definitiva. Gilberto Cavallini, condannato in primo grado. Tutti dei NAR. A loro, la procura generale di Bologna ha ora aggiunto Paolo Bellini, riconosciuto dalla moglie in un filmato d'epoca ripreso la mattina del 2 agosto dentro la stazione. Libero Mancuso fu tra i primi magistrati che si occupò della strage.

LIBERO MANCUSO - EX MAGISTRATO Quando arrivai a Bologna, da poco era andato via Ugo Sisti come procuratore della Repubblica di Bologna che era andato a gestire il DAP, il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria. Ugo Sisti fu trovato nell'albergo del padre di Bellini la notte, la sera del 2 agosto era lì.

PAOLO MONDANI La sera della strage…

LIBERO MANCUSO - EX MAGISTRATO …la sera della strage. E Bellini fu oggetto di indagine come responsabile della strage del 2 agosto e poi lui era latitante questo Bellini ed era stato in Sudamerica, aveva acquisito il brevetto di pilota ed era ritornato in Italia e a Foligno era stato premiato da Ugo Sisti sotto il nome, il falso nome di Da Silva mentre questo Da Silva-Bellini era latitante.

PAOLO MONDANI Pur lui conoscendolo come Bellini, lo premiava come Da Silva.

LIBERO MANCUSO - EX MAGISTRATO Amico di famiglia… Lui è stato sottoposto a procedimento penale ma la sezione istruttoria della Corte di Appello di Bologna lo assolse.

PAOLO MONDANI Lei ritiene che Ugo Sisti, il vecchio procuratore di Bologna, gli avesse dato una copertura in qualche modo?

LIBERO MANCUSO - EX MAGISTRATO Penso che lo riteniamo un po' tutti questo.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Bellini fu ladro d'arte, killer per Avanguardia Nazionale, killer per una cosca della 'Ndrangheta. La finta identità di Roberto Da Silva con le coperture giuste gli venne garantita addirittura fino all'arresto. In carcere nell'81 conobbe il boss di Cosa Nostra Nino Gioè.

ROBERTO TARTAGLIA – EX PM PROCESSO TRATTATIVA STATO-MAFIA È veramente una coincidenza molto poco credibile che dieci anni dopo, proprio nel '91 e proprio ad Enna, Paolo Bellini riallaccia il rapporto con Gioè. Cioè proprio nel momento e nel luogo in cui Cosa Nostra…

PAOLO MONDANI Decide le stragi…

ROBERTO TARTAGLIA – EX PM PROCESSO TRATTATIVA STATO-MAFIA …sta in quelle campagne decidendo la stagione stragista consultando mondi esterni a quello di Cosa Nostra. E lì Bellini entra in contatto tramite Gioè con tutto il vertice di Cosa Nostra di quel momento.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Bellini, tra il '91 e l'autunno del ‘92, fa l'infiltrato in nome e per conto del Ros dei carabinieri del colonnello Mario Mori, per il tramite del maresciallo Roberto Tempesta. Con il suo vecchio amico Gioè imbastisce una trattativa: un occhio di riguardo verso alcuni boss in carcere in cambio del recupero di opere d'arte rubate. Bellini capisce di aver a che fare con gli uomini delle stragi, riferisce ai carabinieri, ma lo Stato rimane fermo.

PAOLO BELLINI - 1/10/2020 PROCESSO 'NDRANGHETA STRAGISTA Siccome l'ok del colonnello Mori mi era stato dato di infiltrarmi, che cosa dovevo fare io? Dire di no?

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Bellini racconta poi che nell'ottobre del '92, dato che la trattativa coi carabinieri non portava risultati, Gioè gli disse minacciosamente.

PAOLO BELLINI - 1/10/2020 PROCESSO 'NDRANGHETA STRAGISTA “Che ne direste se una mattina vi svegliaste e non ci fosse più la Torre di Pisa?” mi sembra che fossero queste le parole reali.

ROBERTO TARTAGLIA – EX PM PROCESSO TRATTATIVA STATO-MAFIA Se è vero che in quelle riunioni tra Gioè e Bellini si parla per la prima volta di attentare ai beni culturali del paese - quelli che poi saranno via dei Georgofili, San Giovanni, San Giorgio e Milano - se è vero tutto questo, perché chi era informato delle missioni siciliane di Bellini, fossero mondi di intelligence o fosse il colonnello Mori, perché non fu fatta quantomeno un'attività molto seria su Paolo Bellini di monitoraggio, di pedinamento, di controllo, di un Gps sotto la macchina perché anche la macchina si portava in Sicilia. Ecco un'operazione del genere portava direttamente da un lato a Salvatore Riina e dall'altro a Matteo Messina Denaro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E invece Matteo Messina Denaro è ancora libero. Né l’infiltrazione di Bellini, voluta da Mori, servì a recuperare delle opere d’arte. Anzi secondo il pentito Brusca, non fece altro che far capire a Cosa Nostra che lo Stato forse teneva più al patrimonio artistico che alle vite umane. Per questo quella di Bellini è una figura tra le più misteriose del periodo stragista: fece semplicemente l’infiltrato o inoculò magistralmente della mente di Cosa 6 Nostra che fare gli attentati al patrimonio artistico del mostro paese avrebbe pagato? Ecco, anche perché il suo contatto era un mafioso di peso, di Antonino Gioè. Gioè aveva un contatto diretto con Riina e fu anche uno degli artefici materiali della strage di Capace. E poi, particolare non trascurabile, Gioè muore suicida in carcere. Secondo il cugino di Carlo che ha rilasciato un’intervista esclusiva al nostro Giorgio Mottola, prima di morire di Covid, è stato invece Gioè ucciso dai servizi di sicurezza perché non parlasse. Quello che abbiamo capito è che invece Bellini è emerso dalle ceneri delle indagini sulla strage di Bologna. Dove è emerso un filo: un filo nero che lega la P2 con i servizi segreti deviati, con la destra eversiva e con gli uomini di Cosa Nostra. Ecco, una strategia che viene replicata nel tempo. Sono vecchi alleati che quando vedono il rischio che lo status quo dove hanno infilato le radici, il loro potere, le loro politiche, i loro affari anche se vogliamo, la loro impunità nei processi, ecco questo status quo rischia di perdere la sua stabilità, reagiscono come se fossero un corpo unico. Vibrano come fa una corda della chitarra quando il diapason detta il là.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO 11 novembre 2019. Nell'aula bunker dell'Ucciardone a Palermo si celebra il processo d’Appello sulla trattativa Stato-Mafia.

SILVIO BERLUSCONI - EX PRESIDENTE DEL CONSIGLIO Io su indicazione dei miei avvocati intendo avvalermi della facoltà di non rispondere.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Berlusconi e Dell'Utri sono già stati archiviati come mandanti esterni delle stragi dai Tribunali di Firenze e Caltanissetta, ma oggi qui a Palermo scopriamo che Berlusconi è ancora indagato per le stragi del '93 dalla procura di Firenze. Per capire il perché partiamo dalla sentenza di primo grado sulla trattativa Stato-Mafia.

NINO DI MATTEO - MAGISTRATO PROCESSO TRATTATIVA - MEMBRO CSM Berlusconi da questa sentenza viene messo in relazione alla mafia non più soltanto come imprenditore ma per la prima volta come politico e addirittura come Presidente del Consiglio. Fino al dicembre del 1994 Berlusconi fece arrivare centinaia di milioni nelle casse di Cosa Nostra. Quindi secondo questa sentenza abbiamo un presidente del Consiglio, un capo del Governo italiano legittimamente insediatosi che paga Cosa nostra.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La sentenza di primo grado della sentenza Stato- Mafia parla di 250 milioni di lire che a fine ’94 le aziende di Berlusconi avrebbero versato a Cosa Nostra. E Dell’Utri, secondo la sentenza, riferiva tutto a Berlusconi. Passiamo a Pietro Riggio, membro della famiglia mafiosa di Caltanissetta, che da due anni racconta fatti inediti sulle stragi. Nel 1994, Riggio raccoglie le confidenze del mafioso Vincenzo Ferrara.

GIUSEPPE FICI - PROCURA GENERALE DI PALERMO Lei ha fatto riferimento al professore. Con l'espressione "il professore" a chi si riferiva il Ferrara?

PIETRO RIGGIO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA - 19/10/2020 PROCESSO D'APPELLO TRATTATIVA STATO-MAFIA A Marcello Dell'Utri.

GIUSEPPE FICI - PROCURA GENERALE DI PALERMO E nello specifico che cosa ha riferito di Marcello Dell'Utri?

PIETRO RIGGIO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA - 19/10/2020 PROCESSO D'APPELLO TRATTATIVA STATO-MAFIA Quello che mi fece capire è che l'indicatore dei luoghi dove erano avvenute le stragi fosse stato Marcello Dell'Utri. Parlo della strage dei Georgofili, di Via Palestro, di San Giovanni al Velabro, di San Giovanni al Laterano. E mi ricordo che vi fu un'espressione colorita dicendo: ma tu ti immagini Totò Riina che dovesse dire o indicare Via Palestro? Ma che sa Totò Riina di Via Palestro o di Via dei Georgofili. Quello è un ignorante, altre cose sa fare. Ma dice: la mente è lui.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La mente sarebbe lui, Dell’Utri. Però i legali e Dell’Utri dicono:”E se ne accorge adesso dopo 10 anni che sta collaborando? Vedremo se al termine quando saranno ascoltati anche tutti gli altri collaboratori di giustizia se sarà giudicato ancora attendibile”. Comunque Dell’Utri e Berlusconi sono stati già indagati a lungo dalla Procura di Firenze nel 1997, quando proprio sulle stragi del 1993 e del 1994 fu archiviata la loro posizione, ma i magistrati in sentenza hanno scritto parole durissime. È emerso che, nel corso delle indagini, che “Cosa Nostra aveva agito su input esterni”; sono emersi anche contatti tra Dell’Utri e Berlusconi e i soggetti riferibili a queste stragi e anche che questi contatti erano compatibili con le finalità del progetto stragista. Cioè quello di chiedere leggi più consone, più favorevoli a Cosa Nostra. Poi però sono stati anche indagati Berlusconi e Dell’Utri anche dalla Procura di Caltanissetta nel 1998, che cercava i mandanti esterni delle stragi di Capaci e Via D’Amelio. Le indagini erano partite dopo le dichiarazioni di Salvatore Cancemi, uomo boss potente di Cosa Nostra, che aveva parlato dei rapporti tra Berlusconi e Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, e di rapporti - così aveva sentito dire lui stesso da Riina - proprio dal capo di Cosa Nostra mediato da alcuni uomini direttamente con l’ex presidente del Consiglio. E poi aveva anche parlato Cancemi di rapporti con i vertici della Fininvest di allora. Quelle informazioni sono state anche corroborate dalla testimonianza di altri pentiti: Tullio Cannella e Gioacchino La Barbera. Poi anche altri due collaboratori di giustizia, Pennino e Siino. Avevano raccontato ai magistrati, avevano illustrato quella galleria di personaggi che avrebbero potuto essere interessati alla morte dei due giudici, Falcone e Borsellino. Non bisogna dimenticare che era da anni che stavano indagando sui canali di riciclaggio di Cosa Nostra e quei rapporti incestuosi tra Cosa Nostra, imprenditori e politici. Tuttavia nel 2001, a marzo del 2001, alla vigilia delle elezioni, la Procura di Caltanissetta chiede l’archiviazione e la ottiene. Ma da allora qualcosa è cambiato. Intanto Dell’Utri è stato condannato in primo grado a 12 anni nel processo della Trattativa tra Stato e Mafia, perché sarebbe stato il portatore delle minacce di Cosa Nostra in casa Berlusconi. È una condanna che segue quella definitiva che aveva avuto nel 2014, che lo aveva identificato come cerniera tra i clan e Berlusconi. Avrebbe fatto in sostanza da mediatore di quel patto di protezione che la mafia aveva adoperato nei confronti di Berlusconi, vittima consapevole. Oggi Dell’Utri e Berlusconi sono indagati dalla Procura di Firenze per le bombe del 1993, quelle appunto di Firenze, Roma e Milano. Le indagini nascono dalle dichiarazioni intercettate ai Graviano in carcere dalla Procura di Palermo. Il nostro Paolo Mondani ha incontrato l’uomo che ha gestito la latitanza dei Graviano proprio nel periodo stragista Salvatore Baiardo. Parla di incontri con Berlusconi e Dell’Utri, parla di finanziamenti anche per il progetto politico. E poi dice di aver visto l’agenda rossa di Borsellino, quella che è stata sottratta dalla macchina ancora in fiamme e che potrebbe contenere i nomi dei mandanti occulti delle stragi.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Giuseppe Graviano, soprannominato Madre Natura, è il capo della famiglia mafiosa di Brancaccio. Da 27 anni in carcere per le stragi non si è mai pentito. Sentito a processo a Reggio Calabria invia messaggi a Silvio Berlusconi.

GIUSEPPE GRAVIANO - BOSS MAFIOSO 07/02/2020 - PROCESSO 'NDRANGHETA STRAGISTA Allora lei vada a indagare sull'arresto che è stato fatto nei confronti di Giuseppe Graviano e lei scoprirà i veri mandanti delle stragi.

GIUSEPPE LOMBARDO - PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE REGGIO CALABRIA Mi spieghi meglio che cosa intendeva quando ci ha detto di verificare quello che è successo quando lei e suo fratello siete stati arrestati e soprattutto ci ha spiegato che c'erano degli imprenditori del Nord che non volevano che le stragi si fermassero.

GIUSEPPE GRAVIANO - BOSS MAFIOSO 07/02/2020 - PROCESSO 'NDRANGHETA STRAGISTA Mio nonno viene invitato a investire dei soldi al Nord.

GIUSEPPE LOMBARDO - PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE REGGIO CALABRIA In quale campo e per realizzare che cosa.

GIUSEPPE GRAVIANO - BOSS MAFIOSO 07/02/2020 - PROCESSO 'NDRANGHETA STRAGISTA Nell'edilizia. Perché il contratto è con Silvio Berlusconi. A mio nonno avevano chiesto 20 miliardi e tutto quello che si faceva, il 20 per cento era di mio nonno.

GIUSEPPE LOMBARDO - PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE REGGIO CALABRIA Dove avvenne il primo incontro tra lei e Berlusconi?

GIUSEPPE GRAVIANO - BOSS MAFIOSO 07/02/2020 - PROCESSO 'NDRANGHETA STRAGISTA Io se non erro è l'Hotel Quark.

GIUSEPPE LOMBARDO - PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE REGGIO CALABRIA Chi era presente oltre lei e Berlusconi?

GIUSEPPE GRAVIANO - BOSS MAFIOSO 07/02/2020 - PROCESSO 'NDRANGHETA STRAGISTA Mio cugino Salvatore e mio nonno Quartararo Filippo che ci ha presentati.

GIUSEPPE LOMBARDO - PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE REGGIO CALABRIA Programmate un nuovo incontro per febbraio '94…

GIUSEPPE GRAVIANO - BOSS MAFIOSO 07/02/2020 - PROCESSO 'NDRANGHETA STRAGISTA Sì.

GIUSEPPE LOMBARDO - PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE REGGIO CALABRIA Per formalizzare l'ingresso di quei soggetti nelle società immobiliari di Berlusconi…

GIUSEPPE GRAVIANO - BOSS MAFIOSO 07/02/2020 - PROCESSO 'NDRANGHETA STRAGISTA 9 Sì, il 27 gennaio io vengo arrestato a Milano, un arresto anormale.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Attenzione alle date: il 23 gennaio 1994 Cosa Nostra fallisce l'attentato contro i carabinieri vicino allo stadio Olimpico a Roma; il 26 gennaio Berlusconi farà il famoso annuncio televisivo della discesa in campo.

SILVIO BERLUSCONI - 26 GENNAIO 1994 L'Italia è il paese che amo.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO E il giorno dopo, il 27 gennaio, Graviano viene catturato con il fratello a Milano: pochi giorni prima di un nuovo definitivo incontro con Berlusconi.

PAOLO MONDANI Recentemente Giuseppe Graviano al processo di Reggio Calabria fa intendere che nel 1994, dopo l'ultimo tentato attentato di Cosa Nostra, quello all'Olimpico di Roma, lui fu consegnato ai Carabinieri.

ALFONSO SABELLA - EX MAGISTRATO PALERMO Posso dire che è un'ipotesi che in qualche modo io ho sempre fatto? Domanda: a chi avrebbe giovato l'attentato all'Olimpico? Realizzare l'attentato ammazzando i carabinieri nel nostro paese, quando succedono queste tragedie il paese si ricompatta sull'esistente. Noi lo sappiamo come sono fatti gli italiani, normalmente.

PAOLO MONDANI Siamo a gennaio '94, tre mesi dopo ci sarebbero state le elezioni politiche che avrebbero portato Berlusconi a…

ALFONSO SABELLA - EX MAGISTRATO PALERMO …a vincere. Ecco, domanda: Berlusconi avrebbe vinto ugualmente quelle elezioni se fossero morti 50-100 carabinieri all'Olimpico?

PAOLO MONDANI Secondo lei?

ALFONSO SABELLA - EX MAGISTRATO PALERMO Secondo me no.

PAOLO MONDANI Non è un caso allora che Graviano dica o faccia intendere che chi l'ha fatto catturare è Dell'Utri?

ALFONSO SABELLA - EX MAGISTRATO PALERMO Eh vabbè. È possibile.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Parlando con il compagno di detenzione Umberto Adinolfi, Graviano è anche più esplicito su cosa pensa di Berlusconi.

GIUSEPPE GRAVIANO E UMBERTO ADINOLFI NEL CARCERE DI ASCOLI PICENO - INTERCETTAZIONE DEL 19-1-2016

GIUSEPPE GRAVIANO - BOSS MAFIOSO 10 Vuoi sapere... cioè, la mia osservazione su Berlusconi. Giusto? Stiamo parlando quando era lui... da... dal ’70. Questo ha iniziato con i piedi giusti... Nel ’94 lui si è ubriacato, perché lui dice: “ma io non posso dividere quello che ho... con chi mi ha aiutato”. Mi sono spiegato com'è andata?

UMBERTO ADINOLFI - BOSS DI CAMORRA Prese le distanze.

GIUSEPPE GRAVIANO - BOSS MAFIOSO Prese le distanze e ha…ha fatto il traditore. Se avesse messo subito... modificato alcune leggi brutte che c’erano, Dell’Utri non si troverebbe in carcere.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Gaspare Spatuzza, oggi pentito, era un uomo fidato di Giuseppe Graviano e a lui a fine gennaio del '94, il capo confida particolari importantissimi che spiegano cosa c'era in ballo con Berlusconi. Siamo al bar Doney, in via Veneto a Roma.

GASPARE SPATUZZA - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA 05/02/2019 PROCESSO DEPISTAGGIO STRAGE VIA D'AMELIO Siamo entrati in questo bar, con un'espressione, io che sono cresciuto con Giuseppe Graviano, di una felicità immensa. Quindi Giuseppe Graviano mi indica che avevano chiuso tutto e avevamo ottenuto tutto quello che noi cercavamo. In tale circostanza venne a dire che la personalità, quello che aveva gestito un po' tutto era Berlusconi, gli dissi: ma chi quello del Canale Cinque? E lui mi ha detto che era quello del Canale Cinque. E tra cui c'è di mezzo un nostro compaesano: Dell'Utri.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Ora parliamo di un verbale dimenticato. Nel 1996 Francesco Messina era alla Dia di Milano e indagava sulle stragi insieme alla Dia di Firenze, quando firmò un verbale con le rivelazioni di un testimone, Salvatore Baiardo, amico strettissimo dei fratelli Graviano.

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Era un favoreggiatore. Era proprio un manutengolo, uno che li manteneva durante la latitanza e li ha mantenuti per diverso tempo.

PAOLO MONDANI Baiardo le confessa di aver assistito nella sua casa, tra il '91 e il '92, leggo, ad una, due conversazioni telefoniche tra Filippo Graviano e Marcello Dell'Utri.

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Si trattava di interlocuzioni che avevano a che fare sicuramente con investimenti, ai quali erano in particolare il Filippo Graviano che lui riteneva fosse quello più addentro a questa materia… lui sosteneva che…

PAOLO MONDANI La mente finanziaria.

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Sì, ecco PAOLO MONDANI 11 Leggo nella sua informativa che Baiardo le dice anche che aveva compreso che i fratelli Graviano, tramite un commercialista di Palermo, tal Fulvio Lima…

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Esatto PAOLO MONDANI … trasferivano capitali ingenti.

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Sì.

PAOLO MONDANI Proprio a Dell'Utri.

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Sì.

PAOLO MONDANI Così le disse?

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Sì, sì, sì.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Fulvio Lima è un commercialista di Palermo nipote del vecchio boss andreottiano Salvo Lima. Lo cerchiamo ai suoi indirizzi, ma ci dicono che è ormai stabilmente all'estero. Lima era il dominus della società New Trade System, che a metà dagli anni novanta era partner per la raccolta pubblicitaria di Pagine Utili, società allora guidata da Marcello Dell’Utri. Nel 1999 Lima è sotto processo per aver riciclato tre miliardi di lire dei fratelli Graviano. Ma nel 2003 la prescrizione lo salva. E da allora scompare. Incontriamo Salvatore Baiardo che tra il 1992 e il 1994 si occupa della latitanza dei fratelli Graviano. Oggi è libero, dopo aver fatto qualche anno di carcere.

PAOLO MONDANI Senta ma lei ha mai visto i Graviano con Berlusconi e Dell'Utri?

SALVATORE BAIARDO Cosa devo dirle? Qui lo dico e qui lo nego.

PAOLO MONDANI Mi dica sì o no. La verità. Se lei è in grado di dirmi la verità… Sì?

SALVATORE BAIARDO (Annuisce)

PAOLO MONDANI E come colloca questo incontro? Avviene a Milano o Omegna? In zona Omegna.

SALVATORE BAIARDO 12 La prima volta a Milano. Poi più volte qua.

PAOLO MONDANI E dove vi siete visti?

SALVATORE BAIARDO All'Assassino.

PAOLO MONDANI E c'erano Berlusconi e Dell'Utri insieme? Quella volta lei però li ha visti?

SALVATORE BAIARDO (Annuisce)

PAOLO MONDANI E si è fermato a pranzo oppure?

SALVATORE BAIARDO No.

PAOLO MONDANI Sia Filippo che Giuseppe c'erano?

SALVATORE BAIARDO Sì.

PAOLO MONDANI Come lo colloca, in che anno più o meno?

SALVATORE BAIARDO '91. Venivano anche in zona qui addirittura, non a Omegna, ma a Orta.

PAOLO MONDANI Berlusconi veniva a Orta? A incontrare i Graviano… e dove si incontravano? In un ristorante, in un Hotel, a casa di qualcuno?

 SALVATORE BAIARDO Ma anche all'Hotel San Rocco.

PAOLO MONDANI Cioè lei dice che Graviano ha incontrato più di tre volte Berlusconi?

SALVATORE BAIARDO (Annuisce). PAOLO MONDANI Ben di più…

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Da dove spunta Salvatore Baiardo? È l’uomo che ha gestito la latitanza dei Graviano proprio nel periodo stragista. Ecco Giuseppe Graviano dice: io ho incontrato Berlusconi, sono andato con mio cugino e mio nonno materno, quello facoltoso, e ci hanno chiesto 20 miliardi di vecchie lire, noi glieli abbiamo dati. E avevano detto però: dateci il 20 per cento di quello che avrebbe fruttato questo investimento. E Baiardo però parla di più 13 incontri avvenuti a partire dal 1991. I legali di Dell’Utri e quelli di Berlusconi smentiscono, dicono: non ci sono stati mai incontri e del resto 25 anni di indagini lo hanno confermato. Ora, perché l’attenzione si sposta sui Graviano? Perché un collaboratore, un loro uomo di fiducia, Spatuzza, dopo che c’è stato un depistaggio clamoroso, li ha indicati come gli autori delle stragi di Via D’Amelio e delle bombe di Firenze, Roma e Milano, quelle che riguardavano anche il patrimonio artistico del nostro Paese. E che i luoghi sarebbero stati ispirati, secondo quello che dice un altro collaboratore, Riggio, dal professore Marcello Dell’Utri, il più colto tra i bibliofili, come lo ha definito Berlusconi. Del resto anche i magistrati pensano che una mente fine può aver indicato i luoghi da colpire. Pensiamo alle bombe che sono state messe a San Giovanni, a Roma e a San Giorgio al Velabro, i cui nomi dei santi corrispondono a quelli di battesimo di Giorgio Napolitano, allora presidente della Camera e Giovanni Spadolini, allora presidente del Senato. Ecco, quelle bombe avrebbero potuto fare delle pressioni sul Parlamento per far approvare leggi favorevoli a Cosa Nostra. Quelle stesse leggi di cui parla Graviano, intercettato in carcere mentre stigmatizza il comportamento di Silvio Berlusconi. Dice: negli anni Settanta aveva cominciato con il piede giusto, poi ha tradito. Non ha condiviso quello che ha ottenuto con chi lo aveva aiutato. Se avesse approvato le leggi giuste, Dell’Utri non sarebbe stato in carcere. Poi Graviano continua, dice: guardate che c’erano degli imprenditori al Nord che non volevano che le stragi cessassero. E dice: Se cercate i mandanti delle stragi andate a indagare su quello che è stato il mio arresto, che definisce “anormale”. Perché lo definisce anormale? Perché il suo arresto avviene pochi giorni prima di un incontro che era stato fissato con Berlusconi per ratificare gli accordi presi. Questo ovviamente è quello che dice Graviano. E pochi giorni dopo che Berlusconi aveva annunciato la sua scesa in politica. Ecco, secondo i legali invece di Berlusconi, l’avvocato Ghedini, l’indagine della Procura di Firenze non potrà che essere archiviata per insussistenza dei fatti. “Silvio Berlusconi, scrive, non ha mai avuto nessun contatto, neppure indiretto, con Giuseppe Graviano, né con la mafia”. In effetti c’è da chiedersi perché Graviano parla solamente ora? Parla per conto suo o parla anche per conto di Marcello Dell’Utri? Ecco, insomma, e perché il suo uomo di fiducia, Salvatore Baiardo, l’uomo che ha gestito la sua latitanza nel periodo stragista, parla con il nostro Paolo Mondani, gli parla dei finanziamenti e parla anche dell’appoggio al progetto politico di Berlusconi, un appoggio che sarebbe partito già dal febbraio-marzo del 1992. Quando cioè Cosa Nostra decide di eliminare il suo referente di sempre, Salvo Lima.

SALVATORE BAIARDO Sta buttando lo zuccherino Graviano. Questo penso che il più stupido lo abbia capito. Perché non sono i 20 miliardi che ha tirato su con la…cosa, con il cugino… Berlusconi i soldi li ha presi… ma da ben altre fonti… che lui giustamente non tira in ballo suo papà, anzi lo tiene sempre fuori da questi ambienti…

PAOLO MONDANI Michele Graviano… quindi non solo dal nonno, ma anche dal papà…

SALVATORE BAIARDO (Annuisce).

PAOLO MONDANI Lei alla Dia aveva detto che Dell'Utri o Berlusconi avevano vere e proprie imprese con, avevano messo su diciamo così degli affari con…

SALVATORE BAIARDO Rapisarda e Carboni, tramite i Graviano.

PAOLO MONDANI 14 Con i Graviano, con i soldi dei Graviano. E di cosa si occupavano queste imprese?

SALVATORE BAIARDO Costruivano: in Sardegna hanno fatto il ben di Dio.

PAOLO MONDANI In una successiva informativa del 1997 Baiardo le racconta che i Graviano con le rispettive fidanzate avevano alloggiato a Venezia durante i festeggiamenti del Carnevale del 1993, in un appartamento di Riccione e poi a Porto Rotondo prima in una casa e poi a Punta Volpe…

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO La villa è il posto dove lui dice: ho portato la valigia per i fratelli Graviano. Una valigia che avevano lasciato a me.

PAOLO MONDANI A quanti metri stava dalla villa di Berlusconi?

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Diciamo… PAOLO MONDANI 200 metri, 300 metri?

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Sì, nell'ordine di centinaia di metri…

PAOLO MONDANI Loro hanno voluto la villa lì perché c'era Berlusconi a pochi passi o puro caso che avessero la villa lì?

SALVATORE BAIARDO Oramai c'era da stringere il succo. Oramai il partito era già in piedi. Già le prime basi erano state fatte…sì agli inizi...che loro erano qua, febbraio marzo del '92, del nuovo partito, non come dicono i pentiti a fine '93.

PAOLO MONDANI Han lavorato al partito prima… Quindi lui arriva, i Graviano vanno in Sardegna ad agosto del '93 per stringere gli accordi, diciamo. Lei dice. Mi dica.

SALVATORE BAIARDO (Annuisce). E secondo lei cosa vanno a fare, la vacanza la potevano fare anche… hanno i parenti loro in Sardegna, potevano andarsene a Muravera a farsi la vacanza.

PAOLO MONDANI E i Graviano quanto hanno scucito, quanto hanno dato a Dell'Utri per Forza Italia, lei lo ha saputo?

SALVATORE BAIARDO Non lo posso quantificare… Anche perché non è che poi loro dicevano: toh questo è per Forza Italia o questo è… questi sono per voi. E poi loro sapevano cosa ne dovevano fare.

PAOLO MONDANI Ed erano miliardi?

SALVATORE BAIARDO Puff… ecco non lo sto dicendo io, lo ha detto Rapisarda che quando arrivava in ufficio vedeva le valige di soldi…

PAOLO MONDANI Ma lei i soldi li ha visti?

SALVATORE BAIARDO (Annuisce)

PAOLO MONDANI Sì… SALVATORE BAIARDO Sì.

PAOLO MONDANI Questo Baiardo, voglio dire, un bel po' di cose vere…

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Le sapeva.

PAOLO MONDANI Ve le ha raccontate.

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Non c'è dubbio.

PAOLO MONDANI E le sapeva.

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Sì, sì, non c'è dubbio. Tutto quello che lui ha indicato è risultato, come dire, vero, non perché lo ha dichiarato, ma perché c'è stato appunto un lavoro di riscontro.

PAOLO MONDANI Di quelle sue informative perché non si è fatto più nulla?

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO A questa domanda non so darle una risposta. Io questo lo ignoro. In realtà questa, diciamo, informativa che noi dovemmo, volemmo a tutti i costi formalizzare per la, come dire, novità rispetto al quadro investigativo che riguardava le stragi del '93 fu depositata e non è mai pervenuta una delega. P

AOLO MONDANI FUORI CAMPO Un bel mistero. Quel che Baiardo dice sulla latitanza dei Graviano viene puntualmente riscontrato. Restavano da accertare i rapporti Graviano-Berlusconi, ma le indagini si bloccano. Così come nessuno sa spiegare come i Graviano, pur stando al 41 bis all'Ucciardone, siano riusciti a mettere incinta le rispettive mogli.

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE PALERMO C'è da chiedersi come sia possibile che in una struttura di estrema sicurezza, con il 41 bis, con controlli rigorosissimi, sia stato possibile che queste donne abbiano fatto ingresso nel carcere e abbiano potuto consumare un rapporto con i rispettivi mariti.

PAOLO MONDANI Ha visto che Giuseppe e Filippo sono riusciti a mettere incinta le loro rispettive fidanzate-mogli…

SALVATORE BAIARDO Sì, adesso, ma non crediamo alle barzellette…

PAOLO MONDANI …pur stando al 41 bis.

SALVATORE BAIARDO Sì ma non crediamo alle barzellette che è entrata la moglie nella biancheria… PAOLO MONDANI Come è avvenuta secondo lei?

SALVATORE BAIARDO Secondo me…è costato un po' di soldini. Lui ha ancora una speranza.

PAOLO MONDANI Graviano?

SALVATORE BAIARDO Sì.

PAOLO MONDANI Legata a che cosa? SALVATORE BAIARDO Legato che… tirino via sto '41 bis. Che l'ergastolo venga abrogato. Lui facendosi 30 anni di galera, già se ne è fatti 27 quasi. Quella è ancora l'unica sua speranza. PAOLO MONDANI Le sembra possibile? SALVATORE BAIARDO Non è impossibile.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Siamo a maggio del 1992. Pochi giorni prima della strage di Capaci. Giovanni Paparcuri era lo stretto collaboratore di Paolo Borsellino e racconta che preparando l'intervista dei due giornalisti Jean Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi che stavano realizzando un'inchiesta sulle tv berlusconiane in Francia, Borsellino entrò nella sua stanza con una richiesta.

GIOVANNI PAPARCURI - COLLABORATORE PAOLO BORSELLINO Spunta di là, mi guarda, ancora la strage di Capaci non c'era. Dice: Giovanni ma c'hai qualcosa su Berlusconi? Io francamente cado dalle nuvole perché questo Berlusconi io, fino a quel momento, non l'ho mai sentito.

PAOLO MONDANI Secondo lei a Borsellino la curiosità su Berlusconi chi gliela fa venire?

GIOVANNI PAPARCURI - COLLABORATORE PAOLO BORSELLINO Secondo me gliela fa venire il giudice Falcone. Il dottore Falcone così lui l'aveva appuntato qualcosa su Berlusconi su questi fogli che ho ritrovato nel 2017… Questo scrive esattamente: Cinà in buoni rapporti con Berlusconi, Berlusconi dà venti milioni ai Grado e anche a Vittorio Mangano.

PAOLO BORSELLINO - INTERVISTA DI JEAN PIERRE MOSCARDO E FABRIZIO CALVI DEL 21 MAGGIO 1992 Dall'inizio degli anni '70 in poi Cosa Nostra cominciò a diventare una impresa anch'essa. Un'impresa nel senso che attraverso l'inserimento sempre più notevole che ad un certo punto diventò addirittura monopolistico nel traffico delle sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enormi di capitali. Una massa enorme di capitali dei quali naturalmente cercò lo sbocco.

FABRIZIO CALVI - GIORNALISTA - CANAL+ Lei mi dice che è normale che Cosa Nostra si interessa a Berlusconi?

PAOLO BORSELLINO - INTERVISTA DI JEAN PIERRE MOSCARDO E FABRIZIO CALVI DEL 21 MAGGIO 1992 È normale il fatto che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerca gli strumenti per potere questo denaro impiegare. Sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quest’intervista fu registrata da due giornalisti francesi Calvi e Moscardo, 48 ore prima della strage di Capaci. Ecco, i due erano andati a cercare informazioni su Berlusconi imprenditore e i suoi rapporti con la mafia perché si era allargato in Francia con l’esperienza de La Cinq, che sarebbe naufragata qualche settimana addirittura dopo la registrazione di quella intervista. E l’inchiesta doveva andare in onda sul canale competitor più feroce di Berlusconi, Canal+, ma misteriosamente non andò mai in onda. Rispuntò quando Berlusconi era sceso ormai in politica nel 1994 e fu pubblicato sull’Espresso qualche brano di questa intervista. Il video invece fu trasmesso otto anni dopo le stragi da RaiNews24, quando il sottoscritto l’aveva ritrovato negli archivi di famiglia del giudice grazie alla collaborazione della figlia Fiammetta. Ma quanto fosse scomoda e spaventasse quella intervista lo avevamo capito con il mio direttore Roberto Morrione. Perché quel giudice che sarebbe morto da lì a poco per lo Stato aveva delineato la strategia di Cosa Nostra. Una Cosa Nostra che si era fatta impresa e che aveva l’esigenza di reinvestire i capitali enormi maturati con la droga, con il traffico di stupefacenti, al Nord, alla ricerca di imprenditori. E lì aveva indicato come testa, come terminale, Vittorio Mangano, lo stalliere, che era nella villa di Arcore di Silvio Berlusconi. Uomo d’onore era stato indicato Vittorio Mangano dai pentiti Buscetta e Contorno e poi ovviamente quella intervista che stavamo trasmettendo nel settembre del 2000 preoccupava chi ad Arcore lo aveva portato, Marcello Dell’Utri. Perché si era alla vigilia della richiesta di rinvio a giudizio nei suoi confronti per concorso esterno alla mafia, un procedimento per il quale sarà poi condannato definitivamente per il suo ruolo di cerniera tra i clan e Silvio Berlusconi. Anche Berlusconi era preoccupato, perché si era alla vigilia delle elezioni del 18 2001 e, quando noi mandammo in onda quella intervista, cominciò una campagna di delegittimazione, soprattutto dai media che facevano riferimento a Berlusconi. Siccome non si poteva dire che Borsellino fosse una toga rossa o che parlasse per motivi politici perché nel 1992, nel maggio 1992, ancora non era stata ufficializzata l’ascesa in politica di Dell’Utri e Berlusconi, allora ci accusarono di manipolazione. I tribunali stabilirono che né RaiNews né il sottoscritto hanno mai manipolato quella intervista, semmai i tagli li avevano fatti i francesi e comunque il senso di quell’intervista non cambiava. Per questo spaventava Berlusconi e Dell’Utri. E spaventa ancora di più se si va a vedere quegli appunti ritrovati nel 2017, scritti a mano da Falcone, dove si faceva riferimento a contatti tra Berlusconi, Mangano, Grado, che era poi il braccio destro di Bontate, e Cinà, e di pagamenti effettuati. Ora spaventa questa intervista anche alla luce della dichiarazione di Baiardo che dice che proprio dal marzo del 1992 si stava appoggiando il progetto politico di Forza Italia. Cosa Nostra sentiva l’esigenza di fare un ulteriore salto di qualità: da impresa voleva trasformarsi in Stato.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO 1969, Palermo. Durante un temporale notturno viene rubata la Natività del Caravaggio all’oratorio di San Lorenzo. Quella che vediamo qui è una copia. È la più grave ferita inferta al patrimonio artistico italiano. Don Tano Badalamenti vendette il quadro a un mercante svizzero. Scaricato chissà dove per soldi. Vent’anni dopo, è il 1990, Riina decide di scaricare i referenti democristiani e socialisti. E insieme a vecchi estremisti di destra e a massoni piduisti fonda piccoli movimenti indipendentisti in tutto il sud. Ai magistrati lo racconta il pentito Leonardo Messina.

ROBERTO TARTAGLIA – EX PM PROCESSO TRATTATIVA STATO-MAFIA Perché dice che si erano svolte alla fine del ‘91 delle riunioni di commissione regionale e provinciale di Cosa Nostra nelle campagne di Enna. Ebbene in quelle riunioni - dice Messina - si è parlato per la prima volta di una cosa di cui lui stesso non aveva mai sentito parlare: della necessità da parte di Cosa Nostra di farsi Stato. All’improvviso, nel ‘90-’91 si appassionano di meridionalismo e di autonomismo e fondano una galassia di Leghe meridionali, di Leghe del Sud, di Leghe indipendentiste che portano avanti il progetto di separazione del Sud dal resto dell’Italia.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il primo di questi gruppi politici è la Lega meridionale.

TESTIMONIANZA DOMENICO FARINACCI - COMMISSARIO DIA PALERMO – 30/04/1997 – PROCESSO ANDREOTTI La Lega meridionale sorge nel giugno del 1989 a Roma.

ROBERTO SCARPINATO - SOSTITUTO PROCURATORE PALERMO Senta nel programma di questa Lega meridionale vi era anche qualcosa che riguardava la mafia?

TESTIMONIANZA DOMENICO FARINACCI - COMMISSARIO DIA PALERMO – 30/04/1997 – PROCESSO ANDREOTTI Risulta l’intento di abrogare la legge Rognoni-La Torre. Il 6 aprile '91 a Palermo all’hotel Jolly viene ribadito il discorso della candidatura del Gelli Licio e di Ciancimino e viene proposta anche la candidatura di Michele Greco.

ROBERTO SCARPINATO - SOSTITUTO PROCURATORE PALERMO Appartenente a Cosa Nostra…

TESTIMONIANZA DOMENICO FARINACCI - COMMISSARIO DIA PALERMO Sì.

PAOLO MONDANI Licio Gelli, Vito Ciancimino, Michele Greco sono già una carta d’identità. Ma si scopre che dietro di loro c’è un manovratore: Gianfranco Miglio, ideologo della Lega Nord.

GIANFRANCO MIGLIO Oggi la Sicilia dorme. E invece va svegliata.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Ce lo rivela il suo braccio destro, Gianmario Ferramonti.

GIORGIO MOTTOLA Qual è stato il ruolo di Gianfranco Miglio nella nascita delle Leghe centro-meridionali?

GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD Gianfranco Miglio era chiaramente l’ideologo.

GIORGIO MOTTOLA E lei che ruolo aveva in questa nascita delle Leghe?

GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD Beh, io ero il suo… diciamo... galoppino.

GIORGIO MOTTOLA In questo progetto di nascita delle Leghe meridionali qual è stato il ruolo di Andreotti?

GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD Il nostro uomo era legato ad Andreotti e anche a Gelli. GIORGIO MOTTOLA Per nostro uomo intende Miglio?

 GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD Miglio, naturalmente.

GIORGIO MOTTOLA Legato ad Andreotti e a Gelli?

GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD Sì, però io mi considero un gelliano.

GIORGIO MOTTOLA Lei si considera un gelliano, addirittura?

GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD Sì, son stato amico di Gelli anche gli ultimi anni della sua vita. Gli ultimi quattro capodanni li ho passati a villa Wanda, assieme a lui.

GIORGIO MOTTOLA Ha avuto in qualche modo un ruolo nella nascita alla fine degli anni Ottanta, nel consolidamento, della Lega?

GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD 20 Diciamo che era un padre putativo.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Oltre Gelli, la Lega aveva un altro padre putativo: l’italoamericano Enzo De Chiara. Nel 1994 il leghista Roberto Maroni entra nel governo Berlusconi come ministro dell'Interno. E a Roma c'è una riunione riservata.

GIORGIO MOTTOLA Chi è che organizza quella prima riunione tra Bossi, lei, Enzo De Chiara, Maroni e Parisi?

GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD Io l'ho organizzata. Chi la doveva organizzare?

GIORGIO MOTTOLA E con quale obiettivo?

GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD Di far conoscere a Parisi Maroni, perché Parisi era il capo della Polizia, senza un suo placet agli interni non poteva mica andare nessuno.

GIORGIO MOTTOLA Enzo De Chiara invece che c'entrava?

GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD Enzo De Chiara ragazzi era l'uomo che ha fatto avere il placet della amministrazione americana alla nascita del governo Berlusconi.

GIORGIO MOTTOLA Enzo De Chiara esattamente chi è?

GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD Enzo De Chiara è un personaggio straordinario…

GIORGIO MOTTOLA Un lobbista che è vicino, membro della massoneria americana…

GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD Esatto. Vicino ai servizi americani, vicino ai repubblicani, ma anche a Clinton, guarda che situazione incredibile.

GIORGIO MOTTOLA Quali erano i rapporti tra Enzo De Chiara e Licio Gelli?

GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD Erano amici, si sentivano ogni tanto al telefonò però… forse uno era geloso dell'altro.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Al processo calabrese sulla ‘ndrangheta che fu a fianco di Cosa Nostra nel periodo stragista, il magistrato Lombardo definisce il ruolo di Gelli nel leghismo meridionale.

PROCESSO ‘NDRANGHETA STRAGISTA - 10 LUGLIO 2020 GIUSEPPE LOMBARDO - PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA Licio Gelli era il perno. Lui era il perno. Perché attraverso la P2 lui controllava i Servizi. Attraverso la Santa e la Mamma Santissima controllava la ‘ndrangheta. Attraverso le componenti apicali di Cosa Nostra, come ci raccontano Pennino, Messina, Avola, Malvagna, controllava Cosa nostra.

GIORGIO MOTTOLA Di questo movimento delle Leghe che spunta all’inizio degli anni Novanta fanno parte anche delle figure molto particolari, terroristi di destra come Stefano delle Chiaie e addirittura persone che in qualche modo erano legate a Cosa nostra, Vito Ciancimino e Mandalari soprattutto, il commercialista di Totò Riina.

GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD Beh, essere lontani da Cosa Nostra se si agisce in Sicilia è molto difficile.

GIORGIO MOTTOLA All’epoca in qualche modo Miglio teorizzò la divisione dell’Italia e di lasciare il Sud nelle mani della mafia.

GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD Beh, nelle mani di chi poteva comandare… e probabilmente avrebbe potuto comandare anche la mafia.

PAOLO MONDANI Ascoltiamo con quanta nostalgia Giuseppe Graviano parla di Sicilia Libera, movimento fondato da Cosa Nostra che confluirà in Forza Italia.

INTERCETTAZIONE DEL 22 GENNAIO 2016 GIUSEPPE GRAVIANO A Palermo, non so se l’hai mai sentito dire mai era nato un partito Sicilia Libera in Europa. L’hai sentito dire mai? Che cosa dovevamo fare? La Sicilia doveva essere autonoma in tutto.

UMBERTO ADINOLFI Una specie di Stato a sé no? GIUSEPPE GRAVIANO Benissimo. Dopo il mio arresto, questo è tutto processuale io ti dico perché è processuale, l’hanno fatto fondere con Forza Italia. Perché se lui, perché saliva perché poi Forza Italia tutti i voti li prese grazie a Sicilia Libera in Europa. Perché se tutta la Sicilia diventava autonoma, diventava un paradiso, no solo fiscale… diventava un paradiso su tutto. Su tutto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Graviano ricorda con nostalgia “Sicilia Libera” che era nata quando Riina aveva deciso di liberarsi dei vecchi referenti politici perché erano inaffidabili. Non riuscivano a garantirgli più l’impunità. L’aveva scoperto a proprie spese quando gli piove sul groppone l’ergastolo in seguito al maxi-processo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino dove furono portati per la prima volta a giudizio 475 mafiosi. Ora per dare un segnale alla DC, Riina ordina l’uccisione di Salvo Lima. Una DC che era già in difficolta, perché con il muro di Berlino era anche caduto anche il suo vecchio nemico. Poi cerca di agganciare anche i socialisti, ma sono in difficoltà perché grazie a Mani Pulite piovono decine e decine di avvisi di garanzia. E Cosa Nostra ha bisogno di stabilità, di fermare l’emorragia che si era aperta all’interno dell’organizzazione a causa dei pentiti. Vuole 22 fermare la legge sulla confisca dei beni, la Pio la Torre, poi vuole abolire il carcere duro, il 41 bis. E così sente l’esigenza di farsi Stato. Nascono tanti piccoli movimenti indipendentisti, dentro ci si infilano gli alleati di sempre: i piduisti, Licio Gelli, ci si mette dentro anche Michele Greco, detto ‘u papa, l’uomo che riusciva a mediare tra le famiglie mafiose. Insomma, il link di tutto questo poi è Gianmario Ferramonti, galoppino di Miglio, così si definisce lui stesso, “gelliano”. E Miglio è anche amico di Andreotti. Ecco tutti questi movimenti, però, rientrano nel momento in cui scende in campo Silvio Berlusconi, un altro ex-piduista, che porta però in dote Marcello Dell’Utri,“il cucchiaio per tutte le pentole” - così lo definisce Grado, braccio destro del Boss Bontade - proprio per la capacità di Dell’Utri di mettere insieme tutte le famiglie mafiose. Non si può prescindere dalla mafia se vuoi governare in Sicilia, dice Gianmario Ferramonti, che è l’organizzatore anche un incontro riservato che serve per benedire i ministri del nascente governo di Berlusconi. Serve anche il placet, dice, di Enzo de Chiara. Chi è Enzo De Chiara? È un italoamericano che è legato soprattutto alla destra repubblicana, ma è anche uomo vicino alla Cia, ma è anche massone ed è anche amico di Licio Gelli. Ma allor a che titolo De Chiara deve benedire i ministri di un nascente governo italiano? De Chiara e Ferramonti sono finiti in un’inchiesta giudiziaria che è nata dopo le stragi. Si è partiti da un traffico di titoli falsi, fino ad arrivare a scoprire una loggia massonica, una piccola loggia massonica a cui avrebbe fatto riferimento Gianmario Ferramonti. Però, secondo i magistrati, era il coperchio di una super loggia massonica dove si erano infilati, si erano rifugiati 3000 nomi che erano fuggiti dalla inchiesta della P2. Dai dialoghi registrati emerge che questa lista era stata conservata per un po’ di tempo all’interno della loggia Colosseum, a Roma, dove dentro c’erano agenti della Cia e poi era stata trasferita nella base Nato di Ramstein. Emerge anche un ruolo di Enzo De Chiara. Secondo le testimonianze, Enzo De Chiara, che ufficialmente faceva il ristoratore a Washington, veniva chiamato in Italia quando c’era da realizzare, come consulente retribuito, un’opera importante. In uno dei suoi viaggi in Italia, la magistratura gli sequestra un’agendina - che Report ha recuperato - all’interno della quale ci sono riferimenti di tutti i politici più importanti italiani: la maggior parte di destra, di massoni, di imprenditori, di servizi di sicurezza e anche di “ufficiali pagatori” di questi imprenditori strategici per il paese. Emerge anche, Enzo De Chiara, nel momento in cui era finito sotto indagine, viene avvisato di avere il telefono sotto intercettazione da un uomo delle forze dell’ordine che era presente a Palermo negli anni caldi delle stragi e che poi era andato a testimoniare a favore di Bruno Contrada. In tutto questo sia De Chiara che Ferramonti furono accusati e indagati per aver messo in piedi una rete di spionaggio internazionale, ma poi le accuse furono archiviate. Tutto questo è avvenuto dopo che era stato messo in piedi uno dei più grandi depistaggi della storia d’Italia. Perché dopo aver ucciso Falcone e Borsellino bisognava cancellare anche la loro memoria investigativa per evitare che continuassero a parlare anche da morti.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO 23 maggio 1992. Muoiono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e tre uomini della scorta.

PAOLO MONDANI Poco dopo la morte di Falcone a lei viene chiesto di fare una verifica sui suoi computer che stanno presso il ministero di Grazia e Giustizia.

GIOACCHINO GENCHI - AVVOCATO - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO Sì. Al primo approccio con questi computer noto intanto dalla cloche di sistema che i computer erano stati accesi in epoca successiva al 23 maggio.

PAOLO MONDANI Manomessi? Può dir così, manomessi?

GIOACCHINO GENCHI - AVVOCATO - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO Anche di più di manomessi.

PAOLO MONDANI Cioè?

GIOACCHINO GENCHI - AVVOCATO - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO Sono stati sicuramente bonificati, sono stati tolti dei file.

PAOLO MONDANI Lei analizza anche i databank di Falcone e scopre che anche loro erano stati manomessi, cancellati.

GIOACCHINO GENCHI - AVVOCATO - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO Sì Falcone aveva due databank, aveva un Casio SF9000 e uno Sharp. Il Casio era completamente cancellato. Non solo, nel Casio mancava la memoria la scheda di memoria che Falcone aveva e utilizzava. Ne sono certo perché gliel’avevo regalata io. Questa scheda di memoria non si è mai trovata. Quel Casio trovato cancellato ci fu detto che Falcone non lo utilizzava più perché gli si era smagnetizzato in aeroporto. Cosa assolutamente non vera perché in aeroporto non si smagnetizza nulla quando si passa al metal-detector. E poi Falcone non è mai passato sotto nessun metal-detector.

PAOLO MONDANI Giorgio Graziani invece è la persona che ai mafiosi procura i telefonini.

GIOACCHINO GENCHI - AVVOCATO - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO Esatto. Giorgio Graziani è legato a ambienti dei servizi è emerso, al Sisde, l’allora Servizio per la Sicurezza democratica.

PAOLO MONDANI Nel marzo del 1993 riuscita ad arrestare due componenti del gruppo di fuoco che fa saltare Falcone, Antonino Gioè e Giacchino La Barbera. Sui cellulari di La Barbera e Gioè trovate due numeri. Attivati da una sede particolare dell’allora Sip di Roma.

GIOACCHINO GENCHI - AVVOCATO - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO Sì, acquisiti i tabulati ho chiesto alla Sip, all’epoca, di fornirmi gli intestatari. La Sip mi risponde: questi numeri non esistono. Come non esistono? Questi numeri non sono mai stati attivati. Come non sono stati attivati? Mi avete fornito i tabulati di questi numeri e mi dite che non sono stati attivati. Da accertamenti abbiamo visto che quei numeri erano stati attivati in una sede particolare della Sip di Roma, Roma Nord, all’interno della quale c’era un insediamento dei servizi di sicurezza.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Per 57 giorni Paolo Borsellino investiga sulla morte dell’amico senza mai essere sentito a verbale dalla procura di Caltanissetta, diretta da Giovanni Tinebra, che ufficialmente indagava sulla strage. Cosa scopre Borsellino in quelle settimane?

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE PALERMO Nell’ultima fase lui si muove nell’ambito delle causali tipiche di Cosa nostra. Poi c’è una seconda fase in cui si rende conto che c’è qualcosa che va aldilà e che lo turba profon- 24 damente. Questa seconda fase nasce quando lui il 30 giugno del 1992 interroga Leonardo Messina e quando il 1 luglio del 1992 interroga Mutolo. Mutolo gli dirà fuori verbale che gli parlerà dei rapporti fra Cosa nostra e uomini dei Servizi.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO 6 agosto 2013. Totò Riina viene intercettato con il suo compagno di detenzione, Alberto Lo Russo. E parla della strage di via D'Amelio.

INTERCETTAZIONE DEL 6 AGOSTO 2013 - CARCERE OPERA MILANO SALVATORE RIINA C’è stata guerra e pace… guerra e pace. Salvatore Riina, questo è l’autore.

ALBERTO LO RUSSO È fatto. È fatto proprio da portarlo nei libri di storia. Talmente, talmente che è fatta bene la cosa.

SALVATORE RIINA Ma non era stato, non era stato studiato da mesi. Studiato alla giornata.

ROBERTO TARTAGLIA – EX PM PROCESSO TRATTATIVA STATO-MAFIA Fu una cosa decisa alla giornata. E poi aggiunge: arrivò quello. E disse: subito, subito. Vabbè ci penso io. Questi sono i tre passaggi. E sono tre passaggi importanti perché A: Salvatore Riina fa capire che c’era una impellenza nella necessità di uccidere Paolo Borsellino. B: si fa riferimento ad un quello, a quello che la sentenza di primo grado indica emblematicamente come ignoto interlocutore di Salvatore Riina. Ed è probabilmente, questa figura senza nome, la stessa figura di cui parla Cancemi quando dice in quella riunione Riina aveva premura per uccidere Paolo Borsellino, ed era come se si fosse impegnato con qualcuno.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO In realtà per Cosa nostra la strage non ha senso. Attenzione alle date. Il 19 luglio muore Paolo Borsellino e il 7 agosto successivo sarebbe stata discussa la conversione in legge del decreto sul 41 bis. In Parlamento si era formata una maggioranza garantista che l’avrebbe cancellato. Bastava aspettare due settimane e Cosa nostra avrebbe ottenuto un risultato storico. E invece fa la strage e il Parlamento travolto dall’onda emotiva approva il 41 bis. Ma allora perché quella fretta di uccidere Borsellino?

NINO DI MATTEO - MAGISTRATO PROCESSO TRATTATIVA - MEMBRO CSM Proprio in quel periodo era iniziata la trattativa tra i carabinieri e Riina, intermediata da Ciancimino. Ci sono molti elementi da approfondire ulteriormente ma che fanno ritenere che Paolo Borsellino avesse iniziato a capire quello che stava accadendo. E da questo punto di vista si possono spiegare anche le sue clamorose esternazioni fatte quattro giorni prima della strage di via d’Amelio alla moglie, signora Agnese, nel momento in cui Paolo Borsellino parlò in termini estremamente negativi e con un atteggiamento che la signora Agnese definisce sconvolto, del suo ex amico, generale Subranni, il capo del Ros adesso condannato in primo grado anche per la trattativa.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Borsellino scopre che i carabinieri stavano trattando con la mafia e non ci sta. Di qui la fretta di farlo fuori. Il pentito Gaspare Spatuzza racconta un particolare inquietante, entra in un garage e nota uno sconosciuto che assiste al caricamento dell’esplosivo sulla Fiat 126 che salterà in via d’Amelio, lo sconosciuto è un uomo dello Stato?

PROCESSO PER IL DEPISTAGGIO STRAGE VIA D’AMELIO - UDIENZA DEL 5 FEBBRAIO 2019 GASPARE SPATUZZA - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Allungo la visuale e oltre a Tinnirello c’è una persona, più in fondo rispetto a Tinnirello nel garage.

STEFANO LUCIANI - PUBBLICO MINISTERO CALTANISSETTA Questa persona prima di quel momento tanto in relazione alla fase esecutiva della strage di via d’Amelio, quanto più in generale nelle dinamiche criminali che lei aveva gestito all’interno del mandamento di Brancaccio, l’aveva mai vista?

GASPARE SPATUZZA - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA No mai vista. Perché altrimenti non passava inosservata.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Poche ore dopo la strage il procuratore di Caltanissetta, Tinebra, chiede a Bruno Contrada e al Sisde, il servizio segreto civile, di contribuire alle indagini. Pur sapendo che i servizi non possono svolgere compiti di polizia giudiziaria.

PAOLO MONDANI Come Sisde per Tinebra realizzate tre informative, la seconda indica dove i mafiosi avevano nascosto l’auto rubata riempita di esplosivo che sarebbe servita di lì a poco per la strage.

BRUNO CONTRADA - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO - EX DIRIGENTE SISDE Ma questo non è che glielo riferisco io a Tinebra. Glielo riferisce il centro Sisde. Qualcuno del centro Sisde.

PAOLO MONDANI Perché quella seconda nota è come se mettesse Tinebra sulla cattiva strada del pentito Scarantino che diventa il più grande depistaggio, come qualcuno ha detto, della storia della Repubblica.

BRUNO CONTRADA - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO - EX DIRIGENTE SISDE Evidentemente questa notizia, siccome il centro Sisde a Palermo non aveva un uomo capace di assumere una informazione sulla mafia perché nessuno degli appartenenti al centro Sisde di Palermo aveva svolto attività di polizia contro la mafia, l’avevano assunta dagli organi di polizia. Se la fanno propria e ne fanno oggetto di una informativa.

PAOLO MONDANI Una nota del Sisde?

BRUNO CONTRADA - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO - EX DIRIGENTE SISDE Ed è quindi una specie di millanteria.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La millanteria del Sisde dà il via al più grande depistaggio della storia al quale contribuisce l’allora capo della squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, che dirigeva le indagini.

PAOLO MONDANI Lei ad un certo punto a maggio 1993 durante le indagini sulla strage Borsellino lascia il gruppo che si sta occupando delle stragi, il gruppo Falcone-Borsellino, e litiga violentemente con il capo della Mobile, Arnaldo La Barbera. Che cosa vi dite? Che succede?

GIOACCHINO GENCHI - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO Sostanzialmente il dissidio è sul fermo di Scotto che La Barbera vuole fare per chiudere l’indagine. Scotto era il punto di partenza dell'indagine non era il punto di arrivo. PAOLO MONDANI Scotto è quello che realizza l’intercettazione abusiva sul telefono della famiglia Borsellino per capire quando il giudice sarebbe arrivato a casa. Lei dice a La Barbera: non lo arrestiamo subito, seguiamolo, andiamo a vedere con chi parla, per capire chi ha intorno.

GIOACCHINO GENCHI - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO Solo seguendo Scotto noi avremmo potuto alzare il livello delle investigazioni.

PAOLO MONDANI Perché La Barbera, voleva… come dire, ha voluto in qualche modo bruciare quella pista?

GIOACCHINO GENCHI - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO Beh è chiarissimo. La Barbera torna da Roma dopo aver parlato con l’allora capo della Criminalpol, prefetto Rossi: "dobbiamo chiudere. Io divento Questore, tu ti prendi una promozione per merito straordinario e ce ne andiamo dove vogliamo". Io ho detto no, io non ho bisogno di promozioni.

PAOLO MONDANI Ma diciamo in quei momenti si stava già costruendo il depistaggio del falso pentito Scarantino che racconterà….

GIOACCHINO GENCHI - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO La principale intenzione era quella di non trovare i veri colpevoli. Questo è l’aspetto inquietante, se vogliamo eversivo di quello che è accaduto in quel depistaggio che dovrebbe farci riflettere.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Perché spunta il falso pentito Vincenzo Scarantino? Per escludere ogni sospetto sui mandanti esterni della strage, così scrive la commissione siciliana antimafia. Ma al depistaggio non bastò Scarantino. Ecco le immagini pochi minuti dopo la strage. L’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, poi finito sotto indagine per il furto dell’agenda rossa e assolto per non aver commesso il fatto, mentre sta portando via la borsa di Paolo Borsellino.

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE PALERMO Non bastava uccidere Paolo Borsellino. Perché se Paolo Borsellino fosse morto ma fosse stata recuperata l’agenda rossa dove aveva annotato tutto la sua morte sarebbe stata inutile perché avrebbe continuato a parlare tramite quello che aveva scritto e da qui l’esigenza assoluta di recuperare quella agenda rossa. Ed è impressionante la lettura della motivazione della sentenza Borsellino quater dove si descrive una scena veramente allucinante, cioè prima ancora che arrivi la polizia, che ancora in quel momento non sa che cosa è successo, sul luogo ci sono gli uomini dei servizi segreti - come dicono gli stessi agenti della polizia - che si disinteressano completamente dei feriti, della strage, e che sono tutti intorno alla macchina di Paolo Borsellino ancora in fiamme, alla ricerca della sua borsa e dell’agenda rossa che infatti non verrà trovata. 27 PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Eppure c’è chi sa dov’è finita l’agenda rossa di Paolo Borsellino. Si tratta di Salvatore Baiardo, il favoreggiatore della latitanza dei fratelli Graviano.

PAOLO MONDANI Dove sta l’agenda rossa?

SALVATORE BAIARDO In più mani.

 PAOLO MONDANI Che vuol dire?

SALVATORE BAIARDO Come che vuol dire?

PAOLO MONDANI Me lo spieghi.

SALVATORE BAIARDO In più mani. Non solo come si presume Graviano e Messina Denaro. Quell’agenda interessava anche ad altre persone.

PAOLO MONDANI Ai servizi lei vuol dire, no?

SALVATORE BAIARDO Non solo. C’è stato un grosso incontro per quell’agenda rossa. Un grosso incontro.

PAOLO MONDANI Dov’è stato questo incontro?

SALVATORE BAIARDO A Orta.

PAOLO MONDANI Lei sa dov’è l’agenda rossa? Sì o no?

SALVATORE BAIARDO C’è più di una copia in giro.

PAOLO MONDANI Graviano l’ha vista?

SALVATORE BAIARDO Graviano l’ha avuta.

PAOLO MONDANI Ha avuto l’agenda di Borsellino, l’agenda rossa?

SALVATORE BAIARDO Eh sì.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Matteo Messina Denaro e Graviano potrebbero avere l’agenda rossa di Borsellino, ma anche altri. E Baiardo ci ha fatto i nomi in maniera riservata. È come se dicesse: l'agenda rossa c'è e potrebbe essere pubblicata. Tu Stato hai le spalle talmente larghe da sopportare la verità? Ma la chiave di interpretazione potrebbe essere anche un’altra: tu, Stato deviato, se temi che vengano pubblicati i contenuti di quell’agenda rossa saresti disponibile a concedere un po’ di libertà a Graviano? C’è l’assoluto mistero sui contenuti dell’agenda rossa, su quello che Borsellino aveva scritto. Quello che è certo è che era uscito turbato dagli incontri con i collaboratori di giustizia - dopo la strage di Capaci - Leonardo Messina e Mutolo. Mutolo gli aveva anche confidato, fuori verbale, i rapporti tra Cosa Nostra e i servizi di sicurezza. E poi probabilmente Borsellino aveva capito che in quel momento c’era una trattativa in atto a quella aperta dal colonnello del Ros Mori con Riina, ed era fortemente contrario. Ecco, sono passati 28 processi sulle stragi, il tredicesimo su via D’Amelio, e ancora non si è fatta chiarezza sul ruolo e la presenza dei servizi di sicurezza sui luoghi delle stragi. Solo dopo la morte di Arnaldo La Barbera, il capo della squadra mobile di Palermo, si è capito e si è saputo che lui faceva parte dei servizi di sicurezza. Nome in codice: Rutilius. Secondo i magistrati di Caltanissetta avrebbe avuto un ruolo nella scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino. Ora di Rutilius ha anche parlato il pentito Francesco Di Carlo, narcotrafficante rifugiato a Londra. È stato accusato e poi prosciolto della morte del banchiere Calvi. È diventato il testimone chiave del processo Dell’Utri perché ha testimoniato dell’incontro tra Bontade e Berlusconi del 1974 a Milano. È morto di covid pochi mesi fa, ma prima ha raccontato al nostro Giorgio Mottola una parte di una trattativa avvenuta nell’88 dove si è presentato nel carcere, a Londra, Arnaldo La Barbera con un uomo dei servizi. Chiedevano di spaventare Falcone già nell’88. Volevano che se ne andasse via dalla Sicilia e chiedevano a Di Carlo di far intervenire osa nostra. Chiesto e fatto. Sullo scoglio della villa estiva di Falcone a l’Addaura è stato depositato un borsone pieno di esplosivo.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Gibellina 1968. Valle del Belice. Trecento morti e 70mila sfollati. Dopo il terremoto, l’artista Alberto Burri lavorò a una enorme gettata di cemento sulle macerie. Il cretto è la memoria della ferita. Imponente e bianchissimo. Sappiamo tutto di quella tragedia e così onoriamo i morti. Ma non possiamo farlo delle stragi di mafia di quasi trent’anni fa. Non conosciamo tutti i mandanti. Soprattutto quelli nascosti nello Stato. Lo scorso aprile il vecchio boss Francesco Di Carlo è morto di Covid. E poco prima ci aveva raccontato di una trattativa fra servizi segreti e mafia per colpire Falcone già nel 1988.

FRANCESCO DI CARLO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Siamo fine 1988, io mi trovo all’università inglese. Io la chiamo università.

GIORGIO MOTTOLA Intende il carcere…

FRANCESCO DI CARLO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Mi vengono a dire che c'erano tre amici che mi volevano parlare. Uno che poi si presenta Giovanni. Mi porta i saluti di una persona che conoscevo, che sapevo che era nei servizi, militari. Insomma, fa tutto il romanzo di che cosa ci interessava. Perché Falcone voleva fare la Dia che ai tempi faceva tremare. Era come l’Fbi americana. "Noi vogliamo cercare che il governo ci dà una promozione, lo porta in Europa, a fare altre cose. E toglierlo dalla Sicilia, toglierlo dall’Italia. Vogliamo una garanzia alle spalle perché dobbiamo fare tante cose in Sicilia".

GIORGIO MOTTOLA 29 Giovanni viene a chiedere a lei l’aiuto di Cosa nostra per fare in modo che Falcone venga allontanato dalla Sicilia.

FRANCESCO DI CARLO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Lo dice Riina sentendo che si poteva andare nel processo d’Appello e assolvere. Potevano fare tante cose per i processi e mandare via Falcone che aveva rovinato per lui Cosa nostra. Accetta.

GIORGIO MOTTOLA Lei sta parlando dell'attentato dell'Addaura? C'è stato un ruolo dei servizi segreti nell'attentato contro Falcone?

FRANCESCO DI CARLO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA L'hanno voluto. Ma non era per ucciderlo. Era un attentato per potere fare pressione a farlo trasferire.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Successivamente Francesco Di Carlo riconoscerà uno dei tre uomini dei Servizi segreti che gli fecero visita.

FRANCESCO DI CARLO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Un giorno sul giornale vedo la fotografia del terzo e vedo chi era, Capo della Squadra di Palermo dottore La Barbera.

GIORGIO MOTTOLA Arnaldo La Barbera?

FRANCESCO DI CARLO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Arnaldo La Barbera. Dopo si scopre che era nel servizio segreto, faceva il doppio gioco.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Di Carlo mette a disposizione dei servizi segreti suo cugino Nino Gioè che poi farà parte del gruppo di fuoco della strage di Capaci ed è in contatto con Paolo Bellini, infiltrato dal Ros del colonnello Mori, che tratterà lo scambio di opere d'arte con gli arresti domiciliari per alcuni boss, lo stesso Bellini che oggi è indagato per la strage di Bologna. Gioè nel marzo del 1993 verrà arrestato e…

FRANCESCO DI CARLO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA I servizi ne fanno un’altra. Fanno ammazzare dentro il carcere a Nino Gioè, suicidare.

GIORGIO MOTTOLA E perché i servizi volevano morto Nino Gioè?

FRANCESCO DI CARLO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Perché era uno che sapeva.

GIORGIO MOTTOLA Nino Gioè era al corrente di tutti i dettagli di questa trattativa tra servizi segreti...

FRANCESCO DI CARLO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Trattativa. L’aveva messo al corrente sia Totò Riina perché era l’unica persona che poteva capirne di qualche cosa, Nino Gioè.

GIORGIO MOTTOLA 30 E i Servizi Segreti avevano paura che Nino Gioè parlasse in carcere.

FRANCESCO DI CARLO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Naturalmente.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel 1992, l’uomo simbolo dello Stato infedele è Bruno Contrada. Ufficiale di polizia e dirigente del Sisde, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Nel 2015, la Corte Europea dei diritti dell’uomo stabilisce che non poteva essere giudicato per quel reato perché all’epoca dei fatti contestati non era previsto dal codice. Per questo la pena è stata revocata e gli è stata riconosciuta una somma di 667 mila euro a titolo di riparazione per i danni morali e l’ingiusta detenzione.

 ANTONIO INGROIA - EX PUBBLICO MINISTERO TRIBUNALE DI PALERMO Lei è a conoscenza, ha avuto notizia, di rapporti fra il dott. Bruno Contrada e uomini d’onore?

TOMMASO BUSCETTA - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sì.

ANTONIO INGROIA - EX PUBBLICO MINISTERO TRIBUNALE DI PALERMO In particolare, lei è a conoscenza di rapporti fra il dott. Contrada e Rosario Riccobono?

TOMMASO BUSCETTA - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sì. Fu Saro Riccobono, il quale mi disse ma perché devi tornare in Brasile? Puoi rimanere qua, perché qua hai sicurezza che nessuno ti verrà a cercare. Ma come ce l’hai sta sicurezza? Io c’ho il dottor Contrada che mi avviserà se ci sono perquisizioni o ricerche di latitanti in questa zona.

BRUNO CONTRADA - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO - EX DIRIGENTE SISDE Uno dei mafiosi che io nella mia attività di polizia giudiziaria a Palermo ho più perseguito è stato questo Rosario Riccobono.

PAOLO MONDANI Giancarlo Caselli racconta che lei è stato promotore di: alcune soffiate per consentire la fuga di latitanti in occasione di imminenti operazioni di polizia, le cito le parole di Caselli, tre volte in favore di Totò Riina e di altri due latitanti mafiosi nel 1981. Risulta che Contrada si sia mosso con la Questura per far avere la patente a Stefano Bontade, noto boss di mafia, e a Michele Greco detto il Papa della mafia. A monte delle soffiate c’erano amichevoli contatti con Bontade, Salvatore Inzerillo, Michele Greco e Salvatore Riina.

BRUNO CONTRADA - EX DIRIGENTE SISDE Sono delle balle giudiziarie grandi quanto una casa.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Eccolo un collega di Bruno Contrada: è Giovanni Aiello detto "faccia di mostro" per via del viso sfigurato da un colpo di fucile. Ex poliziotto e collaboratore dei servizi segreti morto nel 2017 senza una condanna. Sarebbe il killer di Stato al soldo della mafia di cui hanno parlato alcuni pentiti: il calabrese Nino Lo Giudice e suo cugino Consolato Villani che incontrarono decine di volte "faccia di mostro".

CONSOLATO VILLANI - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA 31 Dietro le stragi in Sicilia e anche in Calabria e tutto quello che è successo in Italia c'erano i servizi segreti deviati che partecipavano all'interno istigando.

PAOLO MONDANI In qualche modo la sua famiglia, la sua famiglia di 'ndrangheta, pensava di avere rapporti con Giovanni Aiello "faccia di mostro" perché gli garantivano anche una certa immunità?

CONSOLATO VILLANI - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si, perché in questo modo avevamo una marcia in più. Questi erano bravi a reperire delle armi, erano bravi a reperire dell'esplosivo, erano bravi a dare una mano anche alla 'ndrangheta, su delle azioni che sono state compiute, come hanno fatto in Sicilia con Cosa Nostra.

PAOLO MONDANI Suo cugino le parlò di… a quali altre azioni criminose avevano partecipato sia Giovanni Aiello che la donna che lo accompagnava?

CONSOLATO VILLANI - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si, in pratica che avevano partecipato a un omicidio di un uomo e di una donna e di un bambino e alle stragi avvenute di Falcone e di Borsellino.

PAOLO MONDANI Lei ha conosciuto Giovanni Aiello, quel poliziotto che viene definito "faccia di mostro" che è morto qualche anno fa?

BRUNO CONTRADA - EX DIRIGENTE SISDE Sì, sì. Ho un vago ricordo di questo soggetto.

PAOLO MONDANI E che viene in qualche modo sospettato di essere un poliziotto che fece addirittura, avrebbe fatto addirittura, omicidi in nome e per conto della mafia.

BRUNO CONTRADA - EX DIRIGENTE SISDE E perché non lo hanno arrestato?

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO A Contrada avrebbe potuto rispondere Luigi Ilardo che sapeva bene chi era Aiello. Ilardo era il capomafia della provincia di Caltanissetta e dopo anni di carcere, nel 1993 cambia vita, collabora con il colonnello dei carabinieri Michele Riccio e racconta i delitti degli uomini dei servizi deviati.

PAOLO MONDANI Quali esempi le fa Ilardo di omicidi, che - se non ho capito male - i servizi segreti avrebbero commissionato a Cosa nostra?

MICHELE RICCIO - COLONNELLO DEI CARABINIERI L’omicidio La Torre, Insalaco e Piersanti Mattarella, l’Addaura, Agostino e gli omicidi dove muovono i poliziotti…

PAOLO MONDANI Il poliziotto D'Agostino…

MICHELE RICCIO - COLONNELLO DEI CARABINIERI D’Agostino e anche l’altro, e Domino.

PAOLO MONDANI Ad un certo punto Ilardo, e arriviamo al 31 di ottobre del 1995, le fa intendere che c’è la possibilità di arrestare Bernardo Provenzano.

MICHELE RICCIO - COLONNELLO DEI CARABINIERI Sì.

PAOLO MONDANI Cosa accade?

MICHELE RICCIO - COLONNELLO DEI CARABINIERI Io chiamo subito Roma, telefono subito al colonnello Mori. Lo sento piuttosto freddo.

PAOLO MONDANI Dopo il primo incontro che Ilardo ha con Provenzano, comunica a Mori dove sta il casolare.

MICHELE RICCIO - COLONNELLO DEI CARABINIERI Esatto.

PAOLO MONDANI Lei e Ilardo lo andate a, diciamo così: precisamente individuare, persino sulla cartina quante volte? Almeno tre? MICHELE RICCIO - COLONNELLO DEI CARABINIERI Certo.

PAOLO MONDANI E lo comunicate a Mori. E loro le rispondono?

MICHELE RICCIO - COLONNELLO DEI CARABINIERI Che non riuscivano a trovarlo. Ed erano di una facilità disarmante. PAOLO MONDANI Oggi lei di cosa è convinto?

MICHELE RICCIO - COLONNELLO DEI CARABINIERI Che non hanno voluto prenderlo.

PAOLO MONDANI E perché non l'hanno voluto prendere, secondo lei?

MICHELE RICCIO - COLONNELLO DEI CARABINIERI Il compito di Provenzano era di portare una organizzazione omogenea a supportare l’attività politica di Forza Italia, con la quale loro...

 PAOLO MONDANI Quindi Provenzano doveva rimanere fuori?

MICHELE RICCIO - COLONNELLO DEI CARABINIERI Era più importante che rimanesse fuori.

 PAOLO MONDANI Siamo nel maggio del 1996 e ad un certo punto bisogna formalizzare la sua entrata nel programma di protezione. E fate una riunione al Ros, a Roma.

MICHELE RICCIO - COLONNELLO DEI CARABINIERI Sì. Vedo Ilardo precipitarsi verso Mori, proprio con un gesto irruento. Ilardo era un pezzo di bestia, Mori più piccolino. Lo sovrasta e dice: molti attentati che ci avete addebitato a noi li avete in realtà commessi voi. Vedo che Mori stringe i pugni, si guarda la punta delle scarpe, si gira e scappa fuori dalla porta.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Pochi giorni dopo l’incontro con il colonnello Mori, con Giancarlo Caselli procuratore di Palermo e Giovanni Tinebra procuratore di Caltanissetta, Ilardo viene ucciso a Catania. E si viene a sapere che la voce della sua collaborazione era filtrata. Chi fa uscire quella voce?

MICHELE RICCIO - COLONNELLO DEI CARABINIERI Quella voce era uscita dalla procura di Caltanissetta.

PAOLO MONDANI Ma lei definirebbe l’omicidio Ilardo un omicidio di Stato?

MICHELE RICCIO - COLONNELLO DEI CARABINIERI Sì, io ne sono più che convinto.

PAOLO MONDANI Pietro Riggio proviene dalla stessa famiglia mafiosa di Ilardo, quella di Caltanissetta, oggi è un collaboratore di giustizia e racconta fatti di grande portata sulle stragi. In carcere, Riggio conosce Giovanni Peluso un ex poliziotto che lavora per il Sismi, il servizio segreto militare. Peluso gli racconta di aver avuto un ruolo nella preparazione della strage di Capaci.

PROCESSO CAPACI BIS 29 NOVEMBRE 2019 PIETRO RIGGIO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sull’attentato di Falcone mi fece tutta una serie di propalazioni che io a sentirle rimasi basito. Fece un accenno a Brusca dicendo testualmente: Brusca ancora è convinto che l’ha premuto lui il telecomando.

SALVATORE PETRONIO - AVVOCATO Le propose in particolare, il Peluso, un attentato nei confronti di un giudice palermitano?

PIETRO RIGGIO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sì.

SALVATORE PETRONIO - AVVOCATO E il nome di questo giudice?

PIETRO RIGGIO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Il dottore Guarnotta.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO E non basta l’attentato a Leonardo Guarnotta, già componente del pool antimafia con Falcone e Borsellino. Riggio dice che Peluso gli racconta di aver piazzato l’esplosivo di 34 Capaci con la collaborazione dei servizi segreti libici. Gli fa incontrare "faccia da mostro" e poi lo coinvolge in una strana riunione alla Dia di Roma nella quale viene formata una task force per la cattura di Provenzano. Siamo nell’estate del 1999.

PALERMO 19-10-2020 PROCESSO D’APPELLO TRATTATIVA STATO-MAFIA SERGIO BARBIERA - PROCURA GENERALE PALERMO Ricorda con chi si incontrò?

PIETRO RIGGIO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Mi incontrai con l’allora capo centro Dia, il colonnello Angiolo Pellegrini e con il famoso zio Toni, che seppi poi si chiamava Miceli Salvatore.

SERGIO BARBIERA - PROCURA GENERALE PALERMO Questo zio Toni che ruolo aveva?

PIETRO RIGGIO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Lo zio Toni era un agente Cia in Italia.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Anche a Riggio, come a Ilardo, viene chiesto di portare notizie su Provenzano. Ma ad un certo punto Peluso dice la verità.

PIETRO RIGGIO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Peluso mi disse, ma la devi finire, ancora non ti sei reso conto, ma lo sai che i carabinieri riferiscono tutto allo zio?

SERGIO BARBIERA - PROCURA GENERALE PALERMO Da questo incontro con Peluso lei immagina, capisce, deduce che Peluso ha un rapporto diretto con Provenzano?

PIETRO RIGGIO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Certo, quindi tutti fatti che mi fanno capire che non c’è la volontà di prendere Bernardo Provenzano. Anzi, capire le persone che potevano portare a Bernardo Provenzano e pian piano eliminarle in modo che lui rimanesse ancora fuori.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Forse perché era il male minore. Insomma, eliminare quella parte più sanguinosa di Cosa Nostra e tutelare quella che invece voleva fare affari, forse, conveniva. L’aveva capito anche Ilardo, quando aveva condotto i carabinieri nel covo di Bernardo Provenzano nel ‘95 e si era stupito che i carabinieri non l’avessero arrestato. Luigi Ilardo era un ex capo di Cosa Nostra, di una famiglia strategica, quella di Caltanissetta, cugino anche di Piddu Madonia. Nel ’93 viene infiltrato dal colonnello Michele Riccio dentro Cosa Nostra, il primo boss della storia. Racconta in diretta una fase della trattiva: indica come Dell’Utri il referente di Cosa Nostra, colui che è stato delegato a parlare con la politica. E poi dice anche che la pax mafiosa viene ottenuta in cambio dell’elargizione, da parte dello Stato, di appalti. Parla dell’indicazione di Cosa nostra di appoggiare il partito di Forza Italia e soprattutto dice che alcuni omicidi e stragi non sono solo ad opera di Cosa Nostra, ma c’è anche dietro la mano della massoneria deviata, dei servizi segreti, della destra eversiva. E indica anche i nomi di questi omicidi: quello di Pio La Torre, politico ucciso per aver introdotto il reato di associazione mafiosa e poi con Rognoni anche quello sulla confisca di beni. Poi anche quello dell’ex sindaco Giuseppe Insalaco, che aveva denunciato l’anomalia nella gestione degli appalti da parte di Vito Ciancimino. E 35 poi l’omicidio di Piersanti Mattarella, governatore della regione, fratello del nostro presidente, che aveva abbracciato la corrente della DC facente riferimento ad Aldo Moro, in contrasto con quella di Salvo Lima e dei cugini Salvo. Mattarella aveva cominciato un percorso coraggioso di riforma, ma fu interrotto dalla morte. Poi Ilardo parla della presenza degli uomini dei servizi nell’omicidio del poliziotto Agostino, che era esperto nella caccia ai latitanti, e fa anche il nome di Giovanni Aiello, faccia da mostro, perché aveva il volto deformato da una fucilata. Ma quando Ilardo, ad un certo punto, decide di collaborare si presenta alla Procura di Palermo - ha un incontro propedeutico alla sua collaborazione con i magistrati Principato, Caselli e Tinebra che gestiva le indagini sui mandanti delle stragi - quando preannuncia alcuni fatti che vuole verbalizzare, il giorno dopo viene ucciso a Catania. Era il 10 maggio del 1996. Cinque anni dopo, un agente della DIA, Mario Ravidà, raccoglie le informazioni da un suo confidente che ha assistito all’omicidio, e fa i nomi dei killer gestiti dal mafioso Zuccaro. Uno che aveva ottenuto l’ergastolo, ma che era spesso ai domiciliari per malattia che poi si è rivelata falsa. Il nostro Ravidà fa un’informativa che finisce in procura, ma ci vorranno 12 anni prima che partiranno le indagini. Dell’infiltrazione di Ilardo, io e il collega Nicola Biondo fummo i primi a scrivere un libro nel 2010. Cinque anni dopo si presenta nella nostra redazione a Report, Francesco Pennino, un pregiudicato per reati di rapina e scasso. È stato in carcere a L’Aquila con Piddu Madonia e ci racconta dei particolari che ho tenuto segreti, conservati in un cassetto, ma oggi con questa inchiesta forse è venuto il momento di condividerli con voi.

FRANCESCO PENNINO Lei è stato uno a cui volevano far del male, se non lo sa.

SIGFRIDO RANUCCI E chi è che voleva? Visto che mi interessa.

FRANCESCO PENNINO Un siciliano, molto pesante i Madonia.

SIGFRIDO RANUCCI Chi ha sentito esattamente me lo può dire?

FRANCESCO PENNINO Le volevano far del male. Poi i Madonia stavano in infermeria, gli portavo da mangiare, perché cucinavo in carcere io, gli portavo da mangiare e mi chiese anche una volta di fargli delle torte, che a 41 bis è interdetto, però gliele ho fatte in cucina e gliele ho portate.

SIGFRIDO RANUCCI Ti ricordi esattamente come siete entrati nel discorso?

FRANCESCO PENNINO Lui stava dicendo, hanno fatto un libro ci hanno ancora di più inguaiati, come Saviano. In siciliano perché io lo capisco.

SIGFRIDO RANUCCI E che hanno detto in siciliano?

FRANCESCO PENNINO Che ti volevano far ammazzare e poi da fuori hanno avuto lo stop. Chi gestisce adesso il mondo esterno per loro.

SIGFRIDO RANUCCI E chi era Matteo Messina Denaro?

FRANCESCO PENNINO E chi è, lui adesso.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’ordine di uccidere Ilardo è arrivato da suo cugino Piddu Madonia, Giuseppe Madonia, e da Santapaola. Se Ilardo fosse riuscito a testimoniare, probabilmente avrebbe potuto fare luce sul ruolo e la presenza dei Servizi sui luoghi delle stragi. Tuttavia questa sera siamo in grado di presentarvi qualche novità, e presentarvi in esclusiva alcune di questi identikit che secondo gli investigatori sarebbero riferibili a donne legate ai servizi segreti deviati presenti sui luoghi delle stragi del ’93. In particolare queste due foto, queste due signore, la fotografia numero sei e la numero undici, erano presenti negli istanti precedenti alla strage di via dei Georgofili. La numero sei era alla guida, è stata vista da un portiere alla guida di una Mercedes, che ad un certo punto si è fermata vicino ad un marciapiede dove c’erano due uomini, è uscita e ha bestemmiato, e ha chiesto loro di salire urgentemente. Sono entrati in macchina, hanno portato con loro un borsone da viaggio abbastanza grosso e sono scappati via con la Mercedes seguiti da un Fiorino. Un Fiorino dello stesso tipo che è stato utilizzato poi nella strage di via dei Georgofili. Le altre tre fotografie, invece, riguardano donne che erano presenti in via Palestro, poco prima dell’attentato. Una di queste donne era nella Fiat Uno, che era posteggiata vicino al museo, e quella macchina, la Fiat Uno dello stesso tipo che è stata utilizzata nell’attentato. Ecco se qualcuno di voi le avesse riconosciute, magari può segnalarcele.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati stiamo parlando delle stragi e del ruolo della P2, dei servizi segreti deviati, della destra eversiva e di Cosa nostra, e di chi ha agito nell’ombra insieme a loro nel periodo stragista. Uno dei misteri irrisolti è quello della Falange Armata, la sigla con la quale venivano rivendicati alcuni omicidi e attentati all’epoca. Ecco, appare per la prima volta il 27 ottobre del 1990 quando viene ucciso un operatore carcerario Mormir, che aveva negato un permesso ad un boss della cosca calabrese Papalia. Uno che era uso dialogare in carcere con i servizi di sicurezza. Poi, riappare poche settimane dopo, il 5 novembre del 1990, quando la Falange armata rivendica degli omicidi a Catania, di due industriali. Chiama l’Ansa a Torino e nella rivendicazione il telefonista anonimo fa riferimento al memoriale di Moro ritrovato undici anni dopo la perquisizione in via Montenevoso a Milano. Poi nel ’91 qualcuno pensa di suggerire la rivendicazione a nome della Falange armata anche a Toto’ Riina, e lo dice chiaramente nelle riunioni a Enna del ’91 quando illustra a tutti gli altri la linea stragista. Ecco, ma chi è la Falange Armata, è esistita veramente? Partiamo da uno degli omicidi rimasti irrisolti, quello del fratello del Presidente della Repubblica, Piersanti Mattarella.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Perché negli ultimi mesi della sua vita Falcone indagava silenziosamente su Gelli, la P2, l’estremismo di destra e Gladio?

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE PALERMO La vicenda di Giovanni Falcone subisce una svolta in occasione delle indagini sull’omicidio Mattarella: allievo di Moro che aveva sostanzialmente creato in Sicilia una sorta di compromesso storico e che per la sua struttura politica si avviava a occupare posti di vertice nella Dc nazionale viene assassinato. 37 Falcone giunge alla conclusione che non è stato ucciso da mafiosi ma è stato ucciso da due esponenti dalla destra eversiva, Cavallini e Fioravanti, gli stessi che sono coinvolti nella strage di Bologna. E da quel momento in poi comincia a indirizzare la sua attenzione su Gladio.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Successivamente alla morte di Falcone, Fioravanti e Cavallini furono assolti dall'accusa di omicidio del presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella. Ma l'indagine su Gladio rimase aperta. Parliamo di una organizzazione paramilitare promossa dalla Cia nell’immediato dopoguerra. Organizzata per contrastare una possibile invasione dell’Europa occidentale da parte dell’Unione Sovietica. Dopo la caduta del muro di Berlino, a ottobre del 1990 ne rivelò l’esistenza l’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti, che fornì al giudice veneziano Casson una lista alleggerita di soli 622 elementi.

PAOLO MONDANI La Commissione parlamentare Stragi nel 2001, diretta dal senatore Pellegrino, accerta che oltre ai 622 nomi ufficiali appartenenti a Gladio ce n’erano altri 331.

FELICE CASSON - EX MAGISTRATO TRIBUNALE DI VENEZIA È vero. E sarebbe stato interessante approfondire proprio i contatti che una serie di questi personaggi avevano non soltanto col vecchio mondo fascista, ma anche con gli ambienti malavitosi sia del nord ma anche del sud mafioso.

PAOLO MONDANI Quali potevano essere stati rapporti precedenti fra la Gladio e Cosa Nostra?

FELICE CASSON - EX MAGISTRATO TRIBUNALE DI VENEZIA Ricordo che il collega Giovanni Falcone all’epoca mi aveva anche consegnato anche un verbale di Tommaso Buscetta nel quale si parlava di un interesse da parte della Cia, della massoneria, all’epoca del golpe Borghese, e in questa vicenda avrebbero dovuto collaborare oltre che l’eversione di destra italiana, i servizi italiani e la mafia.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Tra il 1990 e il 1994 centinaia di telefonate anonime arrivano alle sedi dei giornali. Una sigla, la Falange Armata, invia minacce a politici e giornalisti e rivendica omicidi e attentati tra cui le bombe di Capaci e via d’Amelio del 92 e le stragi di Firenze, Roma e Milano del 93. Ma chi sono i falangisti? La procura di Roma apre un fascicolo di indagine ma viene rapidamente archiviato. I primi sospetti si concentrano sugli uomini di Gladio.

PAOLO MONDANI Che idea si è fatto lei della Falange Armata?

PAOLO INZERILLI - GENERALE - EX COMANDANTE STAY BEHIND - GLADIO Da quello ricordo è una cosa montata.

PAOLO MONDANI Beh, quattro anni di messaggi...

PAOLO INZERILLI - GENERALE - EX COMANDANTE STAY BEHIND - GLADIO Il nostro beneamato Paese vive di tweet.

ROBERTO TARTAGLIA – EX PM PROCESSO TRATTATIVA STATO-MAFIA 38 La Falange Armata è certamente una operazione di intelligence fatta da chi sapeva fare la guerra non ortodossa in quel momento in Italia. La domanda diventa questa: chi è che insegna a Salvatore Riina il linguaggio che abbina la cieca violenza mafiosa di Salvatore Riina e di Cosa nostra alla raffinata guerra psicologica di disinformazione che c’è dietro l'operazione della Falange Armata?

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Siamo nell’autunno del 1993. Francesco Paolo Fulci, diplomatico di lungo corso, e capo del Cesis, l’organismo di coordinamento fra il servizio segreto civile e militare, svolge una indagine interna ai servizi segreti e rende nota una lista di sedici militari appartenenti alla Settima divisione del Sismi, un gruppo di super agenti denominati OSSI, Operatori speciali servizio italiano. Addestrati ad operazioni di guerra non ortodossa. Fulci dice: sono loro la Falange Armata.

PAOLO INZERILLI - GENERALE - EX COMANDANTE STAY BEHIND - GLADIO Dico che ha raccontato frottole perché gli Ossi sono farina del mio sacco.

PAOLO MONDANI Erano, diciamo, il reparto più scelto…

PAOLO INZERILLI - GENERALE - EX COMANDANTE STAY BEHIND - GLADIO Era il personale più scelto all’interno della mia divisione.

PAOLO MONDANI Questi OSSI hanno addestrato i gladiatori?

PAOLO INZERILLI - GENERALE - EX COMANDANTE STAY BEHIND - GLADIO Anche. Dato il loro livello erano in grado di fare gli istruttori. In tempo di pace oltre a fare gli aiuti istruttori, gli istruttori, era gente che dato il livello di addestramento, all’epoca veniva richiesta per la protezione dei Vip.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Giulivo Conti era il numero uno degli Ossi.

PAOLO MONDANI Lei per esempio ha fatto la scorta ad un presidente della Repubblica.

GIULIVO CONTI - EX OPERATORI SPECIALI SERVIZIO INFORMAZIONI - OSSI Affermativo.

PAOLO MONDANI Cossiga mi pare?

GIULIVO CONTI - EX OPERATORI SPECIALI SERVIZIO INFORMAZIONI - OSSI Sì, all’estero. PAOLO MONDANI A un presidente del Consiglio?

GIULIVO CONTI - EX OPERATORI SPECIALI SERVIZIO INFORMAZIONI - OSSI A Craxi, sì.

PAOLO MONDANI 39 Eravate sommozzatori perché venivate dal COMSUBIN...

GIULIVO CONTI - EX OPERATORI SPECIALI SERVIZIO INFORMAZIONI - OSSI Sì. Paracadutisti. Paracadutisti ad apertura comandata.

 PAOLO MONDANI Sapevate scalare, sapevate arrampicare?

GIULIVO CONTI - EX OPERATORI SPECIALI SERVIZIO INFORMAZIONI - OSSI Tutti, tutti quelli che provengono dalle forze speciali fanno i corsi di alpinismo. Alcuni poi sono più o meno specializzati.

PAOLO MONDANI Poi sapevate usare esplosivi.

GIULIVO CONTI - EX OPERATORI SPECIALI SERVIZIO INFORMAZIONI - OSSI Tutti quelli che fanno questo tipo di attività, sanno impiegare e sanno usare gli esplosivi.

PAOLO MONDANI Armi tutte, particolari, insomma, diciamo così...

GIULIVO CONTI - EX OPERATORI SPECIALI SERVIZIO INFORMAZIONI - OSSI In linea generale eravamo tutti addestrati all’impiego di qualsiasi tipo di arma.

PAOLO MONDANI L’ambasciatore Fulci sostenne che le città dalle quali provenivano le telefonate di rivendicazione della Falange Armata erano sedi di centri periferici dei servizi.

PAOLO INZERILLI - GENERALE - EX COMANDANTE STAY BEHIND - GLADIO Paranoia.

PAOLO MONDANI Sempre Fulci, sentito a verbale di interrogatorio nel 2014 disse: "Mi sono convinto che tutta questa storia della Falange Armata faceva parte di quelle operazioni psicologiche previste dai manuali di Stay Behind, cioè di Gladio; facevano esercitazioni di come si può creare il panico in mezzo alla gente e creare le condizioni per destabilizzare il Paese".

PAOLO INZERILLI - GENERALE - EX COMANDANTE STAY BEHIND - GLADIO Gli frullava la testa.

PAOLO MONDANI Lei cosa pensa delle accuse di Fulci?

GIULIVO CONTI - EX OPERATORI SPECIALI SERVIZIO INFORMAZIONI - OSSI Ma lei mi ci vede che io alzo il telefono e dico: oh, guarda che fra un po’ vengo a fare un attentato? Mah… io ero dentro lì ma ci pigliavano solo a schiaffoni tutti. E quelli della Uno Bianca eravamo noi, boh. E n’altra volta quelli della Falange Armata. Ma perché?

PAOLO MONDANI Secondo lei gli uomini della Falange Armata erano anche uomini dello Stato?

GIULIVO CONTI - EX OPERATORI SPECIALI SERVIZIO INFORMAZIONI - OSSI 40 Molto probabilmente sì, e qui stiamo parlando solo del Sismi, del Sismi, dell’Aise e non si tocca l’Aisi allora Sisde. PAOLO MONDANI L'Aisi, quello civile…

GIULIVO CONTI - EX OPERATORI SPECIALI SERVIZIO INFORMAZIONI - OSSI Tutti santi?

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Santi non ce n'è, ma certamente al Sismi erano molto arrabbiati. A luglio del 93 il governo Ciampi aveva sciolto la Settima divisione del Sismi, quella di Gladio. E poco dopo il ministro della Difesa Fabbri annunciava un repulisti al Sismi. Il governo si era convinto che nei servizi c’erano uomini collegati alle stragi che agivano come orfani della guerra fredda. Giuseppe Lombardo, 27 anni dopo, descrive la Falange Armata.

PROCESSO NDRANGHETA STRAGISTA 10 LUGLIO 2020 GIUSEPPE LOMBARDO - PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA E l’idea di rivendicare minacce, attentati e delitti contro le figure istituzionali con la sigla Falange Armata è stata certamente il parto di alcuni appartenenti a strutture deviate dallo Stato, il cui nucleo forte era costituito da una frangia dell’allora Sismi e segnatamente da alcuni esponenti della Settima divisione e del cosiddetto reparto OSSI che fino alla caduta del muro di Berlino e fino a pochi mesi dopo si occupava delle operazioni Stay Behind, che evidentemente volevano destabilizzare il paese creando un allarme terroristico da sfruttare per mantenere il proprio ruolo in uno scenario che era profondamente mutato.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Orfani della Guerra fredda, ecco sarebbe stato un nucleo operante all’interno del Sismi, e all’interno di una divisione particolare del Sismi, la VII, che avrebbe fatto gli interessi non dello stato che rappresentava, ma a quelli Atlantici, a cui faceva riferimento Licio Gelli. Dalle ultime indagini sulla strage di Bologna, è emerso che Licio Gelli avrebbe finanziato i terroristi, i neofascisti, scappati dopo la strage di Bologna e anche i servizi di sicurezza. Lo stesso Gelli che avrebbe brigato con Cosa nostra e con la destra eversiva per creare movimenti indipendentisti. Insomma, dopo l’indagine aperta da Casson a Venezia sulla struttura Gladio, che viene acquisita dalla Procura di Roma per competenza, verrà archiviata quella inchiesta così come verrà archiviata anche quella sulla Falange Armata. Ma sfugge qualcosa che emergerà però quando, nei lavori della Commissione parlamentare sulle stragi guidata da Giovanni Pellegrino nel 2001, si scoprirà che il capo della Polizia, Parisi, nel ‘93 aveva incaricato due funzionari, uno è Mario Fasano del Sisde e l’altro è Domenico Vulpiani della direzione centrale della Polizia, di fare chiarezza sulla Falange armata. I due si mettono a lavoro e scoprono che Andreotti aveva dato una lista, consegnato una lista edulcorata di Gladio. Mancavano 331 nomi sospetti che a loro volta meritavano indagini ulteriori. Perché alcuni di questi risultavano collegati ad ambienti di Cosa nostra, alcuni addirittura a quelli delle stragi del ’92-’93 e altri ancora anche alle operazioni del sequestro, dell’uccisione di Aldo Moro. Insomma, quando i due comunicarono il risultato del loro lavoro ai superiori, dichiarano alla Commissione Giovanni Pellegrino, il lavoro fu interrotto immediatamente. Ecco, insomma, da allora per anni della Falange non si mai sentito più parlare fino a dicembre del 2013, quando un anonimo invia una lettera al Carcere di Opera dove era rinchiuso Riina, che gli dice: Riina tappati la bocca, ricordati che fuori ci sono i tuoi famigliari al resto ci pensiamo noi. Erano i giorni in cui Riina parlava, si lasciava andare in maniera un po’ 41 libera col suo compagno di cella. C’era la Procura di Palermo che indagando sulla Trattativa registrava ogni cosa. Dopo quattro anni circa, Toto’ Riina è morto.

GIULIVO CONTI - EX OPERATORI SPECIALI SERVIZIO INFORMAZIONI - OSSI Molto probabilmente sì, e qui stiamo parlando solo del Sismi, del Sismi, dell’Aise e non si tocca l’Aisi allora Sisde.

PAOLO MONDANI L'Aisi, quello civile…

GIULIVO CONTI - EX OPERATORI SPECIALI SERVIZIO INFORMAZIONI - OSSI Tutti santi?

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Santi non ce n'è, ma certamente al Sismi erano molto arrabbiati. A luglio del 1993 il governo Ciampi aveva sciolto la Settima divisione del Sismi, quella di Gladio. E poco dopo il ministro della Difesa Fabbri annunciava un repulisti al Sismi. Il governo si era convinto che nei servizi c’erano uomini collegati alle stragi che agivano come orfani della guerra fredda. Giuseppe Lombardo, 27 anni dopo, descrive la Falange Armata.

PROCESSO NDRANGHETA STRAGISTA 10 LUGLIO 2020 GIUSEPPE LOMBARDO - PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA E l’idea di rivendicare minacce, attentati e delitti contro le figure istituzionali con la sigla Falange Armata è stata certamente il parto di alcuni appartenenti a strutture deviate dallo Stato, il cui nucleo forte era costituito da una frangia dell’allora Sismi e segnatamente da alcuni esponenti della Settima divisione e del cosiddetto reparto OSSI che fino alla caduta del muro di Berlino e fino a pochi mesi dopo si occupava delle operazioni Stay Behind, che evidentemente volevano destabilizzare il paese creando un allarme terroristico da sfruttare per mantenere il proprio ruolo in uno scenario che era profondamente mutato.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Orfani della Guerra fredda, ecco sarebbe stato un nucleo operante all’interno del Sismi, e all’interno di una divisione particolare del Sismi, la VII, che avrebbe fatto gli interessi non dello stato che rappresentava, ma quelli Atlantici, a cui faceva riferimento Licio Gelli. Dalle ultime indagini sulla strage di Bologna, è emerso che Licio Gelli avrebbe finanziato i terroristi, i neofascisti, scappati dopo la strage di Bologna e anche i servizi di sicurezza. Lo stesso Gelli che avrebbe brigato con Cosa nostra e con la destra eversiva per creare movimenti indipendentisti. Insomma, dopo l’indagine aperta da Casson a Venezia sulla struttura Gladio, che viene acquisita dalla Procura di Roma per competenza, verrà archiviata quella inchiesta così come verrà archiviata anche quella sulla Falange Armata. Ma sfugge qualcosa che emergerà però quando, nei lavori della Commissione parlamentare sulle stragi guidata da Giovanni Pellegrino nel 2001, si scoprirà che il capo della Polizia, Parisi, nel ‘93 aveva incaricato due funzionari, uno è Mario Fasano del Sisde e l’altro è Domenico Vulpiani della direzione centrale della Polizia, di fare chiarezza sulla Falange armata. I due si mettono a lavoro e scoprono che Andreotti aveva dato una lista, consegnato una lista edulcorata di Gladio. Mancavano 331 nomi sospetti che a loro volta meritavano indagini ulteriori. Perché alcuni di questi risultavano collegati ad ambienti di Cosa nostra, alcuni addirittura a quelli delle stragi del ’92-’93 e altri ancora anche alle operazioni del sequestro, dell’uccisione di Aldo Moro. Insomma, 42 quando i due comunicarono il risultato del loro lavoro ai superiori, dichiarano alla Commissione Giovanni Pellegrino, il lavoro fu interrotto immediatamente. Ecco, insomma, da allora per anni della Falange non si mai sentito più parlare fino a dicembre del 2013, quando un anonimo invia una lettera al Carcere di Opera dove era rinchiuso Riina, che gli dice: Riina tappati la bocca, ricordati che fuori ci sono i tuoi famigliari al resto ci pensiamo noi. Erano i giorni in cui Riina parlava, si lasciava andare in maniera un po’ libera col suo compagno di cella. C’era la Procura di Palermo che indagando sulla Trattativa registrava ogni cosa. Dopo quattro anni circa, Totò Riina è morto.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La morte, come diceva il grande Totò, è una livella. Giunti alla fine il ricco e il povero, il marchese e il netturbino, pari sono. Eppure al cimitero di Corleone viene il dubbio che nemmeno da morto un boss sia uguale agli altri. Qui riposano i misteri di Bernardo Provenzano e Toto Riina, loro ci guardano e sorridono beffardi. Si sono portati via i segreti delle stragi e delle trattative fra Stato e mafia. Di quando, dopo le bombe, parlavano con la politica per il tramite dei carabinieri e Riina faceva richieste e lo Stato piegava la testa.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, insomma, stiamo parlando della trattativa tra Stato e Mafia. Dopo le bombe, lo Stato piega la testa sul 41 bis. Viene revocato a 334 appartenenti a Cosa nostra ‘Ndrangheta e Camorra e accade anche un Presidente della Repubblica, interrogato sui fatti, abbia mentito. E poi, invece, per quelli per cui non è stato possibile revocare il 41- Bis viene studiato nel 2004 un protocollo a parte, il protocollo Farfalla. Viene gestito dal Dap, dall’amministrazione penitenziaria, e dal Sisde, a capo del quale c’era quel colonnello Mori che ai tempi delle stragi aveva avviato la Trattativa.

NINO DI MATTEO - MAGISTRATO PROCESSO TRATTATIVA - MEMBRO CSM Tra le richieste di Riina ad un certo punto c’era quella di chiudere le super carceri di Pianosa e Asinara e sono state chiuse. Era un obiettivo primario della cupola di Cosa nostra quella di riformare la legge sui pentiti ed effettivamente dopo qualche anno ha modificato in senso più restrittivo la normativa di favore per i collaboratori di giustizia. In quel momento, quando Riina venne cercato da uomini dello Stato era raggiante. Aveva capito che quella parte di Stato che lui cercava si era fatta sotto.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Della trattativa intrapresa dal colonnello Mori con Vito Ciancimino nel 1992 sapevano in molti: Fernanda Contri che lavorava alla presidenza del Consiglio, Liliana Ferraro che stava al ministero di Grazia e Giustizia, Luciano Violante presidente dell’antimafia e il ministro guardasigilli Claudio Martelli. PAOLO MONDANI Lei raccontò solo dopo molti anni di aver saputo della trattativa, perché?

CLAUDIO MARTELLI - EX MINISTRO DI GRAZIA E GIUSTIZIA Pensai che fossimo di fronte ad un comportamento molto anomalo da parte dei Ros, e la prima cosa dissi a Liliana Ferraro di informarne Borsellino. Cosa dice Mori? Sì io ho incontrato Vito Ciancimino, l’ho incontrato, gli ho parlato. Eh, la trattativa? Sì ho trattato in questo senso che gli ho detto: ma scusi dobbiamo continuare con questo muro contro muro tra lo Stato e Cosa nostra? Ora, questo io lo trovo abbastanza stupefacente…

PAOLO MONDANI 43 Perché lo Stato, il muro contro muro...

 CLAUDIO MARTELLI - EX MINISTRO DI GRAZIA E GIUSTIZIA ... lo deve fare… contro Cosa nostra, è il suo dovere fondamentale.

PAOLO MONDANI Quella trattativa fu una iniziativa di polizia o una iniziativa anche politica? Con un mandante politico?

CLAUDIO MARTELLI - EX MINISTRO DI GRAZIA E GIUSTIZIA Io penso di sì.

PAOLO MONDANI Mi faccia l’identikit.

CLAUDIO MARTELLI - EX MINISTRO DI GRAZIA E GIUSTIZIA Il presidente della Repubblica dell’epoca, Oscar Luigi Scalfaro.

NINO DI MATTEO - MAGISTRATO PROCESSO TRATTATIVA - MEMBRO CSM C’è una lettera indirizzata dai familiari dei detenuti di mafia a Pianosa e l'Asinara al presidente Scalfaro. Quella lettera costituiva la dimostrazione che gli uomini di Cosa nostra volessero assolutamente cacciare dall’amministrazione carceraria Nicolò Amato che veniva definito in quella lettera come il dittatore Amato. Pochi mesi dopo la ricezione di quella lettera il direttore del Dap venne avvicendato. Dopo poco tempo viene revocato il 41 bis nei confronti di 334 appartenenti a Cosa nostra, alla ‘ndrangheta e alla camorra. Sentito sul punto della vicenda della sostituzione di Amato con Capriotti il presidente Oscar Luigi Scalfaro ha mentito. È stato smentito non solo da altre fonti testimoniali, ma perfino da quelle che abbiamo ritrovato nelle agende di Ciampi e in quelle agende abbiamo trovato delle annotazioni che chiaramente dimostravano come Scalfaro fosse ben a conoscenza delle vicende che avevano portato alla sostituzione di Amato. Guardi è successo anche questo in quest’indagine: scoprire che un presidente della Repubblica…

PAOLO MONDANI Aveva mentito.

NINO DI MATTEO - MAGISTRATO PROCESSO TRATTATIVA - MEMBRO CSM … Aveva mentito.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il presidente Scalfaro non può più essere giudicato e l’ex ministro democristiano Calogero Mannino dopo anni di processi è stato definitivamente assolto dall’accusa di essere il mandante politico della trattativa.

 CALOGERO MANNINO - EX MINISTRO DEL MEZZOGIORNO Tutta la trattativa dipende da una paura che Mannino avrebbe avuto di essere ucciso e dal fatto che Mannino si rivolge a due ufficiali dei Carabinieri.

PAOLO MONDANI Non è possibile che lei incontrando Bruno Contrada e il generale Subranni, ed essendo la sua incolumità a rischio, non dicesse a questi beh insomma occupatevene, vedete un po’ di capire questi mafiosi cosa vogliono.

CALOGERO MANNINO - EX MINISTRO DEL MEZZOGIORNO 44 Sì PAOLO MONDANI ...tentate di chiudere la partita delle stragi in qualche modo…

CALOGERO MANNINO - EX MINISTRO DEL MEZZOGIORNO No, ma perché io avrei detto quello che sta domandando lei, inventando. Altro che paura, io non avevo paura di un cazzo. Non c’è stata nessuna trattativa politica.

PAOLO MONDANI Nel senso che è stata una iniziativa di Mori e De Donno?

CALOGERO MANNINO - EX MINISTRO DEL MEZZOGIORNO Non riesco a vedere altro.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel 2018 il primo grado del processo sulla trattativa Stato-mafia ha portato ad una sentenza storica. Pene pesantissime per Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, ufficiali del Ros. E per Marcello Dell’Utri. Ma i mandanti politici non hanno ancora un nome. E c’è un capitolo della trattativa ancora poco esplorato, quasi sconosciuto. PAOLO MONDANI Nel 1999, Caselli diventa direttore del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, la direzione delle carceri presso il ministero della Giustizia. Caselli nomina lei capo dell’Ufficio Ispettorato da cui verrà cacciato nel 2001 quando Caselli se ne va e arriva Giovanni Tinebra.

ALFONSO SABELLA - EX PUBBLICO MINISTERO TRIBUNALE PALERMO Scoprirò che anche quello faceva parte della trattativa, cioè l’estensione della normativa sulla dissociazione ai mafiosi. La mafia dentro le carceri cercava di trattare con lo Stato per ottenere il beneficio della dissociazione. Cioè io non accuso nessuno, non faccio i nomi, però mi dissocio da Cosa nostra.

PAOLO MONDANI Lei e Caselli eravate…

 ALFONSO SABELLA - EX PUBBLICO MINISTERO TRIBUNALE PALERMO E ci mettiamo di traverso. Ci mettiamo fortemente di traverso.

PAOLO MONDANI Mentre Tinebra era d’accordo.

ALFONSO SABELLA - EX PUBBLICO MINISTERO TRIBUNALE PALERMO Io avevo le intercettazioni dei mafiosi che avevo intercettato prima di catturarli e c’era Carlo Greco che diceva: con la dissociazione per noi sarebbe n’affare. Arriveranno tanti pentiti in meno e ci saranno molti di noi che invece riusciranno a non farsi più il carcere duro, ad uscire, avere permessi, a non farsi i colloqui dietro al vetro. E diceva: minchia, stupido ti pare? Cioè io me la ricordo ancora, mi risuona nelle orecchie questa frase: minchia stupido ti pare?

PAOLO MONDANI Fra il 2004 -2005 la procura di Roma decide ad un certo punto di aprire un'inchiesta sul Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, perché capisce che c’è una sorta 45 di servizio segreto parallelo messo in piedi nelle carceri italiane per monitorare i mafiosi detenuti al 41 bis.

ALFONSO SABELLA - EX PUBBLICO MINISTERO TRIBUNALE PALERMO Si sarebbe stipulato questo famoso protocollo Farfalla che era un accordo con i servizi segreti in cui in quel momento guarda caso c’erano gli ufficiali del Ros ai vertici dei servizi segreti che erano…

PAOLO MONDANI C’era proprio il Sisde diretto dal generale Mori.

ALFONSO SABELLA - EX PUBBLICO MINISTERO TRIBUNALE PALERMO Praticamente con questo protocollo Farfalla il Dap apriva le sue porte ai servizi.

PAOLO MONDANI Questo servizio segreto parallelo, voluto dal Dap ma concretamente sostenuto dal generale Mori che era alla guida del Sisde, avrebbe potuto diciamo così prendersi le informazioni all’interno del mondo dei carcerati al 41 bis e poi privatizzarle, farne un uso…

ALFONSO SABELLA - EX PUBBLICO MINISTERO TRIBUNALE PALERMO ...e decidere di farne quello che voleva, senza un controllo dell’autorità giudiziaria, mi permetta: io da magistrato questo non lo posso condividere, non lo posso accettare nel nostro Paese democratico.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Quasi trent’anni dopo le stragi la mafia di Riina non esiste più. Se la mafia è tutt’altra cosa rispetto al passato perché occuparsi ancora di stragi e di trattativa? Perché le vecchie complicità dello Stato durano nel tempo. Per esempio: perché è imprendibile Matteo Messina Denaro?

ALFONSO SABELLA - EX PUBBLICO MINISTERO TRIBUNALE PALERMO Potrei fare un po’ di dietrologia e dire che forse non conviene catturarlo.

PAOLO MONDANI I Graviano le hanno mai parlato di Messina Denaro?

SALVATORE BAIARDO Lo conoscevo, come non me ne hanno mai parlato…

PAOLO MONDANI Lei ha conosciuto Matteo Messina Denaro.

SALVATORE BAIARDO Sì. PAOLO MONDANI L'ha visto più volte?

SALVATORE BAIARDO Però non voglio parlare di questo. Non voglio parlare di lui.

 PAOLO MONDANI Ma questo Matteo Messina Denaro era messo al corrente dai Graviano degli incontri di Berlusconi? Immagino, per quel che ne sa lei. Sì. 46 SALVATORE BAIARDO Per me i due fratelli erano loro. No Giuseppe e Filippo.

PAOLO MONDANI Giuseppe e Matteo. Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro…

SALVATORE BAIARDO (Annuisce)

PAOLO MONDANI Il pentito Nino Giuffrè che stava al vertice di Cosa nostra dice che a Matteo Messina Denaro furono portati i documenti che Riina teneva nel suo covo di Palermo a via Bernini fino a poco prima di essere arrestato. Da qui la sua capacità di ricatto?

GABRIELE PACI - PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE CALTANISSETTA Certo.

PAOLO MONDANI Questa capacità di ricatto secondo lei è la ragione della sua inafferrabilità?

GABRIELE PACI - PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE CALTANISSETTA Certamente, è un uomo che è a conoscenza dei grandi segreti. Forse l’ultimo latitante che è a conoscenza dei grandi segreti che accompagnano le stragi. Molti dei quali sono ancora segreti per noi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO I misteri di Matteo, che conserva probabilmente quei documenti che sono stati portati via dal Covo di Riina perché nessuno lo ha perquisito. E secondo Baiardo, che ha coperto la latitanza dei Graviano, Messina avrebbe anche l’agenda rossa di Borsellino. Ora a parte la sua latitanza, l’ultimo mistero che riguarda Matteo Messina Denaro lo abbiamo saputo l’anno scorso, riguardava cinque anni prima, un episodio. Quando nella stanza del procuratore Teresa Principato, che è capo del pool che svolge le indagini per la cattura del super latitante Matteo Messina Denaro, sono scomparsi un Pc e due pendrive. Dentro c’erano delle informative riservate, i verbali dei collaboratori di giustizia ancora coperti da segreto istruttorio. Ecco viene in mente, dopo la strage di Capaci, il volto addolorato di Paolo Borsellino segnato anche da una disperazione e una rassegnazione. Il giudice era convinto che nessuno avrebbe fermato la sua morte, al punto da avere una crisi di pianto e di confessare a sua moglie: qualcuno mi ha tradito, mi ucciderà la Mafia, ma saranno altri a volere la mia morte. Ora, lo Stato è pronto, lo Stato che lotta contro la Mafia è pronto a raccogliere una verità che riguardo lo Stato che invece convive con la Mafia? Dopo tutto quello che abbiamo visto, che lascia un senso di stordimento, di dolore, di orrore e anche di impotenza, invece vogliamo partire con un seme di speranza che abbiamo raccolto nell’ufficio di Giovanni Falcone, un piccolo bunker, un biglietto: Giovanni amore mio, sei la cosa più bella della mia vita, sarai sempre dentro di me e io spero di rimanere viva nel tuo cuore. Firmato, Francesca Laura Morvillo, moglie del giudice, morta con lui nell’attentato. È una dichiarazione d’amore come solo chi è animato da amore anche per la verità riuscirà alla lunga a portare sul tavolo la Giustizia.

Il vertice delle stragi. Report Rai PUNTATA DEL 24/05/2021. Paolo Mondani, collaborazione di Roberto Persia e Simona Zecchi. Dopo la puntata speciale intitolata "Le menti raffinatissime" del 4 gennaio scorso, Report torna sulla trattativa Stato-mafia e sulle stragi del 1992 e del 1993 con testimonianze inedite e documenti esclusivi. Mafia, massoneria deviata, estrema destra e servizi segreti avrebbero contribuito a organizzare e ad alimentare una strategia stragista che puntava alla destabilizzazione della democrazia nel nostro paese. Strategia sulla quale permane il grande mistero di chi siano i mandanti esterni alle stragi. Lo raccontano a Report magistrati, collaboratori di giustizia e protagonisti dei piani eversivi. Report continua a fare luce sul ruolo ricoperto da uomini dello Stato nella pianificazione e nell'esecuzione delle stragi del 1992 e del 1993. Il 23 maggio si celebra il 29° anniversario della strage di Capaci. Ma Report non vuole imbalsamare i morti nelle commemorazioni. Solo la verità li onora. Per questo torniamo a parlare dei presunti rapporti tra i fratelli Graviano e la politica; di Antonino Gioè e di Paolo Bellini; di Matteo Messina Denaro e di chi nello Stato tutela i suoi segreti, del processo sulla trattativa fra Stato e mafia giunto alla fase dell'appello. Ma soprattutto parleremo di molti verbali dimenticati.

IL VERTICE DELLE STRAGI Di Paolo Mondani collaborazione di Roberto Persia e Simona Zecchi immagini di Alessandro Spinnato, Dario D'India, Alfredo Farina e Andrea Lilli

GIUSEPPE LOMBARDO - PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA Licio Gelli era il perno. Perché attraverso la P2 lui controllava i Servizi.

CALOGERO MANNINO EX MINISTRO DEL MEZZOGIORNO Altro che paura, io non ho paura di un cazzo. Non c'è stata nessuna trattativa politica.

CONSOLATO VILLANI - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Dietro le stragi c'erano i servizi segreti deviati.

GIOACCHINO GENCHI - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO La principale intenzione era quella di non trovare i veri colpevoli.

PIETRO RIGGIO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA - 19/10/2020 PROCESSO D'APPELLO TRATTATIVA STATO-MAFIA L'indicatore dei luoghi dove erano avvenute le stragi fosse stato Marcello Dell'Utri.

ROBERTO TARTAGLIA – EX PM PROCESSO TRATTATIVA STATO-MAFIA Chi è che insegna a Salvatore Riina il linguaggio che abbina la cieca violenza mafiosa alla raffinata guerra psicologica di disinformazione che c’è dietro l'operazione della Falange Armata?

NINO DI MATTEO - MAGISTRATO PROCESSO TRATTATIVA - MEMBRO CSM È successo anche questo, scoprire che un presidente della Repubblica aveva mentito.

SILVIO BERLUSCONI - EX PRESIDENTE DEL CONSIGLIO Su indicazione dei miei avvocati intendo avvalermi della facoltà di non rispondere.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ci eravamo lasciati così a gennaio scorso. Con le dichiarazioni di un ex presidente del consiglio che si avvale delle facoltà di non rispondere. È un suo diritto, oggi non gode di un momento di gran forma Silvio Berlusconi gli auguriamo di tornare presto in pista. Comunque Berlusconi e Dell’ Utri erano stati già indagati a lungo per le bombe del 93 e 94 era il 1997 procura di Firenze, Pm Gabriele Chelazzi. La loro posizione fu archiviata tuttavia emersero nel corso delle indagini scrivono i giudici, in una sentenza abbastanza dura, emersero contatti con dei soggetti riferibili alle stragi, contatti che erano compatibili a quello che era il progetto stragista di cosa nostra cioè ad ottenere delle leggi favorevoli all’organizzazione mafiosa. Oggi Berlusconi e Dell’Utri sono nuovamente indagati per le bombe di Firenze, Roma e Milano e queste indagini nascono dalle intercettazioni captate dalla procura di Palermo all’interno del carcere ai danni del boss, dei fratelli Graviano, che sono boss di Brancaccio, che sono secondo un loro uomo di fiducia Spatuzza, dopo un depistaggio, sono stati indicati come gli autori materiali della strage di Via d’Amelio. Oggi il nostro racconto parte da un magazzino particolare in provincia, nella periferia di Palermo dove si riunivano gli uomini di Cosa Nostra, il gotha, con uomini dei servizi segreti, dove venivano scannati i traditori e dove vennero pianificati gli omicidi eccellenti, quelli del generale dalla Chiesa, Del magistrato Rocco Chinnici e dove recentemente era arrivato secondo le dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Vito Galatolo, l’esplosivo per far saltare in aria il giudice che ha indagato sulle stragi, sulla presunta trattativa tra stato e mafia, Nino di Matteo. Questo perché dice Vito Galatolo: mi è stato chiesto di farlo perché Di Matteo si era spinto troppo oltre. Il nostro Paolo Mondani.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Fra i Cantieri navali e il porticciolo dell'Acquasanta, c'è un luogo in cui sono racchiusi molti dei misteri di Palermo. Vicolo Pipitone, si chiama. Già negli anni Settanta era il regno del clan Galatolo e dei Fontana. A vicolo Pipitone i servizi segreti incontravano i mafiosi.

4 FEBBRAIO 2020 PROCESSO DEPISTAGGIO STRAGE BORSELLINO GABRIELE PACI PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE CALTANISSETTA Le risultano contatti di persone della famiglia o del suo mandamento con soggetti appartenenti ad agenzie di sicurezza, servizi segreti eccetera?

VITO GALATOLO COLLABORATORE DI GIUSTIZIA C'era il maresciallo Salzano che faceva il maresciallo della caserma dei carabinieri che era sul libro paga nostro. Poi c'era uno che siamo venuti a sapere che era dei servizi segreti ed era questo Giovanni Aiello-Faccia da Mostro. Gaetano Scotto era amico suo perché aveva i contatti con i servizi segreti. La Barbera perché era uno corrotto. E…dottor Contrada. Queste erano le persone che venivano a casa.

GABRIELE PACI PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE CALTANISSETTA Che cosa offrivano e che cosa chiedevano, se lei lo sa.

VITO GALATOLO COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Ma erano dei piaceri che si scambiavano sia Cosa nostra che pezzi dello stato, dei servizi segreti deviati.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Giovanni Aiello alias Faccia da Mostro, ex poliziotto e collaboratore dei servizi segreti morto nel 2017 senza una condanna, è il killer di Stato che avrebbe contribuito alle stragi di mafia di cui hanno parlato alcuni pentiti che lo descrivono in contatto con la Cia. Consolato Villani è uno di questi.

PAOLO MONDANI Quest'uomo deturpato in viso lei poi lo ha riconosciuto?

CONSOLATO VILLANI COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Ed era Giovanni Aiello-Faccia da Mostro sì.

PAOLO MONDANI E la donna chi era?

CONSOLATO VILLANI COLLABORATORE DI GIUSTIZIA La donna addirittura era più pericolosa dell'uomo. Era una mercenaria. Queste entità hanno appoggiato sempre le organizzazioni criminali.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Aiello è spesso accompagnato da una donna bionda, che anni fa gli inquirenti sospettano sia Virginia Gargano, che compare in un elenco di Gladio, ed è imparentata tramite l'ex marito con l'allora direttore del Sisde e poi capo della Polizia Vincenzo Parisi. Faccia da Mostro e la sua accompagnatrice sono stati sospettati di aver partecipato alle stragi del '92 e del '93. Faccia da Mostro muore nel 2017 senza una condanna. Mentre la posizione della Gargano è stata archiviata dalla procura di Catania.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Al fondo Pipitone si riuniva il gotha di Cosa nostra. Secondo le ultime testimonianze si incontrava anche con il capo della squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, Rutilius in codice, perché è emerso successivamente che era un membro dei servizi segreti. E secondo i magistrati di Caltanissetta avrebbe avuto anche un ruolo nella sparizione della agenda rossa di Borsellino e anche nel fallito attentato all’Addaura, quello finalizzato a spaventare Giovanni Falcone. In quel fondo si sarebbe anche recato qualche volta Bruno Contrada ex capo del Sisde a Palermo e anche “faccia da mostro” Giovanni Aiello, il poliziotto anche lui agente sotto copertura con contatti con la Cia presente nei luoghi delle stragi e degli omicidi eccellenti accompagnato con una donna, Virginia Gargano, che secondo i collaboratori di giustizia, sarebbe stata addirittura più cattiva di lui. Non è la sola donna reputata appartenente ai servizi, ad esser identificata, segnalata sui luoghi delle stragi, sono ben 4 le donne che erano presenti nelle notti delle stragi a Firenze e Milano. Sono questi gli identikit, uno addirittura era stato anticipato nel 1993 dal quotidiano L’Unità, il mistero è che ancora oggi non sappiamo chi abbia innescato quelle bombe. Il sospetto tremendo è che Cosa Nostra abbia agito in collaborazioni con alcuni agenti dei servizi di sicurezza. Un’informazione talmente inconfessabile di dominio esclusivo del gotha di cosa Nostra che sarebbe addirittura anche agli stessi componenti dell’organizzazione mafiosa perché sarebbe stata messa in crisi addirittura la tenuta di Cosa Nostra. Il racconto di questa sera è la narrazione che avviene attraverso i verbali nascosti, sui quali probabilmente c’era scritta già una parte della verità uno di questi riguarda Salvatore Baiardo l’uomo che ha gestito la latitanza dei Graviano, accusati oggi di essere gli esecutori della strage di via D’Amelio. Il nostro Paolo Mondani lo avevo incontrato tempo fa e Baiardo gli aveva raccontato di presunti incontri con Silvio Berlusconi. Tra Graviano e Berlusconi, soprattutto gli aveva confidato di sapere dov’è l’agenda rossa di Borsellino. Quella sottratta al giudice nell’auto ancora in fiamme, che potrebbe anche contenere la verità sui mandanti esterni a Cosa Nostra.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Capaci 23 maggio 1992. Via D'Amelio 19 luglio 1992. A quasi 30 anni di distanza i mandanti delle stragi di mafia sono ancora senza nome. Il dubbio è che la verità sia già stata scritta. E forse basterebbe ricollegare vecchie prove, antiche testimonianze, il lavoro di magistrati e investigatori lontani fra loro per scoprirla. I verbali dimenticati negli archivi.

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE PALERMO C’è un altro collaboratore di giustizia che si chiama Gioacchino La Barbera, il quale ha dichiarato che in alcuni momenti della preparazione della strage di capaci lui vide un uomo che era presente nella fase di preparazione dell'esplosivo. E un altro uomo che era presente nel momento in cui avrò una telefonata che Falcone era partito dall'aeroporto. Questi due soggetti secondo lui non erano appartenenti a Cosa Nostra. PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Totò Cancemi fu il primo pentito della Cupola di Cosa Nostra. Aveva fatto parte del commando stragista di Capaci. Poi, nel 1993 si consegnò ai carabinieri. Totò Riina, in carcere, al suo compagno di cella Lorusso nel 2013 racconta di un misterioso incontro con Salvatore Cancemi.

ROBERTO TARTAGLIA EX PM PROCESSO TRATTATIVA STATO-MAFIA Lui dice questa frase a Lorusso. Dice: "Dopo Capaci venne da me Cancemi e mi disse cosa ci dobbiamo inventare ora dopo Falcone? E io risposi: ma che ci possiamo inventare. Se quelli sanno, se quelli sanno la verità è finita la cosa.

PAOLO MONDANI Come la interpreta lei? ROBERTO TARTAGLIA EX PM PROCESSO TRATTATIVA STATO-MAFIA Dopo l'esecuzione di Capaci qualcosa in quella esecuzione sia apparso in qualche misura anomalo. Cancemi che condivide con Riina qualcosa sulla verità di quella strage si preoccupa. Dice: ci dobbiamo inventare qualcosa. E Riina dice: sì, ma cosa inventarci, se quelli - cioè i quadri e i soldati di Cosa Nostra - sanno la verità, capiscono la verità è finita la cosa, è finita Cosa Nostra.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Via D'Amelio, la bomba è scoppiata da poco. Il poliziotto Francesco Paolo Maggi arrivato tra i primi sul luogo della strage riconosce alcuni uomini dei servizi segreti in giacca e cravatta che armeggiano intorno all'auto blindata di Borsellino. "Sono gente di Roma", dirà Maggi. Non sono mai stati identificati.

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE PALERMO Nella fase esecutiva della strage di Via D'Amelio abbiamo degli elementi che ci consentono di ritenere che alla strage abbiano partecipato anche soggetti esterni. Uno di questi elementi è una intercettazione, tra il collaboratore Di Matteo e la moglie, che avviene pochi giorni dopo che era stato rapito il loro figlio Giuseppe. La moglie di Di Matteo con toni disperati, singhiozzando, gli dice: hai capito perché hanno rapito Giuseppe? Abbiamo un altro figlio. Non parlare degli infiltrati della polizia nella strage.

ROBERTO TARTAGLIA EX PM PROCESSO TRATTATIVA STATO-MAFIA Tutti hanno visto le immagini di Via D'Amelio a pochi minuti da quella strage. Chi ha avuto la necessità di vederle anche per motivi giudiziari sa che in quel momento vi erano brandelli umani ovunque. Che qualcuno abbia avuto la freddezza in quell'inferno di dirigersi verso la macchina, verso la borsa di Paolo Borsellino, di svuotarla dell'agenda rossa e di farla scomparire è una circostanza assolutamente straordinaria ed eclatante. Nessuno potrà mai sostenere logicamente che alla scomparsa dell'agenda rossa potesse avere interesse Cosa Nostra.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Salvatore Baiardo è stato per anni l'uomo che ha coperto la latitanza di Giuseppe Graviano, il boss di Brancaccio coinvolto nella strage di via D'Amelio che oggi parla dei suoi presunti rapporti d'affari con Silvio Berlusconi.

PAOLO MONDANI Lei sa dov'è l'Agenda rossa? Sì o no, mi dica solo questo e poi…

SALVATORE BAIARDO C'è più di un copia in giro.

PAOLO MONDANI Graviano l'ha vista?

SALVATORE BAIARDO Graviano l'ha avuta.

PAOLO MONDANI Ha avuto l'agenda di Borsellino. SALVATORE BAIARDO Eh sì.

PAOLO MONDANI L'agenda rossa…

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Ecco cosa dice Riina, intercettato in carcere, dell'Agenda rossa di Borsellino.

INTERCETTAZIONE DEL 4 OTTOBRE 2013 - CARCERE OPERA MILANO Cosa scriveva in questa agenda rossa? Cosa aveva dentro l'agenda rossa? Alla fine che c'era scritto? La presero e sparì. ah. I Servizi .. i Servizi se la presero. PAOLO MONDANI Ma lei parla sempre degli incontri di Graviano con Dell'Utri ma non dice mai se i Graviano incontrano Berlusconi.

SALVATORE BAIARDO Perché non erano questi gli accordi.

PAOLO MONDANI Con Graviano…cioè lei all'esterno poteva raccontare delle cose…

SALVATORE BAIARDO Senza tirare in ballo lui.

PAOLO MONDANI Perché adesso al processo mafia 'ndrangheta stragista Graviano dice di aver incontrato tre volte Berlusconi.

SALVATORE BAIARDO Adesso lo sta tirando in ballo.

PAOLO MONDANI Adesso lei cosa dice?

SALVATORE BAIARDO Ma sì. Come le ho detto prima: anche più di tre.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Poi Baiardo, il 17 agosto del 1993 porta in Sardegna a Graviano una valigia destinata a Berlusconi.

PAOLO MONDANI Mi trovi un modo per dirmi quanti soldi lei ha portato a Berlusconi in nome e per conto dei Graviano. SALVATORE BAIARDO Glielo dico via mare: una barca.

PAOLO MONDANI Lei ha detto alla Dia che Berlusconi era interessato ai finanziamenti della mafia per il nuovo partito, costituendo nuovo partito…

SALVATORE BAIARDO E' stato totalmente finanziato dalla mafia e non solo dalla mafia.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Le rivelazioni di Baiardo sui rapporti fra i Graviano Dell'Utri e Berlusconi finirono in queste due informative, tra il 1996 e il 1997. Le scrisse Francesco Messina allora funzionario della Dia. Ma se ne accorse solo un magistrato.

PAOLO MONDANI Di queste due informative lei ha parlato specificamente con il dottor Chelazzi?

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Credo che il dottor Chelazzi abbia anche intrattenuto un colloquio con il Baiardo.

PAOLO MONDANI Mi interessa sapere se con Chelazzi parlò delle dichiarazioni che Baiardo aveva fatto in merito ai rapporti Graviano-Dell'Utri.

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Certo.

PAOLO MONDANI E cosa disse?

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Beh, che andava approfondito. In quel momento era una cosa che aveva una rilevanza notevole per cui formalizzammo con una vera e propria nota all'autorità giudiziaria. PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il pubblico ministero Gabriele Chelazzi credeva alla pista Baiardo ma poco dopo venne trasferito alla Procura Nazionale Antimafia. E quelle due informative furono dimenticate. Oggi però la procura di Firenze le ha riprese, i pubblici ministeri cercano i mandanti occulti delle bombe mafiose del 1993 nell'inchiesta che dopo molte archiviazioni vede di nuovo indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. I Pm hanno interrogato Salvatore Baiardo e Giuseppe Graviano sugli affari in comune con Berlusconi. E i due parlano come mai hanno fatto prima. Mentre Totò Riina, il 22 agosto 2013, confidava sottovoce al suo compagno di detenzione Alberto Lorusso dei soldi pagati per anni da Berlusconi tramite Dell'Utri a Cosa Nostra.

INTERCETTAZIONE DEL 22 AGOSTO 2013 - CARCERE OPERA MILANO SALVATORE RIINA A noialtri ci dava duecentucinquanta milioni ogni sei misi... duecentucinquanta! Soldi che spettano a noialtri. Chiddu veniva... u palermitanu. Era amico di... chiddu, U' Senaturi. Stu Senaturi sì... sì... seriu... era seriu, debbo dire la verità…

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il senatore serio e amico sarebbe Marcello dell’Utri, che secondo un altro collaboratore Pietro Riggio sarebbe anche quella mente raffinatissima che aveva indicato gli obiettivi del patrimonio artistico da colpire con le bombe. Baiardo era stato giudicato credibile nei suoi primi verbali dal Pm di allora Gabriele Chelazzi, che è morto stroncato da un infarto improvviso. Tuttavia quei verbali sono rimasti lettera morta, oggi Baiardo racconta di sapere dov’è l’agenda rossa di Borsellino e che c’è ne sarebbero anche più copie una sarebbe finita nelle mani dei Graviano e sarebbe stata portata, lo diciamo oggi perché a gennaio scaturirono da quelle dichiarazioni delle polemiche, fu portata l’agenda rossa da uomini esterni a Cosa Nostra. Baiardo ha anche fatto i nomi e ha anche raccontato le modalità con cui sarebbe avvenuta la consegna. Su tutto questo stanno indagando i magistrati Turco e Tescaroli ai quali Baiardo ha confermato anche le versioni di Graviano, cioè dei presunti incontri con Berlusconi di valige di soldi che venivano dati per finanziare lui e anche il progetto politico. I legali di Berlusconi rispondono che “non ci sono stati mai incontri tra Berlusconi e Graviano, 25 anni di indagini lo confermerebbero, non solo, non c’è stato mai alcun contatto tra Berlusconi e la mafia. Tanto meno diretto o indiretto con i Graviano e che questa inchiesta è destinata a essere archiviata”. Il nostro Paolo Mondani invece rovistando tra i cassetti ha trovato altri verbali dimenticati dove emergono contatti tra uomini di cosa nostra, servizi segreti deviati e P2. Questa volta il filo conduce fino negli Stati Uniti.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Altro verbale dimenticato. 2 gennaio 1998. Il Pm Gabriele Chelazzi sta indagando sui presunti mandanti delle stragi, Dell'Utri e Berlusconi, e interroga Angelo Siino, il ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra, collaboratore affidabile, che riceve una confidenza di Nino Gioè, l'esecutore della strage di Capaci. I due erano detenuti nel carcere di Rebibbia. Gioè gli rivela che il tramite occulto tra Forza Italia e Cosa Nostra era Massimo Maria Berruti, ex capitano della Guardia di finanza, ex consulente della Fininvest, già deputato di Forza Italia. Nel 2011, Berruti venne condannato a 2 anni e 10 mesi di reclusione per riciclaggio nel processo d'appello sui fondi neri Mediaset. Ma il reato risultò prescritto. Mentre per le accuse di mafia venne archiviato. Tempo dopo, nella notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993 Gioè viene ritrovato impiccato con i lacci delle scarpe. Ufficialmente è suicidio.

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE PALERMO Antonino Gioè era un anello di collegamento tra Cosa Nostra e Servizi. Viene rinchiuso nel carcere di Rebibbia. Secondo la dichiarazione di alcuni collaboratori Antonino Gioè stava per iniziare a collaborare. E proprio in quella fase viene trovato impiccato nella sua cella a Rebibbia con modalità strane. Perché l'agente di custodia che secondo regolamento doveva sostare nel braccio dov'era Antonino Gioè riceve l'ordine di spostarsi in un'altra ala e proprio in quel momento Antonino Gioè si impicca, viene trovato impiccato con modalità strane perché ha delle ecchimosi sotto l'occhio, 4 costole fratturate e poi la linea della corda, dei lacci delle scarpe con cui si era strangolato, non è nella direzione della forza di gravità.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel 1967 Gioè ha 19 anni e già i Carabinieri di Altofonte lo considerano "idoneo a disimpegnare particolari incarichi di natura riservata". Nel 1968, è paracadutista delle forze speciali. E' suo cugino, il boss pentito Francesco Di Carlo, a iniziarlo ai servizi segreti. Insomma, Gioè era una specie di agente doppio tra la criminalità e lo Stato deviato. Per questo, quando rinchiuso a Rebibbia decide di collaborare...

FRANCESCO DI CARLO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA I servizi ne fanno un'altra: fanno ammazzare dentro il carcere a Nino Gioè. Suicidare. Non lo so. Autosuicidazione.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO 23 maggio 1992, Antonino Gioè era qui sulla montagna di fronte all'autostrada insieme a Giovanni Brusca che aveva in mano il telecomando della strage. PAOLO MONDANI Due ore e 41 prima della bomba Gioè fa tre telefonate negli Stati Uniti. In particolare in Minnesota. Lei ha fatto le indagini su quel telefonino e su quelle telefonate?

GIOACCHINO GENCHI - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO Sì. Guardi che le telefonate con gli Stati Uniti sono molto più di tre e sono fatte anche con altre utenze e sono fatte anche da Roma e sono fatte dai cellulari che da Roma hanno chiamato Palermo quando il dottor Falcone è partito quindi…

PAOLO MONDANI Mi spieghi…

GIOACCHINO GENCHI - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO Il panorama delle chiamate negli Stati Uniti sono molteplici. PAOLO MONDANI Da parte degli uomini della strage?

GIOACCHINO GENCHI - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO Sì. Che rientravano in un certo contesto di utenze che avevano operato, che si erano contattate fra di loro in quei frangenti orari. E questi accertamenti per quanto mi risulta sono rimasti totalmente..

PAOLO MONDANI Inevasi.

GIOACCHINO GENCHI - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO Inevasi.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO L'ultima di Gioè è una specie di trattativa che dopo la strage di Capaci imbastisce con Paolo Bellini, ladro d'arte, militante di Avanguardia Nazionale e killer per una cosca della 'Ndrangheta. Oggi, l'ultimo indagato come esecutore della strage di Bologna del 1980. Bellini viene infiltrato in Cosa Nostra dal maresciallo dei carabinieri Roberto Tempesta per recuperare opere d’arte rubate. Con l’ok del colonnello Mario Mori che guidava i Ros.

PAOLO BELLINI - 1/10/2020 PROCESSO 'NDRANGHETA STRAGISTA Dopo Borsellino io decido di infiltrarmi in Cosa Nostra con il grimaldello delle opere d'arte, recupero di opere d'arte. Siccome l'ok del colonnello Mori mi era stato dato di infiltrarmi e siccome il maresciallo Tempesta mi ha dato l'ok di infiltrarmi che era stato delegato da Mori che cosa dovevo fare io, dire di no? Poi successivamente Antonino Gioè mi ha consegnato a me un biglietto con scritto cinque nomi. C'era Bernardo Brusca e c'era Pippo Calò. C'era Liggio, Leggio, Liggio.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Bellini comunica a Tempesta che i corleonesi vogliono benefici carcerari per i cinque boss. Possibile che a questo punto i carabinieri non si mettano in allarme?

ROBERTO TEMPESTA MARESCIALLO DEI CARABINIERI Riesco a incontrare il generale Mori gli detti il biglietto, lui disse subito: stiamo parlando del gotha e quindi secondo me c'è qualcosa di strano...

ANTONIO INGROIA AVVOCATO Del gotha di Cosa Nostra.

ROBERTO TEMPESTA MARESCIALLO DEI CARABINIERI Del gotha di Cosa Nostra.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il generale Mori rifiutò di trattare su quei nomi e ha sempre negato di aver persino autorizzato l'infiltrazione di Bellini. Ma sapeva che Bellini frequentava Gioè e allora: perché il Ros non l'ha mai nemmeno seguito?

GIUSEPPE LOMBARDO - PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA Lei notò qualcosa di strano in Gioè in quell'occasione?

PAOLO BELLINI - 1/10/2020 PROCESSO 'NDRANGHETA STRAGISTA Gioè era fuori di testa, era partito proprio, farfugliava di tutto e di più. Che erano stati consumati, che…

GIUSEPPE LOMBARDO - PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA Cosa vuol dire che erano stati consumati?

PAOLO BELLINI - 1/10/2020 PROCESSO 'NDRANGHETA STRAGISTA Ad un certo punto Antonino mi dice che loro avevano in piedi una trattativa con i piani alti del governo e che anche c'entrava gli Stati Uniti perché c'era un parente di Totò Riina in America PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Chissà se si sente consumato anche Matteo Messina Denaro nato e cresciuto a pochi passi da qui. Selinunte fu la colonia greca più occidentale della Sicilia, 2700 anni fa. Sotto questa enorme area archeologica si nasconde un susseguirsi di templi e antiche ville. Ci piace pensare che Matteo, il latitante, quando si vuole accuttufare, che in siciliano significa nascondersi al mondo, si diverta a venire qui a Selinunte a tambasiare fra le rovine. Altro verbo siciliano che significa passeggiare senza un preciso scopo.

GABRIELE PACI PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE CALTANISSETTA C'è un momento in cui Riina che è sempre malato del germe dell'onnipotenza comincia a parlare e a riferire ad alcuni personaggi di primissimo piano tra cui un tale Saro Naimo che è definito in Cosa Nostra come l'alter ego di Riina in America, di Cosa Nostra americana, gli presenta Matteo Messina Denaro e gli dice: guarda, ho piacere che ti…perché per me è come un figlio, e se per caso mi succede qualche cosa tu devi parlare con lui. Sta a significare che Matteo era a conoscenza di tutti i segreti di Totò Riina. PAOLO MONDANI Lei ha detto che Matteo Messina Denaro è artefice e partecipe diretto di Sicilia Libera, tutta l'idea della mafia di buttarsi sulle Leghe. A un certo punto viene meno e il suo socio, come dire, il suo amico più stretto Giuseppe Graviano aveva già intavolato con, diciamo così, Forza Italia una trattativa. Su questo punto che cosa viene fuori anche dalle cose che dicono i collaboratori.

GABRIELE PACI PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE CALTANISSETTA Emerge un particolare che è molto interessante. Perché l'idea di fare della Sicilia ancora negli anni '90 un tentativo di farne un altro stato americano. Che viene proposto sempre a questo famoso Saro Naimo, che in quel momento è latitante…

PAOLO MONDANI Cioè l'uomo di Cosa Nostra in America…

GABRIELE PACI PROCURATORE AGGIUNTO TRIBUNALE CALTANISSETTA In America. Collegato ai servizi americani.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Riina aveva presentato al suo alter ego americano con contatti con i servizi quello che considerava suo figlio, Matteo Messina Denaro. Quello del filo con gli Stati Uniti è un filo che non è stato indagato sufficientemente a partire dalle telefonate che sono partite verso gli Stati Uniti da quei telefoni degli uomini presenti sul luogo della strage di Capaci. Quegli uomini che erano in attesa del passaggio della macchina del giudice e della sua scorta tra questi c’era Antonino Gioè, un uomo che è entrato in contatto con Paolo Bellini. Paolo Bellini è killer di avanguardia nazionale, della ‘ndrangheta, uomo che si operava nel furto delle opere d’arte. Proprio Paolo Bellini che è stato coinvolto recentemente nella strage di bologna dove dopo 40 anni sono emerse le responsabilità di Licio Gelli e della P2 ha detto che fu proprio il colonnello Mori a chiedergli di infiltrarsi dentro Cosa Nostra per cercare di recuperare opera d’arte. Bellini scese in Sicilia prima delle bombe, ma le opere d’arte non le ha recuperate. Quella della sua infiltrazione è una delle cose più misteriose del periodo stragista, fu un infiltrato vero Bellini o come disse Brusca ha inoculato magistralmente nella mente di cosa nostra l’idea che colpire il patrimonio artistico del paese avrebbe pagato di più che far saltare in aria vite umane. Quel Paolo Bellini che è stato in contatto con un uomo di peso di Cosa Nostra, Antonino Gioè, ex paracadutista dei reparti speciali, l’uomo che era presente a capaci in contatto diretto con Riina, quel Gioè che poco prima di collaborare muore suicida in carcere. Secondo il cugino, altro pentito, boss di rilievo Francesco di Carlo, sarebbe stato invece ucciso dai Servizi di sicurezza. Angelo Siino l’uomo degli appalti di Cosa Nostra aveva invece raccontato ai magistrati in un altro dei verbali rimasti nascosti, chiusi in un cassetto, che Gioè aveva confidato che l’uomo, uno degli uomini di contatto tra cosa nostra e Berlusconi era Massimo Maria Berruti. Chi è Berruti? Berruti nel 79 era stato l’ufficiale che aveva indagato sulle 23 holdings di Berlusconi registrate presso la Banca Rasini. La banca che Michele Sindona aveva identificato come la banca di Cosa Nostra. Clienti particolari erano il cassiere di Cosa Nostra Pippo Calò, Riina, Bernardo Provenzano. Berruti dopo un’indagine che si era chiusa con un nulla di fatto anche sulle società di Berlusconi l’Edilnord, all’epoca sospettata di aver evaso 5 miliardi di lire, lascia la guardia di finanza e viene assunto a libro paga di Silvio Berlusconi come consulente e anche come avvocato. Poi diventerà anche parlamentare di Forza Italia è stato però poi condannato e prescritto con l’accusa di riciclaggio e condannato di aver tentato di depistare, di aver tentato di silenziare quegli agenti della guardia di finanza che avevano indagato sulla Fininvest. Però su quello che aveva raccolto Siino in merito alle confidenze di Gioè prima di morire, cioè che Berruti fosse stato un uomo di contatto fra Cosa Nostra e Berlusconi su quello non si è mai indagato. E ora altri verbali che invece la dicono tutta sulla latitanza e le coperture di Matteo Messina Denaro, il capo dei capi.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il finanziere Calogero Pulici è stato assolto in ben sette processi. Accusato di rivelazione di segreto d'ufficio e accesso abusivo a sistema informatico con l'allora procuratore di Trapani, Marcello Viola e l'ex aggiunto di Palermo Teresa Principato. Anche loro assolti. Per anni, con la Principato, Pulici ha seguito le indagini per la cattura di Matteo Messina Denaro.

PAOLO MONDANI Nel 2015 scompare dall'ufficio di Teresa Principato, allora procuratore aggiunto a Palermo, un personal computer e alcune Pen drive, che sono sue…

CALOGERO PULICI EX APPUNTATO GUARDIA DI FINANZA Sono mie, personali. PAOLO MONDANI Questo computer e queste pen drive contenevano cose delicatissime?

CALOGERO PULICI EX APPUNTATO GUARDIA DI FINANZA Contenevano tutte le indagini e tutti i riscontri sulle indagini su Matteo Messina Denaro PAOLO MONDANI Di quanto anni?

CALOGERO PULICI EX APPUNTATO GUARDIA DI FINANZA Dal 2010 in poi. Il computer era tenuto in ufficio perché io ritenevo che fosse il posto più sicuro.

PAOLO MONDANI L'ufficio della dottoressa Principato era aperto solitamente?

CALOGERO PULICI EX APPUNTATO GUARDIA DI FINANZA No, l'ufficio della dottoressa Principato avevamo l'accesso soltanto io e la dottoressa.

PAOLO MONDANI Le risulta che ci sia stata un'inchiesta su questo?

CALOGERO PULICI EX APPUNTATO GUARDIA DI FINANZA Ci è stato comunicato che era stato archiviato in via amministrativa. PAOLO MONDANI Archiviato in via amministrativa me lo spieghi lei, che vuol dire?

CALOGERO PULICI EX APPUNTATO GUARDIA DI FINANZA Che l'archiviazione non passa dal Gip.

PAOLO MONDANI Quindi sparisce il computer con dentro tutta la storia e tutta l'indagine su Matteo Messina Denaro più le Pen drive e non c'è un giudice che valuta se sia, se si debba andare avanti o almeno farsi qualche domandina in più…

CALOGERO PULICI EX APPUNTATO GUARDIA DI FINANZA Non me lo so spiegare. Però dico…

PAOLO MONDANI Di chi è la mano che ha preso il computer e le Pen drive?

CALOGERO PULICI EX APPUNTATO GUARDIA DI FINANZA Non so se è una manina.

PAOLO MONDANI A cosa ha pensato? Il famoso servizio segreto deviato diciamo così?

CALOGERO PULICI EX APPUNTATO GUARDIA DI FINANZA No, io non penso.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Pulici non pensa, ma in quell'ufficio non sono certo entrati picciotti di mafia. Mentre Matteo Messina Denaro, secondo Marcello Fondacaro, colletto bianco della 'Ndrangheta e ora collaboratore di giustizia, farebbe parte della loggia La Sicilia, una derivazione della P2 che lo protegge. Alla loggia apparterrebbe anche l'esponente di Forza Italia trapanese ed ex senatore Antonio D'Alì, la cui famiglia dava lavoro al boss Francesco Messina Denaro, padre di Matteo. D'Alì, già sottosegretario agli Interni del secondo governo Berlusconi smentisce. Oggi, è sotto processo a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. Nel frattempo, al largo di Palermo, un testimone ci racconta chi nello Stato ha coperto il superlatitante.

PAOLO MONDANI Mi parli di questo suo amico…

TESTIMONE Da giovane è stato un carabiniere, un ufficiale. Poi, tutta la vita ha lavorato in banca, sotto copertura. Nel senso che lavorava in banca qui a Palermo ma era dei servizi segreti.

PAOLO MONDANI Quale dei due servizi?

TESTIMONE Quello civile.

PAOLO MONDANI E che faceva per i servizi?

TESTIMONE Parlava… con Matteo Messina Denaro.

PAOLO MONDANI Parlava con Matteo Messina Denaro?

TESTIMONE Si incontravano. Qualche volta si sono incontrati. Nei momenti topici, diciamo, nei momenti in cui accadevano le cose. Ecco.

PAOLO MONDANI E che altre operazioni ha fatto a Palermo per i servizi?

PAOLO MONDANI E' stato per anni infiltrato come uomo di banca, in un mandamento molto importante. Dava consulenze finanziarie ai boss.

PAOLO MONDANI Quale mandamento?

TESTIMONE Lasciamo stare.

PAOLO MONDANI Brancaccio?

TESTIMONE No, no. San Lorenzo.

PAOLO MONDANI E posso immaginare che ad un certo punto da infiltrato il suo amico sia diventato qualcosa di più?

TESTIMONE Diventa una specie di ufficiale di collegamento, ecco…

PAOLO MONDANI Tra mafia e servizi. Senta ma… lei ha mai visto questo libro che si chiama "Lettere a Svetonio"?

TESTIMONE Sì.

PAOLO MONDANI E' un libro di lettere che Matteo Messina Denaro si scambia con l'ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino. Antonio Vaccarino si firma Svetonio e Matteo Messina Denaro si firma Alessio. Ad un certo punto, recentemente, si viene a scoprire che Vaccarino scriveva queste lettere in nome e per conto dei servizi segreti. E il generale Mori che era il comandante, il direttore del Sisde, ammette che effettivamente Vaccarino era un loro uomo. TESTIMONE Di quelle lettere si è occupato il mio amico. Me lo disse lui.

PAOLO MONDANI Eh, ma lui scriveva le lettere di Matteo Messina Denaro o di Vaccarino?

TESTIMONE Lui scriveva quelle di Matteo Messina Denaro.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO E Totò Riina dal carcere aveva capito bene come si era trasformato Matteo Messina Denaro.

INTERCETTAZIONE DEL 20 SETTEMBRE 2013 - CARCERE OPERA MILANO Poi… l'unico ragazzo che avrebbe potuto fare qualche cosa, perché era dritto… un padre buono l’aveva avuto, buono era. Il ragazzo aveva avuto questa scuola che ci feci io… minchia, per non fece niente. Fare tutto questo per crescere un… un Carabiniere… mi sento infelice io. Ora penso che sarà all'estero.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Chissà di quali informazioni era in possesso Riina. Il nostro Paolo invece ha incontrato un testimone dell’alta borghesia palermitana che è un amico di Alessio, cioè l’amanuense che ha scritto per conto di Matteo Messina Denaro le lettere a Svetonio, nome in codice di copertura del sindaco di Castelvetrano, Antonio Vaccarino. Un sindaco dei misteri, è morto proprio in questi giorni, e qui la realtà supera la fantasia perché sia Alessio che Vaccarino sarebbero entrambi uomini dei servizi di sicurezza. Il colonnello Mori diventato poi capo del Sisde sotto il governo Berlusconi ha detto: si Vaccarino sindaco di Castelvetrano città che ha dato i natali a Matteo Messina Denaro era un mio uomo, mentre il testimone di Paolo Mondani dice Alessio, l’uomo che ha scritto le lettere per conto di Matteo Messina Denaro era un mio amico, ex carabiniere che si è infiltrato nei panni di bancario in un potente mandamento di Cosa Nostra, quello di San Lorenzo. È lui che scrive le lettere a Svetonio per conto di Matteo Messina Denaro che in realtà aveva incontrato lui stesso nei momenti più critici. Insomma il libro, che è questo, esce nel 2008 due anni dopo l’arresto di Bernardo Provenzano. Insomma è un libro un po’ particolare perché quelle lettere scritte dal sedicente Matteo Messina Denaro non contengono errori da matita blu. Certamente Denaro è molto più trasandato basta leggere i pizzini che ha mandato ha scritto lui stesso a Bernardo Provenzano e poi anche il riferimento che fa nel libro il sedicente Matteo Messina denaro è altamente improbabile. Si paragona a un novello Malaussène, che è un personaggio di Daniel Pennac, il capro espiatorio di tutti i crimini. Perché viene scritto questo libro, quale il messaggio che vogliono mandare i due agenti sotto copertura. Si ha l’impressione che si voglia dare autorevolezza a quello che da due anni è il capo di Cosa nostra, dare l’immagine di un capo che non si piega davanti alle difficoltà, alle condanne e mantiene la schiena dritta. Ora è ovvio, è più facile pensare che goda di coperture, altrimenti è inspiegabile anche alla luce di quegli strumenti di cui sono dotati gli investigatori come faccia a muoversi liberamente tra Toscana, Spagna, Inghilterra, Sud America, Emirati Arabi. Gode di coperture anche perché sarebbe inspiegabile come fanno a sparire 5 anni di inchieste e indagini sulla sua latitanza chiuse in un pc e un pen drive che sono letteralmente scomparsi nel nulla, e forse anche la massoneria deviata lo copre. A sentire quello che dice l’ndraghetista Fondacaro che parla di un affiliazione ad una loggia massonica derivata dalla P2. Tanto per rimanere legati alle citazioni di Pennac, a cui tanto tiene il sedicente Matteo Messina Denaro quel personaggio Malaussène: “L'uomo non si nutre di verità, ma si nutre di risposte”. Nel caso della mancata perquisizione del covo dopo l’arresto di Riina, non c’è né la verità e non ci sono neppure le risposte.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO 15 gennaio 1993. Il Ros cattura Totò Riina. Il capo di Cosa Nostra. Era appena uscito dalla sua villa di via Bernini a Palermo, che oggi ospita una caserma dei carabinieri. Ma 28 anni fa i carabinieri del colonnello Mori, nel covo, ufficialmente, non misero piede.

LUIGI PATRONAGGIO PROCURATORE DELLA REPUBBLICA AGRIGENTO Lì ci ritrovammo al Comando carabinieri in tanti, c'erano gli ufficiali del Ros, c'erano gli ufficiali della territoriale, c'era il procuratore Caselli, era pronto un elicottero, erano pronte le macchine, erano pronti i cani. Sennonché il Ros, all'epoca Mori, e il capitano De Caprio disse che probabilmente una strategia investigativa che poteva portare a risultati migliori era quella di non fare la perquisizione ma di controllare il covo da distanza attraverso una telecamera inserita in una "balena", tecnicamente la balena è un furgone no. PAOLO MONDANI Il pentito Giuffrè dice che furono portate via dal covo di Riina le cose che ci stavano e furono consegnate a Matteo Messina Denaro. E da lì verrebbe, diciamo così, il grande potere di ricatto che avrebbe nelle sue mani Matteo Messina Denaro.

LUIGI PATRONAGGIO PROCURATORE DELLA REPUBBLICA AGRIGENTO Sono a conoscenza di queste dichiarazioni. PAOLO MONDANI Cosa ne pensa?

LUIGI PATRONAGGIO PROCURATORE DELLA REPUBBLICA AGRIGENTO Giuffrè è un collaboratore attendibile.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Settembre 2012. A Nino di Matteo, il magistrato che sta indagando sulla Trattativa tra stato e mafia, giunge un anonimo fino ad ora inedito che la procura di Palermo giudica "genericamente attendibile". Scritto evidentemente da appartenenti di rango dell'Arma dei carabinieri. Titolo: Protocollo Fantasma. Si legge: "la perquisizione fu fatta…in quel momento viene altresì sospeso il servizio video sul covo di Salvatore Riina…furono trovate armi, munizioni, un Papello con scritti nomi di politici locali, personaggi di spicco con poltrone al Vaticano, al Colle, a Montecitorio, a palazzo Chigi, al Csm e in qualche Procura tutti inseriti in un altro libro paga con specificati favori e abbondanti bonifici bancari".

PAOLO MONDANI Ad un certo punto lei e anche il procuratore Teresi, in quell'epoca, volete vedere i filmati che sono stati realizzati davanti alla villa di Riina.

LUIGI PATRONAGGIO PROCURATORE DELLA REPUBBLICA AGRIGENTO I filmati mostrarono per un certo periodo, breve, la telecamera posizionata sull'ingresso del residence dopodiché non c'era più nulla. In questi casi cosa si fa, si fanno delle relazioni di servizio. Si annota quello che succede giorno per giorno. Lì invece tutto questo non ci fu. PAOLO MONDANI Non c'erano le relazioni di servizio?

LUIGI PATRONAGGIO PROCURATORE DELLA REPUBBLICA AGRIGENTO Non c'erano le relazioni di servizio, non fummo mai messi in condizioni di sapere quello che era avvenuto.

PAOLO MONDANI Ad un certo punto si fa il processo al capitano Ultimo, De Caprio, e a Mori. Il processo va dal 2005 al 2006, accusati di favoreggiamento a Cosa Nostra. L'accusa è quella di aver ritardato per diciotto giorni la perquisizione della villa. Vengono assolti. La pentita Giusi Vitale, sentita a processo afferma: se si fosse fatta la perquisizione nella villa di Totò Riina ci sarebbe stato il finimondo, quelle carte avrebbero potuto rovinare uno Stato intero".

LUIGI PATRONAGGIO PROCURATORE DELLA REPUBBLICA AGRIGENTO Io mi riporto essenzialmente a quello che c'è scritto nella sentenza. Lì la sentenza evidenzia delle anomalie operative. Di più non mi sento di dire.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Anomalie operative che neppure Totò Riina, intercettato in carcere, aveva mai capito.

INTERCETTAZIONE DEL 5 SETTEMBRE 2013 - CARCERE OPERA MILANO ALBERTO LORUSSO Ieri… era finito il film e io, prima di spegnere avevo girato canale, a Rai due… stavano intervistando il generale Mori. SALVATORE RIINA Il generale Mori…che diceva? ALBERTO LORUSSO Mori ha detto:“ Noi la perquisizione manco l’avevamo fatta, perché ritenevamo che Riina… che era ricercato e che sapeva…. non potesse tenere a casa documenti o cose compromettenti”…

SALVATORE RIINA Minchia, furbu, furbu, furbu. Sono uno più vigliacco dell'altro .. Perché io non ho potuto mai capire perché non vennero a fare la perquisizione…

ALFONSO SABELLA EX MAGISTRATO DI PALERMO Il covo di Riina non è stato perquisito perché chi ha venduto Riina ha venduto Riina non Cosa Nostra, non l'associazione. E probabilmente questo stava nel patto.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Riina comprende che nel suo arresto è successo qualcosa di strano. E' stato Bernardo Provenzano a venderlo ai carabinieri? Nel frattempo Provenzano è venuto a nascondersi qui, nelle campagne di Mezzojuso. E il 31 ottobre del 1995 in questo casolare incontra Luigi Ilardo, un mafioso di rango di Caltanissetta. I due si baciano sulle guance come d’obbligo fra uomini d’onore e parlano. Ma quella di Ilardo è una trappola: ha già raccontato al colonnello Michele Riccio del Ros dove sta il casolare. Potrebbero arrestarlo il nuovo capo di Cosa Nostra. Ma il Ros non entra in azione. E Provenzano rimarrà latitante altri 11 anni.

PAOLO MONDANI Lei, al Ros e a Mori, comunica le coordinate geografiche del casolare…

MICHELE RICCIO - COLONNELLO DEI CARABINIERI Sì.

PAOLO MONDANI Cosa accade?

MICHELE RICCIO - COLONNELLO DEI CARABINIERI Accade che loro non trovano il casolare. Anzi. Mi mandano a rifare dopo una settimana circa e poi dopo ancora un'altra settimana due sopralluoghi.

PAOLO MONDANI Era semplice trovare quel casolare?

MICHELE RICCIO - COLONNELLO DEI CARABINIERI Era una semplicità estrema.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO E Luigi Ilardo non fa nemmeno in tempo a pentirsi ufficialmente: perché il 10 maggio 1996 viene ucciso. Poteva diventare il più importante pentito della storia se solo i carabinieri fossero entrati in quel casolare. Al colonnello Michele Riccio che per mesi aveva tenuto i contatti con Ilardo chiediamo: perché il Ros non volle catturare Provenzano?

MICHELE RICCIO - COLONNELLO DEI CARABINIERI Perché a loro interessava averlo fuori. Il compito di Provenzano era quello di ricompattare l'organizzazione per portarla compatta di fronte all'interlocutore politico di quel momento che era Forza Italia.

PAOLO MONDANI Siamo a maggio del 1996 e finalmente Luigi Ilardo deve formalizzare la sua collaborazione con la giustizia. A ponte Salario a Roma c'è la sede del Ros e in quel momento per la prima volta Ilardo incontra Mario Mori. Che accade?

MICHELE RICCIO - COLONNELLO DEI CARABINIERI Ilardo che aveva le spalle appoggiate al muro a una finestra va di scatto proprio lo vedo, mi sorprende anche a me, va veementemente contro Mori e gli dice in maniera categorica e con voce decisa: "Ceri attentati li avete commessi voi li avete addebitati a noi. Guardai Mori in attesa di una sua reazione e invece Mori strinse i pugni, si guardò la punta delle scarpe, si voltò di scatto e se ne andò.

PAOLO MONDANI Lei definisce la morte di Ilardo, l'uccisione di Ilardo, come un omicidio di Stato.

MICHELE RICCIO - COLONNELLO DEI CARABINIERI Erano quelle istituzioni, quella parte delle istituzioni che temeva i contenuti della collaborazione di Ilardo. Perché Ilardo avrebbe parlato di omicidi commessi direttamente da apparati e ambienti dello Stato e anche altri omicidi commessi da Cosa Nostra, ma che ne aveva subite le conseguenze in quanto i mandanti erano esterni. Tipo: avrebbe parlato e chiarito l'omicidio Mattarella, quello di Pio La Torre e Insalaco. Mentre addebitava direttamente allo Stato il fallito attentato dell'Addaura, l'omicidio Domino e l'omicidio di Piazza e di Agostino. PAOLO MONDANI Il generale Mori e il colonnello Mauro Obinu furono processati anni fa per la mancata cattura del boss Provenzano ma anche in questo caso il generale Mori e il colonnello Obinu vengono assolti.

LUIGI PATRONAGGIO PROCURATORE DELLA REPUBBLICA AGRIGENTO Anche lì la sentenza di assoluzione evidenzia che vi sono state delle scelte tecniche non felici…

PAOLO MONDANI Lei le chiama scelte tecniche ma secondo lei c'era anche un'inerzia?

LUIGI PATRONAGGIO PROCURATORE DELLA REPUBBLICA AGRIGENTO Non ci fu una brillantezza della conduzione delle operazioni. E addirittura per certi versi si connotano dei ritardi e delle omissioni.

PAOLO MONDANI Nella requisitoria lei afferma che esisterebbero parecchie zone d'ombra nell'atteggiamento degli apparati investigativi del Ros.

LUIGI PATRONAGGIO - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA AGRIGENTO Ad un certo punto noi abbiamo avuto un po' il sospetto che non si rispettassero le regole del codice di procedura penale. Che non ci fosse quel collaborazione leale tra la polizia giudiziaria e la magistratura inquirente.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Mario Mori, fu processato per la mancata perquisizione Del Covo. A chiedere però l’archiviazione è stato lo stesso Pm Antonio Ingroia e la motivazione è che mancava la prova della consapevolezza nel non perquisire il covo di favorire cosa nostra. Su questa vicenda è tornado lo stesso Mori in una intervista dopo molti anni nella quale ha detto: “noi sapevamo che Riina sapeva di essere ricercato non siamo entrati nel covo perchè immaginavamo che non conservasse materiale importante. È una versione alla quale non crede neppure Riina. Dice Mori è un furbo, cosa c’era dentro quell covo? Chi è entrato 18 giorni dopo ha trovato tutto pulito le pareti verniciate, tuttavia ha trovato una foto che era caduta per sbaglio dietro un mobile dove c’era un numero di telefono è bastato quello per far scattare degli arresti e inguaiare un mafioso di spicco. I collaboratori di giustizia Giuffrè, Brusca hanno parlato spesso di un archivio che era in possesso di Riina. Lo stesso Gioacchino La Barbera aveva detto che quel covo era stato ripulito da uomini di cosa nostra. La collaboratrice di giustizia Giusy Vitale ha detto che nella cassaforte di Riina in via Bernini c’era un archivio, documentazione tale da far saltare lo stato. Il papello che è arrivato sul tavolo del magistrato Nino Di Matteo parla di rapporti con politici, con uomini del Vaticano, uomini delle istituzioni più alte che erano nella disponibilità di Cosa nostra. È un anonimo Noi ovviamente non sappiamo forse la sintesi più giusta l’ha fatto il magistrato Alfonso Sabella che è un esperto cacciatore di latitanti ha detto: “il covo non è stato perquisito perché chi ha venduto Riina, ha venduto solo Riina non l’associazione Cosa nostra”. Probabilmente questo era nel patto, un’associazione che poteva sgretolarsi anche con i colpi della collaborazione di Luigi Ilardo, il primo boss, se avesse fatto in tempo, il primo boss che si è infiltrato nella storia di Cosa Nostra. Ecco Luigi Ilardo è un fiume in piena, porta il Ros al covo di dove si nascondeva Bernardo Provenzano, ma inutilmente perché non viene catturato. Racconta al colonnello Riccio una fase della Trattativa quasi in presa diretta: parla di Dell’Utri come il referente scelto da Cosa Nostra, il referente politico, l’appoggio al partito Forza Italia, dice che la pax mafiosa nasce da un accordo perché c’è in cambio dell’elargizione degli appalti di denaro pubblico, ma soprattutto Ilardo è il primo a raccontare della presenza nelle stragi e negli omicidi eccellenti della massoneria deviata, dei servizi segreti, della destra eversiva. Ilardo è sopratutto il primo a parlare di faccia da mostro. Giovanni Aiello, poliziotto, agente sotto copertura con collegamenti con la Cia dalla faccia deturpata da una fucilata che è presente sui luoghi delle stragi e degli omicidi eccellenti. Ora quando Ilardo decide di ufficializzare la sua collaborazione si reca a Roma presso la sede del Ros incontra Mori, nelle modalità con cui abbiamo sentito dal colonnello Riccio, e poi incontra i magistrati Principato, Tinebra e Caselli. Tinebra che è titolare delle indagini sui mandanti esterni alle stragi. Annuncia loro la volontà di ufficializzare la sua collaborazione ma non farà mai in tempo perché sarà ucciso il 10 maggio del ‘96 a Catania. Due anni dopo il Ros sequestrerà delle informative, dei documenti che testimoniano l’impero economico finanziario di Bernardo Provenzano. Tuttavia quella documentazione rimane incredibilmente nei cassette per lunghi 23 anni, fino a poche settimane fa.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Al Processo d'Appello sulla Trattativa Stato Mafia sono emersi recentemente migliaia di documenti rimasti nascosti per anni. Il 10 novembre 1998 i carabinieri del Ros arrestano tra gli altri Giovanni Napoli, fedelissimo di Bernardo Provenzano. Gli sequestrano 3 telefonini e 1 rilevatore di microspie che inspiegabilmente vengono restituiti alla moglie il giorno dopo. I carabinieri non sequestrano il computer ma solo 7 floppy disk che non sono in grado di aprire. Nove mesi dopo ci pensa Gioacchino Genchi.

GIOACCHINO GENCHI - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO E tirammo fuori dei documenti importantissimi, dei dossier, si identificavano vari asset finanziari, investimenti patrimoniali anche consistenti nell'ordine di centinaia e centinaia di milioni delle vecchie lire.

PAOLO MONDANI Con molti mesi di ritardo lei analizza anche il computer e vede che hanno avuto il tempo di cancellarlo.

GIOACCHINO GENCHI - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO Cancellato in maniera maldestra perché c'hanno tentato ma noi siamo riusciti a recuperare. Praticamente tirammo fuori un volume di circa 15 mila pagine di documenti. PAOLO MONDANI Qualcuno ha aperto mai quelle 15 mila pagine?

GIOACCHINO GENCHI - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO No, per quello che mi è stato detto, i faldoni sono stati trovati intonsi, ancora sigillati negli stessi contenitori nei quali io li avevo depositati.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Documenti rimasti nascosti per vent'anni che hanno permesso a Provenzano e alla sua famiglia di tenersi strette le proprietà. E' il passato che ritorna. Così come nella sentenza sulla Trattativa Stato Mafia: cos' hanno scoperto i giudici sul passato del generale Mario Mori?

NINO DI MATTEO - MAGISTRATO PROCESSO TRATTATIVA - MEMBRO CSM Il fatto che Mori, allora giovane capitano, fosse stato coinvolto nelle investigazioni della Procura di Padova nell'indagine cosiddetta Rosa dei Venti a proposito di un'ipotesi di suoi contatti con esponenti di spicco di Ordine Nuovo in Veneto. Fatto sta che improvvisamente nel 1975 Mori venne allontanato repentinamente dal Sid. PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La Rosa dei Venti fu un'organizzazione paramilitare parallela a Gladio della quale facevano parte uomini dei servizi e neofascisti. Mentre fu il vice capo del Sid, il generale Gianadelio Maletti ad allontanare, nel 1975, dal servizio segreto il capitano Mori con l'ordine di tenerlo lontano dalla sede di Roma. Oggi Maletti ha 99 anni, ex piduista, condannato per i depistaggi sulla strage di piazza Fontana è latitante in Sudafrica dal 1980. Via mail ci ha spiegato il perché di quella decisione: "Il capitano Mori era sospettato di contatti con l'estrema destra eversiva e pertanto perso di forza per trasferimento".

NINO DI MATTEO - MAGISTRATO PROCESSO TRATTATIVA - MEMBRO CSM Quel suo allontanamento da Roma era collegato proprio al fatto che dalle indagini padovane poi confluite nelle indagini sul golpe Borghese, Mori era stato in qualche modo coinvolto.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Tre anni dopo, l'11 marzo 1978, il Comando Generale dei Carabinieri vuole trasferire Mario Mori a Roma ma l'allora colonnello Parente del Sismi dice ancora No. Eppure…

NINO DI MATTEO - MAGISTRATO PROCESSO TRATTATIVA - MEMBRO CSM Tornò al Reparto Operativo di Roma, proprio alla Sezione Anticrimine il 17 marzo, quindi il giorno successivo al rapimento dell'onorevole Aldo Moro.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nella sentenza di primo grado sulla Trattativa Stato Mafia testimonia il colonnello dei carabinieri Massimo Giraudo che deposita i verbali del maggiore Mauro Venturi, negli anni '70 collega di Mario Mori al Sid.

NINO DI MATTEO - MAGISTRATO PROCESSO TRATTATIVA - MEMBRO CSM Dalle dichiarazioni di Venturi viene fuori qualcosa di ancora più significativo: un'attività di proselitismo di Mori per affiliazioni condivise in una sorta di lista riservata della P2 di Licio Gelli.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel 2018 il primo grado del processo sulla trattativa Stato-mafia si conclude con pene pesantissime per gli ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. Hanno trattato con Cosa Nostra per il tramite di Vito Ciancimino la fine della campagna stragista. Ma il risultato fu l'opposto. Ecco quel che disse Mori a Ciancimino.

MARIO MORI GENERALE - PROCESSO SULLA STRAGE DI FIRENZE 24 GENNAIO 1998 “Signor Ciancimino ma cos'è questa storia? Ormai c'è muro contro muro da una parte c'è Cosa Nostra dall'altra parte c'è lo Stato. Ma non si può parlare con questa gente? La buttai lì convinto che lui: "Cosa vuole da me colonnello?". Invece dice:" Sì ma, si può, si può vedere, si potrebbe, io sono in condizioni di farlo".

NINO DI MATTEO - MAGISTRATO PROCESSO TRATTATIVA - MEMBRO CSM "Cosa è questo muro contro muro, non si può parlare con questa gente?" Cosa vogliono questi per far cessare le stragi? Questa è tra virgolette, così la ritenni nel corso della requisitoria, la confessione, tra virgolette, di Mori sul fatto che fu avviata una trattativa. Il generale Mori che iniziò sostanzialmente la sua carriera come esponente dei servizi, la proseguì lungamente come ufficiale di polizia giudiziaria con ruoli di comando in un reparto di eccellenza come il Ros, e la terminò poi quando andato in pensione dall'Arma dei carabinieri assunse l'incarico di direttore del Sisde, quindi tornò ai servizi, però ha sempre costantemente tenuto un comportamento che è più assimilabile a quello di uno spregiudicato uomo dei servizi che a quello di un ufficiale di polizia giudiziaria che segue le regole del codice.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dai verbali e dai documenti, informative segrete emerge il passato del giovane Mori un passato che se fosse vero sarebbe imbarazzante, anche inquietante. Emerge un giovane Mori impegnato aderente a una organizzazione paramilitare come La Rosa dei Venti della quale facevano parte uomini dei servizi segreti, uomini neofascisti, uomini legati alla destra eversiva e poi un Mori che avrebbe fatto opera di proselitismo per riscrivere nuovi adepti ad una loggia riferibile alla p2 di Licio Gelli, una lista segreta. Ora Mori che con noi non ha voluto parlare attraverso i suoi legali ci scrive “non abbiamo voluto interferire con il giudizio in corso” che si svolgerà tra poche settimane, l’appello in corte d’assise a Palermo su quella che è la presunta trattativa tra lo stato e la mafia. Noi però per dovere di cronaca e completezza di informazione abbiamo provato a ricostruire la sua difesa. Mori dice che: “il colonnello Giraudo ha violato il segreto di Stato. Nega di essere stato coinvolto in indagini negli anni '70 dalla procura di Padova. Che l'allontanamento dal Sid, il servizio segreto, dipese solo dai contrasti avuti con alcuni superiori. Dice anche che le accuse di aver effettuato opera di proselitismo per una lista riservata della P2 sono false.” Ora I giudici di Palermo la pensano diversamente, lo diciamo per completezza di informazione. Pensano invece che le dichiarazioni di Giraudo più fortemente contestate da Mori "trovano fondamento inequivocabile nei documenti acquisiti nel corso delle indagini." Insomma è come dire che quel filo nero che lega la P2 ai servizi deviati e anche alla destra eversiva è sulla carta. E se ne trova traccia anche in altri verbali che sono stati a lungo dimenticati e che sono all’origine delle stragi.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO C'è un lato ancora oscuro nella storia delle mafie. Cosa permette loro di resistere nonostante i successi dello Stato? Se lo chiede la procura di Reggio Calabria che ha aperto una nuova indagine denominandola “Stato Parallelo”. Anche a partire dalle rivelazioni di un pentito storico come Filippo Barreca, ai vertici del clan dei De Stefano, che ha fatto arrestare circa mille 'ndranghetisti, ha descritto i rapporti tra mafie, servizi segreti e massoneria deviata, e racconta come la 'ndrangheta ha cambiato pelle a partire dal 1978, quando il leader dell'eversione nera Franco Freda trovò riparo in Calabria tramite l'avvocato Paolo Romeo, militante missino e poi deputato per il PSDI già condannato per concorso esterno alla 'ndrangheta.

FILIPPO BARRECA COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Mi si chiese di nascondere Freda nella mia abitazione a Bocale. Dove successivamente si frequentavano l'avvocato Romeo e Giorgio De Stefano per parlare con Franco Freda. Fu in quei frangenti che i tre cominciarono a discutere di istituire una loggia supersegreta a Reggio Calabria che doveva servire per destabilizzare l'ordine democratico, per concepire attentati e quant'altro.

PAOLO MONDANI Ma questa struttura nella quale c'è la 'ndrangheta e la massoneria deviata come la definirebbe oggi?

FILIPPO BARRECA COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Uno stato parallelo. Del quale fanno parte magistrati, massoneria deviata, politici di tutti i partiti, imprenditori, servizi e la 'ndrangheta, e Cosa Nostra.

PAOLO MONDANI In questi decenni la 'ndrangheta ha battuto Cosa Nostra cinque a zero. Come è potuto accadere? FILIPPO BARRECA COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Nel mentre i siciliani pensavano a fare le stragi, noi la 'ndrangheta ha pensato di andare ad appropriarsi di quei poteri che erano importantissimi. Cioè i servizi segreti.

PAOLO MONDANI Perché Licio Gelli in tutte queste vicende calabresi a partire dagli anni '90…

FILIPPO BARRECA COLLABORATORE DI GIUSTIZIA …è il prezzemolo di ogni minestra.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Stefano Scorza era un dirigente del Sisde quando nel 1984 segnala all'allora capo del servizio Vincenzo Parisi di poter sapere dove si nascondeva Licio Gelli, allora latitante. E ci fa il nome della sua fonte.

STEFANO SCORZA EX DIRIGENTE DEL SISDE Gabriele Ceci che asseriva di sapere dove si trovava Licio Gelli e di potermi portare da lui…

PAOLO MONDANI Comunque Licio Gelli era latitante in quel momento…

STEFANO SCORZA EX DIRIGENTE DEL SISDE Teoricamente era il primo ricercato d'Italia.

PAOLO MONDANI Cosa risponde Parisi quando lei gli va a dire…

STEFANO SCORZA EX DIRIGENTE DEL SISDE Si è molto arrabbiato, molto arrabbiato e mi ha detto di farmi i fatti miei praticamente. PAOLO MONDANI Che vuol dire molto arrabbiato?

STEFANO SCORZA EX DIRIGENTE DEL SISDE Molto arrabbiato: se ne vada dal mio ufficio e si occupi delle cose sue. PAOLO MONDANI FUORI CAMPO E si comprende perché Parisi era arrabbiato da questa lettera del 1980, inviata dal Grande Oriente d'Italia, la principale obbedienza massonica, proprio a lui…al carissimo Fratello Vincenzo Parisi. Firenze, Via dei Georgofili, 27 maggio 1993. 5 morti e quarantotto feriti. Il magistrato di turno quella notte è Gabriele Chelazzi. Si chiede: chi spinge Cosa Nostra a portare il terrore ad un passo dagli Uffizi? Sul suo tavolo arrivano subito due documenti, uno è della Direzione Investigativa Antimafia. Dice che dietro le stragi ci sono "ambienti massonici a rischio". Il secondo documento è dello Sco della Polizia.

FRANCESCO NOCENTINI GIORNALISTA Noi leggiamo questo: "Obiettivo della strategia delle bombe sarebbe quello di giungere ad una sorta di trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che attualmente affliggono l'organizzazione: il carcerario e il pentitismo".

PAOLO MONDANI L'11 aprile 2003, pochi giorni prima di morire, l'ultimo interrogatorio di Gabriele Chelazzi è nei confronti di Mori, Mario Mori.

ALFONSO SABELLA EX MAGISTRATO DI PALERMO Gabriele aveva intenzione di iscriverlo - questo l'ho detto in qualche sede ufficiale - nel registro degli indagati. Ma soprattuto diceva: "Benissimo, in ogni caso, se lui non mi vuole dire che quelle cose le ha fatte e le ha fatte nell'interesse dello Stato mi opponga il segreto di Stato e ce la vediamo con la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

PAOLO MONDANI In che cosa dava fastidio il suo lavoro secondo lei, rispetto a quella sentenza sulle stragi?

ALFONSO SABELLA EX MAGISTRATO DI PALERMO Nella misura in cui per la prima volta in un provvedimento giudiziario, che poi sarebbe pure passato in giudicato si parlava dell'esistenza della trattativa tra lo Stato e la mafia. Che era una cosa che non bisognava dire.

NINO DI MATTEO - MAGISTRATO PROCESSO TRATTATIVA - MEMBRO CSM Abbiamo recuperato tutto il lavoro che aveva fatto Gabriele Chelazzi. Mori rispondeva genericamente, a monosillabi o dicendo non so, non ricordo.

PAOLO MONDANI Il culmine dell'interrogatorio di Chelazzi al colonnello Mario Mori è proprio quando Chelazzi ricorda l'incontro tra Mori e Di Maggio, il vice capo del Dap…

NINO DI MATTEO - MAGISTRATO PROCESSO TRATTATIVA - MEMBRO CSM Il colonnello Mori si attivò anche nel 1993 attraverso Francesco di Maggio, vice capo del Dap, per capire che cosa si potesse in qualche modo fare per venire incontro a quelle che erano state le richieste iniziali che, attraverso Vito Ciancimino, Riina aveva fatto pervenire allo Stato. E poi a partire dal novembre del 1993, 334 decreti del 41 bis non furono prorogati.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Oggi si riparla di depotenziare e persino di abolire il 41 bis. E dopo la decisione della Corte Europea dei diritti dell'uomo di dichiarare illegittimo l'ergastolo ostativo la Corte Costituzionale ha dato al Parlamento un anno per decidere come modificarlo. L'ergastolo ostativo è il divieto di concedere benefici penitenziari ai mafiosi che non intendono collaborare con la giustizia.

PAOLO MONDANI Lei cosa pensa?

LUIGI PATRONAGGIO PROCURATORE DELLA REPUBBLICA AGRIGENTO Guardi, io l'ho detto, ho fatto una battuta più volte: a Bruxelles non arriva l'odore del tritolo. Probabilmente migliorare il 41 bis è necessario, però dobbiamo tenere conto delle peculiarità delle mafie, di Cosa Nostra e delle mafie italiane.

NINO DI MATTEO - MAGISTRATO PROCESSO TRATTATIVA - MEMBRO CSM Oggettivamente si stanno realizzando alcuni degli obiettivi della Cosa Nostra stragista del '92-'93-'94. E oggettivamente stiamo procedendo verso uno smantellamento totale di quell'impianto complessivo di norme: il 4 bis dell'ordinamento penitenziario, il 41 bis, le norme sui collaboratori di giustizia che era stato concepito sotto la spinta ideativa e organizzativa di Giovanni Falcone.

ALFONSO SABELLA EX MAGISTRATO DI PALERMO Perché lo si faccia proprio oggi? Perché in questo momento soprattutto dopo il Covid, il nostro paese, la nostra economia legale soffre una grande carenza di liquidità. Liquidità che possono mettere in campo i mafiosi. Io distinguo le mafie in grandi stagioni: la prima stagione è la mafia uno punto zero che era la mafia che conviveva con lo Stato fino all'avvento dei corleonesi; la mafia dei corleonesi è la mafia che ha sfidato lo Stato; la mafia del dopo stragi, del dopo Patto, è la mafia che ha trattato appunto con lo Stato e ora c'è una mafia che ha capito che è molto più comodo lo Stato comprarselo. E oggi hanno i soldi per farlo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Senza il contributo dei collaboratori di giustizia non sapremmo i nulla di Cosa nostra, di 'Ndrangheta e Camorra, nulla sulle stragi, nulla sui rapporti tra mafia, politica imprenditoria, massoneria deviata e servizi. Forse vivremmo sotto una beata incoscienza, ma sicuramente soffocati dal male. Da tempo però l’istituto della collaborazione è in pericolo. Nel 2004 il governo Berlusconi aveva varato un decreto poi attuato nel 2009, che sta erodendo piano piano la possibilità dell’anonimato per chi collabora. La possibilità per collaboratori e loro familiari di ricostruirsi una nuova identità per reinserirsi nella società. Questo ora è caduto è successo anche a un pentito storico come Barreca, pentito di ‘ndrangheta. In passato bisogna ricordare che pentiti come Buscetta, La Barbera, Di Matteo, sono stati uccisi i familiari e addirittura bambini sciolti nell’acido. Ora in queste ore si sta discutendo sulla riforma della giustizia e il governo dovrebbe mandare un segnale chiaro, crede ancora nell’istituto della collaborazione? Bisogna capirlo perché ci sono dei collaboratori di giustizia che si stanno fermando, altri potenziali che ci ripensano. Con la possibilità di abolire l’ergastolo ostativo c’è la possibilità di fare uscire dal carcere un mafioso senza che abbia detto una parola di verità. Potrebbe ripensarci anche chi come Graviano accusato oggi di essere l’esecutore della strage di via D’Amelio che ha tenuto la bocca cucita per 27 anni e che ha cominciato a parlare in questi mesi potrebbe ripensarci perché potrebbe uscire dal carcere senza dire una parola sulle stragi. Bisogna ricordare che se la mafia uccide, come disse Peppino Impastato, uccide anche il silenzio.

Report, i legali di Silvio Berlusconi: "Tesi preconfezionate e diffamatorie, pronti a ogni iniziativa". Libero Quotidiano il 05 gennaio 2021. Silvio Berlusconi contro la Rai. Nel mirino del leader di Forza Italia Report, la trasmissione di Rai 3 condotta da Sigfrido Ranucci. Qui, nella puntata del 4 gennaio, "affermazioni e indicazioni destituite di ogni fondamento sono state riportate "come acclarate e veritiere". Questa l'accusa mossa dai legali del Cavaliere, Niccolò Ghedini e Franco Coppi. "Non si è minimamente dato conto che per quanto attiene la posizione del presidente Berlusconi mai nessuna sentenza lo ha ritenuto in alcun modo coinvolto nelle vicende de quibus, essendo anzi risultato che sia lui sia le sue società sono state vittime della mafia e le molteplici archiviazioni sono un dato oggettivo e incontrovertibile", dicono in una nota. Ma c'è di più perché gli avvocati contestano la mancanza, salvo un accenno, delle argomentazioni fatte pervenire direttamente alle redazione qualche giorno prima, il 30 dicembre. Precisazioni che rispondevano alle domande poste dallo stesso programma tv. Da qui la conclusione: "Una trasmissione con tesi preconfezionate mosse da evidente pregiudizio, senza alcun contraddittorio, e palesemente diffamatorie. Ci si riserva, quindi, ogni iniziativa giudiziaria del caso". Report non è nuovo a controversie di questo tipo. Anche Giorgia Meloni settimane fa si era scagliata contro Viale Mazzini. L'accusa? "Un taglia e cuci" ad hoc da parte del programma della terza rete pubblica.

«Quell’inchiesta di Report su Stato-mafia ha troppe lacune…». Esposto a Csm, Antimafia e Vigilanza Rai. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 12 gennaio 2021. Gli avvocati degli ex ufficiali dei Ros hanno presentato un esposto a Csm, Antimafia e Vigilanza Rai per la trasmissione Report. La puntata di Report del 4 gennaio scorso ha dato per certo l’avvenuta trattativa Stato-mafia, basandosi solo sull’esito del processo di primo grado. Nessun condizionale, nonostante l’esistenza di ben sei sentenze di tribunale che hanno anche decostruito la tesi sulla presunta trattativa Stato-mafia, condotta dagli ex ros Mario Mori e Giuseppe De Donno tramite l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. Non solo. Nella medesima trasmissione, servizio pubblico della Rai, sono intervenuti i magistrati inquirenti rappresentanti l’accusa nel processo del quale si sta svolgendo il II° grado. Sono i punti principali che gli avvocati Basilio Milio e Francesco Romito, legali degli ex ufficiali dei Ros, hanno segnalato con un esposto inviato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini. al presidente della commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra, al presidente della commissione parlamentare per la Vigilanza dei servizi radiotelevisivi, Alberto Barachini, e al presidente della Rai Marcello Foa. Gli avvocati, nella segnalazione rivolta all’autorità, denunciano che il servizio è andato in onda infondendo certezze ai telespettatori, senza però mostrare i documenti che smentiscono alcune ricostruzioni date anche dai magistrati intervistati. Tutto ciò è avvenuto – si legge nell’esposto – «nonostante la Rai sia un ente assimilabile ad un’amministrazione pubblica in quanto – oltre a beneficiare della riscossione di un canone di abbonamento per la copertura dei costi del servizio pubblico, avente natura di imposta gravante su chi possiede apparecchi radiotelevisivi – è concessionaria ex lege dell’essenziale servizio pubblico radiotelevisivo, che è previsto debba esser svolto nell’interesse generale della collettività nazionale per assicurare il pluralismo, la democraticità, l’ imparzialità e la completezza dell’informazione».

L’intervista a Claudio Martelli e ciò che, però, disse altrove. Durante il servizio, il giornalista di Report chiede all’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli: «Quella trattativa fu un’iniziativa di polizia o un’iniziativa anche politica, con un mandante politico, mi faccia l’identikit?». Martelli risponde: «Io penso di sì. Il Presidente della Repubblica dell’epoca, Oscar Luigi Scalfaro». Gli avvocati Milio e Romito, fanno però presente che Report avrebbe dovuto mettere a conoscenza dei telespettatori i fatti cristallizzati nei processi. Ci sono le motivazioni della sentenza di assoluzione di Calogero Mannino, dove i giudici hanno ritenuto «probabile che gli ufficiali del Ros avessero informato di tale iniziativa anche Borsellino – che con Mori e De Donno aveva all’epoca un rapporto di assoluta ed esclusiva fiducia, tanto da chiedere di vederli, riservatamente, nei locali della Caserma dei Carabinieri e non in quelli della Procura, per parlare del rapporto “mafia-appalti” poco prima della sua uccisione – giacché quando il giudice ne era stato informato dalla Ferraro, non ne era rimasto affatto stupito, né contrariato, rispondendo alla dirigente degli Affari Penali del Ministero che andava bene e che se ne sarebbe occupato lui». I legali segnalano anche una intervista che lo stesso Martelli rilasciò a Il Tempo nel 2009. A domanda se «c’è stata questa trattativa tra lo Stato e la mafia?» ha affermato: «c’è stata nei termini, se mi aiuti a prendere Riina io ti do qualcosa in cambio, come avviene con i pentiti. Probabilmente i Ros offrirono qualcosa in cambio dell’arresto del capo dei capi, ma nulla di più. Penso che bisognerebbe abbandonare questa teoria, troppe cose non tornano, evitiamo di arrivare al punto in cui Riina si auto assolva per far ricadere le colpe sulle istituzioni».

Pignatone: “Falcone aveva già scartato l’ipotesi Gladio”. A Report è intervenuto anche Roberto Scarpinato, capo della procura generale di Palermo che rappresenta l’accusa nel processo attuale ancora in corso. Ad un certo punto, riferendosi all’omicidio Mattarella, dice: «Falcone giunge alla conclusione che non è stato ucciso da mafiosi ma è stato ucciso da due esponenti della destra eversiva, Cavallini e Fioravanti, gli stessi che sono coinvolti nella strage di Bologna. E da quel momento in poi comincia ad indirizzare la sua attenzione su Gladio». Si sussegue la voce narrante che dice: «l’indagine su Gladio rimase aperta». In questo modo, sottolineano gli avvocati, può indurre i telespettatori a pensare che in effetti Falcone non avrebbe fatto in tempo ad indagare su Gladio. Ma non è così. «Al riguardo – si legge nella segnalazione all’autorità -, anziché lasciare dubbi o sospetti, sarebbe stato doveroso informare telespettatori sulla base di atti pubblici, acquisiti, peraltro, dal predetto Procuratore presso il Csm, precisando che le indagini su Gladio vennero svolte ed esclusero coinvolgimenti negli omicidi politici». E infatti nei verbali c’è l’audizione del magistrato Giuseppe Pignatone che dice due cose fondamentali: una che Falcone era d’accordo con la requisitoria sull’omicidio Mattarella, due che su Gladio ci furono inizialmente dei contrasti sul come fare le indagini. «Noi – disse Pignatone al Csm – avevamo una preoccupazione diversa, dico noi perché su questo eravamo tutti d’ accordo». Alla domanda «Tutti chi?», rispose: «Giammanco, Sciacchitano, Scarpinato, Lo Forte ed io». Il Csm: «Anche Scarpinato?». Rispose sempre Pignatone: «Anche Scarpinato. Scarpinato, come al solito, era molto meno acceso nella discussione, Roberto è quello che è, però sostanzialmente era d’accordo su questa impostazione che partiva dal presupposto che l’indagine si dovesse fare». Poi Pignatone spiegò che alla fine Falcone svolse le indagini con lui. Conclusione? «Giovanni fece tutti gli accertamenti che ritenne, dopo di che fu chiaro che Gladio non c’entrava minimamente». In effetti, come Il Dubbio ha potuto riscontrare, nell’ultimo atto a firma di Falcone sull’omicidio Mattarella si legge che non ha trovato nulla che portasse alla pista Gladio, tranne che rinvenire un appunto dei servizi concernente uno dei presunti killer di Mattarella, ma palesemente estraneo ai fatti.

Subranni, falange armatae protocollo farfalla. A Report è intervenuto anche Nino Di Matteo dicendo che Paolo Borsellino parlò in termini estremamente negativi e con un atteggiamento che la signora Agnese definisce sconvolto del suo ex amico generale Antonio Subranni. I legali di Mori e De Donno segnalano che Report avrebbe dovuto – per questioni di imparzialità nei confronti dei telespettatori – riportare fedelmente le parole di Agnese dove si evince tutt’altra interpretazione. Aggiungendo anche altre testimonianze. A partire dai verbali al Csm dove emerge che nell’ultima riunione a cinque giorni dalla strage di Via D’Amelio, Borsellino si è fatto portavoce delle lamentele dei Ros circa la conduzione del procedimento mafia-appalti. Report ha intervistato anche il magistrato Roberto Tartaglia, attuale vice capo del Dap, che dà per certo che la Falange armata sia espressione dei servizi segreti. Ma gli avvocati spiegano che Report, per completezza di informazioni, avrebbe dovuto citare il provvedimento del giudice Monteleone dove – attraverso indagini – ha smentito tale ricostruzione. Così come il Protocollo farfalla, operazione di intelligence che nulla ha che vedere con la presunta trattativa. Anzi, come ha scritto il Copasir, era volto a scovare una regia mafiosa dietro le proteste contro il 41 bis. Operazione, tra l’altro, fallimentare.

 “Portiamo Report in tribunale, troppe falsità su Berlusconi”, l’annuncio dell’avvocato Franco Coppi. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 7 Gennaio 2021. Servizio deviato. Ecco come si potrebbe classificare la puntata di Report del 4 gennaio, la docufiction andata in onda su RaiTre a sostegno delle tesi dell’accusa nel processo d’appello “Trattativa”; un servizio deviato da opinioni di parte e tesi bizzarre (su tutte: la moltiplicazione delle agende rosse di Borsellino) sostenute da un testimone contestato e controverso quale Salvatore Baiardo. «Nel corso della trasmissione Report – scrivono gli avvocati Franco Coppi e Nicolò Ghedini, che tutelano Silvio Berlusconi – sono state riportate come se fossero acclarate e veritiere affermazioni e indicazioni destituite di ogni fondamento e in molti casi palesemente inverosimili riguardanti il presidente Berlusconi». I due legali hanno stilato una nota in cui parlano di una trasmissione «con tesi preconfezionate mosse da evidente pregiudizio, senza alcun contraddittorio, e palesemente diffamatorie. Ci si riserva, quindi, ogni iniziativa giudiziaria del caso». La presa di posizione dei due legali è tanto più decisa in quanto l’esito del tam-tam mediatico (“Sarà una puntata storica”, aveva preannunciato Ranucci) è stata seguitissima, avendo raccolto davanti al video 2.957.000 spettatori, share dell’11.5%. Abbiamo chiesto un parere all’avvocato Coppi, che di processi di quel filone ne ha seguiti tanti, vincendone non pochi. La trasmissione Report partecipa all’Appello, anzi lo anticipa e quasi vorrebbe anche superarlo.

«Ho visto la trasmissione. Partendo dal principio della libertà di manifestazione del pensiero, ognuno su un tema che può essere di interesse generale, com’è tutto quello che riguarda Berlusconi, può dire quel che vuole. Poi però c’è il rovescio della medaglia: ciascuno si assume la responsabilità di quel che dice, se le cose che afferma non sono vere o sono presentate in maniera non corretta, ci sono responsabilità di natura penale o civile, senza dimenticare che in questa sede possono essere avanzate richieste di risarcimento del danno».

Stato-mafia contro mafia-appalti. Non se ne era occupato già anche Falcone?

«È un tema ricorrente: siamo costretti a rivivere ciclicamente lo stesso teorema. Come in tutta la storia di Andreotti, che malgrado le sentenze ogni tanto ricicciava come mafioso, non perché lo avesse stabilito la giustizia ma perché così era finito per essere sulla bocca di tutti. Mi sono fatto l’opinione che una cosa è vincere in aula di tribunale, e un’altra è vincere sull’opinione pubblica. Alla vulgata ci dobbiamo quasi abituare, anche chi di noi conosce la verità delle carte».

Il terzo livello che governa la mafia, questa super cupola fatta di servizi segreti e politica, che cos’è?

«Fantascienza. Una cosa impossibile, ma che ha una narrazione avvincente. Sono cose talmente inverosimili, talmente contrarie all’idea stessa di Stato, che chi le concepisce dimostra di non avere alcuna fiducia nell’ordinamento democratico, nella politica e appunto, nello Stato stesso. Non capisco come avrebbe potuto reggersi in piedi uno Stato basato sulla commistione tra poteri deviati e grande criminalità organizzata. Ma basterebbe un po’ di buon senso per fermarsi un po’ prima…»

Perché su certi temi il buonsenso fatica a farsi strada?

«Perché il buonsenso è merce rara, mentre forse il sensazionalismo vende di più. E poi il buonsenso dovrebbe essere unito alla buona fede, all’approfondimento delle cose, perché anche altrimenti io mi metto a disquisire dell’esistenza di Dio…»

E non ha in mano le carte che la provano, diciamo.

«Ecco, appunto. E allora non mi metto a iniziare quella disquisizione».

Cosa si può fare di riparatorio? Una puntata di Report più obiettiva?

«Mah, non è facile. Questa puntata riequilibratrice chi la fa, chi la conduce, con quali contributi? Si sta celebrando il processo di appello, l’informazione dovrebbe seguire la giustizia, non precederla o incoraggiare questa o quella conclusione. Alla fine tutto si risolve con i risarcimenti economici, e eventualmente – ma vanno fatti i conti con tanti problemi – con le sospensioni delle attività».

Ma il Csm potrebbe, dovrebbe dire la sua, per i magistrati che armano i processi in tv?

«Ormai dal punto di vista del processo mediatico si è diffusa una prassi per la quale i magistrati intervengono in tv quando vogliono, non mi scandalizzo più di tanto. Anche perché da parte dei magistrati si presume possano dire quello che credono, purché sia in buona fede. Ecco, glielo voglio concedere: possiamo sbagliare tutti, l’importante è essere in buona fede».

“Report favorisce i Graviano”, la verità del giudice del maxiprocesso Alfonso Giordano. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 9 Gennaio 2021. Alfonso Giordano, classe 1928, è il magistrato siciliano che ha presieduto il maxi processo a Cosa Nostra. Ha accettato di presiederlo quando più di qualcuno, tra i suoi colleghi, adduceva pretesti per declinare: troppe incognite, troppo lavoro e troppi rischi di essere ucciso. E invece il più ampio processo penale della storia è stato concluso dopo un lavoro ciclopico, svolto per il I grado in ventidue mesi serrati: 460 imputati, 200 avvocati, culminato con 19 ergastoli e 4665 anni di pene detentive complessive. Dopo una vita con il peso della scorta addosso, per le minacce continue di Cosa Nostra, ad appena 92 anni può finalmente dedicarsi a se stesso. Meritato riposo? Mica tanto: quando lo raggiungiamo è immerso nella scrittura del secondo libro, dopo quello dedicato alla storia del maxi processo: una ricostruzione della vicenda di Lucrezia Borgia. Vittima di intrighi di potere e delle maldicenze dell’epoca.

Parliamo di trame più recenti: lei come giudica la tesi della Trattativa Stato-mafia?

«Io ho rappresentato lo Stato nel processo più duro contro Cosa Nostra. Il nostro compito era quello di non fare sconti a nessuno, e non ne abbiamo fatti. Diciannove ergastoli comminati insieme e poi confermati in appello e in Cassazione significano che lo Stato con la mafia ci andava giù duro. Alla storia della cosiddetta Trattativa non credo e nessuno che conosce i fatti può credervi. Si era incaricato di smentirla Giovanni Falcone. La aveva considerata una ipotesi inesistente Paolo Borsellino».

Allora proviamo a fissare qualche paletto. Perché poi l’ipotizzata Trattativa la colloca dopo la sua sentenza di primo grado, anzi dopo l’assassinio di Salvo Lima, che non sarebbe riuscito a mitigare la sentenza di Cassazione.

«Sono fantasie, per quanto ne so, come conferma la sentenza di assoluzione di Mannino».

Il terzo livello esiste?

«Anche su questo presunto terzo livello, troppa fantasia. È stato agitato come uno spettro ma ogni volta che si sono svolte indagini accurate, non sono stati trovati riscontri alle ipotesi. Se ne era occupato Falcone, che lo escludeva completamente: la mafia non accetta suggerimenti e non si presta a cabine di regia congiunte con nessuno».

Cosa ricorda su questo punto nell’istruttoria del maxi processo?

«La fecero molto bene Falcone e Borsellino. Conclusero che la mafia era gelosa delle sue cose e che la Commissione, che rappresentava il vertice della Cupola, emetteva le sue sentenze senza dare ascolto né a servizi deviati né a emissari della massoneria, né altri».

Ma il dialogo della mafia con la politica c’era.

«In parte c’è sempre stato. Ma sul piano locale, e i politici che prendevano parte al dialogo con Cosa Nostra sono sempre stati quelli siciliani, con incarichi amministrativi. Non c’erano nei nostri riscontri politici di primo piano nazionale».

Lei interrogò personalmente Giulio Andreotti, tra gli altri. Come fu il confronto?

«Serio, serrato. Lo andai a sentire a Roma. Andreotti mise a disposizione le informazioni che aveva, negando un suo coinvolgimento diretto. Ma aveva capito il ruolo di Salvo Lima e di Vito Ciancimino. A fine interrogatorio ci fece gli auguri di buon lavoro e non interferì mai, in nessun modo, con le indagini».

Il maxi processo beneficiò delle ampie rivelazioni di Tommaso Buscetta. Che però sui rapporti con la politica non furono così ampie.

«È vero, Buscetta non voleva parlare dei rapporti con la politica. Con Falcone accennò al ruolo di Salvo Lima, una volta. Io nel dibattimento lo incalzai ma lui, che pure tirò fuori i nomi di tantissimi mafiosi, non fece nomi di politici. Non so se per paura o per scarse informazioni».

Borsellino voleva andare a fondo e stava indagando sul filone mafia-appalti.

«Sì, Borsellino stava stringendo il cerchio sul filone che riguardava più da vicino il sistema delle complicità tra politica e Cosa Nostra, anche con riferimento ad un sistema di corruzione diffuso. Stava indagando su questo nei giorni subito precedenti all’attentato mortale di via D’Amelio».

In quell’occasione scomparve la sua agenda rossa. Ci aiuta a capire che cos’era?

«Si è favoleggiato moltissimo su quell’oggetto. Io conoscevo l’ordine meticoloso e l’aggiornamento delle cartelle di indagine di Borsellino, dei suoi uffici con cui mi trovai a lavorare in quegli anni. Non era un uomo che poteva affidare a un quadernetto chissà quali segreti. Aveva una agenda tascabile come la avevamo noialtri; c’erano gli appuntamenti giorno per giorno, gli orari delle riunioni e delle telefonate da fare, e alla fine c’era la rubrica telefonica con i numeri da portarsi dietro, perché parliamo di anni in cui i cellulari non c’erano. Certo è strano che sia sparita, è un mistero chi l’abbia presa e dove sia. Ma escluderei che possa contenere chissà quali rivelazioni».

C’è un florilegio di ipotesi, ci sono pentiti che dicono di averne visto girare anche più copie…

«Noi sui collaboratori di giustizia dobbiamo stare molto attenti. I depistaggi esistono sempre. Chiedo ai colleghi magistrati di mettere sempre il massimo dell’attenzione sull’attendibilità di chi collabora, perché le finalità della collaborazione sono sempre diverse da quelle che noi immaginiamo. Ciascuno ha in mente una propria mappa di convenienze e connivenze, di interessi particolari. E se raccomando attenzione ai magistrati, figuriamoci ai giornalisti. Chi ricostruisce reportage sulla base di dichiarazioni di presunti pentiti inattendibili non fa un servizio alla verità dei fatti».

Salvatore Baiardo, il gelataio di Omegna, sostiene che Berlusconi sia venuto in Sicilia quattro volte per incontrare i fratelli Graviano.

«Mi sembra inverosimile, e non risulta da nessun riscontro, né dalle rivelazioni di Buscetta. Sa cosa penso? Che sia una voce che favorisce i fratelli Graviano, perché li riveste di un’autorevolezza un po’ superiore a quella che avevano. Si vogliono far passare per depositari di segreti che in realtà non esistono».

Che ruolo ha avuto Berlusconi rispetto a Cosa Nostra?

«Per quel che so Berlusconi ha avuto delle minacce da Cosa Nostra, sia dal punto di vista economico, sia da quello fisico. Tramite Dell’Utri, di cui si fidava, accettò di assumere Mangano, un personaggio incaricato da Pippo Calò di tenere Berlusconi sotto protezione. Come è noto abbiamo condannato Calò e Mangano, dopo aver acquisito tantissima documentazione. Agli atti non risulta niente di più su Berlusconi, ma vedo che il suo nome continua a circolare a prescindere».

Del maxi processo rimane epico, tra i tanti, il momento del confronto Buscetta-Calò. Come vide reagire Calò alle pesanti accuse che gli venivano rivolte?

«Calò era bravo a dissimulare, non cambiava mai espressione, anche quando li mettemmo seduti fianco a fianco. Ma quando Buscetta iniziò a parlare degli omicidi commessi personalmente da Calò, lo vidi prima sbiancare all’improvviso, poi irrigidirsi, con gli occhi sgranati. Ero in quel momento a pochi metri davanti a lui. Buscetta gli disse: “Come hai potuto ammazzare La Licata che era tuo amico, con le tue mani?”. Buscetta provò a negare perfino di conoscerlo: “La Licata chi è?”, e Buscetta lo incastrò: “Ma se hai condiviso con lui anche la cella”, e fece cenno a noi magistrati di andare a verificare sui registri carcerari. Fu l’inizio di una lista di omicidi. Calò capì in quel momento di essere finito, gli stava piombando davanti la realtà. Trasecolò».

È in questi giorni a Palermo l’appello Stato-mafia, come andrà a finire?

«Le sentenze del processo a Mannino mettono in chiaro ruoli e dinamiche: non è esistita. Che qualche elemento dello Stato possa aver parlato con qualche elemento della mafia, non lo escludo. Ma non per rispondere a un interesse generale, a un disegno complottistico come quello di cui si legge. Ho conosciuto sul campo il valore di uomini che hanno sfidato la morte centinaia di volte, pur di contrastare Cosa Nostra. E vedere i loro nomi in quel processo mi fa male, mi creda».

Il Generale Mario Mori, per esempio?

«Mori, per esempio, certo. Uno che colpiva con grande decisione la criminalità organizzata, a cui lo Stato dovrebbe gratitudine, piuttosto. Ha avuto interlocuzioni, ha cercato informatori, ha seguito la pista di qualche infiltrato che riferiva? Io ho potuto condannare sulla base delle operazioni che ha portato a termine Mori, se vuole la mia testimonianza è questa».

Oggi c’è un processo mediatico che partecipa del processo in aula, magari provando a influenzarlo?

«C’è una esagerazione, un giustizialismo mediatico. Con una preponderanza sull’interpretazione dei fatti. I fatti andrebbero trattati quali sono, e non come forse sono, o come forse vorremmo che fossero andati. Qui c’è una confusione di ruoli che secondo me è dovuta alla televisione, a un linguaggio poco accurato che mal si concilia con l’attenzione certosina di tutti i dettagli della ricostruzione dei fatti, cosa di cui invece si incarica il processo. Un difetto che si è aggravato nel tempo».

Trattativa stato-mafia: vent’anni di panzane. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 6 gennaio 2021. Le ricostruzioni si rincorrono e alimentano leggende senza lo straccio di una prova. Gli ultimi servizi sulle stragi mafiose hanno fatto il giro dei social ma di novità e di cose verificate ce ne sono ben poche. Per riassumere la puntata di Report sulla trattativa stato mafia e le stragi, può essere utile una citazione messa a epigrafe del libro “Complotto!” scritto a quattro mani dal compianto Massimo Bordin e Massimo Teodori. Si tratta quella di Mordecai Richler: «Il mio problema con i teorici della cospirazione è che, se gli dai un dito di porcherie accertate, loro si prendono tutto un braccio di fantasie. O peggio». Sì, perché ogni evento tragico di questo Paese, ed è un fatto, può essere però preso per comporre un mosaico a proprio piacimento. Così si possono unire i puntini e dire che tutte le stragi che hanno attraversato questo nostro strano Paese siano mosse da una unica regia. Quindi, come fa intendere Report, la strage di Bologna e quelle siciliane di Capaci e Via D’Amelio appartengono ad un unico piano eversivo.  Vale la pena ricordare cosa disse, in una intervista su radio radicale a cura di Sergio Scandura, l’ex magistrato ed ex parlamentare di Rifondazione comunista Giuseppe Di Lello: «Ho già in passato espresso delle perplessità enormi per la ricostruzione secondo me un po’ giornalistica di questo pezzo della storia d’Italia che accomuna soggetti molto diversi tra di loro e mescola due epoche storiche distinte». Di Lello non è un personaggio qualsiasi. È un pezzo pregiato della storia dell’antimafia. Ha fatto parte del pool antimafia dal primissimo momento. Il Pool lo fondò Rocco Chinnici, nei primi anni ottanta, e chiamò con sé quattro giovani magistrati quarantenni: Giovannni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Peppino Di Lello. Quest’ultimo è stato uno dei protagonisti del celeberrimo maxiprocesso alla mafia ed è restato fino alla fine nel pool, cioè fino a che non lo smantellarono.Ma ritorniamo al mosaico composto da Report. Ogni tassello affrontato mostra però alcune lacune. Sicuramente per distrazione. Partiamo dallo scoop sull’agenda rossa. Anche perché è l’unico, il resto è stato tutto già affrontato dalle motivazioni relative alla sentenza di primo grado sulla trattativa stato mafia. Sì, perché nelle stesse pagine , si auto-certifica anche la peculiarità dell’attività ricognitiva svolta, definendola espressamente «ardua e pressoché titanica» dal momento che ha riguardato non i singoli fatti contestati agli imputati, ma un insieme amplissimo di «vicende complesse e mai del tutto chiarite che hanno riguardato la storia repubblicana in un arco temporale ricompreso tra la metà degli anni sessanta e i giorni nostri», passando dai tentativi di golpe dei primi anni settanta, al sequestro Moro, sino al terrorismo brigatista e alla P2, oltre, ovviamente, alle stragi mafiose. Esattamente quello che ha riportato Report. Nulla, appunto, di esclusivo.Però sull’agenda rossa di Borsellino sì. Report ha intervistato Salvatore Baiardo, l’uomo che ha coperto la latitanza dei fratelli Graviano, potente famiglia mafiosa accusata anche della strage di via D’Amelio. In sostanza dice che ci sono più copie dell’agenda sottratta dall’ auto in fiamme del giudice Borsellino, finite a diverse persone. Non solo a Matteo Messina Denaro e i Graviano stessi, ma anche ad altri soggetti. Stupefacente. Un uomo che faceva il gelataio ad Omegna (località dove appunto latitava Graviano), ha custodito per tutti questi anni un segreto di tale portata. Ma è una persona attendibile? Non possiamo giudicarlo noi. Ma per rispetto della cronaca, dobbiamo ricordare che Baiardo, condannato per favoreggiamento ai Graviano, nel 94 aveva raccontato molte cose alla Dia di Firenze che stava indagando sulla strage di Via dei Georgofili. Il risultato di allora? Nessun riscontro alle sue affermazioni che non hanno portato a delle certezze giudiziarie. Non solo. Baiardo ha sostenuto che, il giorno dell’attentato in Via D’Amelio , Graviano fosse con lui, nella sua gelateria di Omegna, e che, appresa la notizia, si sarebbero diretti verso casa per vedere il telegiornale. Parliamo di un personaggio, appunto, ambiguo. Report l’avrebbe dovuto dire. Magari evocando cosa disse Vincenzo Amato, giornalista de La Stampa scelto da Baiardo in quanto suo conoscente, per rilasciargli le sue dichiarazioni: «La mia personale impressione su Salvatore Baiardo è, al di là delle vicende accertate, questa: che lui “venda” un po’ di fumo per cercare di ritagliarsi un qualche spazio. Non mi sembra del tutto credibile. Lui effettivamente è stato arrestato e si è fatto in carcere dal ’95 al ’99 effettivamente per questi rapporti con i Graviano. È anche noto alle forze dell’ordine locali perché ha avuto una serie di, diciamo di vicende, di guai giudiziari; tra l’altro per piccole truffe anche da mille euro, da cifre di questo genere». Ecco, stando alle parole del giornalista Amato, parliamo di uno che avrebbe millantato per truffare persone.Anche l’intervista a Gioacchino Genchi è interessante. Ha parlato della sparizione di alcuni file dal computer di Falcone. Ebbene, appare strano che al giornalista di Report non abbia specificato i nomi dei file. Sì, perché c’è una lunga intervista di giugno scorso che Genchi ha rilasciato al giornale on line Ilsicilia.it, dove disse testuali parole: «C’era un file nascosto, denominato “Orlando.bak”, un file di backup per il quale mancava il file “Orlando.doc”. Era sparito. Qualcuno lo ha cancellato, probabilmente perché dava fastidio. Il file “Orlando.bak” conteneva tracce degli appunti di Falcone per difendersi al Csm dalle accuse dell’allora sindaco Orlando». Invece a Report questo passaggio non compare. Possibile che Genchi non glielo abbia riferito? Sicuramente sarebbe stato un altro tassello interessante, anche se difficoltoso per comporre il mosaico che ne è uscito fuori.Anche la famosa frase di Borsellino riportata a conclusione dal conduttore di Report, sarebbe diventato un altro tassello anomalo se fosse stata riportata nella sua interezza. Perché? Manca il riferimento ai magistrati. Allora la diciamo noi. Nel verbale di assunzione di informazioni del 18 agosto 2009, davanti al Pubblico Ministero presso il tribunale di Caltanissetta, la signora Agnese Piraino Borsellino ha dichiarato: «Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza, Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo». Paolo Borsellino, in tale occasione, non fece nessun nome alla moglie, la quale però ha soggiunto: «comunque non posso negare che quando Paolo si riferì ai colleghi non potei fare a meno di pensare ai contrasti che egli aveva in quel momento con l’allora Procuratore Giammanco». Sarebbe stato un tassello difficile da farlo incastrare nel mosaico ricostruito da Report. Così come sarebbe stato ancora più “anomalo” rendere pubblici in TV i verbali che Il Dubbio, dopo 28 anni, ha pubblicato per la prima volta dove si parla dell’ultima riunione in procura alla quale partecipò Borsellino: emerge che ci fu tensione e avanzò rilievi sulla conduzione del procedimento mafia appalti, facendosi portavoce delle lamentele dei ros Mori e De Donno.  Parliamo del 14 luglio. Il giorno dopo qualcuno andò da Borsellino a parlar male del carabiniere dei ros. Cinque giorni dopo la strage.  «Del nido di vipere si continua a non parlare», esclama polemicamente su Facebook l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino. “Nido di vipere” è un’altra espressione di Paolo Borsellino, riferendosi alla procura di Palermo di allora.

Secondo Report Falcone e Borsellino non hanno capito nulla della trattativa Stato-Mafia. Leonardo Berneri su Il Riformista il 6 Gennaio 2021. Il giudice Giovanni Falcone ha già dovuto fare i conti con le tesi di fondo riportate da Report. Ha indagato e le ha smontate pezzo per pezzo. Ma andiamo con ordine, partendo dal fatto che il teorema sulla presunta trattativa Stato Mafia sta man mano cambiando in corso d’opera. Lo vediamo con l’arrivo del pentito Pietro Riggio, ex agente penitenziario passato alla mafia, che in tutti questi anni avrebbe custodito indicibili segreti, a partire dal coinvolgimento di alcuni funzionari della Dia che avrebbero fatto il doppio gioco per la cattura di Bernardo Provenzano. Non solo. Nell’attentato di Capaci, la mafia corleonese appare perfino ingenua: Giovanni Brusca ha creduto di aver premuto il telecomando che ha azionato il tritolo, mentre in realtà sarebbero state altre “entità” come i servizi segreti libici. Ora arriva Report che aggiunge altri dettagli: ci sarebbe stata una sorta di organizzazione superiore formata da massoni, servizi segreti deviati, P2 ed estremisti di destra che avrebbe contribuito ad organizzare tutte le stragi: da quella di Bologna a quelle di Capaci e Via D’Amelio. In sostanza c’è questa sorta di Terzo Livello che avrebbe non solo orientato Cosa Nostra, ma tutta la Storia del nostro Paese. Scoop? In realtà sono antiche suggestioni che hanno tormentato lo stesso Falcone, il quale in più di una occasione ha dovuto smontare. «Non esistono vertici politici che possono in qualche modo orientare la politica di Cosa Nostra. È vero esattamente il contrario. Credo di averlo dimostrato in più occasioni», ha spiegato Falcone davanti al Csm per difendersi dall’esposto presentato dall’allora sindaco di Palermo Leoluca Orlando, insieme all’avvocato Alfredo Galasso e Carmine Mancuso. Il giudice Falcone poi è andato sul punto: «Il terzo livello, inteso come direzione strategica, che è formata da politici, massoni, capitani d’industria, ecc. e che sia quello che orienta Cosa Nostra, vive solo nella fantasia degli scrittori: non esiste nella pratica». Più avanti ha poi esclamato: «Magari ci fosse un terzo livello! Basterebbe una sorta di Spectre, basterebbe James Bond per togliercelo di mezzo!». Dello stesso avviso era ovviamente il suo collega e amico fraterno Paolo Borsellino: durante l’intervista rilasciata a Giuseppe D’ Avanzo a pochi giorni dalla strage di Capaci, ha ribadito il concetto sottolineando che per fare quel brutale attentato, la mafia non aveva certo bisogno di aiuti esterni. Ora però scopriamo che i due giudici non ci avrebbero capito nulla. Sono morti mica perché stavano annientando la mafia (basti pensare al maxi processo) e indagando sugli interessi convergenti con il mondo politico economico (appalti con il coinvolgimento di importanti pezzi della grande borghesia). Assolutamente no. Sono stati uccisi perché la loro morte sarebbe rientrata in una sorta di strategia della tensione per destabilizzare la vita democratica del Paese. Una società segreta così sofisticata e ingegnosa che, altro scoop di Report, perfino un gelatiere di Omegna, tale Salvatore Baiardo, viene a conoscenza che più copie dell’agenda rossa di Borsellino sarebbero finite in diverse mani. Non interessa sapere che, nel passato, la Dia di Firenze si era messo in contatto con lui nell’ambito delle inchieste sulle stragi. «Era difficile – ha detto l’allora funzionario della Dia Francesco Messina sentito recentemente al processo ‘ndrangheta stragista – trovare una logica nel comportamento di Baiardo. Non c’è mai stata una grande collaborazione. Abbiamo anche avuto il dubbio che il suo comportamento fosse etero diretto». Evidentemente, per un certo giornalismo di inchiesta va bene sentire chiunque. Ha quindi sbagliato Falcone. Non si era accorto, ad esempio, che l’estremista di destra palermitano, Alberto Volo, definito un mitomane in più di una sentenza, gli diceva la verità parlando di Gladio e società occulte che avrebbero contribuito nell’omicidio Piersanti Mattarella. Anche in quel caso, Cosa Nostra apparirebbe come una comparsa. Un Totò Riina quasi senza colpa, ma manovrato da altri. Falcone lo ha ascoltato attentamente, per poi mettere nero su bianco agli atti: «Vale la pena di rilevare immediatamente come il comportamento del Volo in questo processo risponda a quel ruolo fantastico e delirante del quale l’imputato ha deciso di connotare ogni momento della sua esistenza». In realtà lo stesso Volo, 40 anni prima di Report e dell’attuale procuratore generale di Bologna Ignazio De Francisci (proviene dalla procura di Palermo) che indaga sui presunti mandanti della strage (quasi tutti morti), aveva parlato con Falcone di un collegamento tra gli ex nar Valerio Fioravanti e Francesca Mambro con la P2 di Gelli. Ancora una volta Falcone non ci ha capito nulla. Sì, perché vagliò anche quelle dichiarazioni, per poi giungere a questa conclusione: ovvero che la «la valutazione negativa di Fioravanti come killer della P2 nasce nell’ambiente di Terza Posizione, soprattutto dopo l’omicidio di Mangiameli» e che «i rapporti presunti tra Fioravanti e Gelli non costituiscono oggetto di cognizione diretta, ma vengono dedotti dai rapporti tra Valerio e Signorelli, ritenuto in contatto con Gelli per tramite di Aldo Semerari». Falcone scarta anche questi legami, oltre a ribadire «l’irriducibile vocazione di Cosa Nostra a salvaguardare la propria segretezza e la propria assoluta indipendenza da ogni altro centro di potere esterno». Dulcis in fundo, Report rispolvera anche l’ipotesi che sia Falcone che Borsellino si sarebbero interessati di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Non c’è un solo indizio che porti a quello. Anzi, l’esatto contrario. Due sono le prove che smentiscono tale diceria. Una è l’intervista fatta, per conto della Tv francese Canal Plus, a Paolo Borsellino. I due giornalisti, Fabrizio Calvi, alias Jean- Claude Zagdoun, autore di numerosi libri, soprattutto sui servizi segreti e Jean Pierre Moscardo, scomparso nell’ottobre 2010, hanno anticipato che gli avrebbero fatto domande su Dell’Utri e Berlusconi. Non sapendo nulla di loro, Borsellino ha chiesto al suo collaboratore Giovanni Paparcuri di trovare qualche atto. Trovò un rapporto della Finanza di Milano e glielo ha dato. Durante l’intervista, quella integrale, emerge in tutta evidenza che Borsellino non se ne stesse assolutamente occupando e infatti, alle ripetute sollecitazioni dei giornalisti, ci ha tenuto sempre a precisare che erano argomenti da lui non trattati. La seconda prova è proprio il famoso appunto di Falcone relativo a Berlusconi che è stato ritrovato circa due anni fa. Grazie alla ricostruzione dell’ex ispettore di polizia Maurizio Ortolan, ora sappiamo che Falcone ascoltò il pentito Francesco Marino Mannoia raccontare, fra l’altro, del pizzo pagato da Berlusconi per proteggere la Standa. Falcone, racconta l’ispettore, interrogava prendendo appunti e solo dopo verbalizzava. Chiese subito a Mannoia se avesse qualche riscontro su Berlusconi e quello rispose ridendo che certo non ne aveva. Falcone poi non lo mise a verbale e l’ispettore non se ne stupì. Sì, perché il giudice aveva il “difetto” di non imbastire processi sul sentito dire. Ciò accadde nel 1989 e non risulta che Falcone abbia dato un seguito alla questione. In fondo si trattava di estorsioni e in quel periodo stava svolgendo indagini ben più delicate.

«Dobbiamo capire quali informazioni possano essere finite a Borsellino, potremmo iniziare a vedere la finalità preventiva di bloccarlo sul fronte del dossier mafia appalti», ha ribadito recentemente l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, durante il recente processo contro Matteo Messina Denaro. Peccato che Report non l’abbia intervistato o preso minimamente in considerazione. In quel caso non servirebbero suggestioni o testimonianze de relato, ma montagne di documenti, verbali e atti che comproverebbe la casuale delle stragi. L’inchiesta costerebbe più fatica, sicuramente meno intrigante, ma sarebbe più gratificante perché finalmente si ridarebbe voce a Falcone e Borsellino. Un po’ meno ai loro presunti eredi.

Da professionereporter.eu il 15 settembre 2021. Sette anni e tre mesi dopo. Il Corriere della Sera scivola ancora su Dell’Utri. O meglio, per la seconda volta, in sette anni e tre mesi, il Cdr deve intervenire con la direzione per una “inopportuna” pagina pubblicitaria comprata da amici del senatore di Forza Italia condannato per reati di mafia. Allora era direttore Ferruccio De Bortoli, oggi è Luciano Fontana, nel 2014 condirettore. Nel Cdr uno dei membri, Alfio Sciacca, valido cronista siciliano, bravo sindacalista, oggi nel desk delle Cronache italiane, c’era allora e c’è oggi. “Caro Direttore -dice la lettera inviata il 14 settembre 2021 a Fontana- vorremmo esprimerti il disagio nostro e di molti colleghi dopo aver visto un’intera pagina del Corriere dedicata all’inserzione a pagamento per gli auguri di compleanno a Marcello Dell’Utri. L’iniziativa ha suscitato anche la reazione di molti lettori, con commenti non lusinghieri sui social. Comprendiamo che questa pagina è ben diversa da un’altra inserzione, sempre a pagamento, pubblicata sette anni fa, che era una strisciante interferenza nell’attività degli organi inquirenti. Ma anche per questo precedente riteniamo che chi gestisce le pagine pubblicitarie dovrebbe osservare maggiore attenzione ed evitare che sorga anche il minimo dubbio sull’assoluta intransigenza del Corriere della Sera nei confronti di chi ha condanne definitive per reati di mafia ed è imputato in altri processi, sempre per reati di mafia”. La pagina (numero 26) è uscita il 10 settembre, in occasione degli 80 anni di Dell’Utri, condannato in via definitiva a 7 anni per concorso esterno a Cosa nostra, condannato in primo grado a 12 anni al processo sulla Trattativa Stato mafia. Amici dell’ex senatore di Forza Italia hanno deciso di fargli gli auguri sul Corriere. Il messaggio, in maiuscolo e al centro della pagina: “Tanti auguri caro Marcello”. In alto a destra l’annuncio: avviso a pagamento. Attorno al messaggio, le firme. Tra le quelle più chiare, quella di Giuseppe Di Peri, già avvocato difensore di Dell’Utri nei processi celebrati a Palermo, e quella di Giancarlo Galan, ex governatore del Veneto che ha patteggiato una condanna per corruzione. Sette anni e tre mesi fa la pagina a pagamento diceva in grande, al centro: ”Al tuo fianco, Marcello”. Tutto attorno, un’ottantina di messaggi di sostegno. Dell’Utri era allora recluso nel carcere di Parma, scontando la condanna definitiva a sette anni. Le firme erano quelle di chi ha lavorato con lui in Publitalia, la concessionaria di pubblicità del gruppo Mediaset: “Nulla può cambiare il nostro giudizio sul contributo positivo e straordinario che il nostro lavoro con lui ha donato a tutta l’Industria e al nostro Paese”. A seguire, i ‘post it’ di tutti coloro che sono stati più vicini all’ex dirigente Fininvest, collaboratore di Silvio Berlusconi e tra i fondatori di Fi: amici, colleghi, fondazioni editoriali e culturali, il suo autista, Giuseppe Mariani, e la sua storica segretaria, che si firma solo Ines. Tanti anche quelli che condividono con Dell’Utri la passione per i libri antichi. Ed ecco allora l’intellettuale Camillo Langone, che scrive: “Sognando, dopo qualche bicchierino di Nardini pieno grado, la biblioteca di via Senato: non l’ho mai vista, mi piacerebbe tanto vederla insieme”. Al “suo fianco”, anche la Bacigalupo di Palermo, squadra di calcio giovanile che Marcello, assieme al fratello Alberto, fondò nel quartiere dell’Arenella. A raccogliere le firme sarebbe stata la moglie di Dell’Utri, Miranda Ratti. Il Comitato di redazione del Corriere di allora in una nota scrisse: “Non entriamo nel merito dei sentimenti di quanti conoscono e vogliono mostrare la loro vicinanza a una persona detenuta, ma a giudizio del Comitato di redazione sarebbe stato più opportuno rifiutare la pagina pubblicitaria. E’ comunque inaccettabile che la direzione del Corriere della Sera abbia deciso di pubblicare un testo simile senza sentire quantomeno il bisogno di prenderne le distanze. Invece il Corriere si è limitato a pubblicare un pezzo di cronaca a pagina 9, ricordando semplicemente che Dell’Utri è stato condannato in via definitiva a sette anni di carcere per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Inoltre, è stato costituito un imbarazzante precedente. Da oggi, ci chiediamo, come il Corriere potrà rifiutare analoghe richieste degli amici di altri condannati per mafia, seppur meno noti di Marcello Dell’Utri. La scelta, per altro, entra in contraddizione con quanto il Corriere scrive spesso, vale a dire che queste forme di comunicazione con detenuti condannati per mafia possono trasformarsi in  pericolose interferenze su indagini in corso e contribuire a creare un clima di discredito nei confronti dei magistrati e degli uomini delle forze dell’ordine impegnati contro la mafia. Per quanto accaduto i lettori del Corriere meriterebbero le scuse da parte della direzione”.

Gli auguri all'ex politico. Gli 80 anni di Marcello Dell’Utri celebrati con una pagina sul Corriere, insorge Travaglio: “Andava censurata”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 14 Settembre 2021. Chissà se il prossimo 13 ottobre Marco Travaglio avrà duecento amici disposti a investire denaro personale per un’inserzione a pagamento, solo per fargli gli auguri di buon compleanno. Duecento amici veri, di quelli che ti sono vicini nella buona e nella cattiva sorte. Non conoscenti, ammiratori dei tempi fortunati, quelli che il direttore del Fatto accusa sempre di sprecare saliva. Chissà quanti ne ha di questi tizi, lui che ha trattato con sprezzo il fatto che un tipaccio come Dell’Utri abbia “persino” degli amici. Amici che vogliono far sapere a tutti, con annuncio pubblico sul quotidiano più diffuso, quanto bene vogliono a Marcello, che ha compiuto ottant’anni e che ha dovuto trascorrerne alcuni in carcere già in anni non più giovani, non quando era ragazzo e disponeva delle energie maggiori anche per difendersi e contrattaccare le ingiurie e le calunnie. Avrei dovuto farmi arrestare subito, aveva detto qualche anno fa in un’intervista, con la consapevolezza ineluttabile di un destino, quello di dover pagare, incolpevole, il riflesso della scelta legittima di altri. Quella dell’imprenditore e suo amico Silvio Berlusconi di entrare in politica, di fondare Forza Italia. ll partito da subito bollato come luogo della mafia da coloro che, storicamente, sono incapaci di vincere con regolari elezioni, se non aggredendo l’avversario con la ferocia della calunnia, spesso con l’uso perverso dello strumento giudiziario. E la complicità di pubblici ministeri odiatori politici. Marcello Dell’Utri è stato colpito nel modo più vigliacco. E’ un prigioniero politico che merita rispetto. I piccoli vigliacchetti del Fatto si rammaricano perché il comitato di redazione del Corriere non sia insorto contro quella pagina di buon compleanno, come invece avevano fatto nel passato i loro colleghi del comitato di redazione precedente. Il comitato di redazione è il sindacato interno dei giornalisti. Ci piace pensare che non ci sia stata protesta perché i colleghi sindacalisti abbiano voluto mostrare rispetto ai duecento che hanno firmato e anche al destinatario degli auguri. E non che invece ci sia indifferenza, quella che sta ormai circondando lo stesso Berlusconi, che non è più il Cavaliere Nero da quando in nuovo obiettivo da colpire si chiama Matteo Salvini. Comunque sia, voglio ringraziare personalmente chi ha firmato e chi ha consentito questo brindisi per Marcello, prigioniero politico degli anni duemila. Tanti auguri, amico mio.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Filippo Facci per "Libero quotidiano" il 16 settembre 2021. Cercavamo notizie su Alfio Sciacca, che è un giornalista del Corriere della Sera: ma google ci dava sempre risultati su un neurologo di Catania. Non è chiaro il link, anche se appartenere al Comitato di redazione di via Solferino (per anni) mette sicuramente a dura prova il sistema nervoso: a far cedere i nervi del Cdr, però, non sono le copie in calo o la perduta centralità del giornalismo cartaceo (Corriere compreso) bensì il fatto che sabato scorso, sul loro giornale, sia apparsa una pubblicità con gli auguri per gli 80 anni di Marcello Dell'Utri: tante firme e «Auguri caro Marcello», fine. E non si può. Non si deve. I «walking dead» del Cdr si sono detti «a disagio» perché «chi gestisce le pubblicità dovrebbe osservare maggiore attenzione ed evitare che sorga anche il minimo dubbio sull'assoluta intransigenza del Corriere». Parole loro. Avete capito bene: non si possono fare gli auguri di compleanno a un condannato (pagando) perché spunta la pena accessoria di via Solferino, spunta l'intransigenza evidentemente ignara di tutte le marchette (articoli, foto, redazionali) dedicate ai loro inserzionisti. Vogliamo contarle? Potreste vigilare su quelle: tipo il celebre articolo (pagina intera) dedicato a «un prosciutto a New York» presentato da un inserzionista che fa salumi e che è anche sponsor del Torino, la squadra del vostro padrone Urbano Cairo. Insomma, non c'è un altro modo di scriverlo: fate ridere. 

Da "Libero quotidiano" il 17 settembre 2021. Gentile Filippo Facci, in relazione all'articolo a sua firma (le do del lei perché non la conosco) apparso sulla prima pagina di Libero, non ho nulla da replicare in merito alle sue valutazioni su quel che fa o dovrebbe fare il Cdr del Corriere. È un suo giudizio che rispetto, anche se non lo condivido. Intervengo solo per fatto personale, visto che lei ha ritenuto di indicarmi con nome e cognome, addirittura in attacco del suo pezzo. Come se fosse quella la notizia e fosse rilevante dare un nome e volto al responsabile della presa di posizione sulla pagina di auguri a Dell'Utri. Le ricordo, se l'avesse dimenticato, che il Cdr è un organo collegiale e come tale opera. Detto ciò rivendico anche a titolo personale la sostanza della nostra, che era una mail interna indirizzata al nostro direttore. Per lei saranno pure argomenti da salotto che la fanno ridere, io invece, da siciliano e da cronista, ritengo che su personaggi come Marcello Dell'Utri non si possa e non si debba avere alcun cedimento. Privatamente Dell'Utri ha tutto il diritto di festeggiare serenamente i suoi ottanta anni e i suoi amici possono mostrargli tutto l'affetto e la riconoscenza che vogliono. Ma farlo pubblicamente sul primo giornale d'Italia è un'altra cosa. Ha un altro significato che evidentemente lei non coglie o, forse, non vuole cogliere. Visto che poi è tanto interessato alla mia persona, se vuole, le posso fornire anche l'indirizzo di casa, che era l'unica cosa che mancava nel suo articolo. Piuttosto mi faccia notare che se il massimo delle fonti che lei riesce a consultare è "dottor google", allora sì che siamo tutti dei "walking dead" e come giornalisti siamo messi proprio male. Un saluto Alfio Sciacca (Cdr Corriere della Sera) 

Risposta di Filippo Facci. Gentile Sciacca, di Lei non me ne frega niente. Tantomeno di quello che Lei «ritiene» «da siciliano e da cronista». Dice che non ha nulla da replicare: poi lo fa. Fate ridere, insisto. Dico «fate» non per darvi del voi: ma perché nel Cdr non c'è solo lei. Per il resto, il suo giudizio non lo condivido e neppure lo rispetto. Volete occuparvi anche delle pagine pubblicitarie e non vi accorgete che spesso sono pubblicitarie anche le altre. Il Suo cognome già appariva nell'attacco di alcuni articoli su internet, ma ne sono usciti anche sul cartaceo. Google elencava anche suoi articoli del Corriere, ma forse voi del Corriere non ci badate: vi leggete solo tra di voi, «primo quotidiano italiano» letto da un italiano su 363. A ogni modo, se davvero l'opinione del Cdr era solo «una mail interna indirizzata al nostro direttore», complimenti per la riservatezza. Se vuol conoscere la fonte, si dia un'occhiata in giro.

Giampiero Mughini per huffingtonpost.it il 17 settembre 2021. Quando lavoravo nei giornali, me ne importava un fico secco di chi e che cosa era scritto nella pagina accanto a quella in cui c’era un mio articolo, quella era una questione che toccava l’editore e il direttore del giornale. Figuriamoci poi quanto me ne sarebbe importato di una pagina pubblicitaria pagata da privati cittadini che volevano fare degli auguri a un loro caro, sempre che non si fosse trattato di Adolf Hitler o di Giuseppe Stalin. Laddove mi pare di capire che il comitato di redazione del “Corriere della Sera” sia stato pesantemente turbato per il paginone di auguri a Marcello Dell’Utri pagato da chi aveva lavorato alle dipendenze di Dell’Utri a Publitalia e di lui conservava un ricordo affettuoso. Per andare subito al sodo, se qualcuno mi avesse chiesto di apporre la mia firma a un messaggio collettaneo di auguri a Dell’Utri avrei risposto di sì o di no? Di sì, ovviamente. Non che io fossi un amico stretto di Dell’Utri. Negli anni ci siamo visti poche volte, ma buone. Ci affratellava la comune passione per i libri rari, quelli di alta epoca nel caso suo, quelli del Novecento nel caso mio. Ero un frequentatore entusiasta di quella fiera milanese del libro d’antiquariato che lui s’era inventato quando era a capo di Publitalia. Una volta che lo vidi passare a distanza gli lanciai a voce che in uno stand avevano la prima edizione, “la ventisettana”, de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni, un libro di cui lui era certamente ghiotto. Sempre a distanza mi replicò che lo aveva già, nobilitato da una dedica importante. Una volta che era venuto a cena nella mia vecchia casa romana, ci raccontò di quella volta che un siciliano che abitava dalle parti di Racalmuto e di cui era ben nota l’ascendenza mafiosa aveva chiesto a Leonardo Sciascia di dedicargli un suo libro e che l’autore de “L’affare Moro” quella dedica non sapeva come farla. Quando irruppero sulla scena pubblica le prime accuse nei confronti di Dell’Utri, di essere stato un confidente del boss mafioso siciliano Stefano Bontate e di avere combinato con lui una sorta di protezione dei beni della Fininvest in Sicilia e specificamente della famiglia Berlusconi a Milano (da cui l’arrivo a Milano dello “stalliere” Vittorio Mangano, un tipino che aveva al suo attivo alcuni omicidi), l’allora direttore di “Panorama”, Giuliano Ferrara, mi mandò a intervistare Dell’Utri. Non che io fossi uno specialista di mafioserie e di tutti i relativi annessi e connessi, ma so come si fa un’intervista. Feci le mie domande, Dell’Utri rispose senza mai tirarsi indietro. Ovviamente si autoassolveva dall’accusa di avere avuto rapporti stretti e continuativi con Bontate, rapporti che in qualche caso erano documentati. Che cosa ne pensavo io? Che quei rapporti c’erano stati e che se io fossi stato al posto di Dell’Utri, ossia avere a che fare con la realtà di Palermo e non con quella del Quartiere latino a Parigi, avrei cercato anch’io di proteggere i beni della Fininvest e i figli di Silvio Berlusconi. Mi direte che non è una buona risposta. Forse non lo è ma è una risposta leale. Nelle risposte che mi aveva dato Dell’Utri la procura palermitana vide un elemento di contraddizione interna tanto che una prima volta mi convocarono negli uffici romani dell’Antimafia dove impiegai tre ore a confermare virgola per virgola quello che era stato pubblicato da “Panorama” e una seconda volta al tribunale di Palermo (dove andai a mie spese) a riconfermare a viva voce _ virgola per virgola _ quanto pubblicato. Naturalmente fin dal primo momento dissi che non ero uno specialista di mafioserie e che avevo un rapporto amicale con Dell’Utri. Finita la mia deposizione salutai Dell’Utri e il suo avvocato difensore, un catanese che era stato un compagno dei miei anni giovani. Nell’andar via passai innanzi al magistrato d’accusa, che se ne stava rincantucciato in un angolo quasi senza guardarmi. Al che mi fermai e gli allungai ostentatamente la mano nel segno del saluto, al che lui scattò in piedi a contraccambiarlo. Credo si fosse immaginato che io fossi uno del “partito” di Dell’Utri e non quello che ero, uno che gli era semplicemente amico. Ho poi visto l’ultimissima volta Dell’Utri alcuni anni fa su un Frecciarossa che andava a Milano, e subito gli ho chiesto delle accuse che gli avevano fatto, di stare in combutta con un mascalzoncello che aveva svuotato una delle più importanti biblioteche pubbliche italiane, la Girolamini, accusa che mi sembrava ancor più grave che quella di avere confabulato con Bontate. Accuse da cui Dell’Utri è stato successivamente assolto. Mi sento infine in colpa per non avere mai mandato un saluto amicale a Dell’Utri mentre le sue condizioni di salute in carcere peggioravano visibilmente. Non avevo l’indirizzo delle varie carceri in cui andava via via traslocando. In termini di responsabilità inerenti a un rapporto amicale, me ne faccio una colpa di non averglielo mai mandato un saluto e un augurio. Per tutto il resto provvederà Dio e quanti studieranno senza pregiudizi il nostro tempo. Non che il loro compito sia facile.

Il vero processo? In tribunale... Report fa giornalismo spazzatura, altro che inchieste…Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Gennaio 2021. È in corso a Palermo, in appello, il famoso processo Stato-Mafia. Sapete di cosa si tratta, immagino. È una fantasiosa costruzione secondo la quale nel 1992 il colonnello Mori (cioè l’uomo che ha arrestato Riina, ha collaborato con Falcone, è stato la spalla di Dalla Chiesa, ha condotto una sconvolgente inchiesta chiamata mafia-appalti sui rapporti tra cosche e imprenditoria del Nord) tramò e trattò con la mafia insieme a Marcello Dell’Utri. Non si sa a quale scopo trattò, né cosa offrì in cambio. Si sa però che non diede niente in cambio, e che rase al suolo il vertice di Cosa Nostra. Mori – secondo l’accusa – trattò in qualità di dirigente dei Ros, Dell’Utri in qualità di futuro uomo di governo. All’epoca Dell’Utri non era in politica, ma gli investigatori hanno immaginato che la mafia sapesse che sarebbe entrato in politica e avrebbe vinto le elezioni del ’94 con la nuova legge elettorale approvata due anni dopo l’ipotetica trattativa. Geni. Insomma, lasciatemelo dire: una bufala. Già smontata, peraltro, in vari altri processi paralleli nei quali Mori e diversi imputati sono stati assolti in tutti i gradi di giudizio. Però il processo va avanti. Sostenuto da giornali e Tv più o meno come la curva Sud sostiene la Roma. Ieri è successa una cosa straordinaria. La trasmissione Report ha dedicato una puntata al processo Stato-mafia, mentre il processo è in corso. E ha sostenuto in modo persino sbracciato le tesi dell’accusa. Anzi, è andata oltre. Ha spiegato che in Italia tutti gli atti di terrorismo o di violenza politica tra gli anni ottanta e i novanta sono riconducibili a una sola grande organizzazione, della quale la mafia era solo una pedina, una rotella piccola e ignorante, e che – a occhio – era guidata da Berlusconi e Dell’Utri. La trasmissione era tirata via con una certa cialtroneria. Testimoni incredibili, tesi stropicciate, pentiti notoriamente farlocchi (come spiega il nostro Berneri), ipotesi generale oltre la fantascienza, da romanzetto giallo scadente. Ma i fatti gravi, e indiscutibilmente gravi, sono tre. Primo: l’intervento della Tv a processo in corso. E in un processo nel quale deciderà una giuria popolare, dunque influenzabile, ovviamente. Secondo: non stiamo parlando di una stazione televisiva privata, ma della Rai, servizio pubblico. Terzo: a questa trasmissione stramiciata hanno partecipato magistrati che ricoprono ruoli molto importanti. Il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, cioè il responsabile dell’accusa in sede di processo d’appello. E un membro del Csm, come Nino Di Matteo, che è anche uno dei magistrati che ha sostenuto l’accusa in primo grado. C’erano anche avvocati della difesa? No, neanche traccia. C’era qualcuno che metteva in discussione il teorema “la mafia non esiste il delinquente è Berlusconi”. No, nessuno. Io chiedo:

1) il Csm esiste ancora? E se esiste vorrà intervenire in questo scandalo? Non ci sono molti dubbi sul fatto che è stata recata violenza al processo di Palermo. La giuria è stata strattonata, sottoposta a una formidabile pressione. La magistratura ora è in grado di riparare a questo errore clamoroso e di richiamare all’ordine i suoi membri che si comportano come degli agitatori politici?

2) Lo stesso Csm , che dovrebbe essere quantomai super partes e garantire i cittadini, non solo i magistrati, interverrà sulla condotta dell’ex Pm Di Matteo, suo membro, che già una volta fu messo alla porta dal procuratore antimafia Cafiero de Raho perché rilasciava interviste di qua e di là?

3) La commissione vigilanza del Parlamento, che in genere si occupa di cose molto amene, chiederà conto ai responsabili della Rai di questo obbrobrio e di questo sgarro alla cultura democratica? E come riparerà? Io credo che sarà necessario imporre alla Rai una trasmissione di riparazione, da organizzare subito, prima della sentenza, e da affidare a un giornalista indipendente, serio e preparato. Propongo Paolo Liguori.

Sigfrido Ranucci, Report e i dogmi presentati all’Italia come verità assoluta. Federico Mollicone su Il Riformista il 6 Gennaio 2021. Lunedì sera è andata in onda un’altra puntata di Report che sarebbe più corretto chiamare “Miniver” dal Ministero della Verità del predittivo 1984 di Orwell, stracitato certo, ma mai come oggi di evidente attualità. Report si vanta, infatti, di fare giornalismo investigativo, ma utilizzando i soldi pubblici dovrebbe avere come unico scopo quello cercare i fatti, documentati, definitivi, incontrovertibili per presentarli così come sono. Invece Sigfrido Ranucci e la sua squadra selezionano alcuni fatti, spesso non definiti e, se giudiziari, presentati come dogmi anche nell’Italia di Palamara, anche se in fase istruttoria o nei primi gradi di giudizio. Sulla strage di Bologna hanno mandato in onda il trailer del nuovo “fantasy giudiziario”. Sulle connessioni fra organizzazioni criminali e politica, è chiara l’opera di “character assassination”. È andato in onda il tribunale giacobino di Report/Miniver dal duplice obiettivo: da una parte, lavorare come ufficio stampa di una parte della Procura di Bologna e dell’ex deputato Pd Paolo Bolognesi; dall’altra, ricordare al Partito Democratico che formare il governo di unità nazionale significa andare a braccio col “mafioso” Berlusconi. A Ranucci va certo la nostra solidarietà per le minacce mafiose di morte, rivelate dal pentito Pennino, ma va anche la totale bocciatura del presunto giornalismo investigativo che definiremo come “giornalismo giustizialista”. Quella dei mandanti è la solita storia trita e ritrita sui servizi segreti deviati e sulla P2: storia che cerca di ribaltare in maniera speculare e contraria la pista, molto circostanziata e documentata in atti, del ruolo della rete Separat di Carlos “lo Sciacallo” e della ritorsione dei palestinesi per i fatti di Ortona con il filo rosso del Lodo Moro e della “santuarizzazione” del nostro territorio. La storia dei mandanti deceduti poi non trova riscontro, con pieghe da romanzo di spionaggio. I documenti citati da Bolognesi sono stati già smentiti nel dibattimento sul crack del Banco Ambrosiano e rigettati inizialmente da una parte della Procura di Bologna che giustamente persegue la verità giudiziaria e non le tesi precostituite. Ancora una volta, assistiamo alla propagazione di ipotesi investigative sui fondi di Licio Gelli che sarebbero stati utilizzati per finanziare gli autori della strage di Bologna che, date per assodate, si sono, in realtà e al contrario, dimostrate infondate all’attento vaglio in sede processuale come rivelato dal giornalista Massimiliano Mazzanti su Il Secolo d’Italia. Anzi, proprio la versione precedente degli stessi elementi narrati da Report crollò miseramente in aula il 6 febbraio 2019, durante il processo Cavallini, nel corso del quale fu evidente come fosse basata addirittura sulla manomissione interpretativa di una prova documentale. Prima di dare per accertate certe presunte “verità”, sarebbe auspicabile, soprattutto dal servizio radiotelevisivo pubblico, che di certe notizie fosse adeguatamente segnalata la natura controversa e tutt’altro che granitica. Dopo diversi errori storici e il caso Palamara, non esistono più dogmi giudiziari: il processo sugli esecutori materiali è da rifare, dato che è basato su testimonianze inattendibili come quella di Sparti, smentito anche dal figlio, e dal criminale pluriomicida Izzo. Lo scorso luglio, inoltre, su Reggio Report è stata pubblicata la notizia, svelata dai giornalisti investigativi, Gian Paolo Pelizzaro e Gabriele Paradisi, che Aldo Gentile, primo giudice istruttore titolare delle indagini sulla strage di Bologna, in un verbale reso nel novembre 2012, dichiarò di conoscere Abu Anzeh Saleh, il cittadino giordano di origini palestinesi responsabile dell’organizzazione clandestina del Fronte popolare per la liberazione della Palestina in Italia. Come mai Saleh, capo della struttura del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina in Italia, aveva contatti continui, anche di carattere personale con regali e incontri, con il giudice istruttore della strage di Bologna? Report ha taciuto poi sull’unica vera novità emersa dai rilievi peritali, relativi all’ottantaseiesima vittima che abbatte come uno tsunami tutto il castello inquisitorio. Infatti, la prova dei Dna sui resti attribuiti a Maria Fresu, disposta nel dibattimento del processo Cavallini, ha dimostrato che quei poveri resti non erano della donna, ma appartengono a persona giovane e di sesso femminile, che si trovava vicinissima alla fonte dell’esplosione, persona mai reclamata da alcun familiare e tutt’ora sconosciuta. Il corpo della Fresu risulta dunque scomparso e il reperto facciale a costei attribuito appartiene a persona ignota, non essendo attribuibile per le sue caratteristiche ad alcuna vittima conosciuta. “Ignota 86” è probabilmente la trasportatrice dell’ordigno. La Presidenza della Camera e del Senato prendano atto che, di fronte le evidenze emerse negli ultimi tempi, fra cui la presenza di passaporti cileni a Bologna, come denunciato in più pezzi da Silvio Leoni su il Secolo d’Italia, le vicende del caso Fresu e le numerose rivelazioni delle commissioni d’inchiesta parlamentari, è necessario fare luce sugli avvenimenti della strage di Bologna e del Lodo Moro. Il Parlamento si deve attivare e, per questo, chiediamo che venga immediatamente calendarizzata la proposta di legge dell’intergruppo “La verità oltre il segreto” di cui sono fondatore insieme ai colleghi parlamentari Paola Frassinetti e Enzo Raisi che ha lavorato sul tema e scritto anche un libro, composto da maggioranza e opposizione, per la costituzione di una Commissione d’inchiesta sui fatti avvenuti in Italia durante gli anni della Prima Repubblica – fra gli altri, Bologna, Ustica e il sequestro Moro – e sulle connessioni internazionali ad essi collegati. Ci chiediamo, e lo faremo con un dettagliato question time in Vigilanza Rai, se una trasmissione del servizio pubblico radiotelevisivo, pagata dai contribuenti, di cui il conduttore è vicedirettore di rete senza altre deleghe, possa fare politica, intervenendo in maniera brutale senza alcuna vera novità, censurando i rilievi sulla ottantaseiesima vittima e dando una replica ridicola agli avvocati di Berlusconi sulla vicenda dei rapporti mafiosi. Sfidiamo Ranucci a invitare in studio l’avvocato Valerio Cutonilli e gli altri giornalisti investigativi e consulenti che negli anni hanno lavorato su questo e i periti di parte che più di tutti hanno studiato la vicenda. Anche noi siamo pronti al confronto. Siamo cercatori di verità. 

Può la tv pubblica tifare per i pm a processo “trattativa” in corso? Nella puntata di Report sullo “Stato- mafia”, totalmente ignorata, tra l’altro, l’assoluzione di Mannino. Giandomenico Caiazza, Presidente dell’Unione Camere penali italiane, su Il Dubbio il 9 gennaio 2021. La recente puntata della trasmissione “Report”, in onda sulla terza rete del servizio pubblico radiotelevisivo, ha dedicato un ampio e per certi versi drammatico servizio all’annoso tema della cosiddetta “Trattativa” tra lo Stato ( latamente e anzi confusamente inteso) e la mafia. Pezzi – diciamo così- delle istituzioni ( ah, non più Calogero Mannino, però) avrebbero intavolato con la mafia stragista dei primi anni ’ 90 una inconfessabile trattativa, volta a scambiare il fermo dell’attività stragista mafiosa con benefici penitenziari e forse anche investigativi ( latitanze protette eccetera) per i boss di Cosa nostra. Non sono mai riuscito ad appassionarmi a questa storia, come sempre mi accade appena si materializzano in tv sedicenti testimoni di inconfessabili e fino a quel momento inconfessati misteri, travisati nel viso e nella voce. Ho sempre pensato, e penso tutt’ora, che se qualcuno ha qualche gravissimo fatto da raccontare, non lo fa travestito e travisato in favore di telecamera, ma in un ufficio di Procura e poi – soprattutto- in un’aula di Tribunale per essere controesaminato dai difensori di coloro che egli accusa, perché né la storia, né tantomeno i processi si fanno sulla base dei soliloqui di chicchessia. Ho poi letto forti e argomentate critiche sul merito di quanto ricostruito in quel servizio, e mi sono parse talmente serie e articolate ( a partire dalla evocazione dei drastici e sprezzanti giudizi che di quelle fantasiose ipotesi avevano espresso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) da meritare repliche di equivalente livello, delle quali tuttavia, al momento, non leggo traccia. D’altronde, anche a me sembra utile diffidare di narrazioni secondo le quali chi ha arrestato Totò Riina e disvelato il grande tema degli appalti pubblici in favore della mafia finisce sotterrato da anni di carcere, e la mafia palermitana viene ridotta a manovalanza di Berlusconi e Dell’Utri, i veri strateghi di questa Spectre stragista di non meglio individuata matrice. Ognuno la pensi come crede, ma non è questo lo scandalo, il vero scandalo di quella trasmissione. Perché si dà il caso che la puntata di Report va in onda mentre è in corso a Palermo il processo di appello sulla medesima “trattativa”, a carico di imputati già gravati in primo grado da anni di carcere per un reato – come ci spiegò in modo magistrale il professor Giovanni Fiandaca- di almeno dubbia configurabilità tecnica ( e non dimentichiamo che i giudici del rito abbreviato scelto dal coimputato Mannino, definitivamente assolvendolo, hanno invece definito quella accusa ab origine “logicamente incongrua”). Ora, se non si può impedire a una testata privata di fare le inchieste che crede, sostenere tesi colpevoliste a oltranza e magari organizzare campagne di opinione a sostegno di quell’accusa (“logicamente incongrua”, ma ognuno è libero di pensare come crede), questo non può accadere in una trasmissione del servizio pubblico. Non può accadere che chi per legge è tenuto alla “completezza ed imparzialità” della informazione, e riceve uno stipendio finanziato dal canone di abbonamento pagato anche dagli imputati di quel processo, imbastisca una puntata del genere, a dir poco sbilanciata a sostegno della tesi accusatoria, mentre il processo è in corso e una giuria popolare è chiamata a pronunciarsi. Il servizio pubblico non può scegliere, peraltro, di impostare tutto su una tesi precostituita, raccogliendo testimonianze di pentiti di almeno dubbia credibilità, insieme alle opinioni dei magistrati della Procura generale di Palermo e del Csm che ambiscono da quel processo la conferma del proprio controverso lavoro di inquirenti. È semplicemente una vergogna, devo infine aggiungere, che questi giornalisti – non a caso magnificati il giorno successivo dalle colonne del Fatto Quotidiano- oltre a non avvertire la gravissima inopportunità di un simile servizio in pendenza del giudizio penale, non abbiano ritenuto indispensabile dare il medesimo spazio alla prospettazione difensiva e alla ricostruzione critica di una narrazione d’altronde già demolita, in una parte assolutamente essenziale, da una sentenza definitiva di assoluzione. Il servizio pubblico radiotelevisivo dovrebbe solo raccontarli, i processi, non celebrarseli per suo conto, per di più senza la fastidiosa presenza dei difensori, ma in rigorosa ed esclusiva compagnia di pentiti e pubblici ministeri. O mi sbaglio?

Rai, alta tensione, Ranucci (Report) replica a Calogero Mannino: «Lo querelo, dice il falso». Penelope Corrado domenica 10 Gennaio 2021 su Il Secolo d'Italia. “Calogero Mannino dice il falso sulla nostra trasmissione. Noi in trasmissione abbiamo detto chiaramente che l’ex ministro era stato assolto. Non so perché si dia voce a chi dice il falso senza prima fare un controllo su ciò che è stato trasmesso da Report”. Sigfrido Ranucci reagisce così alle dichiarazioni dell’ex ministro del Mezzogiorno. Calogero Mannino ha criticato Report dicendo che la trasmissione avrebbe “ignorato” la sua assoluzione. “Non è affatto vero”, sottolinea Ranucci. “Noi abbiamo dato conto dell’assoluzione di Mannino. E mi riservo di agire contro chi dice il falso pur di attaccare la nostra trasmissione e le nostre inchieste”. “Nella puntata in questione di Report abbiamo detto, cito letteralmente, ‘l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, dopo anni di processi, è stato definitivamente assolto dall’accusa di essere il mandante politico della Trattativa. Sorprende che autorevoli colleghi abbiano riportato la notizia senza un minimo di verifica. Eppure noi pubblichiamo da 25 anni i testi integrali delle puntate, unica trasmissione italiana, proprio per massima trasparenza”, conclude Ranucci. “L’autodifesa difesa di Sigfrido Ranucci mi farebbe sorridere se non fosse che per la sua insincerità, scorrettezza, slealtà non fossi costretto a contestargliele. La sua trasmissione ha ignorato – per quel che mi riguarda – una doppia sentenza di assoluzione ( primo e secondo grado) confermate dalla Cassazione con la dichiarazione di inammissibilità del ricorso della Procura Generale di Palermo (nominativamente Scarpinato). Questo non è giornalismo, men che mai di indagine. E’ altro ed ormai si capisce”. Questo l’attacco dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino, parlando della trasmissione Report su Rai3. Sulla puntata in questione, è intervenuto anche Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo. “Spero anche che, viste le cose sostenute nel corso della trasmissione di Rai3 e considerando che in Italia c’è l’obbligatorietà dell’azione penale, qualche pm prenda in mano queste notizie e avvii opportune indagini”.

Consegnata una memoria che critica i tre gradi di giudizio. Calogero Mannino assolto, i pm non ci stanno e si scagliano contro i giudici. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 3 Giugno 2021. L’interrogazione alla guardasigilli Marta Cartabia sulla tortura infinita cui è sottoposto l’ex ministro democristiano Calogero Mannino l’ha presentata il deputato Gianfranco Rotondi. Ora aspettiamo tutti quelli del “sonogarantistaperò”. Di tutti i partiti, Movimento cinque stelle compreso, visto l’ultimo mezzo passo in avanti di Luigi Di Maio. Rotondi è sdegnato per l’attacco senza precedenti sparato dai procuratori generali del processo “Trattativa Stato-mafia” nei confronti di tutti i giudici che, nei vari gradi di giudizio, hanno assolto Mannino. Tutti incompetenti, dicono. L’ex ministro dc deve essere processato per l’eternità. Che cosa ha da dire la ministra Cartabia? E il Csm? Aggiungiamo noi. Mannino ha terminato da poco di salire e scendere i gradini dei Palazzi di giustizia dopo ormai trent’anni da quando è cessata la sua attività politica ed è iniziata quella di vittima giudiziaria. È stato indagato, processato e assolto, fino alla Cassazione. Ma se i procuratori che stanno rappresentando l’accusa nel processo d’appello “Stato-mafia” non si sono ancora arresi, tanto da depositare una memoria per criticare tutti i giudici che lo hanno assolto, è perché senza il personaggio principale crolla tutto l’impianto. Secondo l’ipotesi originaria sarebbe stato proprio Calogero Mannino il primo interlocutore di Cosa Nostra, nei primi anni Novanta, quello che avrebbe avviato una trattativa finalizzata a fare cessare le stragi offrendo in cambio agevolazioni giudiziarie e carcerarie ai boss. Ma succede che, dal dicembre 2020, con l’assoluzione in Cassazione, l’ex ministro democristiano abbia concluso il suo pellegrinaggio nei palazzi di giustizia. E capita anche – gli stessi procuratori lo ammettono – che nel nostro ordinamento esista un principio che detto in latino suona “ne bis in idem” e tradotto in termini pratici vuol dire che nessuno può essere processato due volte per lo stesso fatto. Ed ecco allora che si cerca di far rientrare dalla finestra colui che è uscito dalla porta. Non lo si può più processare? Ma si può lasciare su di lui un’ombra. Come? Mettendo in discussione la professionalità dei magistrati che lo hanno assolto, a partire da gip e gup fino ad arrivare a tribunale, corte d’appello e magari la stessa Cassazione. E chissà se il Csm rigenerato dal contagio di Luca Palamara avrà qualcosa da ridire su questo particolare modo di procedere. Il professor Fiandaca in un commento sul Foglio ricorda che potrebbe esser stata applicata una delle tante leggi speciali che hanno inquinato, a partire dal 1992, il sistema accusatorio del nostro processo penale, cioè quella che consente, nei processi di mafia, di riversare nel dibattimento una sentenza divenuta irrevocabile su altre vicende, al fine di rafforzare il quadro probatorio. Sulla base del concetto che, essendo Cosa Nostra un’entità verticistica e unitaria, ogni fatto criminale potrebbe essere inserito nello stesso progetto. La sentenza di un processo potrebbe essere utile ad aiutarne un altro, insomma. Ma qui, lo dice lo stesso giurista, siamo in una situazione opposta, perché le sentenze dei processi che hanno visto come imputato (e assolto) Mannino dicono esattamente il contrario. Quelle sentenze dovrebbero addirittura poter essere usate per chiudere una volta per tutte, con la rinuncia da parte dell’accusa, questa assurdità processuale della “trattativa” che si trascina da almeno venticinque anni. Questi giapponesi che continuano a combattere nella giungla una guerra che ormai è solamente loro, non hanno in mente solo uno schema penale, ma anche culturale. È la solita visione della storia d’Italia come pura storia criminale. Se parlate con Calogero Mannino, potrebbe raccontarvi di quando il direttore del Fatto quotidiano era andato a Palermo a “fare il guitto” con uno spettacolo teatrale ridicolo e offensivo, e in prima fila c’erano schierati tutti i Pm. Proprio quelli che, “a parte qualche sgrammaticatura”, dice Mannino, parevano aver tratto ispirazione dallo spettacolo per la loro requisitoria. Ci vuole un po’ di memoria. Bisogna tornare ai tempi in cui arrivò a Palermo Giancarlo Caselli e a quando il suo aggiunto (oggi procuratore generale) Roberto Scarpinato aveva avviato un’inchiesta sul solito teorema – tentativo di destabilizzazione del Paese da parte di mafiosi, massoni, fascisti e corpi deviati dello Stato – e che si chiamava “Sistemi criminali”. Tentativo andato a vuoto, così come il secondo in cui si cominciava però ad abbozzare l’imputazione di «violenza o minaccia a corpo politico dello Stato». Fuochino. Sarà la creatività di un personaggio come Massimo Ciancimino nel 2008 a determinare la resurrezione delle carte dal cassetto, con il supporto determinante di un altro campione, il re dei “pentiti” Giovanni Brusca. Così è nata la favola del processo-trattativa, con un teatrino che ha coinvolto una dozzina di persone, messo in scena dai procuratori Ingroia e Di Matteo. I nomi sono sempre gli stessi. Mannino si è sottratto, ha scelto il rito abbreviato che lo ha portato, un gradino alla volta, all’assoluzione definitiva. Con venticinque anni di ritardo. Ma i suoi coimputati Mario Mori, Giuseppe De Donno, Antonio Subranni, Marcello Dell’Utri, e anche i due boss Leoluca Bagarella, Antonino Cinà e lo stesso Giovanni Brusca, già condannati in primo grado, rischiano ora di avviarsi all’assoluzione in appello. Come possono ancora sostenere i procuratori generali un impianto accusatorio ormai privato del pilastro principale? Ecco come nascono, quasi una mossa disperata, le 78 pagine di critiche a tutti i giudici che hanno “osato” assolvere il protagonista Numero Uno della trattativa tra gli uomini dello Stato e la mafia. Proprio una mossa disperata, come quella che aveva tentato la strada dell’incostituzionalità di una riforma dei tempi del ministro Orlando, quella che pone precisi paletti alla possibilità del ricorso in cassazione contro l’imputato assolto in primo e secondo grado. Se a questa serie di passi falsi si aggiunge il fatto che la sentenza del processo Borsellino-quater ha escluso che l’accelerazione dei tempi della strage di via D’Amelio avesse a che fare con la “trattativa” e che in altre cause emerga sempre più in primo piano la vicenda dell’inchiesta mafia-appalti, quella archiviata ma che potrebbe sempre risorgere, prevediamo che il procuratore Scarpinato e i suoi sostituti siano destinati a rimanere con un pugno di mosche. Sempre che ci sia un giudice a Palermo. Noi pensiamo di si. E intanto aspettiamo risposte dal ministro e dal Consiglio superiore della magistratura.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Trattativa, il Pg di Palermo bacchetta tutti i giudici che l’hanno smontata. Nella memoria, depositata alla Corte d’appello dove è in corso il processo trattativa, si criticano le sentenze di assoluzione di Calogero Mannino. Quasi a voler dire, parafrasando Orwell, che ci sono sentenze più uguali delle altre. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'1 giugno 2021. «Travisamento dei fatti», «mancata assunzione di prova decisiva», «grave illazione fondata sul nulla», «mera illazione», «evidente abbaglio», sono una delle tante considerazioni che il procuratore Generale di Palermo riserva alle motivazioni delle sentenze di primo e secondo grado che hanno assolto, con tanto di pronuncia definitiva della Cassazione, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino. Parliamo della memoria depositata alla Corte d’appello di Palermo dove è in corso il secondo grado del processo trattativa Stato-mafia. Più specificatamente la procura generale è entrata nel merito della decostruzione della tesi trattativa e della gestione del procedimento del famoso dossier mafia-appalti, di cui uno dei pubblici ministeri titolari era proprio l’attuale procuratore generale di Palermo, che rappresenta oggi l’accusa nel processo trattativa.

Sono tre le giudici che – avrebbero omesso, travisato, fatto contradditorie motivazioni. In particolare, sono tre le giudici che – a detta del Pg – avrebbero omesso, travisato, fatto contradditorie motivazioni: la gup Marina Petruzzella, il collegio presieduto da Adriana Piras e la compianta Gip di Caltanissetta Gilda Loforti. Quest’ultima merita un ricordo. Era nata a Cefalù il 31 agosto del 1959 ed è scomparsa a soli 49 anni, per una grave malattia che l’aveva colpita nel 2000 e che pareva avere superato con grande energia, sino a un ultimo devastante episodio che il primo aprile del 2008 l’ha portato via. Nella sua breve ma intensa carriera, è stata prima giudice al Tribunale di Nicosia e, poi, al Tribunale e alla Corte di Appello di Caltanissetta. Oggi c’è un’aula del tribunale nisseno a lei dedicata.

Gilda Loforti aveva smentito la teoria della doppia informativa per mafia-appalti. Nella memoria della Procura generale viene citata anche la Loforti, poiché la giudice di primo grado Petruzzella ha reso noto la sua ordinanza di archiviazione del 15 marzo 2000. In particolare il riferimento è al capitolo relativo alla teoria della doppia informativa, ovvero l’accusa da parte dei titolari del procedimento mafia-appalti di allora (e rievocata nuovamente dall’accusa del processo Mannino) che consisteva nel dire che i Ros avrebbero depositato un dossier depurato appositamente dei nomi dei politici importanti.

La compianta Loforti, invece, attraverso un’analisi capillare dei fatti (con tanto di indagini svolte) aveva smentito tale teoria. La giudice Petruzzella l’ha fatto presente nelle motivazioni, respingendo le accuse del pm che, a detta della procura generale di Palermo – così come scrive nella memoria appena depositata – avrebbe fatto «ineccepibili e gravissime considerazioni».

Per il Pg l’accusa è ineccepibile, per la giudice Petruzzella evidentemente no. Motivazioni che saranno confermate e ampliate dal collegio guidato dalla giudice Piras. Ma anche in quel caso, come si evince dalla memoria depositata dal Pg, evidentemente non ci hanno capito nulla.

La memoria del Pg è tutta concentrata sulla trattativa. Ma la memoria è tutta concentrata sulla trattativa. Una giudice e un intero collegio, secondo il Pg, non avrebbero assunto prove, a detta loro, decisive. Così come, sempre secondo la procura generale, ci sarebbe stata in più punti una «manifesta illogicità della motivazione assolutoria del Mannino». Tra gli altri rilievi compare anche «l’omessa e contraddittoria motivazione in merito alle dichiarazioni rese da Ferraro Liliana». In sostanza, la Corte d’Appello presieduta dalla Piras avrebbe dunque sbagliato concentrandosi sulle dichiarazioni dibattimentali della Ferraro del 28 settembre 2010, nel procedimento instaurato nei confronti dei carabinieri Mori e Obinu, imputati (e assolti definitivamente) della cosiddetta mancata cattura di Provenzano.

Secondo il Pg la Corte che ha assolto Mannino avrebbe dovuto bacchettare la Ferraro. Come mai questa obiezione? Secondo la memoria del Pg, concentrandosi solo su questo, la Corte presieduta dalla Piras «ha omesso di valutare significative divergenze, palesi omissioni ed evidenti contraddizioni in precedenti e successive audizioni della stessa nella fase delle indagini». Ed ecco che, secondo la procura generale di Palermo, la Corte che ha assolto Mannino avrebbe dovuto bacchettare la Ferraro. Sì, proprio colei che lavorò al fianco di Giovanni Falcone fino alla fine dei suoi giorni. Dedicò vent’anni della sua esistenza professionale alla collaborazione con gli uffici giudiziari, prima per la lotta contro il terrorismo, poi contro la mafia. Fu lei che contribuì alla ristrutturazione del carcere dell’Asinara per far rinchiudere le Brigate rosse, così come dopo, assieme all’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, fu sempre lei a far riaprire le carceri speciali per rinchiudere i mafiosi dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio.

Il ricorso rigettato dalla Cassazione. Una vita dedicata alla lotta alla criminalità organizzata. Parliamo della stessa Ferraro che nella sentenza di primo grado sulla presunta trattativa Stato-mafia viene fortemente bacchettata, sottolineando che ha avuto “eclatanti dimenticanze”. In questo caso nessuno ha avuto nulla da dire. Ma se delle giudici serie, come quelle del processo Mannino, che non si lasciano fuorviare dalle suggestioni e pressioni massmediatiche, decidono di restituire la giusta dignità a una donna che ha svolto con amore il proprio dovere – per questo rispettata da Falcone e Borsellino – , allora no, non va bene: arriva un pezzo, in realtà molto piccolo ma più rumoroso, della magistratura che si sente superiore ai giudici stessi e addirittura, come in questo caso, alla Cassazione che ha rigettato il loro ricorso.

Lo Stato di diritto e il giudice terzo. Una superiorità manifestata tramite una memoria che, di fatto, colpisce il lavoro del giudice che deve essere terzo e che si pone in una posizione di assoluta indifferenza e di effettiva equidistanza dalle parti contendenti. Questo recita la Costituzione e questo è il pilastro dello Stato di diritto. D’altronde, la memoria dei Pg, ironia della sorte, arriva proprio nel momento in cui è sotto tiro un’altra Gip. Parliamo di Donatella Banci Buonamici, “rea” di aver scarcerato sabato i tre fermati per l’incidente della funivia del Mottarone, mettendo ai domiciliari Gabriel Tadini. L’Associazione nazionale dei magistrati, invece di difendere lei, ha attaccato le Camere penali.

Secondo la memoria depositata la sentenza di primo grado sulla trattativa è l’unica via maestra. Ma ritorniamo alla memoria depositata dalla procura generale. Oramai siamo nella fase in cui si prende come unica via maestra la sentenza di primo grado sulla trattativa: tutte le altre sentenze, anche definitive, valgono come la carta straccia. Sbagliano i tre gradi giudizio sul processo a Mannino che smentiscono la trattativa, sbagliano le sentenze del Borsellino Quater che escludono categoricamente la presunta trattativa collegata con l’accelerazione della strage di Via D’Amelio, sbagliano le due decisioni del processo Capaci Uno e Capaci bis che individuano il movente mafia- appalti come causa della strage, escludendo teorie fantasiose come quelle del “doppio cantiere” nella fase di esecuzione della strage dove perse la vita Giovanni Falcone. Sembrerebbe proprio che gli unici a non sbagliare siano quelli che – inquirenti e giudicanti – da Palermo sostengono la tesi della trattativa.

Parafrasando Orwell “ci sono sentenze più uguali di altre”. Siamo arrivati quindi ad Orwell. In particolare parliamo del suo famoso libro “La fattoria degli animali”. Un romanzo, tra l’altro, che aveva il compito di smascherare talune ipocrisie. Sì, perché, così ha affermato Orwell, «se la libertà significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuol sentirsi dire». Ebbene, il libro parla di un regime che diventa ben presto dittatoriale. Al motto «tutti gli animali sono uguali» viene aggiunto «Ma alcuni sono più uguali degli altri».

L'ex Ministro: "Sono attonito, assolto in tutti i gradi". Mannino assolto in Cassazione nel processo Stato-mafia, il delirio dei pm di Palermo: “Decisione illogica”. Redazione su Il Riformista il 31 Maggio 2021. Non si arrendono i magistrati di Palermo. Dopo aver tenuto per circa 25 anni in ostaggio l’ex ministro Calogero Mannino, assolto lo scorso dicembre dalla Corte di Cassazione nel processo, in abbreviato, sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia, la procura generale del capoluogo siciliano ha depositato una memoria in cui parla di “manifesta illogicità della motivazione assolutoria” dell’ex ministro Calogero Mannino “con riferimento ai fatti in precedenza accertati nel procedimento a carico dello stesso per concorso esterno in associazione mafiosa, indicativi di pluriennali rapporti con importanti esponenti mafiosi”, come si legge nella memoria in possesso dell’Adnkronos. Lo scorso 11 dicembre 2020 i giudici della sesta sezione penale hanno infatti dichiarato inammissibile il ricorso presentato dalla Procura generale di Palermo contro il proscioglimento di Mannino, emesso il 22 luglio 2019 dalla Corte di Appello di Palermo. La memoria è stata depositata oggi, lunedì 31 maggio, dai sostituti procuratori Giuseppe Fici e Sergio Barbiera nel corso del processo stralcio in corso davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Palermo. Imputati di minaccia a Corpo politico dello Stato sono gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno e l’ex capo del Ros Antonio Subranni, l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà e il pentito Giovanni Brusca. Un testo di 78 pagine e 21 capitoli che, secondo i pm, “non mette in discussione il giudicato assolutorio” ma c’è “necessità di parlarne” per rimarcare alcuni fatti. I sostituti procuratori generali parlano di “motivazione illogica con travisamento del fatto, con riferimento alla verosimile consapevolezza e alla verosimile approvazione da parte del dottor Paolo Borsellino dell’iniziativa dei carabinieri Mori e De Donno di agganciare Vito Ciancimino”. Secondo Fici nella sentenza d’appello di assoluzione dell’ex ministro Mannino “si registra una omessa e contraddittoria motivazione con travisamento dei fatti, con riferimento alla vicenda relativa alle cosiddette indagini su mafia e appalti“. Per la Procura generale “le motivazioni del giudice di primo grado del processo Mannino sono approssimative e confuse anche nella ricostruzione del percorso argomentativo dell’accusa, mentre quelle dell’appello sembrano più che altro incentrate a enfatizzare ogni possibile criticità, a volte con evidente travisamento dei fatti, piuttosto che valutare la coerenza del ragionamento dell’organo requirente”. La reazione di Mannino non si lascia attendere: “Sono attonito di fronte al fatto che la Procura Generale di Palermo non tenga in alcuna considerazione la decisione della Cassazione e la richiesta di inammissibilità dei motivi proposti dalla Procura Generale della Cassazione” ha dichiarato interpellato dall’Adnkronos. “Sul mio abbreviato si è formato un giudicato definitivo validato da un Gup in primo grado, da una Corte D’Appello in secondo grado e dalla Cassazione in terzo grado”.

Così Report ha accreditato fake news ed imprecisioni, da Gladio a Dell’Utri…Aldo Torchiaro su Il Riformista il 16 Gennaio 2021. La trasmissione Report di lunedì 4 sulla presunta “Trattativa Stato-mafia” ha suscitato, oltre allo scetticismo degli addetti ai lavori, la protesta di conoscitori della materia tra i quali i legali Francesco Romito e Basilio Milio. Abbiamo ricostruito con loro alcuni dei passaggi chiave delle principali vicende: distorsioni, interpretazioni e dimenticanze rendono incomprensibile la scivolata della trasmissione di Rai Tre.

Partiamo oggi dalle dichiarazioni di Pietro Riggio, collaboratore di giustizia. Voce narrante nel montaggio di Report: «Passiamo a Pietro Riggio, membro della famiglia mafiosa di Caltanissetta che da due anni racconta fatti inediti sulle stragi. Nel 1994 Riggio raccoglie le confidenze del mafioso Vincenzo Ferrara». Dicono si sia riferito a Marcello Dell’Utri. Riggio: «Quello che mi fece capire è che l’indicatore dei luoghi dove erano avvenute le stragi fosse stato Marcello Dell’Utri. Parlo della strage dei Georgofili, di via Palestro, di San Giovanni al Velabro, di San Giovanni in Laterano e mi ricordo che vi fu un’espressione colorita dicendo: “ma tu t’immagini Totò Riina che dovesse dire o indicare via Palestro. Ma che sa Totò Riina di via Palestro o di via dei Georgofili. Cioè quello è un ignorante, altre cose sa fare». Qua dice: «La mente è lui» (minuti 18.45 e seguenti). Le dichiarazioni di Riggio sono state riportate senza far emergere una circostanza di fondamentale importanza, affermata dal medesimo Riggio, il quale ha dichiarato che il Ferrara tutto quanto riferitogli su Dell’Utri per averlo appreso dal boss mafioso Giuseppe “Piddu” Madonia, con il quale era imparentato avendo il Ferrara “sposato una sorella della moglie del Madonia” (Esame Ferrara 26 ottobre 2020, p. 72). Va detto che le telecamere di Report erano presenti all’udienza nella quale il Riggio accreditava quel rapporto di “parentela” tra Ferrara e Madonia. Gli accertamenti anagrafici, fatti dalla difesa dei Carabinieri ed illustrati all’udienza del 18 dicembre 2020, hanno dimostrato che l’unica “sorella della moglie del Madonia” non è mai stata sposata ed è ancora nubile. Ma Report ha “dimenticato” quella parte. Romito e Basilio chiosano: «Si ritiene che il servizio pubblico abbia il dovere di informare i telespettatori di tali circostanze non certo secondarie ed agevolmente acquisibili o, ascoltandole udienze registrate da Radio Radicale o – vista l’attenzione per l’audizione del Riggio -, se si fossero interpellati gli scriventi difensori». La disponibilità del collegio di difesa, comunicata a Sigfrido Ranucci con lettera Raccomandata, non è stata presa in considerazione. Ne avrebbe guadagnato in correttezza l’informazione pubblica qualora si fosse divulgato in trasmissione che, tra l’altro, Riggio ha affermato di aver saputo dai marescialli del Ros Parrella e Del Vecchio (detenuti per un periodo insieme a lui a S. Maria Capua Vetere), presenti a Mezzojuso la mattina del 30 ottobre 1995 quando il Ros non fece scattare il blitz per prendere Provenzano, che fu Mori a non dare l’ordine. Ma Parrella e Del Vecchio erano in servizio alla Dia, all’epoca, e non erano presenti a Mezzojuso, come risulta dai documenti. Riggio ha affermato che i predetti due marescialli sono stati condannati a oltre 20 anni di carcere per calunnia ai danni del generale Mori per aver rivelato la circostanza di cui al punto che precede; ma Parrella e Del Vecchio sono stati condannati a pene molto elevate, vicine ai 20 anni, per traffico di stupefacenti, come emerso dalle sentenze prodotte dalla difesa dei Carabinieri. Dettagli, si dirà a Saxa Rubra. Certo. Come quello per cui Riggio ha deciso di raccontare certi fatti dichiarando di averlo fatto “per aver seguito il processo sulla cosiddetta trattativa”. Non proprio secondario è che lo stesso Riggio ha raccontato di aver incontrato in uno studio legale di Latina il professor Nicolò Pollari che gli avrebbe consigliato di non fare certe rivelazioni. Ma su tale circostanza è arrivata una completa smentita dallo stesso Pollari, così come dall’avvocato dello studio legale dove sarebbe avvenuto l’incontro, come risulta da recentissima inchiesta di Rainews curata dal giornalista Rai Pino Finocchiaro, che i conduttori di Report avrebbero dovuto conoscere e far conoscere.

Il giudice Giovanni Falcone e le indagini su Gladio. Durante la trasmissione il Procuratore Scarpinato, intervistato, ha dichiarato: «La vicenda di Giovanni Falcone subisce una svolta in occasione delle indagini sull’omicidio Mattarella, allievo di Moro, che aveva sostanzialmente ricreato in Sicilia una sorta di compromesso storico e che per la sua statura politica si avviava ad occupare posti di vertice nella Dc nazionale viene assassinato. Falcone giunge alla conclusione che non è stato ucciso da mafiosi ma è stato ucciso da due esponenti della destra eversiva, Cavallini e Fioravanti, gli stessi che sono coinvolti nella strage di Bologna. E da quel momento in poi comincia ad indirizzare la sua attenzione su Gladio». Voce narrante: «Successivamente alla morte di Falcone, Fioravanti e Cavallini furono assolti dall’accusa di omicidio del Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, ma l’indagine su Gladio rimase aperta». (minuti 1.39.30 e seguenti) Al riguardo, anziché lasciare dubbi o sospetti, sarebbe forse stato meglio informare i telespettatori sulla base di atti pubblici, acquisiti, peraltro, dal predetto Procuratore presso il Csm, precisando che le indagini su Gladio vennero svolte ed esclusero coinvolgimenti negli omicidi politici. Il dottor Giuseppe Pignatone, sentito dal Csm il 30 luglio 1992, ha, infatti, dichiarato: «Alcuni passaggi fondamentali sul rapporto mafia-politica sono stati fatti vedere a Giovanni Falcone scritti a mano prima ancora di batterli a macchina da me e da Guido Lo Forte nelle riunioni in cui erano presenti Roberto Scarpinato e Giusto Sciacchitano, quindi la requisitoria Mattarella che è stata praticamente finita nella sua parte essenziale prima delle feste di Natale era perfettamente condivisa da Giovanni Falcone che poi l’ha letta tutta, dov’è che c’è il contrasto, perché dovevamo arrivare là, il contrasto avviene su Gladio perché? Perché in quell’epoca esplode la vicenda Gladio».

Torniamo al montaggio. Report domanda: tutti chi? “Noi” chi siamo?

R: Giammanco, Sciacchitano, Scarpinato, Lo Forte ed io.

D: Anche Scarpinato?

R: Anche Scarpinato. Scarpinato, come al solito, era molto meno acceso nella discussione, Roberto è quello che è, però sostanzialmente era d’accordo su questa impostazione che partiva dal presupposto che l’indagine si dovesse fare (poi parlerò dei G.I. che erano i padroni del processo). L’indagine si doveva fare, però noi dovevamo farla soltanto con riferimento mirato ai singoli delitti, cioè verificare sulla base degli atti esistenti al Sismi e alla Presidenza del Consiglio e, peraltro già allora sequestrati dalla Procura di Roma, se ci fossero addentellati, e se comunque riportassero, ai delitti di cui ci occupavamo noi, che erano: Mattarella, La Torre, Reina (era una pura ipotesi, infatti le vicende di Reina sono diverse); spuntò anche Insalaco, perché spuntò un terrorista nero di Insalaco che parlò di Gladio, poi si rivelò tutta una bolla di sapone. Il problema fondamentale riguardava Mattarella e La Torre.

Su questo punto il contrasto non si appianò, perchè Giovanni rimase nella sua idea, noi nella nostra, di cui io sono tutt’ora convinto e il Procuratore della Repubblica in quel caso disse che aveva la responsabilità dell’ufficio, e questo è uno di quei casi in cui si giocano le scelte fondamentali dell’ufficio e quindi si doveva fare come diceva lui . Si andò al Sismi alla Presidenza del Consiglio, si chiese la collaborazione della Procura di Roma, sono tutte cose nella requisitoria Mattarella che avete. Si accertò che non c’era nessuna possibilità di collegamento fra Gladio e la Sicilia e i delitti politici. (Audizione al CSM 30.07.1992, p. 46-50).

Dichiarazioni sul Protocollo Farfalla. Anche tale vicenda è stata trattata dalla trasmissione, dando tali informazioni ai telespettatori con le parole di Sabella: “Praticamente con questo protocollo Farfalla il Dap apriva le sue porte ai Servizi”. Premesso che all’epoca del c.d. protocollo Farfalla (2003-2004) la materia era regolata dalla Legge n. 801/1977 e non già dalla legge di riforma avvenuta con la legge n. 124/2007e che mai sono stati contestati reati agli uomini del Sisde (generale Mori o suoi dipendenti, ex ufficiali del Ros e non, interessati alla vicenda “Farfalla”), per una completa e corretta informazione sul punto, evitando di riproporre l’opaca immagine stereotipata di chi lavora presso strutture di intelligence, sarebbe bastato consultare la nota Relazione del Copasir, atto pubblico del quale hanno dato ampia contezza tutti i mezzi di informazione, che ha approfondito la vicenda nei seguenti termini. Il Copasir ha accertato che «Nessun incontro tra gli agenti e i dirigenti del Dap – sulla base delle risultanze emerse – si sarebbe svolto all’interno delle carceri» (Ibidem) e, citando la testimonianza dell’allora Ministro dell’Interno Pisanu, ha rimarcato quali fossero gli interessi di tutela della Nazione sottesi a quell’attività: «In quegli anni vi era stata un’attività costante nel mondo carcerario con il fine di contrastare terrorismo, stragi, convergenza tra Brigate rosse e criminalità, collegamenti occulti in essere o rapporti con ambienti esterni». 

Così Report ha confuso le carte sulla trattativa Stato Mafia. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 13 Gennaio 2021. Alla ricostruzione di Report che ha romanzato la “Trattativa Stato-mafia” seguono le risposte, circostanziate e documentate, che abbiamo raccolto insieme con gli avvocati Basilio Milio e Francesco Antonio Romito. I due legali sono impegnati a Palermo nel processo di appello a tutela del Generale Mario Mori e del Colonnello Giuseppe De Donno. Ieri ci siamo occupati delle posizioni di Mori e delle dichiarazioni di Claudio Martelli. Ma nella trasmissione andata in onda su Rai Tre sono tante, e forse troppe, le sviste, le disattenzioni e le omissioni. Oggi diamo conto delle affermazioni del colonnello dei carabinieri Michele Riccio. È un teste chiave perché è con lui che ha iniziato a collaborare Ilardo, il capomafia della provincia di Caltanissetta, che viene ucciso in un agguato mafioso a inizio collaborazione. Ilardo avrebbe però fatto in tempo a fargli balenare due cose: per un verso il coinvolgimento dei servizi segreti in una serie di omicidi eseguiti da Cosa nostra, per l’altro la possibilità di catturare Bernardo Provenzano. Nel montaggio televisivo l’audio di Riccio suona accusatorio. Domanda l’intervistatore: «Ad un certo punto Ilardo, e arriviamo al 31 di ottobre del 1995, le fa intendere che c’è la possibilità di arrestare Bernardo Provenzano. Cosa accade?». Risponde Riccio: «Io chiamo subito Roma, telefono subito al Col. Mori. Lo sento piuttosto freddo…». E l’intervistatore: «Oggi lei di cosa è convinto?». Risposta: «Che non hanno voluto prenderlo». «E perché non hanno voluto prenderlo?». Riccio: «Il compito di Provenzano era di portare un’organizzazione omogenea a supportare l’attività politica di Forza Italia. (…) Era più importante che rimanesse fuori». Tralasciando altre affermazioni di Riccio le cui smentite si ritrovano nella sentenza che ha assolto il generale Mori ed il colonnello Obinu dall’accusa di non aver voluto catturare Provenzano (Sentenza Tribunale Palermo n. 4035/2013), e ricordando che il latitante fu arrestato l’11 aprile 2006 quando in carica c’era il Governo guidato da Forza Italia, le smentite alle affermazioni di Riccio circa l’omicidio di Ilardo quale omicidio di Stato, arrivano ancora una volta dalle sentenze definitive. Perché i giudici di Palermo prima verbalizzano con stupore che il colonnello Riccio ha negato fino all’ultimo la matrice mafiosa dell’omicidio Ilardo, dicendosene incredulo. E poi si è visto a sua volta non creduto dai magistrati: «L’errore di valutazione del Riccio, che aveva la responsabilità esclusiva della gestione dell’Ilardo, rende comprensibile che egli abbia voluto rimuovere ogni possibilità che il confidente fosse rimasto ucciso da mano mafiosa, sforzandosi di profilare oscure trame istituzionali, suggerite dalla oggettiva coincidenza dell’omicidio con l’imminente inizio della collaborazione formale del predetto ed avvalorate da alcune, piuttosto ardite (quale quella che vedrebbe Andreotti e Martelli mandanti della strage di Capaci), indicazioni sulle rivelazioni che sarebbero state fatte dal predetto in merito ad avvenimenti quanto mai eclatanti e a personaggi assai in vista» (Sentenza Tribunale di Palermo, Sez. IV penale, n. 4035/2013, p. 1140-1141). Il sospetto è che la palla calciata in tribuna – chiamando in causa l’iperbole della Spectre – sia dovuta al malcelato senso di colpa dell’ufficiale. Il Tribunale di Palermo in effetti ha osservato: «Va considerato che il predetto Riccio era in qualche modo responsabile della incolumità dell’Ilardo e delle notizie comunicate a mezzo della sua collaborazione confidenziale: se nel corso della stessa collaborazione il confidente, come era sospettato dai magistrati catanesi, aveva commesso gravi reati e se era stato ucciso, qualche rilievo contro il Riccio poteva essere mosso» (Sentenza Tribunale di Palermo, Sez. IV penale, n. 4035/2013, p. 1110). Aggiungendo una glossa assai eloquente: «E, sia detto per inciso, la prospettazione insistita di una matrice non mafiosa dell’omicidio poteva essere funzionale a preservare il Riccio da possibili critiche». Se poi si fossero interpellati i difensori, Report avrebbe scoperto che tali valutazioni sono state condivise dalla Corte di Assise di Catania che ha processato i mafiosi assassini di Ilardo. Quei giudici, in merito all’ipotizzato coinvolgimento di esponenti istituzionali nell’omicidio Ilardo, hanno scritto che «non è stato infatti accertato chi mise Provenzano e Madonia al corrente del tradimento di Ilardo (non può, per le ragioni già evidenziate, darsi credito alle dichiarazioni rese da Giuffrè solo nel 2014, circa un possibile tradimento da parte dei vertici del Ros dell’epoca)» (Sentenza Corte di Assise di Catania n. 13/2019, p. 115). Quanto all’assunto del colonnello Riccio secondo cui Mori e il Ros non hanno voluto catturare Provenzano il 31 ottobre del 1995 a Mezzojuso, ai legali di Mori e De Donno basta citare la testimonianza di Giuseppe Pignatone, magistrato che veniva costantemente informato da Riccio su ogni evoluzione del suo rapporto con Ilardo, riportata nella sentenza del Tribunale di Palermo. Egli, sentito al processo a carico di Mori e Obinu ha riferito che, il giorno dopo, ossia l’ 1 novembre 1995, Riccio si recò da lui in Procura ma non gli disse che Ilardo aveva incontrato Provenzano, bensì che aveva incontrato un mafioso di Bagheria, tale Nicola Greco il quale era uomo di Provenzano. Il magistrato ha aggiunto «quello che ricordo con certezza è che non si è mai parlato di un incontro con Provenzano a Mezzojuso nei termini diciamo oramai noti, questo è pacifico che se ci fosse stato da fare qualcosa l’avremmo fatta».

Confidenze di Borsellino a proposito del generale Subranni. Anche su tale tema la consultazione delle sentenze passate in giudicato, del tutto ignorate dalla redazione di Report, avrebbero garantito un’informazione più completa. La trasmissione, invece, ritiene di informare dando voce al giudice Di Matteo che tira in ballo il generale Subranni, del quale la moglie di Borsellino, la signora Agnese, disse di aver raccolto dal marito confidenze amare. Ecco le parole del magistrato nel montaggio di Report: «Proprio in quel periodo era iniziata la trattativa tra i Carabinieri e Riina, intermediata da Ciancimino. Ci sono molti elementi da approfondire ulteriormente ma che fanno ritenere che Paolo Borsellino avesse iniziato a capire quello che stava accadendo. E da questo punto di vista si possono spiegare anche le sue clamorose esternazioni fatte quattro giorni prima della strage di via D’Amelio alla moglie, signora Agnese, nel momento in cui Paolo Borsellino parlò in termini estremamente negativi e con un atteggiamento che la signora Agnese definisce sconvolto del suo ex amico generale Subranni, il capo del Ros adesso condannato in primo grado anche per la trattativa». (minuti 1.05.30 e seguenti). Gli avvocati Milio e Romito sollevano alcuni rilievi. «Nonostante il dottor Di Matteo ben conosca quei documenti perché acquisiti in entrambi i processi in cui ha rappresentato l’accusa (quello sulla presunta trattativa tra Stato e mafia e quello a carico di Mori e di Obinu), dispiace rilevare come non ne abbia citato fedelmente il contenuto. Ma soprattutto, un servizio pubblico aveva il dovere di dar conto correttamente di quanto affermato dalla moglie del dottor Borsellino». Torniamo alle carte, senza ulteriori commenti. Interrogata dalla Procura di Caltanissetta, la signora Agnese Piraino Leto così ha risposto: «Circa i rapporti tra mio marito e il generale Subranni, di cui mi chiedono, posso dire che Paolo ebbe modo di conoscerlo quando lo stesso era comandante della Regione Sicilia ed ebbe occasione di frequentarlo sporadicamente. I rapporti tra i due erano, quindi, solo di tipo professionale. Prendo atto che le SS. LL. mi rappresentano che la dott.ssa Alessandra Camassa ed il dotto Massimo Russo hanno riferito di essere stati testimoni di uno sfogo di Paolo, il quale, piangendo, disse di essere stato tradito da un amico. Ignoro a chi si riferisse mio marito e, pertanto, non posso affermare che si trattasse del generale Subranni».

La Falange Armata come emanazione dei servizi deviati. Avvincente, affabulante e melliflua come tutte le teorie cospirazioniste, capace di catturare l’attenzione e di annidarsi nella testa di chi non conosce bene in fatti, la fantastica storia della Falange Armata viene proposta da Report con una voce narrante fuori campo: «Siamo nell’autunno del 1993, Francesco Paolo Fulci, diplomatico di lungo corso e capo del Cesis, l’organismo di coordinamento tra il Servizio segreto civile e il Servizio segreto militare svolge un’indagine interna ai Servizi segreti e rende nota una lista di 16 militari appartenenti alla settima divisione del Sismi, un gruppo di superagenti denominati Ossi, Operatori Speciali Servizio Italiano, addestrati ad operazioni di guerra non ortodossa. Fulci dice: sono loro la Falange Armata» (minuti 1.42.45 e seguenti). Parla il pm Tartaglia, il magistrato scelto da Bonafede come Vice capo Dap: «La Falange Armata è certamente un’operazione di intelligence ed è un’operazione di intelligence fatta da chi sapeva fare la guerra non ortodossa in quel momento in Italia». Cercando fatti a riprova, però, non se ne trovano. Risponde al vero che i difensori dei carabinieri hanno già prodotto fior di documenti che smentiscono gli assunti dell’ambasciatore Fulci, ma non ne hanno fatto menzione né il predetto magistrato, né il servizio pubblico, così accreditando un’ipotesi smentita dai fatti. Saviotti, Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, che si occupò delle indagini, ha qualificato le affermazioni di Fulci come sentore» tant’è che nelle sue dichiarazioni non ha mai dato la sensazione di poter agganciare a qualche episodio concreto o a qualche indizio che orienti soggettivamente le responsabilità” ed ha aggiunto che «un sentore è un sentore e non consente neppure l’iscrizione nel registro degli indagati». Monteleone, Procura della Repubblica di Roma, nel provvedimento di archiviazione per l’accusa di calunnia ipotizzata a carico del Fulci ha affermato, a chiare lettere, che le ipotesi del diplomatico si basavano su «meri sospetti personali» (Richiesta di Archiviazione depositata in data 25.02.1997, p. 5) e che «pur a seguito delle indagini, permaneva una situazione di carenza di acquisizioni idonee a confortare le opinioni espresse dall’Ambasciatore Fulci» (p. 7), aggiungendo che «l’incongruenza della versione fornita dall’Ambasciatore Fulci si è evidenziata fin dai primi atti davanti alla magistratura… e ciò a prescindere dalla mancanza di risultati, pur ricercati dalla Procura di Roma sulla pista dallo stesso Ambasciatore Fulci indicata» (p. 9). Dopo aver dato minuziosamente conto di tutte le indagini svolte, il magistrato ha ritenuto «altamente improbabile» (p. 9) che Fulci avesse accusato gli appartenenti al Sismi mosso da «banale suggestionabilità ed emotività». Tutti elementi di cui chi ha seguito la ricostruzione di Report non è stato messo al corrente.

 “La trattativa non c’è stata”, ecco le sentenze ignorate da Report. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 12 Gennaio 2021. La puntata di Report dello scorso lunedì 4 ha innescato la reazione delle parti in causa. Anche perché interviene su un procedimento penale in corso presso la Corte d’appello di Palermo, quello sulla presunta “trattativa Stato-mafia”, con il Generale Mario Mori e il Colonnello Giuseppe De Donno che contestano su tutta la linea la ricostruzione messa in onda su RaiTre. Così i legali si sono riguardati la puntata e hanno preso appunti, messi nero su bianco in una nota che costituisce il preambolo di una segnalazione inoltrata alle autorità competenti. Gli avvocati Basilio Milio e Francesco Antonio Romito si indirizzano al Presidente della Repubblica, al Vice Presidente del Csm, Davide Ermini; al Senatore Barachini, in qualità di presidente di vigilanza Rai, al Senatore Morra per la commissione antimafia e al Presidente Rai, Marcello Foa. Protestano nel merito e nel metodo, sottolineando le ripetute negligenze e le congetture sperticate che hanno riscontrato nella trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci. Al conduttore Rai era arrivata già prima della messa in onda una doverosa precisazione, declinando da parte di De Donno l’invito a partecipare come intervistato. Lo scorso 28 dicembre De Donno scrive al giornalista Mottola e a Ranucci: «La ringrazio per il cortese invito ma in linea con la decisione – del Gen. Mario Mori, mia e dei nostri difensori – di non interferire in alcun modo con lo svolgimento del procedimento penale a nostro carico con qualsiasi iniziativa che non sia il confronto dibattimentale nelle aule di Giustizia, dobbiamo declinare. Nella circostanza, confermandole la nostra totale estraneità ai fatti contestatici, le ricordo che potrà trovare ogni utile riferimento alla nostra posizione processuale negli atti ormai pubblici e nelle memorie difensive dei nostri legali che sono, eventualmente a sua disposizione per ogni chiarimento, nonché nelle sentenze di assoluzione ormai definitive quali quelle emesse nel processo per la cosiddetta mancata cattura di Provenzano – che ha visto imputati il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu – e nel processo nei confronti dell’onorevole Calogero Mannino, coimputato nello stesso identico reato a noi contestato, sentenze che sono sicuro conosca e alle quali sono certo non mancherà di attingere per una veritiera ricostruzione dei fatti». E d’altronde, si incaricano di elencare i legali, la trasmissione fa stralcio delle sentenze di assoluzione passate in giudicato: quella del Tribunale di Palermo sent. n. 4035/2013; Corte di Appello di Palermo, sent. n. 2720/2016; Cass. sent. n. 39562/2017.GUP Palermo sent. n. 1744/2015; Corte di Appello di Palermo sent. n. 3920/19; Cassazione sent. emessa l’11.12.2020. Sentenze che, dando un’argomentata e documentata ricostruzione dei fatti, hanno valutato e giudicato anche le condotte di Mario Mori e Giuseppe De Donno circa una presunta trattativa tra lo Stato e “cosa nostra”, in relazione alla medesima fattispecie di cui all’art. 338 c.p.. Sentenze che la trasmissione, chissà perché, ignora. Il danno è evidente, stando ai legali Basilio Milio e Francesco Antonio Romito: “L’inchiesta giornalistica, con un approccio rivelatosi del tutto deficiente dei necessari requisiti di completezza ed imparzialità, indica, come certamente avvenuta una trattativa tra uomini del Ros e Cosa Nostra, nonostante le menzionate pronunce l’abbiano esclusa, affrontando vicende oggetto di un delicato processo in corso, così determinando oggettivamente una indebita interferenza sullo stesso processo, anche attraverso interviste rilasciate dai magistrati inquirenti rappresentanti l’accusa nel processo del quale si sta svolgendo il II° grado”. In effetti a procedimento aperto è davvero curioso che una parte del dibattimento si svolga nelle aule di Saxa Rubra, invece che in quelle di Palermo. E questo, recita ancora la missiva – “ Nonostante la RAI sia un ente assimilabile ad un’amministrazione pubblica, concessionaria dell’essenziale servizio pubblico radiotelevisivo”. Ecco che gli interessati ricostruiscono in una precisa memoria cronologica i fatti e le circostanze della cui travisazione accusano Report.

La “Trattativa del Gen. Mori con la mafia”. Sia Di Matteo (minuti 1.05.30 e seguenti) che, più volte, il conduttore ed anche la voce narrante, nel corso della trasmissione, ripetono come un mantra che il Gen. Mori è “l’uomo che ha condotto la trattativa con la mafia nel periodo stragista” (minuti 9.15 e seguenti ed ancora minuti 1.13.30 e seguenti ed ancora 1.51.15 e seguenti). Si ha buon gioco nel sottolineare qualche “dimenticanza”. “Una imparziale informazione avrebbe, quanto meno, fatto conoscere ai telespettatori che già nel 2006 i giudici che hanno assolto il Gen. Mori ed il Cap. De Caprio hanno scritto una sentenza chiarissima”, dichiarano gli avvocati Milio e Romito. “Se gli elementi di carattere logico e fattuale di cui sopra sono idonei a smentire l’ipotesi della ‘Trattativa Stato-mafia’ avente ad oggetto la consegna del Riina, deve concludersi che più verosimilmente l’iniziativa del gen. Mori fu finalizzata solo a far apparire l’esistenza di un negoziato, al fine di carpire informazioni utili sulle dinamiche interne a “cosa nostra” e sull’individuazione dei latitanti. Sembra confermare una tale interpretazione anche il rilievo che il comportamento assunto dal cap. De Donno e dall’imputato apparirebbe viziato – ponendosi nell’ottica di una trattativa vera invece che simulata – da un’evidente ed illogica contraddizione, solo se si consideri che gli stessi si recarono dal Ciancimino a “trattare” chiedendo il massimo, la resa dei capi, senza avere nulla da offrire.” (Sentenza Mori-De Caprio, pagg. 116-117).” A parte questa sentenza, anche essa passata in giudicato, i giudici che hanno assolto il Gen. Mori ed il Col. Obinu nel 2013 sono andati oltre, precisando: “In tale contesto, l’eventualità che il col. Mori ed il cap. De Donno si siano attivati con lo scopo precipuo di evitare il ripetersi di iniziative stragiste di Cosa Nostra non potrebbero obliterare una semplice considerazione: detta, eventuale, finalità non potrebbe, di per sé, rivelare un atteggiamento volto a favorire le ragioni dei mafiosi ed, anzi, dovrebbe senz’altro apprezzarsi come lodevole”: così recita la sentenza del tribunale di Palermo, Sez. IV penale, n. 4035/2013, p. 158. Un documento di cui il pubblico di Report viene tenuto all’oscuro. E gli stessi giudici mettono le mani avanti, esecrando già nel 2013 il tentativo di fare dietrologia: “una interpretazione degli avvenimenti che non tenga conto della peculiarità dei contesti temporali in cui si è operato rischia di essere fuorviante e di fare apparire, attraverso facili dietrologie ed impropri richiami moralistici, senz’altro complicità o connivenze, gli sforzi di chi magari cercava in quei difficili momenti di evitare eventi sanguinosi in attesa di tempi migliori”. (Sentenza Tribunale di Palermo, Sez. IV penale, n. 4035/2013, p. 81. Nella stessa sentenza passata in giudicato la Corte di Appello ha valorizzato il lavoro “in un rapporto di esclusiva fiduciarietà coi Giudici Falcone e Borsellino fino alla loro morte” di Mori e De Donno, definendo poi i contatti con Vito Ciancimino come nient’altro che una “attività info-investigativa” (p. 756) finalizzata a “creare un rapporto fiduciario con costui per trasformarlo in confidente/infiltrato prima, e … collaboratore poi, sempre all’unico fine della cattura dei latitanti e della cessazione delle stragi” (p. 616). Anche tale sentenza è irrevocabile dall’11 dicembre 2020.

I riferimenti di Claudio Martelli alla “Trattativa”. Intervistando l’On. Claudio Martelli, Report ha chiesto all’allora Ministro della Giustizia:

“Lei ha raccontato solo dopo molti anni di aver saputo della trattativa, perché?

Claudio Martelli: pensai che fossimo davanti ad un comportamento molto anomalo da parte dei ROS, e la prima cosa dissi a Liliana Ferraro di informare Borsellino. Cosa dice Mori? “Sì, io ho incontrato Vito Ciancimino, l’ho incontrato, gli ho parlato” e la trattativa. “Sì ho trattato in questo senso, che gli ho detto “ma dobbiamo continuare con questo muro contromuro tra lo Stato e cosa nostra?”. Questo io lo trovo abbastanza stupefacente…..

Intervistatore: Quella trattativa fu un’iniziativa di polizia o un’iniziativa anche politica, con un mandante politico?

Claudio Martelli: “io penso di sì. Del Presidente della Repubblica dell’epoca, Oscar Luigi Scalfaro” (minuti 1.53.30 e seguenti). Anche qui, il microscopio dei legali ha evidenziato l’inocularsi virale della cattiva informazione. Sul punto, si fa rilevare, manca qualche notizia utile: i giudici della Corte di Appello che hanno assolto Mannino hanno ritenuto “probabile che gli … ufficiali del Ros avessero informato di tale iniziativa anche Borsellino – che con Mori e De Donno aveva all’epoca un rapporto di assoluta ed esclusiva fiducia, tanto da chiedere di vederli, riservatamente, nei locali della Caserma dei Carabinieri e non in quelli della Procura, per parlare del rapporto “mafia-appalti”. Poco prima della sua uccisione – giacchè quando il giudice ne era stato informato dalla Ferraro, non ne era rimasto affatto stupito, né contrariato, rispondendo alla Dirigente degli Affari Penali del Ministero che andava bene e che se ne sarebbe occupato lui”. (Sentenza Corte di Appello di Palermo, Sez. I penale, n. 3920/2019, p. 752).

Se poi Report si fosse premurato di assumere informazioni dai legali, avrebbero acclarato come il Presidente Scalfaro non risulta esser stato mai indagato, tantomeno imputato, sebbene nel capo di imputazione figurino i defunti Francesco Di Maggio e Vincenzo Parisi. Peraltro, Martelli aveva già parlato. In un’aula vera di tribunale, senza telecamere e montatori. Rileggendo il verbale dell’udienza 15 giugno 2016, troviamo a pag.162 e 163: “Io non ho mai pensato che fossimo di fronte… Sa un conto poi, ripeto, è estremamente evidente, un conto è dire: la trattativa tra Stato e mafia. Beh, scambiare due ufficiali dei Carabinieri per Stato già mi sembrerebbe una certa approssimazione generalizzante, no? Poi se per questo si intende quello che lo stesso colonnello Mori ha dichiarato a Firenze, l’intervista è stata data in tutte le televisioni d’Italia, io l’ho vista lì e ho fatto un salto, trattativa. Ma certo che io ho trattato, c’è stata la trattativa, c’è stata la trattativa con Ciancimino”. Conclude Martelli: “E quando poi è finita la trattativa con Ciancimino, i miei collaboratori mi hanno detto: ‘Eh, ma cos’è? Non hai guadagnato nulla’. E Mori ci tenne a dire: ‘No, non è vero, si è creata una premessa che sarà utile anche in futuro’. Ma questa che c’è stata, questa è trattativa Stato – mafia forse? No”.

Le inconsistenti polemiche contro “Report”. Franco Insardà su Il Dubbio il 21 gennaio 2021. “Il coraggio di "Report" di affrontare il carcere senza inutili dietrologie”. Così, in maniera quasi profetica, avevamo titolato l’articolo sulla trasmissione messa in onda da Rai3 lunedì scorso e dedicata al carcere. Eh sì, perché dopo tanti anni in cui questo giornale quotidianamente si interessa dell’universo penitenziario, ci siamo resi conto che gli argomenti trattati danno fastidio, ai più. Le nostre inchieste, le denunce e le storie hanno spesso sollevato polemiche, interrogazioni parlamentari e tenuto acceso un faro su tutto quello che succede all’interno delle carceri italiane: dal sovraffollamento alle precarie condizioni sanitarie, dalla limitazione dei diritti dei detenuti al difficile contesto nel quale operano gli agenti di Polizia penitenziaria. Per non parlare della difficoltà di applicare misure alternative e del “mistero” della fornitura di braccialetti elettronici. Il nostro faro, accesso quotidianamente, è importante, e ha spesso fatto in modo che se ne puntassero altri. Ma la potenza di una trasmissione Rai è enorme, ed ecco che quando Report ha messo in onda l’ottimo servizio di Bernardo Iovene, si è scatenato il putiferio. Passi per le reazioni social dei telespettatori, forse abituati a guardare Report per servizi più orientati a una visione general- preventiva sulla giustizia, e che hanno criticato la scelta della redazione guidata da Sigfrido Ranucci. Ma che un ex sottosegretario alla Giustizia, il leghista Jacopo Morrone, invochi l’intervento della commissione di Vigilanza, ci sembra esagerato. Chi ha visto l’inchiesta di Report, senza preconcetti ideologici, ha assistito alla narrazione di fatti, supportati da esposti e denunce, sui quali la magistratura sta indagando, tante interviste a familiari dei detenuti, ex reclusi, operatori penitenziari e altre persone alle quali sta a cuore che anche, e soprattutto, in carcere lo Stato di diritto abbia piena attuazione. Forse l’onorevole Morrone non ha avuto occasione di guardare il programma, altrimenti non avrebbe potuto dichiarare che si sarebbe trattato di un “messaggio fazioso, senza contraltare”. Né sostenere come “una trasmissione del servizio pubblico, che dovrebbe essere pluralista, non abbia dato spazio a una vera informazione, esaustiva e completa, ascoltando tutte le parti in causa”. Ci scusi, onorevole Morrone, ma come può sostenere che nell’inchiesta di Report non sono state ascoltate tutte le parti in causa? Ecco un breve elenco delle persone intervistate: Massimo Parisi, direttore del personale del Dap, Antonio Fullone, provveditore della Campania dell’Amministrazione penitenziaria, Marco Puglia, magistrato di sorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vetere, Vincenzo Maria Irollo, direttore sanitario di Poggioreale, Adriana Pangia, presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli, Donato Capece, segretario generale del Sappe ( Sindacato autonomo polizia Penitenziaria) Emilio Fattorello, segretario nazionale sempre del Sappe, e ancora Gennarino De Fazio, segretario Uilpa Polizia Penitenziaria. Obiettivamente non ci sembra che Bernardo Iovene non abbia dato spazio a tutte le parti in causa. Forse il problema è che una volta tanto si sia parlato di carcere al di là dei soliti schemi ideologici, considerando i detenuti delle persone che stanno scontando una pena, e non come dei rifiuti della società da “chiudere dentro e buttare la chiave”.

Mafia, la sentenza smonta la versione di Report: ora ristabilire la verità. Piero Sansonetti su Il Riformista il 19 Gennaio 2021. Sono state depositate le motivazioni della sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Caltanissetta a conclusione del processo che si chiama “Borsellino Quater”. Dicono parecchie cose interessanti. Quattro sono le più importanti. La prima è che Borsellino non fu ucciso perché stava indagando sulla trattativa Stato-mafia. La seconda è che Borsellino è stato invece ucciso in parte per vendetta in parte per fermare alcune sue indagini. Quali? La più pericolosa probabilmente era quella che riguardava il dossier mafia-appalti, costruito da Falcone e dal colonnello Mori, e che fino a pochi giorni dalla sua morte fu tenuto lontano da Borsellino (e poi archiviato, clamorosamente, dopo la sua eliminazione). La terza cosa che dice la sentenza è che Cosa Nostra è una entità autonoma, che non risponde ad altri poteri, anche se è molto influenzata soprattutto dai poteri economici. Infine, la quarta cosa che dice (collegata alle prime tre) è che a Borsellino, nella Procura di Palermo, facevano la guerra, probabilmente anche per il dossier mafia-appalti, e che la mafia era molto preoccupata del suo ritorno a Palermo dopo l’esilio a Trapani e Agrigento. Ora questa sentenza pone alcuni problemi. Il primo riguarda il processo che è in corso alla Corte d’appello di Palermo sulla trattativa Stato-mafia. Con questa, sono nove le sentenze che smantellano la tesi su cui è costruito quel processo. E nove sono davvero tante. Può la giustizia continuare a testa bassa a fantasticare su una tesi che ormai la magistratura italiana ha dichiarato infondata? La seconda questione riguarda l’informazione. Giorni fa la Rai ha mandato in onda una trasmissione sulla trattativa Stato mafia molto disinformata. Che è stata interamente smontata da questa sentenza. E che però ragionevolmente ha avuto un peso molto forte sull’opinione pubblica e anche sui giurati che dovranno decidere sul processo Stato-mafia. La commissione di vigilanza interverrà? Sarò imposto alla Rai un programma di riparazione, che permetta di ristabilire la verità? Se questo non succederà vuol dire che viviamo in uno Stato dove il potere giudiziario è concepito solo come macchina di potere. Terrificante macchina di potere che risponde solo a logiche interne. Del tutto estraneo al diritto e alla ricerca della verità.

Le motivazioni del Borsellino Quater. Perché fu ucciso Paolo Borsellino? Secondo la sentenza non per la trattativa Stato-Mafia. Leonardo Berneri su Il Riformista il 19 Gennaio 2021. La cosiddetta trattativa Stato Mafia non ha nulla a che fare con la strage di Via D’Amelio. Anzi, non ha nulla a che fare con tutte le stragi mafiose, a partire da quella di Capaci fino alle bombe “continentali” del 1993. Non solo, respingendo la tesi difensiva dei boss, si apprende che «gli elementi acquisiti nel presente procedimento consentono di affermare che l’uccisione del giudice Paolo Borsellino, inserita nell’ambito di una più articolata “strategia stragista” unitaria, sia stata determinata da Cosa Nostra per finalità di vendetta e di cautela preventiva». Parliamo delle motivazioni, appena depositate, della sentenza d’appello del Borsellino Quater. La corte d’assise d’appello di Caltanissetta scarta la tesi sulla trattativa: non è di sua competenza, c’è una sola sentenza e pure non definitiva, ma soprattutto non c’entra nulla con la casuale delle stragi. E’ proprio la Corte che, confermando le condanne di primo grado nei confronti dei boss Vittorio Tutino e Salvo Madonia (oltre i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci), si sofferma sulle cause che hanno determinato la strage, in cui persero la vita Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. Quali? L’esito del maxiprocesso e il suo interessamento al dossier mafia appalti. Queste le conclusioni che l’Assise d’Appello di Caltanissetta riversa nella sentenza, in particolare traendo le mosse dalle parole del pentito Giuffrè, sui «sondaggi» con «personaggi importanti» effettuati da Cosa Nostra prima di decidere l’eliminazione dei magistrati Falcone e Borsellino, ma anche ricordando i sospetti che lo stesso Paolo Borsellino il giorno prima dell’attentato aveva confidato alla moglie, quando le disse «che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo …ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò accadesse». Ed è proprio sulla base di tali evidenziate “anomalie”, si legge sempre nelle motivazioni, che «i Giudici di primo grado avevano disposto la trasmissione degli atti al Pubblico Ministro per le determinazioni di competenza su eventuali condotte delittuose emerse nel corso dell’istruttoria dibattimentale». Il punto non è di poco conto. Soprattutto nel momento in cui si organizzano convegni o si fanno “inchieste” televisive, invitando i soliti magistrati che puntualmente omettono i problemi che Borsellino ebbe all’interno della procura. Purtroppo accade sempre più spesso che quando nelle interviste si riporta questa oramai celebre frase che Borsellino confidò alla moglie Agnese, se ne dimentichi tuttavia la parte finale con il riferimento che il giudice fece ai suoi colleghi, i magistrati. La memoria non ha fatto gli stessi brutti scherzi alla Corte, che invece non ha dimenticato di darne rilievo, richiamandola con riferimento alle dichiarazioni testimoniali che rese la moglie di Borsellino. Non solo. Sempre nella sentenza viene citato il fatto che l’arrivo di Borsellino nel nuovo ufficio della Procura di Palermo «era stato percepito con preoccupazione da Cosa Nostra, al punto che Pino Lipari (vicino ai vertici dell’organizzazione maliosa) aveva commentato il fatto dicendo che avrebbe creato delle difficoltà a “quel santo cristiano di Giammanco”». Ricordiamo che per i corleonesi, Lipari è stato un “consulente” che si occupava di pilotare gli appalti pubblici in modo da affidarli a imprese vicine ai boss. Il suo nome apparve anche nel famoso dossier mafia appalti scaturito dall’indagine degli ex ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, condotta sotto la supervisione di Giovanni Falcone. Riprendendo le motivazioni della pronuncia di primo grado, la Corte ricorda anche che «non erano state poche le difficoltà iniziali incontrate dal dott. Borsellino, al quale erano state delegate solo le indagini per le province di Trapani e Agrigento, e non per quella di Palermo». A tal proposito, richiamando la sentenza di primo grado, la Corte le attribuisce il merito di aver ricostruito, anche sulla scorta delle dichiarazioni rese dalla moglie del magistrato e da alcuni suoi stretti collaboratori e colleghi, «le ragioni del contrasto fra il dottore Borsellino e l’allora procuratore capo della Procura di Palermo, dott. Giammanco, ricordando come tale delega, più volte sollecitata dal dottore Borsellino, gli fosse stata conferita solo la mattina del suo ultimo giorno di vita». Ma su quale indagine Paolo Borsellino aveva mostrato particolare attenzione dopo la morte del collega ed amico Giovanni Falcone? Erano – si legge nelle motivazioni – «le inchieste riguardanti il coinvolgimento di “Cosa Nostra” nel settore degli appalti pubblici, avendo intuito l’interesse strategico che tale settore rivestiva per l’organizzazione criminale». Tutto qui? No, perché la Corte evoca anche quel famoso incontro tra Borsellino e la dottoressa Lilliana Ferraro, quando insieme avevano anche parlato del rapporto “mafia-appalti” ricevuto, per mano dei carabinieri del Ros, dal Procuratore Giammanco e da quest’ultimo «irritualmente inviato al Ministero della Giustizia, tanto che il dott. Falcone (nel frattempo come noto in servizio al Ministero) ne aveva disposto l’immediata restituzione». Un fatto singolare che fece infuriare Falcone. Sul tema non si manca neanche di precisare che «nel corso del dibattimento erano stati sentiti, come testi, anche i giudici Camassa e Russo i quali avevano riferito di un incontro avuto con il giudice Borsellino, intorno alla metà del mese di giugno, nel corso del quale quest’ultimo, con tono molto amareggiato e con le lacrime agli occhi, aveva detto loro che “qualcuno lo aveva tradito”». Una sentenza che finalmente riprende in mano ciò che Falcone e Borsellino hanno sempre sostenuto. Ovvero che la caratteristica della mafia è la sua autonomia da qualsiasi potere, agisce da sola e, soprattutto, non ha bisogno di alcun aiuto esterno per compiere gli attentati. E cosi la Corte tiene anche a sottolineare ciò che aveva intuito Falcone con la nascita del pool antimafia, ovvero che «stante il carattere unitario e fortemente centralizzato dell’organizzazione criminale Cosa Nostra, ogni delitto riconducibile a detta organizzazione criminale dovesse essere considerato come l’anello di una lunga catena, e non già come un episodio a sé stante». Ecco perché secondo la Corte non regge la linea di difesa degli imputati, portati a giudizio per la strage di Via d’Amelio, quando chiama in causa la tesi della trattativa per dire che quel presunto patto avrebbe aperto «nuovi scenari», in relazione alla «crisi dei rapporti di Cosa Nostra con i referenti politici tradizionali» ma anche al possibile collegamento fra «la stagione degli atti di violenza» e l’occasione di «incidere sul quadro politico italiano» con riferimento a coloro che «si accingevano a completare la guida del paese nella tornata di elezioni politiche del 1992». La Corte nella sua sentenza non lascia spazio alcuno a queste argomentazioni difensive, ribadendo che «la strage di Via D’Amelio, inserita nell’ambito di una più articolata “strategia stragista” unitaria, sia stata determinata da Cosa Nostra per finalità di vendetta e di cautela preventiva». Indubbiamente, però, c’è stata una accelerazione dell’uccisione di Borsellino. Da cosa è dipeso ce lo dicono le motivazioni quando riportano alcuni passi della sentenza della corte d’Assise di Catania: «poteva avere influito l’intervento di potentati economici disturbati nella spartizione degli appalti, la presenza di forze politiche interessate alla destabilizzazione, la necessità di umiliare lo Stato in modo definitivo e plateale». Poi la stessa Corte di Assise di Appello di Catania aveva comunque rilevato che tali ultimi motivi non hanno «creato una frattura rispetto a quelli che determinarono la decisione della strategia stragista, ma si aggiungono ad essi». Si tratta di una sentenza che potrebbe, di fatto, suggerire ulteriori piste da esplorare. A partire dalla causa della strage. Non la presunta trattativa, ma la questione “mafia appalti” che ha anche come sfondo i problemi all’interno dell’allora procura di Palermo. Il tutto è ben cristallizzato in questa sentenza. Tutto ciò potrebbe significare un ulteriore sviluppo delle indagini e la possibilità di arrivare a un Borsellino quinquies?

Borsellino-quater, i giudici: «La strage di via D’Amelio non dovuta alla trattativa Stato-mafia». Francesca De Ambra mercoledì 20 Gennaio 2021 su Il Secolo D'Italia. Paolo Borsellino fu ucciso dalla mafia, ma non per effetto della trattativa Stato-mafia. È questa la sintesi della sentenza del processo Borsellino-quater, le cui motivazioni sono state oggi depositate dalla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta. Significa che crolla la tesi che fa discendere la strage di via D’Amelio dalla decisione di Cosa Nostra di cercare nuovi equilibri politici dopo la rottura di quelli tradizionali. È la tesi, per intenderci, riproposta da Report nelle settimane scorse. Secondo tale vulgata, il magistrato sarebbe stato sacrificato sull’altare di una trattativa tra pezzi dello Stato e mafia, intermediata da Vito Ciancimino. Borsellino l’aveva intuito e per questo doveva morire.

Depositate le motivazioni della sentenza d’appello. Un assunto, scrivono i giudici, che «non può condividersi». A decidere la morte di magistrato, inserita nell’ambito di una più articolata «strategia stragista» unitaria, è stata la «finalità di vendetta e di cautela preventiva» di Cosa Nostra. Una strategia – si legge ancora nelle 377 pagine di motivazione – «risalente alla riunione degli “auguri di fine anno 1991″». Vuol dire che tra le stragi di Capaci (Falcone) e via D’Amelio (Borsellino) non v’è «soluzione di continuità». La seconda, insomma, non è autonoma dalla prima. Lo aveva già specificato la Cassazione nel Borsellino-ter. Ora lo ribadiscono anche i giudici di Caltanissetta.

Borsellino indagava sul dossier mafia-appalti. Borsellino indagava sulla pista dell’intreccio mafia-appalti istruito dal generale Mori, poi imputato nel processo sulla “trattativa”.  E questo ne faceva un bersaglio costantemente nel mirino di Cosa Nostra. A Palermo come a Marsala, sua ultima destinazione. «Anche dopo il suo trasferimento – scrivono infatti i giudici – Borsellino aveva continuato la sua instancabile opera nel contrasto alla criminalità organizzata (…)». La qual cosa lo rendeva «ben visibile» agli occhi della mafia «che continuava a concepire propositi omicidiari nei suoi confronti». Restano invece privi di riscontro altri elementi “forti” della “trattativa”. A cominciare dalla presenza di persone legate ai Servizi presenti sul luogo era strage subito dopo l’esplosione della 126 imbottita di tritolo. Agenti deviati  incaricati di recuperare la famosa agenda rossa sui cui Borsellino annotava tutto.

«Mosaico pieno di ombre». Sul punto, però, le deposizioni dei testi escussi hanno creato contraddizioni definite «non superabili» e tali da «gettare il dubbio» su presenze di agenti «in giacca nonostante la calura e l’ora torrida» appartenenti ai servizi segreti. Di uomo estraneo a Cosa Nostra presente alla consegna della 126 parla anche Gaspare Spatuzza, ex-fidatissimo del boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, ora collaboratore di giustizia, che si è autoaccusato della morte di Borsellino svelandone i depistaggi investigativi. Un particolare che i giudici definiscono «inquietante». E che li conduce a ritenere «possibile» che la “sentenza di morte” emessa dalla mafia «abbia intersecato convergenti interessi di altri soggetti o gruppi di potere estranei a Cosa nostra». Via D’Amelio, insomma, resta un «mosaico pieno di ombre»

"Abuso di intercettazioni". Il caso Contrada ancora sotto i riflettori Cedu. Gabriele Laganà il 27 Luglio 2021 su Il Giornale. La notizia è stata comunicata all’Adnkronos da Stefano Giordano e Marina Silvia Mori, legali di Bruno Contrada. La Cedu, la Corte europea dei diritti dell'uomo, ha comunicato al governo italiano il ricorso presentato nel 2019 da Bruno Contrada, l’ex funzionario, agente segreto e ufficiale di polizia, con il quale"è stata dedotta l'illegittimità convenzionale della normativa italiana in tema di perquisizioni e intercettazioni", di cui "si è lamentata la lacunosità sia sotto il profilo dell'individuazione dei destinatari delle attività investigative, sia sotto il profilo dei rimedi interni esperibili avverso tali attività". La notizia è stata confermata da Stefano Giordano e Marina Silvia Mori, avvocati di Contrada, all'Adnkronos. I legali hanno spiegato che il ricorso trae origine dalle "plurime perquisizioni e intercettazioni poste in essere dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria e dalla Procura Generale di Palermo nei confronti di Bruno Contrada a partire dal 2017" senza che quest'ultimo "fosse formalmente sottoposto a indagini preliminari". La Cedu, come hanno specificato i legali, ha chiesto al nostro esecutivo di rispondere ad alcuni specifici punti: tra questi la chiarezza e la precisione della legge italiana in materia di perquisizioni e intercettazioni, la necessità e la proporzionalità delle attività investigative svolte nel caso concreto e, infine, alla sussistenza nell'ordinamento interno di strumenti processuali idonei a contestare quelle attività. "Per la prima volta la Corte Europea punta il dito contro quello che, non a torto, è stato definito come abuso delle intercettazioni e degli "atti a sorpresa" da parte dell'Autorità giudiziaria", ha dichiarato l'avvocato Stefano Giordano che ha sottolineato come nel nostro ordinamento, "visto il sistema legislativo assolutamente lacunoso, chiunque può essere sottoposto a intercettazioni e a perquisizioni, anche se non è mai stato lontanamente sospettato di avere commesso un reato". In considerazione di tutto ciò il legale ha spiegato di augurarsi che la Corte, "ultimo presidio di legalità internazionale", possa contribuire ad aprire una pagina nuova su alcuni istituti che, "così come di fatto applicati dall'Autorità giudiziaria, rappresentano la forma più inquietante dell'autoritarismo statale". Per Giordano questa battaglia non è volta solo alla tutela del Dottor Contrada,"uomo di Stato che ha subìto pesanti vessazioni da parte di quello stesso Stato che ha servito" ma anche alla tutela della legalità e delle libertà individuali di tutti.

Gabriele Laganà. Sono nato nell'ormai lontano 2 aprile del 1981 a Napoli, città ricca di fascino e di contraddizioni. Del Sud, sì, ma da sempre amante dei Paesi del Nord Europa. Seguo gli eventi di politica e cronaca dall'Italia e dal mondo. Amo il calcio, ma tifo in modo appassionato solo per la Nazionale azzurra. Senza musica non potrei vivere. In tv non perdo i programmi che parlano di misteri e i film horror, specialmente del genere zombie. Perdono molte cose. Solo una no: il tradimento

Il caso dell'ex numero due del Sisde. Bruno Contrada, schiaffo della Cassazione: annullato il risarcimento per ingiusta detenzione. Fabio Calcagni su Il Riformista il 21 Gennaio 2021. Colpo di scena in Cassazione. La Suprema Corte ha infatti annullato con rinvio l’ordinanza della Corte d’Appello di Palermo che aveva riconosciuto a Bruno Contrada, ex numero due del Sisde, il servizio segreto civile, la riparazione per ingiusta detenzione di 667 mila euro. I giudici della Cassazione hanno dunque accolto il ricorso del sostituto procuratore generale di Palermo Carlo Marzella: quest’ultimo aveva sostenuto che al quasi 90enne Contrada non spettasse il risarcimento perché il carcere non sarebbe stato “ingiusto”. Come noto Contrada, 89 anni, era stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa trascorrendo 4 anni e mezzo in carcere e 3 anni e mezzo ai domiciliari, sentenza annullata dopo il ricorso e la pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) di Strasburgo che aveva dichiarato illegittimo il verdetto italiano. In particolare i magistrati europei condannarono nel 2015 l’Italia a risarcire l’ex poliziotto, anche destituito dalla polizia di Stato e poi reintegrato come pensionato nel 2017 dal capo Franco Gabrielli: la Cedu infatti con la sentenza ha stabilito che Contrada non andava né processato né condannato perché il reato di concorso esterno in associazione mafiosa era stato tipizzato e aveva assunto una dimensione chiara e precisa solo con la sentenza Demitry del 1994.La sentenza della Cedu era quindi stata utilizzata dai legali di Fontana per chiedere la revoca della condanna: in un primo momento la Corte d’Appello di Palermo giudicò il ricorso inammissibile, giudizio ribaltato dalla Cassazione e che portò al risarcimento per la detenzione illegittima, oggi annullato. “Aspettiamo di leggere le motivazioni per un esame più approfondito, – dice il suo avvocato Stefano Giordano – ma è evidente fin d’ora che la Corte di legittimità non ha dato esecuzione alla sentenza di Strasburgo, secondo cui Contrada non andava né processato, né condannato”. “Ora la palla passa nuovamente alla Corte d’Appello palermitana. Ma, comunque andrà a finire la vicenda, è probabile che il Contrada non vedrà mai un centesimo di quanto gli spetta, considerate la sua età e le sue condizioni di salute e la lunghezza dei tempi processuali”.

Bruno Contrada non va risarcito, fu condannato e incarcerato ingiustamente. Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Gennaio 2021. Le cose certe sono due. Prima: Bruno Contrada non era colpevole. Seconda: Bruno Contrada ha passato quattro anni e mezzo in cella e altri tre e mezzo ai domiciliari (in tutto otto anni). Per un errore – anzi per diversi errori – molto gravi della magistratura. La sua non colpevolezza, a più di vent’anni dall’arresto, è stata accertata prima dalla Corte di Strasburgo e poi dalla nostra Cassazione. E su questa base la Corte d’appello di Palermo aveva quantificato in quasi 700mila euro il risarcimento dovuto. Non sono neanche tanti 700mila euro per una vita distrutta. Bruno Contrada è un importantissimo ex poliziotto, che operava in Sicilia, combatteva la mafia, e poi è stato anche il numero 2 dei servizi segreti. Fu condannato per “concorso esterno in associazione mafiosa” per fatti degli anni Ottanta. Contrada fece notare che quel reato non esiste nel codice penale italiano (e non esiste in nessun codice penale, in tutto il mondo). In genere viene usato quando gli inquirenti non trovano nessun reato specifico da imputare a una persona che però vogliono che sia condannata. Concorso esterno ha questo vantaggio: non devi provare né che l’imputato è mafioso né che abbia commesso delitti precisi. È una categoria dello spirito. La Corte Europea stabilì che in ogni caso questo reato, ”italianissimo”, prima del 1992 non esisteva né nel codice penale né in nessun aspetto della giurisprudenza, e dunque non poteva assolutamente essere contestato. Contrada non andava arrestato, non andava processato, non andava condannato, non doveva scontare nessunissima pena. La Procura e l’avvocatura dello Stato però hanno fatto ricorso contro la decisione della Corte d’Appello. Non vogliono che Contrada riceva una lira. Un caso limpido di accanimento. Dovuto a che cosa? Forse solo al fetido spirito dei tempi. E la Corte di Cassazione ieri ha deciso di sospendere il risarcimento e di chiedere alla Corte di Appello di Palermo di riesaminare il caso. Non si conoscono ancora i dettagli di questa sentenza. Però si sa che con i tempi della giustizia italiana, visto che Contrada ha quasi 90 anni, è probabile che non vedrà mai il risarcimento. È stato perseguitato, ingiustamente incarcerato, ridotto in miseria, e ora gli si dice: vabbè son cose che succedono. E dicendogli così si decide di trasgredire in modo clamoroso e sfacciato una sentenza della Corte Europea.

Bruno Contrada ha subito un’ingiusta detenzione ma il risarcimento slitta. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 21 gennaio 2021. La Cassazione ha rimandato alla corte d’Appello di Palermo l’ordinanza di risarcimento a Bruno Contrada per un vizio di forma. La Corte di Cassazione, Sez. IV penale, ha annullato con rinvio l’ordinanza della Corte d’Appello di Palermo che aveva riconosciuto all’ex 007 Bruno Contrada la riparazione per ingiusta detenzione, quantificandola in 667.000 euro. «Aspettiamo di leggere le motivazioni per un esame più approfondito – spiega il suo avvocato Stefano Giordano -, ma è evidente fin d’ora che la Corte di legittimità non ha dato esecuzione alla sentenza di Strasburgo, secondo cui il dottor Contrada non andava né processato, né condannato».

L’avvocato chiarisce che la Cassazione non è entrato nel merito. Ora la palla passa nuovamente alla Corte d’Appello palermitana. «Ma, comunque andrà a finire – osserva amaramente sempre l’avvocato Giordano -, è probabile che il dottor Contrada non vedrà mai un centesimo di quanto gli spetta, considerate la sua età e le sue condizioni di salute e la lunghezza dei tempi processuali». Inoltre, onde evitare facili strumentalizzazioni, il legale di Contrada sottolinea che la Suprema Corte non è entrata nel merito (né può farlo) del diritto di Contrada alla riparazione per ingiusta detenzione «ma ha probabilmente ravvisato un vizio motivazionale dell’ordinanza della corte d’Appello e pertanto ha disposto un nuovo giudizio». Ovviamente, tale sentenza non va annullare una verità giudiziaria scalfita sia dalla Corte Europea di Strasburgo, che dalla Cassazione.

Bruno Contrada non doveva essere né processato, né condannato. Quale? Bruno Contrada non doveva essere né processato, né condannato, dal momento che all’epoca dei fatti (dal 1979 al 1988) il reato di concorso esterno in associazione mafiosa (nato dal combinato disposto dell’art. 110 e 416 bis c.p.) non era sufficientemente chiaro, né prevedibile, in quanto la sentenza chiarificatrice sarebbe arrivata solo nel 1994. Dopodiché, altra questione, con ordinanza depositata il 6 aprile 2020, la Corte d’Appello di Palermo liquida a favore di Bruno Contrada la somma di 667 mila euro per ingiusta detenzione. Sì, perché ha trascorso ingiustamente 4 anni in carcere e 4 di arresti domiciliari. La conseguenza è stata disastrosa per lui e i suoi familiari. Ora però la Cassazione, per vizi motivazionali, rimanda l’ordinanza alla corte d’Appello. Due questioni diverse. Purtroppo, nella storia del nostro Paese, a fronte di migliaia di casi di ingiusta detenzione ed errori giudiziari non tutti poi vengono risarciti dallo Stato. Il caso Contrada, però, è emblematico. La condanna era avvenuta prendendo per vere le parole di alcuni pentiti. Alcuni di loro, sono proprio quelli che l’ex 007 ha fatto arrestare. Ma non basta. Contrada è diventato l’uomo perfetto per inserirlo in diversi teoremi giudiziari. L’ultima, è che avrebbe incontrato i boss Madonia. Peccato che sia stato proprio Contrada, interpellato irritualmente dall’allora procura di Caltanissetta, ad indicare i Madonia come esecutori della strage. Ci fu poi il depistaggio. Una volta smascherato, si scoprì che tra gli esecutori c’era proprio uno di loro.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 6 gennaio 2021. Una puntata così non può restare senza conseguenze. O le ricostruzioni fatte da Paolo Mondani e Giorgio Mottola sono vere, e allora la magistratura dovrà intervenire al più presto (principio dell'obbligatorietà dell'azione penale), oppure è necessario un ripensamento su questo tipo di inchieste, soprattutto da parte del servizio pubblico. Immagino, invece che non succederà nulla, as usual. «Report» di Sigfrido Ranucci ha dedicato una puntata speciale alla trattativa Stato-mafia, alle stragi del 1992 e quelle del 1993 per cui sono indagati dalla Procura di Firenze anche Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri (Rai3). Mondani e Mottola hanno tracciato una mappa per descrivere le «deviazioni» dello Stato nella stagione stragista e ciò che successivamente è emerso nelle inchieste sulla cosiddetta «trattativa» fra pezzi dello stesso Stato e la mafia. Hanno mosso pesanti accuse: un filo nero collegherebbe l'attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 alle bombe di Capaci e via D'Amelio in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Mafia, massoneria, P2 (con gli iscritti famosi?), terroristi di destra e servizi segreti deviati hanno contribuito per anni ad organizzare e ad alimentare una strategia stragista che puntava alla destabilizzazione della democrazia nel Paese. È un argomento spinoso e difficile, anche perché ci sono delle sentenze (non ultima quella che riguarda l'assoluzione di Calogero Mannino) che disegnano un quadro differente da quello raffigurato da «Report» e che escludono il famigerato patto fra lo Stato e la mafia. Si può dar credito a Salvatore Baiardo, che ha favorito la latitanza dei fratelli Graviano che, dopo pochi anni di carcere, è libero? Si può dare così poco spazio a Mannino? I collaboratori di giustizia sono una fonte sicura di verità? Per sconfiggere il male è giusto trattare o fare del moralismo? Sono domande che aspettano una risposta.

Gli attacchi del Fatto al giudice della trattativa. Marco Travaglio chieda a Pippo Ciuro chi è il giudice Alfonso Giordano…Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Gennaio 2021. Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano se la prende con l’ex giudice Alfonso Giordano il quale, in una intervista al Riformista, ha espresso tutto il suo scetticismo sull’ipotesi che ci sia stata nei primi anni Novanta una trattativa Stato-Mafia, e ha citato Giovanni Falcone a sostegno della propria idea. Travaglio si chiede come possa, Falcone, aver smentito una trattativa che iniziò solo dopo la sua morte. A parte il fatto che le date di questa trattativa ballano un po’ troppo, anche perché la tesi di fondo è che Borsellino sia stato ucciso perché aveva scoperto la trattativa (che quindi, se iniziò dopo la morte di Falcone, fu una trattativa lampo…) il punto è un altro: Giordano non sostiene che Falcone negò la trattativa, semplicemente che indagò (lui indagava davvero: non lavorava sulle congetture) e affermò che non esisteva il terzo livello della mafia (cioè la politica) e considerò del tutto inattendibili i testimoni intervistati da Report nella recente trasmissione molto pasticciata della settimana scorsa. Voi sapete che vagliare bene la credibilità dei pentiti è fondamentale nelle indagini antimafia. Sennò si rischia di fare un tonfo (come lo fece Di Matteo, uno dei Pm chiave nelle indagini su Stato-Mafia, che credette al pentito fasullo Scarantino e mandò a monte le indagini sull’uccisione di Paolo Borsellino). Ma perché Travaglio se la prende con Alfonso Giordano? Immagina che sia uno poco preparato? Giordano, insieme a Peppino Di Lello e Giuseppe Ayala, è l’unico sopravvissuto di quel drappello di magistrati che sventrano Cosa Nostra tra gli anni 80 e 90, e poi furono lasciati soli, accusati di “cedimentismo” dai professionisti dell’antimafia di allora. Giordano è stato il presidente della Corte che realizzò il famoso maxiprocesso alla mafia. Magari Travaglio non lo sapeva. È giovane. È giustificato. Però potrebbe chiedere informazioni a Giuseppe Ciuro, il poliziotto con il quale andava in vacanza nei primi anno del 2000, e che poi fu condannato a 4 anni e mezzo per aver passato ad alcuni imputati per mafia i segreti della Dda della quale faceva parte. Chieda a Ciuro chi è Giordano: vedrà che lui lo sa.

Trattativa Stato mafia, i familiari vittime di mafia: trasmettere gli atti a Caltanissetta. Il Dubbio l'11 febbraio 2021. Si chiede come mai avendo collegato la trattativa Stato-mafia alla strage di Via D’Amelio gli atti non siano stati trasmessi già a suo tempo a Caltanissetta. «Quanto è emerso nel corso del processo per la cd “Trattativa Stato-mafia”, riguardo le dichiarazioni rese al Csm il 30 luglio del ‘92 da Maria Falcone, sorella del giudice Giovanni Falcone, in merito a quanto le avrebbe detto Paolo Borsellino dopo la morte del fratello, pone interrogativi in merito alla competenza – o quantomeno all’opportunità – che sia la Procura di Palermo a gestire processualmente la vicenda che riguarda i verbali delle audizioni dei magistrati dell’allora Procura». Ad affermarlo è Giuseppe Ciminnisi, coordinatore nazionale dei familiari delle vittime di mafia dell’Associazione “I Cittadini contro le mafie e la corruzione”.

Quei verbali acquisiti erano già stati depositati. «Si tratta di verbali di recente acquisiti dal procuratore generale Roberto Scarpinato, dopo che alcuni di questi verbali erano stati già depositati dagli avvocati Basilio Milio e Francesco Romito, difensori legali degli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno», c’è Anna Falcone, in particolare  che «ha reso dichiarazioni in merito a quanto appreso dal fratello Giovanni prima che questi venisse ucciso, relativamente ai problemi che il giudice aveva con l’allora Procuratore Giammanco, tanto da essere costretto a lasciare la Procura». Prosegue sempre Ciminnisi: « In particolare  al Csm narrò un episodio raccontatole dal fratello lo stesso giorno che aveva lasciato la Procura di Palermo, dopo una scenata rivolta a Giammanco dinanzi  a tutti i Sostituti. Di questo episodio ne aveva narrato a Paolo Borsellino, il quale aveva suggerito a lei e alla sorella di avere calma e aspettare il momento opportuno per parlarne, poiché era molto vicino a scoprire delle cose tremende».

Quali erano le “cose tremende” che stava per scoprire Borsellino? Le “cose tremende” che stava per scoprire Borsellino, erano relative ad aspetti che riguardavano l’allora Procura di Palermo? «Considerata questa ipotesi – che appare tutt’altro che peregrina – e considerata la possibilità che magistrati dell’allora Procura possano essere sentiti come testi, mi trovo a chiedere se non si ritenga opportuno, se non doveroso, trasferire gli atti a Caltanissetta in quanto sede competente per indagini che possono riguardare i magistrati di Palermo.Peraltro, in considerazione del fatto che la cd “Trattativa Stato-mafia”, a parere dei magistrati di Palermo che se ne occupano, avrebbe accelerato l’uccisione del giudice Borsellino, mi chiedo anche come mai avendola collegata in qualche modo alla strage di Via D’Amelio gli atti non siano stati trasmessi già a suo tempo a Caltanissetta, sede deputata a condurre le indagini» Conclude il presidente dell’associazione delle vittime di mafia Giuseppe Ciminnisi: «Una scelta oggi più che mai necessaria a seguito delle motivazioni della sentenza di secondo grado del Borsellino Quater, che induce ad approfondire quali furono le cause che portarono alla strage di Via D’Amelio, individuando nell’indagine mafia-appalti una delle importanti concause che indussero “cosa nostra” ad accelerare i tempi dell’uccisione di Borsellino, forse troppo vicino a scoprire delle “cose tremende” ».

·        Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il dossier mafia-appalti.

Adesso è chiaro: Borsellino è morto per “mafia-appalti”. Con la clamorosa sconfessione del teorema Stato-mafia, cade anche la tesi del nesso fra presunta Trattativa e via D'Amelio. Sarebbe ora di scavare in un'altra direzione.  Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 23 settembre 2021. «Alla luce della sentenza della Corte di assise di appello riteniamo avvalorata la nostra tesi di una causale dell’accelerazione legata alla particolare attenzione mostrata da Paolo Borsellino verso il dossier “mafia e appalti”. Dovremo leggere le motivazioni, ma troppe anomalie sono state scoperte in questi anni circa il clima terribile creato in Procura attorno al procuratore Borsellino. Non sappiamo se sarà possibile visto il tempo trascorso, ma noi non smetteremo mai di cercare di capire le ragioni del perché il procuratore Borsellino ebbe a definire il suo ufficio un nido di vipere». Sono le parole che l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, raggiunto dal Dubbio, ha voluto gentilmente rilasciare subito dopo la notizia della sentenza di secondo grado sulla “trattativa”. Parole che in realtà trovano riscontro nella pronuncia d’appello del Borsellino quater.

Borsellino quater, le motivazioni della sentenza d’appello

Quelle motivazioni lo dicevano chiaro e tondo: Paolo Borsellino non fu ucciso per la presunta trattativa Stato-mafia, che ora viene sconfessata dalla sentenza d’appello, ma dalla mafia «per vendetta e cautela preventiva». La vendetta è relativa all’esito del maxiprocesso, mentre la “cautela preventiva” è relativa alle sue indagini, in particolare quelle su “mafia e appalti”. Quest’ultima ipotesi, come ha scritto la Corte d’assise di appello di Caltanissetta nelle motivazioni del “Borsellino quater”, «doveva, peraltro, essere anche collegata alla circostanza riferita dal collaboratore Antonino Giuffrè sui “sondaggi” con “personaggi importanti” effettuati da Cosa Nostra prima di decidere sull’eliminazione dei giudici Falcone e Borsellino oltre che sui sospetti per i quali lo stesso Borsellino, il giorno prima dell’attentato, aveva confidato alla moglie “che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo , ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò accadesse”». Sempre nella sentenza nissena viene citato il fatto che l’arrivo di Borsellino nel nuovo ufficio della Procura di Palermo «era stato percepito con preoccupazione da Cosa Nostra, al punto che Pino Lipari (vicino ai vertici dell’organizzazione mafiosa) aveva commentato il fatto dicendo che avrebbe creato delle difficoltà a “quel santo cristiano di Giammanco”».

Mafia-appalti e il legame con la strage di via D’Amelio

La Corte d’assise di appello di Caltanissetta si è molto soffermata sull’indagine “mafia e appalti” come concausa della strage di via D’Amelio. Lo rimarca osservando che Borsellino aveva mostrato particolare attenzione alle «inchieste riguardanti il coinvolgimento di “Cosa Nostra” nel settore degli appalti pubblici, avendo intuito l’interesse strategico che tale settore rivestiva per l’organizzazione criminale». Viene riportato ciò che il collaboratore Giuffrè aveva riferito, in sede di incidente probatorio, all’udienza del 5 giugno 2012. Ovvero che le ragioni dell’anticipata uccisione del giudice Borsellino erano «anche da ricondurre al timore di Cosa Nostra che quest’ultimo potesse divenire il nuovo capo della Direzione Nazionale Antimafia nonché al timore delle indagini che il medesimo magistrato avrebbe potuto compiere in materia di mafia e appalti, con specifico riferimento al rapporto presentato dal Ros dei Carabinieri alla Procura di Palermo, su input del giudice Giovanni Falcone, nel quale erano stati evidenziati appunto i rapporti fra Cosa nostra, politica e imprese aggiudicatarie.

Con particolare riferimento alle interferenze dei boss in un rapporto triangolare fondato sulla condivisione di illecite cointeressenze economiche che coinvolgeva, mettendoli ad un medesimo tavolo, il mondo imprenditoriale, politico e quello mafioso». Troppi anni si sono persi alla ricerca di entità e terzi livelli, mentre la verità è sotto gli occhi di tutti. Il Dubbio è riuscito a trovare nuovi documenti.

I verbali del Csm

Dai verbali del Csm in cui sono riportate le testimonianze dei magistrati nel 1992, al documento da cui si evince come Falcone e Borsellino ritenessero che l’omicidio di Salvo Lima e del carabiniere Guazzelli fosse legato al fatto che si erano rifiutati di intervenire per insabbiare il procedimento “mafia-appalti”. Ciò significherebbe che la stagione stragista si sarebbe avviata proprio per la questione dell’indagine sugli appalti. Sarebbe ora che la Procura di Caltanissetta prenda spunto dalla sentenza del Borsellino quater stesso. Magari acquisendo i documenti nuovi portati avanti dalla difesa degli ex Ros. Paolo Borsellino cosa avrebbe voluto denunciare alla Procura nissena? Gli indizi li la lasciati lui stesso, dai convegni pubblici alle chiacchierate con persone ancora viventi. Magari si potrebbe iniziare da quella Procura che Borsellino definì «di vipere».

Inchieste. TRATTATIVA STATO-MAFIA. OTTIMA E ABBONDANTE PER INSABBIARE LA “PISTA APPALTI”. Andrea Cinquegrani La Voce delle Voci il 24 Settembre 2021. Nella bolgia di colossali stupidaggini dette e scritte dopo la sentenza d’appello che assesta un colpo mortale al teorema della Trattativa Stato-Mafia, ribaltando il verdetto di primo grado, le uniche parole lucide e assennate sono quelle di Fiammetta Borsellino, la figlia di Paolo, trucidato con la sua scorta nella strage di via D’Amelio. Sono concetti che Fiammetta ha già più volte espresso, voce letteralmente solitaria. E per questo ancor più validi oggi. Ecco i passaggi salienti dell’intervista rilasciata all’ADN Kronos. 

IL FUOCO DI FIAMMETTA 

“Io non li ho mai assolti gli ufficiali dei Carabinieri (Mario Mori e Giuseppe De Donno, ndr), ma ho sempre avuto molti dubbi, dubbi che oggi sono stati confermati dalla giustizia con la sentenza di appello. E poi ho ritenuto scorretto pompare mediaticamente un processo da parte di chi è titolare, prima ancora che questo processo avesse concluso le fasi di giudizio, un comportamento scorretto che mio padre non avrebbe mai approvato. Si è assistito a un lancio mediatico del processo sulla trattativa fin dal suo inizio, quando veniva addirittura pubblicizzato con i libri. Quando non era concluso neppure il primo grado. Altro punto di critica enorme, insieme agli altri”. “Ripeto, purtroppo io i miei dubbi su questa operazione li avevo espressi fin dall’inizio. La grande amarezza è che queste energie investigative dedicate al processo trattativa potevano essere indirizzate verso delle piste che, secondo me, volutamente non si sono percorse. Ancora una volta, siamo di fronte al fatto che si sono seguite piste inesistenti, quando da sempre abbiamo ribadito che bisognava approfondire quel clima che mio padre viveva dentro la procura di Palermo”. E sottolinea, Fiammetta: “Si doveva approfondire il filone dei dubbi e del senso di tradimento che mio padre manifestò parlando a mia madre dei colleghi, il perché non si è voluto indagare sul Procuratore Pietro Giammanco. Secondo noi erano queste le piste su cui si doveva indagare, non altre…”. Eccoci al punto centrale del suo j’accuse: “Per noi l’accelerazione della morte di nostro padre è stata data dal dossier Mafia-Appalti, ma non lo dice la mia famiglia, lo dice il processo Borsellino ter che l’elemento acceleratore è stato il dossier mafia e appalti che è stato archiviato il 15 luglio, cioè pochi giorni prima della strage. Nonostante mio padre il 14 luglio avesse chiesto conto e ragione del perché a quel dossier non venisse dato ampio respiro. Un dossier dei generali Mori e De Donno. Per questo non mi ha mai convinto questa tesi. E i dubbi li ho sempre espressi. Bisogna farsele delle domande. Ho sempre avuto tanti dubbi”. Parole chiare. Che pesano come macigni. 

QUELL’ESPLOSIVO DOSSIER MAFIA-APPALTI

Parole molto simili sono state scritte, oltre vent’anni fa, da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato, in un forte e documentato j’accuse che la Voce ha tante volte ricordato. Si tratta del libro ‘Corruzione ad Alta Velocità’, uscito nel 1998, che non solo ripercorre le tappe di uno dei più colossali scandali della nostra storia, ma apre uno squarcio sui veri motivi alla base della strage di via D’Amelio: proprio quel dossier Mafia-Appalti   elaborato dal ROS dei carabinieri e finito sulla scrivania di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a febbraio 1991, quindi un anno e mezzo prima delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Un dossier-bomba, perché conteneva già all’epoca tutti gli elementi di una super Tangentopoli ante litteram, anzi la vera Tangentopoli e non quella partorita in seguito dalla procura di Milano, orchestrata da un Antonio Di Pietro eterodiretto dalla CIA, come dimostrano i frequenti incontri tra il pm e il console americano a Milano prima dello scoppio di Mani Pulite (incontri rammentati in un’inchiesta di Molinari, allora redattore de la Stampa, e ora direttore di Repubblica). Ma cosa conteneva di tanto esplosivo quel dossier? Veniva ricostruita, in modo minuzioso, la fitta ragnatela di rapporti e connection tra le grandi imprese del nord e quello mafiose del Sud, in particolare siciliane ma non solo. Venivano fatti dei nomi precisi, indicate delle società di grosso calibro, ricostruiti i rapporti d’affari, indicati i prestanome. Ecco subito due esempi, tanto per scendere in qualche dettaglio. Si parlava della "Calcestruzzi", uno dei gioielli di casa Ferruzzi: e venivano fatti i nomi degli uomini di riferimento in Sicilia, ovviamente appartenenti ai clan più in vista. Quando Falcone lesse il nome della Calcestruzzi nel dossier del Ros, ebbe la conferma di sospetti che già nutriva da tempo. Fin dal 1989, quando, riferendosi proprio al gruppo Ferruzzi, disse: “La Mafia è entrata in Borsa!”. Eccoci ad un altro caso. La napoletana ‘Icla-Fondedile’, uno dei pezzi da novanta non solo nel ricco dopo terremoto e nelle opere per la ricostruzione, ma su tutto il vasto fronte dei lavori pubblici, a cominciare dall’Alta Velocità. Nella relazione di minoranza alla Commissione Antimafia del 1996, firmata proprio da Ferdinando Imposimato, vengono dettagliati i rapporti di Icla-Fondedile con i clan della camorra. Il dossier del Ros corroborava quindi quelle piste investigative già aperte e però battute con scarsa convinzione dagli inquirenti. I quali, ad esempio, erano già stati allertati dalla corposa documentazione raccolta dalla ‘Commissione Scalfaro’ sugli affari del post sisma, dove l’Icla, impresa molto cara a ‘O Ministro Paolo Cirino Pomicino, la faceva da padrona. 

A TUTTA ALTA VELOCITA’

Il maxi business Alta Velocità, del resto, è uno dei punti focali del dossier coordinato da Mario Mori e finito sulla scrivania di Falcone e Borsellino. I quali, di tutta evidenza, proprio sul filone TAV si sono rimboccati le maniche nell’ultimo infuocato anno e mezzo di indagini portate avanti prima di essere trucidati. Motivo ottimo e abbondante, avrebbe detto un pm, per il tritolo di quelle due stragi: leggere e decodificare ‘in tempo reale’ il maxi business dell’  Alta velocità che ha ingrassato intere classi politiche, cosche mafiose, imprese di riferimento, faccendieri e lacchè d’ogni risma, infatti, avrebbe rappresentato il colpo investigativo del secolo. Altro che Trattativa! Ma quell’inchiesta non si doveva fare. E i due magistrati coraggio dovevano morire. Ovvio lo sdegno di Fiammetta Borsellino, che ricorda tutto l’impegno del padre perché la pista Mafia-Appalti venisse battuta, mai persa di vista. Quando invece i ‘colleghi’ di Paolo tramavano nell’ombra, ma non poi tanto. E tanto da avere la sfrontatezza di archiviare il tutto in fretta e furia, appena sepolto il cadavere di Borsellino. Vergogna! Sorge spontanea la domanda: perché nessuno ha mai aperto un’inchiesta sui motivi che condussero a quella rapida e immotivata archiviazione? C’è solo da augurarsi che adesso, anche alla luce dell’archiviazione della falsa pista-trattativa, possa essere ripreso quel filo interrotto, quella pista investigativa basilare fondata, appunto, sul rapporto del Ros. E ora, a questo punto, perché non mettere sotto inchiesta quei magistrati che hanno archiviato quella pista, calpestando la memoria e il corpo, ancora caldo, di Paolo? 

LE NON INCHIESTE GRIFFATE DI PIETRO

Ma sapete quale inquirente avrebbe potuto, già in quegli anni bollenti, tirare il bandolo della matassa e individuare i pupari del maxi affare dell’Alta Velocità, il cuore, come detto, del rapporto Mafia-Appalti? Il pm senza macchia e senza paura, al secolo Antonio Di Pietro, il protagonista della Mani pulite meneghina, solito frequentare all’epoca, come abbiamo visto, il consolato americano all’ombra della Madunina. Don Tonino, infatti, prima di abbandonare la toga è stato protagonista di due fondamentali inchieste. Partiamo dalla prima, di cui scrivono a lungo Imposimato e Provvisionato nel loro libro bomba. E siamo al filone investigativo sulla TAV avviato proprio alla procura di Milano e condotto in prima battuta dal procuratore capo, Francesco Saverio Borrelli, il quale pensa bene di affidare il delicato fascicolo al fidatissimo Di Pietro. Il quale mette subito a segno un colpo da maestro: riesce infatti ad ottenere rapidamente l’avocazione del filone d’inchiesta partito alla procura di Roma e riguardante soprattutto i profili amministrativi dell’affaire, mentre Milano doveva vedersela con gli imprenditori coinvolti. Detto fatto, quindi, Tonino il prestigiatore ha in mano la ponderosa inchiesta nella sua globalità. E – magia della sorte – può contare su un   inquisito eccellente che tutto sa su tutto: non solo sulla madre di tutte le tangenti, Enimont, ma anche sui misteri dell’Alta Velocità. E’ ‘l’Uomo a un passo da Dio’, come subito lo etichetta, in modo efficacissimo, il suo inquirente, ossia Di Pietro. Si tratta di Pierfrancesco Pacini Battaglia, soprannominato Chicchi, simpatie per il garofano martellian-craxiano, interessi soprattutto in Svizzera, dove possiede addirittura una banca privata. Nella sua lunga   carriera, il toscanaccio Chicchi ha anche avuto modo di occuparsi dei fondali di Ustica dopo la tragedia dell’Itavia, dando vita ad una società di rilevamenti marittimi in compagnia dell’allora re dei trasporti (acquisì dal crac la mitica ‘Flotta Lauro’) il mattonaro partenopeo Eugenio Buontempo, a lungo imprenditore di riferimento della ‘sinistra ferroviaria’ capitanata da Claudio Signorile. Ma torniamo a bomba, ovvero all’inchiesta milanese sull’Alta Velocità. Sapete mai a chi si affida, come legale, il potentissimo Pacini Battaglia, che avrebbe potuto tranquillamente scegliere un principe del foro meneghino? Ad un signor nessuno, un avvocaticchio di provincia, appena arrivato dal Sud con la valigia legata con lo spago, o quasi. Si tratta di Giuseppe Lucibello: il quale, però, sulla piazza meneghina può contare su un’amicizia da novanta, quella – nientemeno – che con don Tonino Di Pietro. Il cerchio è presto chiuso. Il rituale pugno di ferro mostrato dal pm con tutti i suoi inquisiti, improvvisamente, si scioglie come neve al sole: tanto che l’imputato numero uno, l’Uomo a un passo da Dio, non trascorre neanche una notte in gattabuia, ma torna libero come un fringuello, pur senza raccontare neanche un centesimo di quel che sa! Ai confini della realtà. Si confiderà poi per telefono: “Sono stato sbancato”, con evidente riferimento al salasso economico che il poveretto avrà dovuto fronteggiare. Ma il tutto si scolorirà presto in un “sono stato sbiancato”, assai poco comprensibile, ma ‘ottimo e abbondante’ per don Tonino, il quale viene assolto dal tribunale di Brescia per i suoi comportamenti ritenuti non deontologici, non professionali, non morali, quindi ampiamente censurabili sotto tutti i profili nel corso delle sue inchieste: ma non penalmente rilevanti! 

DA GARDINI A LI PERA

Eccoci al secondo episodio clou. La gestione dipietresca di un altro inquisito eccellente, Raul Gardini, il gran capo di casa Ferruzzi. Siamo ad un altro pezzo da novanta che sa tutto su Mafia-Appalti, perché la sua Calcestruzzi è pesantemente coinvolta nella connection, come già raccontato. Ma cosa succede? L’indagato Gardini ha un appuntamento in procura con il suo grande accusatore, al quale avrebbe promesso di raccontare tutto, di ‘vuotare il sacco’. Di Pietro lo aspetta in procura, si sono dati appuntamento. Non ci arriverà mai, Gardini, a palazzo di giustizia, perché si spara un colpo alla testa. La fa finita. Come era successo, in carcere, per l’allora numero uno dell’Eni, Gabriele Cagliari, finito con un sacchetto di plastica intorno alla testa. E c’è un terzo buco nero nella story. L’interrogatorio che si svolge nel carcere di Rebibbia, a Roma, tra l’intemerato pm e una super gola profonda sempre sul fronte Mafia-Appalti. Ossia l’uomo che ha fornito agli inquirenti siciliani una mole di elementi molto utili per ricostruire quelle esplosive connection: si chiama Giuseppe Li Pera, professione geometra, per anni al servizio della ‘Rizzani De Eccher’, un’impresa trentina di costruzioni il cui nome – guarda caso – fa capolino nel dossier del Ros. Come mai Di Pietro corre a Roma per interrogarlo? E come mai cava poco o niente da quella verbalizzazione? Eppure, Li Pera è un altro uomo che ‘sa tutto’ sui rapporti Politica-Mafia-Imprese. E sa molto sulle stragi, in particolare quella di Capaci. Altri interrogativi d’obbligo. Come mai nessuno ha voluto capirci qualcosa in quel clamoroso insabbiamento della pista Tav-Pacini Battaglia? Perché, soprattutto, non è mai nata una vera inchiesta sulle ‘non inchieste’ firmate Di Pietro?        

Mafia: Mori, "scoprimmo per primi rapporti boss e appalti, ma a Borsellino fu vietato occuparsene".  27 Settembre 2021. News Adnkronos il 27 settembre 2021. “La mafia viene colpita non tanto con la cattura dei latitanti, ma soprattutto nel sostentamento economico e che non si otteneva tanto con il pizzo quanto con il condizionamento degli appalti. Io presi un ufficiale brillante, il capitano Giuseppe De Donno e lo misi a fare ricerche solo sugli appalti. Ne parlai con Giovanni Falcone che rimase un po’ perplesso, non riusciva a capire come. Per Falcone De Donno era come un figlio, lo chiamava ‘Peppe’ e progressivamente si individuò il rappresentante di Cosa nostra delegato a trattare gli appalti, questa fu la prima scoperta”. Sono le parole del generale Mario Mori intervistato da ‘Quarta Repubblica’. “La seconda scoperta fu devastante – aggiunge Mori – nelle indagini sugli appalti si pensava che le vittime fossero i politici e gli imprenditori, invece concorrevano nel reato con i mafiosi. Questa era la verità che noi scoprimmo”. Poi Falcone fu trasferito a Roma, nel 1991, e mi disse: “consegnami il rapporto su mafia e appalti, io feci resistenza e gli dissi che non era completo. E lui lo volle entro l’indomani e mi disse ‘E’ meglio che lo riceva io, perché sai quanti guai avrete con questo rapporto…”. “E poi lo portò a Giammanco che era il capo della Procura di Palermo”, aggiunge. “Io mi resi conto in pochi giorni che non se ne parlava più di questo rapporto, mi arrabbiai molto e rappresentai la situazione, ma senza risultati, finché a luglio del 1991 la Procura emise degli arresti tra cui Angelo Siino e degli imprenditori. I legali chiesero gli atti relativi. Invece fu preso tutto il malloppo e fu dato a tutti e cinque gli avvocati, dopo mezz’ora la mafia sapeva tutto, fin dove potevamo arrivare. Lì ci fu un po’ di tensione”. “All’epoca pensai che sbagliarono tecnicamente – aggiunge Mori – invece dopo sono successi altri fatti. All’inizio del 1992 Paolo Borsellino lascia Marsala e torna a Palermo. Giammanco non gli delega le inchieste su Palermo ma di altre province, quindi non può interessarsi formalmente a mafia e appalti. Mentre era a Marsala chiese a noi copia del dossier mafia e appalti”, dice ancora Mario Mori. “Il 25 giugno del 1992 Borsellino mi telefona per chiederci di vederci riservatamente dai carabinieri, non in Procura, Intanto non voleva farlo sapere e formalmente non poteva interessarsene”, dice. “Subito dopo la morte di Falcone, la procura spezzetta l’indagine e divide l’inchiesta in vari tribunali sparsi per la Sicilia – prosegue Mori – Se la spezzetti la distruggi”. “Il 4 luglio ci fu una riunione e Borsellino disse che i carabinieri erano delusi, ma nessuno gli disse che questa indagine era stata spezzettata”.

Mafia: Mori, 'dossier appalti concausa uccisione Borsellino'. Adnkronos il 27 settembre 2021. "Io ritengo che il dossier mafia e appalti fu una concausa dell'uccisione di Paolo Borsellino". Ne è convinto il generale Mario Mori che lo ha detto intervistato da 'Quarta Repubblica' in onda stasera. "Ma non è finita qui", aggiunge Mori. "Quella era l'inizio dell'indagine - aggiunge - c'era un gruppo di potere fatto da imprenditori, politici e mafiosi che decidevano gli appalti e si spartivano i proventi". "Quando andammo a Napoli - dice- facemmo la stesa cosa di Palermo con il procuratore Cordova, con una variante: ci abbiamo messo un uomo che doveva prendere contatti con i camorristi. Abbiamo preso un ufficiale del Ros che come rappresentante delle imprese che realizzava l'alta velocità Roma-Napoli si inserì in questo mondo e dopo un po' venne contattato da imprenditori vicini alla Camorra, dal clan dei Casalesi che voleva il 3 per cento degli importi totali". E poi dice: "Il Nucleo investigativo dei Carabinieri fu una mia creazione".

Fu la mafia degli appalti a volere l’omicidio di Borsellino. Le parole del giudice Alberto Di Pisa. Nicola Salvetti su destra.it il 27 Settembre 2021. La sentenza del processo sulla trattativa tra Stato e mafia continua ad alimentare dibattiti e interpretazioni. In un’intervista rilasciata alla giornalista dell’agenzia di stampa AdnKronos, Elvira Terranova, l’ex procuratore capo di Marsala Alberto Di Pisa ricostruisce alcuni importanti  passaggi storici. “Ricordo che il giorno in cui fu esposta la bara di Giovanni Falcone nell’atrio del Palazzo di giustizia di Palermo, chiesi a Paolo Borsellino se secondo lui la strage di Capaci avesse una finalità destabilizzante. E lui mi guardò negli occhi e mi rispose: ‘No, non è così. Anzi. Direi che l’intento è quello di avere un effetto ‘stabilizzante’. E aggiunse: ‘Ora intendo riprendere al più presto in mano l’indagine su mafia e appalti”. Di Pisa è stato per molti anni al fianco di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Fu anche uno dei giudici che istruirono il primo maxiprocesso a Cosa nostra. In passato si è occupato di inchieste come l’omicidio del sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, ma anche del processo a Vito Ciancimino. Un effetto “stabilizzante” perché? “Perché mirava a mantenere il sistema di potere di quel momento”, dice il magistrato. “Io ho sempre pensato che la trattativa Stato-mafia non c’entri niente con la strage di Via D’Amelio – afferma -. Come tutti i delitti eccellenti. Dietro un omicidio ci sono quasi sempre gli appalti, quello è l’interesse economico di Cosa nostra”. E ricorda: “Poco prima di essere ucciso, Paolo Borsellino, ebbe una riunione con i carabinieri del Ros, con Mori e Subranni, proprio sul problema degli appalti, un tema che intendeva riprendere e che riteneva fondamentale per la lotta alla mafia, mentre la Procura lo aveva trascurato”. L’indagine su mafia e appalti fu archiviato il giorno prima di ferragosto del 1992, cioè nemmeno un mese dopo la strage di via D’Amelio, dopo la richiesta avanzata, pochi giorni dopo la morte di Borsellino, il 22 luglio 1992, dall’allora pm Guido Lo Forte, con l’avallo dell’allora procuratore Pietro Giammanco. “Certo, un’archiviazione che arrivò poco dopo la strage – dice oggi Di Pisa -. Il fatto temporale dà da pensare…”. E poi ricorda anche la telefonata arrivata la mattina, quasi all’alba, del 19 luglio 1992, il giorno della strage di via D’Amelio al giudice Borsellino da parte del Procuratore Giammanco: “Gli disse che gli avrebbe affidato le indagini su Palermo, sulla mafia di Palermo e quindi, probabilmente, anche il dossier mafia e appalti. Certo, una telefonata arrivata alle sette di mattino, nel giorno della strage fa riflettere. Come se non potesse più aspettare fino all’indomani…”. Quello stesso giorno Paolo Borsellino aveva cercato Alberto Di Pisa, in una casa al mare da parenti, a Marina Longa. “Voleva parlarmi con urgenza, ma purtroppo non c’ero”. Di Pisa ha sempre criticato il processo sulla trattativa Stato-Mafia, e sulla sentenza di appello, che ha ribaltato il verdetto di primo grado, assolvendo tutti gli ufficiali dei carabinieri e Marcello Dell’Utri, dice: “Ho sempre detto che era un fatto mediatico, un teorema politico e mediatico. Dal punto di vista giuridico, questo processo non stava in piedi. Ora bisogna aspettare le motivazioni. Perché ‘il fatto non costituisce reato’ può voler dire due cose: o che l trattativa c’è stata ma non costituisce reato, oppure che c’è stata ma manca l’elemento psicologico del reato, il dolo. Bisogna vedere cosa intendono fare i giudici”. E aggiunge: “D’altra parte anche il caso Moro, il governo trattò con le Brigate rosse ma nessuno aprì un procedimento. Un fatto che è sempre avvenuto, cioè che lo Stato tratta con i criminali per salvare delle vite umane”. (Fonte AdnKronos)

Il generale Mori: “Borsellino voleva occuparsi del dossier mafia appalti. Fu ucciso anche per questo”. Giovanni Pasero lunedì 27 Settembre 2021 su Il Secolo d'Italia. «Rifarei tutto, la soddisfazione e la gioia di avere incontrato personaggi unici come Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, Cossiga, non ha eguali». Così il generale Mario Mori, intervistato da Quarta Repubblica, assolto nel processo Stato-Mafia, dopo un calvario giudiziario durato 14 anni. Intervistato da Nicola Porro, il generale Mori si è detto convinto che la morte di Borsellino ha avuto una origine precisa. «Io ritengo che il dossier mafia e appalti fu una concausa dell’uccisione di Paolo Borsellino».  «Ma non è finita qu»”, aggiunge Mori. «Quella era l’inizio dell’indagine – aggiunge – c’era un gruppo di potere fatto da imprenditori, politici e mafiosi che decidevano gli appalti e si spartivano i proventi». «La mafia viene colpita non tanto con la cattura dei latitanti. Ma soprattutto nel sostentamento economico e che non si otteneva tanto con il pizzo quanto con il condizionamento degli appalti. Io presi un ufficiale brillante, il capitano Giuseppe De Donno e lo misi a fare ricerche solo sugli appalti. Ne parlai con Giovanni Falcone che rimase un po’ perplesso, non riusciva a capire come. Per Falcone De Donno era come un figlio, lo chiamava ‘Peppe‘ e progressivamente si individuò il rappresentante di Cosa nostra delegato a trattare gli appalti, questa fu la prima scoperta». “La seconda scoperta fu devastante – aggiunge Mori – nelle indagini sugli appalti si pensava che le vittime fossero i politici e gli imprenditori, invece concorrevano nel reato con i mafiosi. Questa era la verità che noi scoprimmo”. Poi Falcone fu trasferito a Roma, nel 1991, e mi disse: “Consegnami il rapporto su mafia e appalti, io feci resistenza e gli dissi che non era completo. E lui lo volle entro l’indomani e mi disse: “È meglio che lo riceva io, perché sai quanti guai avrete con questo rapporto…”. “E poi lo portò a Giammanco che era il capo della Procura di Palermo”, aggiunge. “Io mi resi conto in pochi giorni che non se ne parlava più di questo rapporto, mi arrabbiai molto e rappresentai la situazione, ma senza risultati, finché a luglio del 1991 la Procura emise degli arresti tra cui Angelo Siino e degli imprenditori. I legali chiesero gli atti relativi. Invece fu preso tutto il malloppo e fu dato a tutti e cinque gli avvocati. Dopo mezz’ora la mafia sapeva tutto, fin dove potevamo arrivare. Lì ci fu un po’ di tensione”. «All’epoca pensai che sbagliarono tecnicamente – aggiunge Mori – invece dopo sono successi altri fatti. All’inizio del 1992 Paolo Borsellino lascia Marsala e torna a Palermo. Giammanco non gli delega le inchieste su Palermo ma di altre province, quindi non può interessarsi formalmente a mafia e appalti. Mentre era a Marsala chiese a noi copia del dossier mafia e appalti, dice ancora Mario Mori. «Il 25 giugno del 1992 Borsellino mi telefona per chiederci di vederci riservatamente dai carabinieri, non in Procura. Intanto non voleva farlo sapere e formalmente non poteva interessarsene», dice. «Subito dopo la morte di Falcone, la procura spezzetta l’indagine e divide l’inchiesta in vari tribunali sparsi per la Sicilia – prosegue Mori – Se la spezzetti la distruggi». «Il 4 luglio ci fu una riunione e Borsellino disse che i carabinieri erano delusi, ma nessuno gli disse che questa indagine era stata spezzettata». 

“Sciascia, nient’altro che la verità”. Il forum de l’Arsenale delle idee. Manuela Lamberti il 10 Febbraio 2021 su destra.it. Il forum de l’Arsenale delle idee di venerdì 12 febbraio alle ore 18,30  presenta un libro che affronta con  sguardo acuto e disincantato uno scrittore e personaggio del Novecento che, come pochi, ha descritto le caratteristiche di un mondo fatto di uomini che “non contraddicevano e non si contraddicevano”  e che ha raccontato  la sua Sicilia e l’ Italia, contraddicendo. Andando contro. Il libro di Pierfranco Bruni e Mauro Mazza, non è solo un tributo alla grandezza dello scrittore, ma anche un’ indagine disincantata sulle luci e le ombre del percorso di un intellettuale che ha difeso Sofri, che si pose contro le posizioni sulla mafia di Falcone e Borsellino, ma che comunque denunciò in modo coraggioso e lucido i mali della giustizia italiana. Una ricognizione a tutto tondo che affronta i modi in cui si sono concretizzati nell’ autore cultura e impegno civile. Sciascia ha avuto il merito di sollevare il velo che copriva tante ipocrisie, affrontando il mostro della guerra ideologica degli anni di piombo. Un’icona ” Todo modo”, un film ispirato all’ omonimo romanzo, nascosto per anni anche alla visione privata , di cui sono girate solo poche copie pirata, oggi  fruibile in un’ edizione restaurata, che rappresenta il paradigma di un’ epoca pesante, in cui la verità del Gattopardo è stata amministrata da maschere pirandelliane. Merito agli autori di restituirci Sciascia, di farci venire voglia di tornare a leggerlo, per riscoprire dove trovano radice i mali che non hanno mai lasciato la nostra Italia.

«Borsellino indagava su Capaci su delega del ministero della Giustizia». Nel dispaccio top secret dell’ambasciatore americano si apprende che l’allora ministro della giustizia Claudio Martelli, il 30 maggio 1992, ha inviato Liliana Ferraro a Palermo per gestire il passaggio dell’intera indagine sulla strage di Capaci nelle mani di Paolo Borsellino. Il riscontro nell’agenda del giudice. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'8 settembre 2021. Una verità mai emersa in nessun processo sulla strage di Via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta, mai in alcun atto giudiziario, mai nei giornali o nelle cosiddette inchieste televisive. Nessun magistrato antimafia che indaga sulle stragi o sulla presunta trattativa Stato-mafia l’ha mai rilevata. Né tantomeno i diretti interessati, a quanto risulta, ne hanno fatto cenno.

Nel libro “L’Italia vista dalla Cia” del 2005 le risposte ad alcuni interrogativi. Che Paolo Borsellino stesse indagando sulla causa della strage di Capaci dove perse la vita il suo collega e fraterno amico Giovanni Falcone, è cosa nota. Ma non si è mai capito perché lo potesse fare, nonostante non fosse di sua competenza territoriale. Una risposta c’è e si trova in un capitolo a pagina 261 del libro “L’Italia vista dalla Cia” del 2005 a firma dell’attuale direttore di Repubblica Maurizio Molinari e Paolo Mastrolilli. Così come possiamo rispondere all’altro quesito, ovvero il perché – incontrandoli il 25 giugno 1992 in gran segreto presso la caserma Carini – Borsellino disse agli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno di proseguire l’indagine su mafia-appalti e riferire esclusivamente a lui senza dire nulla alla Procura di Palermo. Apparentemente sembrerebbe una richiesta al di sopra le righe. Ora sappiamo che non è così. Era legittimato a farlo. Non solo.

Il 28 giugno 1992 Borsellino incontrò in aeroporto la dottoressa Ferraro. Sappiamo che Borsellino si incontrò con la dottoressa Liliana Ferraro, all’epoca capo affari penali del ministero della Giustizia, il 28 giugno in aeroporto. Parlò con lei di varie questioni, ma quasi tutte riguardanti la strage di Capaci. Come testimonia la Ferraro stessa emerge che hanno parlato del dossier mafia-appalti. In particolare di un episodio ben specifico che vale la pena rievocare. Accadde che, violando di fatto il segreto istruttorio, l’allora capo della procura di Palermo Pietro Giammanco inviò il dossier mafia-appalti al ministero della Giustizia.

Il racconto di Liliana Ferraro all’epoca capo affari penali del ministero della Giustizia. Ecco il racconto della Ferraro trascritto nel verbale di sommarie informazioni del 14 ottobre 2009: «Ho memoria del fatto di aver affrontato col dottor Borsellino il tema del rapporto mafia-appalti poiché lo stesso sapeva della mia conoscenza di tale rapporto. Ed invero nell’agosto dell’anno prima, in una giornata di sabato, il dottor Falcone mi contattò telefonicamente per dirmi che avevano portato un plico al ministro Martelli e voleva che fossi io a prenderlo e ad esaminarlo, cosa che effettivamente feci. Il giorno seguente il dottor Falcone mi contattò nuovamente, chiedendomi di fare in fretta ad esaminare i documenti e a sigillarli nuovamente». La Ferraro aggiunge: «Il plico in questione venne poi restituito alla Procura di Palermo e ricordo che in una occasione entrai nella stanza del dottor Falcone il quale era in conversazione telefonica col dottor Borsellino cui disse che ero stata io a redigere la lettera, unitamente a lui, con la quale il plico venne restituito alla Procura di Palermo».

Borsellino annunciò alla Ferraro una sua visita al ministero. Ebbene, evocando tale ultimo episodio, Borsellino volle sapere dalla Ferraro quale fu la reazione di Falcone a quella vicenda. Sappiamo anche che poco prima del tragico 19 luglio, Borsellino telefonò alla Ferraro dicendole che sarebbe andato a trovarla al ministero perché le doveva parlare a proposito degli argomenti che avevano affrontato l’ultima volta che si erano visti. Come mai parlava con lei e avrebbe voluto riferire i suoi approfondimenti, prima ancora di recarsi alla procura di Caltanissetta dove era intenzionato a denunciare ciò che aveva scoperto sulla strage?

Molinari e Mastrolilli hanno visionato i documenti desecretati e conservati negli archivi federali Usa. Anche in questo caso, la risposta c’è. Di fatto, è passato del tutto inosservato un documento di eccezionale portata che si trova, appunto, a pagina 261 del libro “L’Italia vista dalla Cia” del 2005. Il Dubbio è riuscito a visionarlo con non poche difficoltà, visto che il libro è oramai introvabile e puntualmente fuori catalogo quando si tenta di ordinarlo. Parliamo di un lavoro eccezionale compiuto dai due giornalisti. Hanno visionato tutti i documenti desecretati e conservati negli archivi federali degli Stati Uniti. Parliamo di commenti e dispacci da parte degli agenti della Cia e diplomatici del Dipartimento Usa.

Nei documenti Usa si parla delle stragi di mafia. Ebbene, tra questi si parla anche delle stragi di mafia. In particolar modo di quella di Capaci. È ampiamente noto che a Palermo giunsero esperti e agenti speciali dell’Fbi che avrebbero dovuto collaborare alle indagini. La disponibilità degli uomini della polizia federale americana era stata preannunciata dall’allora ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, Peter Secchia, proprio a Palermo, durante i funerali delle vittime della strage. L’ambasciatore Secchia aveva detto che il direttore dell’Fbi, William Sessions, ed il ministro della Giustizia degli Stati Uniti, William Barr, avevano offerto agli investigatori italiani la loro professionalità e determinazione a scovare gli assassini. Falcone, d’altronde, con gli inquirenti statunitensi da anni aveva uno strettissimo rapporto di collaborazione portando avanti indagini internazionali come “Pizza Connection”. Non a caso gli Usa, ogni anno, ricordano il brutale omicidio di Falcone. Nel libro “L’Italia vista dalla Cia” è pubblicato un dispaccio dove l’ambasciatore americano informa il suo governo che la collaborazione investigativa tra le autorità italiane e americane sulla strage di Capaci è cominciata formalmente con l’incontro a Roma tra il capo dell’Fbi e l’allora ministro della Giustizia Martelli.

L’ambasciatore Usa scrive del passaggio delle indagini a Borsellino. Ma è leggendo pagina 265 del libro che si sobbalza dalla sedia. Nel dispaccio americano c’è scritto: «Il rappresentante del Dipartimento di Giustizia Warlow e il consigliere Mangiacotti hanno acconsentito a chiamare Martelli il 2 giugno, in risposta alla sua richiesta di incontrare gli investigatori che conoscono i clan mafiosi indagati da Falcone». L’ambasciatore aggiunge, nero su bianco, questa notizia clamorosa: «Il ministro ha annunciato che il 30 maggio avrebbe inviato Liliana Ferraro a Palermo per gestire il passaggio dell’intera indagine nelle mani di Paolo Borsellino, viceprocuratore locale e vecchio collaboratore di Falcone. La motivazione della nomina di questo magistrato e che lui sta già indagando sui complotti mafiosi di cui l’attentato di Capaci è parte». Ribadiamo il passaggio: Martelli, tramite la Ferraro, ha delegato a Borsellino l’intera indagine sulla strage di Capaci. Sorprende un riscontro. Nell’agenda grigia, proprio il 30 maggio 1992, Borsellino appunta il nome della Ferraro: è messo tra parentesi accanto a quello di Morvillo, collega e cognato di Falcone. Durante le varie deposizioni e verbali di sommarie informazioni, nessun magistrato ha chiesto alla Ferraro perché Borsellino appuntò il suo nome il 30 maggio.

Probabilmente si trattava di una delega “ministeriale”. Nessuno ha vagliato questo incredibile documento americano dove l’ambasciatore Usa dice chiaro e tondo che l’allora ministro della Giustizia ha delegato a Borsellino l’intera indagine sulla strage. Ma che tipo di delega poteva essere? Sicuramente non giudiziaria, vista la sacrosanta indipendenza tra i poteri dello Stato. L’unica spiegazione è che si tratti di una indagine “ministeriale” dal momento che Falcone lavorava a Via Arenula. Capire la causa della strage era probabilmente, per motivi di sicurezza, negli interessi anche del ministero. Per fare un esempio concreto, pensiamo al discorso pestaggi e abusi in carcere. Il ministero della Giustizia, tramite il Dap, può indagare. Oppure altra ipotesi è che gli americani abbiano equivocato e quindi informato male il loro governo. Però nemmeno si può far finta di nulla nel momento in cui c’è il riscontro con l’agenda di Borsellino. Un chiarimento va dato. Ma tutto questo non è emerso nei processi.

Può un fatto così importante passare inosservato? Un fatto così importante non può passare inosservato visto che potrebbe dare un valido contributo alla verità sulla strage di Via D’Amelio. C’è un dettaglio non trascurabile: se effettivamente Borsellino abbia avuto la delega dal ministero, teoricamente avrebbe dovuto riferire anche dell’andamento dell’indagine. Non si può non sviscerare la vicenda, soprattutto quando ci sono persone sotto processo come gli ex Ros, accusati tra l’altro anche di essersi rapportati con la Ferraro. Che male c’è visto che lo faceva anche Borsellino, tra l’altro all’oscuro del capo dell’allora procura di Palermo? Approfondire è doveroso.  

Quel verbale di Falcone del 1990 non reso pubblico dall’Antimafia. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 6 luglio 2021. Giovanni Falcone nel verbale del 1990 avrebbe parlato di “una centrale unica degli appalti”, riferendosi all'indagine dei Ros. Ma è stata desecretata soltanto l’audizione del 1988. Due anni fa, il presidente Nicola Morra, ha deciso di desecretare tutti i documenti della Commissione Antimafia dal 1963 al 2001. Parliamo, in particolar modo, delle audizioni di Borsellino e Falcone. Ma quelli del giudice ucciso a Capaci si ferma a quello del 1988. Manca all’appello, però, quello del 1990.

In quell’audizione Falcone potrebbe aver detto qualcosa anche sull’omicidio Mattarella. Come mai? Eppure, l’audizione del 1990 è di vitale importanza visto che Falcone potrebbe anche aver detto qualcosa sugli sviluppi dell’omicidio Mattarella dal momento che nell’88, quando fu ascoltato anche per quello, l’indagine era ancora in fase embrionale. Potrebbe aver detto qualcosa in più rispetto alla sua ipotesi iniziale, e ancora da vagliare, che aveva sugli esecutori dell’omicidio e la causale?

Lettera aperta del coordinatore nazionale dei Familiari Vittime di mafia. Forse Falcone ha detto qualcosa di importante sulla indagine dei Ros che era in corso su mafia- appalti? Giuseppe Ciminnisi, coordinatore nazionale dei Familiari Vittime di mafia dell’Associazione “I Cittadini contro le mafie e la corruzione”, ha scritto una accorata lettera aperta rivolta al presidente Morra. «Per quale ignota ragione, dunque, non si è ritenuto di dover rendere pubblici i contenuti dell’audizione del Giudice Giovanni Falcone in Commissione Antimafia nel giugno del 1990?», chiede Cimminisi al presidente della commissione antimafia.

«Sono qui a chiederLe di mantenere l’impegno che si è assunto nel desecretare tutti gli atti». «Sig. Presidente – prosegue il coordinatore dell’associazione -, a nome mio e dei familiari di vittime di mafia che rappresento nell’associazione della quale mi onoro di far parte, sono qui a chiederLe di mantenere l’impegno che si è assunto nel desecretare tutti gli atti, e ripeto tutti (in particolare quelli relativi all’audizione del Dott. Falcone nel 1990) perché ci sia data la possibilità di presentarci a testa alta nel corso di giornate commemorative ed altri eventi contro la mafia, senza doverci vergognare per avere con il nostro silenzio avallato un percorso di omertà (legge che non appartiene e non può appartenere allo Stato, ma a ben altre organizzazioni) che rischia di vedere messe in discussione la dignità e la fiducia nelle Istituzioni».

La Gip di Caltanissetta scrive: «nella primavera del 1990, delle rilevanti dichiarazioni innanzi alla Commissione Antimafia». Sappiamo, grazie alla ricostruzione analitica fatta dalla compianta Gip di Caltanissetta Gilda Loforti, che l’indagine dei Ros che poi scaturì con il deposito del dossier mafia-appalti a febbraio del 1991, era seguita passo dopo passo da Giovanni Falcone. Era, di fatto, costantemente aggiornato (lui e altri colleghi della procura di Palermo) tramite informative precedenti al deposito del dossier.

La dottoressa Loforti, nell’ordinanza di archiviazione del 2000, scrive testuali parole: «E forse proprio la conoscenza di tali dati – o anche le ulteriori informazioni fornite, come si è già avuto modo di illustrare, per le vie brevi dal De Donno – ha indotto il compianto dott. Falcone ad effettuare, nella primavera del 1990, delle rilevanti dichiarazioni innanzi alla Commissione Antimafia riferendo di “una centrale unica degli appalti”, con valenza sull’intero territorio nazionale».

L’appello al presidente della Commissione Antimafia di dare luce alle parole di Falcone. Altro che indagine locale o regionale. Falcone, nel 1990, ha fatto dunque rilevanti dichiarazioni. Come mai non è dato conoscerne il contenuto? Ci si augura, ma sicuramente non sarà così, che non sia stato fatto per gli stessi motivi del Csm quando non desecretò, o rese pubblici (ancora, di fatto, non lo sono nel sito), i verbali di audizione del 30 luglio 1992 dove ci sono testimonianze dirompenti da parte di diversi magistrati dell’allora procura di Palermo. Testimonianze che aggiungono tasselli importanti per la ricostruzione della verità sulla strage di Via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. Il coordinatore nazionale dei Familiari Vittime di mafia, nella lettera rivolta a Morra, scrive che «dopo aver appreso in merito al mantenimento del segreto da parte del Csm degli atti relativi ai Giudici Falcone e Borsellino, e non per ragioni di sicurezza dello Stato, ma a dire del Dott. Palamara, per non mettere in discussione gli equilibri che governavano il mondo interno della magistratura», non può «sopportare l’idea che le Istituzioni possano essersi piegate al giogo di quelle aberrazioni morali che sacrificano la verità e la storia dei nostri Eroi sull’altare del compromesso e degli equilibri politico-istituzionali che hanno governato un mondo che non era quello in cui credevano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino». Il presidente della commissione nazionale antimafia Nicola Morra è del M5s, il suo cavallo di battaglia è anche la trasparenza. Siamo sicuri che accoglierà l’invito di rendere pubblico quel verbale di Falcone del 1990. Non poteva sapere della sua esistenza. Ora però lo sa. Basta fare un piccolo, ma rivoluzionario gesto. Quello di aprire il cassetto e dare luce alle parole di Falcone. 

La promessa di Morra: «Renderemo pubblico quel verbale di Falcone rimasto segreto». L'annuncio del presidente della Commissione antimafia dopo l'articolo del Dubbio: «Ho sempre ritenuto che, al pari delle richieste degli organi giudiziari, anche le semplici istanze di cittadini e di associazioni debbano trovare una risposta solerte e, quando possibile, positiva». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 7 luglio 2021. Sarà desecretato e divulgato il verbale della Commissione antimafia relativo all’audizione di Giovanni Falcone svoltasi nel 1990. Lo ha annunciato ieri il presidente della Commissione nazionale antimafia, Nicola Morra, durante lo svolgimento dell’audizione di Luca Palamara. Dopo l’articolo de Il Dubbio, nel quale è stata riportata la richiesta da parte dell’associazione “I Cittadini contro le mafie e la corruzione”, il presidente Morra ha raccolto l’invito e subito, dimostrando correttezza e coerenza, si è attivato in tal senso. «Ritengo questa richiesta assolutamente meritevole della massima condivisione – ha detto Morra durante la seduta – e ne ho dunque disposto l’immediato inserimento all’ordine del giorno di questa Commissione per la procedura di desecretazione». Ha aggiunto che questa azione è in continuità con quanto è stato già fatto dalla Commissione antimafia da lui presieduta.

L’annuncio del presidente dell’Antimafia: «Martedì sarà divulgato il documento». «Già nella giornata di martedì prossimo – ha annunciato il presidente -, la Commissione antimafia, previa convocazione dell’apposito comitato coordinato dall’onorevole Angela Salafia, potrà divulgare il documento richiesto». Ha aggiunto che questa scelta gli sembra doverosa e corrisponde a quanto «già fu disposto da questa Commissione per un altro verbale, relativo ad un intervento di Giovanni Falcone datato 1988».

Morra ha sottolineato che quello del 1988 è un verbale che era stato richiesto dalla corte di Assise di Appello di Bologna, ma ha aggiunto: «Ho sempre ritenuto che, al pari delle richieste degli organi giudiziari, anche le semplici istanze di cittadini e di associazioni debbano trovare una risposta solerte e, quando possibile, positiva».

Per questo, proprio in tale ottica, il presidente Morra ha annunciato che la Commissione procederà anche alla declassificazione e pubblicazione degli atti della XIII legislatura repubblicana già a decorrere dalla stessa seduta di martedì prossimo.

Il documento sarà di eccezionale importanza

Il documento sarà eccezionale per le dirompenti dichiarazioni di Falcone. Sappiamo, grazie alla ricostruzione analitica fatta dalla compianta Gip di Caltanissetta Gilda Loforti, che l’indagine dei Ros che poi scaturì con il deposito del dossier mafia-appalti a febbraio del 1991 era seguita passo dopo passo da Giovanni Falcone. Era, di fatto, costantemente aggiornato (lui e altri colleghi della procura di Palermo) tramite informative precedenti al deposito del dossier.

Falcone riferì di “una centrale unica degli appalti”. La dottoressa Loforti, nell’ordinanza di archiviazione del 2000, scrive testuali parole: «E forse proprio la conoscenza di tali dati – o anche le ulteriori informazioni fornite, come si è già avuto modo di illustrare, per le vie brevi dal De Donno – ha indotto il compianto dott. Falcone ad effettuare, nella primavera del 1990, delle rilevanti dichiarazioni innanzi alla Commissione Antimafia, riferendo di “una centrale unica degli appalti”, con valenza sull’intero territorio nazionale». Cos’altro avrà detto? Martedì prossimo lo sapremo. Grazie alla coerenza di Morra.

Delitto Mattarella, la teoria di Falcone: "Aiuti esterni" ai killer della mafia. Enrico Bellavia su La Repubblica il 16 luglio 2021. Desecretata l’audizione del magistrato davanti alla Commissione Antimafia del giugno 1990. La sua verità sull’ipotesi della pista nera e la convergenza di interessi sullo sfondo dell’omicidio. Dalla pista nera si era partiti e a quella si ritorna. Piersanti Mattarella, quindicesimo presidente della Regione siciliana, venne ucciso nello spazio di mezzo tra la caduta del suo governo e la celebrazione di un congresso della Dc che lo avrebbe portato ancora di più al centro della scena politica, il 6 gennaio del 1980. Formidabile il suo rinnovamento con la stagione del centrosinistra e il modello di una Sicilia con le "carte in regola".

La deposizione del giudice. Falcone scagiona Mori. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 16 Luglio 2021. Dall’audizione alla antimafia nel giugno 90 di Falcone rimasta finora in modo incredibile secretata, emerge che proprio Falcone parla della maturazione delle indagini svolte in un biennio dai carabinieri di Palermo con encomiabile professionalità e sta venendo fuori un quadro della situazione che non esisterei a definire preoccupante. Questa parte della deposizione di Falcone si salda con quanto ha ricordato in una trasmissione su La7 Antonio Di Pietro, che ha affermato che prima Borsellino e poi il capitano De Donno andarono da lui per pregarlo di fare indagini su imprenditori del Nord connessi alla mafia per appalti in Sicilia visto che dalla Procura di Palermo non si cavava un ragno da un buco. Tutto ciò è una ulteriore testimonianza della assoluta perversione insita nell’attacco contro il generale Mori e il colonnello De Donno a proposito di quella inesistente trattativa Stato-mafia che peraltro è stata già smontata nella sentenza al processo a rito abbreviato contro Mannino. Il Ros aveva costruito tutto un incartamento su mafia-appalti che aveva interessato prima Falcone e poi Borsellino e che pochi giorni dopo l’assassinio di Borsellino fu archiviato dall’ineffabile Procura di Palermo. Invece di indagare su quella archiviazione paradossalmente le indagini invece vengono fatte proprio contro Mori e De Donno che avevano costruito quella indagine. Fabrizio Cicchitto

Mafia-appalti, il verbale di Falcone desecretato: “Sta emergendo un quadro preoccupante”. Desecretata l'audizione del 1990 in Antimafia di Giovanno Falcone che parla dell'omicidio Mattarella e rivela l'indagine in corso su mafia-appalti dei Ros, definiti "encomiabili professionisti". Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 14 luglio 2021. Giovanni Falcone, assieme a tutti gli altri colleghi della procura di Palermo, tra i quali l’allora capo Pietro Giammanco, viene sentito il 22 giugno del 1990 dalla commissione Antimafia nazionale venuta apposta a Palermo per ascoltarli. Si tratta del verbale appena desecretato grazie all’azione svolta da Nicola Morra, presidente della commissione nazionale Antimafia. I temi principali sono l’omicidio Mattarella e il discorso mafia–appalti.  «Allo stato, purtroppo o per fortuna (le cose accadono tutte in una volta), stanno venendo a maturazione in questo momento i risultati di indagini svolte in almeno un biennio dai carabinieri di Palermo, con encomiabile professionalità, e sta venendo fuori un quadro della situazione che non esiterei a definire preoccupante».

Falcone era sempre informato dai Ros: indagini svolte con encomia. È Falcone che parla, lo fa riferendosi all’indagine in corso da parte degli ex Ros Giuseppe De Donno e Mario Mori. Quello che poi scaturirà con il deposito del dossier nel febbraio del 1991. Nel corso delle indagini Falcone era perennemente informato dai Ros, tanto da dare qualche anticipazione alla Commissione. Come detto, le indagini erano ancora in corso.

Falcone però ha detto innanzi alla Commissione Antimafia: «Possiamo ritenere abbastanza fondato che c’è almeno nella Sicilia occidentale una centrale unica di natura sicuramente mafiosa che dirige e l’assegnazione degli appalti e soprattutto l’esecuzione degli appalti medesimi, con inevitabili coinvolgimenti delle amministrazioni locali sia a livello di strutture burocratiche sia a livello di alcuni amministratori».

«Il problema dei pubblici appalti, abbiamo detto in più riprese e ormai da anni che è un punto cruciale nella strategia antimafia»

A cosa fa capo tutta questa gestione? «Non abbiamo difficoltà a dire che tutto fa capo a Salvatore Riina», risponde Falcone.  Non può entrare nei dettagli, l’indagine dei Ros è delicata, ma il giudice tiene un punto fermo, ovvero che «il problema dei pubblici appalti, abbiamo detto in più riprese e ormai da anni che è un punto cruciale nella strategia antimafia».

E sottolinea: «Abbiamo la conferma di un sistema mafioso che, per quanto concerne i grandi appalti, ed anche nei piccoli centri per tutti gli appalti, ne gestisce in pieno l’esecuzione».

Che cosa intendeva per centrale unica?

Ma cosa intende per centrale unica? Sono le domande ripetute, sul tema, che i membri della commissione gli pongono. Falcone ci ha tenuto a sottolineare che non bisogna errare di semplificazione. «Ora, per evitare equivoci, vorrei chiarire che quando parlo di centrale unica non vorrei che venisse interpretata in maniera meccanicistica e semplice, se non semplicistica e riduttiva», spiega il giudice.

«La realtà – prosegue Falcone -, purtroppo, è molto più articolata e complessa di quel che noi vorremmo, però, ormai è sicuro, c’è un vertice che dirige e coordina le assegnazioni e le esecuzioni, cioè tutta la materia».

Il comitato d’affari è regionale, ma le aggiudicazioni sono anche altrove

Ma allora è una centrale al livello nazionale? Falcone spiega più chiaramente che il comitato d’affari è regionale, perché la mafia è territoriale. «Il presupposto dell’intervento dell’organizzazione mafiosa sta nel controllo del territorio», ribadisce.

Ma aggiunge che le aggiudicazioni sono anche altrove. Su questo ultimo punto però mette un punto fermo: «Il problema sarà ampiamente chiarito, ma non posso farlo completamente in questo momento perché non credo sia opportuno».

Quando il dossier viene depositato nel 1991, a quel punto Falcone ne ha parlato pubblicamente in un convegno e ha rivelato che la questione è di carattere nazionale visto il coinvolgimento di alcune importanti aziende del nord.

Ritornando all’audizione del 1990, Falcone precisa che tale condizionamento mafioso coinvolge «qualsiasi imprenditore che operi in determinate zone, sia esso persona fisica, che cooperativa o ente a partecipazione statale».

Dopo l’audizione del 1990 i giornali locali ne parlano

Dopo questa audizione, come testimonierà l’ex Ros Giuseppe De Donno nel processo Borsellino ter del 1998, escono le notizie sui giornali locali proprio su tutto quello che ha detto. «Era quello che volevo», disse Falcone a De Donno. Nel senso che Falcone avrebbe voluto anticipare la questione mafia appalti appositamente.

In effetti diverse procure lo hanno in seguito contattato. Proprio per questo, quando il dossier viene depositato nel ’92, diverse procure ne hanno chiesto acquisizione. Compresa la procura di Marsala, in particolar modo da Paolo Borsellino.

Le ipotesi di Falcone sui delitti eccellenti

Interessante il discorso dei delitti eccellenti. Falcone fa sua l’ipotesi del compianto giudice Rocco Chinnici.  «Si sarebbe trattato – spiega Falcone -, cioè, di omicidi “eccellenti” che sono in un certo modo apparentemente scaglionati nel tempo, ma che in realtà si inseriscono in vicende di dinamiche anche interne alla mafia». Non è un caso, spiega Falcone, che il periodo che va dal 1978 al 1982 «coincide conil massimo degli sconvolgimenti interni a Cosa Nostra». Cosa significa?

L’omicidio Mattarella voluto dalla mafia

Falcone fa l’esempio dell’omicidio Mattarella. Prende per ipotesi che gli esecutori siano stati proprio gli ex nar Valerio Fioravanti e Cavallini. Come mai la mafia avrebbe usato soggetti esterni?  Non c’entra nessun piano eversivo, nessun complotto. Come sempre, la spiegazione sarebbe quella più semplice. Una questione tutta interna alla mafia.

«Il 1980 – spiega Falcone – ha rappresentato il momento più acuto di quella crisi che sarebbe poi sfociata nella guerra di mafia: da un lato vi erano Bontade e Inzerillo (Badalamenti era stato già buttato fuori da Cosa Nostra) mentre dall’altro vi erano i corleonesi».  Importante questo punto, perché nel momento della crisi «ognuno aveva paura di fare il primo passo».

C’era una parte della mafia che voleva ucciderlo, l’altra era indifferente. Ma allora perché una parte della mafia decise di eliminare Mattarella, ma senza avvisare gli altri? «Bisognava indicare le ragioni per cui si uccideva una persona, quale fatto in concreto si contesta a Mattarella, quale persona del mondo politico aveva chiesto di ammazzarlo!», risponde Falcone.

In sostanza, la mafia non può aver commissionato questo delitto a uomini di Cosa nostra, perché a causa dei precari equilibri interni di quel momento ciò avrebbe fatto esplodere duri contrasti. Quindi, quella parte di mafia che lo ha deciso, avrebbe preferito ricorrere a mani esterne per rimanere segreta l’origine del delitto. Ricordiamo che Falcone non era solo innanzi alla commissione antimafia scesa a Palermo. Era presente l’allora presidente della Corte d’appello di Palermo Carmelo Conti, il procuratore generale della Repubblica di Palermo Vincenzo Pajno, l’allora procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Giammanco e i due giudici istruttori Leonardo Guarnotta e Gioacchino Natoli.

Il verbale desecretato dal presidente dell’Antimafia Nicola Morra

Ricordiamo che parliamo di un verbale appena desecretato grazie all’azione svolta da Nicola Morra, presidente della commissione nazionale antimafia. Dopo l’articolo de Il Dubbio, nel quale è stata riportata la richiesta da parte dell’associazione “I Cittadini contro le mafie e la corruzione”, il presidente Morra ha raccolto l’invito e subito, dimostrando correttezza e coerenza, si è attivato in tal senso. «Ritengo questa richiesta assolutamente meritevole della massima condivisione – aveva detto Morra durante la seduta – e ne ho dunque disposto l’immediato inserimento all’ordine del giorno di questa Commissione per la procedura di desecretazione». Detto, fatto.

Gli anni di fuoco in Sicilia. Omicidio Borsellino, le ipotesi di Scarpinato sulla strage di via D’Amelio. Redazione su Il Riformista il 17 Giugno 2021. La commissione antimafia siciliana ha ascoltato ieri il Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato. Tema, gli anni di fuoco in Sicilia, 92-93. Quelli dei grandi omicidi, delle stragi e poi degli attentati a Roma, Firenze e Milano. In particolare si è parlato dell’omicidio Borsellino. Scarpinato però – stando alle indiscrezioni sulla sua deposizione – non ha portato nessun elemento nuovo di conoscenza, si è limitato a esporre alcune congetture sul disegno politico che secondo lui stava dietro alla strategia terroristica della mafia, e che a suo giudizio era stato tracciato insieme dalla stessa mafia, della massoneria, da settori della destra estrema e da settori dei servizi segreti. Di concreto, però, niente. Scarpinato ha sostenuto che tutta la verità probabilmente era scritta nella famosa agenda rossa di Borsellino, che però sparì dopo l’attentato nel quale il magistrato perse la vita assieme a tutta la sua scorta. A giudizio del Procuratore generale di Palermo l’agenda fu prelevata dai servizi segreti. L’agenda non si è mai più trovata e nessuno ha idea di cosa ci fosse scritto. Secondo l’ex Pm Ingroia, che è stato interrogato qualche settimana fa, nell’agenda potevano esserci osservazioni e annotazioni sulla lotta interna alla magistratura palermitana, che in quegli anni era feroce. Da una parte c’era il Procuratore Giammanco e i magistrati vicini a lui, dall’altra Borsellino e i magistrati che avevano collaborato con Falcone o che comunque lo stimavano. Ingroia ha anche avanzato l’ipotesi che i contrasti maggiori tra Borsellino e i settori maggioritari della magistratura palermitana fossero sul tema del dossier “mafia-appalti”. Un’indagine molto importante sui rapporti dei corleonesi con le aziende del Nord Italia, realizzata dai Ros del generale Mori sotto l’impulso proprio di Falcone. Quel dossier fu archiviato subito dopo la morte di Borsellino, il quale nei giorni precedenti alla sua eliminazione aveva più volte chiesto di potersi occupare del dossier, che riteneva molto importante. Non si sa se Scarpinato abbia parlato anche di questo, perché della sua audizione si conosce solo quello che è uscito nei comunicati diffusi attraverso le agenzie di stampa. Scarpinato è uno che conosce abbastanza bene la questione, anche perché fu proprio lui uno dei sostituti procuratori che firmò la richiesta di archiviazione del dossier.

“Borsellino ucciso per il maxi processo e per mafia-appalti, non per la trattativa”. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 20 gennaio 2021. Le motivazioni della sentenza d’appello emessa dalla corte d’Assise di Caltanissetta del processo “Borsellino quater” per la strage di via D’Amelio. Paolo Borsellino non fu ucciso per la presunta trattativa Stato-mafia, per la quale tra l’altro ancora c’è un processo in corso per confermarla o meno, ma dalla mafia «per vendetta e cautela preventiva». La vendetta è relativa all’esito del maxiprocesso, mentre la “cautela preventiva” è relativa alle sue indagini, in particolare quelle su mafia appalti. Quest’ultima ipotesi – scrive la Corte d’assise di appello di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza di secondo grado del “Borsellino Quater” – «doveva, peraltro, essere anche collegata alla circostanza riferita dal collaboratore Antonino Giuffrè sui “sondaggi” con “personaggi importanti” effettuati da Cosa Nostra prima di decidere sull’eliminazione dei giudici Falcone e Borsellino oltre che sui sospetti per i quali lo stesso Borsellino, il giorno prima dell’attentato, aveva confidato alla moglie “che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo , ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò accadesse”». Sempre nella sentenza viene citato il fatto che l’arrivo di Borsellino nel nuovo ufficio della Procura di Palermo «era stato percepito con preoccupazione da Cosa Nostra, al punto che Pino Lipari (vicino ai vertici dell’organizzazione mafiosa) aveva commentato il fatto dicendo che avrebbe creato delle difficoltà a “quel santo cristiano di Giammanco”». Ebbene, aggiunge la Corte, «sulla base di tali evidenziate “anomalie”, i primi giudici disponevano la trasmissione degli atti al Pubblico ministro per le determinazioni di competenza su eventuali condotte delittuose emerse nel corso dell’istruttoria dibattimentale».

Mafia-appalti concausa della strage di Via D’Amelio. La Corte d’asssise di appello di Caltanissetta si sofferma molto sull’indagine mafia-appalti come concausa della strage di Via D’Amelio. Lo rimarca osservando che Borsellino aveva mostrato particolare attenzione alle «inchieste riguardanti il coinvolgimento di “Cosa Nostra” nel settore degli appalti pubblici, avendo intuito l’interesse strategico che tale settore rivestiva per l’organizzazione criminale». Viene riportato ciò che il collaboratore Giuffrè aveva riferito, in sede di incidente probatorio, all’udienza del 5 giugno 2012. Ovvero che le ragioni dell’anticipata uccisione del giudice Borsellino erano «anche da ricondurre al timore di Cosa Nostra che quest’ultimo potesse divenire il nuovo capo della Direzione Nazionale Antimafia nonché al timore delle indagini che il medesimo magistrato avrebbe potuto compiere in materia di mafia-appalti, con specifico riferimento al rapporto presentato dal Ros dei Carabinieri alla Procura di Palermo, su input del giudice Giovanni Falcone, nel quale erano stati evidenziati appunto i rapporti fra mafia e appalti, con particolare riferimento alle interferenze di Cosa Nostra sul sistema di aggiudicazione degli appalti, secondo un rapporto triangolare fondato sulla condivisione di illecite cointeressenze economiche che coinvolgeva, mettendoli ad un medesimo tavolo, il mondo imprenditoriale, politico e quello mafioso».

Confermata la sentenza di primo grado. La sentenza, emessa nel novembre 2019, ha confermando quella di primo grado ed accogliendo le richieste della Procura generale, ha condannato all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati il primo come mandante ed il secondo come esecutore della strage in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i 5 uomini della scorta. Condannati a 10 anni i “falsi pentiti” Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Così come aveva fatto la Corte d’assise presieduta da Antonio Balsamo anche in appello i giudici hanno dichiarato estinto per prescrizione il reato di calunnia contestato a Vincenzo Scarantino.

L’inquietante vicenda delle stragi collegate alle indagini su mafia-appalti. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 21 gennaio 2021. Il dossier mafia-appalti fu archiviato dopo la strage di via D’Amelio, il 14 agosto 1992, la richiesta fu scritta nel 13 luglio 1992 e inviata al Gip il 22 luglio. Se è vero che la gestione “corleonese” aveva esasperato la propensione di Cosa Nostra a ricorrere alla violenza, è anche vero che ne aveva contestualmente coltivato la vocazione imprenditoriale, consentendo in tal modo agli affiliati di acquisire preziose esperienze gestionali, creando e perfezionando meccanismi di condizionamento delle gare d’appalto bandite dagli enti pubblici, stabilendo legami ed intese con grandi imprese nazionali e regionali. Si intravvedeva una regia unica degli appalti. Un qualcosa di pericoloso, non solo per l’economia: era diventato un cavallo di troia per permettere a Riina di condizionare la politica. Uno strumento di potere abnorme.

Falcone e Borsellino “pericolosi nemici” di Cosa nostra. L’ipotesi che dietro le stragi mafiose ci sia stata la volontà di fermare le inchieste sui rapporti tra imprenditori e mafia rimane ancora a galla, confermata d’altronde nella sentenza n. 24/ 2006 della Corte di Assise di Appello di Catania e ribadita in Cassazione. Parliamo di una sentenza che riguarda esattamente i processi per le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Scrivono i giudici che Falcone e Borsellino erano “pericolosi nemici” di Cosa nostra in funzione della loro «persistente azione giudiziaria svolta contro l’organizzazione mafiosa» e in particolare con riguardo al disturbo che recavano ai potentati economici sulla spartizione degli appalti. Motivo della “pericolosità” di Borsellino? La notizia che egli potesse prendere il posto di Falcone nel seguire il filone degli appalti. Tale ipotesi è stata anche recentemente riportata nelle motivazioni della sentenza di secondo grado del Borsellino quater. Questo, però, in contrapposizione della motivazione della sentenza di primo grado sulla presunta trattativa Stato- mafia dove si legge che non vi è la «certezza che Borsellino possa aver avuto il tempo di leggere il rapporto mafia appalti e di farsi, quindi, un’idea delle questioni connesse». I fatti però sembrano dire altro. Non solo Borsellino, quando era ancora alla procura di Marsala, chiese subito copia del dossier mafia-appalti redatto dagli ex Ros e depositato nella cassaforte della Procura di Palermo sotto spinta di Giovanni Falcone, ma mosse dei passi concreti per indagare informalmente sulla questione, tanto da incontrarsi in caserma con il generale dei Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno per ordinargli di proseguire le indagini e riferire esclusivamente a lui.

Mafia-appalti archiviata dopo la strage di Via D’Amelio. Il dossier mafia-appalti fu archiviato dopo la strage di via D’Amelio. Dagli atti emerge che la richiesta, scritta nel 13 luglio 1992 dalla Procura palermitana, fu vistata dal Procuratore Capo e inviata al Gip il 22 luglio. L’archiviazione fu disposta il successivo 14 agosto dello stesso anno, con la motivazione «ritenuto che vanno condivise le argomentazioni del Pm e che devono ritenersi integralmente trascritte».Nel dossier compaiono diverse aziende che avrebbero avuto legami con la mafia di Totò Riina, comprese quelle nazionali. Tra le quali emerge anche il coinvolgimento di aziende enormi che erano quotate in borsa. Tra l’altro, lo stesso Borsellino, ebbe conferma del coinvolgimento di talune imprese durante l’interrogatorio del primo luglio del ’92 reso dal pentito Leonardo Messina. Dagli atti emerge chiaramente che alcune grosse aziende del nord, per prendersi gli appalti pubblici siciliani si sarebbero alleate con i fratelli Antonino e Salvatore Buscemi, legatissimi a Totò Riina. In ballo c’erano investimenti miliardari e relazioni fondamentali per il potere mafioso, che andavano quindi difese a tutti i costi.

Falcone: “Bisogna approfondire il rapporto tra Cosa nostra e imprese nazionali”. Il Dubbio il 21 gennaio 2021. Il discorso di Giovanni Falcone al Convegno “Criminalità e appalti” del 15 marzo 1991. Chiunque si è occupato di indagini sui pubblici appalti sa che il teatro di azione delle imprese coinvolte nei pubblici appalti è di gran lunga più ampio della singola circoscrizione del tribunale: è qualcosa di vasto e complesso che comporta un serio piano di intervento ancor prima conoscitivo. Tuttora tutto questo non è avvenuto. Non mi risulta che impostazioni di indagini di questo tipo siano mai avvenute, non mi risultano riunioni di Pm che cerchino di razionalizzare il sistema delle indagini. Per cui la conseguenza qual è?Che adesso ci troviamo di fronte ad una situazione di grave allarme: in concreto ignoriamo nei suoi esatti termini la portata dell’infiltrazione mafiosa nel tessuto economico e in particolare in quello dei pubblici appalti. Si potrebbe dire che abbiamo fatto dei tipi di indagini a campione, da cui si può dedurre con attendibilità un certo tipo di condizionamento, ma l’indagine, di cui mi sono occupato a Palermo, mi induce a ritenere che la situazione sia molto più grave di quello che appare all’esterno. Di fronte ad un sistema di condizionamento generico dei pubblici amministrati da parte delle imprese – identico sia al Nord che al Centro e al Sud-, inteso come corruttela generica, abbiamo un condizionamento mafioso che sfrutta la corruttela genetica. Utilizzando esclusivamente gli spunti ormai oggetto di pubblica conoscenza certe cose si possono dire: e cioè, io credo, che almeno per quanto riguarda la mafia, c’è un condizionamento dei pubblici appalti potremmo definirlo a ciclo continuo, che passa fin dall’individuazione e scelta delle imprese, a prescindere dalla legislazione più o meno sofisticata sui tipi e criteri per l’assegnazione degli appalti, fino all’esecuzione degli appalti. Abbiamo un condizionamento a monte e uno a valle, abbiamo un condizionamento mafioso sia nella fase della individuazione dei concorrenti che vinceranno le gare sia nell’attività che concreta le realizzazione dei pubblici appalti, abbiamo ben specifici settori di influenze e condizionamento, abbiamo soprattutto – e questo nel futuro verrà fuori- , purtroppo, una indistinzione tra imprese meridionali e imprese di altre zone d’Italia per quanto attiene al condizionamento e all’inserimento in certe tematiche di schietta matrice mafiosa.

La materia dei pubblici appalti è la più importante. È illusorio pensare che imprese appartenenti ad altre attività che dovevano essere realizzate in altre zone d’Italia rimangano immuni da certi tipo di collegamenti, sia che lo vogliano sia che non lo vogliano. Sono state acquisite intercettazioni telefoniche di chiarissime indicazioni di precise scelte operative, a cui tutti sottostanno, a pena di conseguenze gravissime o autoesclusione dal mercato; non è necessaria un’azione di rappresaglia violenta, che invece riguarda al massimo solo chi non vuole capire; ci sono talmente tanti passaggi che ogni impresa deve capire che questo è il sistema a cui sottostare e non c’è alcuna possibilità di sorta per uscirne. (…) io credo che la materia dei pubblici appalti è la più importante perché è quella che consente di far emergere come una vera e propria cartina di tornasole quel connubio, quell’intreccio tra mafia e imprenditoria.

·        Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Inchiesta P2 ed i Massoni rinnegati.

L’Italia torbida della P2. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 17/3/2021. «“Scrivete tutto”. Così disse, quel giorno, in riunione da Milano in collegamento con Roma, Franco Di Bella. Rivedo tutto come fosse ieri. Arrivo di corsa, trafelato, ho l’elenco di tutti i nomi degli iscritti P2. Roberto Martinelli, che guida l’ufficio romano, si intromette nel collegamento: “Franco, Franco, abbiamo l’elenco”. Il direttore: “Dicci, dicci”. E io, imbarazzato: “Ci sei anche tu”. A quel punto scese di colpo un silenzio irreale. Teso. Interminabile. Finché lui disse: “Scrivete tutto”». Quarant’anni dopo Antonio Padellaro ricorda quella frase come un passaggio doloroso della vita sua, di quella di tutti i colleghi, di tutti i collaboratori. Fu un momento durissimo. Che vide il nostro quotidiano sull’orlo d’essere travolto da polemiche anche pretestuose («Non è più tollerabile», scriverà il giorno dell’insediamento il nuovo direttore Alberto Cavallari, «la campagna di diffamazione che coinvolge tutto il giornale»), tradito da una proprietà che per superare i problemi finanziari aveva calpestato ogni decoro, scosso dal vedere più colleghi coinvolti nello scandalo, lasciato tra il dolore collettivo da figure come Enzo Biagi che per primo si era ribellato alla deriva e solo anni dopo sarebbe tornato...Ma un passaggio che segnò per il nostro quotidiano anche il preciso istante in cui furono più forti lo spirito di gruppo, l’appello a restare uniti, la consapevolezza dell’obbligo di dare ai lettori tutte le informazioni possibili. Non fu facile. E non mancarono le contraddizioni. Come la pubblicazione di quel famoso elenco di iscritti interrotto da continue parentesi: Tizio (ha smentito...), Caio (ha smentito...), Sempronio (ha smentito...). Il «Corriere» ne uscì ammaccato. Ma ne uscì. Al punto di potere oggi ricordare quella vicenda fangosa, non solo per noi, passo per passo. Con onore. Sapendo che i lettori han saputo distinguere. Tutto cominciò il 17 marzo 1981, come ha ricordato il giudice Gherardo Colombo l’altra sera a Bersaglio mobile in una intervista a Silvia Frasca, nell’ambito dell’inchiesta sul rapimento (finto) di Michele Sindona, con la perquisizione nella villa e in tre uffici di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi: «Giuliano Turone ed io ci trovammo verso le 10.30 al bar del tribunale a prendere un caffè. Eravamo nervosetti. Torniamo in ufficio e iniziamo a ricevere telefonate da chi faceva le perquisizioni». In una valigia vengono trovate 33 buste sigillate con nastro adesivo con intestazioni tipo «Rizzoli-Calvi, deposito azioni», «Accordo riservato Calvi-Pesenti», «Contratto Eni-Petromin»... Praticamente, racconta l’allora giudice istruttore, «dentro a ogni busta c’era una notizia di reato…». Cose che avrebbero aperto vari filoni d’inchiesta. Quella che esploderà come una santabarbara, però, è la lista scoperta nella cassaforte dell’ufficio in uso a Gelli alla Giole (Giovane Lebole), un’azienda di abbigliamento. Contiene, come riassumerà Paolo Biondani, «962 nomi di affiliati alla loggia massonica “Propaganda 2”. Ci sono quattro ministri, 44 parlamentari, tutti i capi dei servizi segreti, l’intero vertice della Guardia di finanza, decine di generali e colonnelli dei carabinieri, esercito, marina, aviazione». Più diversi magistrati. E giornalisti. Di varie testate. Mentre ancora sono in corso le perquisizioni, arrivano già le prime telefonate allarmate. Come quella del generale della Finanza Orazio Giannini che chiama (dice tutto una deposizione in commissione P2) il colonnello Vincenzo Bianchi: «So che stai lì e hai trovato degli elenchi. Ti comunico che ci sono anch’io negli elenchi… Statti accorto, ci sono i massimi vertici». La penetrazione della loggia segreta dentro lo Stato è così profonda e capillare che Colombo e Turone, avuti i documenti, decidono di metterli al riparo da eventuali «manine» che potrebbero farli sparire. «Passammo una notte a fotocopiare quelli più rilevanti. E li nascondemmo nell’archivio di una grande stanza piena di fascicoli, in uno d’un altro giudice sulle Formazioni comuniste combattenti». Quando si presentano a Roma a Palazzo Chigi perché, con il presidente Sandro Pertini in Sudamerica, vorrebbero avvertire almeno il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani, si vedono aprire la porta dal suo segretario, il prefetto Mario Semprini, tessera 544. È la conferma, se mai servisse, di come l’inchiesta sia destinata a incontrare intoppi, sgambetti, ostilità... Spiegherà Sergio Mattarella in una intervista alla Rai prima di salire al Colle: «Si trattava di una struttura di potere alternativa al governo e contro il governo, che aveva il timore dei contatti fra governo e opposizioni, rapporti che potevano rafforzare le istituzioni, perché istituzioni più forti e condivise fra le forze politiche attenuano e riducono gli spazi di potere indebito». E via via che montano lo scandalo e l’attesa per la famosa lista, che porteranno Forlani a dare le dimissioni (troppi silenzi, rinvii, ambiguità...), emerge più chiara la figura del «materassaio» (così lo definiva chi temeva ogni coinvolgimento, a partire da Giulio Andreotti) che pareva avere in pugno l’Italia intera. Ed ecco saltar fuori la tessera del fascio, la schedatura da parte della questura di Pistoia come «pericolosissimo fascista», informatore delle SS ma anche informatore all’ultima ora dei partigiani...Su tutto, però, torna a galla un’intervista data dal figuro a Maurizio Costanzo («Sono stato un cretino», dirà contrito a Giampaolo Pansa) e pubblicata pochi mesi prima dal «Corriere». Intervista dove, sparato a zero sui partiti, invocata la pena di morte come nell’Urss («Mi risulta che lì siano rarissimi furti, rapine, spaccio...»), giurato che la «sua» massoneria era «l’unica che ammette soltanto i credenti», spiegava che fin da piccolo voleva fare «il burattinaio». Un ruolo al quale fu inchiodato sul serio dalla commissione d’inchiesta parlamentare presieduta da Tina Anselmi (che bollò la P2 come «un’organizzazione criminale») e dalla magistratura. Che riconobbe al vanitoso faccendiere e ai suoi adepti, con una serie di condanne e processi, un ruolo di primo piano in alcune delle vicende più oscure della nostra storia. Compresi vari depistaggi tra i quali quelli sulla strage di Bologna compiuta il 2 agosto 1980. Quarant’anni sono passati, dalla scoperta di quella lista che vide alcuni iscritti pagarla carissima, altri cavarsela con un po’ di purgatorio, altri ancora buttarla in caciara come Silvio Berlusconi che, liquidata la sua vicenda come un incidente di percorso («Quando ricevetti la tessera c’era scritto che ero apprendista muratore e io, che allora ero un grande costruttore di case, non potei fare a meno di farmi una grande risata»), è riuscito a ottenere per due decenni e mezzo il voto di milioni di italiani. Cos’è rimasto, di quella bruttissima storia? Le cronache di vicende che oggi sembrano lontanissime, ma che hanno avuto un peso enorme: l’affare Sindona, il caffè avvelenato, l’omicidio dell’«eroe borghese» Giorgio Ambrosoli, la rapida scalata e il precipitoso tonfo di Roberto Calvi al ponte dei Frati Neri, i misteri intorno al ruolo di Umberto Ortolani, i dubbi sull’esistenza di una lista riservata di piduisti... Lista di altri iscritti che, al contrario dei 165 lingotti d’oro trovati nel giardino del faccendiere, non sono mai stati individuati...

Tina Anselmi e l’indagine parlamentare. Dopo la scoperta, il 17 marzo 1981, dell’elenco degli iscritti alla loggia P2, venne deciso di costituire una commissione parlamentare d’indagine sulle attività di Licio Gelli e del sodalizio di cui era il capo. La proposta fu approvata nel dicembre 1981 e la commissione divenne operativa in dicembre: alla sua presidenza venne eletta l’esponente democristiana Tina Anselmi, che in precedenza era stata responsabile del ministero del Lavoro. Da lei prende il nome la cosiddetta «legge Anselmi», che nel 1982 dispose lo scioglimento della P2. La commissione concluse i suoi lavori con una relazione, presentata dalla presidente Anselmi e approvata dai partiti di governo, che sottolineava i guasti prodotti dall’azione di Gelli per distorcere la vita economica e politica del Paese.

Bibliografia. Le attività di Licio Gelli e i suoi collegamenti con la politica ad alto livello sono ricostruiti nel libro appena uscito Colpevoli. Gelli, Andreotti e la P2 visti da vicino, scritto dalla giornalista ed ex parlamentare Sandra Bonsanti, che a suo tempo si occupò della questione, con Stefania Limiti (Chiarelettere, pagine 256, euro 16). Una interessante documentazione su tutta la vicenda è raccolta in un altro volume pubblicato da Chiarelettere, La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi (nuova edizione, 2018), con gli appunti privati dell’esponente democristiana che diresse a suo tempo la commissione d’inchiesta parlamentare sulla loggia guidata da Gelli. Il politologo Giorgio Galli, recentemente scomparso, aveva esposto la sua interpretazione del caso P2 nel libro La venerabile trama (Lindau, 2007). Rilevante anche la ricostruzione di uno dei magistrati che scoprirono l’elenco della P2, Gherardo Colombo, nel libro più volte ristampato Il vizio della memoria (Feltrinelli, 1996). Lo storico della massoneria Aldo Alessandro Mola si è occupato della questione nel volume Gelli e la P2 (Bastogi, 2008). Sul possibile coinvolgimento della P2 nella strage di Bologna: Roberto Scardova, L’oro di Gelli (Castelvecchi, 2020).

P2: il giorno della non verità. di Concita de Gregorio su La Repubblica il 12 marzo 2021. Il 17 marzo 1981 nella villa di Licio Gelli fu trovata la lista degli iscritti alla loggia massonica segreta. Dopo 40 anni resta ancora molto da capire. Sandra Bonsanti, giornalista e testimone, ci spiega che cosa e perché. Intervista.  

Ma in fondo qual è la vera domanda, Sandra?

"Solo una?"

Sì, una.

"Direi, almeno per me: cosa abbiamo fatto dell’Italia libera che ci è stata consegnata? È a questo che penso la sera, prima di andare a dormire".

Immagino quel momento: Sandra Bonsanti nella sua casa in cima alle scale ripide, sola, la sera, prima di andare a dormire. I taccuini di Gadda, le foto di Pertini. I fiori sul balcone, i suoi quaderni con le date e i luoghi in copertina. Ne ha decine e decine. Quello verde di carta di Firenze che aveva in America quando andò da Sindona. Quello a fiori che inaugurò i lavori della commissione Anselmi. Uno lo tiene sempre sul comodino accanto al letto. “9.5.78 Via Caetani”, c’è scritto sopra. Quando lo apri, la prima frase annotata con la sua calligrafia chiara e rotonda è questa: “Pare che sia Moro, dice un vicequestore”.

La penso che dà un’ultima occhiata al giardino dei vicini, si fa quella domanda, spegne le luci. C’è una generazione in questo Paese che ha preso l’Italia da chi l’ha liberata e l’ha portata fino a qui. Proprio con un gesto delle mani, una torsione del busto. Sandra era bambina il giorno della Liberazione di Firenze dai nazifascisti. Era piccola, ma ricorda bene: quel soldato che la strappò dalle braccia della madre, quella paura. È grande, oggi. Una maestra di 83 anni, cinquanta dei quali trascorsi a raccontare l’Italia: dalla fine degli anni Sessanta, un taccuino alla volta, fino a ora.

«Sono solo una cronista» dice sempre. Certo. Una cronista. Quarant’anni fa, 17 marzo 1981, la scoperta degli elenchi della loggia massonica P2 nella villa di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi. Da allora ogni giorno ha seguito le indagini, le inchieste, i lavori della commissione Anselmi. Quante volte in redazione se c’era un dubbio, prima di internet, Sandra sapeva. «Ora controllo sui quaderni» diceva.

Il libro che pubblica con Chiarelettere, Colpevoli, scritto con Stefania Limiti, è una Bibbia per chi voglia conoscere la storia d’Italia. Quella del presente. La storia di adesso. Perché – è questo il distico che apre il libro – “sono ancora tutti lì”. Non è cambiato, il Sistema. Non sono stati nominati né puniti, i colpevoli. Decine di persone – politici, magistrati, cittadini vittime delle stragi – sono morte, ma non ha pagato chi doveva pagare, anzi: ha replicato sottotraccia una rete di ricatti fondati sui segreti, di mano in mano. «E se non fai luce non ci può essere una democrazia sana. Non ci sarà mai vera libertà».

Cosa manca da raccontare, del passato e del presente?

«Questo: manca ancora una storia politica della Prima Repubblica che affronti anche il potere segreto, le responsabilità dei vari personaggi di primo piano che lo hanno controllato e lasciato in dote a chi detiene oggi le leve. Ti faccio un esempio: sarebbe importante studiare il tragitto del presidenzialismo, che è stato il sogno dei piduisti ma anche il sogno socialista, di importazione americana. E da lì in avanti tutte le proposte che inseguono l’obiettivo dell’uomo forte, solo al comando, magari con la semplificazione e riduzione del Parlamento: non ti dice niente? In origine le formazioni fasciste furono messe fuori dall’arco costituzionale ma hanno trovato, col tempo, nuovi e a volte imprevedibili alleati».

Come si fa a spiegare a un ragazzo del 2021 cosa è successo quarant’anni fa e perché sia importante oggi?

«Rovescia la domanda. Come si fa a chiedere oblìo. Come si fa a dimenticare senza che sia fatta giustizia. Se ciascuno avesse fatto la sua parte di uomo e donna delle istituzioni, negli anni, quella catena di omertà avrebbe potuto sgretolarsi. Avremmo davvero combattuto le mafie, le massonerie, i fascismi. Possiamo ancora farlo. Come mi disse Tina Anselmi una delle ultime volte: 'Sono ancora tutti qui'. La memoria è sacra. Senza memoria siamo perduti, in balìa di chi ci manovra e senz’armi per difenderci».

Da dove partiamo?

«Bisogna per forza ripartire dai fatti. Quella storia è come se fosse evaporata. Non ci abbiamo fatto i conti. Ci torna addosso. Non va bene dire: ci sono stati i fedeli e i poteri deviati. Non è vero, il confine non c’è. C’è il piduismo perenne di uno Stato infedele. Quel sistema è un’architettura su cui ancora oggi si costruisce il potere. Finché tolleriamo che ci siano spazi di segreto... la democrazia ha bisogno della luce del sole per recuperare l’energia. Giovanni Ferrara, che è stato un repubblicano vero, queste cose le sapeva, le sentiva e veniva avversato in tutti i modi: quando c’è qualcosa che non si capisce vuol dire che lì dentro c’è una massoneria che sta lavorando».

Massone è diventato un attributo, in politica, sinonimo di sospetto. Molto in voga anche di recente.

«Ho imparato negli anni che quando si dice quasi sempre c’è qualcosa di vero, o almeno qualcosa di opaco. Certo non sono più piduisti. Ma basta vedere cosa sta succedendo in Calabria, dove scoprono momento dopo momento i collegamenti tra le cosche e la massoneria. Le massonerie hanno avuto una grande occasione di dimostrarsi democratiche. L’hanno persa».

Entriamo nelle cose. La P2 era una loggia massonica segreta. Il 17 marzo 1981 fu scoperto un elenco di 962 nomi: 44 parlamentari, 2 ministri, 22 generali dell’esercito, 8 ammiragli, magistrati, funzionari pubblici, giornalisti, imprenditori. C’era Silvio Berlusconi, nell’elenco. Licio Gelli era il capo, ma lo era davvero?

«La lista era incompleta. I piduisti erano molti di più, e no, Gelli non era il capo. Era un capo».

Cosa volevano?

«Cambiare la struttura del potere in senso autoritario. Eliminare chiunque si opponesse al loro disegno. Hanno seminato il loro cammino di morti. Sono stati gli anni in cui sono stati uccisi Giorgio Ambrosoli, Aldo Moro, Carlo Alberto Dalla Chiesa, a poco tempo da Roberto Calvi. Gli anni delle stragi».

Chi era il capo?

«Una volta Luigi Bianchi, giornalista che era alla guida dell’ufficio romano del Corriere della Sera, riferì di certe serate di cui gli parlava la vedova Angiolillo. 'C’erano Tassan Din, Calvi, Ortolani, Gelli, Andreotti'. Aveva i brividi. Lasciò il Corriere poco dopo».

Citi molto nel tuo racconto i diari di Giulio Andreotti.

«Sì, sono una fonte inesauribile della sua – diciamo così – ambiguità. Andreotti aveva i suoi demoni: Michele Sindona, Salvo Lima. Non riusciva a controllarli. Buscetta disse: l’omicidio di Lima è stato un’ingiuria a Andreotti. Intendeva: un messaggio per lui, era la mafia che comandava. Diceva: lo Stato è bravo a fare i funerali di Stato. Come a dire: serve a quello».

Racconti di quando in una passeggiata in piazza Navona Craxi ti disse che Gelli era al Viminale, nei giorni del sequestro Moro.

«Di più. Le ricerche per salvarlo erano affidate a un gruppo di specialisti messo su da Francesco Cossiga, allora ministro dell’Interno, riservato agli appartenenti alla P2. Erano tutti piduisti. Moro era doppiamente prigioniero. Delle Br e del nostro Stato in quanto P2. Il sequestro Moro è il punto di svolta del tempo che ancora viviamo. Per come è avvenuto, la diretta. Bettino Craxi che mi dice che Gelli era in quelle stanze. Che era inutile cercarlo attraverso collegamenti con gruppi della sinistra parlamentare. Ci fu un tentativo – ne fa fede la giudice Elisabetta Cesqui – di andare a vedere cosa stava succedendo durante il rapimento di Moro attorno ad Arezzo, dove viveva Gelli. Banca Etruria era la cassaforte della P2. C’era un grande movimento di denaro verso i neofascisti. Al Viminale c’era un importante uomo dei Servizi, Umberto Federico D’Amato, negli stessi anni di Cossiga. Si diceva che fosse il referente della Cia in Italia. Poi era anche il critico gastronomico dell’Espresso, capisci? Era così difficile orientarsi. Bisognava solo scrivere, prendere nota. Poi col tempo i fili si legano».

Col tempo cosa hai capito?

«Che lo Stato non voleva che Moro fosse trovato perché era contrario a quel Sistema. Era utile a tanti non trovarlo. In Italia e all’estero».

Hai citato Elisabetta Cesqui, parli moltissimo di Tina Anselmi. Sono state due donne a indagare senza paura.

«Sì, non si sono fatte ingannare né fermare. Cesqui, allieva di Stefano Rodotà, è l’unico giudice istruttore che abbia fatto una vera inchiesta sulla P2. Tina era una partigiana, una donna semplice di origini, fortissima».

Racconti dei risotti al radicchio trevigiano che ha insegnato a cucinare alle tue figlie, e di quando durante il sequestro faceva la spola fra la Dc e la famiglia Moro.

«Tina ebbe un compito molto istituzionale, teneva i rapporti con la famiglia e non era facile. Conosceva Moro molto bene. Aveva avuto da lui un ultimo messaggio il giorno prima del rapimento, a proposito dei comunisti che non avrebbero appoggiato il governo che doveva nascere. Le scriveva 'Cara signorina, qui non hanno capito che siamo sull’orlo di un abisso'. La chiamava Signorina. Tina ha fatto il massimo che ha potuto, tenendo conto che era un’esponente della Dc. Ha puntato tutto sulla Relazione: ancora riletta oggi è piena di spunti e di verità».

Era anche una militante di partito, intendi.

«Sì, lo era. Ricordo del giorno in cui mi fermai a salutare Giovanni Falcone che mangiava un gelato da Giolitti, avevo appena parlato con Tina che mi aveva detto: vorrebbe diventare ministro degli Interni ma noi quell’incarico non lo abbiamo mai dato a nessuno. Fu così anche col generale Dalla Chiesa: la Dc il Viminale non lo lasciava. C’erano delle ragioni molto serie per non abbandonare quella postazione».

Anche Dalla Chiesa si era opposto al Sistema.

«Sì. E il Sistema decise di liberarsi di tutti coloro che avrebbero potuto aprire una breccia nel segreto, indebolire la rete eversiva. Secondo il pg di Palermo Roberto Scarpinato, l’ordine di eliminare Dalla Chiesa arrivò da Roma da Francesco Cosentino, che era segretario generale della Camera, ruolo altissimo, istituzionale, ereditato dal padre. Lo si vede nelle foto di De Nicola che firma la Costituzione. Fa impressione. Era uomo di Andreotti ed era nella P2. Anche sull’uccisione di Piersanti Mattarella c’è molto da sapere. Sono tante le tragedie rimaste oscure».

Tu, Sandra, hai ricevuto tre lettere da Sindona, sei nominata con fastidio nei diari di Andreotti, Cossiga ha avuto parole feroci sul tuo conto. Hai mai avuto paura?

«Solo una volta. Sulle scale di piazza del Gesù, Evangelisti scendendo mi disse: 'Che te se deve fa’, te se deve sparà'? Gli risposi: non è la prima volta che risolvete così i vostri problemi. Ma poi non ci ho voluto più pensare».

Il libro è anche un archivio enorme di fonti. C’è un sistema di note a margine imponente, ogni cosa è documentata.

«Di questo devo rendere grazie a Stefania Limiti, preparatissima e appassionata, che sono contenta di aver incontrato: abbiamo un giudizio comune su quello che è stato».

Cosa pensi quando vedi che la politica italiana è ancora figlia, in larghissima parte, della tradizione democratico-cristiana?

«Che la Dc è stata una grande casa dove hanno trovato posto tanti, anche persone di grande valore. E sì, gli eredi di quella tradizione ancora governano. Ma se la Dc fosse stata casa mia non avrei scelto Andreotti come padre. Piuttosto Bachelet».

Perché hai intitolato il libro Colpevoli?

«Perché a volerlo si sapeva cosa stava accadendo. C’erano la commissione Anselmi, il lavoro di indagine di Cesqui. C’è questo professore di scuola, Guido Lorenzon, che ha passato la vita a testimoniare sulla strage di piazza Fontana: non gli credevano. Chi ha provato a dire la verità è finito eroe o martire, a volte tutte e due le cose. Bisognava essere supereroi per affrontare la battaglia».

Chi l’ha vinta?

«Mah. Non lo so. Diciamo che non è finita. Se riusciremo a tenere viva questa storia e la spiegheremo ai giovani, allora c’è possibilità. Sono loro che devono prendere il testimone, ora. Sul buio, volere la luce».

Sul Venerdì del 12 marzo 2021

DAGONOTA l'11 gennaio 2021. “Non arriverei mai a sacrificarmi per le mie opinioni: potrei avere torto”. Ecco la battuta di Woody Allen, stavolta rovesciata (“potrei avere ragione”), che ben fotografa la querelle tra questo disgraziato sito e il super commissario Domenico Arcuri che ci ha costretto a smentire sul tamburo (e a scusarci) la notizia che suo padre, l’ex prefetto Aldo, in quanto “archiviato”, risultava ancora nell’elenco degli affiliati alla P2 di Licio Gelli. Lista sequestrata dai magistrati il 17 marzo del 1981 a “Villa Wanda”. E a puntellare le sue ragioni, l’uomo dei vaccini nel governo Conte aveva calato un solo asso: un articolo del “Corriere della Sera” del primo ottobre 1981 in cui si dava, appunto, per “archiviata” la posizione di una ventina di alti burocrati che aveva aderito alla loggia segreta del Gran Maestro aretino. Lista resa pubblica dal presidente del Consiglio, Arnaldo Forlani, il 26 maggio dello stesso anno. Atto seguito dalle sue dimissioni con l’arrivo a palazzo Chigi del primo premier laico, il repubblicano Giovanni Spadolini. Ma nella prova regina (la famosa pistola fumante) fornita da Domenico Arcuri (articolo del Corriere) l’archiviazione (o “assoluzione”) dei piduisti negli organici di Stato è figlia soltanto di un primo (e frettoloso) esame analitico sugli appartenenti alla P2 svolto dal sottosegretario alla presidenza, Francesco Compagna. “Archiviati” o “assolti” dai vari organi di controllo disciplinate interni (alcuni piduisti ricorsero pure al Tar) a cui erano sottoposti, nel senso che potevano proseguire la loro attività professionale nella pubblica amministrazione e in attesa del giudizio della magistratura. Il che non rappresentava un atto governativo che “cassava” automaticamente i loro nomi dalle liste della P2. A cui seguì una commissione di tre saggi composta da Aldo Sandulli, Vezio Crisafulli e Lionello Levi Sandri anch’essa impegnata a verificare se i piduisti avessero tradito il giuramento di fedeltà allo Stato per il venerabile Gelli. Ma una volta superata l’ostilità dei partiti di governo a mettere una pietra sopra allo scandalo e mentre la maggioranza degli iscritti puntavano a sostenere la completa inattendibilità e falsità delle liste gelliane, toccherà alla Commissione parlamentare sulla P2 presieduta da Tina Anselmi (dicembre 2021-luglio 1984) di verificarne invece l’autenticità e pericolosità della loggia di Gelli e dei suoi adepti. E nell’ampia documentazione prodotta dalla commissione, oggi consultabile presso la biblioteca di Montecitorio, nell’elenco originale degli iscritti alla Loggia P2 il nome di Aldo Arcuri appare al quarto posto nella seconda pagina. Tant’è, senza mettere in discussione l’onorabilità del padre del super commissario Domenico Arcuri.

Dagospia il 12 gennaio 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, scriviamo in nome e per conto del dr. Domenico Arcuri - che a tal fine ci ha conferito mandato - in relazione all'articolo oggi da te pubblicato. Il fatto che il nome del Prefetto Aldo Arcuri fosse sulla lista è un dato evidente. Se così non fosse, il Ministero degli Interni non avrebbe istituito la Commissione Disciplinare per la verifica dell'iscrizione alla P2 dei funzionari e non avrebbe provveduto all'archiviazione in ragione della verificata estraneità del dr. Aldo Arcuri. Così come non avrebbe ricoperto lo sviluppo della sua carriera di successive promozioni e di prestigiosi incarichi. Ci sono alcune sentenze che - in ragione della verificata estraneità alla P2 del Prefetto Arcuri - condannano i giornali che avevano riportato la notizia. Risalgono a circa 40 anni fa. Ti invitiamo all'immediata pubblicazione della presente nota nella stessa pagina dell'articolo, ex art. 8 L.47/48. Grazia Volo, Anna Sistopaoli.

DAGO REPLICA: Ancora una volta, la verità politico-istituzionale sancita dalla Commissione d’inchiesta parlamentare sulla P2 presieduta da Tina Anselmi e dalle sentenze della magistratura - non da questo disgraziato sito - sembra essere messa in dubbio (contestata anche giuridicamente?) dagli avvocati che assistono il super commissario ai vaccini nel governo Conte, Domenico Arcuri. Dopo aver prodotto la “prova regina”, un articolo del “Corriere della Sera” del dicembre 1981, cioè prima dell’avvio dei lavori della Commissione a Montecitorio, per negare l’iscrizione di suo padre, l’ex questore di Benevento Aldo Arcuri nella lista della loggia segreta di Licio Gelli sequestrata a Castiglion Fibocchi, con una Dagonota avevamo osservato che il dottor Aldo Arcuri era stato sì “archiviato”, come tanti altri piduisti, dalle varie Commissioni ministeriali dopo aver negato la sua adesione alla P2 definendo la sua presenza in quelle liste “un arbitrio illegittimo e illegale”, ma non depennato dalle liste gelliane, che ancora fanno fede. E consultabili nella biblioteca della Camera. Tant’è che qualche mese dopo l’abiura dell’ex prefetto Arcuri, possiamo aggiungere in difesa della nostra attendibilità, la Commissione d’inchiesta dell’Anselmi renderà pubblico l’atto di giuramento di fedeltà alla P2 firmato da Aldo Arcuri (Commissione parlamentare d’inchiestaP2, volume 2, tomo 2, pag.463). E non si trattava di un apocrifo. Del resto quella pratica “autoassolutoria” delle commissioni disciplinari - prima dell’inchiesta parlamentare era figlia di una circolare emanata dal presidente del Consiglio Spadolini -, fu bollata dal componente della commissione parlamentare P2, Sergio Flamigni e dal suo partito, il Pci, “uno scandalo nello scandalo”. E agli atti ci sono le interpellanze del Partito Radicale, guidato da Massimo Teodori, sulla stessa incostituzionalità dell’operato di quelle commissioni disciplinari. Parlare poi, come fanno i legali di Domenico Arcuri della “verificata estraneità alla P2 del Prefetto Arcuri” non basta a sancirlo un ritaglio di giornale, sua pure autorevole, del “Corriere della Sera”

Quarant’anni di delitti, ricatti e trame occulte: la P2 è morta, ma il piduismo vive. La loggia segreta di Licio Gelli, scoperta il 17 marzo 1981, era uno Stato nello Stato: 962 massoni infiltrati in tutte le istituzioni. Dal crack Ambrosiano alla strage di Bologna, da Tangentopoli a Berlusconi, l’eredità nera di sistema che sopravvive al suo creatore e condiziona ancora la democrazia. Paolo Biondani su L'Espresso l'11 marzo 2021. La P2 sembra morta e sepolta, ma il piduismo vive ancora. Sono passati 40 anni dalla storica scoperta dell’elenco degli affiliati alla loggia massonica segreta di Licio Gelli. Un sistema di potere occulto che si era impadronito delle istituzioni. Lui, il grande burattinaio, non c’è più: è deceduto nel dicembre 2015 nella sua villa di Arezzo, libero da anni, nonostante svariate condanne per reati gravissimi. Con il marchio di organizzatore e principale beneficiario della rovinosa bancarotta dell’Ambrosiano. E di stratega dei depistaggi di Stato che hanno ostacolato le indagini sulla strage di Bologna, per favorire i neofascisti dei Nar. Oggi, certo, l’Italia è cambiata, non è più il paese del terrorismo e dei servizi deviati, della mafia padrona e delle banche criminali. Ma le reti di mutuo sostegno nate in quegli anni neri hanno continuato a condizionare la nostra democrazia. Con dinastie di piduisti rimasti in posizioni chiave, nella politica, nell’economia, nei media. Con strategie e parole d’ordine che restano le stesse di allora. Tra soldi spariti, complicità mai confessate, dossier e ricatti che funzionano ancora. Quarant’anni fa, il 17 marzo 1981, inizia il declino della P2, non la sua sconfitta. Quel giorno viene perquisita a sorpresa la Giovane Lebole (Giole), nota azienda d’abbigliamento con sede a Castiglion Fibocchi. L’ordine è firmato da due giudici istruttori di Milano, Giuliano Turone e Gherardo Colombo. Indagano su due misfatti che si rivelano collegati: l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, il liquidatore delle banche private di Michele Sindona, e il finto sequestro dello stesso banchiere siciliano, incriminato per bancarotta fraudolenta in Italia e negli Usa. Questa genesi non va dimenticata: la loggia di Gelli viene smascherata dalle inchieste che portano alla condanna di Sindona, piduista, come mandante dell’omicidio dell’«eroe borghese» Ambrosoli. E che fanno emergere la complicità tra il banchiere e le famiglie italo-americane di Cosa Nostra, diventate ricchissime con il boom dei traffici di droga. Fuggito da New York nell’estate 1979, Sindona si rifugia in Sicilia, protetto dai boss palermitani. E per simulare di essere stato rapito da terroristi di sinistra, si fa sparare a una gamba da un medico massone. Che risulta in stretto contatto con Licio Gelli. Turone e Colombo selezionano una squadra di finanziari incorruttibili e ordinano di perquisire, senza informare i superiori, quattro indirizzi. Nei tre ufficiali, compresa villa Wanda, non c’è niente d’importante. L’archivio segreto è nell’ufficio in uso a Gelli alla Giole. Nella cassaforte c’è una lista ordinata, con 962 nomi di affiliati alla misteriosa loggia massonica “Propaganda 2”. Ci sono quattro ministri, 44 parlamentari, tutti i capi dei servizi segreti, l’intero vertice della Guardia di finanza, decine di generali e colonnelli dei carabinieri, esercito, marina, aviazione. E poi prefetti, funzionari centrali e periferici, magistrati, banchieri, imprenditori, direttori di giornali. Una struttura segreta, con gradi e gerarchie, cementata dal vincolo massonico. Uno Stato nello Stato. Che obbedisce a Gelli. I giudici milanesi si sentono in dovere di consegnare l’elenco al presidente del Consiglio, Arnaldo Forlani. A riceverli a Roma è il suo capo di gabinetto: piduista anche lui. Il 20 maggio il premier democristiano è costretto a pubblicare la lista. Lo scandalo scuote l’Italia. Una settimana dopo, Forlani si dimette. Nasce il primo governo laico, guidato dal repubblicano Giovanni Spadolini. Il parlamento vara una commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta dall’ex partigiana bianca Tina Anselmi. Nel 1982 viene approvata una legge che vieta le associazioni segrete: mai più P2. La commissione Anselmi, che ha poteri inquirenti, conclude la sua maxi-inchiesta stabilendo che la lista di Gelli è autentica e certifica vere affiliazioni, con riscontri oggettivi come i pagamenti delle quote d’iscrizione, versate su un deposito anonimo alla Banca Etruria. L’elenco però è incompleto: Gelli ha nascosto molte altre carte, centinaia di piduisti restano senza nome. Anche il livello superiore è oscuro. La relazione Anselmi usa la famosa metafora della clessidra: Gelli è al vertice della piramide visibile, ma è a sua volta controllato da strutture più potenti, rimaste occulte. La svolta per la legalità, democrazia e trasparenza si esaurisce in pochi mesi. Già nell’estate 1981 la Cassazione strappa a Milano l’indagine giudiziaria sulla P2 e la trasferisce a Roma, dove viene insabbiata per tutto il decennio. I ministeri chiave avviano procedure amministrative che mettono in dubbio la lista sequestrata a Gelli, consentendo ai funzionari massoni di continuare a fare carriera. Caduto Spadolini, illustri piduisti tornano al potere. Il ministro del Bilancio del primo governo Craxi, ad esempio, è Pietro Longo (Psdi), passato alla storia come uno dei pochissimi politici italiani condannati per corruzione ancora prima di Tangentopoli. Lo scandalo ha effetti profondi nella finanza e nei media, ma solo per ragioni economiche e giudiziarie, non per iniziative politiche. Il Banco Ambrosiano, motore del sistema, fallisce con perdite record per 1.193 miliardi di lire. Le sentenze spiegano che la banca cattolica guidata da Roberto Calvi (ucciso nel 1982 a Londra) era diventata la tesoreria occulta dei capi della P2. Ma anche la cassaforte estera dei fondi neri dello Ior, la banca vaticana, guidata da un cardinale americano che ottiene l’immunità diplomatica. Gelli e il suo braccio destro, Umberto Ortolani, vengono dichiarati colpevoli, in tutti i gradi di giudizio, per aver rubato montagne di soldi, usati tra l’altro per impadronirsi del gruppo Rizzoli-Corsera. Dopo l’arresto in Svizzera, Gelli risarcisce 300 milioni di dollari, ormai sequestrati. Mentre lo Ior ne rimborsa altri 250 «senza ammissioni di colpa». Una società simbolo del sistema P2 è una offshore anonima, denominata Bellatrix: custodisce il pacchetto di controllo del Corriere della Sera, ma nessuno la rivendica, per non auto-accusarsi della bancarotta. A liquidarla sono i giudici di Milano che liberano la Rizzoli dalla P2. Calvi e Sindona furono due pionieri della finanza offshore, che oggi è una patologia mondiale. Con lo scandalo P2 anche i vertici dei servizi segreti vengono spazzati via dalle indagini giudiziarie, quelle sul terrorismo di destra. Risultano piduisti, in particolare, tutti gli ufficiali condannati per aver depistato le inchieste sulle stragi nere, da Milano a Peteano, da Brescia a Bologna. Invece di contrastare il terrorismo, facevano scappare i ricercati con documenti falsi, distruggevano intercettazioni, nascondevano prove, pagavano i latitanti per farli tacere. Lo stesso Gelli è stato condannato come mandante del più spaventoso depistaggio di Stato: armi ed esplosivi nascosti dai militari piduisti del Sismi su un treno per Bologna. La relazione Anselmi definisce la P2 «un’organizzazione criminale» con due fasi. La prima è «eversiva»: fino al 1974 Gelli arruola soprattutto militari di destra con tendenze golpiste. E ottiene coperture internazionali da un fronte anti-comunista che va dai servizi americani alla dittatura argentina. La linea cambia in coincidenza con la caduta di Nixon per lo scandalo Watergate. A partire dal 1976 nella P2 entrano imprenditori, politici, banchieri, funzionari, giornalisti. Ora l’obiettivo è conquistare il potere salvando le apparenze della democrazia, come nel «golpe bianco» progettato dal nobile piduista Edgardo Sogno. Fuori dal perimetro dei processi penali, la P2 rinasce dalle sue ceneri. La relazione Anselmi cita Silvio Berlusconi (tessera 1816) come esempio di imprenditore favorito dalle banche controllate da piduisti, come Montepaschi e Bnl, «al di là di ogni merito creditizio». Lui smentisce (sbugiardato dalle sentenze) e negli anni Ottanta crea il suo impero televisivo, che sembra realizzare lo slogan del «piano di rinascita nazionale» sequestrato alla figlia di Gelli: «Dissolvere il monopolio pubblico in nome della libertà d’antenna». Il gruppo Fininvest accoglie molti ex affiliati, tra cui spicca Maurizio Costanzo, l’intervistatore ufficiale del «signor P2». A fare concorrenza alle tv private dovrebbe pensare la Rai, dove diventa presidente il socialista Enrico Manca: nella lista di Gelli c’era anche il suo nome, ma non si può scrivere che fosse piduista. A escluderlo è una sentenza romana firmata da Filippo Verde, un giudice che incassava soldi in Svizzera, poi assolto o prescritto da tutte le accuse. E la «prova a discarico» che scagiona Manca è una testimonianza orale di Costanzo. Che intanto ammette la propria iscrizione alla loggia segreta. Ed è tuttora il grande vecchio della televisione italiana, pubblica e privata. Della P2 si torna a parlare con Tangentopoli. A partire dal 1992 le indagini sulla corruzione svelano il ruolo cruciale di molti piduisti. Come Duilio Poggiolini, corrottissimo capo della commissione farmaci. La maxi-inchiesta Mani Pulite comprova anche lo scandalo del Conto Protezione, descritto in uno dei dossier ricattatori sequestrati nel 1981 alla Giole: una tangente di 7 milioni di dollari, versati da una società estera dell’Ambrosiano a Bettino Craxi e Claudio Martelli, su un conto svizzero prestato dal faccendiere amico Silvano Larini. Soldi chiesti da Gelli a Calvi, che in cambio ottiene prestiti dall’Eni, smistati da un dirigente socialista e piduista, Leonardo Di Donna. Nel processo simbolo per la maxi-tangente Enimont, invece, trova spazio un altro affiliato, Luigi Bisignani, scoperto a riciclare soldi della Montedison attraverso lo lor: la stessa banca vaticana del crack Ambrosiano. E di tanti scandali successivi, fino alle grandi pulizie ordinate da papa Francesco con la prima riforma anti-riciclaggio. Nel 1994, con la nascita di Forza Italia e la vittoria di Berlusconi, Fini e Bossi, tornano al governo e in Parlamento schiere di reduci della P2: da Fabrizio Cicchitto ad Antonio Martino, Vito Napoli, Aventino Frau, Publio Fiori, Gustavo Selva. Mentre Massimo De Carolis (tessera 1815) diventa presidente del consiglio comunale di Milano, prima di dimettersi dopo una condanna per corruzione (tangenti sul depuratore, divise con altri ex piduisti). Il ventennio berlusconiano è costellato di progetti di matrice piduista, di cui Gelli rivendica la paternità in un’intervista a Repubblica: leaderismo e presidenzialismo, riduzione del peso dei partiti, separazione delle carriere tra giudici e pm, attacchi ai magistrati «comunisti». Da allora, nei palazzi del potere, riemergono figure intramontabili: da Vittorio Emanuele di Savoia, riaccolto in Italia con una modifica della Costituzione, a Gian Carlo Elia Valori, il super dirigente pubblico che fu espulso dalla P2 perché faceva concorrenza a Gelli. Mentre Flavio Carboni, il faccendiere condannato per l’Ambrosiano, torna agli arresti con la cosiddetta P3 (tangenti sull’energia eolica, gestite da massoni sardi). E l’eterno Bisignani è tuttora sotto processo a Milano per corruzione, dopo essere stato intercettato con l’amico manager Paolo Scaroni mentre trattava affari con l’Eni in Nigeria e dispensava consigli a ministri. Per completare il quadro, si potrebbero citare le straordinarie posizioni di potere conquistate, anche in tempi recentissimi, dai figli ed eredi di numerosi piduisti, che però hanno diritto di non rispondere delle colpe dei padri. Per misurare la forza persistente dei legami di loggia, piuttosto, basta studiare le nuove indagini della procura generale di Bologna, che accusa Gelli e Ortolani di essere stati i «mandanti e finanziatori» dell’orrenda strage del 2 agosto 1980. Quarant’anni dopo, la ricerca di verità e giustizia continua a scontrarsi con reticenze di ex ufficiali dei servizi, documenti spariti, menzogne depistanti, mediatori che non ricordano a chi hanno consegnato valigie di soldi della P2, complicità inconfessabili. Un caso esemplare è l’interrogatorio di un generale che ha comandato il centro Sid di Padova, una roccaforte della P2. I magistrati di Bologna gli contestano che, nel luglio 1980, aveva ricevuto «il preannuncio della strage» da un giudice anti-terrorismo, Giovanni Tamburino, allertato da un detenuto di destra (poi pestato a sangue). Il generale ha 90 anni, è malato. I magistrati gli mostrano le carte dell’epoca firmate da Tamburino, ma lui nega perfino l’evidenza dell’incontro. E piuttosto di parlare, sceglie di affrontare, poco prima di morire, un’accusa infamante di falsa testimonianza sulla strage. L’ombra della P2 si allunga su molti altri delitti politici irrisolti, dall’omicidio Pecorelli all’assassinio di Piersanti Mattarella. L’ex giudice Giuliano Turone, oggi, commenta: «La P2 fa ancora paura».

Vittorio Feltri, la P2? Uno scandalo pilotato: quando i comunisti si inventarono i reati della loggia. Libero Quotidiano il 16 marzo 2021. Quaranta anni orsono scoppiò uno scandalo mai visto prima né dopo: quello della P2, cioè Propaganda 2, che era una loggia massonica segreta, ma non tanto. Successe il finimondo perché gli affiliati erano accusati di qualsiasi reato, tranne che della crocifissione di Gesù. Tutto quello che era accaduto negli anni Settanta nel nostro travagliato Paese venne attribuito ai piduisti, persone importanti che nel giro di pochi giorni passarono per incalliti criminali. Corriere (Lapresse) Licio Gelli, conosciuto come «Maestro venerabile» della Loggia P2; a sin. Fanco Di Bella che perse la poltrona di direttore del Vi risparmio quasi tutti i nomi dei presunti delinquenti, eccetto uno che ovviamente non c'entrava un fico secco: Giulio Andreotti. Il quale, pur essendo pulito come un lenzuolo fresco di lavanderia, era considerato Belzebù, tanto per dire quante fesserie all'epoca fossero prese come verità accertate. Secondo gli investigatori dei miei stivali, la P2 era una banda che finanziava addirittura il terrorismo in chiave anticomunista. Una balla gigantesca cui se ne aggiunse un'altra: la loggia, guidata da Licio Gelli, un imprenditore aretino, avrebbe invaso anche il mondo dell'informazione finanziando il Corriere della Sera e vari altri giornali per influenzare la opinione pubblica, ormai orientata a sinistra. In effetti Angelo Rizzoli, il quale aveva in giovane età ricevuto tramite eredità l'azienda fondata dal mitico nonno, obtorto collo si rivolse al Banco Ambrosiano per ottenere finanziamenti, dato che il padre aveva acquistato il primo quotidiano italiano a un prezzo superiore assai al suo valore reale: 200 miliardi anziché 60. Tragico errore che costrinse il ragazzo Angelo a chiedere aiuto. Lo ottenne dopo che gli era stata offerta la iscrizioni alla P2 in favore della quale poi non mosse un dito. Gli aderenti alla filiale massonica erano oltre 2000 e tra loro spesso non si conoscevano neppure. Ma si rafforzò il concetto errato che si trattasse di una associazione per delinquere, quando in realtà non emerse a suo carico alcun reato se non inventato e mai punito, tanto è vero che la commissione parlamentare di inchiesta assolse l'intero gruppo. Nonostante ciò nel 1981 decine di soggetti vennero ingiustamente sputtanati e obbligati a dimettersi da posti di alto livello. 

LA FINALITÀ. La prima vittima fu Franco Di Bella, eccellente direttore del Corrierone, il cui nome figurava tra i reietti assoldati da Gelli. Dovette sloggiare pur essendo immacolato come un canarino in gabbia. La sua colpa era quella di aver portato il foglio della borghesia a livelli di vendita pazzeschi. Liquidato con ignominia e sostituito da Alberto Cavallari, che fece le scarpe a Ronchey sul filo di lana quantunque non fosse capace di dirigere l'orchestra giornalista. E da questo dettaglio si capì quale fosse la finalità della cosiddetta inchiesta P2: eliminare chiunque fosse anticomunista e impedisse alle legioni di Berlinguer di dominare la scena. Infatti la candidatura di Alberto al trono di via Solferino fu fortemente sostenuta da uomini influenti del PCI, cosicché egli fu incoronato. Cavallari non ebbe poche difficoltà, poiché il Corriere uscì dallo scandalo artefatto con le ossa rotte. E la Repubblica ne fu avvantaggiata imponendosi sul mercato come concorrente pericoloso del foglio tradizionale di Milano. Con Di Bella ci lasciarono le penne molti altri, tra cui alcuni cronisti: per esempio Ciuni e Donelli, i quali erano stati cooptati nella P2 senza un autentico motivo. Pure l'arresto di Angelo Rizzoli, persona specchiata, avvenne di conseguenza pur essendo l'editore totalmente estraneo al bordello piduista. 

L'INVITO. Una pagina triste della storia Repubblicana che dimostra qualcosa di grave: la lotta politica dalle nostre parti si svolge con armi scorrette se non persino delinquenziali, come ben sa Silvio Berlusconi, condannato e perseguitato in quanto personaggio di eccessivo successo. Ora della P2 non si parla più dal momento che non c'è niente da narrare se non che fu una bolla di sapone trasformata dai compagni in una bomba atomica. Arma che ferì tanta gente inconsapevole e uccise tante carriere oneste. 

Fu un autentico disastro che pochi ricordano e molti descrivono pur essendo disinformati. Ripeto, sono trascorsi 40 anni da quei tempi schifosi, ma prima di chiudere questo articolo mi piace raccontarvi che anche io, lavorando al Corriere, venni invitato a entrare nella loggia. Mi fu consegnato da un collega il modulo da compilare. Lo misi nel cassetto della scrivania e lì lo dimenticai, così ebbi modo di schivare di essere preso a calci comunisti. Poi affermano che di Sanculo non bisogna fidarsi.

Quarant'anni dopo, quel che resta e cosa furono Licio Gelli e la loggia segreta che avvelenò e pervertì il corso della storia repubblicana. Carlo Bonini (coordinamento editoriale), Benedetta Tobagi (testo), con una testimonianza di Concita De Gregorio su La Repubblica il 17 marzo 2021. Una mattina esattamente quarant'anni fa, il 17 marzo 1981, a Castiglion Fibocchi, comune in provincia di Arezzo, negli uffici dell'allora sessantaduenne  Licio Gelli, imprenditore con un passato da ex volontario franchista nella guerra di Spagna e poi repubblicano di Salò, uomo legato all'Internazionale nera e ai regimi militari sudamericani, le liste della loggia massonica segreta P2 vengono scoperte dai magistrati di Milano. Sono 962 nomi che disegnano la geografia di un potere occulto radicato nel cuore delle istituzioni. Una rete di potere il cui programma è quello di stravolgere, fino a cambiarne forma e sostanza, l'architettura repubblicana figlia della Costituzione del 1948 e che tiene insieme i vertici dell'apparato di sicurezza, della classe politica, dell'establishment finanziario e informazione, magistratura e professione legale. È lo scandalo più grave della storia della Repubblica, destinato a segnarne il corso.

Se non altro perché quelli della loggia P2 si intrecciano, in quel passaggio decisivo nella storia del nostro Paese, mille eventi oscuri: dalla stagione delle stragi (nel 2020, Gelli sarà indicato come uno dei presidi di quella bolognese ), al rapimento e all'omicidio di Aldo Moro. Licio Gelli, dopo periodi di detenzione in Svizzera e Francia, ha continuato a vivere per oltre trent'anni a Villa Wanda, sua residenza in provincia di Arezzo, dove si è spento il 15 dicembre 2015. La sua storia e quella della P2, della sua 962 membri, non hanno mai smesso di essere quinti nell'ambito della cosiddetta Prima e Seconda Repubblica. Il sistema di relazioni e la rete di ricatti scoperti nel marzo 1981 hanno continuato a pesare sulla vita pubblica del Paese, regalandoci un'eredità tossica. 

Maledetta primavera. Nelle prime ore del mattino un Fiat Ritmo sfreccia nelle campagne della provincia di Arezzo, tra pendii verdeggianti e alberi in fiore. È diretto a Castiglion Fibocchi, borgo di duemila anime. Casualmente, quel giorno ricorre il 120 ° anniversario dell'Unità d'Italia. Col senno di poi, un presagio. Perché anche quel martedì 17 marzo 1981 sarebbe diventato una data storica. A modo suo. Una squadra di Guardie di Finanza è in viaggio in macchina, in partenza da Milano per volere dei magistrati  Giuliano Turone e Gherardo Colombo  (uno dei protagonisti, dieci anni dopo, dell'inchiesta Mani Pulite). È comandato dal maresciallo  Francesco Carluccio, energico quarantenne, originario del Salento, uno dei più abili e fidati investigatori delle Fiamme Gialle milanesi. Con lui ci sono i colleghi Concezio De Santis, Salvatore Polo e, al volante, Luigi Voto. L'operazione in cui sono impegnati è così delicata e protetta da un tale segreto che, anche loro, quando lasciano Milano per andare in Toscana, non conoscono l'oggetto. Le disposizioni sul da farsi gli furono infatti consegnate in busta sigillata. Con l'ordine di vederli solo quella mattina, al momento del loro arrivo in provincia di Arezzo. Dal 1974 Carluccio è coinvolto nella repressione dell'impero finanziario di  Michele Sindona , banchiere legato alla mafia siciliana e  pupillo  di Giulio Andreotti. Indagando Sull ' omicidio il Commissario  PAGAMENTO della banca sindoniana, l'avvocato  Giorgio Ambrosoli, sul finto rapimento messo in scena da Sindona per eludere la giustizia italiana e sulla spettrale "lista dei 500" (una lista degli attuali esportatori clandestini di capitali, tra cui - a quanto pare - grandi nomi della politica e della finanza, che Sindona ha preservato dalla bancarotta) , gli inquirenti si sono più volte imbattuti nel nome di Licio Gelli, uomo d'affari con molti interessi in America Latina, ex direttore dell'azienda di materassi Permaflex, con un passato da fervente fascista e poi doppiatore nella seconda guerra mondiale, soggetto a qualche curiosità dalla stampa. I giudici inquirenti Gherardo Colombo e Giuliano Turone stanno lavorando all'omicidio dell'avvocato Giorgio Ambrosoli e alla finta scomparsa del banchiere Michele Sindona quando, il 17 marzo 1981, la Guardia di Finanza arrivò a Castiglion Fibocchi. Nell'ufficio di Licio Gelli si trova l'elenco dei membri della loggia segreta Propaganda 2. 962 nomi, gran parte della classe dirigente italiana e dei servizi segreti. “Cinquemila fogli, passiamo due notti a fotocopiare e autenticare quelle carte - ricorda Colombo nel 2015, alla morte di Licio Gelli - ma poi la Cassazione decise che la pratica andasse a Roma e presto arrivò l'archiviazione. Non è necessario pensare male, era un fatto assolutamente ovvio, quindi, che non si poteva guardare in certi cassetti ". Il nome di Gelli è emerso anche in relazione all'omicidio del magistrato  Vittorio Occorsio , nel '76. Shroud è legato a massoni e mafiosi. Gelli ha firmato una dichiarazione giurata a suo favore e con la fantomatica loggia P2, di cui è Gran Maestro, è impegnato nella ricerca di soluzioni "politiche" al fallimento. In quel marzo del 1981, per i magistrati milanesi Turone e Colombo, ce n'era più che sufficiente per ordinare una ricerca di tutti i suoi indirizzi noti. La maestosa Villa Wanda ad Arezzo, la suite dell'Hotel Excelsior dove riposa a Roma e l'azienda di abbigliamento e confezionamento Giole, parte del gruppo Lebole, con sede a Castiglion Fibocchi: un indirizzo ritrovato in un diario sequestrato e Sindone. Il ritmo dei finanzieri è diretto lì. La ricerca avviene alla presenza della segretaria di Gelli,  Carla Venturi . Nell'ufficio del suo capo, i finanzieri trovano una valigia contenente trentatré grandi buste, come se qualcuno stesse per portare via quello che tengono. Il maresciallo Carluccio, leggendo i nomi sulle buste sigillate, è stordito: " Gruppo Rizzoli ", direttore del  Corriere della Sera , " Tassan Din ", direttore generale del gruppo, "Rizzoli / Calvi",  Roberto Calvi , presidente del Banco Ambrosiano , un altro fallito, considerato l'erede ideale di Sindona, “Contratto Eni-Petromin”. Nella cassaforte dell'ufficio, i finanzieri trovano una specie di registro, sul quale sono annotati i nomi dei membri della P2. "Non puoi estrarre questa documentazione", dice Venturi, visibilmente alterato. "Le dico che il comandante - Gelli - è un uomo potente, attento a quello che fa". Lo dice più come consiglio che come minaccia, ma Carluccio e gli altri, d'accordo con il loro superiore, il colonnello  Vincenzo Bianchi , e con i magistrati inquirenti, sequestrano tutto. Nel frattempo si è sparsa la voce della ricerca. Il Comandante in capo della Guardia di Finanza,  Orazio Giannini  telefona a Bianchi per avvertirlo che troverà il suo nome anche nelle liste della P2. Siate consapevoli - aggiunge - che ci sono le vette più alte. Stai attento, il Corpo sprofonda . In effetti, quelle carte innescano uno scandalo senza precedenti. Ma non subito. Sono anni che circolano voci e rumors sulla loggia di Gelli, ma nessuno può immaginare che coinvolga così tante figure chiave della vita pubblica e di così alto livello. Nella lista ci sono tre ministri in carica, il segretario nazionale del Partito socialdemocratico (Psdi), 24 generali e ammiragli dei tre bracci, 9 generali dei Carabinieri, 5 generali delle finanze, cento alti ufficiali, 5 prefetti , vari diplomatici, il capogruppo socialista alla Camera, i parlamentari, il direttore del  Corriere della Sera  Franco Di Bella , l'editore  Angelo Rizzoli  e il suo direttore generale  Bruno Tassan Din , alcuni noti giornalisti, dall'allora star televisiva  Maurizio Costanzo  a  Roberto Gervaso. Tra gli affiliati c'è anche  Mino Pecorelli , già direttore dell'agenzia  OP,  da anni ben informato veicolo di messaggi incrociati e ricatti, assassinato da mani sconosciute nel marzo '79. Ci sono banchieri, in primis  Sindona  e  Roberto Calvi , presidente del  Banco Ambrosiano , ma anche una ventina di presidenti e direttori generali di istituti di credito locali, come Monte Paschi a Siena, Banco di Roma, Popolare dell'Etruria. Poi ci sono magistrati importanti. E anche il vice capo del Csm  Ugo Zilletti  ( succeduto a Vittorio Bachelet, assassinato dai brigadieri negli anni '80). E poi i leader delle società pubbliche e 63 alti funzionari ministeriali, il cuore dello  Stato profondo, lo “stato profondo”, il luogo immateriale dove, lontano da occhi indiscreti, vengono prese le decisioni che contano, muovendo fiumi di denaro pubblico. Negli anni in cui l'Italia è insanguinata dal terrorismo e dalle stragi, è sconcertante scoprire che tutti i servizi top secret in carica (anche durante il rapimento di Moro) sono affiliati alla loggia Gelli, così come l'ex capo del Sid )  Vito Miceli , l'ex capo del controspionaggio  Gian Adelio Maletti , uno degli investigatori di piazza Fontana, e  Federico Umberto D'Amato , già potentissimo dirigente dell'Ufficio Affari Riservati del Ministero dell'Interno. Trasferita la documentazione a Milano con molta scorta, Colombo e Turone applicano ogni cura per evitare il rischio, e il sospetto, di manipolazioni. E fanno bene. Ancora oggi, infatti, si sta tentando di contestare l'autenticità di quelle carte, sebbene abbia invece trovato molteplici conferme (Turone e Colombo, ad esempio, ripercorrono gli assegni con cui Gelli ha pagato le quote associative alla loggia). I due magistrati ritengono fondamentale mettere in guardia le massime autorità statali. Il presidente della Repubblica Sandro Pertini è all'estero, così si rivolgono al presidente del Consiglio, il democristiano  Arnaldo Forlani . Convocati il ​​25 marzo, dopo ore di anticamera e disavventure surreali, vengono accolti a Palazzo Chigi dal prefetto  Mario Semprini , capo di gabinetto e tessera P2 numero 1637. Forlani resta letteralmente a bocca aperta. Per alcuni, infiniti minuti, non riesce ad articolare nient'altro che suoni gutturali. Farfuglia, cerca di minimizzare, ma davanti a un documento sequestrato recante la firma del suo ministro di Grazia e Giustizia, Adolfo Sarti, deve arrendersi. Promette di esaminare la questione. In effetti, ritarderà solo. Attendere il tempo per lo spegnimento del "sistema P2". Le pressioni iniziano. E, con loro, le allusioni minacciose. Il procuratore capo di Milano propone di restituire a Gelli almeno le 33 buste sigillate, poiché - sostiene - non è certo che contengano notizie di reato. Turone e Colombo, sbalorditi, lo ignorano. Da quelle buste sono scaturite numerose linee di indagine, tra cui quella sul "Conto di protezione", creata presso una banca svizzera per trasferire 7 milioni di dollari di finanziamento illecito a beneficio dei socialisti di  Bettino Craxi  (condannato per questo negli anni '90) . Solo rendendo pubbliche le liste si possono ostacolare ulteriori ostacoli nell'ombra. Ma Palazzo Chigi tace. Il 18 maggio Gelli ha annunciato di aver chiesto a Forlani di mantenere il segreto sui soci. Perché il gesto - avverte - "potrebbe avere ripercussioni a livello internazionale". E il presidente del Consiglio, docile, dichiara che l'eventuale pubblicazione è di esclusiva competenza dei magistrati, che vengono così messi sotto controllo. Infatti, se decidessero di rendere note le liste, verrebbero accusati di aver violato il segreto delle indagini. Sblocca la situazione il presidente della Commissione parlamentare sul caso Sindona, il socialista  Francesco De Martino. Sarà la Commissione a pubblicarli, annuncia, mettendo il governo in un angolo. Alle 23.35 del 20 maggio 1981, l'ufficio stampa di Palazzo Chigi ha diffuso le 65 cartelle con nome, città e professione dei 962 affiliati. Il giorno dopo, il documento è sulle prime pagine di tutti i giornali. Il terremoto che segue è di proporzioni senza precedenti. Il 26 maggio Forlani si è dimesso, aprendo la crisi di governo. Il 13 giugno il piduista Di Bella lascia la direzione del  Corriere della Sera . Dal 1977, infatti, la P2, sfruttando i debiti di Rizzoli, aveva preso (occultamente) il controllo del quotidiano Via Solferino, che sta attraversando la peggiore crisi della sua storia, perdendo 100.000 copie e firme prestigiose come Enzo Biagi. Il 28 giugno 1981 si insediò il primo governo a guida non cristiana, il presidente del Consiglio, il repubblicano  Giovanni Spadolini . Ma la battaglia contro il polpo piduista è appena iniziata. Il giorno prima della pubblicazione delle liste, Gelli aveva dettato la linea di condotta in un'intervista a  Tempo  con il giornalista  Franco Salomone (altra voce P2). In caso di domande su una possibile appartenenza alla P2, dice Gelli, "prima di tutto negherei". Ed è a questa linea che aderiscono i membri della loggia. Con pochissime eccezioni, gli affiliati negano, anche di fronte all'evidenza, con grottesca ostinazione e disprezzo per il ridicolo, come i tanti ottimi imputati che, prima e dopo di loro, ripeteranno "non ricordo" o "a mia insaputa . " A dare loro una mano forte, inoltre, sono le indagini amministrative preliminari disposte da Forlani e la commissione istituita dal Ministero della Difesa per valutare le responsabilità dei militari, compresi i vertici dei servizi segreti. Le due indagini infatti giudicano inattendibili gli elenchi, dando per scontata la parola degli interessati. I segretari dei principali partiti si comportano come le tre scimmiette, ironia della sorte il deputato radicale Massimo Teodori: "Non vedo, non sento, non capisco". Poi il colpo di grazia che deve soffocare le indagini impedendole di andare fino in fondo: la Procura di Roma solleva un conflitto di giurisdizione per strappare l'inchiesta ai magistrati milanesi, ipotizzando il reato, gravissimo, di associazione a delinquere ai danni di lo Stato, e il 2 settembre 1981 la Corte Suprema si è pronunciata a suo favore. La giuria chiamata a deliberare è presieduta da un giudice che, contestualmente, difende un magistrato iscritto alla P2 in un procedimento disciplinare innanzi al Csm. Non appena la Roma riceve le indagini, l'allarme, magicamente, si sgonfia. Tuttavia, il 23 settembre 1981, dopo una lunga gestazione alle Camere, viene istituita una commissione parlamentare d'inchiesta "per accertare l'origine, la natura, l'organizzazione e la consistenza dell'associazione massonica denominata Loggia P2" arginale a levigatura. La presidente della Camera  Nilde Iotti  chiede a Tina Anselmi di presiederla  . E lo fa con abile mano: l'onorevole comunista teme infatti le possibili indicazioni del presidente del Senato  Amintore Fanfani , vicino a Forlani, e spiazza tutti proponendo un esponente democristiano, ma atipico. Anselmi, come lei, ha combattuto nella Resistenza; si è fatta le ossa nelle battaglie sindacali nelle filature venete, è stata la prima donna ministro. La scelta, fortemente voluta da Pertini, è vincente. È difficile immaginare chi altro avrebbe potuto resistere con la stessa determinazione alle pressioni senza precedenti del lavoro della commissione. Già nel giugno 1982, ad esempio, il segretario del Quirinale  Antonio Maccanico  registrava, nei suoi diari, le pressioni   del segretario della Dc Flaminio Piccoli perché la Commissione P2 venisse "barricata": Pertini "dovrebbe chiamare Anselmi e dirle di fine ". Immaginare. Non è una sorpresa: quando Calvi è stato arrestato, lo stesso Piccoli, insieme a Craxi, ha tuonato alla Camera che "il lavoro dei tribunali troppo spesso va oltre il diritto alla politica". Il sistema politico metabolizza lo scandalo con velocità inquietante. La permanenza di Spadolini a Palazzo Chigi (che si è opposto alla nomina del piduista di Di Donna alla presidenza dell'Eni e, tramite il ministro Andreatta, a un accomodamento del crack ambrosiano con denaro pubblico) è breve. Nell'agosto 1983, infatti, è stato istituito il primo governo Craxi. E il suo vicepresidente è Forlani, il "cronometro" del 1981, mentre il segretario del Psdi  Pietro Longo  (iscritto alla P2) è ministro del Bilancio, il socialista  Silvano Labriola  (iscritto alla P2) presiede la Commissione Affari Costituzionali del Camera. Con un decreto  ad hoc , Craxi salva il nascente impero televisivo privato dell'imprenditore  Silvio Berlusconi, scheda P2 n. 1816 (Gelli, invece, era stato un convinto sostenitore dell'importanza di "rompere il monopolio della televisione di Stato"). Intanto, a due anni esatti dalla scoperta delle liste, il 17 marzo 1983, il giudice istruttore  Ernesto Cudillo  del tribunale di Roma conclude le indagini sulla P2 con una sentenza di assoluzione generale. La rimozione e la levigatura continuano a riemergere nei decenni successivi, fino ad oggi: una mischia estenuante tra denunce, rivelazioni, indagini, da un lato, e un sistema gelatinoso, dall'altro, che sembra assorbire tutto senza scosse, o quasi . Perché la democrazia è una lotta che non permette riposo o facili consolazioni. Che è poi la stella polare che continuerà a guidare i lavori della commissione Anselmi. Nonostante gli attacchi e le difficoltà, la Commissione P2 ha svolto un lavoro ampio e rigoroso nel corso di tre anni. La relazione finale, approvata a maggioranza, presentata alle Camere il 12 luglio 1984, espone alcuni punti chiave. Innanzitutto, accertare l'autenticità delle liste, sulla base di un gran numero di reperti, documentari e testimonianze. Gli elenchi, tuttavia, sono incompleti. La Commissione ipotizza l'esistenza di una "piramide rovesciata" sopra il vertice. Molti, negli anni, hanno indicato Andreotti come il vero leader nell'ombra, il potente Belzebù dietro Gelli-Belfagor, per dirla con la metafora provocatoria di Craxi. La Commissione documenta anche i rapporti della Loggia "con ambienti e situazioni fuori legge". Il terrorismo nero, prima di tutto: Gelli e la P2, ad esempio, sono stati lo sfondo politico, economico e morale della strage sul treno Italicus del 1974. Parallelamente, le indagini avviate nel 1984 sul nucleo piduista del Sismi portano a finale la proiezione della strage di  Bologna  per Gelli, gli ufficiali del Sismi  Pietro Musumeci  (P2) e  Giuseppe Belmonte  (massone ma non P2) e il potente uomo d'affari Francesco Pazienza , legato  a Gelli, il leader piduista del Sismi Ronald Reagan. Non Bisogna Farsi ingannare dal  côté grottesco di Gelli e molte delle sue pittoresche tavolette. La P2 ha realizzato "un'infiltrazione ragionata e massiccia nei più importanti centri decisionali, sia civili che militari", in un disegno di potere occulto progettato per svuotare la democrazia dall'interno, al punto da renderla una farsa. Fino al 1974 la loggia flirtava con ipotesi di colpo di stato (anni dopo fu ricostruito il coinvolgimento di Gelli nel tentato colpo di Stato di Borghese nel 1970). Nella seconda metà del decennio, la P2 conobbe una crescita impetuosa e optò per un disegno politico più raffinato, anticomunista, filoatlantico e presidenziale, sintetizzato nel "Piano del Rinascimento Democratico" risalente al 1975-'76 ( sequestrato il 4 luglio 1981 a Fiumicino a  Maria Grazia Gelli , figlia del Venerabile, insieme ad altri documenti nascosti nella fodera di una valigia). Negli anni della Guerra Fredda, il PCI (che rappresenta un terzo dell'elettorato) non può andare al governo, ma esercitare la sua influenza solo attraverso il Parlamento: l'introduzione del presidenzialismo avrebbe quindi un colore antidemocratico. Dall'affermazione del centrosinistra alla "solidarietà nazionale" tra DC e PCI (alla quale la P2 si era ferocemente contraria), l'Italia sta vivendo un progressivo spostamento a sinistra dell'asse politico e sociale e l'approvazione di riforme di eccezionale importanza, un aspetto della storia purtroppo troppo spesso oscurato dallo scoppio della violenza terroristica. Il principale ispiratore di questo travagliato percorso fu  Aldo Moro , che per tutta la vita coltivò una visione progressiva e inclusiva della democrazia, il cui scopo era una sempre più ampia integrazione delle masse popolari nelle istituzioni, con la mediazione dei grandi partiti. P2 teorizza e supporta una strategia di segno opposto. Il rapporto Anselmi ricostruisce l'ascesa di Gelli all'interno del Grande Oriente d'Italia (GOI), la principale obbedienza massonica italiana, nella quale riuscì a penetrare in profondità con i consueti metodi ricattatori, approfittando poi del prestigio e della tutela dell'antica istituzione. Umberto Eco centra il punto nel racconto a fumetti  Quando sono entrato in PP2 : "Certo che usiamo un fratello della loggia coperta, ma travestito da massone esposto, di chi può girare liberamente con il cappuccio", ha detto un sottomesso e molto senza fantasia Gelli Licio: “Capisci la scoperta? Chi va a guardare sotto il cofano di un fratello? " L'odore di zolfo dello scandalo P2 resta attaccato alla Massoneria in generale. I "fratelli" reagiscono con indignazione quando la loro istituzione è associata a fenomeni criminali. Tuttavia, ci si deve chiedere qual è il significato di un'associazione segreta come la Massoneria in una società aperta. Per le sue caratteristiche, infatti, rimane un potenziale nascondiglio e luogo ideale per influenze illecite. Dietro un processo apparentemente democratico, la "fratellanza" può consentire a una persona o impresa di essere ingiustamente privilegiata rispetto a un'altra. Aggira o piega le regole della concorrenza e del mercato. Sostituisci l'obbedienza con il merito. Tra i punti di forza di P2 c'era la possibilità di garantire agli affiliati favori, appuntamenti, promozioni, concessioni di credito o bloccarli. Ha sfruttato l'adulazione e l'ambizione personale tanto quanto temeva il ricatto. Da non sottovalutare anche il rischio e le implicazioni del caratteristico vincolo "all'obbedienza", dove il "fratello" ricopre incarichi di responsabilità e deve prendere decisioni importanti, magari in un'indagine, nello svolgimento di un processo, in una nomina, in un arbitrato. Per questo la presenza della Massoneria in settori come quello bancario e finanziario continua a far sorgere voci allarmanti. Fiammetta Borsellino ha puntato il dito contro la "Procura massonica" di Caltanissetta. Logge più o meno coperte e irregolari sono state coinvolte nelle principali indagini su mafia e ndrangheta. Nel settembre 2014, sul  Corriere ,  Ferruccio De Bortoli ha  evocato "un odore stantio di Massoneria" dietro il tanto discusso "Patto del Nazareno" e il governo di  Matteo Renzi , un   fumus massonico evocato in modo goliardico dal comico Maurizio Crozza in uno sketch sul senatore toscano Denis Verdini, ex Berlusconi alleato di Renzi, a suon di battute su brioches e "cappe" al  bar . P2 è una storia di uomini, parassita di  "intrecci e legami incrociati di ambienti squisitamente maschili" , scriveva  Dacia Maraini : l'ambiente massonico e i servizi politici, militari e segreti, quello della criminalità organizzata e del potere finanziario, delle banche e il Vaticano, "un misto esplosivo di arroganza e presunzione". Le poche tavolette hanno ruoli ausiliari. Dalla fedele segretaria  Carla Venturi, alla figlia del Venerabile, Maria Grazia, che davanti alla Commissione P2 non solo nega, secondo le indicazioni del padre, ma si svolge in una serie di luoghi comuni patriarcali. "La curiosità è femmina", dice, per giustificarsi guardando i documenti di suo padre, che, aggiunge, "se fossero cose importanti, non li darebbe a una figlia". Fino agli irresistibili consigli da Donna Letizia per nascondere scottanti documentati nel doppiofondo di a bag, "it Tagliata le Fode (della Valigia,  RPM ) with a orecchino e poi - sono una donna, quindi I always dietro August and edge - it ricucito dopo have mettici sopra queste buste ”,  et voilà . Quindi probabilmente non è un caso che, in questa storia tutta al maschile, Nemesis abbia un volto femminile: quello di  Tina Anselmi , prima di tutto, ma non solo. Lia Bronzi Donati , ad esempio, la grande Maestra della tradizionale loggia femminile, tra le pochissime donne al potere in Massoneria, ha testimoniato per l'accusa al processo per la strage di Bologna. Ha parole di fuoco per Gelli e il Gran Maestro  Lino Salvini , e riferisce che sapeva che anche Andreotti era un affiliato. A Bologna ha testimoniato anche  Nara Lazzerini, una raffinata signora pisana di mezza età dallo sguardo tranquillo che era l'amante di Gelli, nientemeno, e dopo l'abbandono da parte di lui (per nascondersi) racconta con il sorriso di tutti i potenti che ha visto passare per la suite dell 'Hotel Excelsior, portando anche un diario. Nara Lazzerini, segretaria privata di Licio Gelli dal 1977 e compagna del tenente colonnello Vito Alecci, iscritto alla P2 e poi morto in circostanze misteriose, racconta a Enzo Biagi la sua vita con il capo della Loggia P2. E infine  Elisabetta Cesqui , il premier che, dal 1985, ha dovuto riprendere le indagini penali su tante figure chiave della P2, guidata da Gelli, per cospirazione politica e attentato alla Costituzione. In effetti, ci fu un colpo di stato: nel 1983, la Procura generale capitolina aveva impugnato l'assoluzione di Cudillo, riaprendo il caso. Cesqui affronta il compito con una determinazione pari a quella di Tina Anselmi, praticamente da sola. Il suo lavoro è ostacolato anche da intimidazioni e aggressioni, come l'inchiesta contro di lui basata sulla denuncia di un piduista, che si trascina per due anni, prima che ne venga riconosciuta la totale infondatezza. Dopo sei anni di indagini, nel 1992 si apre a Roma il processo contro i dirigenti della P2. Nel 1994, la sentenza di primo grado assolve tutti gli imputati dalle principali accuse, Gelli viene condannato solo per reati minori (calunnia, appropriazione indebita, reperimento di informazioni destinato a rimanere segreto nell'interesse della sicurezza dello Stato), poi prescritto. La proverbiale montagna che fa nascere il topo? In tribunale, certo, ma le indagini condotte da Cesqui aiutano a capire meglio il fenomeno P2. Con la pubblicazione delle liste diventa evidente lo stretto legame tra P2 e servizi segreti. Infatti, la stessa P2, osserva Cesqui, è stata assimilata per molti aspetti a un "servizio parallelo", per l'assoluta centralità assegnata all'informazione come strumento di influenza, controllo e, soprattutto, ricatto. "Gelli mi ha detto che tutte le persone che sono passate dalle stanze del suo appartamento al primo piano dell'Excelsior sono state filmate e le conversazioni registrate",  racconta Nara Lazzerini. "Mi stava dicendo che questa era la sua forza." Il massone materasso "ha perfezionato e diffuso la pratica della fotocopiatura e dell'avvolgimento", scrive il giornalista Gianfranco Piazzesi. Non che fosse una sua invenzione, sia chiaro, ma "l'uso strumentale di documenti e registrazioni è diventato, dopo di lui, un'arma di lotta politica quasi quotidiana". Anche se il principale "arsenale" del Venerabile non è mai stato completamente recuperato. Il 28 maggio 1981, una settimana dopo la pubblicazione delle liste, in Uruguay la polizia locale fece irruzione nella residenza di Gelli a Carrasco, vicino a Montevideo, e sequestrò, in una stanza nascosta da un falso muro, il grande archivio in cui il Venerabile si era trasferito all'estero. 1978. Si tratta di oltre 500 fascicoli. Tra i titolari, tutti i responsabili dei servizi, il presidente  Leone,  Andreotti,  Moro,  Berlinguer,  Piccoli,  Nenni,  Craxi,  De Michelis,  Colombo,  Evangelisti,  Fanfani,  Cossiga… Poco dopo, il nuovo capo del Sismi, il generale Ninetto Lugaresi, lanciò la cosiddetta "Operazione Minareto" per cercare di riportarli in Italia; Casualmente alcuni democristiani e socialisti chiedono anche la testa al Quirinale, oltre a quella di Anselmi, e si muove anche la Cia, preoccupata che Gelli abbia documenti Nato riservati. Nella seconda metà del 1982, meno di un terzo dei file singhiozzava. Tra questi ci sono alcuni dossier illegali della Sifar - il primo grande scandalo dell'intelligence repubblicana alla fine degli anni '60 - che in teoria avrebbero dovuto essere inceneriti nel 1974, sotto la responsabilità del ministro della Difesa Andreotti. L'esecutivo italiano ha riaperto le trattative per ottenere il resto dell'archivio nel 1985, ma il governo civile succeduto alla dittatura militare di Montevideo non ne trova traccia. Poi, silenzio. La maggior parte dell'archivio uruguaiano non è mai stata trovata, come la famigerata "lista dei 500" di Sindona, il manoscritto completo di Moro nella prigione del brigadiere e molto altro. La palla del ricatto si avvolge attorno ad essa, sigillando segreti destinati a marcire sotto la pelle del Paese. Oltre al ricatto, il "sistema P2" fa leva sulla corruzione, sistematica e pervasiva. Un  Memorandum sulla situazione politica italiana  stima che "con l'attuale sistema di adesione alla DC" basterebbero una decina di miliardi "per  comprare  il partito" e altri 5-10 miliardi potrebbero rompere l'unità sindacale ", il peggior nemico della sostanziale democrazia che vogliamo ripristinare ”. Nel  piano del Rinascimento democratico afferma che "la disponibilità di cifre non superiori a 30 o 40 miliardi sembra sufficiente per consentire a uomini di buona fede e ben selezionati di conquistare le posizioni chiave" necessarie al controllo dei partiti, della stampa e dei sindacati. Ma i soldi per corrompere da qualche parte devono essere presi. Spessi legami finanziari, nazionali e internazionali, legano P2 e Cosa Nostra, mentre l'infiltrazione massonico-piduista delle Fiamme Gialle, oltre a tutelare questi rapporti illegali, consente enormi frodi fiscali. E poi c'è la Banca Ambrosiana. Molte carte sequestrate il 17 marzo '81 stanno entrando nel processo di fallimento della principale banca privata italiana, un baratro da miliardi di dollari a cui P2 ha contribuito molto (anche se è stato lo IOR a fare la parte del leone). Roberto Calvi  Presidente della Banca in operazioni riservate. Una commissione parlamentare d'inchiesta istituita in Inghilterra per indagare sul rapporto tra la  polizia cittadina di  Londra e la Massoneria (simile alla nostra Commissione P2) ha riscontrato l'interferenza massonica nelle indagini britanniche sulla morte di Calvi, trovata impiccata al Blackfriars Bridge di Londra il 18 giugno 1982. Lo stesso banchiere aveva affermato che "per essere qualcuno nella City di Londra" bisognava essere affiliati ad una loggia: certe patologie del potere, insomma, non sono solo italiane. Le indagini sulla sua morte non hanno raggiunto conclusioni definitive, ma hanno escluso il suicidio. Nell'inchiesta sul crack dell'Ambrosiano, accanto a Gelli spicca più nitida la figura della tavoletta  Umberto Ortolani. Avvocato e uomo d'affari con ottimi ingressi in Vaticano, titolare del Banco Financiero Sudamericano (Bafisud) a Montevideo, discreto quanto istrionico Gelli, era il "tecnico" esperto di manovre bancarie e finanziarie internazionali, mentre il suo collega teneva le fila dei rapporti con il mondo politico ed economico. Il processo accerta "l'esistenza di un piano criminale che dietro il paravento della riabilitazione del gruppo Rizzoli prevedeva, come scopo preponderante, l'arricchimento dei suoi promotori e attuatori", Ortolani, Gelli e Tassan Din. Innanzitutto "attraverso la distribuzione di denaro dalle casse del Banco Ambrosiano" scrive la Corte d'Assise di Milano: "una vera e propria attività di distrazione e saccheggio", attraverso un flusso di grossi bonifici passati sui conti della società panamense Bellatrix per poi diffondersi a una moltitudine di conti esteri. Il processo si è concluso nel 1998, confermando pesanti condanne ai principali imputati: 12 anni a Gelli e Ortolani, 8 nel birrificio   aziendale  Flavio Carboni, a cui Calvi aveva fatto affidamento negli ultimi mesi di vita, e Francesco Pazienza, già condannato come rivelatore della strage di Bologna (Tassan Din aveva contrattato per 8 anni). E i geroglifici relativi al traffico di denaro da e verso conti criptati, annotati sul cosiddetto "documento di Bologna", ritrovato sul Venerabile al momento del suo arresto a Ginevra, sono al centro dell'ultima indagine sulla strage del 2 agosto. , che ha ricondotto parte di quel sostanzioso riciclaggio di denaro al finanziamento della bomba alla stazione. Il processo romano alla P2 ha concluso che la loggia era prevalentemente un "comitato d'affari" per diminuire il suo valore politico. In effetti, il denaro era necessario non solo per l'arricchimento personale, ma per manovre corrotte volte ad aumentare il potere e l'influenza politica. Il Documento di Bologna, che Licio Gelli aveva con sé quando fu arrestato in Svizzera il 13 settembre 1982. Si leggono cifre manoscritte, conti bancari, nomi in codice dei beneficiari: 9 milioni e 600mila dollari complessivi, pagati nei mesi delle proiezioni dopo la strage, fino al 12 febbraio 1981. Carlo Azeglio Ciampi , in una delle ultime interviste, ha avvertito che “in Italia non è mai stata data abbastanza importanza a quello che era la P2, ma Villa Wanda è ancora aperta e il proprietario è ancora lì, vivo e vegeto - Licio Gelli sarebbe scomparso a Dicembre 2015 - e molti degli aderenti a quella loggia massonica […] sono ancora in circolazione. La stagione della P2 non è mai finita, ha continuato ad agire sui binari, continuando a inquinare le istituzioni italiane. Il fatto che non abbiamo sradicato questo cancro fino alla fine è una grande croce ". Il presidente emerito era stato primo ministro nella torbida stagione del 1993, tra il ritorno delle bombe (attentati in cui molti segnali simbolici rimandano alla Massoneria) e oscure manovre destabilizzanti intorno a Palazzo Chigi e al Quirinale. Nell'inchiesta sulla cosiddetta P3, partita da un'indagine per corruzione per ottenere grossi contratti nel settore eolico, è ricomparso nientemeno che l'imprenditore Flavio Carboni (l'imprenditore affidato a Calvi, poi processato per la morte del banchiere). A row Tesse le cosiddetta P4 ricompare invece di  Luigi Bisignani , "L'uomo che ai sussurrava potenti" secondo il titolo del suo sussiegoso  memoir, un brillante giovane giornalista affiliato alla P2. Ancor più che i nomi restituiscono i meccanismi, le modalità di gestione ufficiosa del potere, sempre dietro le quinte, attraverso le relazioni, la corruzione, il ricatto. Nel 2013 Ezio Mauro ha descritto l'arcipelago di affari e influenza in cui si è trasferito Bisignani un blocco di potere in qualche modo eterno, perché incastonato sui muri dell'edificio, come ragnatele, si estende sul sistema del potere apparente. La sua esistenza è un segreto di Pulcinella per chi ha occupato o frequentato i centri decisionali della politica, della finanza e dell'informazione. È organizzato in modo tale da passare attraverso le maglie della legge, sfuggente, invisibile, indimostrabile. La più grande beffa del diavolo, d'altra parte, è convincere il mondo che il diavolo non esiste. Un potere che collega mondi apparentemente stranieri, lontani da occhi indiscreti, come il "mondo di mezzo" di  Massimo Carminati , ex Nar e Banda della Magliana (due criminali la cui storia spesso interseca quella della P2), in cui si incontrano tutti ”, perché "Anche la persona nel supermondo ha interesse che qualcuno negli inferi gli faccia cose che nessuno può fargli". Una cerniera tra legalità e illegalità o "rete del potere illecito", categoria utilizzata per analizzare efficacemente anche la loggia P2. Gustavo Zagrebelsky ha parlato di una sorta di "piduismo perenne", ovvero "l'affermazione di una gerarchia perversa e brutale dei fattori della vita sociale", che si manifesta nel ridimensionamento della sfera pubblica dello Stato a favore di gruppi privati, crocevia di interessi, a volte criminali, sempre segreti. Una perversione in cui i più deboli hanno tutto da perdere. Insomma, è tutt'altro che storia passata.

Nella casa del diavolo di  Concita De Gregorio. Era un martedì di settembre 2003, diciotto anni fa. Cielo sereno, temperature miti, Silvio Berlusconi presidente del CdA. Fabrizio Cicchitto, anche lui ex socialista, appena nominato ai vertici di Forza Italia. Temi del dibattito politico in quelle settimane: la riforma del sistema televisivo e della giustizia. Due dei capisaldi del Piano Rinascimentale. Berlusconi e Cicchitto erano entrambi affiliati alla Loggia P2. Licio Gelli aveva 84 anni quel settembre e scriveva poesie. Ha vinto molti premi, i suoi amici lo avevano nominato per il Premio Nobel per la letteratura. Aveva risposto al telefono solo una volta, dicendomi che purtroppo le sue liste d'attesa erano sature. Da allora, il numero aveva suonato vuoto. Sono andato a Castiglion Fibocchi, non è stato difficile trovare Villa Wanda: non c'erano i navigatori satellitari, ma tutti nella campagna aretina sapevano dov'era. Cancello in ferro battuto, nome della villa in caratteri d'oro, citofono vecchio stile: rotondo, un semplice pulsante di metallo. Due telecamere puntate sull'escursionista. Attraversando un giardino abitato da putti mostri di pietra e venerati nudi ricoperti di muschio, fui accolto da una corpulenta governante in divisa. Hai un appuntamento? No. Attendere qui. Sala d'attesa al piano terra, due elefanti di porcellana, cuccioli a grandezza naturale. Sulle pareti icone russe, pupazzi siciliani, sul tavolo di vetro un telefono rosso e un vassoio d'argento pieno di caramelle al limone. Il Venerabile è apparso da una porta a scomparsa, mimetizzata da seta damascata sulle pareti. Era lusingato dalla visita, ha detto. Non ha mai detto che fosse inaspettato, anzi: voleva dare l'impressione di aver fatto ogni altro sforzo per me. L'arrampicata attraverso labirinti di scale a chiocciola e labirinti di corridoi mi ha portato in un tour della villa, portandomi prima a visitare l'imponente archivio: Prima mi ha parlato del padre di Massimo D'Alema, chiedendomi se lo conoscevo. A lui deve essere sembrata una cortesia mettermi a mio agio: era un suo caro amico e aveva molto rispetto per lui, diceva. Ho esitato e ho chiesto dettagli, nel futile tentativo di metterlo a disagio. Mi ha chiesto notizie del mio editore. Ne avevo di generici, in cambio mi ha dato dei suoi copiosi e dettagliati. È seguito un monologo di quasi un'ora in cui ha sfoggiato la sua arma più potente: la memoria. Riuscì a ricordare, ritrovato negli appunti, l'indirizzo completo del numero civico della prima casa romana di Giorgio Almirante, i nomi dei figli di Attilio Piccioni e da lì ricostruire nel dettaglio il caso Montesi che coinvolse uno dei tre, il numero del conto corrente sul quale fece quel certo bonifico sessant'anni fa. Trasferito nel suo minuscolo studio, mi disse, sotto lo sguardo incorniciato di avorio della moglie, che Mani Pulite era stata solo una questione di corna. Quella corruzione era peggiore oggi di allora: prima era preso il 3 per cento, ora 10. Diceva che non aveva mai fatto nulla di illegale - "Sono stato assolto da tutto" - e ha continuato a fare piccoli cammei di Andreotti ("se fosse un'azione sul mercato mondiale avrebbe migliaia di compratori ") di Fini (" Lo vedo, povero caro, un po 'offuscato ") di Berlusconi (" un uomo straordinario, fa quello che vuole ") di Cossiga (" un mente lucida, conversare in tedesco ”). Ha parlato di Moro, Maurizio Costanzo, Gianni Agnelli e Giovanni Leone. Tutti guardano un punto del muro, come se li vedessero proiettati sul muro. Quattro ore dopo, mi ha licenziato, consigliandomi di guidare lentamente al buio. Ero in piedi al parcheggio di Badia al Pino sull'autostrada A1 quando il mio cellulare ha squillato. Voleva chiedermi discrezione, credendo tardivamente che non avrei mantenuto la sua parola. Ma lo disse senza convinzione, debolmente. In effetti, tutto quello che voleva era chiamarmi. Lo ha fatto con un numero diverso da quello che gli avevo lasciato. Il mio privato, noto solo alla famiglia, ha suonato. Come ottieni questo numero? Ho chiesto. "Ma signora," rispose con indulgenza, e riattaccò in coda a un addio barocco. Lo ha fatto con un numero diverso da quello che gli avevo lasciato. Il mio privato, noto solo alla famiglia, ha suonato. Come ottieni questo numero? Ho chiesto. "Ma signora," rispose con indulgenza, e riattaccò in coda a un addio barocco. Lo ha fatto con un numero diverso da quello che gli avevo lasciato. Il mio privato, noto solo alla famiglia, ha suonato. Come ottieni questo numero? Ho chiesto. "Ma signora," rispose con indulgenza, e riattaccò in coda a un addio barocco.

Archeo-Dago il 19 marzo 2021. Per capire quanto fosse ramificato il potere di Gelli, basti ricordare un episodio raccontato a Bruno Vespa da Giulio Andreotti: “Quando si sparse la voce che esistevano foto di Giovanni Paolo II che nuotava in piscina, mi adoperai per bloccarne la pubblicazione. Era un doveroso atto di riguardo verso il pontefice. Chi venne a portarmi le foto? Gelli. Me le consegnò con la preghiera di farle recapitare in Vaticano...”

Licio Gelli. Luca Serafini per il “Corriere di Arezzo” il 18 marzo 2021. “Se oggi ci fosse ancora lui Arezzo sarebbe in zona bianca.” Il commento, iperbolico, è apparso in questi giorni sui social. E il “lui” in questione è Licio Gelli, l’ex maestro venerabile della P2, la loggia coperta di cui oggi ricorre il 40° anniversario della scoperta della lista con oltre 900 nomi. Fu trovata alla Giole di Castiglion Fibocchi, l’azienda di abbigliamento dove gli inquirenti cercavano altro. Fu l’inizio di uno scandalo che scosse l’Italia. Un terremoto che il 17 marzo 1981 investì politica, istituzioni, forze dell’ordine, servizi segreti ma anche mondo dello spettacolo e giornalismo. Con le luci della ribalta su quel personaggio, il “burattinaio”, poi legato a fatti e misfatti dal fascismo, alla guerra, al boom economico, alla alle stragi che hanno insanguinato il Paese. Un uomo dipinto di nero ma anche di carisma, con una marcia in più. Nel bene e nel male. Con seguaci e nemici. Condannato e collegato a bombe, bancarotte e depistaggi. Eppure ancora ammirato perché “quando c’era lui...”, scrivono in molti, le cose andavano meglio. Nostalgia gelliana che attraversa questo periodo di trasmissioni tv, rubriche, documentari sui 40 anni dello scandalo Propaganda 2. L’organizzazione di cui Gelli teneva i fili per un mutuo soccorso tra aderenti e con la velleità di dettare le regole all’Italia per rifondarla. Lasciando a storici ed esperti la rilettura di questa storia giudiziaria, politica e sociale, ad Arezzo resta ancora aperta la questione del destino del luogo dal quale Gelli - morto qui il 15 dicembre 2015 - esercitava il suo potere: villa Wanda. Dove riceveva i big, faceva e riceveva telefonate influenti, nascondeva lingotti nelle fioriere, disegnava misteriose trame, scriveva poesie e parlava con il merlo indiano. Tra fiori e pezzi di antiquariato, tesori, dipinti, poltrone e vassoi stracolmi di caramelle. Bene, Villa Wanda resta ancora in sospeso per quanto riguarda il suo destino. Valutata circa un milione di euro dall’Erario, lo Stato non è riuscito a sfilarla a chi attualmente la possiede, la società Sator con la vedova Gabriela Vasile e il nipote del Venerabile, Alessandro Marsili. Il tentativo fu quello di agganciarsi alla legge sui mafiosi o comunque sui criminali incalliti, che consente di sequestrare i beni anche dopo la loro morte. Ma la giustizia ha negato la confisca: quando negli anni Sessanta il Gelli acquisto la villa da Mario Lebole, lo fece con soldi che fino a prova contraria erano il frutto del suo lavoro di manager. Non denaro legato a vicende delittuose. E sul suo conto non era aperta nessuna delle inchieste che poi formarono un groviglio, più o meno meritato. La proprietà della Villa, tuttavia è ancora in discussione perché l'Agenzia delle Entrate cerca da anni di far dichiarare nullo il passaggio di proprietà da Licio Gelli ai figli (società Vali) e successivamente alla Sator per renderla aggredibile rispetto al debito dei Gelli col fisco. In primo grado ad Arezzo il giudice Alessandra Guerrieri ha chiuso la porta in faccia all’Erario. Che ci riprova. Il 13 aprile prossimo sarebbe stato in programma il processo di appello a Firenze: tutto saltato per problemi legati al Coronavirus. Nuova data: 15 ottobre 2021. Si occupano del caso gli avvocati Loriano Maccari, Gian Luca Castigli, Riccardo Scandurra. Villa intanto restaurata - il tetto andava in malora - ma non può essere venduta per il laccio che persiste. L'Agenzia delle Entrate vuol cancellare l'atto di vendita per riportarla nel patrimonio dei Gelli e quindi attaccarla per riparare almeno in parte al buco di circa 10 milioni per tasse non pagate da Licio e dai familiari.

Licio Gelli, quel megalomane di provincia diventato potente per caso. Un uomo bugiardo. Che solo le circostanze, la guerra fredda, l'essere l'Italia un paese di frontiera tra l'Ovest e l'Est, in un brulichio di spie, affaristi e politicanti, avevano potuto trasformare in un uomo capace di infilarsi ovunque, dai partiti ai servizi segreti. E all'ombra delle grandi stragi di questo Paese. Marco Damilano su L'Espresso il 16 dicembre 2015. Gli ho parlato una sola volta, al telefono, più di dieci anni fa. Chiamai il numero della casa ad Arezzo per un'intervista, l'apparecchio suonò un paio di volte, poi qualcuno rispose. «Pronto, vorrei parlare con Licio Gelli», dissi. Dall'altra parte un lungo silenzio, poi quella voce: «Non è in casa». Io, stupito: «Ma scusi, Gelli è lei, la riconosco!». E lui: «No, guardi, non sono io». E mise giù. A me venne in mente che l'attore Alighiero Noschese, il primo imitatore della tv italiana, era stato affratellato alla loggia P2, si diceva che falsificasse le voci nelle telefonate del Venerabile, fingeva di essere un ministro o il presidente del Consiglio. E anche lui all'epoca si era inventato un'altra identità, al telefono si faceva chiamare dottor Luciani, per paura delle intercettazioni. E pensai che questo era, prima di tutto, Licio Gelli. Un bugiardo. Un megalomane di provincia che solo le circostanze - la guerra fredda, l'essere l'Italia un paese di frontiera tra l'Ovest e l'Est, in un brulichio di spie, affaristi e politicanti - avevano potuto trasformare in un uomo potente. In vecchiaia si era messo a scrivere versi di dubbio valore letterario ma di sicuro impatto per le cronache: ««Passano gli anni e il tempo affresca le rughe, / scalfisce i segreti remoti che durano nel cuore…». Untuoso, anzi viscido, ogni parola un soffio di ricatto. «Sono il confessore di questa Repubblica», amava vantarsi ai tempi della sua ascesa. Quando arrivava all'hotel Excelsior in via Veneto, si rinchiudeva nelle sue tre stanze, dalla 127 alla 129, e riceveva. I suoi seguaci. I candidati alla loggia. «Il braccio sinistro appoggiato su una scrivania con molti cassetti. Ogni tanto ne apriva uno e tirava fuori qualche fascicolo ben conservato in copertine di cartoncino rosa. Era il suo archivio. Lo faceva intravedere, ora ammiccante ora minaccioso, ai suoi ospiti costretti a sedersi su una poltrona più bassa, tanto per far notare la differenza. Quasi sempre, dopo ogni visita, le cartelline rosa si arricchivano di altri fogli, nuovi segreti», scrivevano Maurizio De Luca e Pino Buongiorno, due giornalisti che non ci sono più, nell'instant-book a più mani "L'Italia della P2" uscito subito dopo la pubblicazione degli elenchi della loggia nel maggio 1981, a tutt'oggi il libro più bello su Gelli e i suoi cari. Generali, ammiragli, direttori di giornale, ministri, segretari di partito. Piccoli uomini, ridicoli e sinistri. Questa era la loggia massonica P2. Nella lista ritrovata a Castiglion Fibocchi erano 962, sfilarono uno a uno a palazzo San Macuto, davanti alla commissione parlamentare di inchiesta presieduta da Tina Anselmi. Nei diari della parlamentare democristiana ci sono gli appunti di quelle audizioni, dove tutti negavano e insieme confermavano. «Enrico Manca: nel 1980 il 4 aprile entro come ministro del Commercio estero nel governo Cossiga. A fine aprile conosco Gelli a un ricevimento all'ambasciata argentina. Visita di Maurizio Costanzo, che disse di essere massone, e a nome di Gelli mi chiese se ero disponibile a aderire alla massoneria. Quando mi vidi negli elenchi di Gelli telefonai a Costanzo, ma questi mi confermò di aver telefonato a Gelli la non disponibilità...». La carriera di Gelli era cominciata nel biennio 1943-45, nel passaggio di regime, al trapasso del fascismo, con la penisola occupata da eserciti stranieri, l'ideale per cominciare una lunga trafila di doppiogiochista. Il giovane repubblichino resta in forza alle SS ma traffica con i partigiani, è un fascista che trama con gli antifascisti, per lui a guerra finita garantisce il presidente comunista del Cln di Pistoia Italo Carobbi: «Il Gelli Licio di Ettore, pur essendo stato al servizio dei fascisti e dei tedeschi, si è reso utile alla causa dei patrioti». Due righe che valgono un'intera biografia, ricordate dallo storico Luciano Mecacci nel volume-inchiesta sull'assassinio di Giovanni Gentile, intitolato "La ghirlanda fiorentina". Quella pianta intrecciata di fiori secchi, appassiti, putridi che soffoca ogni raggio di luce. Gelli l'arci-italiano: fascista e antifascista, democristiano e amico dei comunisti... La Ghirlanda massonica e piduista cresce negli anni della democrazia, come una radice marcia di un albero rigoglioso, una cellula malata in un corpo sano, nell'oscurità. Gelli entra nella segreteria di un deputato democristiano, diventa dirigente di una nota ditta di materassi, la Permaflex, e in questa veste accoglierà Giulio Andreotti all'inaugurazione dello stabilimento di Frosinone (il Divo lo ricorderà sempre così: «Era uno che vendeva materassi», e via sminuzzando), giura fedeltà alla massoneria, il Grande Oriente. Prospera negli anni Settanta dei misteri e delle stragi, si infila dappertutto: nei partiti, al Quirinale, a Palazzo Chigi, a Montecitorio, tra gli alti gradi delle forze armate, al comando dei servizi segreti. Controlla le scalate bancarie più prodigiose, da quella di Michele Sindona a quella di Roberto Calvi, destinati a morti tragiche e mai chiarite. È un'ombra nelle più grandi tragedie italiane: la strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, il sequestro e l'assassinio di Aldo Moro. Si allarga al Sud America, nell'Argentina di Peron e dei generali golpisti. Sogna di riscrivere la Costituzione: il piano di rinascita democratica, i partiti da chiudere, la tv privata da diffondere, lo statuto dei lavoratori da stracciare, la separazione delle carriere dei magistrati, «l'obbligo di attuare i turni di festività per sorteggio, per evitare la sindrome estiva che blocca le attività produttive». Cede alla vanità e si fa intervistare dal "Corriere della Sera" di cui alla fine degli anni Settanta ha il pieno controllo. Il verbo gelliano va nella prestigiosa terza pagina del quotidiano di via Solferino domenica 5 ottobre 1980. Titolo in ginocchio: «Parla, per la prima volta, il signor P2 Licio Gelli». Incipit genuflesso: «Capo indiscusso della più segreta e potente loggia massonica, ha accettato di sottoporsi a un'intervista esponendo anche il suo punto di vista...», scrive felice l'intervistatore Maurizio Costanzo, iniziato alla loggia due anni prima. «Una brodaglia disgustosa, con il burattinaio che (tronfio, allusivo, arrogante, ricattatorio) pontifica su tutto e tutti, dispensando ridicole ricette economiche dietro le quali s'intravedono speranze di nuovi affari», scrive Giampaolo Pansa. Silvio Berlusconi giurò da fratello il 26 gennaio 1978 nella sede romana della P2 in via Condotti, con il grado di apprendista, tessera numero 1816. E in quel sodalizio tra il Gran Maestro e il Cavaliere c'era un'intuizione potente: che per attuare il piano di rinascita e conquistare l'Italia non servivano le bombe sui treni ma il Mundialito, il mini-mondiale di calcio in Uruguay strappato alla Rai dalla tv del Biscione grazie alla mediazione di Gelli. Non ci voleva il colpo di Stato, bastava "Colpo grosso". Tra i due personaggi distanti in tutto, uno dedito ai segreti, l'altro all'immagine, c'è in realtà la stessa concezione del mondo. In cui le relazioni valgono più delle regole, le lobby occulte e trasversali contano di più delle appartenenze visibili, la fedeltà alle istituzioni va scavalcata da doppie, triple fedeltà non dichiarate. Gelli se ne va e a leggere le cronache di questi giorni si direbbe che abbia vinto lui. Le vicende bancarie di questi giorni, con la ghirlanda di relazioni intrecciata attorno alla Banca Etruria, fiore all'occhiello di Arezzo, la città del Venerabile. Lo scandalo vaticano di ricatti incrociati e millanterie. Il ritrovato attivismo di Luigi Bisignani, il più giovane tra i nomi comparsi nella lista dei piduisti (lui ha sempre negato, naturalmente: «Non aveno neppure l'età per iscrivermi»). La P3, la P4, numerate con scarsa fantasia, per certificare il marchio di origine, il logo di successo. Quante volte, in questi ultimi anni, in questi ultimi mesi, ci siamo sorpresi ad avvertire in alcune carriere improvvise l'inconfondibile odore della P2, gli stessi metodi, a volte le stesse persone. I burattinai o presunti tali si sono moltiplicati nei palazzi, solo che la posta in gioco è più meschina, non c'è il grande gioco della guerra fredda che serviva a nascondere i piccoli affari. E ancora più avvilenti sono i protagonisti: banchieri di provincia, monsignori allupati, ragazze esibizioniste, faccendieri invecchiati...«Se la loggia P2 è stata politica sommersa, essa è contro tutti noi che sediamo in questo emiciclo. Questo è il sistema democratico che in questi quaranta anni abbiamo voluto e costruito con il nostro quotidiano impegno: non può esservi posto per nicchie nascoste o burattinai di sorta». Con queste parole, il 9 gennaio 1986, Tina Anselmi presentava nell'aula della Camera le conclusioni della commissione parlamentare di inchiesta sulla P2 da lei presieduta. Trent'anni dopo Gelli se ne va. Ma ancora c'è tanto da fare per custodire la Repubblica e le sue istituzioni, la trasparenza della democrazia, dai suoi eredi, i suoi imitatori, i suoi fratelli. I tanti Gelli d'Italia che si aggirano tra di noi.

L’ultima intervista a La Stampa di Licio Gelli 7 anni fa: “Ci sono le logge dietro la crisi della sinistra”. Riproponiamo come documento storico le parole del capo della loggia P2. Jacopo Iacoponi su La Stampa il 16 dicembre 2015. Il capo della P2 Licio Gelli è morto nella sua casa vicino ad Arezzo a 96 anni. Qui il colloquio pubblicato su La Stampa il 15 dicembre 2008.

«Vuole che le dica qual è stato il ruolo e l’atteggiamento delle logge fiorentine dinanzi a quello che succede alla giunta di sinistra?». Sarebbe gentile, commendatore. Licio Gelli oggi viene chiamato «commendatore», o «conte», se chi gli sta intorno vuole sottolineare il titolo nobiliare che gli conferì Umberto II nel 1980. Non è più il «Venerabile maestro» della Loggia P2, indagato tra l’altro per le stragi (dall’Italicus a Bologna), il golpe Borghese, la bancarotta dell’Ambrosiano - poi condannato per depistaggio delle indagini su Bologna, e per la bancarotta fraudolenta della Banca di Roberto Calvi (12 anni, ora estinti). Ma non si può, tecnicamente, dire che sia tornato: non se n’era mai andato. Berlinguer è morto, il Pci e il «pericolo comunista» sono defunti, Gelli invece - a 28 anni dal ritrovamento degli elenchi della P2 a Castiglion Fibocchi - è in piena attività: a 89 anni va in tv (su Odeon), combatte una battaglia per riavere «cento milioni di dollari di cui - dice lui facendo la vittima - sono stato derubato», presenta libri con aria sorniona. L’ultimo, di Aldo Mola, sulla vita del venerabile, a Sanremo ha scatenato un putiferio al quale Gelli ha assistito serafico, commentando: «La P2? La rifarei tranquillamente». «Ma non ce ne sarebbe neanche bisogno», illustra adesso nella sala riservata di un hotel sanremese, doppiopetto gessato grigio, camicia a righe, cravatta blu, orologio d’oro al taschino del panciotto, due anelli (uno con stemma) all’anulare della mano sinistra. «Il mio piano rinascita ha trionfato, non crede?». Da molti punti di vista. «Berlusconi se n’è letteralmente abbeverato, la giustizia e le carriere separate dei giudici, le tv, i club rotariani in politica...Già, proprio come Forza Italia. Apprezzo che non abbia mai rinnegato la sua iscrizione alla P2, e del resto come poteva? Ma anche la bicamerale di sinistra dell’88 ne aveva fatta sua una parte, sposando il riferimento al presidenzialismo...».Bisogna però interrompere quest’uomo che col suo linguaggio - i modi da toscano assai vispo, uno sguardo da sotto in su che ha qualcosa di andreottiano, unito a una curvatura della schiena accentuatasi con l’età - vorrebbe indirizzare la conversazione verso la battaglia legale intrapresa per riavere i soldi del leggendario «tesoro Gelli-Tassan Din», sostenendo di esserne stato «derubato». Ma è difficile vedere nei panni della vittima un signore che ha l’aria di divertirsi un mondo a sembrare ancora potente, e una volta espose così il suo credo: «Meglio burattinaio che burattino». Ecco, un burattinaio non può non osservare ancora attentamente l’attualità. Su Firenze e la questione morale che si sta rivoltando contro gli eredi del Pci ha una sua «verità»: «Lì le logge sono da sempre potentissime, e si sono ribellate. Però sono anche divise in due commissioni in guerra: una fa capo a Palazzo Vecchio, 520 logge, l’altra a Palazzo Vitelleschi, 500 logge. L’unica cosa che le unisce Il malumore verso la sinistra fiorentina che per anni ha fatto una battaglia ossessiva contro la massoneria». A chi o cosa si riferisce, Gelli? «O beh, l’assessore Cioni è stato il capofila, nel Pci fiorentino, della guerra contro le logge». Lo storico Aldo Mola, che assiste alla conversazione, ricorda una circostanza: fu Cioni a pubblicare, allegato all’Unità, l’elenco di tutti i massoni toscani. E nel 1993 presentò una proposta di legge, sottoscritta da 70 parlamentari del Pds, per vietare agli iscritti alla massoneria di ricoprire cariche nella pubblica amministrazione. Gelli con sorrisetto: «... e quelli se la sono legata». C’è di più. «In Toscana e nelle Marche esistono le norme più restrittive contro la massoneria», lamenta Gelli. «E ora si ribellano. In Toscana se sei massone e vuoi partecipare a una gara d’appalto devi dichiararlo. Nelle Marche se sei massone non puoi partecipare affatto. Capite questo quale danno ci ha recato? Avevamo mucchi di persone che volevano entrare, ma erano spaventate. Il problema è che quelle fiorentine sono logge spurie, unite solo da questo; non sanno darsi un programma di azione comune». Della giunta Domenici sorride: «Sinistra quella? La sinistra non c’è più dai tempi di Berlinguer e dei governi di unità nazionale...».Gelli qualche giorno fa ha detto: «Veltroni dovrebbe scomparire». Il segretario del Pd ha commentato: «È il ritorno di un uomo inquietante». Con il passato del capo della P2 voi vi sareste sentiti tranquilli? «Via, era chiaro che era una frase del tutto accademica. Veltroni conferma la sua pochezza». Gli preferisce D’Alema? «Sono della stessa pasta, uno è la copia dell’altro; sembrano soltanto diversi. Altro discorso, invece, per la signora». Racconta Gelli di aver sviluppato «grande ammirazione» per Linda Giuva, moglie di D’Alema, archivista. «Nel 2006 ho donato le mie carte storiche, testi di Cagliostro, di Garibaldi (insomma, le cose non compromettenti, nda) all’Archivio di stato di Pistoia. La signora D’Alema mi ringraziò, disse che era un contributo importante alla conoscenza, fu gentilissima e io mi permisi di salutarla con un baciamano. Meglio lei di tanti uomini della sinistra». Sente ancora i cari vecchi amici? «Cossiga sempre. Fu lui, per primo, a cercarmi. Mi ha anche spiegato di non aver mai detto che non credeva fossi io il capo della P2. Nel giorno dei suoi ottant’anni l’ho chiamato per fargli gli auguri, mi ha risposto Sto pranzando da solo, così sto fra amici». Andreotti? «Càpita che gli mandi qualche bigliettino, sa, siamo tutti e due del �19». Berlusconi? «Lei è curioso...». Verso il mondo berlusconiano Gelli tradisce «affettuosità», di Previti dice «oh, Cesarino, che bravo ragazzo; vado spesso a trovarlo». Si è molto favoleggiato di una quarantina di nomi misteriosi iscritti negli elenchi non sequestrati a Villa Wanda, ma lasciate ogni speranza voi che entrate, Gelli si fa più che mai allusivo, sorridentemente minaccioso: «I nomi sono quelli eventualmente dichiarati. Il resto è ascolto, nell’oblio. Certo, può darsi che un giorno, chissà, col tempo, riemerga fuori qualcosa...». Sì, è sempre lui.

PER NON DIMENTICARE: LA FAMOSA INTERVISTA (APPECORONATA) DI MAURIZIO COSTANZO A LICIO GELLI SUL “CORRIERE DELLA SERA”. LEGGETELA E, SE AVETE UN’OPINIONE SUL MARITO DELLA DE FILIPPI, PROVATE A VEDERE SE LA CONSERVATE O LA CAMBIATE. Gigi Moncalvo il 15 novembre 2014. L’intervista riportata sotto è divenuta celebre: la realizzò Maurizio Costanzo il 5 ottobre 1980, ai tempi in forza al Corriere della Sera, colloquiando con Licio Gelli, maestro di una famigerata loggia massonica, quella che ha segnato in modo quanto più negativo possibile la storia di questo paese. Alla data in cui uscì questo articolo – otto settimane dopo la strage alla stazione di Bologna – mancavano ancora cinque mesi alle perquisizioni a Castiglion Fibocchi e a Villa Wanda. Perquisizioni che portarono alla scoperta della lista degli iscritti, da cui si venne a sapere che intervistatore e intervistato erano “fratelli” di tessera. Da qui si può scaricare la scansione della pagina originale 

Il Corriere della Sera, domenica 5 ottobre 1980. Il fascino discreto del potere nascosto. Parla, per la prima volta, il signor P2. Licio Gelli, capo indiscusso della più segreta e potente loggia massonica, ha accettato di sottoporsi a un’intervista esponendo anche il suo punto di vista. L’organizzazione: «un Centro che accoglie e riunisce solo elementi dotati di intelligenza, cultura, saggezza e generosità per rendere migliore l’umanità». L’album di famiglia: da Giuseppe Balsamo (Cagliostro) a Giuseppe Garibaldi. «Una repubblica presidenziale sull’esempio di De Gaulle». Una frase di Aldo Moro. «Sì, ero all’insediamento di Carter per simpatia». In Italia otto servizi segreti: troppi. I politici: «lavorano nell’interesse del paese oppure solo nell’interesse dei partiti?». L’economia e la moglie di Adenauer. Un consiglio al prossimo presidente del Consiglio: «meno programmi, più fatti». di Maurizio Costanzo

Maurizio Costanzo per il “Corriere della Sera”, domenica 5 ottobre 1980. Nella galleria dei personaggi inavvicinabili è tra i più inavvicinabili: si chiama Licio Gelli, ha sessant’anni, è di Arezzo e non so cosa abbia scritto sulla carta d’identità alla voce professione: industriale? Diplomatico? Politico? In realtà il suo nome compare spesso come il capo indiscusso di una segreta e potente loggia massonica, la «P2», e rimbalza di continuo in questioni di non facile identificazione. Nel corso di questa intervista ha espresso, credo per la prima volta, opinioni, pareri, raccontato episodi. Ma non mi illudo: è solo una delle sue facce, le altre sono celate in qualche parte del mondo.

Quattro anno fa io l’avevo invitata a una puntata di «Bontà loro». Declinò l’invito. Per timidezza? Per mantenere mistero intorno alla sua persona?

Perché non ravvedevo nella mia persona requisiti tali per essere intervistato alla tv.

Come mai adesso ha accettato questo colloquio?

Per premiarla della costanza che ha avuto nell’inseguirmi per quattro anni. Così, dopo questa intervista, spero per altri quattro anni di stare tranquillo.

Cosa c’è di vero in tutto quello che si è detto e si dice su di lei e sul conto della sua Istituzione, cioè la massoneria?

Le dirò che sotto un certo aspetto la cosa è umoristica, perché solo grazie a questo tipo di stampa scandalistica ho potuto conoscere fatti ed episodi della mia vita che ignoravo completamente. D’altra parte, mi pare che in questo paese, attualmente, è consentito a chiunque di dire quello che pensa, anche se quello che dice è frutto di pura e accesa fantasia.

Ancora di recente alcuni giornali hanno parlato di questa loggia segretissima della massoneria, la «P2». Lei ne sarebbe il capo incontrastato. Cos’è la «P2»?

Siamo veramente stanchi di dover ripetere all’infinito che cosa è questo e cosa è quello. Venga una sera a farci visita e vedrà che quando uscirà si sentirà in spirito massone anche lei. Comunque confermo, per l’ennesima volta, si tratta di un Centro che accoglie e riunisce solo elementi dotati di intelligenza, di alto livello di cultura, di saggezza e soprattutto, di generosità, che hanno un indirizzo mentale e morale che li spinge ad operare unicamente per il bene dell’umanità con lo scopo, che può sembrare utopistico, di migliorarla.

Ma oggi, con tutto quello che si dice e si scrive della «P2», c’è ancora chi vuole entrarci?

Mai come oggi abbiamo ricevuto domande di adesione e sono sempre in aumento. Molte di queste adesioni le dobbiamo proprio alla propaganda indiretta e gratuita di certi giornali che con le loro fantasmagoriche rivelazioni ci hanno attirato stima, rispetto e simpatia.

Quanti sono attualmente gli iscritti alla «P2»?

Le rispondo che sono molti, ma non vedo la ragione per cui dovrei darle un numero definito. Vede, quando si ha a che fare con una bella donna, non mi sembra di buon gusto chiederle, per pura curiosità, quanti anni ha.

Dato il numero che, a quanto capisco, deve essere elevato, come fa a controllare e ad incontrare gli aderenti?

Un amante di classe non rivela mai i suoi metodi per incontrarsi con una donna, così come un generale non svela mai i piani di difesa. Quando abbiamo bisogno di vedere qualcuno o per uno scambio di idee oppure soltanto per prendere il caffè insieme, abbiamo i nostri sistemi per incontrarlo e le assicuro che è un sistema che non hai fallito.

Ho letto su un settimanale che lei sarebbe attualmente in cattivi rapporti con il Gran Maestro Battelli e in alleanza con Salvini e Gamberini. E qual è la sua vera posizione nella massoneria di palazzo Giustiniani?

La mia posizione è regolarissima e legittima sotto ogni riguardo. Ne chieda conferma al Gran Maestro. I miei rapporti con lui sono ottimi sotto ogni aspetto, come solo possono esistere tra due persone che si stimano reciprocamente. A proposito dell’alleanza con Salvini e Gamberini, mi rendo conto che lei non conosce affatto la nostra filosofia, altrimenti saprebbe che tra noi, una volta instaurati, è difficilissimo che i rapporti vengano interrotti, dato che la nostra Istituzione bandisce tutti quei termini che vengono anche troppo spesso usati da certi rotocalchi.

Perché, allora, su alcuni giornali un certo ingegner Siniscalchi ha avuto e continua ad avere nei suoi confronti un così palese risentimento?

Io non conosco e non tengo a conoscere l’ingegner Siniscalchi e sia ben chiaro, quindi, che quello che ha affermato e continua ad affermare non mi tocca nel modo più assoluto. So che una volta era massone e non so se tuttora lo sia. Io, al contrario, non nutro nessuna avversione per lui, anzi, quella sera che si esibì in tv dando fantasiose, deliranti ed assurde risposte, tutta la mia reazione si ridusse ad una sola frase che rivolsi a un amico: “Vedi, quella è una persona a cui credo si dovrebbe stare più vicini perché probabilmente non sta molto bene e soffre di solitudine”. In quel caso avrei dovuto esprimermi acerbamente, ma nel vedere quella figura così patetica rimasi sopraffatto da un sentimento di tenerezza e di profonda commiserazione.

Sto conducendo una serie di colloqui con i rappresentanti del potere occulto in Italia. Lei ne è a pieno diritto un esponente. È d’accordo?

A dire la verità, mi sorprende di essere in questa serie di interviste, ma il piacere di conoscerla è il motivo che mi ha fatto accettare. Io non mai ritenuto di avere un potere occulto come mi viene attribuito. D’altra parte non posso impedire che gli altri lo suppongano.

Mi sembra per altro singolare che ogni qualvolta in Italia capita qualcosa di inconsueto, si faccia subito il suo nome e quello della sua loggia.

Sapesse quante volte mi sono posto la domanda, chiedendomi quale partito, organizzazione o personaggio avrebbe potuto trarre vantaggio dall’attribuirmi o attribuirci certi avvenimenti! Sorgono una infinità di interrogativi: non sappiamo se si tratta di strategie intese a depistare qualche inchiesta, oppure di tentativi di screditarci agli occhi dell’opinione pubblica, o di voce messe in circolazione, per puro risentimento, da qualche grosso personaggio respinto dalla nostra Istituzione, oppure, in ultima ipotesi, se la gente crede che davvero siamo dotati di potere soprannaturali. Il che, in fondo in fondo, potrebbe anche essere o, per lo meno, potrebbe stato vero in altri tempi: basti ricordare che abbiamo avuto con noi un “mago” come Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro, ed un trascinatore d’uomini della portata di Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei Due Mondi.

È a conoscenza di un rapporto inoltrato da Emilio Santillo al Ministro degli Interni? Secondo questo rapporto lei sarebbe al vertice del potere più grosso della Repubblica.

È difficile rispondere a questa domanda, ammesso che siano vere le affermazioni pubblicate dai giornali. Io annovero moltissimi amici sia in Italia che all’estero. Ma tra l’avere amici e avere potere, ci corre e molto. Pur tuttavia c’è un fondo di vero in queste affermazioni: avendo sempre agito nell’osservanza di certi principi etici di base, sono riuscito ad accattivarmi la stima e la simpatia di molti, anche se, contemporaneamente e inevitabilmente, ho suscitato antipatie.

Come mai l’Espresso e Panorama sono così accaniti contro di lei?

Perché probabilmente hanno saputo che, un giorno ad un amico che sostava nella saletta di attesa, passai, tanto per distrarlo, una copia dell’Espresso e di Panorama ed anche un elenco telefonico, dicendogli che solo in quest’ultimo avrebbe potuto trovare qualche verità. Anzi, se lei conosce i direttori di Panorama e dell’Espresso, mi usi una cortesia: da due mesi ho un nipote che si chiama Licio. Licio Gelli, come me. Quindi il materiale per poter scrivere non mancherà.

Si dice che lei sia stato repubblichino, golpista, che però in seguito non abbia disdegnato frequentazioni di opposta tendenza. Insomma, mistero nel mistero, qual è il suo orientamento politico?

Mi è capitato spesso di non ricordarmi nemmeno il mio nome: non pretenda, perciò, che mi ricordi il mio orientamento politico. Me lo chieda un’altra volta. Forse allora potrò darle una risposta meno vaga e per quanto riguarda gli incontri che io non disdegnerei, le dico che io mi incontro con qualsiasi persona senza domandare che tessera ha in tasca.

Sbaglio o in più occasioni lei si è espresso a favore di una repubblica presidenziale?

Sì, anche in una relazione che inviai al presidente Leone. La relazione terminava portando ad esempio de Gaulle.

Facciamo un po’ di fantapolitica, se lei fosse nominato presidente della Repubblica, manterrebbe la Costituzione?

Ogni uomo deve conoscere i suoi limiti, non mi sento perciò di possedere i requisiti per fare il presidente della Repubblica. Ma quando fossi eletto, il mio primo atto sarebbe una completa revisione della Costituzione. Era un abito perfetto quando fu indossato per la prima volta dalla nuova Repubblica, ma oggi è un abito liso e sfibrato e la Repubblica deve stare molto attenta nei suoi movimenti per non rischiare di romperlo definitivamente. È il parto dell’Assemblea Costituente avvenuto in un momento del tutto particolare nella vita della nostra nazione, ma che oggi, a cose assestate, risulta inefficiente e inadeguato. E, oltre tutto, non è più coerente con lo spirito che l’ha emanata, perché porta tuttora articoli di carattere transitorio.

Ma cos’è per lei la democrazia?

Le racconterò di un incontro che ebbi con Moro quando era Ministro degli Esteri. Mi disse: “Lei non deve affrettare i tempi, la democrazia è come una pentola di fagioli: perché siano buoni, devono cuocere piano piano piano”. Lo interruppi dicendo: “Stia attento, signor ministro, che i fagioli non restino senza acqua, perché correrebbe il rischio di bruciarli”.

Siamo di nuovo alla crisi di Governo. Lei darebbe la presidenza ai socialisti?

Certamente, ma con la presidenza della Repubblica ad un democristiano e le aggiungo anche che questo, secondo me, dovrebbe avvenire al più presto se vogliamo evitare la caduta del paese nel baratro.

Tra le tante cose che si dicono di lei si sussurra anche sia in grado di di condizionare molti autorevoli banchieri. Ammesso che sia vero questo condizionamento, è in favore di un miglioramento della situazione economica italiana o piuttosto di un tornaconto personale o dei suoi amici?

Noi non abbiamo mai condizionato nessuno sia perché non possediamo strumenti di condizionamento sia perché non abbiamo nessun interesse né personale né per conto di nostri amici. Posso dirle che quando ci viene richiesto, e se è possibile, cerchiamo di facilitare l’aiuto richiesto.

Legano il suo nome a quello di Michele Sindona. È un pettegolezzo?

No, non è pettegolezzo. Ed io sono andato a fare la nota deposizione negli Stati Uniti a suo favore. Perché quando un amico è in disgrazia per infami reati, dobbiamo essergli più vicini di quando si trova in auge. Comunque il mio nome è legato non solo a quello di Sindona, ma a tanti altri personaggi. Anche a quello del presidente della Liberia, Tobler, che iniziai alla massoneria nel palazzo presidenziale di Monrovia, e che venne ucciso recentemente in un golpe. Grazie a Dio per questo golpe non ci hanno coinvolto.

Se Andreotti e Fanfani le chiedono un favore, a chi lo fa più volentieri o a chi non lo fa per nulla?

Purtroppo non le posso rispondere perché fino ad oggi nessuno dei due mi ha mai chiesto un favore.

Voterebbe per Carter o per Reagan?

Per Reagan. Secondo certe previsioni credo che sarà lui il presidente degli Stati Uniti.

Mi risulta che lei fu invitato all’insediamento alla Casa Bianca del presidente Carter. Perché?

Forse per simpatia.

A proposito di previsioni mi hanno riferito che lei, giorni orsono, aveva pronosticato la caduta del governo Cossiga entro settembre. È anche veggente?

È vero che ho fatto questa previsione, mi pare l’8 settembre. Ma non perché sono un veggente, solo perché vivo secondo una certa logica. D’altra parte, sapevo benissimo che, ormai, il Governo Cossiga era clinicamente morto anche se una certa cerchia di politici aveva interesse a tenerlo in vita apparente, almeno fino a tutto dicembre. È chiaro che si tratta di una pia illusione perché, se uno avesse analizzato i contrasti che giornalmente avvenivano tra i componenti della compagine governativa, sarebbe giunto facilmente alle mie conclusioni. E a questo punto, secondo il mio giudizio, si dovrebbe muovere un serio appunto a questi politici i quali, per mire partitiche, non si sono minimamente preoccupati degli interessi del paese, protesi unicamente a ricercare formule di sopravvivenza di un organismo moribondo. Distraendo, così, gran parte delle loro energie alla ricerca di soluzioni valide per i gravi problemi della nazione ai quali avrebbero dovuto dedicarsi completamente. Questo è il nostro dramma: e fino a quando non lo avremo risolto, il paese non potrà mai beneficiare di un benessere veramente solido e non evanescente come quello attuale.

Mi lasci indovinare, da quel che sta via via rispondendo, non credo ami molto il sindacato, vero?

La normativa e l’applicazione del cosiddetto Statuto dei Lavoratori non ha bisogno di commenti. Mi sembra che l’Italia sia l’unica nazione in tutto il mondo ad avere una legge di questo tipo, ma i risultati dal 1970 ad oggi sono, purtroppo, più che evidenti. Certe conquiste ci ricordano che anche Pirro vantò la sua vittoria.

Cosa pensa dell’attuale Sommo Pontefice? Lei e la sua Organizzazione avete rapporti anche con lui?

Il Sommo Pontefice è sempre il capo della Cristianità ed io, e parlo per me e non per altri, ho sempre avuto per lui il rispetto che gli è dovuto. La mia Organizzazione ha rapporti con tutti. Le posso assicurare che la nostra è l’unica Associazione che ammette soltanto i credenti.

Dimenticavo. sembra che della «P2» facciano parte alti esponenti dei servizi segreti. Lei adesso lo negherà, ma non lo sembra che in Italia i servizi segreti abbiano spesso sofferto di deviazioni ed omissioni?

A prescindere dal fatto che non ricordo chi fa parte dell’Istituzione, per quanto riguarda l’efficienza dei servizi segreti non sta a me giudicarla. Posso solo dirle che ogni paese ne ha un paio e noi ne abbiamo otto e nonostante il gran numero, i risultati sono evidenti.

Suppongo che lei non abbia in alta considerazione i nostri politici. Proviamo a elencare i loro difetti?

Cosa devo dirle? Credo che i partiti scelgano i migliori elementi che hanno a disposizione per destinarli ai posti guida, ma come avrà notato, nonostante l’alternarsi di questi “geni”, le cose vanno di male in peggio.

Ci sorge quindi spontanea la domanda: questi “geni” lavorano esclusivamente nell’interesse del paese oppure solo nell’interesse del loro partito?

Penso che in questa ultima ipotesi non riusciranno mai, nonostante la loro bravura, a riunire in un unico crogiuolo i vari componenti necessari per fondere una lega che dovrebbe proteggere gli interessi del popolo. L’unica alternativa a questo concetto è che poi non sono così bravi come si vorrebbe far credere e quindi nella loro meschina mediocrità non riescono a comprendere le esigenze del popolo o non riescono a sentire le loro responsabilità. In casi come questi, è più che accettabile l’affermazione del ministro Giannini: “Se fossi stato giovane, me ne sarei andato dall’Italia”.

La caduta del Governo Cossiga ha procurato immediati nuovi problemi all’economia italiana. Dato che lei, con grande distacco e con apparente modestia, sembra fornire indicazioni su ogni problema, cosa pensa, appunto, dell’economia italiana?

Lo stato della medesima è disastroso, tuttavia potrebbe risolversi, ma solo a patto che qualcuno avesse il coraggio di far presente, in modo esplicito, in quale stato versa la nostra economia e in quali condizioni si verrà a trovare nel prossimo futuro se non si prenderanno energici provvedimenti. È chiaro però che nessun uomo politico avrà la forza morale di prendere provvedimenti del genere che, almeno inizialmente, sarebbero impopolari e gli allontanerebbero, di conseguenza, molti suffragi elettorali. Perciò preferisce fare quello che fa: lo struzzo quando ha paura. Quello che ci dispiace è che questa mancanza di decisione e di controllo si ripercuota su di noi. Mi spiego meglio: se il Ministero dell’Industria e del Commercio, che concede ad occhi chiusi la possibilità di importare forti contingenti di prodotti tipicamente italiani, la cui introduzione sul mercato interno provoca automaticamente disagi economici e stasi o riduzione occupazionale per molte nostre aziende, si rendesse pienamente conto delle deleterie conseguenze delle sue concessioni, dovrebbe indubbiamente prendere provvedimenti adeguati per ovviare a questo stato di cose. Se l’organo preposto stabilisse una statistica dei prodotti finiti che importiamo e li traducesse in tempi lavorativi tenendo conto di quanti lavoratori di ogni specifico settore sono a regime di cassa integrazione o, peggio, disoccupati per mancanza di lavoro, potrebbe fare in modo di ridurre il plafond delle importazioni fino a raggiungere il completo riassorbimento di questo personale inutilizzato.

Mi scusi, non è possibile che tutto vada male e così male. Ad esempio, non potrà negare gli ormai indiscutibili vantaggi dati dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità Economica Europea.

Allora, la prego di scusarmi lei: ma ho l’impressione che di economia non sia molto aggiornato. Provi a chiederlo a sua moglie. Adenauer, lei lo saprà, gestiva la politica facendosi informare dalla moglie sull’andamento del mercato. Vede, i vantaggi per l’Italia sono quelli di pagare molto di più i prodotti di largo consumo. Perché, se non fossimo legati alla CEE o se la Costituzione dell’Europa Unita fosse meno sfacciatamente favorevole ai paesi più ricchi di prodotti di base, il popolo italiano si troverebbe assai meglio. Così come stanno le cose, i vantaggi della Comunità vanno a senso unico e questo senso non è certo a favore dell’Italia.

Si spieghi meglio, dato che io, come quasi tutti gli italiani non so niente o poco di economia.

Bene, mi spiego con un esempio: in Italia la carne costa mediamente tredici dollari al chilo, estrogeni compresi; se invece che dai paesi esportatori della Comunità ci fosse consentito di approvvigionarci dai paesi dell’America Centro-Meridionale avremmo della carne, priva di estrogeni purtroppo, ad un prezzo di circa cinque dollari al chilo. Va da sé che, in questo caso, la nostra popolazione avrebbe ottima carne ad un costo notevolmente inferiore.

Ancora una domanda sull’economia. Qual è la sua opinione sui grandi operatori economici italiani e sulla Confindustria?

A proposito degli operatori economici pochi di essi si salvano: la maggior parte non è un granché. Molto probabilmente difettano di idee, di iniziative, di decisioni e non sanno difendere il sistema industriale. Oppure, più semplicemente, non sono stati all’altezza di seguire l’evoluzione dei tempi. Mentre la Confindustria penso che abbia solo un ruolo puramente rappresentativo. Potrebbe far meglio se riuscisse a sganciarsi dai carri politici.

Mi lasci indovinare: è a favore della pena di morte?

Se lei facesse un sondaggio nei paesi in cui vige ancora la pena capitale, vedrebbe che non vi accade quello che sta succedendo nei paesi che l’hanno abolita. Non più tardi dello scorso anno un giornale ha pubblicato che nell’Unione Sovietica una persona è stata condannata a morte e giustiziata per aver ferito, ripeto ferito, un agente di polizia. Mi risulta che in quello stato siano rarissimi i furti, le rapine a mano armata, lo spaccio di stupefacenti e che siano del tutto inesistenti i sequestri di persona e gli atti di terrorismo. E dirò di più, nella democraticissima Francia è ancora in vigore la pena di morte.

In questo piano di evidente moralizzazione che lei propone, sarebbe favorevole, invece, alla liberalizzazione delle droghe leggere?

Mi meraviglio che mi rivolga questa domanda, perché penso che anche lei abbia dei figli e quindi sa o dovrebbe sapere, che le disgrazie di una nazione e delle famiglie che la costituiscono sono dovute principalmente, anzi esclusivamente alla droga, i cui effetti non si esauriscono nell’individuo, ma riaffiorano anche nelle generazioni future. L’argomento mi disgusta: parliamo d’altro, se ancora mi deve chiedere qualcosa.

Quale consiglio darebbe al prossimo Primo Ministro?

Di fare meno programmi e più fatti. O meglio, i programmi enunciati non dovrebbero restare allo stadio di programmi, come è avvenuto fino ad oggi. Perché promettere e non mantenere è la cosa che più infastidisce la popolazione.

Alla domanda: cosa vuoi fare da grande? cosa rispondeva?

Il burattinaio.

Testo dell'intervista di Valentina Petrini per "Exit", programma de "La 7", a Licio Gelli.

SULLA P3. "Se lei mi parla della P3 mi offendo. Noi si nominava i capi dei servizi segreti: Miceli, Santovito, Martini. Il Capo di Stato Maggiore lo si nominava noi. Su suggerimenti del comandante generale della Guardia di Finanza. Avevano tutti i poteri in mano perché sapevano che avevamo il Ministro della Giustizia, Sarti. Anche lui prima di entrare sapeva, voleva sapere prima quali erano le nostre intenzioni: le nostre intenzioni erano tutte positive e favorevoli. Sapevano però che noi non si scherzava. Intendevano superarmi. E invece sono affogati. Mi sono fatto una risata e basta. Hanno dimostrato che purtroppo questa P3, che non esiste, è stata inventata da qualcuno. I servizi segreti sanno inventare, sanno fare molte cose. Sanno scrivere, sanno inventare.

Domanda: cosa c'entrano servizi segreti, secondo lei?

Non lo so. Io Carboni non l\'ho mai conosciuto. Non ho mai tenuto neanche a conoscerlo, molte volte è un fatto di pelle. Lui apparve quando Calvi era in disgrazia. Io ero intimo amico di Calvi. (NB: era il 1981)

Domanda: E' possibile pensare che Carboni fosse in contatto con Berlusconi e Dell'Utri? Che ci fosse un legame organizzativo tra loro che magari non era una loggia ma era appunto un comitato d'affari?)

Berlusconi, dopo essere stato secondo lui "scottato" dalla P2, non si sia messo assieme perché Berlusconi sa chi è Verdini. Senz'altro lo saprà bene. Legge anche i giornali. Gliel'avrà chiesto. E quindi un provvedimento doveva prenderlo subito, non tollerare. Se non ha preso il provvedimento può darsi che ci sia qualcosa per cui non lo può prendere. Gli armadi chi li apre? Negli armadi ci sono tanti scheletri. Uno li tiene chiusi in quel modo lì e non vuole che vengano scoperti. Per non essere scoperti, quindi, bisogna tacere.

SU BERLUSCONI. Lui ha in mano il partito. E anche gli altri stanno zitti, lo sanno benissimo. Anche Letta è indagato. Sono tutti indagati. Noi eravamo persone che se c'era uno che aveva ricevuto un avviso di garanzia sarebbe stato prima chiarito e poi espulso oppure trattenuto. Non c'è mai stato un caso nostro che era stato imputato perché sennò avremmo preso provvedimenti immediati. Ma oggi se non hai la mazzetta, anzi, non fai niente.

SU ESISTENZA DI EVENTUALI ALTRE LOGGE. Mi sono distaccato completamente da tutte le istituzioni massoniche. Poi oggi ce ne sono 60-70 di associazioni - di "obbedienze", diciamo - che sono come al Governo: al Governo sono tutti uno contro l'altro, si offendono completamente e anche queste altre piccole logge tutte dicono che la propria loggia è quella regolare. Ma non ce ne sono di regolari. Non c\'è nessuna loggia regolare in Italia.

BERLUSCONI DELL UTRI. Ho conosciuto un paio di persone che credo facciano, avessero fatto o facevano parte di questa loggia illegale. Non mi hanno detto la P3, mi hanno detto "In Sardegna abbiamo creato una massoneria". Ho detto: "Guardate, non mi interessa".

Domanda: prima o dopo che emergesse la cronaca sulla P3?:

Questo non glielo posso dire. Ma io tutti i giorni ricevo sette, otto, nove persone. Dieci. E mi chiedono tante cose...Non mi ricordo. E' difficile, bisogna avere anche una buona memoria. Però certe cose ogni tanto conviene dimenticarle. Distruggerle. Incenerirle. Una volta incenerite non se ne parla più. E' il miglior archivio che esista al mondo. Quando lei incenerisce qualcosa si riesce a dormire tranquilli. E' difficile leggere polvere bruciata, no?

Domanda: manca una realtà come la P2, oggi?

Risposta: No. Si tratta di saper organizzare. La Cinquetti non cantava perché non aveva l'età. Io non lo faccio perché non ho l'età. Io non faccio nulla perché non ho l'età.

Domanda: Altrimenti?

Risposta: Probabilmente...

L’emergenza autorizza l’unità nazionale. Vera storia dello scandalo P2, la fake news di regime per creare “emergenza”. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 2 Aprile 2021. Un quadro di Andy Warhol mi affascinava, al MoMA New York, per il titolo: “They came to see who came”. Venivano a vedere chi veniva. Così era la Loggia segretissima sotto copertura della P2 di Licio Gelli, il cui scandalo esplose quando il signor Gelli, vecchio personaggio che prima e dopo la guerra aveva fatto un po’ il venditore di materassi e un po’ l’agente dei sevizi segreti rumeni, decise di abbandonare gli elenchi degli iscritti sui gradini della villa di Castiglion Fibocchi, avvertendo poi le autorità: “Oh, grulli – disse – c’è tutto lì e divertitevi”. Eravamo a fine inverno 1981. L’Italia era affamata di loggia P2. Era uno scandalo bellissimo fatto di nulla, come quello che aprirà Andreotti sulla sezione italiana dell’operazione “Stay Behind” (dietro le linee) della Nato che nel nostro Paese creativo e teatrale era stata ribattezzata Gladio, e gladiatori erano i suoi partecipanti che risultarono essere un pericoloso gruppo di casalinghe postini e maestri elementari che insieme a medici condotti e sottufficiali in pensione avrebbero dovuto aprire i furbissimi Nasco (che vuol dire nascondiglio, pensate!) per usarne le ricetrasmittenti e le armi corte, in caso di occupazione sovietica per resistere dietro le linee. Anche quello scandalo di qualche anno successivo portò a un vortice di carta straccia e poi al processo non fu rilevato e condannato niente e nessuno, neanche una contravvenzione per divieto di sosta, ma fu tuttavia una grandiosa rivoluzione morale. Della P2 si diceva e non si diceva. Non si poteva dire tutto di tutti gli iscritti. Io ebbi un preavviso incerto da un caro amico, Maurizio Costanzo con cui allora ero in frequenti rapporti. Costanzo mi telefonò e mi disse: “Ti va di fare quattro chiacchiere?. Ti devo raccontare una cosa”. Ci vedemmo a via Veneto e passeggiammo su e giù ma non raccontava niente. Stava sulle generali e non capivo il senso dell’appuntamento. Poi partii per un servizio ad Atene (lavoravo a Repubblica) e lì lessi la sua intervista a Gianpaolo Pansa in cui confessava di essere stato un iscritto alla P2 e diceva “Sono stato un cretino, ma l’ho fatto”. Gli telefonai: “Embè?, disse: ero incerto, non sapevo come dirtelo e poi l’ho detto a Giampaolo”. Poi interrogai il generale Gianadelio Maletti, uno dei due dioscuri del Sismi (servizio segreto militare) famoso per essere filoisraeliano, filoamericano e avere un figlio in Sud Africa dove poi si rifugiò. Era una grande spia e un uomo molto retto. Mi disse che lui e tutti i militari di rango erano stati invitati ad aderire nella P2 per vedere chi aderiva alla P2, sospettata di essere stata messa su ad arte dai russi. Diventai molto amico del suo numero due, un colonnello dei carabinieri con cui da giornalista mi approvvigionavo di notizie utili sui servizi segreti e che aveva il nome di codice Amplatz, rubato ad un irredentista tirolese. Amplatz un giorno mi disse che era stato visitato e gli avevano trovato un difetto cardiaco per cui doveva essere operato. Era un atleta paracadutista, tiratore scelto e un investigatore esperto. Lo misero su un tavolo operatorio e ne uscì morto. Incidente. L’altro capo dei servizi segreti nella P2 era Miceli, siciliano di cui si diceva che avesse simpatie fasciste, ma era l’antagonista di Maletti perché era il referente degli arabi e dei palestinesi. Quando ci parlai e gli chiesi della P2 mi disse bruscamente che era uno strumento di lavoro, che lui aveva aderito perché era importante avere mille occhi su chi andava nella P2. Il fatto che si fosse iscritto anche Silvio Berlusconi fu considerato gravissimo dalla stampa di sinistra e un’accusa bruciante, quasi come quella di aver dovuto vivere barricato per difendersi dalle minacce della mafia. Mentre dell’iscrizione alla loggia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, non si doveva parlare. C’era stata, sì, ma per motivi di servizio: doveva andare a vedere chi veniva. Poi c’era lo stato maggiore del Corriere della Sera con l’amministratore Tassan Din e il direttore Di Bella, costretto a dimettersi, sicché la Repubblica, per cui lavoravo, al grido all’unisono di “piatto ricco, mi ci ficco!” Si gettò nell’impresa che aiutò l’affondamento del compromesso Corriere della Sera che colò a picco. E Repubblica, nata appena cinque anni prima, iniziò la corsa per diventare il primo giornale italiano in un clima di euforia corsara. Io fui spedito con altri cronisti nei locali che la Camera dei deputati aveva messo a disposizione per la stampa con tutti i documenti. Elenchi con centinaia di nomi di sconosciuti, più qualche conosciuto. Da tutti quegli elenchi non è poi uscito assolutamente nulla. Un boato fatto di boati. Io mi beccai una denuncia e fui condannato con altri tre colleghi perché il mio giornale stampò il nome di un omonimo di un iscritto alla P2 e sebbene l’errore l’avessero fatto i redattori capo, andammo a farci condannare. Amen. La vicenda P2 aveva gasato tutta la sinistra comunista, aveva messo sul chivalà i socialisti craxiani, era festeggiata dai socialisti anticraxiani, ma era stata prima di tutto la polpetta avvelenata che aveva ammazzato quasi tutto lo spionaggio e il controspionaggio italiano, aveva reso debole l’Italia sul piano internazionale e l’intero Paese era sottoposto ad un predicozzo ayatollesco moralistico e intimidatorio come se fosse già stata raggiunta la sentenza di un processo alle streghe della P2 in cui si fosse stabilito che una banda di eversori fascisti mafiosi e berlusconiani, in combutta con servizi deviati – la solita solfa – logge con o senza vetrata, avevano ordito o stavano preparando un colpo di Stato peraltro legale con cui introdurre un presidenzialismo alla francese che mettesse fuori gioco lo strapotere del partito comunista. Un partito comunista che senza aver mai vinto le elezioni si comportava come se le avesse vinte tutte. Gelli era a mio parere e di molti altri un agente legato ai servizi dell’Est, per via della dissidente Romania di Ceausescu, dove vendeva materassi a molle alla cerchia del presidente comunista ma dissidente Nicolae Ceausescu, ma era in contatto affettuoso anche con il Kgb e con gli ex prigionieri italiani in Russia che erano negli elenchi dei collaboratori del KGB (allora Nkvd). Non era un giro da poco, né innocente. Né di soli materassi. Io lo chiamai un giorno per curiosità in uno dei momenti in cui era libero visto che entrava e usciva di galera e mi resi conto che si trattava di una persona da quattro soldi, ma che sapeva di giocare nella serie mondiale di uno sport per pochi. Parlava il suo aretino strascicato e gentile, mi disse cosa ci vol fare e le hose stanno così, io ‘un credo propio d’avé mai fatto male manco a una mosca, e che ci vole fare. La stagione di caccia della P2 fu il corso di addestramento all’attacco finale contro la ripresa liberista. Nel 1981 le Brigate rosse erano in declino, si stavano smontando i sacchetti dì sabbia, si andava verso la Milano da Bere di Tognoli e Pillitteri e dunque del clan craxiano e questa vicenda capitata come un fulmine a ciel (quasi) sereno servì immediatamente a produrre il frutto più pregiato della politica italiana. L’emergenza. In Italia non si concepisce che la politica sia divisione e separazione, competizione e regole dure per un gioco duro ma aperto e leale. In Italia la presenza mastodontica di un partito come quello comunista che conteneva una parte ampia delle migliori intelligenze ma anche del peggiore cinismo, impediva che si formasse un governo di coalizione con quel partito che stava sempre “in mezzo al guado” e non si decideva mai fino in fondo a compiere il famoso “strappo definitivo”, tanto che dopo qualche scenata anche Berlinguer si acconciò ad accettare i fraterni aiuti di Mosca finché fu possibile. A causa di questa situazione di fondo sia il Partito comunista che tutti coloro che, dalla Democrazia cristiana al partito socialista, volevano fare un governo con quel partito, avevano bisogno dell’emergenza. Come il pane. L’emergenza autorizza l’unità nazionale, anzi la reclama come accade col Covid, passando sopra a tutte le divisioni normali. Tutto fa brodo per l’emergenza: terremoti, mafia, Gladio Stay-Behind, la Trattativa, i servizi deviati, la mafia deviata, la camorra deviata, il Vaticano deviato, il socialismo deviato… Oggi adesso in questo momento mi vengono i brividi al pensiero di quanto siamo stati nutriti – io stesso fra i primi – dalla cultura del sospetto e dell’abiezione, della maledizione e dello sdegno – “Vergogna! Vergognatevi!” – quando si formarono veri plotoni d0’esecuzione giornalistici con formazioni miste di giornalisti e magistrati e avvocati e politici, gruppi di lavoro coordinato, corazzato, solidale, magnifico nel rimpallo di notizie che partivano da una invenzione servita in forma condizionale e rilanciata senza condizionale e poi come autorevole dichiarazione di fonti di stampa sempre vaghe ma di colpo autorevolissime e che comunque non era prudente mettere in dubbio, se volevi salvare la pelle, quella parte esteriore dell’onore che viene gestita direttamente dal partito, ti faremo poi sapere quale.

Il partito era trasversale e attrezzatissimo ed era – onestamente – magnifico. Era come Jenny delle Spelonche di Brecht, la sua nave con mille cannoni che demolivano qualsiasi idiota o oggetto che si fosse messo di traverso, Sono anche stufo di metafore, tanto conosco bene la bestia che governò e incarognì al giusto livello di cottura quella stagione.

Il santuario dei complottisti rivisto dopo 40 anni. Cosa era la P2 di Licio Gelli, un’associazione legale e neanche tanto segreta…David Romoli su Il Riformista il 30 Marzo 2021. Nel Paese degli anniversari e delle ricorrenze si sta celebrando in queste settimane il trentennale più bizzarro e anomalo di tutti. Si ricorda, e spesso si festeggia, la scoperta della lista degli iscritti a una loggia massonica segreta, Propaganda 2, o P2 che dir si voglia. I pm Gherardo Colombo e Giuliano Turone incapparono in quegli elenchi quasi per caso, grazie a una perquisizione nella villa del Gran Maestro della loggia, Licio Gelli, ad Arezzo, dove non trovarono niente, e negli uffici della fabbrica Lebole di cui il Venerabile era direttore, la “Giole” di Castiglion Fibocchi, dove saltò invece fuori la valigetta con i 960 nomi eccellenti degli iscritti. Tra i quali lo stesso comandante della Guardia di Finanza che eseguiva la perquisizione, Orazio Giannini. I due pm cercavano materiale attinente all’inchiesta che stavano conducendo sul falso rapimento di Michele Sindona. Trovarono materiale ancora più incandescente, perché in quel listone figurava di tutto: tre ministri, i segretari particolari del capo dello Stato e del presidente del Consiglio, una quarantina di parlamentari, alti ufficiali di un po’ tutti i rami dell’esercito, i vertici dei servizi segreti, magistrati in quantità industriale, uno stuolo interminabile di giornalisti. La lista rimase segreta per qualche giorno ma quando fu resa pubblica l’esplosione fu nucleare. Provocò la caduta del governo, presieduto allora da Arnaldo Forlani, la formazione di una commissione parlamentare d’inchiesta (le cui conclusioni furono che dietro i burattinai doveva per forza esserci qualche altro puparo ancora più occulto), l’avvio di una rilettura complessiva e ancora in auge della storia italiana ispirata a una versione triviale e molto semplificata della teoria del “doppio Stato” dello storico Franco De Felice. Essendo la voracità dei patiti del complotto insaziabile, la scoperta fu ritenuta subito parziale. Ai 960 iscritti la cui identità era stata rivelata dovevano certamente aggiungersene altri: almeno sei volte tanti secondo non meglio giustificate ipotesi. Dietro la loggia segreta doveva certamente essercene un’altra, ancora più ristretta e ancora più segreta. A muovere i fili del burattinaio poteva esserci solo qualcuno persino più luciferino del demoniaco Licio, e chi se non Belzebù in persona, al secolo Andreotti Giulio, il potentissimo e altrettanto chiacchierato leader della Dc che del resto conosceva e probabilmente aveva anche protetto Gelli davvero? Alla P2, da quel momento sino al giorno d’oggi, è stato attribuito di tutto e di più. Una piovra al confronto della quale la Spectre da James Bond era un’innocua seppiolina, un Dizionario enciclopedico del crimine riassunto in unica loggia. L’elenco dei fattacci nei quali la loggia sarebbe implicata è impressionante: il minacciato golpe di De Lorenzo nel 1964 (anche se Gelli era allora appena entrato nella massoneria e la guida della P2, esistente sin dal 1877, era di là da venire di 7 annetti buoni), il tentato golpe Borghese del 1970 (dove Gelli avrebbe svolto un doppio ruolo: organizzatore con delega al sequestro del capo dello Stato ma anche autore della misteriosa telefonata che ordinò a Borghese di soprassedere, e poco male se le due parti in commedia sembrano incompatibili), la collaborazione alla strage dell’Italicus dell’agosto 1974, in combutta con Mario Tuti e i neofascisti toscani (che però sono stati tutti assolti, Tuti incluso), il fallimento del Banco Ambrosiano (per il quale Gelli è stato effettivamente condannato per bancarotta fraudolenta, ma che suona più come un losco affare che non come un attentato allo Stato democratico), l’omicidio di Mino Pecorelli e quello di Roberto Calvi (accuse cancellate dalle indagini l’una e l’altra), la strage di Bologna (qui una condanna per il depistaggio del gennaio 1981 c’è ma l’intera vicenda è oscura: il presunto depistaggio era in realtà un “impistaggio” che indicava la pista Nar, sino a quel momento non ancora battuta dagli inquirenti), e poi ancora la strage di Bologna (ipotesi fantasiosa evocata solo negli ultimi tempi con un’inchiesta che vede coinvolti come mandanti solo estinti e che si basa su elementi tanto fragili da rendere molto improbabile una condanna), Tangentopoli (non si capisce bene su quali base e neppure con quali accuse ma tant’è e poco male se la loggia era stata sciolta da oltre un decennio). Non che possa mancare la mafia, perché trattandosi di organizzazioni segrete e criminali, l’alleanza è nell’ordine delle cose: Gelli sarebbe stato il referente di Cosa nostra, fazione corleonese, a Roma, una specie di banchiere di don Totò. Ma di evidenze o almeno di elementi tali da giustificare un processo non si è vista traccia. Il tutto senza contare le piste internazionali, con Gelli sospetto di coinvolgimento nello sterminio dei dissidenti da parte delle dittature sudamericane ma anche nell’amputazione delle mani del cadavere del suo ex amico Peron, per usarne le impronte digitali e accedere al tesoro del medesimo. Con questa mole di cospirazioni, stragi e omicidi a carico, è ovvio che l’anniversario della scoperta della loggia sia ricordato, festeggiato, accompagnato da amare riflessioni sulla sopravvivenza dei complotti al pur ferale colpo allora inflitto, condito da immancabili appunti su quanto ci fosse e ci sia ancora da scoprire. Ci vuole una certa attenzione per scoprire l’aspetto grottesco della ricorrenza. La P2 era un’associazione segreta ma legale: la legge che rende organizzazioni del genere illegali fu varata proprio in seguito alla scoperta della loggia. La segretezza era relativa: del ruolo della massoneria si era parlato più volte negli anni ‘70 e lo stesso Gelli aveva illustrato nel dettaglio i progetti suoi e della loggia in un’intervista all’affiliato Maurizio Costanzo sul Corriere della Sera. L’adesione alla mefitica organizzazione criminale ha danneggiato molte carriere ma non ha portato a nessuna condanna e c’è qualcosa che non torna in una organizzazione segreta e criminale che mira a smantellare lo Stato democratico, a cui vengono addossate le trame più oscure e i delitti più odiosi della storia repubblicana senza che nessuno sia poi mai condannato. Nemmeno il diabolico Licio, condannato sì ma per bancarotta fraudolenta, depistaggio più un paio di calunnie ma nulla di più. Il nodo sta probabilmente nell’obiettivo finale degli oscuri manovratori. Quel “Piano di rinascita democratica” sequestrato nel luglio 1981 alla figlia del Venerabile e assurto nella fantasia pubblica al progetto di sepoltura della democrazia, tanto che ancora oggi fioccano le accuse a carico di politici di diversa estrazione di “stare attuando il piano di Gelli”. Non che quel progetto fosse misterioso, dal momento che lo stesso Incappucciato numero uno lo aveva illustrato e magnificato nei dettagli sul principale organo di informazione allora disponibile. Ma soprattutto il disegno si limitava a una riforma costituzionale robusta ma non inconcepibile, profonda ma non certo neofascista. Prevedeva il bipolarismo, la riduzione del numero dei parlamentari, la fine del bicameralismo perfetto, la sfiducia costruttiva, la non rieleggibilità del capo dello Stato, la separazione delle carriere in magistratura, la responsabilità civile dei giudici, gli sgravi fiscali per i capitali stranieri che investivano in Italia. Tutto discutibile, niente inaccettabile e infatti puntualmente l’una o l’altra proposta rispunta e qualcuna si afferma anche a larga maggioranza. Il passaggio più torbido riguardava l’idea di controllare l’informazione (anche se Gelli immaginava la privatizzazione della Rai) e in effetti il principale risultato, anzi forse l’unico conseguito dalla tentacolare loggia fu la conquista del Corriere della Sera, con la sostituzione di Piero Ottone con l’affiliato Franco Di Bella alla direzione. Non che Gelli fosse uno stinco di santo. Fascista e sospettato, chissà se con qualche fondamento, di essersi portato a casa parte del tesoro del re di Jugoslavia mentre lo trasportava in Italia per conto del Pnf, ufficiale di collegamento tra Salò e Germania ma rapido nel cambiare bandiera e diventare partigiano al momento giusto, manutengolo di un alto notabile democristiano nel dopoguerra, il Gran Maestro era magistrale soprattutto nella raccolta di informazioni da usare a proprio vantaggio e nel capire l’importanza, soprattutto in un Paese come l’Italia, di avere a disposizione le conoscenze giuste e di proporsi come contatto e tramite tra le stesse: la formula con la quale riuscì a rendere per un po’ la sua loggia appetibile per chiunque fosse in carriera nei rispettivi campi. Ma con tutte le macchinazioni di don Licio, che sono in gran parte ma non del tutto leggenda, il mito della P2 demoniaca e onnipresente resta solo l’ennesima versione del modello fisso di tutti i “complottisti”: I Protocolli dei Savi di Sion.

Magistratopoli, altro che P2: l’Anm è la vera loggia eversiva che mina la democrazia. Piero Sansonetti su Il Riformista l'11 Giugno 2020. Il 21 maggio del 1981, quasi 40 anni fa, il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani decise di rendere pubblica la lista dei circa 900 iscritti alla loggia massonica P2, guidata da Licio Gelli. Successe il finimondo. Ministri cacciati dal governo, segretari di partito messi all’angolo, direttori di giornali ed editori in rovina. Era notte quando uscì la lista e in tutte le redazioni furono bloccate le macchine della stampa. Si rifecero le prime pagine, coi titoli a nove colonne e gli editoriali. Poi se ne parlò per anni della P2, ci fu una commissione parlamentare d’inchiesta che lavorò, interrogò, ipotizzò, accusò. Cos’era la P2? Una associazione massonica segreta alla quale erano iscritte molte persone importanti: poliziotti, carabinieri, politici, magistrati, giornalisti, imprenditori. Era trasversale ai partiti. Soprattutto ai partiti di centrosinistra. Cosa sappiamo della P2? Non tantissimo. È stata considerata dall’opinione pubblica il male dei mali e il nucleo golpista della politica italiana. Prove, pochine. Di sicuro si sa che riuscì a impossessarsi del Corriere della Sera, che era il pilastro dell’informazione in Italia. Non è poco. Non è neanche moltissimo. Mi è venuta in mente la P2 pensando allo scandalo di magistratopoli che, nel silenzio quasi generale dei grandi giornali, sta emergendo dalle indagini della Procura di Perugia. Cosa sappiamo di magistratopoli? Qualcosa di abbastanza sicuro. Che c’era (c’è)un sistema segreto – fondato su correnti palesi – il quale disponeva (dispone) quasi interamente del potere giudiziario. Dunque che violava (viola) la legge e la Costituzione. E che, in questo modo, ha distrutto il sistema giustizia e probabilmente ha provocato un numero molto grande di ingiustizie, di inchieste immotivate, di sentenze sbagliate. Questo sistema funzionava (funziona) grazie all’esistenza dell’Anm (l’associazione nazionale magistrati). Cerco di essere più chiaro. Abbiamo saputo che il Csm, cioè l’organo di autogoverno della magistratura, era (è) eterodiretto dalle correnti e dall’Anm. E che le correnti non erano (sono) dei raggruppamenti che si formavano su “idee”, ma semplicemente dei luoghi di organizzazione e di spartizione del potere. Abbiamo scoperto che i capi delle Procure venivano (vengono) scelti non sulla base dei meriti o delle doti di un magistrato, ma dei rapporti tra le correnti e delle regole spartitorie alle quali si era (si è) giunti. Abbiamo scoperto che la gran parte dei magistrati sapeva (sa) che la propria carriera dipende dal sistema delle correnti.E dunque abbiamo anche scoperto che il potere dei Pm (che hanno un peso esorbitante nell’Anm e nel Csm) era (è) enorme e finisce con il condizionare fortemente anche i giudici, visto che anche i giudici sanno che le loro carriere dipendono dal Csm, e quindi dall’Anm (che guida il Csm) e quindi dai Pm e dalla loro organizzazione. Non sto descrivendo un semplice fenomeno di degenerazione. Sto descrivendo, sulla base di fatti e notizie oggettive, un vero e proprio sistema eversivo. La Costituzione dice che il magistrato è sottoposto soltanto alla legge (articolo 101). In questo consiste la sua indipendenza. Invece noi abbiamo saputo che i magistrati italiani sono sottoposti alle correnti e alle correnti devono rispondere. Non alla legge. Che i Procuratori vengono nominati in un gioco di pesi e contrappesi determinati soltanto dal potere e dalla sua spartizione. L’articolo 101 della Costituzione è costantemente violato. E l’Anm, che è il luogo dove essenzialmente si organizzano e vivono le correnti, svolge un ruolo del tutto anticostituzionale, sostituendosi alla legge. L’Anm non è una associazione segreta, era segreta però la parte fondamentale delle attività che svolgeva. L’inchiesta di Perugia ha dimostrato che le cose stanno così, e finora non si è alzato in piedi neppure un magistrato, neppure uno, a dire: non è così, è una calunnia. Nessun magistrato ha definito calunniose le accuse mosse alla magistratura. Cioè, nessuno ha osato mettere in discussione l’illegalità del funzionamento del potere giudiziario. Quando un potere si esprime e funziona in modo illegale, e per di più quando questo potere è in grado di determinare o influenzare pesantemente la vita di un’intera nazione, e di migliaia e migliaia di singoli cittadini, non mi pare che ci sia niente di esagerato nel parlare di eversione. Un potere che funziona così è un potere eversivo. Eversivo in modo simile, ma molto più esteso, al modo nel quale fu organizzato il potere dalla P2, e che portò a deviazioni nel funzionamento della democrazia. Sicuramente le deviazioni prodotte dalla P2 furono infinitamente inferiori a quelle prodotte da magistratopoli. Oltretutto, chiunque si accorge che accanto a magistratopoli c’è giornalistopoli, perché le correnti della magistratura non solo governavano (governano) il pianeta giustizia ma governavano (governano) anche gran parte del pianeta-informazione. Voci autorevoli, come per esempio quella dell’ex magistrato Luciano Violante, hanno denunciato queste cose in modo molto chiaro, ancora pochi giorni fa proprio sul nostro giornale. Se la Loggia P2 fu ritenuta degna di una commissione parlamentare d’inchiesta, come ci si può esimere, ora, dal formare una commissione parlamentare che svolga una inchiesta approfondita sulla magistratura e che prenda dei provvedimenti, e che suggerisca al Parlamento un intervento per spezzare, e rendere impossibile per il futuro, la trama eversiva? Lo chiedo ai partiti. Tutti eh, non solo quelli di opposizione. Che oggi sono davanti al bivio: o tirano su la testa e pongono fine allo stato di sottomissione nei confronti del (corrotto) potere giudiziario, oppure muoiono. Ora uno può anche dire di essere disinteressato alla vita o alla morte dei partiti. Qui però c’è in gioco una cosa più grande: la democrazia. E la libertà. Possiamo offrirle in dono alla nuova P2?

Palamaragate: abusi e vizi scoperchiati. Le rivelazioni di Palamara sono ben più gravi dei dossier di Licio Gelli. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 29 Gennaio 2021. Quando Licio Gelli fece trovare i suoi dossier a Villa Wanda, giusto 40 anni fa, scoppiò un tale scandalo da scuotere le fondamenta della democrazia italiana, tanto da provocare un deciso intervento pubblico del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, da far cadere un governo, da troncare la tradizione del presidente del Consiglio sempre democristiano e da portare il primo presidente laico a Palazzo Chigi. Oggi – di fronte alle dichiarazioni pubblicate dall’ex potentissimo magistrato Luca Palamara – ci troviamo in una situazione ancora più grave, perché appare coinvolto e protagonista della sovversione addirittura uno dei corpi dello Stato. Quel che accade è sotto gli occhi di tutti: il magistrato Palamara, ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura, ex capo della associazione magistrati, (cacciato, dopo un processo sommario, nel tentativo di ridurlo al silenzio) ha messo nero su bianco quel che sa in un libro intervista con Alessandro Sallusti. Citando date, fatti, nomi e cognomi, descrivendo gran parte del marcio che si annida in settori della Magistratura che, stando a Palamara, avrebbero agito e tuttora agirebbero contro la Repubblica, contro la Costituzione, contro la giustizia e contro il Parlamento. Abusando delle garanzie previste a protezione dei cittadini e non a vantaggio di funzionari statali che devono la loro carriera a un concorso pubblico e agli avanzamenti previsti dall’organo di autocontrollo, il Consiglio Superiore della Magistratura con sede nel Palazzo dei Marescialli in piazza Indipendenza. Già una volta un presidente della Repubblica fece schierare in quella piazza, all’alba, un reparto di Carabinieri in tenuta antisommossa per intimare l’obbedienza costituzionale a un gruppo di insorti togati (membri del Csm) non meno sovversivi di quelli che il sei gennaio scorso a Washington hanno dato l’assalto al Parlamento americano con l’intenzione di scoperchiarlo come una scatola di tonno. Nel 1981, per cercare di capire come avesse funzionato la Loggia massonica P2, governata da Licio Gelli, fu messa in piedi una commissione parlamentare di inchiesta (la celebre commissione Anselmi) che lavorò per anni, seguita con grande attenzione dai mass media. Non è il caso, oggi, di fare quantomeno la stessa cosa, per restituire al parlamento qualcuno dei suoi poteri e per capire cosa sta succedendo nella magistratura italiana, ormai fuori da ogni controllo democratico? Del funzionamento di una Commissione parlamentare d’inchiesta ho viva memoria essendo stato dal 2002 al 2006 presidente di una Commissione bicamerale (venti senatori e venti deputati) per indagare sulle attività degli agenti di influenza sovietici in Italia dai tempi della Guerra fredda. Quella Commissione portò a termine il suo lavoro glacialmente ignorato da tutte le televisioni e sottoposto a fabbricazioni e trappole che si conclusero con l’avvelenamento, davanti agli occhi stupiti del mondo intero, dell’informatore Alexander “Sasha” Litvinenko, assassinato a Londra con una dose mortale di polonio radioattivo. Sono passati quindici anni. Ma posso ricordare come funziona una procedura del genere. Il primo elemento indispensabile anche se non sufficiente, è la volontà politica di farla, una tale commissione, dopo aver preso atto che un’area crescente di minacciose illegalità si è allargata a partire dagli anni Ottanta e che quel marciume ha minacciato, intimidito, anestetizzato e corrotto il primato del Parlamento. Dopo questo primo passo, occorre scrivere e presentare una legge, o di iniziativa parlamentare o persino per iniziativa popolare, come ogni legge. Quando il Parlamento eletto nel 2001 decise di votare una legge che istituisse una Commissione d’inchiesta sul “Dossier “Mitrokhin” (dal nome dell’archivista russo che consegnò tutte le sue memorie al governo inglese, il quale le passò poi ai Paesi alleati fra cui l’Italia), le aule di Camera e Senato esaminarono diverse proposte di legge di destra e di sinistra che erano in parte già state depositate alla fine della legislatura precedente. La discussione parlamentare in quel caso fu lunga e feroce: un anno di battaglie senza esclusione di colpi, ma aveva una base concreta che non consisteva tanto nel “dossier” che uno sconosciuto maggiore Vasilij Mitrokhin aveva messo insieme copiando per trent’anni con un sistema cifrato i documenti che gli erano passati per le mani e che svelavano le attività di numerosi “agenti di influenza” (da non confondere con le spie, che sono modesta manovalanza), ma consisteva nella volontà politica anche all’interno dell’ex Partito comunista di chiudere una partita tra filorussi e filoamericani e di cicatrizzare spesso occultandole, molte vecchie ferite. Furono giornate di baraonda e violente emozioni sia alla Camera che al Senato, ma alla fine la legge venne fuori, i partiti scelsero i commissari che avrebbero partecipato ai lavori della Commissione, perché tutti i partiti allora esistenti furono rappresentati in maniera proporzionale in un Parlamentino cui fu assegnata una sede conveniente nel Palazzo delle Commissioni in via del Seminario fra il Pantheon e piazza Sant’Ignazio, nello stesso massiccio edificio che aveva ospitato la Santa Inquisizione e dove era stato interrogato, minacciato e costretto ad abiurare Galileo Galilei. Nello stesso Palazzo, che appartiene al Senato, sono quasi tutte le commissioni d’inchiesta e molte commissioni permanenti come quella della vigilanza Rai. Io ero stato eletto senatore a Brescia per Forza Italia e quando si riunì per la prima volta la Commissione d’inchiesta presieduta provvisoriamente dal commissario più anziano, che si chiamava Giulio Andreotti, furono indette le votazioni di rito per tutte le cariche e io fui eletto presidente cominciando un lavoro della cui enormità e delle cui conseguenze non ero ancora in grado di rendermi conto. Che cosa fa una Commissione d’inchiesta? È un tribunale? Uno strumento di ricerca storica? Con quali poteri e quali limiti? Le risposte a queste e altre domande le deve dare il Parlamento che discute e approva la legge: quella è la road-map della Commissione che però ha anche poteri di intervento che la mettono nelle condizioni di agire come un giudice. Dunque una Commissione d’inchiesta che indagasse sul mondo marcio e minaccioso prospettato dal giudice Palamara dovrebbe essere equipaggiata dalla legge che la istituisce in modo tale da poter fronteggiare i nemici della Repubblica con armi legittime e adeguate, purché sia chiaro in partenza un solo principio: il primato del Parlamento su ogni altro potere, poiché in una Repubblica democratica parlamentare tutto il potere che appartiene al popolo viene delegato per intero ai rappresentanti, motivo per cui non ne avanza neanche un millimetro o un grammo. In genere a questo punto saltano fuori coloro che ripetono che i poteri sono tre, come ai tempi di Luigi XVI, del re, del clero e del Terzo Stato. Ma non è così: in una democrazia i poteri appartengono al Parlamento secondo quel manuale d’istruzioni che ne stabilisce limiti e modalità e che si chiama Costituzione, con un presidente che ha il compito di garantire la perfetta applicazione delle regole. Ma la Magistratura non è un potere, visto che i suoi “clerk”, i funzionari, sono legittimati da un concorso pubblico e avanzano secondo un sistema che nelle intenzioni era stato concepito non per privilegiare i magistrati, ma per privilegiare i cittadini affinché fossero protetti dalla minaccia di giudici non indipendenti. Ciò che già era emerso decine di volte e che adesso Palamara conferma con date, nomi e fatti, sembra certificare il contrario: una parte dei “clerk”, dei funzionari, hanno affinato poteri e privilegi abusivi con cui comandano sia sugli altri giudici che sulla politica, l’economia e l’informazione. E naturalmente su tutti i cittadini che inquisiscono e che giudicano, non sappiamo più con quali criteri. Sappiamo che questa proposta non passerà. O non passerà subito. Assisteremo a ondate di spalle scrollate e di sguardi di compatimento, a derisioni e minacce. Tutto previsto. Ma il cammino per la rigenerazione della cadaverica democrazia italiana può partire solo da lì: dal ripristino della legalità repubblicana nella magistratura, e dalla liberazione della democrazia dal tiranno. Si tratta, come ognuno può vedere, di una vera guerra di liberazione che potrà essere vinta soltanto se le parti sane della democrazia sapranno schierarsi e battersi.

Il partito dei Pm ha ucciso lo Stato di diritto, altro che quella piccola loggia di Licio Gelli. Piero Sansonetti su Il Riformista il 3 Luglio 2020. Un mio amico giornalista l’altro giorno mi ha detto che magistratopoli è un po’ più del circolo Aniene e un po’ meno della P2. Io penso che sia il contrario: un po’ meno del circolo Aniene e un po’ più della P2. Il circolo Aniene è un luogo conosciuto dai romani. Un circolo sportivo tra il quartiere Flaminio e Parioli frequentato solo da vip molto vip. Che si scambiano favori e favorini, biglietti delle partite, inviti alle feste, qualche pizzino, qualche raccomandazione importante. La P2 invece è un luogo conosciuto da chi ha più di 50 anni: è il luogo dove l’immaginario politico collettivo ha collocato la sede di ogni male, ogni delitto e ogni prevaricazione politica del Novecento. Era una loggia massonica presieduta da un certo Licio Gelli, faccendiere ed ex 007 a servizio di varie bandiere, che viaggiava tra progetti di grandi riforme dello Stato e affari che lo portarono, essenzialmente, a mettere le mani sul Corriere della Sera. Per stroncare la P2, i partiti della prima Repubblica si unirono, istituirono una commissione parlamentare di inchiesta che lavorò alacremente per anni e pronunciò molte condanne incontrovertibili, anche se trovò, poi, alla fine, pochi delitti. Chissà se ora oseranno istituire una commissione di inchiesta sulla magistratura. Magistratopoli secondo me è una organizzazione molto più potente della P2. Anche perché la sua organizzazione è segreta ma la sua azione è alla luce del sole ed è una azione devastante. Magistratopoli è una organizzazione segreta che condiziona e indirizza una parte molto grande della giurisdizione. È in grado di avviare processi, di fare arrestare delle persone, di processare, di condannare o assolvere a seconda delle convenienze, o delle simpatie, o delle necessità di carriera dei magistrati coinvolti. Tutti noi siamo potenziali vittime di magistratopoli, non solo i politici, non solo Berlusconi. Il Palamara-Gate ci ha mostrato che questa organizzazione segreta, che in passato – e prima che scoppiasse lo scandalo di magistratopoli – noi chiamavamo il partito dei Pm, era in grado (lo è ancora) di governare tutto il sistema della giustizia. In parte lo faceva seguendo logiche del tutto interne alla corporazione, che per noi restano oscure (chi doveva salire in carriera, chi doveva scendere, chi voleva cambiare sede, chi aveva rotto gli equilibri e andava punito…), in parte invece seguiva logiche politiche. Quali erano (anzi: sono, perché il partito dei Pm è ancora vivente e molto forte) queste logiche? Essenzialmente si trattava di ottenere dal Parlamento e dal governo la certezza che nessuno osasse mettere in discussione la Casta dei magistrati e le sue prebende, e i suoi privilegi e – soprattutto – il suo potere. Questa battaglia continua, affidata non solo ai 5 Stelle. Per ottenere questo risultato si seguiva (si segue) un percorso ideologico: il davighismo, che va anche sotto il nome di travaglismo. Consiste nel considerare sostanzialmente tutti coloro che non fanno parte della casta, o della sua servitù, come colpevoli. Da colpire o risparmiare a seconda di come si comportano, e se si piegano, e se ossequiano o invece sbeffeggiano. Si chiama giustizialismo. Il giustizialismo, attraverso il partito dei Pm e la nuova P2, è diventato una vera e propria ideologia, come in passato lo sono state il comunismo, il fascismo, il liberalismo. E il sangue e la carne di questa ideologia è la lotta al garantismo. Cioè all’idea che difende lo Stato di Diritto. Il partito dei Pm, diciamo pure la nuova P2, vede lo Stato di Diritto come il nemico giurato. Satana. Perché lo Stato di diritto esclude la prevalenza di un potere sull’altro, esclude la sottomissione della società a una casta eletta, esclude la subordinazione della legalità all’etica. Questo partito, questa grande e fortissima loggia, a differenza della piccola loggia di Licio Gelli, ha vinto. Ha messo in ginocchio la democrazia e il sistema liberale. Ha guidato molti rovesciamenti di maggioranza, a livello centrale o regionale o dei grandi comuni, indifferentemente favorendo la destra o la sinistra. Per questo dico che è molto più potente e non più modesta della P2. E sapete perché ha vinto? Perché ha ottenuto il pieno appoggio di quasi tutto lo schieramento politico, e in particolare l’appoggio incondizionato della sinistra. La sinistra ha tradito la sua vocazione democratica e si è messa a disposizione del partito dei Pm, convinta di potere in questo modo sconfiggere la destra, e in particolare Berlusconi. Il risultato? Quello di sempre: quando ti schieri con gli autoritari e i giustizialisti spingi sempre il paese a destra. L’azione dei magistrati, appoggiati dalla sinistra, ha raso al suolo la destra liberale e ha dato le chiavi dello schieramento conservatore in mano a Matteo Salvini e alla Meloni. È una legge della storia: il giustizialismo, la lotta ai diritti e alla libertà, spinge solo verso la destra reazionaria. Infatti sull’affare Berlusconi, cioè sulla sentenza pilotata contro di lui della quale si parla in questi giorni, abbiamo provato a intervistare vari esponenti della sinistra storica. Hanno tutti declinato. Tranne quel vecchio leone, quel combattente che non lo abbatti mai, 96 anni, ottanta dei quali passati nelle trincee della politica, che risponde al nome di Emanuele Macaluso. Se in Italia ci fossero stati, non dico tanto, una decina di giganti come Macaluso…

·        Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Inchiesta P4.

L'inchiesta finì con un nulla di fatto ma lasciò dietro di se molte vittime. “Sono stato la "mela marcia" per 11 anni, ma ero innocente”: l’inferno giudiziario di Enrico La Monica, coinvolto nell’inchiesta P4. Rossella Grasso su Il Riformista l'1 Aprile 2021. Nel 2011 non c’era programma televisivo o giornale che almeno una volta al giorno non parlasse dell’inchiesta P4, che scosse seriamente il Governo Berlusconi (nato nel 2008, ndr) vedendo coinvolto il deputato dell’allora Popolo delle Libertà Alfonso Papa. Ma undici anni dopo tutta l’inchiesta condotta dalla Procura di Napoli su iniziativa dei pm Henry John Woodcock e Francesco Curcio, partita per fare luce su un ipotetico sistema segreto, che avrebbe avuto l’obiettivo di gestire e manipolare informazioni sensibili o coperte da segreto istruttorio, oltre che di controllare e influenzare l’assegnazione di appalti e nomine, interferendo anche nelle funzioni di organi costituzionali, finì con un nulla di fatto. O meglio con un solo colpevole, Luigi Bisignani, che chiese il rito abbreviato e scontò gli arresti domiciliari per stare vicino a sua figlia che in quel periodo aveva gravi problemi di salute. Ma le vittime che si porta dietro sono tante. Una di queste è Enrico La Monica, ex Maresciallo dei Ros sezione anticrimine di Napoli, attualmente impiegato presso il ministero della Difesa in abiti civili. “Per la prima volta nella storia del diritto italiano abbiamo il caso di un associato con se stesso, che costituisce un’associazione. Anche l’indagine madre è finita con l’assoluzione di tutti i protagonisti coinvolti. Imprenditori che si sono trovati a conclusione di un processo sul lastrico”, racconta La Monica. Il suo volto non era mai comparso da nessuna parte ma il suo nome è stato per anni sulla bocca di tutti. “La mela marcia dell’arma”, così era stato etichettato e la sua persecuzione è durata anni, nonostante poi fosse stato assolto da tutte le gravi accuse che pendevano su di lui.

LA VICENDA – Ora che il processo è definitivamente concluso ha voluto raccontare al Riformista quell’incubo che gli ha tolto tutto, anche i sogni e le ambizioni. E la sensazione di solitudine e abbandono, la gogna che per anni ha pesato sul suo capo “una macchia che in Italia può rimanere indelebile”, dice. La sua vicenda inizia nel 2010 quando persone a lui vicine vengono sentite dalla Procura di Napoli apparentemente per altri motivi. “Quando veniva fuori il mio nome i giudici sorridevano e così ho capito che c’era qualcosa che non andava – racconta La Monica –  Avevo programmato un viaggio verso Dakar perché mia moglie e mio figlio vivevano lì. Nel dicembre 2010 mi fu chiaro che c’era qualche problema. Mia moglie fu fermata all’aeroporto di Milano e sottoposta a ispezione personale. Le sequestrarono una somma di denaro e una chiavetta USB. Su questa si creò per anni una dietrologia fantastica. La stampa dell’epoca disse che in quella chiavetta c’erano i segreti della P4. Invece lì dentro c’era una rubrica telefonica salvata da un vecchio telefono rotto e delle lezioni di investigazione criminale che avevo redatto con il mio amico Luca Leghissa. Anche lui ha subito un interrogatorio”.

L’ARRESTO – Nel giugno 2011 arriva l’ordinanza di custodia cautelare con vari capi di imputazione: dalla contestazione della legge Anselmi, corruzione, rivelazione di segreto d’ufficio, favoreggiamento, fino alla concussione. “Io mi trovavo a Dakar – racconta La Monica – quella sera vidi infrangersi tutti i miei sogni. Svanirono nel nulla i miei quasi 20 anni nella arma dei Carabinieri. Io non sono entrato nell’arma perché non sapevo cosa fare, sono laureato in giurisprudenza, ma credevo fortemente nell’idea di fare qualcosa per la società, tanto che quando ero in servizio a Napoli sono stato impegnato in indagini delicatissime”. Dopo aver ricevuto un’ordinanza di custodia cautelare non è più tornato in Italia in attesa di un pronunciamento arrivato 3 anni dopo. “Altrimenti avrei fatto minimo 11 mesi di custodia cautelare – spiega l’ex maresciallo –  Da noi è un modo di fare questo che non serve a far cessare il corso di un’attività delittuosa, ma uno strumento per infierire, un vero baratto tra libertà e dichiarazioni”.

LA PERSECUZIONE – “Leggevo i quotidiani e capivo che il mio nome era diventato il punto di riferimento della cronaca nera napoletana – continua il suo racconto al Riformista –  Non c’era giorno in cui non si parlasse della P4, che si scrivesse del maresciallo La Monica. Ci furono dei bontemponi che si presero la briga di telefonare in Senegal all’ambasciata per dire cha a Dakar c’era il criminale La Monica. C’era già il giudizio implacabile della mela marcia, della divisa sporca: erano tutti giudici e preti. Sui giornali uscì anche la fotografia della casa dove alloggiavo. Sono stati 5 anni non semplici”. La famiglia di La Monica è stata a più riprese oggetto di perquisizioni, anche domiciliari, e interrogatori. “Nell’ordinanza di custodia cautelare c’era una pagina dedicata a una mia conversazione intercettata con mia madre. Era in dialetto napoletano, che io non ho mai imparato. Con mia madre ho sempre parlato in dialetto calabrese. Una frase fu tradotta male in italiano: sostenevano che avessi confessato a mia madre di conoscere dei segreti. Ma non era così. I miei genitori anziani durante gli interrogatori potevano solo dire che io ero il loro figlio, niente più”. L’impressione dell’ex maresciallo era quella della persecuzione, di trovare la scusa e il modo per cercare o anche estorcere informazioni su di lui.

LA BATTAGLIA LEGALE – È qui che per La Monica inizia una vera e propria corsa contro il tempo, i ricorsi in Cassazione, tutti vinti. Nel 2017 l’ultimo rinvio a giudizio, anche in questo caso conclusosi con l’assoluzione. “Questa (l’udienza preliminare, ndr) fu fatta senza alcuna istruttoria, senza alcuna valutazione dei dati, senza neanche ascoltare quelle che potevano essere le tesi difensive – racconta La Monica –  A quel punto non sei più una persona, sei un numero di un procedimento penale. Per cui vieni sottoposto a giudizio e sai che troverai la tua condanna o assoluzione anche tra 8 anni. Io devo ringraziare poche persone per quegli anni ma soprattutto il mio avvocato che mi è sempre stato vicino e Nuzzo, che non si è piegato a dire il falso, barattando la sua libertà con una mia condanna”. Tra le persone coinvolte nell’indagine c’era infatti anche Giuseppe Nuzzo, all’epoca poliziotto, amico e persona di grande fiducia di La Monica che fu coinvolto nell’indagine. Anche per lui iniziò così il calvario giudiziario durato 11 anni e l’espulsione dalla Polizia. “In quell’inchiesta furono ascoltati i massimi vertici delle Istituzioni – continua il racconto –  dal Presidente del Copasir Massimo D’Alema, a cui chiesero se mi conosceva: lui probabilmente avrà riso perché non aveva idea di chi io fossi. Stessa cosa per i vertici della Guardia di Finanza. Guardandola a posteriori ho l’impressione che questa vicenda serviva solo per regolare delle situazioni che io non posso assolutamente conoscere”, aggiunge l’ex maresciallo.

IL COSTO PAGATO – Il costo di quell’indagine conclusasi 11 anni dopo con un nulla di fatto per Enrico La Monica è stato enorme. “Innanzitutto mia moglie mi ha lasciato – racconta La Monica –  Essere perquisita e additata come narcotrafficante per una donna senegalese è un’onta enorme. Poi ho perso anche l’Arma. Non mi hanno cacciato, sono stato io che non mi sentivo più a mio agio nel rivestire il ruolo di Maresciallo. Sono anche stato ricoverato per un periodo in un ospedale psichiatrico dopo i fatti successi in Senegal”, è l’amara confessione che fa La Monica.

IL RIENTRO IN ITALIA – Dopo 6 mesi dall’annullamento dell’ordinanza di custodia cautelare, La Monica  rientrò in Italia. In un albergo romano dove alloggiava fu raggiunto durante la notte dagli agenti di polizia. “Mi puntarono la pistola alla tempia e mi intimarono di seguirli in commissariato – continua La Monica – C’era stato un errore ma io potevo solo aspettare. Il pomeriggio seguente fu Woodcock stesso a telefonare per dire che non c’erano provvedimenti attivi sul mio conto. L’impressione fu quella di dire ‘lasciatelo uscire e vediamo cosa fa”.

IL MARCHIO INDELEBILE – Secondo l’ex Maresciallo La Monica “in Italia il fatto di essere indagato o imputato è un marchio che ti rimane per tutta la vita. Recentemente ho redatto una consulenza su un procedimento penale molto delicato, sull’analisi delle celle e del traffico telefonico, la mia specialità nell’arma – aggiunge La Monica – la Procura ha giudicato negativamente il mio operato dicendo che nel 2010 ero stato coinvolto in quella vicenda giudiziaria, nonostante poi io ne sia uscito assolto”. Per La Monica l’incubo di quell’inchiesta è durato 11 anni e si è definitivamente concluso il 25 gennaio 2021. “A posteriori dico che l’impressione è che quell’inchiesta fosse servita a risistemare equilibri di cui non so nulla – conclude – Si cercava non so cosa, tanto che in tutte le perquisizioni non sono mai stati trovati i dossier o elenchi di appartenenti. Negli stessi capi d’imputazione non si dice mai quali sono le informazioni che io avrei riferito ma che erano coperte da segreto. Non si dice neppure con chi io mi sarei interfacciato per acquisire e quindi essere co-rei delle condotte che mi venivano contestate”.

L'indagine scosse il mondo della politica. Inchiesta P4 : “Ero il capro espiatorio, mi hanno distrutto la vita”. Il calvario dell’ex poliziotto Giuseppe Nuzzo. Rossella Grasso su Il Riformista il 25 Febbraio 2021. “Ancora una volta i piccoli pagano per tutti. In una vicenda così grande che ha coinvolto l’intero governo Berlusconi chi paga è un appuntato, un signor nessuno di un commissariato sperduto”. Giuseppe Nuzzo, 48 anni, di Santa Maria a Vico, ex poliziotto, ha tanta rabbia dentro per una bufera che coinvolse grandi nomi della politica e dell’alta società e che poi finì per ricadere su di lui. L’inchiesta ha un nome importante “P4” e nel 2011 coinvolse personaggi altrettanto noti come quello di Alfonso Papa, allora deputato PdL e Luigi Bisignani. Nomi dietro cui quello del poliziotto Giuseppe Nuzzo scompare ma non per gli effetti di quella bufera giudiziaria e politica. L’inchiesta iniziò nel 2011 ed è forse una delle più pubblicamente raccontate di sempre. Diventò famosa anche per il massiccio uso delle imbarazzanti intercettazioni che trapelarono dagli atti giudiziari e di cui fu vittima anche Giuseppe Nuzzo. L’ipotesi era quella di associazione sovversiva ma tuttavia, le ipotesi accusatorie vennero radicalmente ridimensionate dai magistrati della Cassazione e del riesame di Napoli, i quali sancirono l’insussistenza degli indizi in relazione al reato. Tutta l’inchiesta fu poi completamente sgonfiata. Cosa c’entra lo sconosciuto Giuseppe Nuzzo in tutto questo? Poliziotto da quando aveva 20 anni, il suo lavoro si svolgeva nella zona del Vasto. Era amico e fido collaboratore del maresciallo Enrico La Monica. “Un giorno il maresciallo mi chiese la cortesia di andare a ritirare un plico da un imprenditore suo amico – racconta –  Quest’ultimo temeva che ci fosse un giro di mazzette dietro una serie di commesse che stava perdendo. Nel plico non c’era nessun indizio o prova per cui La Monica gli disse di andare a denunciare. Lui rifiutò per paura di avere problemi negli affari. Poco dopo però si presentò da Henry Jhon Woodcock con lo stesso plico dicendo che aveva avuto a che fare anche con me”. “Mi iniziarono a pedinare e a intercettare– continua il racconto Nuzzo – Io lavoravo spesso con i migranti. Una donna mi chiese aiuto per far avere la cittadinanza italiana a un ragazzo che aveva la mamma italiana, una semplice procedura da fare al comune, ma non sapeva come muoversi. Nel chiedermelo disse anche che mi avrebbe fatto una regalia se serviva, cosa che non avrei mai accettato. Però questa frase fu intercettata e usata contro di me perché faceva comodo”. “A quel punto l’indagine si divide in due filoni: il primo, quello delle presunte mazzette denunciate dall’imprenditore finito con un nulla di fatto perché il fatto non sussiste; e poi quella che presuntamente incolpava me per la questione dei migranti. Fui chiamato in interrogatorio e con mia sorpresa le domande riguardavano il maresciallo La Monica. Mi mostrarono delle foto. Erano tutte persone che io non conoscevo e che solo dopo ho saputo essere politici importanti”. È così che per Nuzzo inizia un calvario giudiziario durato 11 anni ma che ha ancora ripercussioni sulla sua vita. Nel marzo 2011 fu arrestato per aver millantato il credito, di aver conosciuto le persone giuste per far avere la cittadinanza italiana al ragazzo, in cambio di una somma di denaro. “Mi hanno accusato anche di aver promosso un’organizzazione segreta con il maresciallo La Monica, Bisignani e Papa. Mi sono trovato indagato per associazione sovversiva. Il massimo previsto per questa pena è di 90 giorni, io ne ho fatti 88. Poi sono stato assolto definitivamente anche da questa accusa”. Con l’arresto Nuzzo è stato sospeso dal servizio. Voleva rientrare in polizia ma lo hanno dichiarato non idoneo. “La Procura ha espresso parere sfavorevole”, ha detto Nuzzo. Si è trovato così per strada a doversi reinventare una vita intera. Nel febbraio 2016 è stato assolto per la vicenda dell’immigrazione. Ha provato a superare le prove per essere reintegrato ma niente, gli hanno affibbiato una invalidità. “Il presidente della commissione mi disse "Nuzzo mi dispiace, è l’unica occasione che abbiamo per buttarla fuori". In tutto questo ero stato assolto definitivamente da tutti i reati in cui era imputato”. Quella vicenda giudiziaria è costata molto all’ex poliziotto di un commissariato periferico. Non è stato un costo solo in denaro (adesso è costretto a vivere con una pensione di invalidità minima), ma soprattutto emotivo ed esistenziale. “Credo fortemente nella Polizia e nel mio lavoro – conclude – Sono venute meno tante certezze, non è giusto che una persona debba pagare così per delle colpe che non ha. I danni me li porterò per sempre dentro, sono ferite che ti segnano per tutta la vita”. 

L'ultima inchiesta. Tutti i flop di Woodcock: dal Vipgate in poi, storia dei fallimenti del Pm che non ne indovina una. Paolo Comi su Il Riformista il 25 Febbraio 2021. Ci risiamo. La nuova maxi inchiesta da prima pagina del pm napoletano Henry John Woodcock si è già sciolta come neve al sole. Era un po’, a dire il vero, che non si avevano notizie di indagini da parte del pm anglo-napoletano. Questi, comunque, i fatti. Secondo la procura di Napoli, i vertici dell’università telematica Pegaso, nata nel 2006 e forte attualmente di centomila iscritti e ben seicento enti convenzionati, fra cui l’Arma dei carabinieri, sarebbero riusciti a far votare un emendamento nella scorsa legge di Bilancio che cambiava il regime fiscale nei confronti degli atenei privati. Il motivo? La successiva vendita del 50 percento delle quote societarie ad un fondo americano. Il reato ipotizzato è quello di corruzione, un reato “passpartout”, come l’abuso d’ufficio, e ultimamente anche il traffico d’influenze, che non si nega a nessuno. I vertici dell’ateneo telematico avrebbero trovato per il loro disegno criminoso una sponda a Roma. Oltre che al Miur, anche al Consiglio di Stato, chiamato a dare un parere consultivo sulla norma poi approvata dal Parlamento. Fra gli indagati eccellenti, il presidente della Pegaso, Danilo Iervolino, difeso dagli avvocati Vincenzo Maiello e Giuseppe Saccone, il direttore generale Elio Pariota, anch’egli difeso dall’avvocato Saccone, il capo ufficio marketing Maria Rosaria Andria, il vice prefetto Biagio Del Preto, all’epoca dei fatti capo segreteria del Miur, e alcuni professionisti. Indagato anche il professore Francesco Fimmanò, che ha avuto la sfortuna, di rappresentare l’università nel procedimento innanzi al Consiglio di Stato sezione consultiva. Non noto il nome del giudice del Consiglio di Stato che avrebbe avallato il parere “pro Pegaso”. Il prezzo della corruzione sarebbe consistito in un weekend nella ridente località montana di Pescocostanzo e nella partecipazione al Comitato scientifico di un master dell’università. Le indagini sono state condotte dalla guardia di finanza per oltre un anno con l’utilizzo massiccio di intercettazioni di ogni tipo. Volevano ad ogni costo sapere se davvero quei brutti ceffi erano stati a Pescocostanzo e se si erano divertiti e quanto si erano divertiti. Nei giorni scorsi, però, il Riesame di Napoli, presidente Alfonso Sabella, ha annullato tutti i sequestri dei cellulari e dei tablet che erano stati eseguiti dagli inquirenti, ritenuto assente il cosiddetto “fumus”. Va detto che è molto inusuale che venga annullato un decreto sequestro probatorio che, per sua natura, si fonda su ipotesi indiziarie minime. Ciò lascia capire, come dichiarato da uno dei difensori degli indagati, il «contesto di sconcertante debolezza» dell’impianto accusatorio. In attesa di conoscere le mosse della procura, gli indagati hanno chiesto lo spostamento del fascicolo a Roma. «Non v’è una sola circostanza della ipotesi di reato che potesse essere potenzialmente commessa nel circondario del Tribunale di Napoli. Il Parlamento italiano è a Roma, come pure il Miur e ogni altro Ministero, come pure il Consiglio di Stato, come pure le Commissioni parlamentari e come pure per il ruolo era Del Prete», si legge in una nota. Sul fronte delle indagini condotte da Woodcock vale la pena a questo punto ricordare il numero incredibile di assoluzioni e proscioglimenti. Fra i casi più eclatanti, il cosiddetto “Vipgate”: un’inchiesta partita nel 2003 che coinvolse a vario titolo settantotto persone tra cui i politici Franco Marini, recentemente scomparso, Nicola Latorre, Maurizio Gasparri, Francesco Storace, il diplomatico Umberto Vattani, il cantante Tony Renis e la conduttrice tv Anna La Rosa. Le accuse terribili (associazione per delinquere per la turbativa di appalti, corruzione, estorsione e tante altre) vennero archiviate dal Tribunale di Roma, a cui l’inchiesta era stata trasferita per competenza. Poi “Iene 2” che nel 2004 ipotizzò un sodalizio tra esponenti politici lucani e criminalità organizzata e finì con cinquantuno arresti respinti. Quindi il mitico “Savoiagate” con l’arresto fra gli altri del figlio del re Umberto di Savoia, Vittorio Emanuele, per associazione per delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione, alla corruzione e alla concussione. Approdata l’inchiesta a Como, vennero tutti assolti perché il fatto non sussisteva. Ma vedi un po’. Segue “Vallettopoli”, un giro di ricatti nel mondo dello spettacolo. Fra gli indagati, Elisabetta Gregoraci, il portavoce del presidente Gianfranco Fini Salvatore Sottile, Lele Mora, l’allora ministro Alfredo Pecoraro Scanio. L’inchiesta, come si ricorderà, arrivò al Tribunale dei ministri di Roma e venne chiusa con archiviazioni di massa. Voi dite: beh, poi basta. Macché, c’è ancora l’indagine sulla super loggia segreta P4, quella massoneria lucana e, da ultimo, il procedimento Consip. Questa inchiesta costò un procedimento disciplinare al Csm da cui Woodcock è stato completamente assolto e una citazione nel libro di Luca Palamara. Abbastanza inquietante la citazione, perché riguarda anche il vicepresidente del Csm Legnini, e una intercettazione fantasma, e il rischio che questa intercettazione facesse scandalo, e la decisione di chiudere tutto in fretta. Un must, considerando il successo clamoroso del libro, giunto alla terza ristampa e con l’edizione in lingua inglese e la docuserie in pista di lancio.

·        Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il misterioso “caso Antoci”. (Segue dal 2020)

Mafia dei Nebrodi, 24 anni al boss Bontempo. Antoci: “Io oggi sono vivo dopo l'attentato, lui in carcere”. Le Iene News il 23 aprile 2021. Arrivano le prime sei pesanti condanne con rito abbreviato al maxi processo "Nebrodi" di Messina per le truffe milionarie della mafia rurale sui fondi pubblici italiani ed europei all'agricoltura. Un processo storico anche come dimensioni, con 102 imputati e oltre 700 testimoni previsti. “Il primo passo è fatto”, dice l'ex presidente del parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, sopravvissuto come vi abbiamo raccontato con Gaetano Pecoraro a un attentato nel 2016 e vittima pure del successivo "mascariamento". Oltre 52 anni di carcere per sei imputati, di cui 24 per il solo Sebastiano Bontempo. Arrivano le prime pesanti condanne con il rito abbrevviato al maxiprocesso “Nebrodi” che con 102 di imputati è il più grande mai celebrato in Europa per truffe milionarie ai fondi pubblici all’agricoltura. Una truffa che noi de Le Iene vi abbiamo raccontato fin dall'inizio assieme all'attentato subito nel 2016 dall'ex presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, come vedete qui sopra nel servizio di Gaetano Pecoraro. Con la nostra Iena, come vi raccontiamo più in basso, abbiamo sempre seguito questa storia fino al recente "mascariamento". Per il boss Bontempo, la Gup Simona Finocchiaro è andata oltre la richiesta di 20 anni dei pm. Altri sei i condannati, due gli assolti.  Anche il dibattimento si preannuncia ora di dimensioni storiche con 307 testimoni chiesti dalla Procura e oltre 400 dalle difese. “Il primo passo è fatto con queste condanne esemplari”, ha commentato Giuseppe Antoci, “e sono quelle che si meritano per aver tenuto in ostaggio un territorio, mortificandolo, derubandolo e facendolo regredire. Quei fondi dovevano andare agli allevatori e agricoltori perbene e non ai mafiosi. Questo primo passo fa ben sperare per il prosieguo del Maxiprocesso. Io sarò qui ad attendere”. “Nel 2016 gli accoliti di Sebastiano Bontempo non sapendo di essere intercettati dissero che ci sarebbero voluti cinque colpi per farla finita con Antoci”, prosegue, parlando del boss appena condannato, l’ex presidente del Parco, sopravvissuto all’attentato del 2016 e che ha voluto essere presente a inizio marzo all’apertura del processo. “Bene, oggi io vivo grazie alla mia scorta, lui in carcere per i prossimi vent'anni. Questa vicenda ha stravolto la mia vita e quella della mia famiglia ma sono orgoglioso del lavoro svolto perché con il Protocollo che porta il mio nome, poi inserito nel codice Antimafia, abbiamo colpito con un’azione senza precedenti una mafia ricca, potente e violenta, ed è per questo che quella notte volevano fermarmi. Volevano bloccare l’idea di una legge nazionale e dunque tutto quello che sta accadendo oggi. Ma io adesso, grazie alla mia scorta della polizia, sono ancora qui e vedo loro alla sbarra e quel sistema mafioso andato in frantumi grazie all’eccellente lavoro svolto dalla procura Antimafia di Messina, dai carabinieri del Ros e dalla Guardia di Finanza. Mi sembra un buon osservatorio dal quale attendere le altre condanne”.

L’ATTENTATO E IL “MASCARIAMENTO”. Giuseppe Antoci da presidente del Parco dei Nebrodi con il suo Protocollo di contrasto alla criminalità organizzata aveva provocato la perdita di un business milionario per la mafia rurale. Per questo Il 18 maggio 2016 è arrivato l’attentato in una strada isolata: la macchina blindata e l’intervento tempestivo degli agenti della scorta lo hanno salvato dalle pallottole. Anche ad anni di distanza, ora che Antoci non ricopre più alcun incarico pubblico, la sua figura è ancora al centro dell’attenzione della malavita e di una possibile operazione di “mascariamento”, di macchina del fango volta a oscura la sua figura e la sua lotta ai clan. Un anno fa vi abbiamo raccontato i nostri dubbi su quanto concluso della Commissione antimafia siciliana che con un'inchiesta aveva lasciato aperte tre conclusioni su quell’attentato: atto dimostrativo non destinato a uccidere, messinscena a sua insaputa, attentato mafioso (qui potete trovare anche il servizio successivo). Di queste tre, si sosteneva, “l’attentato di mafia è la meno plausibile”. Una posizione ribadita dal presidente di quella commissione, Claudio Fava. Il gip del Tribunale di Messina ha messo poi la parola fine in luglio a queste ipotesi dal punto di vista giudiziario. “Sebbene le indagini non abbiano consentito di risalire agli autori dell’attentato", scrive disponendo l’archiviazione dell’inchiesta bis, “la conclusione raggiunta dalla Commissione d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia ossia che l’ipotesi del fallito attentato mafioso sia la meno plausibile appare preconcetta e comunque non supportata da alcun dato probatorio". “Sono pure elucubrazioni mentali”, si legge nell’ordinanza, “non corroborate da alcun dato probatorio pensare a un coinvolgimento di Antoci o degli agenti della sua scorta”.

IL MAXIPROCESSO. Il processo appena iniziato a Messina nasce dal blitz del gennaio 2020 con 94 arresti, a cui sono seguiti in dicembre 97 rinvii a giudizio. L’accusa è di far parte di una delle organizzazioni criminali più pericolose, la mafia rurale, capace di accaparrarsi senza mai dare nell’occhio enormi flussi di denaro pubblico (parliamo di milioni e milioni di euro). Tra gli imputati ci sono alcuni esponenti delle famiglie mafiose di Tortorici, il cuore del Parco dei Nebrodi, i Bontempo Scavo e i Batanesi, accusati a vario titolo di intestazione fittizia di beni, estorsione, truffa aggravata, associazione mafiosa e traffico di droga. Il meccanismo della truffa sarebbe questo: si individuavano terreni “liberi”, sui quali cioè non sono stati richiesti i finanziamenti europei, in un secondo momento i proprietari di quei terreni vengono convinti con le buone o con le cattive a sottoscrivere contratti di affitto a prestanomi della mafia. Mafia che alla fine intasca i ricchi fondi europei. “Abbiamo scoperto che i terreni degli enti pubblici sono stati per anni fonte di finanziamento per alcune associazioni mafiose”, ha raccontato Antoci a Gaetano Pecoraro. “La torta era divisa in mano a pochi. Con 1.000 ettari di terreno si paga un affitto di 52mila euro l’anno, ma si arriva a ottenere anche 550mila euro l’anno di finanziamenti. Un sistema che consentiva di ottenere dall’Europa milioni e milioni di euro in maniera assolutamente legalizzata e senza rischio”.

Maxiprocesso alla mafia dei Nebrodi, Antoci: “Ha vinto lo Stato”. Le Iene News il 02 marzo 2021. Inizia nell’aula bunker di Messina il processo alla mafia rurale che si sarebbe accaparrata milioni di euro di finanziamenti europei. Cento gli imputati. Presente anche Giuseppe Antoci, che da presidente del Parco dei Nebrodi l’ha combattuta duramente e che per questo è stato vittima di un attentato, come vi abbiamo raccontato con Gaetano Pecoraro: “Voglio guardarli negli occhi gli imputati, uno per uno”. “Voglio guardarli negli occhi gli imputati, uno per uno”. Giuseppe Antoci si è presentato nell’aula bunker del carcere Gazzi di Messina all’apertura del “maxiprocesso Nebrodi” con cento imputati, tra vecchi e nuovi boss che sarebbero coinvolti nelle truffe milionarie sui fondi dell’Unione europea. Lui che, quando era presidente del Parco dei Nebrodi in Sicilia, ha subìto nel 2016 un attentato proprio per la sua lotta a queste truffe dei clan. Un attentato sventato dalla scorta di cui vi abbiamo parlato già nel 2016 come vedete qui sopra e di cui siamo occupati poi con altri servizi sempre di Gaetano Pecoraro. “Ha vinto lo Stato”, dice oggi Antoci. “Dobbiamo sperare e capire che ce la possiamo fare, senza fare gli eroi, ma semplicemente adempiendo ai propri doveri, con la schiena dritta e non abbassando mai gli occhi. Bisogna dare un senso alle proprie scelte, e ne vale la pena”. Giuseppe Antoci da presidente del Parco dei Nebrodi con il suo protocollo di contrasto alla criminalità organizzata aveva provocato la perdita di un business milionario per la mafia rurale. Per questo Il 18 maggio 2016 è arrivato l’attentato in una strada isolata: la macchina blindata e l’intervento tempestivo degli agenti della scorta lo hanno salvato dalle pallottole. Anche ad anni di distanza, ora che Antoci non ricopre più alcun incarico pubblico, la sua figura sembra ancora al centro dell’attenzione della malavita e di una possibile operazione di “mascariamento”, di macchina del fango volta a oscura la sua figura e la sua lotta ai clan. Un anno fa vi abbiamo raccontato i nostri dubbi su quanto concluso della Commissione antimafia siciliana che con un'inchiesta aveva lasciato aperte tre conclusioni su quell’attentato: atto dimostrativo non destinato a uccidere, messinscena a sua insaputa, attentato mafioso (qui potete trovare anche il servizio successivo). Di queste tre, si sosteneva, “l’attentato di mafia è la meno plausibile”. Una posizione ribadita dal presidente di quella commissione, Claudio Fava. Il gip del Tribunale di Messina ha messo poi la parola fine in luglio a queste ipotesi dal punto di vista giudiziario. “Sebbene le indagini non abbiano consentito di risalire agli autori dell’attentato", scrive disponendo l’archiviazione dell’inchiesta bis, “la conclusione raggiunta dalla Commissione d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia ossia che l’ipotesi del fallito attentato mafioso sia la meno plausibile appare preconcetta e comunque non supportata da alcun dato probatorio". “Sono pure elucubrazioni mentali”, si legge nell’ordinanza, “non corroborate da alcun dato probatorio pensare a un coinvolgimento di Antoci o degli agenti della sua scorta”. Il processo appena iniziato a Messina nasce dal blitz del gennaio 2020 con 94 arresti, a cui sono seguiti in dicembre 97 rinvii a giudizio. L’accusa è di far parte di una delle organizzazioni criminali più pericolose, la mafia rurale, capace di accaparrarsi senza mai dare nell’occhio enormi flussi di denaro pubblico (parliamo di milioni e milioni di euro). Tra gli imputati ci sono alcuni esponenti delle famiglie mafiose di Tortorici, il cuore del Parco dei Nebrodi, i Bontempo Scavo e i Batanesi, accusati a vario titolo di intestazione fittizia di beni, estorsione, truffa aggravata, associazione mafiosa e traffico di droga. Il meccanismo della truffa sarebbe questo: si individuavano terreni “liberi”, sui quali cioè non sono stati richiesti i finanziamenti europei, in un secondo momento i proprietari di quei terreni vengono convinti con le buone o con le cattive a sottoscrivere contratti di affitto a prestanomi della mafia. Mafia che alla fine intasca i ricchi fondi europei. “Abbiamo scoperto che i terreni degli enti pubblici sono stati per anni fonte di finanziamento per alcune associazioni mafiose”, racconta Antoci alla Iena. “La torta era divisa in mano a pochi. Con 1.000 ettari di terreno si paga un affitto di 52mila euro l’anno, ma si arriva a ottenere anche 550mila euro l’anno di finanziamenti. Un sistema che consentiva di ottenere dall’Europa milioni e milioni di euro in maniera assolutamente legalizzata e senza rischio”. 

·        Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Cesare Terranova.

Cesare Terranova, il giudice solo che provò a fermare i Corleonesi. Il 25 settembre di 42 anni fa Cosa nostra assassinò il magistrato che aveva iniziato a indagare su Liggio, Riina e Provenzano già negli anni Sessanta. La sua storia, le sue amarezze e il suo isolamento, permettono di rileggere cinquant’anni di vita repubblicana sotto ipoteca criminale. Tra patti e ricatti. Un film e un libro per ricordarlo. Enrico Bellavia su L’Espresso il 24 settembre 2021. Potevano fermarli prima. Agli albori della loro carriera criminale, quando la stella di Luciano Liggio, Bernardo Provenzano e Totò Riina, ucciso il medico boss Michele Navarra, “u’ patri nostru”, iniziò a brillare. Al fuoco dei mitra, al piombo delle lupare, nel rosso sangue dei morti. Quando l’impostura di una Corleone asservita, omertosa, silente e complice, come l’intera Sicilia, iniziò a consolidarsi. E quel grumo di case sotto Rocca Busambra diventò sinonimo di mafia. Incurante dei tanti, i ribelli li chiamavano, che avevano detto di no. Si perpetuò così una narrazione che consegnò all’altare degli eroi le spoglie di magistrati, carabinieri, poliziotti fermati al fronte di una guerra che, puntualmente, nelle retrovie, qualcuno, trescando con il nemico, si incaricava di rendere vana. Ricordarli come eroi e non come vittime del dovere serviva per il resto a sorvolare su chi il proprio dovere lo aveva tradito. C’era un uomo che aveva capito tutto. Lo aveva messo per iscritto nelle sue istruttorie e aveva provato a fermare il triumvirato corleonese ben prima della grande razzia. Si chiamava Cesare Terranova. Fu lui a preconizzare, inascoltato, la trasformazione della mafia corleonese in ceto dominante, a intuirne e a documentarne i rapporti americani, il vincolo di interessi e minacce che avrebbe fatto di quei tre i signori incontrastati di Cosa nostra, capaci di tenere banco per quasi mezzo secolo costellato di bombe, patti e ricatti nella prateria delle loro scorribande che era tutta la Penisola, da Milano a Palermo. Con una «forza corrosiva e disgregatrice delle istituzioni», scrisse. Nel centenario della nascita del giudice, si è appena celebrato il 42esimo anniversario del suo assassinio, il 25 settembre del 1979. Sei colpi di calibro 9, 357 Magnum e Winchester 62 martoriarono il corpo al volante della sua 131 diventata un bersaglio fin troppo facile per il meglio su piazza dei sicari di Cosa nostra. Otto colpi li contarono sul maresciallo Lenin Mancuso che gli sedeva accanto e che si era gettato, pistola in pugno, sul giudice, nel tentativo impossibile di proteggerlo e rispondere al fuoco, tra via Rutelli e via De Amicis, in uno dei lati del quadrato in cui si svolge buona parte del mattatoio palermitano. Lenin Mancuso, poliziotto calabrese dal nome bolscevico, non era soltanto l’agente di scorta ma la sua ombra, roccioso e testardo proprio come quell’altro. Il partner delle investigazioni impossibili, cacciatore di Liggio e dei suoi gregari, al fianco del giudice. Terranova era un montanaro di Sicilia, nato a Petralia Sottana, nelle Madonie. Cresciuto nelle stesse campagne dove la mafia, nel 1948, aveva ucciso il bracciante socialista e sindacalista Epifanio Li Puma. Si era fatto le ossa in guerra, soldato ma antifascista, poi prigioniero, quindi studente fuori corso per necessità e finalmente magistrato, figlio di magistrato. A inanellare encomi nel Messinese prima di arrivare sul versante occidentale dell’Isola a occuparsi della mafia che dal dopoguerra agli anni Sessanta aveva già compiuto il balzo diventando classe dirigente. Con le tasche piene dei soldi della droga, Cosa nostra si industriava per cambiare la faccia dell’Isola. Una devastante colata di cemento stravolgeva con il tessuto urbano anche quello sociale. Da procuratore di Marsala, nel posto che sarà di Paolo Borsellino, con l’inseparabile Mancuso, Terranova risolve il giallo della scomparsa di tre bambine, uccise da Michele Vinci, lo zio di una di loro. Poi parlamentare per due legislature, maggio 1972-giugno 1979, indipendente di sinistra, in tandem con Pio La Torre, futuro segretario regionale del Pci che lo avrebbe seguito nell’identico destino tre anni più tardi. Insieme firmeranno la famosa “Relazione di minoranza” dove per la prima volta si facevano i nomi e i cognomi, dei politici e degli imprenditori collusi con la mafia. Terranova di nuovo magistrato, consigliere istruttore, da fermare a ogni costo, lui che era stato faccia a faccia con Liggio due volte, che era riuscito a farlo condannare per Navarra e che dagli insuccessi precedenti aveva tratto la determinazione per assestare il colpo decisivo ai corleonesi e ai loro complici in grisaglia ministeriale. Su Terranova e Mancuso, su quello che hanno fatto, sul perché siano stati uccisi, lavora da anni Pasquale Scimeca, regista e sceneggiatore siciliano, tanto rigoroso quanto non allineato, che si prepara a realizzare un film da una sceneggiatura scritta con Attilio Bolzoni, in contemporanea con un libro che accompagna il film. È il romanzo nero d’Italia. La storia di un magistrato e delle sue amarezze. Ma è soprattutto la storia del grande intrigo, del «peccato originale», come lo chiama Scimeca, che non ha mai smesso di condizionare la vita repubblicana. Riallacciandosi a un filone di analisi che parte dalle ricostruzioni giornalistiche di Pietro Zullino, Marco Nese, Silvestro Prestifilippo, passa per la commissione antimafia, riprende tesi di Enrico Deaglio e le rivelazioni di Leonardo Messina del 1992, ma anche i ricordi dei nipoti di Terranova, Francesca e Vincenzo (anche lui magistrato presso il tribunale di Palermo), Scimeca giunge alla conclusione che Liggio deve la sua prolungata fortuna alla custodia di un segreto. È il patto inconfessabile tra notabili e mafia per la strage di contadini, il primo maggio del 1947 a Portella della Ginestra e per l’uccisione, tre anni dopo, del bandito Salvatore Giuliano, l’assassino capopopolo che si era messo in testa di essere una specie di Robin Hood e al quale avevano fatto dire che la Sicilia sarebbe stata con lui il 49esimo Stato americano. Su Giuliano ricadde la responsabilità della strage ma, come emerge anche dagli studi di Giuseppe Casarrubea e Mario José Cereghino, sui monti intorno a Portella c’era artiglieria pesante, provenienza Usa e manovalanza di ex fascisti della Decima Mas della Repubblica di Salò. L’eccidio doveva produrre una scossa per non far crollare nulla. Una strage stabilizzante, come lo sarebbero state tutte quelle che hanno accompagnato gli snodi della vita del Paese con il beneplacito di un pezzo di Viminale. Nella Sicilia dei sindacalisti ammazzati, dei sindaci eliminati, dei mille testimoni annichiliti, sequestrati, uccisi, infoibati, era proliferata per questo anche la categoria dei pazzi, di quanti avevano visto ed erano pronti a raccontarlo, a patto di essere protetti. Lasciati soli, guadagnavano la bolla di inattendibili perché insani di mente. Innocui, perché ridotti ad esserlo. La loro follia eterodiretta era un’arma. Toccò a quelli, Luciano Raia, Vincenzo Maiuri e Vincenzo Streva, che Ernesto Oliva ha raccolto nella galleria “I pazzi di Corleone” (Di Girolamo, novembre 2020, prefazione di Umberto Santino). Proto-pentiti del primo dopoguerra, la legge sui collaboratori sarebbe arrivata solo nel 1991. Precisi, sicuri con le loro firme incerte sui verbali e poi, nelle aule, tremanti, bizzarri, grotteschi, gelati nella trappola della loro paura pur di auto-invalidarsi e lasciare che i loro racconti ammuffissero nei faldoni con in calce il nome dei futuri boss dei boss e sulla copertina il bollo dell’insufficienza di prove, decretata da eccellentissimi giudici a loro volta intimiditi o corrotti. Vivi però, perché, come si dice in Sicilia «sulu lu pazzu canta e sulu lu pazzu campa», ma reprobi, costretti alla fuga, in una diaspora del terrore, lontano dalla stessa terra che quelli conquistavano zolla dopo zolla calpestando raccolti, miseria e contadini, servendo i padroni di città che, illusi, immaginavano di potersene servire per sbarazzarsene quanto prima. Andò diversamente, perché i rozzi villani, con i feudi, si prendevano il potere. Con i cugini americani, il metodo per esercitarlo e con Vito Ciancimino, il politico che riuniva l’arroganza criminale e le entrature nei palazzi, il patrimonio di relazioni che conferisce comando. Quella di Terranova è una traiettoria che interseca la vita e la morte di tutti quelli che in un modo o nell’altro hanno lavorato sulla stessa materia, proseguendo il lavoro, sviluppandone filoni, coltivando intuizioni. Da Carlo Alberto Dalla Chiesa che, a Corleone, di Luciano Liggio e della scomparsa di Placido Rizzotto aveva iniziato a occuparsi nel 1948, a Boris Giuliano, il commissario che indagava in Sicilia ma guardava a New York, al banchiere della mafia Michele Sindona e a quello che i cugini d’oltreoceano consigliavano ai mammasantissima nostrani. Proprio come Gaetano Costa, il procuratore che al ponte con gli Usa del clan Gambino-Inzerillo dedicò un atto d’accusa, firmato in una solitudine mortale. Il ponte mai interrotto con gli Usa è un filo rosso che ha a che fare tanto con la geopolitica quanto con il crimine. Gli interessi coincidenti si avviluppano nel grumo che ha reso incompiuta la nostra democrazia. E di contatti oltreoceano ne avevano anche quegli incolti corleonesi a partire dai padrini Vincent Collura e Angelo Di Carlo, tanto che una delle prime prodezze di Liggio fu quasi un atto da guerrigliero con il furto della cassaforte del corpo d’armata italo-tedesco. Se ne accorse e lo documentò in un «rapporto riservatissimo» un vicebrigadiere di provincia, il carabiniere Agostino Vignali. Quel dossier fu una miniera per Terranova che se lo ritrovò tra le mani agli albori delle sue istruttorie finite con la solita beffa dell’assoluzione per insufficienza di prove a Bari e Catanzaro. Marchio di infamia su una magistratura accomodante, paciosa, collusa. In una parola «sorda», come l’ha definita il magistrato ed ex parlamentare Giuseppe Di Lello, nel suo “Giudici” (Sellerio, 1994). Già nel 1963 il vicebrigadiere aveva tracciato la mappa del potere a Corleone. Catalogato gli schieramenti e ricostruito la genesi, «grazie a protezioni che da Montecitorio vanno a Sala d’Ercole (sede del Parlamento siciliano, ndr)», di quella che la frettolosa storiografia ha liquidato come lo scontro tra Navarriani e Liggiani. Vignali aveva elencato interessi nuovi: «Predominio delle aree edificabili, l’accaparramento dei posti chiave delle pubbliche e delle private amministrazioni, le beghe politiche in favore di questo o quel candidato che prevalentemente fanno parte della Dc e del partito liberale». Aveva spiegato che non c’era pregiudizio in quelle parole, perché «la stessa cosa accadrebbe se quegli stessi uomini si presentassero domani sotto qualunque altro partito che avesse le mani in pasta nel governo della cosa pubblica». Così fu possibile il regime corleonese, inaugurato da un golpe, reso forte da latitanze leggendarie, 15 anni Liggio, 24 anni Totò Riina e 43 Bernardo Provenzano, nel dosaggio di segreti e, sono parole di Terranova, «nella certezza dell’impunità».

·        Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Antonino Scopelliti.

Omicidio Scopelliti: inchiesta riaperta. Nuovi elementi sul patto Cosa nostra-'Ndrangheta. Aaron Pettinari su amduemila il 17 Marzo 2019. Da Messina Denaro a Piromalli, tra Sicilia e Calabria 17 gli indagati dalla Procura di Reggio. L'omicidio del giudice Antonino Scopelliti, ucciso il 9 agosto del 1991, può inserirsi in un disegno più ampio, frutto di un accordo tra Cosa nostra e 'Ndrangheta? E' questo uno degli interrogativi a cui, 28 anni dopo, la Procura di Reggio Calabria prova a dare una risposta e dare finalmente un volto a mandanti e killer del delitto. Il fascicolo è stato riaperto da qualche tempo e lo scorso agosto è stata ritrovata nel catanese un'arma che, secondo gli inquirenti, sarebbe quella che uccise il giudice della Corte di Cassazione in località Piale di Villa San Giovanni, nel reggino. La novità, così come ha riportato questa mattina il quotidiano La Repubblica, è che la Dda di Reggio Calabria, guidata dal Procuratore Giovanni Bombardieri, ha messo sotto inchiesta diciassette persone fra Calabria e Sicilia. L'indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, parte proprio dal ritrovamento del fucile calibro 12, avvenuto grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Maurizio Avola. Fino ad oggi Avola non aveva mai parlato né dell'omicidio Scopelliti, né dei rapporti tra Cosa nostra e 'Ndrangheta. Il pentito catanese ha anche raccontato di un summit tenutosi nella primavera del 1991 a Trapani, in cui venne siglato il patto tra Cosa nostra e 'Ndrangheta per eliminare il giudice che avrebbe dovuto rappresentare l'accusa nel maxi processo, ormai giunto davanti alla Cassazione. Ed è in quella sede che si sarebbe deciso l'omicidio, dando vita al patto tra Cosa nostra e 'Ndrangheta per eliminare il magistrato. E proprio la "Primula rossa" di Castelvetrano avrebbe avuto un ruolo centrale nella vicenda. Secondo gli inquirenti ad operare nel delitto un commando misto di siciliani e calabresi, tanto che nel fascicolo dell'inchiesta riaperta figurano 17 nomi, appartenenti ad entrambi gli schieramenti. Oltre a Messina Denaro figurano i catanesi Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e Maurizio Avola. Poi i dieci calabresi, Giuseppe Piromalli, Giovanni e Pasquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano, Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti. Tutti, tranne Messina Denaro, secondo quanto scritto dal collega Salvo Palazzolo, hanno ricevuto l'avviso di garanzia. Un passaggio necessario per permettere ai pm di conferire un incarico tecnico necessario per esaminare il fucile calibro 12 e le 50 cartucce marca Fiocchi ritrovati lo scorso agosto per compararli al frammento di cartuccia che fu ritrovato 28 anni fa nel luogo dell'omicidio. Il delicatissimo esame dovrebbe effettuarsi la prossima settimana e, a quanto è dato sapere, verranno anche esaminati un borsone blu e due buste: una, con la scritta "Mukuku casual wear"; sull’altra, di colore grigio, c’è la scritta "Boutique Loris via R. Imbriani 137 - Catania". La speranza è che dagli esami tecnici possano ricavarsi impronte, tracce genetiche e balistiche che possono essere anche decisive per ricostruire l'intera vicenda. Già nel primo processo era emerso il dato della "cortesia" chiesta dai siciliani ai calabresi. Dopo la condanna in primo grado però, i boss della Cupola mafiosa (Riina, Provenzano, Graviano e altri) furono assolti dall’accusa di essere stati i mandanti del delitto. Certo è che quello tra la Calabria e la Sicilia in quegli anni era un asse "caldo", così come emerso in diversi processi, da ultimo quello 'Ndrangheta stragista, che vede alla sbarra il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, e il capomafia calabrese Rocco Santo Filippone entrambi accusati per gli attentati ai Carabinieri avvenuti tra il 1993 e il 1994, in cui morirono anche i due appuntati Garofalo e Fava, inseriti nel disegno stragista di quegli anni. Anche il collaboratore di giustizia Francesco Onorato, sentito lo scorso luglio durante il processo ha dichiarato che l'omicidio Scopelliti "fu un favore che la 'Ndrangheta ha fatto a Cosa nostra. Se la sono sbrigata i calabresi, ossia i referenti che erano le famiglie Piromalli e Mancuso. Quando dico referenti intendo dire che facevano parte di Cosa nostra, significa che ci si consultava, ci si scambiavano favori, anche omicidi. Questa è una cosa che ho saputo direttamente. Non conosco chi sia stato l’esecutore materiale, ma so che è un favore fatto per volere di Salvatore Rina e della commissione". Ma anche altri collaboratori hanno parlato degli incontri tra siciliani e palermitani ai tempi delle stragi. Il pentito Consolato Villani ha anche raccontato di un intervento dello stesso Totò Riina, nei primi anni '90, come garante della "pace" tra la cosca De Stefano e i "secessionisti" Condello - Serraino - Imerti. La nuova inchiesta potrebbe definire ulteriormente il ruolo avuto da Matteo Messina Denaro, già condannato per le stragi del 1993 e sotto processo per quelle del 1992, e comprendere anche quei rapporti, alti ed altri, che continuano a garantire la sua latitanza. Non solo. Il collegamento tra il superlatitante trapanese ed i calabresi, oltre che al passato, potrebbe essere riferito anche al tempo presente e per questo motivo anche alla Procura nazionale antimafia si sarebbe tenuto un incontro tra le varie Procure impegnate nelle indagini sulla primula rossa (Palermo - Caltanissetta - Firenze ed ora anche Reggio Calabria).

L'anniversario della morte del magistrato. L’omicidio di Antonino Scopelliti e i giudici ragazzini: dopo 30 poco è cambiato. Alberto Cisterna su Il Riformista il 10 Agosto 2021. Nove agosto 1991, un giovane pubblico ministero, di fresca nomina e forse neppure trentenne, si china sull’auto che in un fossato custodisce il corpo esangue del giudice Scopelliti. Si pensa a un incidente, se non fosse per la macabra scoperta di un capo sfigurato dai colpi. Pochi mesi prima il presidente Cossiga aveva aperto una violenta polemica sui «giudici ragazzini». Aveva puntato il dito su un sistema che non riusciva a impedire che magistrati – finanche con pochi mesi di servizio – si occupassero di indagini complesse soprattutto sul fronte della mafia e nelle sedi più disagiate. Qualcuno volle leggere in quelle parole aspre una critica indirizzata addirittura verso il povero Rosario Livatino che il 21 settembre 1990 era stato ucciso per ordine dei boss agrigentini. Tempo dopo quell’esternazione del 10 maggio 1991, il Presidente scriverà una lettera ai genitori del coraggioso giudice con cui tenne a smentire nettamente quella lettura delle sue dichiarazioni che, piuttosto, puntavano l’indice contro l’invio sui fronti caldi della lotta alla mafia di giovani toghe di prima nomina. Parole che meritano di essere ricordate, perché echeggiarono anche quel 9 agosto 1991 quando le più alte autorità dello Stato, accorse in Calabria, si resero conto che un manipolo di giovani toghe avrebbe dovuto domare la fiera mafiosa. «Lo faccio ora – spiegava Cossiga nella lettera aperta – perché questa accusa mi è stata nuovamente rivolta. Io ho usato evvero! questo termine: ‘giudici ragazzini’; ma mai l’ho fatto rivolgendomi a vostro figlio; bensì in senso affettuoso e comprensivo nei confronti di giovanissimi giudici che l’insipienza del Csm mandò allo sbando destinandoli a prestare servizio, quasi appena terminato l’uditorato, nel nuovo tribunale di Gela… In coscienza io mi sento tranquillo. E – concludeva – lo sarei ancora di più se, come spero, pur nel silenzio, voi mi giudicaste nella vostra coscienza quale ammiratore del vostro figliolo e vostro fedele e riconoscente amico». Ecco, tra le tante parole e i tanti riti celebrati nel corso dei trenta anni che ci separano dall’uccisione del giudice Antonino Scopelliti, anche questo profilo della vicenda non può essere trascurato perché direttamente connesso alla percezione – che allora dominava la pubblica opinione – che lo Stato offrisse una risposta insufficiente alle minacce poste dalla criminalità mafiosa. Percezione che quel sangue enfatizzava ancora una volta. Nel caldo afoso di un agosto del 1991, risuonarono infatti ancora una volta le parole di Cossiga alla vista di quel giovane magistrato e aveva ripreso vigore la sua polemica sul punto, poi riattizzata in un famoso discorso del presidente raccontato da Giovanni Maria Bellu e Giuseppe D’Avanzo («Cossiga va alla guerra di mafia», La Repubblica, 5 novembre 1991). Non c’era solo la morte di un servitore dello Stato a preoccupare la nazione, ma al contempo, in quel tempo poi non così distante dalla creazione delle procure antimafia, la convinzione di una sorta di inadeguatezza e impreparazione a fronteggiare la piovra. Dopo trenta anni, le professionalità sul fronte del pubblico ministero e della polizia giudiziaria sono cresciute a dismisura e in modo incomparabile rispetto a quel 1991. Eppure, dopo tanto tempo, non manca qualche voce che ancora si leva a segnalare il rischio che le sedi giudiziarie del Mezzogiorno possano riproporre deficit professionali, vuoti di esperienza, cedimenti sul versante della valutazione della prova e, questa volta, nello snodo decisivo dei giudici, ossia di coloro i quali sono chiamati a ponderare la correttezza di imponenti ipotesi accusatorie. Poche settimane or sono, un giudice accreditato e con un curriculum di tutto rispetto ha pubblicato un articolo dal titolo «Giudici in Calabria» in cui si legge: «Ha fatto (giustamente) scalpore la notizia che il collegio giudicante del Tribunale di Vibo Valentia al quale è stata affidata la responsabilità della trattazione del procedimento nato dall’operazione Rinascita Scott sia composto da tre colleghe, ciascuna delle quali ha assunto le funzioni nel maggio del 2018. La circostanza non poteva in effetti passare sotto silenzio, posto che si fa riferimento a quello che viene ritenuto uno dei più complessi ed importanti processi di sempre contro la criminalità organizzata, che – in sede di rito ordinario – conta 325 imputati per complessive 438 contestazioni di reato, prevede l’assunzione di quasi un migliaio di testimoni e 58 collaboratori di giustizia indicati solo dall’ufficio di Procura e vede impegnati circa 600 difensori». Quindi la garbata evocazione dell’antica polemica di trenta anni prima: «Tutto ciò richiederebbe – ancor più a fronte di Uffici di Procura adeguatamente attrezzati di uomini e mezzi e supportati da apparati investigativi di prim’ordine – la presenza massiccia in tali territori di una magistratura giudicante che, sia sul piano numerico che su quello dell’esperienza e delle conoscenze accumulate, si assuma la responsabilità di gestire in prima persona i procedimenti, costituendo un riferimento costante per i giovani magistrati che in gran numero vi sono destinati all’inizio del loro percorso professionale». Parole misurate, destinate a un uditorio selezionato e informato che non ha bisogno di essere scaldato dalla verve polemica di Francesco Cossiga, ma che ben avverte i limiti di una copertura degli uffici giudiziari del Sud d’Italia che non può fare – ancora una volta – affidamento su professionalità mature e rassicuranti. Solo che, in questa occasione, il discorso inevitabilmente prende in esame tutte le parti del processo; l’accusa che non vuole svilite le proprie tesi investigative e la difesa che non vuole sacrificata la propria funzione sull’altare di istanze diverse da quelle di pura e semplice giustizia. Ecco perché, probabilmente, i lavori della «Commissione interministeriale per la giustizia nel Mezzogiorno», voluta dalle ministre Cartabia e Carfagna, hanno un senso a distanza di trenta anni dal chinarsi di quel giovane pubblico ministero sul corpo insanguinato del dottor Scopelliti, magistrato della Procura generale della Cassazione. Perché nessun può dirsi rassicurato sino a che gli apparati di giustizia non avranno raggiunto un equilibrato rapporto tra efficienza e professionalità, da cui non va certo disgiunto l’impegno entusiasta delle giovani toghe. Alberto Cisterna

Trent'anni dall'omicidio del giudice Antonino Scopelliti: agguato ancora avvolto nel mistero. Alessia Candito su La Repubblica il 9 agosto 2021. Il delitto, ancora senza il nome di killer e mandanti, avvenne il 9 agosto 1991. Il magistrato che venne ucciso mentre era in vacanza al mare avrebbe dovuto rappresentare, qualche settimana dopo, l’accusa al maxiprocesso contro la Cupola di Cosa Nostra in arrivo in Cassazione. Mostre, commemorazioni, dibattiti. A 30 anni di distanza dall’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, la liturgia della memoria prosegue immutata. Ma è zoppa, monca, perché su quel delitto una verità ancora non c’è. Sono passati tre decenni da quel pomeriggio del 9 agosto 1991 che ha segnato la fine del giudice, sorpreso da un agguato a Piale, nei pressi di Villa San Giovanni, mentre tornava a casa dal mare. Identità dei killer, sconosciuta. Movente, mai del tutto chiaro. Di certo si sa che di lì a poco, a settembre, avrebbe dovuto rappresentare l’accusa al maxiprocesso contro la Cupola di Cosa Nostra in arrivo in Cassazione. E che questo sia dato imprescindibile per leggere il suo omicidio, lo ha messo nero su bianco anche Giovanni Falcone. Uno che con Scopelliti aveva avuto scontri durissimi, persino in diretta tv nel salotto di Corrado Augias. Tema, la scarcerazione dei mafiosi siciliani decisa dalla Cassazione del giudice Carnevale, avversata dal giudice siciliano, difesa dall’ermellino calabrese. Contrasti poi sanati? Non si sa. Di certo Falcone al funerale del collega c’era. E sulle pagine della Stampa del 17 agosto 1991 qualche indicazione su quell’omicidio che nelle prime fasi ci si intestardiva a leggere come “storia di lenzuola” l’ha data. “Anche se l’uccisione di Scopelliti non fosse stata direttamente collegata alla celebrazione del maxiprocesso, non ne avrebbe prescindere perché l’omicidio avrebbe pesantemente influenzato il clima dello svolgimento” scriveva pubblicamente Falcone. In camera caritatis, racconta Rosanna Scopelliti, la figlia del giudice ucciso “a mio zio Franco ha detto ‘dopo Nino, il prossimo sono io’”. Il perché non sono riusciti a spiegarlo, due processi diversi, ma ugualmente naufragati che a Reggio Calabria hanno portato per due volte alla sbarra l’élite di Cosa Nostra. E mai si è chiarito come mai fra gli imputati non ci sia mai stato un calabrese. Possibile che nella città stremata da cinque anni di guerra di ‘Ndrangheta, dove si stava cercando la pace dopo 800 morti ammazzati, omicidi eccellenti come quello dell’allora presidente delle Ferrovie Lodovico Ligato ed esercito nelle strade, nessun clan sia stato consultato? No, nessuno ci ha mai creduto. Neanche i pentiti – e sono tanti, siciliani e calabresi, quelli che ne hanno parlato come un “favore fatto dai calabresi a Cosa Nostra” -  sono riusciti ad andare molto oltre. Tranne alcuni. A partire da Giacomo Ubaldo Lauro, uno dei primi collaboratori nella storia della ‘Ndrangheta, che racconta come quell’omicidio abbia portato ad una “pace che pace non è” grazie ad un intervento “non solo della ‘Ndrangheta calabrese ma anche della mafia siciliana e del crimine organizzato canadese legato ai calabresi”. Del resto – ha spiegato diversi decenni dopo l’inchiesta ‘Ndrangheta stragista, che ha provato la partecipazione dei clan calabresi alla stagione degli attentati continentali – c’erano affari più delicati e pericolosi da gestire. Ed erano cosa di tutte le mafie. Il mondo dei blocchi contrapposti stava venendo giù insieme al muro di Berlino, in Italia la democrazia bloccata sull’asse Dc/Psi iniziava a scricchiolare. Mafie, settori dei servizi, della massoneria e dell’eversione nera avevano necessità di individuare e imporre nuovi affidabili interlocutori politici in grado di garantire che tutto si modificasse, senza che nulla cambiasse davvero. Una “missione Gattopardo” – conferma la sentenza che ha significato l’ergastolo per il boss palermitano Giuseppe Graviano e il mammasantissima calabrese Rocco Santo Filippone – cui hanno partecipato tutte le mafie. E una stagione di sangue, bombe e trattative che in Calabria ha il suo alfa e il suo omega. Secondo alcune ipotesi investigative, inizia proprio quel 9 agosto del ’91. O forse qualche tempo prima, quando un blitz improvviso della polizia interrompe un summit nella casa- fortino dello storico clan dei Tegano, frequentata spesso non solo da uomini di rango dei clan calabresi, ma anche da emissari dei Santapaola.  E quella riunione doveva essere importante se è vero che al tavolo c’erano luogotenenti di rango e generali di famiglie di ‘Ndrangheta potenti e radicate non solo a Reggio o in Calabria. Gente come Salvatore Annacondia, oggi pentito, all’epoca uomo del “Consorzio” – accrocco milanese di tutte le mafie, all’epoca guidato dal boss di Platì, Antonio Papalia – mandato spesso in missione a Reggio Calabria. A interromperla, racconta il pentito Roberto Moio, un blitz della Criminalpol, all’epoca guidata in città da Mario Blasco. Di quell’irruzione però non c’è traccia, mai è stata redatta una nota, né in quell’occasione sono stati fatti arresti. Sempre Blasco, oggi in pensione dopo un finale di carriera nei servizi, è il primo ad arrivare a Piale, dove Scopelliti giace cadavere. Ed è lui che in aula conferma che quell’omicidio era stato rivendicato dalla Falange armata, sigla che dall’omicidio dell’educatore carcerario Umberto Mormile, ammazzato per aver scoperto e minacciato di denunciare i rapporti fra il boss calabrese Mico Papalia e i servizi, è tornata ripetutamente a firmare omicidi, stragi e attentati di mafie. Peccato che per l’omicidio Scopelliti quella firma non sia mai stata considerata una pista. Tasselli che la procura di Reggio Calabria, guidata da Giovanni Bombardieri, oggi sta lavorando per mettere insieme. Necessari anche per colmare alcuni vizi logici nell’attuale ricostruzione ufficiale. Pur consapevole dell’importante e delicato incarico, il giudice non ha mai cambiato abitudini, né percorso nei suoi quotidiani andirivieni da casa al lido Gabbiano. E dire che Piale è sempre stata zona militarmente controllata dal clan Garonfalo. Ma il giudice viaggiava solo sulla sua auto ed era tranquillo. Solo qualche giorno prima dell’omicidio, secondo alcune fonti in seguito ad una trasferta in Sicilia, avrebbe radicalmente cambiato atteggiamento, mostrando preoccupazione e angoscia. “È un’apocalisse” confidava ad un’amica al telefono. Senza spiegarle il perché, né adottare particolari misure di sicurezza. È uno dei tanti misteri della vita e della morte del giudice, che da decenni in Calabria tornava solo per le vacanze e a Roma era persona nota e considerata in Vaticano, come nei salotti democristiani di matrice andreottiana che gravitavano attorno ai reggini Claudio e Vilfredo Vitalone. Ambienti crocevia di discussioni delicate in quegli anni in cui un sistema – politico, economico, diplomatico, relazionale – crollava e un altro, alternativo, si andava forgiando, nei processi reggini rimasti quasi solo a colorare lo sfondo. Se e in che misura abbiano avuto un ruolo è pista che Reggio Calabria sta esplorando. Nel 2019, per l’omicidio del giudice Scopelliti il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha iscritto sul registro degli indagati 17 persone. E per la prima volta in elenco sono comparsi anche i calabresi: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Paquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano, Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti. Insieme, quasi totale rappresentanza dei vertici della ‘Ndrangheta visibile, più almeno due elementi della componente riservata dei clan calabresi. Una cupola senza capi, un organismo collegiale e sconosciuto ai ranghi bassi dell’organizzazione, l’unico in grado di discutere con i “cugini siciliani” un affare delicato come l’omicidio di un giudice. Dettagli sembrava potessero venire dall’ex collaboratore Maurizio Avola, che nel 2018 ha fatto ritrovare il fucile che sarebbe stato usato per uccidere il giudice Scopelliti. E che quell’arma potesse lo hanno confermato alcune fibrillazioni registrate in carcere, mentre Avola di fronte ai pm e nelle aule di giustizia ha puntato il dito contro Salvo Lima, “fu lui a darci le indicazioni sulle abitudini del giudice” e contro il superlatitante di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, che “era uno dei killer del commando”. Ma sul pentito, che a distanza di più di vent’anni ha ritrovato la favella, i magistrati reggini hanno deciso di andarci con i piedi di piombo. Una strategia corretta, alla luce delle nuove “rivelazioni” sulle stragi siciliane che Avola non ha affidato ai magistrati, ma ad un libro e tentano di riscrivere la storia di quella stagione escludendo mandanti politici.

Patacche facili da smentire hanno detto subito da Palermo e Caltanissetta, sbattendo in faccia all’ex pentito dati inequivocabili, come quel braccio rotto che rende impossibile la sua partecipazione da protagonista alla strage di via d’Amelio. Ed è indagine nell’indagine. Avola ha mentito anche su Scopelliti? O come spesso accade nella storia dei depistaggi all’italiana, quella era un pezzo di verità immolata a riscontro di tante menzogne? Iniziativa autonoma o su mandato di qualcuno? E di chi? Domande che si aggiungono a quelle sulla morte del giudice Scopelliti. Tutte ancora senza risposta.

Omicidio Scopelliti: dopo trent’anni tanti misteri e zero verità. Il 9 agosto 1991 veniva ammazzato a colpi di fucile il pg del maxiprocesso alla mafia Antonino Scopelliti. La figlia Rosanna: «Diamo il segnale che la giustizia esiste e che ci si può fidare della magistratura». Vincenzo Imperitura su Il Dubbio il 9 agosto 2021. «Verità e giustizia. In tempi ragionevoli. Per dare ai cittadini il segnale che la giustizia esiste e che ci si può fidare della magistratura». Sono passati trenta anni dall’omicidio di Antonino Scopelliti, il Procuratore generale di Cassazione ammazzato a colpi di fucile nel 1991, e sua figlia Rosanna, presidente della Fondazione che ne porta il nome, continua a chiedere verità e giustizia per quella morte ancora avvolta dal mistero. «Lo Stato come Padre severo e umano, che punisce, ma non abbandona i suoi figli – scrive sul suo profilo Facebook l’ex parlamentare di Forza Italia, attualmente in forza alla giunta di centro sinistra che regge la città metropolitana di Reggio Calabria –. Istituzioni che rieducano e reinseriscono nelle comunità cittadine chi sbaglia. Verità e giustizia oggi per le tante vittime di mafia. Per chi resta. Per chi ha il diritto di credere, sempre che ne è valsa la pena». Nel giorno dell’ennesimo anniversario per un omicidio eccellente rimasto ancora senza un colpevole, la figlia del giudice Scopelliti, da anni in prima fila nel mantenere vivo il ricordo del lavoro del magistrato ucciso dalla mafia, usa parole dai tratti amari per sottolineare il senso d’impotenza di fronte ad una “verità” che rimbalza da anni nelle aule di tribunale, ma su cui non si è ancora riusciti a scrivere la parola fine. «Trenta. Non so perché ci si aspetta sempre qualcosa di diverso, di grande dagli anniversari “tondi”. Come se a un certo punto portassero via tutto e occupassero con la loro rotondità ogni angolo della vita. Per un giorno ovviamente, poi si ricomincia a contare. Un po’ come le commemorazioni. Lacrime, abbracci e buoni propositi, poi ci si saluta e ci si dà appuntamento al prossimo anno. Un po’ più stanchi e un po’ meno soli, a volte. Per un po’. Trent’anni, dicevo – scrive ancora Scopelliti – E oggi le uniche parole che mi riecheggiano in testa sono: “verità e giustizia”. Perché di parole ne ho sentite tante, troppe. Perché resta il fatto che niente cambia e io non so più come affrontare questa doppia mancanza che affligge da anni le nostre vite. Non so più a quale speranza aggrapparmi, non ho una risposta sincera alla domanda: “ne è valsa la pena?” Ecco io a volte non lo so più se ne è valsa la pena. O meglio, lo so perché lo vedo negli occhi di mia figlia quando afferma orgogliosa di essere la nipote del “nonno Nino”, ma vacillo quando resto sola con il mio dolore e col peso dell’assenza».

Una carriera folgorante. Entrato in magistratura ad appena 24 anni, Antonino Scopelliti approda da giovane Pm a piazzale Clodio. Mafia, terrorismo nero, terrorismo rosso: le inchieste di cui quel magistrato intransigente si occupa segnano alcuni dei capitoli più complicati della storia d’Italia. Una carriera folgorante quella del giudice reggino che viene nominato magistrato di Corte d’Appello prima e di Cassazione poco dopo. Ed è proprio da sostituto procuratore di Cassazione che Scopelliti entra in alcuni dei più importanti processi dell’era repubblicana. Tra le sue mani passano infatti le stragi di piazza Fontana a Milano e quella di piazza della Loggia a Brescia; e ancora gli omicidi dei magistrati Occorsio e Amato e quelli di Aldo Moro e Rocco Chinnici ma anche l’esecuzione del giornalista del Corsera Walter Tobagi e quelle dei banchieri della mafia Calvi e Sindona. Quando il maxiprocesso di Palermo approda in Cassazione, è Scopelliti ad occuparsene. Lui sosterrà l’accusa davanti ai giudici del Palazzaccio. In quei giorni di agosto di 30 anni fa, il giudice si è fatto mandare in Calabria le carte del processo al gotha di Cosa Nostra per iniziare a lavorare su un procedimento che segnerà per sempre la storia giudiziaria della lotta al crimine organizzato siciliano.

Omicidio eccellente. Quello di Antonino Scopelliti è un omicidio per molti versi sorprendente. Mai in Calabria l’asticella è stata spinta così in alto. E sì che in quel 1991, l’intera provincia è scossa dagli ultimi rinculi della seconda sanguinosissima guerra di mafia che ha lasciato sul terreno circa 700 vittime in poco più di cinque anni. Una mattanza che troverà fine qualche tempo dopo l’omicidio di quel giudice dai modi gentili, ammazzato nella sua auto mentre torna dal mare nella casa di Campo Calabro in cui è cresciuto. Il gruppo di fuoco a bordo di una motocicletta affianca la Bmw del giudice su una collina a picco sul mare, agendo a colpo sicuro poco dopo le 17. Colpito alla testa due volte, il magistrato muore praticamente sul colpo, accasciandosi sul volante della sua auto ancora in movimento che prosegue la sua lenta corsa fino a sfondare una recinzione e cadere nel dirupo dove sarà ritrovata. Un omicidio clamoroso che sembra legare a doppio filo la storia del malaffare su entrambe le sponde dello Stretto.

Quella passata alla storia come la stagione delle stragi è ancora lì da venire – la autobombe di Capaci e via d’Amelio arriveranno poco meno di un anno dopo – ma sia i primi due processi celebrati davanti al tribunale di Reggio e conclusi con un nulla di fatto, sia la nuova indagine imbastita dalla distrettuale antimafia sostengono l’esistenza di un patto tra le due organizzazioni: la vita del magistrato che si apprestava a giudicare le famiglie di Corleone da prendere nei feudi di ‘ndrangheta, in cambio dell’impegno per la pace da parte dei boss siciliani nella guerra che aveva decimato tutte le ‘ndrine dei tre mandamenti reggini. Tre anni fa, nel giorno del ventisettesimo anniversario dell’omicidio di Scopelliti, la Procura reggina aveva annunciato il ritrovamento, in un terreno agricolo nel catanese, dell’arma che secondo un collaboratore di giustizia era stata usata per giustiziare il giudice. Le successive indagini tecniche rivelarono che troppo tempo era passato per poter stabilire una correlazione tra quel vecchio fucile e la morte del magistrato, ma l’indagine è andata avanti e alla sbarra sono finiti alcuni dei nomi più pesanti del panorama criminale calabrese e siciliano: Piromalli, Pesce, De Stefano, Tegano, Araniti da questa parte dello Stretto e mammasantissima del calibro di Santapaola e Messina Denaro dall’altra, per una storia che aspetta da troppo tempo una soluzione e su cui servono, ricorda Rosanna Scopelliti, «Verità e giustizia. In tempi ragionevoli».

I veleni del killer sul caso Scopelliti. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 4 agosto 2021. Trent'anni veniva ucciso fa il magistrato calabrese incaricato del Maxiprocesso alla mafia. Dopo due processi andati in fumo, la pista siciliana rimane al centro della nuova inchiesta. Ma Avola, il pentito della strage di via D'Amelio, è attendibile? Un altro anniversario, trenta tondi. Con le precauzioni anti-Covid il 9 agosto si tornerà a commemorare l’assassinio di Antonino Scopelliti, ucciso con due colpi di fucile calibro 12 nell’estate del 1991 a Campo Piale, lungo una strada isolata, dritta e stretta che sale verso la collina nel punto in cui la Calabria è più vicina alla Sicilia. L’omicidio del sostituto procuratore generale della Cassazione, incaricato di sostenere la pubblica accusa nel terzo grado del Maxiprocesso di Palermo, ha galleggiato per trent’anni fra le correnti micidiali di Scilla e Cariddi, con sei piste investigative e altrettanti moventi, otto indiziati dell’agguato con nome e cognome più vari altri non identificati, decine di dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, due processi contro la Commissione provinciale guidata da Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Senza una condanna. Senza un solo criminale calabrese a processo. Due anni fa, la svolta. Il pentito della mafia catanese Maurizio Avola, autore di decine di omicidi, ha accusato del crimine se stesso e il lungo latitante Matteo Messina Denaro da Castelvetrano. A sostegno, ha fatto ritrovare un fucile sotterrato che sarebbe servito a uccidere il giudice nato a Campo Calabro nel 1935. Due anni di perizia balistica su quello che è ormai un rottame, e altri accertamenti sono in corso. Nel frattempo Avola, patrocinato dall’avvocato messinese con studio a Torino Ugo Colonna, si è inserito da protagonista anche nel “Borsellino quater” dove ha rilasciato dichiarazioni inattendibili con l’unico risultato di mettere zizzania fra magistrati, fra giornalisti, dopo il libro di Michele Santoro e Sandro Ruotolo, e fra avvocati, con Colonna attaccato dal suo ex socio di studio Fabio Repici, difensore del re delle intercettazioni Gioacchino Genchi e parte civile in vari processi di mafia (Beppe Alfano, Nino Agostino, Bruno Caccia, il medico Attilio Manca), associato in studio con l’ex pm palermitano Antonio Ingroia. Avola sostiene che ogni causale alternativa a Cosa nostra è una perdita di tempo. La Commissione retta da Riina con pugno di ferro è mandante ed esecutrice. Il magistrato reggino è stato ucciso per intimidire la Suprema corte. Dopo il boomerang della conferma delle condanne il 30 gennaio 1992, la vendetta ha colpito il 12 marzo l’andreottiano Salvo Lima, immemore degli amici “punciuti”, poi Giovanni Falcone il 23 maggio 1992 e Paolo Borsellino il 19 luglio. Semplice, lineare. Il tanfo di Stato infedele che accompagna da sempre stragi e omicidi irrisolti dell’Italia repubblicana sarebbe pura suggestione. Del resto, Avola ribadisce ciò che Falcone stesso aveva anticipato ai colleghi reggini a poche ore dal delitto e messo per iscritto in un articolo sulla Stampa, il 17 agosto 1991, quando forse già parlava più da politico che da magistrato: sono stati i siciliani. La riapertura dell’inchiesta su Scopelliti è opera di Giuseppe Lombardo, procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria. I suoi processi più recenti, Gotha e “’ndrangheta stragista”, hanno lavorato per sovvertire un’idea semplicistica del crimine organizzato calabrese, in cerca del suo vero asse patrimoniale che è il rapporto con la politica al massimo livello, senza le tentazioni eversive attribuite ai corleonesi. Lombardo sa che Avola va preso con le molle. Sa anche che nel caso Scopelliti due sentenze di assoluzione in secondo grado, confermate dalla Cassazione, sono una montagna difficile da scalare. «Quasi impossibile», dichiara lui stesso con l’aria di chi è abituato a ricostruire frammenti di verità negate o ridotte a versioni consolatorie, dove la ’ndrangheta è un antistato di montanari arricchiti dalla cocaina anziché una società di servizi richiestissima da componenti delle istituzioni, capace di applicare con astuzia - Lombardo usa il dialetto - la strategia del “trasi e nesci”. Entrare per compiacere i soci siciliani, uscire per non tagliare i ponti con il potere democratico che seppellirà di ergastoli la Commissione di Riina. 

UN ASSASSINIO FACILE

Le carte dei processi per l’omicidio Scopelliti sono una rassegna di terminologia giuridica costruita intorno ai processi di mafia nel corso degli ultimi quarant’anni. Si va dalla “convergenza del molteplice”, chiave per comporre in un quadro coerente le dichiarazioni dei collaboratori, alla “triste utilità” dei pentiti stessi. Il caso del 9 agosto 1991 è un processo indiziario che ha fallito l’obiettivo della “causale certa e univoca” perché basato su elementi contrastanti. Si sottolinea che il ruolo del magistrato calabrese, accusatore di terzo grado, non era decisivo nel verdetto sul Maxi e che ucciderlo poteva soltanto esasperare la reazione dei giudici. Le ricostruzioni dell’agguato affidate ai periti balistici non collimano. Il comportamento del magistrato di Campo Calabro a ridosso della sua morte è contraddittorio. La sua stessa figura umana e professionale oscilla fra l’integrità etica più assoluta, che lo avrebbe condannato rispetto ai tentativi di avvicinamento per aggiustare il Maxiprocesso, e una rete di rapporti vischiosi con le conoscenze d’infanzia in un’area ad altissima densità mafiosa, dove locali di ’ndrangheta ricchi e potenti sono passati per associazioni di guappi di paese. «Strenuo difensore della legalità», ma anche «per attitudine caratteriale portato al contatto umano» e «soggetto particolarmente vicino ai Garonfalo». Questa è la descrizione di Vittorio Sgroi, al tempo procuratore generale e superiore diretto di Scopelliti. Ma Falcone aveva tagliato corto: Scopelliti era un giudice integerrimo ucciso dai siciliani. Il rapporto tra i due è un punto irresolubile della vicenda. Il 12 febbraio 1991, quando l’Italia intera grida allo scandalo per le scarcerazioni dei mafiosi, il calabrese e il palermitano si erano scontrati in diretta tv da Corrado Augias. Scopelliti aveva difeso d’ufficio la Cassazione, incluso Corrado Carnevale che, da presidente della prima sezione, aveva l’esclusiva dei processi sul crimine organizzato. A “Telefono Giallo” Falcone, che stava per trasferirsi da Palermo a Roma su chiamata del Guardasigilli Claudio Martelli, appare stupito ma tiene basso il tono della polemica. Nessuno saprà mai se i due hanno avuto modo di riparlarne in privato, di trovare un punto d’accordo dopo che Carnevale si era spogliato del verdetto sul Maxi a fine aprile 1991, in polemica con Martelli e dopo che il magistrato di Campo Calabro aveva assunto l’incarico di pm, informalmente a fine giugno e formalmente nell’ultima decade di luglio. Qui c’è una prima anomalia, una delle maggiori. La mafia siciliana aveva condannato a morte Falcone nel 1983. Per compiere il delitto ci sono voluti nove anni conclusi dall’“attentatuni”, un’azione militare che ha fatto saltare in aria un’autostrada. Fra la decisione di uccidere di Scopelliti e l’esecuzione passano quindici giorni. Il magistrato muore solo sulla sua Bmw poco dopo le 17, nella piena luce estiva, lungo un itinerario che ripeteva identico dal suo arrivo in Calabria per le vacanze iniziate il 25 luglio. Muore in una zona controllata dai clan in modo capillare. Da sei anni a Reggio e provincia imperversava una guerra che, secondo stime prudenziali, si è chiusa proprio a ridosso dell’agguato a Scopelliti con un saldo di 700 morti uccisi in ogni modo: con le autobombe, con i bazooka per risolvere l’ostacolo delle macchine blindate, con cecchini che sparano dentro il carcere da duecento metri. Ma Scopelliti è assassinato facilmente e finora nessun processo ha saputo spiegare perché. Secondo alcuni testimoni era preoccupatissimo. Eppure non chiede la scorta, non denuncia minacce né tentativi di corruzione, non si confida se non con “messaggi sibillini”, come nota la sentenza d’appello del 28 aprile 1998 contro Riina e altri nove capi mandamento palermitani. Per di più insiste nella sua routine quotidiana contro il principio di Falcone per cui non si fanno favori ai nemici. Un principio sacrosanto non solo per il diritto all’autodifesa ma perché un magistrato in prima linea contro il crimine è patrimonio di tutta la comunità civica. Eppure la prima linea per Scopelliti, a 56 anni, era un’abitudine. 

DICIASSETTE SICILIANI A ZERO

Il 15 maggio 1971, l’Unità titolava “Il pm chiede l’assoluzione per cinque degli anarchici”. Era il processo per gli attentati del 25 aprile 1969, che ispirò il film “Sbatti il mostro in prima pagina”. Giangiacomo Feltrinelli era tra gli imputati che il pm Scopelliti riconobbe innocenti dalle accuse di Rosemma Zublema, raccolte dal commissario Luigi Calabresi. Altri tre anarchici, Paolo Braschi, Angelo Della Savia e Paolo Faccioli, furono condannati a pene poi diventate definitive. A poco più di trent’anni Scopelliti era già un magistrato di punta tanto che, in un periodo drammatico per la Repubblica, passa da Milano a Roma (7 novembre 1969), da Roma a Milano (29 novembre 1970) e di nuovo nella capitale il 12 giugno 1973. In vent’anni da quel titolo dell’Unità il livello dei processi dei quali Scopelliti si era occupato lascia sbalorditi. Dopo i rapinatori della banda Cavallero aveva seguito i casi di terrorismo legati a Pietro Valpreda, Aldo Moro, piazza della Loggia, ai giudici Vittorio Occorsio e Mario Amato, al colonnello dei carabinieri Antonio Varisco, al giornalista Walter Tobagi, al sequestro del docente milanese Pietro Trimarchi che vedrà implicato il leader del Movimento studentesco Mario Capanna. Si era occupato dei banchieri Michele Sindona e Roberto Calvi, protagonisti dei maggiori scandali finanziari di quegli anni, entrambi collegati al crimine organizzato. Aveva trattato direttamente il tema mafioso con gli omicidi del capitano Emanuele Basile, dell’inventore del pool Rocco Chinnici e della strage del treno 904 dove era imputato il boss di Porta Nuova Pippo Calò. In questo processo aveva assunto una posizione contrastante, ma ininfluente sul verdetto, rispetto al presidente Carnevale. Che Scopelliti fosse legato al gruppo andreottiano, retto dal proconsole Claudio Vitalone e dal fratello avvocato Vilfredo, reggini anche loro, è certo come erano certe le relazioni del magistrato con gli ambienti vaticani. Ed è un fatto che il suo assassinio avvenga durante l’ultimo dei sette governi del Divo Giulio, lanciato verso una corsa al Quirinale che sarà stroncata dalla strage di Capaci. Per sapere se nel nuovo processo si parlerà anche di questo bisognerà aspettare i nomi degli accusati. Al momento l’elenco degli improcessabili, fra morti e vivi protetti dal ne bis in idem, è di diciassette persone. Da Riina a Provenzano, da Nitto Santapaola ai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, c’è un pezzo di storia della mafia siciliana. C’è soprattutto la sua sconfitta. Quello che manca sono i calabresi, entrati e usciti senza danni da due processi. Dopo trent’anni sarebbe l’ora di giustificare l’assenza.

·        Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Nino Agostino.

Omicidio Agostino, condannato all'ergastolo il boss Nino Madonia. Le iene News il 21 marzo 2021. Dopo 32 anni dall’uccisione del poliziotto Nino Agostino e della moglie  Ida Castelluccio, il boss Nino Madonia è stato condannato all’ergastolo, mentre gli altri due imputati sono stati rinviati a giudizio. Un caso di cui ci siamo occupati con Gaetano Pecoraro. Dopo 32 anni dall’uccisione del poliziotto Nino Agostino e della moglie incinta, Ida Castelluccio, il boss Nino Madonia è stato condannato all’ergastolo per il duplice omicidio avvenuto il 5 agosto 1989. Il boss aveva optato per il rito abbreviato. Con Gaetano Pecoraro, nel servizio del 28 febbraio 2016 che potete vedere qui sopra, abbiamo ripercorso i misteri e gli intrighi che avvolgono l’omicidio di Nino. “È morto perché faceva il suo dovere fino alla fine”, aveva detto alla Iena il padre di Nino, Vincenzo, che aveva dichiarato che non si sarebbe più tagliato la barba “finché non avrò la verità”. “La mia più grande paura è di non vedere chiuso questo processo”, ci aveva detto, “non vedere condannato chi ha ucciso mio figlio”. Ora, dopo 32 anni, la condanna per uno degli imputati è arrivata. L’agente Agostino venne ucciso da due killer a colpi di pistola mentre entrava nella villa di famiglia a Villagrazia di Carini con la moglie, Ida Castelluccio, incinta di cinque mesi. Un mese e mezzo prima Nino aveva sventato l’attentato all’Addaura, ai danni del giudice Giovanni Falcone. Agostino, agente di polizia formalmente assegnato alle Volanti, collaborava con i Servizi segreti alle indagini per la cattura dei grandi latitanti di mafia. Agostino avrebbe fatto parte di una struttura di intelligence che, spiega la Dia, “in fase di reclutamento veniva rappresentata con la finalità della ricerca di latitanti, ma che in realtà si occupava di gestire complesse relazioni di cointeressenza tra alcuni infedeli appartenenti alle istituzioni e Cosa Nostra", riporta l'Agi. Rapporti quindi, secondo l’accusa, opachi. Agostino avrebbe compreso le reali finalità della struttura cui apparteneva e poco prima del matrimonio avrebbe deciso di allontanarsene. Secondo gli inquirenti ha pagato questa scelta con la vita. Nel nostro servizio, la Iena ha incontrato anche il boss Gaetano Scotto, che aveva negato non solo di essere responsabile dell’omicidio di Vincenzo Agostino ma anche di essere un affiliato delle organizzazioni mafiose. Era il 2016 e a proposito dell’omicidio dell’agente Agostino, aveva detto:  “Questo è tutto un processo che andrà in fumo, io non so niente”. Riferendosi al padre di Nino, Vincenzo, aveva aggiunto: “A me dispiace per il figlio, io non posso pensare quello che può sentire una persona quando gli muore il figlio”. Poco dopo il servizio, la Procura aveva acquisito questa nostra intervista. Ora il gup ha rinviato a giudizio il boss Gaetano Scotto e Francesco Paolo Rizzuto, minorenne all’epoca dei fatti. Il primo è accusato di duplice omicidio aggravato, mentre il secondo risponde di favoreggiamento aggravato. Il 26 maggio è fissato l’inizio del processo. Vi terremo aggiornati. 

Il processo. Omicidio di Nino Agostino, dopo 32 anni giustizia per il poliziotto: ergastolo per il boss Madonia. Fabio Calcagni su Il Riformista il 19 Marzo 2021. Una prima, attesa svolta dopo oltre 32 anni. Il gup di Palermo Alfredo Montalto ha infatti condannato all’ergastolo il boss Nino Madonia, accusato del duplice omicidio del poliziotto Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, uccisi il 5 agosto 1989. Nell’aula bunker era presente il papà di Nino, Vincenzo Agostino, con la sua lunga barba bianca che da quel giorno non si più tagliato in attesa di giustizia. La richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Madonia era arrivata nel luglio 2020 e il processo che è arrivato oggi a sentenza si è svolto con rito abbreviato. È invece in fase di udienza preliminare il processo nei confronti del boss Gaetano Scotto, a sua volta imputato per l’omicidio di Agostino e della moglie: quest’ultimo inizierà il 26 maggio prossimo perché Scotto aveva scelto il rito ordinario. Stessa decisione anche per il terzo imputato, Francesco Paolo Rizzuto, accusato però esclusivamente del reato di favoreggiamento. Nino Agostino e la moglie Ida Castelluccio, incinta, furono uccisi da due sicari il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini. Un fatto di sangue commesso nell’estate dei veleni palermitani dopo le lettere del Corvo e dopo il fallito attentato all’Addaura al giudice Giovanni Falcone. Una condanna arrivata grazie al padre di Nino, Vincenzo Agostino, che non ha mai mollato la presa sulla ricerca della verità nonostante una richiesta d’archiviazione della procura (a cui la famiglia Agostino si era opposta tramite il legale Fabio Repici), un provvedimento del gip che ha rigettato due richieste d’arresto e dopo due avocazioni di cui una, la prima, è stata annullata dalla Cassazione. Una storia ricca di depistaggi, documenti spariti e reticenze. Secondo la ricostruzione della Procura generale, Nino Agostino non era un semplice poliziotto in servizio al commissariato San Lorenzo: faceva parte assieme Emanuele Piazza, anche lui assassinato, Giovanni Aiello, morto d’infarto due anni fa, Guido Paolilli, agente di polizia, di una struttura di intelligence dedita alla cattura dei latitanti, una missione di facciata che nascondeva in realtà l’obiettivo di tessere rapporti con esponenti di Cosa Nostra. Nino Agostino avrebbe pagato con la vita la decisione di allontanarsi dal gruppo una volta comprese le reali finalità, alla quale aveva anche fornito una pista per la cattura del boss Salvatore Riina. Figure chiave sarebbero state in questa vicenda Aiello, noto come “faccia da mostro“, al centro di tante storie italiane ancora oscure e con legami con ambienti dell’eversione nera, e Gaetano Scotto, da sempre indicato come trait d’union con appartenenti ai Servizi di sicurezza. Agostino, subito dopo la condanna di Madonia e il rinvio a giudizio di Gaetano Scotto e Francesco Paolo Rizzuto, ha commentato così la sentenza: “È la vittoria della magistratura onesta. Questa è una loro vittoria, ma principalmente di mio figlio, che non si è mai fatto corrompere. Una grande giornata quella di oggi. Mi dispiace che mia moglie non sia qui con noi”.

L'intervista. Il papà di Nino Agostino: “Deluso da Pm, credo nello Stato e chiedo giustizia”. Giorgio Mannino su Il Riformista il 7 Marzo 2020. «Finalmente ci sarà un processo che spero porterà alla luce la verità. A molti scomoda». L’espressione del volto e gli occhi lucidi non riescono a nascondere l’emozione. Vincenzo Agostino, padre del poliziotto Nino Agostino ucciso a Villagrazia di Carini il 5 agosto 1989 in circostanze tutte da chiarire insieme alla moglie incinta Ida Castelluccio, “dopo tanti anni di sofferenza” vede “una luce in fondo al tunnel”. Settimana scorsa la procura generale di Palermo ha notificato l’avviso di conclusione delle indagini – preludio alla richiesta di rinvio a giudizio – ai boss Gaetano Scotto e Nino Madonia, considerati gli esecutori materiali dell’omicidio. E all’amico di Nino Agostino, Francesco Paolo Rizzuto, indagato per favoreggiamento aggravato. Dopo quasi trentuno anni di buchi neri e depistaggi e un intricato iter giudiziario fatto di archiviazioni, rigetti di richieste d’arresto e riaperture dei fascicoli d’indagine, “qualcosa – dice Agostino – sembra muoversi”.

Cos’ha pensato quando ha ricevuto la notizia dell’avviso di conclusione delle indagini.

Non ho potuto leggere i documenti perché bisogna aspettare i tempi tecnici, ma sicuramente questa notifica mi fa ben sperare. Ci sarà un processo, mi auguro che il giudice trovi i dovuti riscontri per poter dare giustizia alla mia famiglia, ma anche ai tanti uomini caduti per lo Stato. Spero solo di avere la forza di vedere concluso questo eventuale processo. L’età avanza.

La procura generale è arrivata a questo punto dopo una richiesta d’archiviazione della procura, un provvedimento del gip che ha rigettato due richieste d’arresto e dopo due avocazioni di cui una è stata annullata dalla Cassazione.

Rimasi molto deluso quando i pm chiesero l’archiviazione dopo tanti anni d’indagini. Spesso io e mia moglie (Augusta Schiera, morta un anno fa, ndr) andavamo al tribunale, ci venivano date notizie. Alla fine non hanno saputo mettere i tasselli al posto giusto. La procura generale ha avocato a sé le indagini e ora vedremo cosa accadrà.

Secondo lei perché è stato ucciso suo figlio?

Non saprei. So soltanto che ogni tanto mio figlio mi chiedeva la cortesia di contattare qualcuno per provare a fargli cambiare sede. Non amava il commissariato San Lorenzo, diceva, “perché altrimenti finiremo nel calderone”. Ma nel calderone finì soltanto lui. Cosa c’era in quel commissariato? Chi erano gli infedeli? Perché voleva andare via? Una settimana prima dell’omicidio mi diceva che con la sua macchina non poteva più circolare, gli chiedevo il perché ma lui glissava. E poi c’è quella frase che mi tormenta, pronunciata da mia nuora poco prima che le sparassero: “So chi siete”. Chi aveva riconosciuto la moglie di mio figlio?

La procura ha individuato un nome nuovo: Francesco Paolo Rizzuto. Chi era?

Non me l’aspettavo. Era amico di Nino, a volte andavano a pescare insieme. Quando lo conobbi era ragazzino. Secondo i procuratori generali avrebbe assistito all’agguato e conoscerebbe elementi utili per risalire agli esecutori. Dato che non avrebbe raccontato tutto è indagato per favoreggiamento aggravato. Spero dirà qualcosa di utile.

Un altro nome è quello di Giovanni Aiello, detto “faccia da mostro”, al centro di tante vicende italiane ancora oscure.

Nell’aula bunker dell’Ucciardone ho fatto un riconoscimento all’americana. Lui venne a casa mia a cercare mio figlio pochi giorni prima del suo omicidio. Perché? La procura non lo ha interrogato per 19 mesi. Credo che sarebbe stato convocato nel settembre 2017, ma il 21 agosto è morto d’infarto. È stato giusto non chiamare a deporre subito quest’uomo?

Non sono mancati i depistaggi. Quelli che avrebbe compiuto Guido Paolilli, collega e amico di Nino Agostino, distruggendo i documenti trovati nell’armadio di suo figlio durante la perquisizione dopo l’omicidio. Indagato nel 2008 per favoreggiamento aggravato, le accuse sono cadute in prescrizione. In sede civile, però, ha chiesto un risarcimento danni di 50 mila euro: come mai?

È stato commesso un furto di verità. Mi diceva sempre che mi avrebbe fatto vedere sei fogli che aveva trovato tra le carte di Nino. Fogli che secondo lui non mi avrebbero fatto piacere. Ma io gli ripetevo che dovevo vederli. Lui tergiversava. Poi è spuntata l’intercettazione in cui Paolilli, parlando al figlio, dice di aver preso dall’armadio di Nino “una freca di cose che ho poi stracciato”.

Perché è importante continuare a cercare la verità?

Facendo luce sull’uccisione di mio figlio si scopriranno tanti legami indicibili che c’erano in quegli anni. La gente onesta ha bisogno di giustizia.

Il caso. Omicidio Nino Agostino, 31 anni di indagini e depistaggi senza alcun risultato. Giorgio Mannino su Il Riformista il 7 Marzo 2020. La sua barba è sempre più lunga e non la taglierà fino a quando non avrà giustizia. Quella che manca da trentuno anni. Vincenzo Agostino pretende verità sull’omicidio del figlio poliziotto Nino e della nuora incinta Ida Castelluccio, freddati da due sicari, ancora senza nome, il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini. Un fatto di sangue – commesso nell’estate dei veleni palermitani dopo le lettere del Corvo e dopo il fallito attentato all’Addaura al giudice Giovanni Falcone – pieno zeppo di buchi neri, omissioni, depistaggi che hanno inquinato la verità. In un’odissea giudiziaria che continua ad essere un incubo tra fascicoli aperti, poi archiviati e nuovamente riaperti. L’ultimo spiraglio dal quale sembra filtrare una flebile luce prova ad accenderlo la Procura generale di Palermo guidata da Roberto Scarpinato. Dopo trentuno anni di indagini, una richiesta d’archiviazione della procura (a cui la famiglia Agostino si era opposta tramite il legale Fabio Repici), un provvedimento del gip che ha rigettato due richieste d’arresto e dopo due avocazioni di cui una, la prima, è stata annullata dalla Cassazione, l’inchiesta sul delitto Agostino arriva in un’aula di un’udienza preliminare. Pochi giorni fa la procura generale del capoluogo siciliano ha notificato l’avviso di conclusione delle indagini, preludio alla richiesta di rinvio a giudizio, ai boss Gaetano Scotto (nuovamente arrestato tre giorni fa nell’ambito dell’operazione della Dia “White Shark” con l’accusa di associazione mafiosa) e Nino Madonia e al compagno di pesca – all’epoca sedicenne – di Nino Agostino, Francesco Paolo Rizzuto, indagato per favoreggiamento aggravato. Scotto, considerato da molti collaboratori di giustizia l’anello di collegamento tra mafia e servizi segreti, ha sempre negato di appartenere alla mafia e di avere avuto un ruolo nel delitto del poliziotto palermitano. Ma la chiusura delle indagini da parte della procura generale e il nuovo arresto del presunto boss dell’Arenella, potrebbero fornire nuovi elementi su un duplice omicidio ancora senza colpevoli. Perché fu ucciso Agostino? E come mai la strada verso un processo è così tortuosa? Secondo quanto emerso dalle indagini finora effettuate, Agostino sarebbe stato impegnato nella ricerca dei latitanti e probabilmente indagava sul fallito attentato all’Addaura contro Giovanni Falcone. Dopo l’omicidio, per il quale il capo della Mobile Arnaldo La Barbera batté la pista passionale, il secondo tentativo di depistaggio proseguì quando furono fatte sparire le carte di Agostino che il poliziotto conservava nell’armadio di casa sua. Il padre, Vincenzo, ha sempre raccontato che «mio figlio nel portafogli portava un biglietto in cui era scritto di andare a cercare dentro il suo armadio nel caso in cui gli fosse successo qualcosa». Gli appunti, però, sparirono. Nella sua casa di Altofonte ad arrivare per primo fu un poliziotto, Guido Paolilli, che, parlando con il figlio, inconsapevole di essere intercettato, ammise, di avere fatto “sparire una freca di carte”. Indagato per favoreggiamento, la sua posizione è stata archiviata per prescrizione. A Paolilli, però, Vincenzo Agostino ha chiesto un risarcimento di 50mila euro.

Alle numerose anomalie investigative che hanno allontanato la verità si è aggiunto anche altro: Vincenzo Agostino ha dovuto fare i conti, in un confronto all’americana, con Giovanni Aiello, ex agente di polizia ritenuto vicino ai servizi segreti e conosciuto anche come “faccia da mostro” per una cicatrice sul volto. Morto nel 2017, Aiello era tra gli indagati del delitto Agostino. Secondo l’accusa avrebbe aiutato i due presunti killer, Madonia e Scotto, a fuggire. Vincenzo Agostino, durante il confronto nell’aula bunker dell’Ucciardone, lo aveva riconosciuto tra le lacrime e le urla di dolore come l’uomo che, una settimana prima dell’omicidio, si era presentato a casa sua per chiedere del figlio. Adesso un nuovo processo rinfocola le speranze: «Aspetto giustizia da trentuno anni – dichiara Vincenzo Agostino – nonostante tutto ho ancora fiducia nello Stato. Spero di tagliare presto la mia barba».

“Era un collaboratore riservato di Falcone e fu testimone dell’abbraccio tra Stato e mafia: ecco perché è stato ucciso Nino Agostino”. Giuseppe Pipitone il 20/3/2021 su Il Fatto Quotidiano.

L'INTERVISTA - L'avvocato Fabio Repici è il legale della famiglia del poliziotto ucciso il 5 agosto del 1989 insieme alla moglie Ida Castelluccio. Per tre decenni un duplice omicidio senza colpevoli e privo di mandanti. Fino a ieri quando è stato condannato all'ergastolo il boss Nino Madonia. "Un risultato storico che arriva dopo 25 anni di depistaggi e di una vera e propria distruzione della verità", dice il legale. Che racconta quello che ha scoperto la procura generale di Palermo: il poliziotto aveva un "rapporto fiduciario" con il giudice ucciso a Capaci. E faceva parte di un "gruppo riservato" che si occupava di cacciare i latitanti. C’erano i buoni che in realtà erano cattivi. E poi c’erano i cattivi che erano pure peggio. In mezzo c’era lui: un comune poliziotto che lavorava al servizio Volanti del commissariato San Lorenzo di Palermo. Apparentemente Nino Agostino si occupava di posti di blocco e contravvenzioni. In realtà dava la caccia al latitanti. Quelli di Cosa nostra, che all’epoca si chiamavano Totò Riina e Bernardo Provenzano e comandavano un esercito completamente mimetizzato nella vita di ogni giorno. Al bar, per strada, in banca: nel 1989 a Palermo la mafia non era un’anomalia, era routine. “Quest’omicidio è stato fatto contro di me“, dirà davanti alla bara di quell’agente di polizia, il magistrato Giovanni Falcone: avevano ucciso un investigatore che lavorava con lui, seppur in via riservata. Troppo riservata: fino a oggi di quella collaborazione non si sapeva nulla. Non si poteva: il principale testimone di tutta quella storia, cioè lo stesso Falcone, è stato fatto saltare in aria. E sull’omicidio di Nino Agostino e di sua moglie, Ida Castelluccio, sono calati tre decenni di silenzio. Sembra una storia da film, di quelli americani col finale a sorpresa che arriva dopo, molto dopo, quello ufficiale. Questo, però, non è un film ma la storia di un duplice delitto quasi dimenticato, ingoiato dalle cronache di bombe e morte degli anni ’90. Agostino e la moglie li ammazzano poco prima, alla fine di una giornata di mare: il 5 agosto del 1989, davanti casa dei suoi genitori, a Villagrazia di Carini, spuntano in due su una motocicletta e cominciano a sparare. Nino apre il cancello e col suo corpo fa scudo a Ida. Che si volta, guarda in faccia i motociclisti e grida: “Io vi conosco“. Quelli rispondono e la colpiscono al cuore: era incinta da tre mesi e sposata da uno. Trentadue anni: tanto ci è voluto per portare a processo e condannare all’ergastolo Nino Madonia, uno di quei killer che Cosa nostra usava per i delitti particolari. Quello Agostino era particolarissimo, senza movente e senza colpevoli: perché assassinare in quel modo un semplice agente in servizio alla sezione Volanti del commissariato di San Lorenzo, a Palermo? Perché farlo mentre si trova insieme alla moglie nella casa sul mare? E poi: come è possibile che ci siano voluti 32 anni per arrivare a una condanna di primo grado? “Questa sentenza è un miracolo“, dice l’avvocato Fabio Repici, legale della famiglia Agostino. Vincenzo, il padre del poliziotto ammazzato, in Sicilia lo conoscono tutti perché ha una lunghissima barba bianca. Non la taglia dal 1989, dal giorno in cui gli hanno ammazzato il figlio e la nuora davanti casa: una sorta di fioretto laico che rispetterà, dice, fino a quando non emergerà tutta la verità.

Avvocato Repici, con la sentenza di oggi arriva un pezzettino di verità sul caso Agostino?

No, non è un pezzettino di verità. È un risultato storico per il distretto giudiziario di Palermo perché arriva dopo 25 anni di depistaggi e di una vera e propria distruzione della verità.

In che senso distruzione della verità?

Un collega di Nino Agostino fece scomparire gli appunti scritti dallo stesso Agostino, che prevedeva il suo assassinio, dormiva con la pistola sul comodino, e per questo si era tutelato. Ecco perché va sottolineato il risultato storico della procura generale di Palermo guidata da Roberto Scarpinato e dai sostituti Domenico Gozzo e Umberto De Giglio. Sono arrivati alla sentenza di condanna di Nino Madonia, il più pericoloso esponente della stagione corleonese di Cosa nostra a Palermo. Uno che ha avuto come principale capitale sociale le relazioni privilegiate con gli apparati deviati dello Stato e del Sisde.

Per molto tempo il caso Agostino è stato liquidato come un duplice omicidio senza colpevoli e senza moventi. Perché si dovuti attendere 32 anni prima di arrivare a una sentenza?

Perché l’omicidio Agostino è stato eseguito da due uomini di Cosa nostra, legati ad apparati dello Stato, e cioè Nino Madonia e Gaetano Scotto. Ma è stato commesso anche nell’interesse di apparati deviati dello Stato che poi sono intervenuti nell’attività di depistaggio.

In che modo?

L’attività di occultamento della verità è stata posta in essere in una maniera così spregiudicata tale da occultare e far sparire delle informazioni che erano emerse fin da subito. La sera stessa dell’omicidio un collega di Agostino, il poliziotto Domenico La Monica, aveva riferito al capo della Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, che proprio Nino Agostino si occupava della ricerca di latitanti. Informazione che è stata recuperata solo recentemente.

Già il giorno dopo, davanti alle bare di Agostino e della moglie, Falcone disse al commissario Montalbano: “L’omicidio di questi due ragazzi è stato commesso contro di me”. Che cosa significa?

Che fin dall’immediatezza il magistrato più esperto nei fatti di Cosa nostra aveva capito cosa fosse l’omicidio Agostino. Falcone era il principale testimone di quel duplice assassinio. Purtroppo venne eliminato il 23 maggio del 1992 con la strage di Capaci. E per la verità su Nino e Ida sono serviti altri trent’anni.

Chi era Nino Agostino? E perché è stato assassinato?

Era un umile agente di Polizia desidoroso di servire lo Stato. Ed era un poliziotto coraggioso. Negli ultimi tempi della sua carriera è stato accertato che aveva accettato di partecipare alla ricerca dei latitanti di Cosa nostra. Un’attività borderline, ma istituzionalmente organizzata col coordinamento dell’Alto commissariato antimafia, dei servizi di sicurezza e della polizia.

Un terreno minato.

Esatto. E infatti, mentre era impegnato in quest’attività, Nino Agostino divenne testimone scomodo delle contiguità di alti funzionari della polizia e dei servizi sicurezza con i mafiosi del mandamento di Resuttana, cioè quello di Nino Madonia, il suo killer. Bisogna considerare che il mandamento di Resuttana, per delega diretta di Riina, si occupava delle relazioni tra Cosa nostra e gli apparati istituzionali. Accadevano cose incredibili in quella zona di Palermo.

Per esempio?

Alcuni anni fa vennero intercettati due poliziotti della squadra Contrada che raccontavano dell’esistenza di un poligono di tiro in cui andavano a sparare poliziotti, mafiosi e uno come Pierluigi Concutelli, il neofascista che è stato “covato” personalmente dalla famiglia Madonia e che poi uccise il giudice Vittorio Occorsio.

Cosa nostra, apparati dello Stato ed eversione neofascista: tutti insieme nello stesso spicchio di Palermo.

Già, per questo io ho parlato di una trinità a monte dell’omicidio Agostino. Ma c’è un’altra cosa.

Quale?

Negli ultimi mesi di vita Nino Agostino, così come è stato dimostrato dalle indagini, era entrato in rapporti di collaborazione con il giudice Falcone.

Che tipo di collaborazione?

Collaborava sia nell’attività prestata per la scorta di un testimone che veniva sentito in quel momento da Falcone, cioè l’estremista di destra Alberto Volo. Sia per le attività di cui si occupava personalmente Falcone, che si era circondato in modo riservato dell’aiuto di alcuni esponenti della Polizia.

Tra questi Nino Agostino?

È stato accertato che Falcone aveva un rapporto fiduciario con Agostino. L’uccisione del poliziotto avviene nel momento più incandescente dell’estate del 1989, cioè l’estate in cui ebbe la stura la stagione stragista. Fu il periodo in cui a causa di uno scontro feroce che scoppiò all’interno degli apparati dello Stato, uomini come Falcone – a cui tutti i cittadini italiani sono debitori – si trovarono in condizioni di sovraesposizione. Furono obbligati a doversi tenere al riparo dall’attività di altri organi istituzionali e allo stesso tempo dovettero affidarsi alla collaborazione di soggetti fiduciari. Tra questi, sicuramente, c’era Nino Agostino.

Quella fu l’estate dell’attentato all’Addaura, delle polemiche contro Falcone accusato di essersi messo da solo l’esplosivo sotto casa, e anche delle “menti raffinatissime” come le definì lo stesso giudice. Secondo lei, a cosa si riferiva?

A quell’assetto di interessi che portò anche all’uccisione di Nino Agostino. Purtroppo dopo l’omicidio Agostino, Falcone operò riservatamente e riservatamente cercò di trovare il bandolo della verità. Ma nulla di questo venne reso ufficiale in documenti formalmente utilizzabili: con la strage di Capaci venne fatto fuori non solo il nemico numero uno di Cosa nostra, ma anche il principale testimone dell’omicidio Agostino. Questa è una storia di ombre e luci che s’intersecano. Per esempio la procura generale sostiene che Agostino lavorasse in un “gruppo riservato”, una sorta di squadra speciale di cattura latitanti. Ma dentro questa squadra c’erano anche personaggi come Giovanni Aiello, meglio noto come “Faccia da mostro”, che prima di morire – nel 2017 – fu pure indagato per l’omicidio del poliziotto. Se è per questo in quel gruppo c’era anche Guido Paolilli, il poliziotto intercettato mentre diceva di aver stracciato “una freca di carte” dall’armadietto di Agostino. Venne indagato per favoreggiamento e archiviato per prescrizione, ma la famiglia lo ha citato in giudizio in sede civile.

Dunque Agostino lavorava con le persone che depistarono le indagini sul suo omicidio?

Agostino iniziò l’attività di poliziotto sotto l’egida del più anziano ispettore Paolilli, che era non solo suo collega ma anche suo amico. Ed era un uomo di assoluta fiducia di Bruno Contrada. Il problema di Agostino è che iniziò a svolgere quell’attività di ricerca di latitanti sotto l’egida di Paolilli e di quello che c’era dietro Paolilli, ma la svolgeva da poliziotto onesto. Si trovava in un osservatorio che gli consentì, putroppo, di vedere quello che è stato poi raccontato da collaboratori di giustizia e testimoni istituzionali: un abbraccio continuo tra alcuni esponenti dello Stato e Cosa nostra. Questo è stato uno dei due motivi per i quali fu ucciso Nino Agostino.

Quale è l’altro?

Quello più vicino all’interesse di Cosa nostra: proteggere i latitanti. Agostino negli ultimi tempi di vita era sulle tracce di Riina e Provenzano. Dal giorno dopo il suo matrimonio andava costantemente a San Giuseppe Jato dove in quel momento si trovava latitante Riina. Tutto questo nella consapevolezza di un personaggio che era lo zio acquisito della moglie, mafioso e uomo dei Brusca. Per questo motivo l’omicidio di Nino Agostino e Ida Castelluccio è un omicidio commesso a mezzadria tra uomini di Cosa nostra e dello Stato.

Il caso Agostino è stato legato alla figura di Emanuele Piazza, ex poliziotto che collaborava col Sisde nella ricerca dei latitanti, scomparso nel nulla nel marzo ’90. Secondo gli inquirenti anche Piazza lavorava nel “gruppo riservato” di Agostino. Quanti sono i “casi Agostino” che non abbiamo capito negli ultimi trent’anni anni?

Ci furono sicuramente almeno quattro personaggi attivi nella ricerca di latitanti che furono uccisi tra il maggio del 1989 e il marzo del 1990. Si tratta di Nino Agostino, di Emanuele Piazza, di Giacomo Palazzolo, di Gaetano Genova. Agostino, però, era l’unico a indossare una divisa in quel momento.

Madonia ha preso ergastolo in abbreviato, ma il giudice ha ordinato anche un duplice rinvio a giudizio: per il boss Gaetano Scotto e per Francesco Paolo Rizzuto, un vicino di casa degli Agostino, accusato di favoreggiamento. Questo sarà un processo che sarà celebrato in aula coi testimoni.

E noi chiameremo a testimoniare tutti i soggetti istituzionali, ancora vivi, per dimostrare quella verità spaventevole che è stato l’omicidio Agostino-Castelluccio. Cioè un omicidio commesso nell’interesse anche di settori infedeli dello Stato.

·        Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro De Mauro.

De Mauro, il delitto perfetto perduto nel mistero di Mattei. Luca Fazzo il 6 Settembre 2021 su Il Giornale. Il giornalista e l'imprenditore: un unico omicidio firmato da mafia e politica. Ma ancora senza colpevoli. Avrebbe compiuto cent'anni oggi: invece morì che non ne aveva neppure compiuti cinquanta. Di Mauro De Mauro, giornalista, non si conosce nemmeno la data esatta in cui venne ammazzato: lo portarono via sotto casa a Palermo, con la sua auto, senza che opponesse resistenza, la sera del 16 settembre 1970: e sapere se lo uccisero subito o se lo tennero prigioniero, lo interrogarono, lo picchiarono, sarebbe già un passo avanti per capire le ragioni del delitto. Invece neanche questo si sa. Come non si sa che fine abbia fatto il suo corpo, e da mezzo secolo i suoi parenti piangono un morto senza tomba. Tre giornalisti sono stati uccisi in Italia sotto la Repubblica: uno per vendetta, Giancarlo Siani, ed è l'unico di cui si conoscano i colpevoli. Uno inghiottito dai suoi ricatti, Mino Pecorelli, per la cui morte Giulio Andreotti fu processato e assolto. E poi c'è lui, De Mauro: delitto irrisolto. Un solo processo celebrato, ad oltre trent'anni dal crimine: imputato era il capo dei Capi, Totò Riina, che venne assolto per insufficienza di prove. Oggi, nel centenario della nascita di De Mauro, si può solo dire che la sua eliminazione fu un delitto perfetto. Perfezione, va detto, realizzata non tanto nel pianificare e nell'eseguire (lo aspettano sotto casa, mentre torna dal lavoro, a volto scoperto: e manca un nulla perché la figlia che sta rincasando non li veda in faccia) quanto dopo il delitto, nell'impedire che si scavasse davvero. Anche questa è a suo modo perfezione. Perchè non si poteva scavare su De Mauro? Perchè da lì si sarebbe arrivati all'altro grande delitto irrisolto di quegli anni, la morte del presidente dell'Eni Enrico Mattei, schiantatosi nel 1962 col suo aereo a Bascapè, mentre tornava dalla Sicilia a Milano. La fulminea inchiesta ordinata da Giulio Andreotti liquidò lo schianto di Mattei come un incidente, e questa tesi tranquillizzante venne sposata da molti: compreso, nello svarione più grave della sua carriera, da Indro Montanelli. Oggi però sappiamo che De Mattei vene ammazzato; che un ordigno piazzato sotto la cloche del pilota Irnerio Bertuzzi durante la sosta in Sicilia dell'aereo esplose poco prima dell'atterraggio. Lo ha scoperto l'indagine bis compiuta nel '94 dal pm di Pavia Vincenzo Calia, andando a analizzare con le tecniche di oggi i reperti di allora. E su quello che restava dell'orologio di Mattei c'erano le tracce inequivocabili dell'esplosione. L'inchiesta di Calia non arrivò ai mandanti politici del delitto; il pm pavese trasmise però a Palermo uno stralcio. Perchè scavando Calia aveva trovato le tracce nette di quanto i familiari di De Mauro avevano sempre sospettato, sulla base delle angosce confidate dal giornalista a ridosso della sua fine: che a costargli la vita fosse stato il lavoro che stava compiendo per il regista Francesco Rosi, il quale preparava un film proprio sulla morte di Mattei. Un lavoro in cui De Mauro si era tuffato a capofitto, imbattendosi in verità che gli sarebbero costate la vita. Di fatto, la morte di Mattei e di De Mauro sono un unico delitto, un unico grumo di segreti. Sulla base delle carte arrivate da Pavia, a Palermo si riaprì il caso De Mauro, Totò Riina venne incriminato come capo della Cupola mafiosa, e venne assolto: ma i giudici attestarono due certezze, che «De Mauro è stato ucciso da uomini appartenenti a Cosa Nostra, e che l'omicidio s'inscrive a pieno titolo nel filone dei delitti politici» perchè «alla genesi della deliberazione omicidiaria non è estranea una parte del mondo della politica e delle istituzioni». Nelle pagine della sterminata sentenza, la deposizione (decisamente tardiva) dell'ex pm palermitano Ugo Saito, che un giorno chiese a Boris Giuliano, capo della Mobile di Palermo, come andavano le indagini: «Giuliano manifestò il suo stupore per il fatto che io non ero a conoscenza della circostanza che a "Villa Boscogrande", un night Club in località Cardillo, vi era stata una riunione alla quale avevano partecipato i vertici dei Servizi Segreti e i responsabili della Polizia Giudiziaria palermitana. In tale riunione fu impartito l'ordine di "annacquare" le indagini». Pochi anni dopo, il 21 luglio 1979, ammazzarono anche Boris Giuliano.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

·        Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro Rostagno.

Inchiesta. Delitto Rostagno, 33 anni di misteri. «Le armi e la droga su voli fantasma». Marco Birolini giovedì 23 settembre 2021 su Avvenire. «Eroina su aerei militari» fu la rivelazione di un confidente. Il poliziotto che la raccolse: «Avvisai il Viminale, ma nessuno indagò». Intrecci tra mafia, servizi segreti e massoneria. «Ci sono traffici di stupefacenti cui voi non arriverete mai». Trapani, gennaio 1988. L’ispettore della Mobile Antonino Cicero incontra Pietro Ingoglia, "fonte" vicina alle cosche di Partanna. Il poliziotto ha svolto indagini delicate a Palermo ed è stato trasferito per ragioni di sicurezza dopo gli assassinii dei commissari Beppe Montana e Ninni Cassarà. Lui stesso, mesi prima, è sfuggito a un agguato sotto casa. Da Ingoglia vuole sapere se sulla sua testa pende ancora la spada della vendetta mafiosa. L’uomo lo rassicura: i boss hanno altro a cui pensare, a Palermo è imminente l’ennesima guerra di mafia e le famiglie stanno cercando di rifornirsi di armi. Poi, a sorpresa, Ingoglia aggiunge: «C’è tanto in giro. C’è questo discorso...» Incuriosito, Cicero lo incalza. «Quale discorso?». L’uomo, che sarà ucciso pochi mesi dopo, risponde: «Andreste mai a trovare la droga che arriva dentro le casse delle bombe, che arrivano da fuori?». Il poliziotto sgrana gli occhi. «Zu’ Pietro, casse delle bombe?». Risposta: «Eh, arrivano. Arrivano casse delle bombe in aerei all’aeroporto militare». Si tratta di Birgi? Non è chiaro. Perché a Trapani esiste anche la pista di Chinisia. Ufficialmente dismessa, in realtà potrebbe essere stata usata per voli fantasma con armi e droga. Cicero – che poi racconterà la vicenda durante il processo per l’omicidio Rostagno – si rende immediatamente conto della gravità della questione. Non dice nulla in questura e si fionda a Roma per riferire direttamente a tre alti funzionari del ministero dell’Interno. Oggi, rintracciato da Avvenire, l’ispettore conferma tutto perché «se uno racconta la verità le sue parole non cambiano, anche un secolo dopo». Premette che «Ingoglia era una fonte riservata, fu un altro funzionario di polizia a rivelarne l’identità…». E poi sottolinea che non fu l’unica stranezza. «Da Roma chiesero lumi alla squadra mobile di Trapani, cioè a me che gli avevo portato la notizia…». Un cortocircuito istituzionale che stroncò sul nascere l’inchiesta. «Non eravamo certo noi a poter indagare su una storia simile, ma ben altri organi investigativi…». Persino i giudici di Trapani si stupirono dell’assenza di un’indagine su una notitia criminis così clamorosa. «In tutti questi anni nessuno mi ha mai chiesto nulla» chiosa amaramente Cicero, che ha scoperto di essere stato addirittura "cancellato". «Del mio viaggio a Roma sparì ogni traccia, persino la nota spese con i biglietti aerei. E ricordo che tornando a Fiumicino mi accorsi di essere seguito...» Tra le nebbie di Trapani si inoltrò anche Mauro Rostagno. Il giornalista, che avrebbe ripreso un aereo militare mentre caricava armi proprio a Chinisia, prima di essere ucciso stava studiando a fondo anche l’economia della droga. Sono gli anni in cui la mafia siciliana domina il mercato globale dell’eroina. Un business enorme, che genera capitali immensi da riciclare nei circuiti legali, con la connivenza di insospettabili imprenditori, colletti bianchi e persino pezzi dello Stato. Un’industria che non può incepparsi, perché conviene a tanti. Anche a chi, in teoria, sta dalla parte giusta. Tra il 1987 e il 1989 lo scenario siciliano è intricato: dietro le quinte si muovono mafiosi, massoni e 007. A Trapani si annida il Centro Scorpione, una base Gladio che sarebbe del tutto inutile in caso di invasione da Est: lo dirige Vincenzo Li Causi, super agente del Sismi poi ucciso in Somalia nel ’93 in circostanze poco chiare. I pm esclusero legami tra Scorpione e Cosa Nostra, ma dissero che l’attività del centro restava un mistero. Talmente insondabile che solo la VII divisione del Sismi, quella che gestiva Gladio, era a conoscenza dell’operazione. Nessun altro, nemmeno il centro Sisde di Palermo, sapeva della sua esistenza. La testimonianza di Cicero trova eco in almeno altre tre voci. Durante il processo Rostagno spuntano anche le parole choc di Francesco Elmo, freelance dei servizi segreti. L’uomo racconta di un sistema che consisteva nel simulare un guasto «che consentisse un atterraggio non previsto di un aereo militare in una pista vicino alla base di Sigonella». Un espediente sicuro, perché «collaudato anche in una pista vicino a Birgi». Chinisia, probabilmente. La finta emergenza serviva, secondo Elmo, a «scaricare eroina che proveniva dalla mafia russa, e che veniva utilizzata per ottenere in cambio ingenti somme di denaro destinate all’acquisto di armi». E ancora: «Talvolta l’eroina può essere servita per ottenere direttamente le armi da Cosa nostra, specialmente mitragliatori Ak47». Un quadro simile lo tratteggiò Aldo Anghessa, che a Trapani si infiltrò in una compravendita di armi tra mafiosi e terroristi palestinesi. «A Trapani arrivavano vecchi Dc3 carichi di droga – rivelò il controverso 007 al centro di mille misteri italiani –. Provenivano da Libia o Tunisia, volavano a bassa quota sul mare per sfuggire ai radar». Inverosimile? Non proprio. Il 12 marzo 1997 un radarista di Birgi disse ai pm siciliani: «Se un aereo si fosse avvicinato volando a bassa quota a Chinisia sarebbe stato quasi impossibile vederlo, soprattutto se non vi fosse stata alcuna segnalazione». Ma chi c’era dietro i presunti traffici? Anghessa lo spiegò a modo suo: «La Cia utilizza la droga da sempre per creare fondi neri. E se certe cose le fa un ristorante stellato, figuriamoci una trattoria di provincia...». Ma i misteri circondano anche un altro vecchio aeroporto militare della zona. «Milo rimase un campo d’atterraggio fantasma gestito da famiglie mafiose. Erano i Virga a provvedere alla manutenzione. Il campo era abbandonato e pieno di erbacce. All’improvviso lo ripulivano. Erano i loro uomini e non i militari a dare accoglienza a quelli che atterravano e che poi prendevano in consegna quanto veniva scaricato...». La testimonianza di un ex incursore del Comsubin, le forze speciali della Marina in "contatto" con Gladio, è raccolta nel libro "La Bestia" dell’ex giudice Carlo Palermo, tuttora alla ricerca della verità sull’attentato cui scampò nel 1985 proprio a Trapani, dove stava riannodando le indagini su armi e droga iniziate a Trento. Il boss Vincenzo Virga è stato condannato come mandante sia dell’agguato, in cui morirono una mamma e i suoi due gemellini, che dell’omicidio Rostagno. Ma forse non fu solo la mafia ad armare la mano dei killer. Né a Pizzolungo né a Valderice. I traffici di droga e armi nascondono risvolti inquietanti, a volte con complicità imbarazzanti che toccano anche ambienti istituzionali. Lo aveva intuito Mauro Rostagno, sociologo e giornalista scomodo assassinato il 26 settembre 1988 a Valderice (Trapani). «Essendo coinvolti in questo tipo di commercio clandestino anche taluni apparati dello Stato o esponenti dei servizi, in un simile quadro germinano accordi collusivi e scambi reciproci di favori altrettanto indicibili» scrissero i giudici di Trapani nella sentenza di primo grado del processo che ha condannato come mandante dell’omicidio Vincenzo Virga, capomafia locale nonché braccio destro del superboss latitante Matteo Messina Denaro. Il delitto, che maturò in un "contesto" (direbbe Sciascia) assai intricato – le presunte relazioni pericolose tra Cosa Nostra, massoneria e servizi segreti – presenta ancora molti lati oscuri. Basta incrociare vecchi documenti desecretati e nuove testimonianze per rendersi conto che resta ancora molto da capire.

Da lastampa.it il 26 gennaio 2021. "Francesco Messina Denaro disse di aver dato incarico a Vincenzo Virga di eseguire l'omicidio di Mauro Rostagno, e questo particolare non è per nulla incompatibile con la ricostruzione di come operassero gli organi di vertice di Cosa Nostra nella deliberazione di omicidi eccellenti". Lo scrive la prima sezione penale della Cassazione, nelle motivazioni della sentenza con cui spiega perché, lo scorso 27 novembre, confermò l'ergastolo per Vincenzo Virga - confermando anche l'assoluzione di Vito Mazzara - per l'omicidio di Mauro Rostagno, il giornalista e sociologo ucciso nel settembre 1988. Ricordando in particolare le dichiarazioni del pentito Vincenzo Sinacori, la Corte afferma che "il fatto che Francesco Messina Denaro dette l'incarico esecutivo a Vincenzo Virga è elemento che rafforza la costruzione indiziaria a carico di quest'ultimo, nella misura in cui, se gli venne affidato l'incarico esecutivo, è ben logico ritenere che nel momento deliberativo collegiale non avesse mosso obiezioni o rilievi, aderendo in tal modo alla azione criminosa". Secondo i giudici di piazza Cavour, la Corte d'assise d'appello "ha dato conto dell'assenza di dati di fatto sui quali poter ipotizzare che, successivamente alla deliberazione dell'omicidio, intervennero altri soggetti, estranei al contesto mafioso e comunque interessati alla eliminazione fisica di Mauro Rostagno, come avallato dall'esistenza di cosiddette piste alternative, che anticiparono la realizzazione di quel deliberato e commisero per loro conto l'omicidio, lasciando allo stato del mero proposito l'asserito progetto mafioso di liberarsi dalla scomoda presenza di Mauro Rostagno". Infatti, osserva la Cassazione, le "cosiddette piste alternative sono state oggetto di un attento vaglio a opera dei giudici del merito, che ne hanno dimostrato, con argomenti adeguati e logici, l'infondatezza; in ogni caso - sottolineano i giudici del Palazzaccio esaminando i motivi del ricorso di Virga - nessuna risultanza oggettiva è indicata dal ricorrente come fondamento dell'ipotesi di un autonomo intervento di terzi, che resta pertanto una mera congettura, incapace come tale di rivelare inadeguatezze del costrutto operato in sentenza". "Di pari inconsistenza - si legge ancora nella sentenza - è il concorrente rilievo circa l'assenza di elementi per poter escludere che, deliberato l'omicidio, l'organismo collegiale di "Cosa Nostra" ebbe un ripensamento e decise così di non far nulla. Tutto è possibile, ovviamente, ma una ipotesi non suffragata da alcun dato oggettivo non può essere presa in considerazione come prova logica di segno contrario alla ricostruzione indiziaria che si intende demolire".

Rostagno, un omicidio sepolto per oltre 30 anni da piste deviate. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'1 febbraio 2021. Tante le ipotesi fantasiose sulla morte di Mauro Rostagno: la sua comunità “Saman”, “Lotta continua” e un intrigo internazionale. Correva l’anno 1988, le impressioni di settembre stavano per volgersi quasi al termine quando Mauro Rostagno, l’uomo vestito di bianco, e con immense e gioiose “lotte continue” alle spalle, viene ucciso tra le ore 20,00 e le ore 20,15, in una strada buia e isolata. La stava percorrendo, a bordo della sua autovettura in compagnia della collaboratrice Monica Serra, per fare rientro alla comunità “Saman”, comunità terapeutica per il recupero di tossicodipendenti che – visto il suo approccio libertario – era agli antipodi di quella di San Patrignano. La “Saman” era da lui gestita assieme alla compagna Elisabetta (Chicca per gli amici) Roveri e a Francesco Cardella. Rostagno viene vigliaccamente raggiunto alle spalle e alla testa da due colpi di fucile semiautomatico calibro 12 e, ancora alla testa, da due colpi di pistola calibro 38.

Un “delitto eccellente”. Sono dovuti passare 32 anni per arrivare alla nuda e cruda verità sull’uccisione di Mauro Rostagno. Ovvero che rientra tra i “delitti eccellenti” della mafia. E Rostagno, eccellente lo era. Decenni di fantasiose piste che sembrano essere dei veri e propri depistaggi per allontanare la matrice mafiosa del vile agguato. Sì, perché in questo strano Paese non si comprende il motivo per cui, invece di individuare subito i mafiosi, il più delle volte si pensa di percorrere piste alternative poi rivelatesi del tutto infondate. Nel caso di Rostagno sono state tre: la pista interna alla comunità di recupero “Saman” e incentrata sulla figura del cofondatore Francesco Cardella. La pista politica connessa agli ambienti di “Lotta continua” in cui Rostagno aveva militato e mai rinnegato e, infine, la pista internazionale, legata a un traffico di armi e connessa alla successiva vicenda dell’omicidio in Somalia di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.

La sua compagna, Chicca Roveri, finita in prigione. Piste che hanno anche creato dolore e sofferenza. Basti pensare a Chicca Roveri, la compagna di Mauro, che è finita perfino in prigione. Il motivo? Secondo l’allora procuratore di Trapani, Rostagno era stato ucciso dagli ex di “Lotta continua”, con la complicità di Chicca Roveri, per impedire che rivelasse segreti scomodi al processo contro Adriano Sofri e i presunti assassini del commissario Calabresi. E i giornali? Da parte delle procure senza se e senza ma. Senza insinuare un minimo dubbio, hanno sbattuto il mostro a prima pagina. Non solo. I giornalisti Giuseppe D’Avanzo e Attilio Bolzoni avevano dato tempestivamente alle stampe il libro: “Rostagno: un delitto tra amici”. Quarta di copertina: “Diranno che l’ha ucciso la mafia, o qualche spacciatore, oppure un amante deluso, ma niente di tutto ciò racconterà la vera storia di Mauro Rostagno”. Ovviamente tutto falso, l’accusa crollò e, a onor del vero, va dato atto che D’Avanzo chiese scusa. Pochi l’hanno fatto. D’altronde, nonostante l’evidente infamità della pista interna, a distanza di anni, nel 2011, due cronisti de Il Fatto hanno rispolverato le piste interne collegandole nuovamente al delitto Calabresi. In sostanza Rostagno sarebbe stato ucciso dai suoi ex compagni perché avrebbe appreso “la verità”. Eppure i cronisti avrebbero dovuto ascoltare cosa disse Rostagno attraverso la sua tv, Rtc, e con un comunicato all’agenzia Ansa.

Il legame politico e di amicizia con Adriano Sofri. Aveva espresso solidarietà al suo amico e compagno Adriano Sofri, respingendo le accuse di essere stato il mandante dell’omicidio Calabresi. Non ci sono zone d’ombra, tutto è molto netto e chiaro nelle sue parole. Così com’è chiaro il suo legame non solo politico, ma di profonda amicizia con i suoi ex compagni di “Lotta Continua”. Ed è una amicizia così indissolubile che non si è recisa con la sua morte, ma è proseguita attraverso i famigliari, a partire dalla figlia Maddalena. Basti pensare ad Adriano Sofri che l’ha accompagnata passo dopo passo lungo questo tortuoso percorso. Ma ora arrivano le motivazioni della Cassazione. Questo dopo ben due lunghi processi nei quali, finalmente, si è accertata la verità dei fatti ascoltando testimoni, analizzando le prove, indizi e soprattutto ripercorrendo tutto il forte impegno antimafia di Mauro Rostagno, quale giornalista di inchiesta presso l’emittente televisiva trapanese Radio Tele Cinema (Rtc). Proprio questa sua attività ha posto in crisi il sistema di potere criminale imperante in quel territorio, che faceva capo al rappresentante della provincia Francesco Messina Denaro e ai capi-mandamento di Trapani e Mazara del Vallo, rispettivamente Vincenzo Virga e Francesco Messina (“Mastro Ciccio”).

Quello di Mauro Rostagno fu un omicidio di mafia. Ormai non c’è alcun dubbio: la Corte Suprema ha confermato l’ergastolo per il boss Vincenzo Virga, accusato di essere il mandante dell’uccisione di Rostagno, su input del padre del super latitante Matteo Messina Denaro, in un contesto decisionale totalmente mafioso che esclude, com’è detto, “piste alternative” o “ripensamenti”. Respinto invece il ricorso della Procura di Palermo contro l’assoluzione pronunciata in appello in favore del presunto killer Vito Mazzara. Il Pg della Suprema Corte aveva chiesto di annullare il proscioglimento. Come l’altro omicidio eccellente, quello di Piersanti Mattarella, non si è individuato con certezza l’autore materiale del delitto.

Gli interessi di Cosa nostra per gli appalti. Tanti gli interessi mafiosi in ballo, soprattutto in un contesto dove la mafia corleonese di Riina si è affermata soppiantando con il sangue quella vecchia e dove, nel territorio del trapanese, Matteo Messina Denaro era un referente importante anche per la gestione degli appalti. Tutto ciò è riscontrato soprattutto dalle deposizioni del pentito Vincenzo Sinacori, che ha fatto i nomi delle aziende coinvolte, compreso i nomi come Angelo Siino, il cosiddetto “ministro dei lavori pubblici”, e Giuseppe Lipari, colui che curava gli appalti per conto di Bernardo Provenzano. Ed è lì che c’era Paolo Borsellino, già sotto la mira della mafia, avendo quest’ultimo, già dalla fine dell’86, anno in cui prestava servizio presso la Procura di Marsala, dimostrato la tempra di magistrato che con ostinazione continuava ad applicare gli stessi penetranti metodi investigativi, già sperimentati ai tempi in cui, insieme a Giovanni Falcone, era stato componente del pool dell’Ufficio Istruzione di Palermo.

I rapporti tra Rostagno e Paolo Borsellino. Non è un caso che Rostagno ha avuto contatti con Borsellino. Come non è un caso che, come ha testimoniato Chicca Roveri, il giudice Borsellino ha fatto visita alla comunità “Saman” il giorno dopo l’omicidio. Ed è bello apprendere che, in seguito, Roveri e Borsellino fecero degli incontri con gli studenti in varie scuole per parlare dei temi della legalità.Non a caso, l’uccisione di Mauro per ordine di Messina Denaro, era stato accolto con favore da Totò Riina. Durante il processo di primo grado, inizialmente il pentito Giovanni Brusca non rammentava le parole esatte pronunciate da Rina. È stato il giudice Angelo Pellino, all’epoca presidente della corte d’Assise di Trapani, a ricordargliele attraverso una contestazione di un interrogatorio risalente al 1997. Il concetto è che per Riina, il giornalista Rostagno «era un problema per quel territorio e che i mazzaresi o i trapanesi sapevano di quello che stavano facendo e finalmente avevano chiuso questo conto, avevano tolto di mezzo questa persona», «Che era un disturbo continuo per Cosa Nostra». Un disturbo e quindi andava eliminato. Un delitto, appunto, di chiara matrice mafiosa. Chissà se, com’è accaduto con la scoperta del depistaggio nei confronti della strage di Via D’Amelio, si appurerà chi, come e perché ci sono voluti 32 anni per ottenere la verità che era già sotto gli occhi di tutti. A Mauro Rostagno, l’uomo che appare nelle foto sempre sorridente e che con ironia massacrava la mafia e compiacenti, glielo dobbiamo tutti.

·        Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Don Peppe Diana.

Il parroco di Casal di Principe. La storia di Don Peppe Diana, il prete ucciso dalla Camorra “per amore del mio popolo”. Vito Califano su Il Riformista il 23 Maggio 2021. Era il 19 marzo del 1994 quando Don Giuseppe Diana veniva ucciso a colpi di pistola nella sagrestia della sua Chiesa di Casal di Principe. Il parroco è diventato un simbolo della lotta alla Camorra, alla criminalità organizzata. Il suo scritto: Per amore del mio popolo non tacerò ha ispirato un film per la televisione di Antonio Frazzi e con protagonista Alessandro Preziosi. Diana aveva 36 anni. Era nato a Casal di Principe, il 5 luglio 1958, in provincia di Caserta. Figlio di Gennaro e Iolanda, agricoltori, primo di tre figli. Aveva studiato ad Aversa per poi proseguire il suo percorso in seminario a Posillipo, presso la sede della Pontificia facoltà teologica dell’Italia Meridionale. Si laureò in Filosofia, entrò nell’Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani (Agesci) e venne ordinato sacerdote nel 1982. Sette anni dopo divenne nuovo parroco nella parrocchia di San Nicola di Bari a Casal di Principe. Aveva anche cominciato a insegnate in un liceo, in un istituto tecnico industriale e in un istituto alberghiero. Tra fine anni ’80 e inizio anni ’90 cominciò il suo contrasto alla mentalità criminale. “Don Peppino non voleva fare il prete che accompagna le bare dei ragazzi soldato massacrati dicendo ‘fatevi coraggio’ alle madri in nero. A condannarlo fu ciò che aveva scritto e predicato. In chiesa, la domenica, tra le persone, in piazza, tra gli scout, durante i matrimoni. E soprattutto il documento scritto assieme ad altri sacerdoti: Per amore del mio popolo non tacerò”, ha scritto Roberto Saviano che ha dedicato un intero capitolo del suo best-seller Gomorra a Diana. Quello scritto pubblicato il giorno di Natale del 1991 denunciava la Camorra come “una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana…(gestisce) traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato”. Fu ucciso il 19 marzo 1994, giorno del suo onomastico. Si stava preparando a celebrare la messa mattutina. Erano le 7:20. Cinque i colpi esplosi nella sua sagrestia, due alla testa, uno al volto, uno alla mano e uno al collo. Il Papa Giovanni Paolo II inviò un messaggio di denuncia durante l’Angelus del giorno successivo. Al suo funerale parteciparono oltre 20mila persone. Le indagini furono oggetto di numerosi depistaggi. In molti provarono a screditare la sua immagine, anche tramite la stampa. Nunzio De Falco fu condannato all’ergastolo come mandante dell’assassinio. L’autore materiale dell’omicidio fu Giuseppe Quadrano, condannato a 14 anni. Coautori giudicati dalla Cassazione Mario Santoro e Francesco Piacenti. De Falco detto “’o Lupo” intendeva colpire il clan rivale Schiavone- Bidognetti. Lo Stato ha conferito a Diana la medaglia d’oro al valore civile per essere stato in prima linea contro il racket e lo sfruttamento degli extracomunitari, e perché, pur consapevole di esporsi a rischi mortali, non ha esitato a schierarsi nella lotta contro la camorra ed ha onorato il sacrificio della vittima, con il riconoscimento concesso a favore dei suoi familiari, costituitisi parte civile nel processo, dal Comitato di solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso di cui alla legge n. 512/99.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

·        Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.

Dagonews il 22 settembre 2021. “Dobbiamo stamparlo. Dovrebbe essere formato catalogo, secco e lungo, copertina con quattro foto in sequenza come in negativo. Bellissimo. Conosci il progetto grafico in anteprima”. Lo schizzo scritto a penna è di Giancarlo Siani, il giornalista del Mattino ucciso dalla camorra il 23 settembre del 1985. Quella bozza è di una copertina di un libro che Siani aveva intenzione di pubblicare, ma che non è mai stato stampato e del quale si sono perse le tracce. Cosa aveva scritto Giancarlo Siani? Quali fatti stava approfondendo al punto da ritenerli degni di una pubblicazione? Dopo 36 anni dall'uccisione di Giancarlo è un mistero cosa potesse aver scritto in quelle pagine. Anni dopo i cronisti e colleghi del Mattino – su tutti Pietro Perone e Giampaolo Longo – provarono a darne risposta recandosi in una tipografia di San Giuseppe Vesuviano, in provincia di Napoli, che Giancarlo frequentava assiduamente anche perché lì veniva stampato un periodico sul quale collaborava. Fu tutto vano: in tipografia fecero scena muta non solo davanti ai cronisti, ma anche quando lì – inviati dalla Procura di Napoli che indagava sull'assassinio di Siani – si recarono con un blitz gli uomini della polizia.  Quelle pagine non sono state più ritrovate. È uno dei misteri che avvolge il caso del giovane cronista del Mattino freddato mentre guidava la sua mitica Mehari. Domani intanto Il Mattino di Napoli, per rinnovare la memoria di quel coraggioso giornalista, regalerà in abbinamento al quotidiano un prezioso libro sulle inchieste per ricostruire motivazioni, mandanti ed esecutori del delitto Siani. Un'opera importantissima, non solo di raccolta degli articoli dell'epoca, ma anche il racconto della passione che per anni ha animato i colleghi di Giancarlo per rendergli giustizia. Su tutte la notte in cui si fermarono le rotative del giornale per dare la notizia in esclusiva degli arresti di killer e mandanti dell'assassinio di Siani. Dopo 36 anni resta, però, ancora da capire quale fine hanno fatto gli scritti che Siani voleva raccogliere in un libro. Un dossier scomparso, un mistero irrisolto che i cronisti del Mattino cercano ancora di risolvere nonostante il tanto tempo trascorso. 

Cronisti scalzi, il metodo di Siani: il meccanismo che crea la notizia. “Secondi a nessuno” di Strino è il primo libro di una collana dedicata al giornalista ucciso dalla camorra. Antonella Giacummo su Il Quotidiano del Sud l'11 aprile 2021. Le rivoluzioni non sono sempre violente. Alcune nascono per opporsi alla violenza. Hanno bisogno di più tempo, di anni, di decenni. Ma sono quelle che poi restano, quelle che danno frutti, quelle che sarai sempre orgoglioso di aver fatto iniziare. Vincenzo Strino era destinato a diventare un pilota dell’Aeronautica. E per un anno ha provato a seguire quella che sembrava la strada forse più facile e sicura. Poi ha lasciato tutto per ritrovarsi tra i “cronisti scalzi”, quelli a cui oggi la casa editrice Iod edizioni ha voluto dedicare una particolare collana dedicata a Giancarlo Siani, il giornalista precario de “Il Mattino” di Napoli, ucciso dalla camorra il 23 settembre del 1985. Perché in questo mondo iperconnesso e nel quale ormai ci si deve difendere da mille informazioni e si naviga tra bufale e notizie gonfiate, ci sono ancora tanti giornalisti di periferia precari, come sottolinea nella sua nota l’editore, ma con la voglia di fare un vero giornalismo d’inchiesta, «che continuano a essere presenti sul territorio, a piedi scalzi, e che conservano la memoria, lo stile e il metodo di Giancarlo Siani», che non aspettava le notizie per riportarle, «ma cercava il meccanismo sanguinoso che le produceva». Una collana che inizia a Secondigliano, uno dei quartieri più tristemente noti di Napoli. Inizia con “Secondi a nessuno”, del giornalista Vincenzo Strino, che in quel rione ha frequentato la scuola e la strada e ha avviato, dopo la laurea, quella rivoluzione pacifica che ora già può contare su una seconda generazione di volontari. Ma guai a etichettarlo “giornalista anticamorra”: «essere contro la camorra per me è come essere antifascista: al di là del dovere sancito dalla Costituzione, è parte della mia cultura e della mia storia. Perché se sai cosa fa la camorra, non puoi che essere contro di essa». Secondigliano non è Scampia, rione anche visivamente identificabile nelle sue Vele. Secondigliano ha una storia differente, che inizia nel ‘500. Non ci sono palazzoni, ma case private. Qui c’era la borghesia ma, a partire dagli anni Ottanta, si scatena tra questi vicoli una sanguinosa guerra di camorra. Negli anni Novanta il quartiere si trasforma in uno dei mercati della droga più grandi d’Europa. Tra le vittime decine di giovanissimi, ragazzi che erano stati compagni di giochi in un quartiere per il quale «è paradossalmente più facile e veloce arrivare a Milano (per la presenza dell’aeroporto di Capodichino, ndr) che raggiungere il centro di Napoli». Strino è di Secondigliano, «ma io ho sempre saputo che la mia strada non era la strada, ho sempre saputo di essere diverso. Ero figlio unico, i miei genitori avevano un’istruzione». Ma quel quartiere è il luogo della formazione, dei giochi e dei primi confronti con le ragazze. È il luogo in cui si impara che «per combattere la malavita non basta la repressione, bisogna attraversare la strada e andare oltre gli slogan». È il luogo che sembra avere dei confini: fuori sei quello di Secondigliano. Anche quando per andare al liceo devi andare a Napoli centro, ti resta l’etichetta. «Fuori ci sono i pregiudizi, dentro lo stesso – dice Strino – ma io sapevo che quel rione lo avrei lasciato. Sono stato al liceo, poi mi sono laureato all’Università. In tanti avevano situazioni diverse e quando ci stai dentro non vedi il fuori, non sembrano esserci altre possibilità». La scelta è tra lo scaricare sacchi di cemento, montare impalcature e spaccarsi la schiena dalle 7 del mattino alle 6 del pomeriggio per una paga tra i 70 e i 100 euro alla settimana e il guadagnare 400 euro alla settimana solo stando fermi a fare il palo nelle piazze di spaccio. Raccontare quella realtà non è semplice. Soprattutto perché quelli di cui racconti sono i tuoi amici, ci sono i visi e le storie di chi ha fatto un pezzo di strada con te. E «non si può biasimarli, la maggior parte di loro non ha niente a casa. Le madri non possono dirgli nulla, un sacco di queste donne sono ancora bambine. Il padre è in galera e non c’è nessuno che li tenga a scuola, insegni loro il rispetto. In questo modo crescono da soli, in mezzo alla strada. E tutto ciò che imparano lo apprendono da lì. La loro famiglia è il clan e qui non vedono altro lavoro fatta eccezione dello spaccio di droga».

A un certo punto, d’istinto, nasce il La.R.Sec, Laboratorio di riscossa di Secondigliano. «Quando abbiamo cominciato – dice – qui non c’era nulla a parte le parrocchie. Ci sono voluti anni e tantissime discussioni prima che altri capissero che il Larsec non è la solita associazione culturale che ogni tanto sfocia nel volontariato». Cambiare richiede tempo. E richiede la capacità di capire le piccole cose: «Se il degrado e la noncuranza regnano sovrani, tutti sono giustificati ad assumere lo stesso atteggiamento distruttivo. Tutto ciò si verifica in larga parte di Napoli, ma in particolar modo dalle mie parti. Quindi, come invertire questa teoria? Da questa premessa, un giorno mi venne in mente un’idea che mi accompagna da sei anni e che si chiama Larsec». La prima riunione del nucleo primordiale del progetto ci fu nel giugno del 2014, con un paio di amici che, a loro volta, avevano coinvolto altri ragazzi del quartiere. Si passa così dal pensiero all’azione. Si inizia in una stanzetta della chiesa dei Santi Cosma e Damiano. Si coinvolgono normali cittadini con gesti semplici come la pulizia delle aiuole o il “libro sospeso”, gli incontri con gli autori, i laboratori.

Perché «c’è fame di cultura» in quel quartiere, come in tutte le periferie degradate, in quelle dove lo Stato non entra e se lo fa è con la faccia di qualche politico che cerca i voti. «Per questo il Larsec non ha mai cercato aiuti dalle istituzioni, dovevamo dimostrare di essere lontani da ogni partito. È scritto nel nostro atto costitutivo che rigettiamo qualsiasi rapporto con la politica». Uno Stato che si gira dall’altra parte pur sapendo che qui c’è un tasso di evasione scolastica 4 volte superiore alla media. E non si chiede perché, come recuperare questi ragazzi, come mostrare loro che ci possono essere possibilità diverse oltre quel rione dagli immateriali confini. Al Larsec oggi ci sono ragazzi che vengono da storie difficilissime: sono la seconda generazione, «sono più agguerriti e determinati, vogliono riprendersi il quartiere e sono fiducioso che possano riuscirci». E mentre questi ragazzi, pacificamente, provano a riprendersi il quartiere, Strino cerca di mettere un punto per ricominciare, chiedendosi perché lo Stato continui a non interrogarsi, per esempio, sul motivo per il quale in queste aree, come in tutto il Sud, «non c’è solo una fuga di cervelli, ma anche di ragazzi che finiranno per fare i camerieri a Milano o a Londra». Una bassa manovalanza, iper sfruttata e malpagata che, in altre città, almeno ha un contratto, dei diritti. È questa la strada? «Ci vorrà una generazione – dice Strino – per cambiare l’approccio di una parte della classe dirigente a considerare quest’area come strategica. Sarà necessario mandare in soffitta l’idea del “salotto buono” della città e iniziare a considerare quella che oggi è periferia come centro. Gli interessi della città non li fanno un paio di intellettuali con una buona rete di relazioni, ma i cittadini che si mettono in gioco».

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La ‘Ndrangheta.

Svelato il "Papello", l'organigramma della 'ndrangheta e i codici di affiliazione. Possibili frizioni negli ambienti criminali per il rinvenimento della gerarchia: è vietato metterla per iscritto. Antonio Anastasi su Il Quotidiano del Sud il 5 dicembre 2021. Il documento con la nomenclatura 'ndranghetistica che doveva rimanere segreto. È una contraddizione in termini. Il fatto stesso che venga rinvenuto un codice di mafia con le regole di affiliazione alla ‘ndrangheta, i rituali e financo le date in cui tenere le cerimonie, nonché i nomi e le cariche dei pezzi da novanta delle ‘ndrine di Calabria da indicare in “copiata”, costituisce una violazione di quelle stesse regole.

È vietato metterle per iscritto dal momento che devono rimanere segrete, così come deve rimanere segreto l’organigramma dei clan, per evitare che ne vengano in possesso le forze dell’ordine.

Gli “sbirri”, i “cornuti” e gli “infami”, per evocare il gergo riportato nel codice fatto ritrovare dal pentito Natale Stefanutti, figlio di Dorino Rocco Stefanutti, esponente di vertice dell’omonimo clan lucano alleato alla potente cosca Grande Aracri di Cutro. Ma quelle regole vengono a cadere già col rinvenimento dei primi codici.

Il primo fu ritrovato a Nicastro, nel 1888, il secondo a Seminara, nel 1896, il terzo fu sequestrato a Catanzaro, nel 1902. Da allora, nel corso di varie inchieste antimafia, è stato un continuo ritrovamento di codici contenenti le formule da memorizzare e le norme comportamentali per gli affiliati. Ne sono stati scovati perfino nel Nord Italia, in Piemonte, per esempio, e all’estero, in Australia.

Ma a che serviva quel codice con tanto di “cavalieri di Spagna” e altre figure leggendarie che hanno a che fare con le origini della ‘ndrangheta? Stando a quanto rivela un altro collaboratore di giustizia, Giuseppe Liperoti, ex cassiere del clan cutrese, sentito nell’inchiesta che nei giorni scorsi ha portato all’operazione Lucania Felix, serviva a fidelizzare i “locali” costituiti in Basilicata, affiliati ai Grande Aracri.

«Sono un gruppo autonomo ma fino a un certo punto, eventuali a zioni di fuoco devono essere autorizzati dai vertici Nicola e Ernesto», ovvero Nicolino Grande Aracri – boss a capo di un’organizzazione criminale che, come emerso da plurime vicende processuali, comandava su mezza Calabria, parte dell’Emilia, della Lombardia, del Veneto e, a quanto pare, anche in Basilicata – e suo fratello Ernesto.

Proprio a Ernesto Grande Aracri era molto vicino Donato Lorusso, esponente del clan potentino – condannato in via definitiva per una tentata estorsione all’ex presidente del Crotone calcio Raffaele Vrenna – nella cui abitazione è stato rinvenuto il codice, fotografato da Natale Stefanutti col suo telefono cellulare la sera del 12 novembre 2014 e consegnato agli inquirenti lucani cinque giorni dopo.

Con la “favella”, il linguaggio ‘ndranghetistico, agli agenti della Squadra Mobile della Questura di Potenza si è aperto un mondo fatto di riti esoterici e di cariche mafiose. Perché in quel documento ci sono i nomi dei big delle cosche da tenere in “copiata”, tant’è che non è azzardato ipotizzare che sorgano frizioni negli ambienti criminali per il disvelamento della gerarchia.

Ed eccola, la nomenclatura ‘ndranghetistica, con l’elencazione di una serie di personaggi di spicco della criminalità organizzata del Crotonese e non solo, almeno fino al 2014. Almeno stando al manoscritto di 14 pagine, il primo mai ritrovato in Basilicata.

Come caposocietà viene indicato “Er. G.”: e se fosse proprio Ernesto Grande Aracri, coindagato di Lorusso per la tentata estorsione a Vrenna e il cui genero, Salvatore Romano, è stato arrestato quale mandante?

Contabile “France. Ciampa professore”. Mastro di giornata Salvatore Nicoscia. Capo giovane Catado Marincola. Puntaiolo Angelo Greco “Linogreco”.

Scorrono cognomi pesanti, i Ciampà di Crotone, i Marincola di Cirò Marina, e quello di Greco, storico killer di San Mauro Marchesato facente parte del gruppo di fuoco dei Grande Aracri.

E ancora Capo “Er. G.”. Favorevole Pasquale Ciampà. Sfavorevole Vincenzo Comberiati, il boss di Petilia Policastro. Poi sembra che i vari personaggi menzionati interpretino le figure richiamate durante il rituale. Capo “Minofio” viene indicato Nico Gr. A. Sembra evidente il riferimento al boss Nicolino Grande Aracri, e proprio il suo nome, insieme a quello del fratello Ernesto, è l’unico non riportato per esteso.

Contabile “Mismizio” Silvio Farao, di Cirò Marina, e poi il vero capo dell’omonimo clan che è il fratello Giuseppe Farao, additato come “Melchiorre”. Mastro di giornata “Misgarro” Luigi Mancuso: e se fosse il boss di Limbadi al centro del maxi processo Rinascita?

E ancora “Principe di Russia” sarebbe Pino Sestito di Cirò e “Fiorentino di Spagna” Alfonso Mannolo, vertice indiscusso del clan di San Leonardo di Cutro.

Tanta carne al fuoco per gli accertamenti che sarebbero già in corso. Del resto, già i pm Antimafia di Potenza Gerardo Salvia e Anna Gloria Piccininni hanno sentito alcuni pentiti per riscontrare quanto riportato nel codice. Se ne parlerà, negli ambienti mafiosi, perché il rinvenimento è di quelli eclatanti.

Il precedente più recente è relativo alla copiata smarrita da un componente del gruppo criminale crotonese facente capo ai fratelli Laforgia, una circostanza che stava per scatenare una guerra di mafia, stando a intercettazioni captate dalla Dda di Catanzaro nell’ambito dell’inchiesta che nel febbraio scorso portò all’operazione “Orso”.

La palude dei rapporti ‘ndrangheta-Servizi e gli uomini di Gladio reclutati in una struttura «creata dai clan». L’informativa depositata dalla Dda illumina i rapporti tra i due mondi. «Soldi dei rapimenti divisi tra cosche e 007». La mediazione del boss nel 1991 e i milioni dello Stato per gli informatori. Pablo Petrasso su corrieredellacalabria.it il 26/11/2021. È esistito un terreno comune – sarebbe meglio dire una palude – frequentato da apparati deviati dello Stato e dalla ‘ndrangheta. Un’area in cui i due sistemi si sarebbero scambiati favori. L’informativa depositata dalla Dda di Reggio Calabria nell’appello del processo ‘Ndrangheta stragista mette insieme alcuni tasselli di un mosaico vasto e ancora incompleto. Che spazia dalle riunioni masso-mafiose nella sperduta periferia della Locride e lambisce bombe eversive (vere) e finti ordigni piazzati – secondo l’ipotesi di accusa – per costruire carriere politiche. In quella palude i servizi segreti avrebbero collaborato con i clan nella stagione dei sequestri, ottenendo fondi neri da utilizzare nelle loro attività coperte. Avrebbero goduto di vie preferenziali per avere accesso ai boss nelle carceri. È un percorso tortuoso, fatto di strutture di raccordo necessarie a tenere insieme i due mondi. 

L’appunto dello storico: uomini del livello “ristretto” di Gladio scelti nella Falange armata

Uno dei tasselli del mosaico spunta fuori dall’archivio di Giuseppe De Lutiis, storico dei servizi segreti scomparso nel 2017. È lì che gli investigatori trovano un «documento di lavoro» che tratta dell’«acquisizione di ulteriore documentazione da parte del Sismi riguardante il noto elenco dei 30 e il caso Gladio in generale». Gli appunti dello studioso, forse lo «stralcio di un’informativa all’attenzione delle commissioni parlamentari d’inchiesta (non si esclude possa trattarsi di un atto, a oggi, non divulgato)» analizzano «il reclutamento del personale di Gladio», la struttura promossa dalla Cia per prevenire una possibile invasione dell’Europa occidentale da parte dell’Unione sovietica.

L’appunto di De Lutiis con il riferimento alla Falange armata (Fal. Arm., in basso) 

Sono tre i distinti bacini di reclutamento descritti nel documento: «tre livelli», riporta De Lutiis, il «più riservato e ristretto» dei quali parrebbe correlato alla sigla Falange Armata. Lo storico offre una descrizione grafica dello schema, al centro del quale compare un cerchio rosso, che «fa riferimento alle seguenti parole abbreviate, inserite dentro un cerchio con scritto Sismi: “uff. contr.e sic.”, seguita dal numero 15 e, ancora “Fal. Arm.” seguita dal numero 15. È evidente che la prima abbreviazione rimandi all’Ufficio controllo e sicurezza mentre la seconda alla sigla Falange armata. È a questo punto che bisogna cercare un’altra tessera del mosaico.  

«Falange armata costruita “in laboratorio” dalla ‘ndrangheta»

Umberto Mormile 

Umberto Mormile era l’operatore carcerario che si era accorto delle uscite premio di un detenuto “particolare” del carcere di Opera, Domenico Papalia, vertice dei clan di Platì e non solo. Papalia viene indicato dal pentito Annunziato Romeo – in un interrogatorio davanti all’allora pm Roberto Pennisi – come «rappresentante nazionale della ‘ndrangheta», un modo un po’ naif per spiegare il peso del personaggio. Quando Mormile si frappone tra Papalia e i suoi privilegi, gli vengono offerti – lo raccontano ancora i pentiti – 30 milioni. L’operatore carcerario, però, rifiuta e risponde con una frase che gli costa vita (in apertura di servizio una foto scattata dopo l’agguato a Milano): «Non sono dei servizi». 

Papalia, dichiara il collaboratore di giustizia Vittorio Foschini, prima di eliminare Mormile precisa «che bisognava parlare con i servizi visto che non si doveva sospettare di loro (cioè dei Papalia, ndr). Ne seguì che Antonio Papalia, come ci disse, parlò con i servizi che, dando il nulla osta all’omicidio Mormile, si raccomandarono di rivendicarlo con una sigla terroristica che loro stessi indicarono». Quella sigla è proprio la Falange armata, «costruita – riporta ancora l’informativa – in “laboratorio” dalla ‘ndrangheta su input di frange deviate dei servizi segreti». 

È Antonio Schettini, killer di Mormile, a definire la Falange armata una «creatura della ‘ndrangheta (…) creata per sopperire alla mancanza… diciamo degli approvvigionamenti derivanti dai sequestri di persona». Da questa struttura, dunque, Gladio avrebbe attinto la “crema” dei propri membri, il livello più riservato, stando all’appunto di De Lutiis. 

«I Servizi ci mangiavano con i sequestri»

A cosa serva la Falange armata, Schettini lo spiega negli uffici della Criminalpol di Milano nel 1996. Racconta che l’esigenza di creare questa struttura si pone nel momento in cui sorge il divieto «di fare sequestri di persona in Calabria». Prima di allora, nei «riscatti da un miliardo, i sequestratori prendevano 500, gli altri 500 li prendevano questi apparati che servivano per finanziare altre attività. Venuto meno questo bisognava creare qualcosa, un diversivo dove attingere i fondi». Il pentito Nicola Femia è ancora più esplicito: «I Servizi ci mangiavano con i sequestri… se arrivavano cinque miliardi, due miliardi se li prendono i Servizi e una parte invece andava a chi gestiva il sequestro». Una volta posto fine a questa dinamica, nascerebbe – per compensare e trovare nuovo sostentamento – la Falange armata. 

Il sequestro Ghidini, la mediazione del boss e i milioni dello Stato per gli informatori 

È un sequestro che provocò quasi una guerra di mafia a evidenziare il meccanismo e i contatti tra pezzi dello Stato e uomini della ‘ndrangheta. Roberta Ghidini, figlia di un industriale bresciano, viene rapita il 15 novembre 1991 e rilasciata un mese dopo a Gioiosa Jonica. Si scopre che nel commando di sequestratori c’è Vittorio Ierinò, membro di una famiglia mafiosa della Locride. Lo Stato reagisce e prende il controllo di tutta la fascia jonica reggina, mettendo in crisi i traffici di droga delle cosche. Non basta ancora: per liberare la donna c’è bisogno dell’interessamento del boss Vincenzo Mazzaferro, «uscito appositamente dal carcere per un permesso premio». Il racconto del collaboratore di giustizia Nicola Femia viene riscontrato dai carabinieri. È l’allora dirigente della Squadra mobile di Reggio Calabria, Vincenzo Speranza, assieme ad altri soggetti istituzionali, a condurre la trattativa con Mazzaferro come intermediario, «con la transazione di un ingente quantitativo di denaro consegnato da Speranza – secondo quanto dallo stesso dichiarato – al fine di foraggiare gli “informatori” che avrebbero favorito le indagini». Una parte del denaro, però, avrebbe preso «un tragitto diverso»; la conseguenza è la condanna a morte di Mazzaferro, «platealmente eliminato nella piazza» di Gioiosa Jonica, «paese di cui si sentiva signorotto rispettato ed “intoccabile”». Come Mazzaferro venne contattato per fare da intermediario è, almeno agli atti, un mistero: non esistono, almeno ufficialmente, colloqui carcerari tra il boss e «soggetti istituzionali» in quel periodo né «sono stati rilevati incontri con il legale che aveva fatto da tramite». Un dettaglio non da poco: qualcuno – personale dei Servizi? – ha certamente contattato il capoclan. 

I legami tra il gruppo di Archi e i Servizi

Dalla palude dei sequestri di persona a quella dell’ordigno rinvenuto a Palazzo San Giorgio nell’ottobre 2004 (ve ne abbiamo parlato qui). Il 4 giugno 2013, il detenuto Antonino Parisi compare davanti all’attuale procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo. Dice di aver appreso dettagli sul tritolo trovato nei bagni del Comune da un detenuto nel carcere di Padova, un uomo appartenente alla ‘ndrangheta che avrebbe «i numeri di telefono del Sismi». L’operazione del tritolo sarebbe stata portata a termine da un «gruppo di soggetti di Archi (quartiere di Reggio Calabria, ndr) collegati alla ‘ndrangheta, che ottenevano informazioni da soggetti corrotti dei servizi». E ritorna il nome del questore Speranza, che – il racconto è dell’artificiere chiamato per rendere innocua la bomba, che si scoprirà essere priva di innesco – avrebbe seguito, in quelle ore concitate, «tutte le operazioni (di rimozione, ndr) in prima persona».

La sede del Comune di Reggio Calabria 

I 700mila euro del Comune a Schirinzi, sospettato per l’ordigno in una nota “scomparsa”

Sono i giorni in cui le informative dei Servizi segreti segnalano il rischio di un attentato contro l’allora sindaco di Reggio Calabria, «ideato e organizzato dalla cosca di ‘ndrangheta Iamonte». E, invece, secondo Parisi «nell’anno 2004, mese di novembre, tre o quattro giorni prima che l’onorevole Berlusconi arrivasse a Reggio, un appartenente al Sismi decideva di simulare un attentato al sindaco di allora Giuseppe Scopelliti». Dopo l’episodio, l’allora commissario Francesco Oliveri verga una nota «il cui contenuto sembrerebbe non essere mai stato portato all’attenzione dell’autorità giudiziaria». Segnala che l’affaire del tritolo potrebbe essere riconducibile a Giuseppe Schirinzi, personaggio «vicino al sindaco» ed ex militante di “Avanguardia nazionale”, fondazione di estrema destra. Schirinzi, che sarebbe anche maestro massone della loggia “Zephyria”, ha anche organizzato per alcuni anni la “Regata di Ulisse”, per la quale la giunta di Reggio lo avrebbe sovvenzionato con 700mila euro.  

La Cosa nuova. Report Rai PUNTATA DEL 20/11/2021 di Paolo Mondani, Giorgio Mottola. di Paolo Mondani e Giorgio Mottola, Consulenza Lucio Musolino. Collaborazione di Norma Ferrara e Alessia Marzi, Immagini di Alfredo Farina, Carlos Dias, Cristiano Forti, Fabio Martinelli. Viaggio all'origine della 'ndrangheta: come ha fatto la mafia calabrese a diventare l'organizzazione criminale più potente e più ricca d'Italia e d'Europa. Con le testimonianze esclusive di ex affiliati, membri riservati e condannati, Report ricostruirà la storia della cupola segreta degli Invisibili: politici, imprenditori e professionisti che fanno parte della direzione strategica della 'ndrangheta e che hanno consentito alle cosche di mantenere rapporti con le istituzioni, la massoneria deviata e i servizi segreti. La rifondazione della 'ndrangheta contemporanea ha una data precisa: il 26 ottobre del 1969. Quel giorno sull'Aspromonte, a Montalto, si svolge un summit dei capi della mafia calabrese a cui partecipano i vertici della destra neofascista. Qualche mese dopo scoppiano i moti di Reggio Calabria e si prepara il golpe Borghese. È in queste occasioni che la storia della 'ndrangheta si incrocia con la P2 di Licio Gelli e nasce la Santa, la struttura segreta che consente alle cosche di avere rapporti diretti con le logge deviate. Da quel momento parte una scalata al potere che ha consentito alla 'ndrangheta di entrare nel cuore delle istituzioni italiane, orientando indagini, portando in Parlamento i propri uomini e facendo arricchire i propri imprenditori di riferimento.

LA COSA NUOVA di Paolo Mondani e Giorgio Mottola Consulenza Lucio Musolino. Collaborazione Norma Ferrara e Alessia Marzi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il colloquio che Report ha documentato all’autogrill di Fiano Romano fra Matteo Renzi e l’ex dirigente dell’Aise Marco Mancini potrebbe non essere l’unico incontro avvenuto fra un politico e un agente segreto durante la crisi del governo Conte. Secondo quanto rivelato dal conduttore televisivo Bruno Vespa nei giorni in cui si stava per votare la fiducia all’esecutivo uno 007 avrebbe avvicinato il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, per parlare del suo possibile sostegno a un eventuale reincarico a Giuseppe Conte. Lo stesso Cesa nel 2006 fu oggetto di un dossieraggio scoperto nell’ambito dello scandalo Telecom-Pirelli che gli venne rivelato da Marco Mancini e dall’allora capo del Sismi Nicolò Pollari.

LORENZO CESA - QUARTA REPUBBLICA - 15/11/2021 Non è stato così, cioè direttamente non ho avuto nessuna pressione. Perché racconta che qualcuno sia salito a casa mia… ma…sarebbe stato anche sprovveduto.

BRUNO VESPA – QUARTA REPUBBLICA – 15/11/2021 Confermo sillaba per sillaba, quello che ho scritto nel libro. D’Accordo?

NICOLA PORRO - QUARTA REPUBBLICA - 15/11/2021 Ripeti sillaba per sillaba.

BRUNO VESPA – QUARTA REPUBBLICA – 15/11/2021 Sillaba per sillaba. Ed è noto che io non invento niente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In quel frangente politico di fine gennaio, il voto dell’Udc di Lorenzo Cesa sarebbe stato determinante per la nascita di un Conte-Ter, dopo la crisi aperta da Renzi proprio nei giorni in cui il leader di Italia Viva incontrava Marco Mancini in autogrill.

BRUNO VESPA – QUARTA REPUBBLICA – 15/11/2021 E andrebbe rivisto con attenzione anche l’incontro di Renzi.

NICOLA PORRO - QUARTA REPUBBLICA - 15/11/2021 Eh. Eh.

BRUNO VESPA – QUARTA REPUBBLICA – 15/11/2021 Va bene? Di che cosa hanno parlato?

NICOLA PORRO - QUARTA REPUBBLICA - 15/11/2021 Eh. Eh.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il nostro Marco Mancini, insomma, impone una riflessione sul ruolo dei servizi segreti nello svolgimento del regolare corso della democrazia. E’ il tema della puntata di questa sera. Una puntata ricca di testimonianze inedite raccolte nel cuore dell’organizzazione criminale più potente in Italia, la Cosa nuova, è una organizzazione sino ad oggi sconosciuta. Nasce dopo le stragi del 1992, quando esponenti della ‘ndrangheta e di Cosa nostra si riuniscono in una cupola fino ad oggi rimasta occulta. E’ proprio grazie agli strumenti messi a disposizione dalla Cosa nuova che la ‘ndrangheta è diventata la mafia più forte, più imponente, più ricca d’Europa. Che cosa è successo? Che è emersa una cupola che è formata da uomini invisibili, riservatissimi, così almeno li definiscono, che non sono affiliati ufficialmente alla mafia ma ne fanno parte a tutti gli effetti. Si tratta di soggetti politici, di professionisti, di uomini dei servizi segreti o di uomini che sono in contatto con i servizi segreti. Da questa storia emerge anche un ruolo particolare del Sismi, il servizio segreto militare, tra gli anni 2001 e il 2006 gestione Nicolò Pollari, nominato dal governo Berlusconi, alle dirette dipendenze del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta. Ecco, Mancini era un fedele dirigente di Pollari. In quegli anni, emerge anche che a via Nazionale c’è un impiegato che dipende anche lui da Pollari che gestisce una centrale di dossieraggio e di spionaggio, questo per tutelare Berlusconi dagli attacchi di magistrati, giornalisti e sindacalisti. Pollari e Mancini sono anche i protagonisti di un altro episodio misterioso. Quello dell’ottobre del 2004. La notte del 6 ottobre viene trovata nel comune di Reggio Calabria, un ordigno. Secondo una informativa dei servizi di sicurezza a firma Marco Mancini quell’ordigno era destinato a Scopelliti, sindaco del centro destra, allora, che era un po’ in crisi di consensi. Quella bomba cambierà la sua storia e la storia della Calabria. A distanza di 20 anni però un ex assessore proprio di Scopelliti, ‘ndranghetista e massone, sta raccontando la sua verità e secondo lui i mandanti e le finalità di quell’ordigno erano completamente diversi da quelli che sono stati raccontati. Dovete avere adesso la pazienza di riavvolgere il nastro su una storia che vi abbiamo già in parte raccontato, quella di un relitto che è in fondo al mare che trasportava un carico di morte, la Laura C, che ci sta restituendo dei fantasmi dal passato. E alla fine dei quel nastro ci porterà a dei politici che stanno giocando una partita importantissima per le elezioni del nuovo presidente della Repubblica. I nostri Paolo Mondani e Giorgio Mottola.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel mar Jonio calabrese, è seppellito da più di sessant’anni un piroscafo militare affondato durante la Seconda guerra mondiale, la Laura Cosulich, meglio conosciuta come Laura C. Adagiata sui fondali a oltre 50 metri di profondità, custodisce ancora nella stiva il carico di esplosivo che trasportava all’epoca.

MAURIZIO MARZOLLA - ASSOCIAZIONE Y CASSIOPEA Ecco, vedi? Qua si intravede il tritolo. Ora non so dirti delle 1200 tonnellate quante fossero di tritolo perché poi c’erano anche proiettili di obice e di antiaerea.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Negli ultimi anni il tritolo della Laura C si è trovato al centro di storie di ‘ndrangheta e servizi segreti, in cui è difficile distinguere la leggenda dalla realtà. La seconda misteriosa vita del relitto è iniziata con le dichiarazioni di un controverso ex boss della ‘ndrangheta, in stretti rapporti con i servizi segreti negli anni ‘80 e un passato nella legione straniera.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha collaborato direttamente con i servizi segreti?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Sì. parecchie volte.

GIORGIO MOTTOLA Con quali, con il Sismi?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Con il Sismi, sì.

GIORGIO MOTTOLA Ma mentre era ancora nella ‘ndrangheta?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Io ero dappertutto. Facevo pure il mercenario, in Rodhesia.

GIORGIO MOTTOLA Ha fatto il mercenario?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Per conto del governo francese.

GIORGIO MOTTOLA Dove ha fatto operazioni con la legione straniera?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Ciad, Zaire, Iraq, Somalia, Eritrea.

GIORGIO MOTTOLA Quindi ha sparat?.

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Eh certo.

GIORGIO MOTTOLA Ha ucciso?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Che ne so? Non guardavo quando sparavo. Capisci? Eh…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Della Laura C e del suo arsenale sommerso Nucera sarebbe venuto a sapere negli anni ’80 quando era ancora un boss della cosca Iamonte.

GIORGIO MOTTOLA Che lì ci fosse una nave carica di esplosivo l’ha segnalato lei.

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA L’avevo segnalata nell’86 ai servizi. Manca più di tre quarti dell’esplosivo che c’era.

GIORGIO MOTTOLA Quindi è stato estratto già dagli anni ’80?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA No, dopo, dopo negli anni ’90 è stato estratto. Hanno fatto venire i sub e hanno cominciato a tirare fuori tutto questo esplosivo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo il racconto di Nucera, confermato da altri pentiti, ma finora mai riscontrato da prove materiali, nelle stive sommerse della Laura C si sarebbe registrato un gran movimento qualche settimana prima dell’attentato di Capaci in cui morì Giovanni Falcone.

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA L’esplosivo della strage di Capaci era mischiato pure quello della Laura C. Al cento percento.

GIORGIO MOTTOLA Perché dice al cento percento? Come fa a saperlo?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Perché i pescherecci catanesi venivano spesso in quella zona. Me lo spiega lei che venivano a fare? A portare cosa … droga? Ma penso che la Calabria gliene potevano dare quanto ne volevano.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Che il tritolo della Laura C sia stato usato nella strage di Capaci non è mai stato provato. La voce, però, è stata ritirata fuori all’inizio degli 2000 dai servizi segreti, che in quel periodo sono stati molto attivi sul relitto. Nello stesso periodo infatti il Sismi scrive un’informativa in cui sostiene che provenga dalla Laura C l’esplosivo usato per il confezionamento della bomba che ha cambiato il corso della storia politica calabrese. L’ordigno ritrovato nella notte fra il 6 e il 7 ottobre del 2004 nel bagno del comune di Reggio Calabria.

FERNANDO PIGNATARO - DEPUTATO PDCI 2006-2008 Nel bagno adiacente al cortile da dove passava il sindaco di Reggio Calabria, all’epoca Scopelliti, fu messo un ordigno che poi si scoprì senza innesco.

GIORGIO MOTTOLA Quindi non poteva scoppiare?

FERNANDO PIGNATARO - DEPUTATO PDCI 2006-2008 Non poteva scoppiare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo le prime notizie che filtrano la notte stessa a mettere la bomba sarebbe stata la ’ndrangheta con l’obiettivo di attentare alla vita del sindaco di allora Giuseppe Scopelliti che già il giorno prima si era visto assegnare la scorta dopo un’informativa del Sismi in cui si annunciava un possibile attentato nei suoi confronti.

GIORGIO MOTTOLA Come mai venne data la scorta a Scopelliti il giorno prima?

FERNANDO PIGNATARO - DEPUTATO PDCI 2006-2008 Su segnalazione di Marco Mancini, che raccontò che c’era un pericolo di attentati nei confronti del sindaco di Reggio Calabria.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Marco Mancini, agente segreto allora dirigente del Sismi agli ordini di Nicolò Pollari, firma la prima informativa che segnala pericoli per l’incolumità di Scopelliti. È ancora lui l’autore della seconda informativa che rivela la bomba in comune, indicando la posizione esatta dove verrà trovata. Ed è sempre Mancini a firmare anche la terza informativa che tira in ballo la Laura C e la ‘ndrangheta, parlando esplicitamente di attentato mafioso contro Giuseppe Scopelliti.

FERNANDO PIGNATARO - DEPUTATO PDCI 2006-2008 Sicuramente il Sismi e Marco Mancini in un certo periodo avevano un ruolo in Calabria preponderante. Si è aspettato nel 2010 che alcuni collaboratori di giustizia cominciarono a dire che probabilmente si trattava di un attentato fatto ad hoc per favorire l’ascesa politica del sindaco che si trovava in difficoltà.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Prima della scoperta della bomba, la giunta Scopelliti era in crisi e rischiava la sfiducia. Ma dopo la storia dell’attentato la sua carriera subisce un’improvvisa accelerata: la maggioranza si ricompatta e viene rieletto sindaco con il 70 percento dei consensi. Poi a metà mandato si dimette e viene portato in trionfo alla presidenza della Regione Calabria. Una carriera fulminante che secondo un pentito, ex assessore della giunta Scopelliti, sarebbe stata costruita a tavolino a partire dal fallito attentato.

SEBASTIANO VECCHIO - EX ASSESSORE COMUNALE REGGIO CALABRIA Per quanto riguarda l’esplosivo nel bagno ritrovato a palazzo san Giorgio è stata una bufala. Con l’aiuto dei servizi segreti. C’era stato l’interesse di Nicola Pollari in questa situazione coinvolgendo anche altre persone esterne ai servizi segreti, affinché questo potesse andare in atto e portarlo comunque avanti.

GIUDICE SILVIA CAPONE - TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA Questo è Scopelliti?

SEBASTIANO VECCHIO - EX ASSESSORE COMUNALE REGGIO CALABRIA Sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nicolò Pollari era allora il capo del Sismi alle cui dipendenze lavorava Marco Mancini che sull’ordigno al Comune preparò le informative che chiamavano in causa la ‘ndrangheta. Ed è proprio all’ex agente del Sismi che proviamo a chiedere spiegazioni. Lo incontriamo all’università di Pavia, a margine di una sua lezione sul segreto di Stato.

GIORGIO MOTTOLA Le attività del Sismi sembrano essere state molto anomale all’inizio degli anni 2000 in Calabria. È così? Il Sismi ha fatto la polizia giudiziaria? Non risponde a niente, dottore però.

MARCO MANCINI Perdonami Giorgio.

GIUDICE SILVIA CAPONE - TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA Perché i servizi si interessavano a Scopelliti?

SEBASTIANO VECCHIO - EX ASSESSORE COMUNALE REGGIO CALABRIA Erano interessati a blindare la persona di Peppe Scopelliti affinché prendesse tutto e per tutto, sia nel lato politico, sia nel lato personale, di immagine e di successo.

SILVIA CAPONE - TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA Perché c’era bisogno di fortificarlo da un punto di vista dell’immagine?

SEBASTIANO VECCHIO - EX ASSESSORE COMUNALE REGGIO CALABRIA Più che fortificarlo, formarlo. Uso un termine inventarlo, strutturarlo e portarlo avanti.

SILVIA CAPONE - TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA Nell’interesse di chi?

SEBASTIANO VECCHIO - EX ASSESSORE COMUNALE REGGIO CALABRIA Delle consorterie ‘ndranghetistiche. Peppe Scopelliti rappresentava la famiglia De Stefano.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Secondo l’ex assessore della giunta Scopelliti, Sebastiano Vecchio massone e ‘ndranghetista, l’attentato a Scopelliti andrebbe rivisitato. Secondo lui era una bufala, era finalizzato esclusivamente per blindare e lanciare politicamente la figura di Scopelliti, non solo nell’interesse della coalizione di partito ma soprattutto per le cosche, in particolare quella dei De Stefano. Scopelliti nega di aver avuto rapporti con i De Stefano e con altre famiglie ‘ndranghetiste e ci scrive che secondo lui, invece quell’attentato era finalizzato a condizionare la gara per la costruzione del nuovo Palazzo di Giustizia. Scopelliti ci dice anche che lui ha svolto nel corso della sua carriera un’azione di contrasto forte nei confronti della ‘ndrangheta. E di aver ricevuto anche delle minacce, lui e la sua famiglia. Tuttavia, Vecchio continua e ipotizza invece che dietro quel falso attentato ci sia un ruolo dei servizi di sicurezza. Nicolò Pollari smentisce la versione di Vecchio e la bolla come falsa. Una cosa però è certa, che vero o presunto, quell’attentato ha avuto l’effetto di compattare il centro destra intorno alla figura di Scopelliti e di lanciarlo alla guida della Calabria. E’ certo anche che lo 007 dell’autogrill, Marco Mancini, ha avuto anche un altro ruolo in un altro episodio legato sempre alla Calabria. Era in contatto con uno dei cosiddetti “invisibili”, il commercialista Zumbo. E’ una delle figure più controverse della nuova ‘ndrangheta, il commercialista Zumbo che si vanta anche di aver avuto frequentazioni famigliari con la cosca De Stefano, faceva il doppio lavoro: di giorno commercialista, nell’ombra era la cerniera tra i servizi di sicurezza e la ‘ndrangheta. E’ proprio grazie a questo ruolo che i boss per dieci anni hanno potuto penetrare nei segreti delle procure e delle indagini dei magistrati, riuscendo anche a condizionare l’esito di alcune inchieste.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Negli ultimi 20 anni i rapporti tra servizi segreti e ‘ndrangheta in Calabria sono passati attraverso figure di cerniera che hanno messo in collegamento il mondo di sotto della mafia e il mondo di sopra delle istituzioni. Uno dei soggetti principali di raccordo è il commercialista di Reggio Calabria Giovanni Zumbo.

GIORGIO MOTTOLA Sono Giorgio Mottola, di Report la trasmissione di Rai3.

GIOVANNI ZUMBO - EX COMMERCIALISTA E lo so, sono sceso per educazione.

GIORGIO MOTTOLA Mi sto occupando dell’attività che hanno avuto i servizi qui in Calabria, rispetto a cui so che lei ne sa abbastanza.

GIOVANNI ZUMBO - EX COMMERCIALISTA No, sono solo un semplicissimo commercialista.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’umile commercialista ha finito di scontare da poco 11 anni in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Grazie ai suoi rapporti con i livelli più alti dei servizi segreti italiani, sarebbe riuscito a pilotare, per conto di alcuni capicosca, l’arresto dei boss avversari e a passare soffiate sulle indagini in corso a capimafia del calibro di Giuseppe Pelle, tra i vertici della ‘ndrangheta di San Luca.

GIORGIO MOTTOLA Lei sarebbe l’uomo di collegamento tra ‘ndrangheta e servizi segreti?

GIOVANNI ZUMBO - EX COMMERCIALISTA Come dicono loro. Ma di quello che dicono e di quello che la realtà è… ce ne passa.

GIORGIO MOTTOLA Lei però è riuscito ad esempio a incontrare un boss importante come Giuseppe Pelle.

GIOVANNI ZUMBO - EX COMMERCIALISTA A Reggio Calabria ci conosciamo tutti, è un piccolo paese.

GIORGIO MOTTOLA Lo ha incontrato casualmente?

GIOVANNI ZUMBO - EX COMMERCIALISTA No, casualmente no. Offenderei la vostra intelligenza e soprattutto la mia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La vicenda del boss Pelle è tra le più emblematiche, potrebbe essere infatti la prova di un accordo stipulato negli anni 2000 tra la ‘ndrangheta e una parte dello Stato. Nell’estate del 2010 stanno per scattare gli arresti dell’inchiesta “Crimine-Infinito”, la più importante indagine della storia della ‘ndrangheta, che per la prima volta ricostruisce organigrammi e struttura della mafia calabrese. Pochi giorni prima che venga resa pubblica, Giovanni Zumbo sale in Aspromonte e va a fare visita al boss Giuseppe Pelle con in dono informazioni riservatissime. Come documenta questo audio, che trasmettiamo per la prima volta, al capomafia Zumbo si presenta così.

GIOVANNI ZUMBO – INTERCETTAZIONE DEL 20/03/2010 Ho fatto parte di... e faccio parte tutt'ora di un sistema che è molto, molto più... vasto di quello che... Ma le dico una cosa: molte volte mi trovo a sentire determinate porcherie che a me mi viene il freddo!

GIUSEPPE PELLE – INTERCETTAZIONE DEL 20/03/2010 Li deve sopportare, no?

GIOVANNI ZUMBO – INTERCETTAZIONE DEL 20/03/2010 Ci sono i servizi militari, che sono solo militari cioè non possono entrare persone che non sono militari. Io faccio parte comunque di questa, come esterno.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Che Zumbo fosse in contatto con il Sismi è stato confermato a processo dall’allora capocentro di Reggio Calabria del servizio segreto militare che ha spiegato di aver avuto l’autorizzazione dal suo superiore: Marco Mancini.

GIORGIO MOTTOLA Tu, all’epoca in cui vai da Pelle, collaboravi con i servizi segreti.

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Forse i servizi segreti collaboravano con me.

GIORGIO MOTTOLA I tuoi referenti chi erano?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Ahhahah.

GIORGIO MOTTOLA Perché ridi? Ma è vero o no che hai incontrato Mancini?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Lo conosco e allora? Sì, come conosco tre quarti dei giudici, come conosco tre quarti dei carabinieri, della guardia di finanza, della polizia.

GIORGIO MOTTOLA Lo conosci perché lo hai incontrato personalmente?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA L’ho incontrato.

GIORGIO MOTTOLA L’hai incontrato, ok.

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA E allora?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Durante la visita al boss in Aspromonte, Giovanni Zumbo rivela dettagli segretissimi sulle indagini in corso e gli garantisce di essere in grado di avvisarlo una settimana prima degli arresti.

GIOVANNI ZUMBO – INTERCETTAZIONE DEL 20/03/2010 Dirvi che si può salvare, sarei ipocrita, la situazione per come è messa, non è messa bene bene bene.

GIUSEPPE PELLE – INTERCETTAZIONE DEL 20/03/2010 Ma io ho di sopra due operazioni scusate?

GIOVANNI ZUMBO – INTERCETTAZIONE DEL 20/03/2010 Sì.

GIUSEPPE PELLE – INTERCETTAZIONE DEL 20/03/2010 E quando la fanno questa operazione a Milano?

GIOVANNI ZUMBO – INTERCETTAZIONE DEL 20/03/2010 Questa ancora…ancora di preciso non lo sappiamo, ma lo sapremo. Una settimana prima io vi dico tutto quello che ...

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Ti dico una cosa, questa te la posso dire. Nessuno la sapeva, non la sapeva neanche la procura di Reggio Calabria, neanche il procuratore la sapeva.

GIORGIO MOTTOLA E come facevi a saperla tu, però?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Che ti posso fare? Che ti posso fare…

GIORGIO MOTTOLA Ma tu non solo la sapevi, gli dici il numero degli arresti, gli dici che lo puoi avvertire cinque ore prima… Non è da tutti!

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA E non te lo posso dire…

GIORGIO MOTTOLA Non sei un umile commercialista.

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA No, sono pure mago.

GIORGIO MOTTOLA Perché tu ti fai tutti quegli anni di carcere e non spieghi chi te l’ha detta quella cosa?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Per la mia dignità che non ha un prezzo.

GIORGIO MOTTOLA Però che c’entra la dignità con l’aiutare un boss a sfuggire la cattura?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Ho fatto un… definiamolo un errore. Ma se io faccio una cosa e poi mi siedo e racconto tutto quello che faccio, io sono un pezzo di merda, non so un uomo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma come dimostra questo video mai trasmesso prima, quando viene arrestato durante il colloquio in carcere con la moglie, Zumbo spiega che le informazioni date al boss provenivano da una persona scesa da Roma che gli aveva dato precise garanzie.

GIOVANNI ZUMBO – CARCERE DI REGGIO CALABRIA – 29/10/2011 Mi hanno fregato. Francesca lo capisci bene questo? Me lo ha chiesto lui di andare, io gli avevo detto di no, non era il caso. Tu devi capire bene una cosa Francesca. Che ci sono determinate cose che non si devono dire. Non per il bene mio, per il bene tuo.

GIORGIO MOTTOLA Ma qualcuno ti aveva garantito quella soffiata che tu facevi a Pelle non sarebbe stata intercettata?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Non me lo ricordo neanche, credimi.

GIORGIO MOTTOLA Ma che non ti ricordi? Hai fatto 11 anni di carcere, come fai a non ricordartelo?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Il carcere è una parte della vita. È stata una passeggiata lunga, ma una passeggiata tutto sommato.

GIORGIO MOTTOLA Probabilmente tu hai agito per conto di altri?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Stai parlando dello Stato?

GIORGIO MOTTOLA Sì… di membri dello Stato.

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA E se pure fosse così che hai intenzione di fare, se io ti dico chi sono? GIORGIO MOTTOLA Raccontarlo. Denunciarlo, raccontarlo.

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Li denunci? Denunci le persone che…

GIORGIO MOTTOLA Assolutamente sì, puoi metterci la mano sul fuoco.

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA E’ aggressivo. Sei pure disposto a fare una cosa del genere?

GIORGIO MOTTOLA Ma assolutamente sì.

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA E poi magari andartene in Madagascar perché poi in Italia non ci puoi stare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nella conversazione in carcere con la moglie Zumbo fa riferimento ad un certo Mancini.

GIOVANNI ZUMBO – CARCERE DI REGGIO CALABRIA – 29/10/2011 Questo che era venuto dopo? Mancini, quando mi è successo il fatto per Mancini si è interrotto. Perché poi cos’è successo? Mi ha detto che siccome là hanno perso i contatti l’unica persona che noi ci fidiamo visti trascorsi sei tu.

GIORGIO MOTTOLA Chi è ‘sto Mancini di cui parli? Marco Mancini?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Sicuramente non è lui.

GIORGIO MOTTOLA Non è lui?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Mancini ce ne sono tanti.

GIORGIO MOTTOLA Mancini ti ha mai raccontato di questa inchiesta “Crimine-Infinito” che all’epoca si chiamava “Patriarca-Tenacia”?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Ma nella maniera più assoluta!

GIORGIO MOTTOLA Posso farle qualche domanda invece sulle sue attività in Calabria? Lei ha mai incontrato Giovanni Zumbo? Zumbo è andato dal boss Pelle e ha fatto delle rivelazioni su delle indagini in corso nel 2010. Neanche su questo mi risponde.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’inizio degli anni 2000, il rapporto tra il Sismi di Nicolò Pollari e la Calabria è tanto intenso quanto anomalo. I servizi militari partecipano infatti direttamente alle indagini sulla ‘ndrangheta.

GIORGIO MOTTOLA É normale che i servizi partecipino direttamente alle indagini?

ARMANDO SPATARO – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA TORINO 2014 - 2018 No, assolutamente. Non è che non è normale: non è possibile.

GIORGIO MOTTOLA È vietato?

ARMANDO SPATARO – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA TORINO 2014 - 2018 E’ vietato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il comportamento anomalo dei servizi è emerso solo molti anni dopo, con la testimonianza in aula, mai approfondita e finita subito nell’oblio, di un allora sostituto procuratore dell’Antimafia nazionale.

DEPOSIZIONE – TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA 8/10/2003  ALBERTO CISTERNA – SOSTITUTO PROCURATORE DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA 2002 - 2005 Capitò che in procura nazionale Antimafia incontrai per caso nei corridoi del secondo piano, davanti alla porta del procuratore Vigna all’incirca, una persona che poi ho saputo essere Marco Mancini, il direttore della prima divisione del Sismi. In quel periodo l’attività del Sismi sul settore della criminalità organizzata, fu particolarmente intenso. Nell’operazione “Bumma” i servizi segreti hanno lavorato accanto alla procura distrettuale di Reggio Calabria. É una operazione strategica nella connessione, nei link di connessione tra Direzione Distrettuale Antimafia e Direzione Nazionale Antimafia e Sismi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’operazione “Bumma” a cui ha collaborato il Sismi ha sempre al centro la Laura C. Secondo le informative dei Servizi, il tritolo del piroscafo sarebbe stato venduto dalla ‘ndrangheta ai terroristi islamici. Circostanza mai riscontrata. Proprio come la storia del fallito attentato a Scopelliti, che si verifica poche settimane dopo l’operazione “Bumma”.

DEPOSIZIONE – TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA 8/10/2003 ALBERTO CISTERNA – SOSTITUTO PROCURATORE DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA 2002 - 2005 Secondo episodio ritrovamento dell’esplosivo all’interno del palazzo comunale di Reggio Calabria. Anche quella operazione in qualche modo in connessione tra la procura distrettuale di Reggio Calabria e il Sismi vedeva la presenza in campo, schierati a Reggio negli uffici di procura, dell dottor Mancini e degli uomini di punta della sua divisione.

ARMANDO SPATARO – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA TORINO 2014 - 2018 Provi a immaginare se su un fatto di terrorismo indaghi la polizia con il pubblico ministero e le agenzie di informazione a guida politica.

GIORGIO MOTTOLA Quindi il rischio è che con l’intervento dei servizi ci sia quasi un controllo della politica sulle indagini?

ARMANDO SPATARO – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA TORINO 2014 - 2018 Assolutamente sì, perché non è un caso che le agenzie di informazione dipendano per legge dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri

GIORGIO MOTTOLA Se i servizi segreti partecipano direttamente alle indagini si rischia anche un cortocircuito democratico?

ARMANDO SPATARO – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA TORINO 2014 - 2018 Assolutamente, si rischia un cortocircuito. Si determina certamente un’alterazione dei principi di divisione e competenze che fa parte dell’assetto democratico di un Paese.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E considerato il cortocircuito che parrebbe esserci stato in Calabria in quegli anni. La visita di Zumbo a casa del boss Pelle potrebbe essere stata una conseguenza delle attività anomale dei servizi?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA A quindi tu ora mi fai la domanda: che interesse possono avere i servizi con sette cristiani che erano latitanti nel paese, con una guerra a Duisburg?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il riferimento di Zumbo è alla strage di Duisburg del 2007. Davanti a un ristorante italiano della città tedesca vengono uccise sei persone. Tutti calabresi. Alcuni di loro erano in rapporti di parentela o di affiliazione alla cosca Pelle.

INTERCETTAZIONE DEL 15/08/2007 - Chi è? - É morto mio fratello, è morto mio nipote. È morto tuo fratello. Sono morti tutti. - Anche mio fratello? - Sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per l’Italia è un danno di immagine internazionale. Arrestare i responsabili diventa la priorità dello Stato italiano. E, nel giro di due settimane finiscono in manette i principali responsabili della strage. Ma sebbene la sparatoria di Duisburg fosse la conseguenza di una faida iniziata dai Pelle, gli arresti scattano in quei giorni solo per gli esponenti della cosca avversaria, quella degli Strangio che aveva realizzato l’attentato in Germania. Secondo quanto è emerso nel processo “Gotha”, la celerità degli arresti potrebbe essere dipesa anche da una trattativa che pezzi dello Stato avrebbero messo in piedi con rappresentanti del clan Pelle; vale a dire lo stesso clan capeggiato dal boss a cui Zumbo svela l’inchiesta.

GIORGIO MOTTOLA É sbagliato pensare che dopo la strage di Duisburg, ad un certo punto, ambienti mafiosi hanno cominciato a parlare con apparati dello Stato e quindi nel 2010 si volevano difendere quei mafiosi che avevano dato una mano?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Può essere, può essere tante cose. La verità non la saprai mai, né tu che la devi ricevere, né io che probabilmente ne sapevo molto ma molto più di te.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Che Zumbo ne sappia più di noi, lo diamo per scontato. Ma chi è che ha incaricato Zumbo di andare dal boss Pelle e avvisarlo degli imminenti arresti? E poi cosa sa di così riservato che se fosse rivelato al nostro Giorgio Mottola sarebbe costretto il nostro inviato a lasciare l’Italia? Quello che sappiamo noi di Zumbo, lo abbiamo ascoltato dalle intercettazioni, mentre non sapeva di essere registrato. Lui va dal boss Pelle e gli dice di far parte integrante di una struttura segreta militare, parte dall’esterno insomma, e di venire a conoscenza di cose riservatissime. Ora parla anche Zumbo in carcere, là immaginiamo invece che sapesse di essere registrato e dice alla moglie che c’erano stati dei mandanti che erano scesi addirittura a Roma per incaricarlo di andare a contattare e dare garanzie al boss Pelle. Poi lì si lascia anche sfuggire un nome: Mancini. Dice al nostro Giorgio Mottola, non è Marco Mancini, quello dell’autogrill. Poi dopo alcune insistenze ammette comunque di aver avuto contatti con quel Marco Mancini. Poi Zumbo, comunque a testimonianza della sua capacità di infiltrare le istituzioni, si è fatto anche aggiudicare dal tribunale, l’amministrazione giudiziaria dei beni confiscati alla mafia. Si è comunque fatto i suoi 11 anni, nelle more questa estate, si è beccato altri tre anni di condanna in primo grado, questo nei processi che stanno ridisegnando la storia della ‘ndrangheta che sta portando avanti con tenacia il procuratore Aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo. E’ lui che ha scoperto la Cosa nuova, questa cupola fatta da personaggi invisibili: dove dentro ci sono mafiosi, soggetti politici, uomini della massoneria deviata e dei servizi segreti che però ha radici lontane. A contribuire all’ideazione di questa Cosa nuova, di questa cupola di invisibili, è stato anche il boss Paolo De Stefano, lui che ha rimodernizzato la ‘ndrangheta. Massone, fascista, ha tessuto rapporti con la camorra di Raffaele Cutolo e con Cosa Nostra. E’ a lui che dobbiamo lo sdoganamento della ‘ndrangheta in quella che è la strategia della tensione: dal golpe Borghese, al rapimento di Aldo Moro. Sono stati trovati contatti fra esponenti della cosca De Stefano con brigadisti e il giorno del sequestro Moro è stato avvistato sul posto il boss Antonino Nirta di San Luca. E’ lui che ha contributo alla realizzazione della cupola degli invisibili, abbiamo visto uno è Zumbo il commercialista, ma il capo secondo la procura di Reggio Calabria, sarebbe un avvocato, Paolo Romeo, che è stato condannato in primo grado a 25 anni per associazione mafiosa. Paolo Romeo è considerato la cerniera tra la massoneria, la politica, e i servizi segreti. E’ stato lui il regista occulto delle candidature degli ultimi 40 anni in Calabria, compresa quella di Scopelliti. E’ stato ex Movimento Sociale Italiano, ex partito Socialdemocratico italiano, ma anche lui è sospettato di aver portato acqua al molino dei De Stefano.

PROCESSO ‘NDRANGHETA STRAGISTA – 06/06/2019 NINO FIUME – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA C'è una ‘ndrangheta che può essere paragonata a un treno con tanti vagoni, e ogni vagone ha il suo capo locale. E poi c'è il capotreno, anche se è temporaneo. Diciamo un treno locale, poi c'è un treno ad alta velocità, dove non possono salire tutti, ci vanno solo i capi, e che al di sopra di questo treno c'è gente che viaggia in aereo, e non si fa vedere. Che all’insaputa anche dei passeggeri che stanno sul treno dirige gli scambi, li rotta per quello che deve fare. Quelli sono i riservatissimi, se li vogliamo chiamare così.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nella metafora del pentito, l’aereo è la cupola segreta degli invisibili. I membri riservati della ndrangheta che operano a cavallo tra il mondo delle cosche, la politica, i servizi segreti e la massoneria deviata. Nel processo “Gotha” è emerso che questa cupola ha il suo epicentro in uno degli insediamenti più antichi della città di Reggio Calabria, il quartiere Gallico. Feudo elettorale e criminale di un politico della prima Repubblica, l’avvocato Paolo Romeo.

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Paolo Romeo era inserito nel quarto livello politico.

GIORGIO MOTTOLA Della ‘ndrangheta.

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Sì. Gestiva un po’ i politici

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’avvocato Paolo Romeo è stato per vent’anni uno dei massimi dirigenti del Movimento Sociale Italiano a Reggio Calabria e poi è diventato deputato nel 1992 con il partito Socialdemocratico. Sulle sue spalle pende già una condanna definitiva per concorso esterno per essere stato al servizio della cosca di Paolo De Stefano.

GIORGIO MOTTOLA Quali erano i rapporti fra Paolo Romeo e la cosca De Stefano?

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Era un unicum con la cosca De Stefano, nel senso che curava sicuramente i rapporti tra Paolo De Stefano e gente di Roma.

GIORGIO MOTTOLA Quando dice gente di Roma, intende politici?

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Intendo politici soprattutto, ma non solo politici.

GIORGIO MOTTOLA Esponenti dei servizi segreti?

CARMELO SERPA Soprattutto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quest’estate Paolo Romeo ha ricevuto una nuova condanna a 25 anni al termine di un processo in cui era accusato di essere uno dei capi della cupola dei riservati della ‘ndrangheta, ruolo con il quale avrebbe favorito i rapporti delle cosche con il mondo delle istituzioni, degli apparati di sicurezza e delle logge deviate.

PAOLO ROMEO – AVVOCATO Sono lusingato per la considerazione che loro hanno di me, ma non è così io sono un povero spiantato. Ecco perché non combattono la mafia e la mafia è forte. Perché se la pigliano con me che non sono nessuno.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma nonostante la sua professione di modestia, la procura di Reggio considera Romeo uno dei più potenti uomini della Calabria. Per anni, avrebbe deciso le sorti della politica, costruendo carriere importanti come quella di Giuseppe Scopelliti, da lui lanciato prima alla guida del Comune e poi alla presidenza della Regione Calabria. Come ha raccontato il pentito Sebastiano Vecchio.

SEBASTIANO VECCHIO - EX ASSESSORE COMUNALE REGGIO CALABRIA Per me che facevo politica da circoscrizione e poi sono passato assessore, era come se mio fratello voleva incontrare Ronaldo. Io volevo incontrare Paolo Romeo. Era il Dio della ‘ndrangheta e della politica.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma sebbene Romeo provenga dall’Msi e abbia coltivato strette relazioni con Alleanza Nazionale, i suoi rapporti sono stati trasversali, determinando carriere politiche sia nel centro destra, che nel centrosinistra. PAOLO ROMEO – AVVOCATO Io quando sono in contatto con il sistema relazionale di centrodestra, ho dei comportamenti. Quando vado a relazionarmi con un sistema di relazioni di sinistra, è chiaro che io tendo ad acquistare la stessa temperatura. E non sono stato un camaleonte. Sono stato uno che ha sofferto intellettualmente processi di evoluzione avendo consapevolezza che la realtà è complessa e non è solo bianco o nero.

GIORGIO MOTTOLA È un adattamento darwiniano, in qualche modo?

PAOLO ROMEO – AVVOCATO Ma è un adattamento darwiniano da leader, non sono stato trascinato dalle onde, ho navigato. Perché questa mia natura, di navigatore, di governatore degli eventi, spesso la spiegano come se venisse, derivasse, da poteri occulti che io avrei o da protezioni che io avrei ora dalla ‘ndrangheta ora la massoneria. Capisce qual è il dramma della mia vita? Sta in questo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Negli anni 2000, sotto la guida di Romeo, il rapporto tra ‘ndrangheta e politica entra in una nuova fase. A differenza di quanto accaduto negli anni ’90, le cosche non presentano più propri candidati e non sostengono un preciso partito. Non ne hanno più bisogno perché sono in grado di pescare in tutto il bacino degli eletti di destra come di sinistra.

PAOLO ROMEO - AVVOCATO La ‘ndrangheta non ha motivo più di candidare i suoi uomini. Che motivo ha? Non è la ‘ndrangheta che va a trovare i politici: sono i politici che vanno a trovare la ‘ndrangheta per chiedere sostegno elettorale e sono come i topi che cadono nella colla quando gli metti la trappola.

GIORGIO MOTTOLA La ‘ndrangheta non devi più spendere nemmeno i soldi per le campagne elettorali.

PAOLO ROMEO - AVVOCATO Si ‘nnaca, come diceva Sciascia, no? Il massimo del movimento restando fermi. Un ‘nnacamento: il massimo del movimento restando fermi. E questo fa la ‘ndrangheta.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Paolo Romeo avrebbe fatto da collegamento tra la ‘ndrangheta e la politica fin dagli anni ’80. Quando era ancora un dirigente dell’Msi sostenne la latitanza di Franco Freda, il terrorista neofascista, considerato all’epoca responsabile della strage di Piazza Fontana a Milano in cui persero la vita 17 persone. Per nascondere il terrorista, Paolo Romeo chiese aiuto alla cosca De Stefano.

GIORGIO MOTTOLA La ‘ndrangheta si muove per aiutare Freda a scappare, tra l’altro col suo intervento, con la sua mediazione.

PAOLO ROMEO - AVVOCATO Ed è sbagliato pure questo: non è che è la ‘ndrangheta che ha aiutato Freda a fuggire da Catanzaro e a espatriare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per far fuggire Freda, Paolo Romeo si rivolge a un parente stretto di Paolo De Stefano, Paolo Martino che è anche un suo cliente. Il familiare del boss, porta il neofascista a casa di un affiliato della cosca, Filippo Barreca. Ma essendo troppo pericoloso nascondere il terrorista, dopo alcune settimane trascorse nel covo della ‘ndrangheta, Freda viene accompagnato al confine con la Francia e scappa in Costarica.

PAOLO ROMEO - AVVOCATO L’operazione che io faccio è fallimentare. Cioè io tento di rivolgermi al mio cliente Martino che mi assicura di poter essere in grado – millantando – di farlo espatriare e invece tutto questo Martino non fa. Martino agevola, senza che io sapessi nulla, la consegna di Freda a Barreca per il tempo necessario affinché lui organizzasse il trasferimento in Costarica.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’aiuto che Romeo e gli uomini della cosca De Stefano danno al neofascista Franco Freda rientrerebbe in una precisa strategia criminale che ha origini lontane. Per rintracciarle bisogna inerpicarsi sulle strade sterrate dell’Aspromonte e arrivare fin sulla vetta più elevata, Montalto. All’ombra del Cristo Redentore, in una masseria nascosta tra gli alberi, il 26 ottobre del 1969 si è tenuta una riunione che ha cambiato il corso della storia della mafia calabrese. Cosa avvenne lo racconta, per la prima volta davanti a una telecamera, uno dei pentiti.

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA C’era tantissima gente proveniente da tutte le province della Calabria.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Al summit di Montalto si fronteggiano la vecchia ‘ndrangheta rurale dei capi storici e la nuova generazione mafiosa guidata da Paolo De Stefano che intende dare una svolta all’organizzazione.

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Paolo De Stefano in prima persona disse a tutti quanti, guardate che verranno accompagnate qui delle persone che non appartengono a noi, sono personaggi politici. Questi ci possono portare soldi, ci possono portare armi, ci possono portare pratica o comunque insegnamenti per fare le cose migliori di come le abbiamo fatte fino a oggi. Nel frattempo, da un lato della boscaglia arriva questo gruppo di uomini.

GIORGIO MOTTOLA E chi erano?

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Stefano delle Chiaie, Pierluigi Concutelli e Valerio Borghese.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Stefano Delle Chiaie fondatore del movimento neofascista Avanguardia Nazionale, Pierluigi Concutelli, tra i capi di Ordine Nuovo, condannato all’ergastolo per l’omicidio del giudice Occorsio, e Junio Valerio Borghese, ex gerarca fascista, per un periodo presidente onorario del Movimento Sociale Italiano e poi fondatore del Fronte Nazionale.

GIORGIO MOTTOLA Come viene accolta la presenza di questi invitati?

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA C’è stato qualcuno che ha contesto. Ha detto: “Ma che ne facimu e sta gente noiatri”, questa gente a che ci serve? Paolo De Stefano ha risposto: come a che ti serve? Questa gente ci può mettere in condizione di avere tutto.

GIORGIO MOTTOLA Come mai Paolo De Stefano aveva rapporti con questi soggetti?

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Ma Paolo è sempre stato, come si dice… un fascista.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Pochi mesi dopo il summit scoppiano i moti di Reggio Calabria, la rivolta che mette per settimane a ferro e fuoco la città dopo l’assegnazione del capoluogo di regione a Catanzaro. La protesta viene sin dall’inizio egemonizzata dalle organizzazioni neofasciste, a partire da Avanguardia Nazionale.

VINCENZO VINCIGUERRA – EX DIRIGENTE AVANGUARDIA NAZIONALE Nei moti di Reggio Calabria il ruolo della ‘ndrangheta è stato determinante perché era la ‘ndrangheta a poter mobilitate le piazze di Reggio Calabria, non Avanguardia Nazionale.

PAOLO MONDANI Ma era concordata?

VINCENZO VINCIGUERRA – EX DIRIGENTE AVANGUARDIA NAZIONALE C’era un accordo, un accordo operativo tra Avanguardia e ‘ndrangheta che risale all’autunno del 1969, quindi ancora prima di piazza Fontana.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Vincenzo Vinciguerra sta scostando in carcere l’ergastolo per la strage di Peteano, l’attentato fascista che nel pieno della strategia della tensione uccise tre carabinieri. All’epoca del summit di Montalto, Vinciguerra era il braccio destro di Stefano delle Chiaie.

VINCENZO VINCIGUERRA – EX DIRIGENTE AVANGUARDIA NAZIONALE So che ha partecipato a delle riunioni in Aspromonte.

PAOLO MONDANI Riunioni nelle quali si era deciso che cosa?

VINCENZO VINCIGUERRA – EX DIRIGENTE AVANGUARDIA NAZIONALE Si era parlato dell’intervento della ‘ndrangheta nel golpe Borghese.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il golpe borghese del 1970 è una delle pagine più buie e misteriose della storia italiana. L’ex gerarca fascista Junio Valerio Borghese si mette alla testa di un colpo di Stato a cui inizialmente aderiscono alcune tra le massime cariche dell’esercito, del corpo forestale e dei servizi segreti.

VINCENZO VINCIGUERRA – EX DIRIGENTE AVANGUARDIA NAZIONALE I moti di Reggio Calabria degenerati con le tecniche di guerriglia urbana precedevano quella che era la data effettiva del golpe Borghese.

GIORGIO MOTTOLA Sia ‘ndrangheta che Cosa nostra hanno partecipato al golpe Borghese?

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sì, sì, sì. Perché la ‘ndrangheta ha dato disponibilità per tutto ciò che sarebbe passato da Reggio Calabria verso la Sicilia. Perché il golpe Borghese si parlava che avrebbe dovuto avvenire a partire da Palermo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il summit di Montalto del ‘69 segna l’ingresso della ‘ndrangheta in un disegno eversivo che punta a ribaltare la democrazia in Italia. In quell’occasione però non viene saldata una alleanza strategica solo con l’estrema destra. Nel golpe borghese c’è infatti un terzo alleato criminale, che è anche il regista dell’intera operazione: la loggia Propaganda 2 di Licio Gelli.

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Per avere il controllo, mi segua bene, delle logge, del territorio e delle votazioni, praticamente Gelli che cosa ha fatto? Essendo le famose ‘ndranghete calabresi che sono al livello di clan e di famiglie, inserivano uno di ogni clan, dentro. Uno per ogni locale, per ogni cosca.

GIORGIO MOTTOLA Licio Gelli ha contribuito a rifondare la ‘ndrangheta negli anni ’70?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Gelli ha rifondato il potere. Che ancora dura.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nello stesso anno in cui viene costituita la P2 di Licio Gelli, la ‘ndrangheta si dota di una nuova struttura interna: la Santa.

NICOLA GRATTERI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI CATANZARO Con la Santa si è data la possibilità in origine solo a 33 ‘ndranghetisti, di avere la doppia affiliazione, cioè di entrare a far parte di una loggia massonica deviata. Quindi di interagire col mondo delle professioni, con un ceto sociale alto, con classe dirigente. E quindi entrare nella stanza dei bottoni. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Grazie alla nascita della Santa, il livello più alto della ‘ndrangheta si fonde con la massoneria deviata, dando vita a nuovo sistema criminale. La mafia calabrese compie così un vero e proprio passaggio di stato: da organizzazione statica, irrigidita da una miriade di clan e famiglie, attraverso la contaminazione con la massoneria rompe i vincoli delle vecchie regole e si evolve verso una struttura incorporea. Diventa invisibile e capace di permeare qualsiasi ambito dell'economia e della politica.

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Devi essere santista per entrare nella massoneria.

GIORGIO MOTTOLA Lei è stato santista?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Sì.

GIORGIO MOTTOLA Ma che cos’è la Santa?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA NUCERA La Santa è un grado superiore che decide. Praticamente è il cervello.

GIORGIO MOTTOLA E quindi cosa può fare in più?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Tutto. Un santista può dire alla polizia che lei è stato quello che ha sparato senza portare peso.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Un santista, è autorizzato a dialogare con la polizia o con i servizi segreti e le sue decisioni sono incontestabili da parte dell’organizzazione. Insomma, una volta erano 33 i santisti, adesso sono centinaia. Ma questa è una struttura. Poi negli anni si è dotata di un’altra struttura, di invisibili, i cosiddetti riservati. Cioè di personaggi che non sono direttamente affiliati alla ‘ndrangheta ma ne fanno parte a tutti gli effetti. Ai vertici di questi invisibili, ci sarebbe Paolo Romeo, questo almeno secondo la procura di Reggio. Paolo Romeo, che avrebbe aiutato nella latitanza, nella prima parte, il terrorista neofascista Freda avvalendosi anche della collaborazione di alcuni esponenti della cosca De Stefano. Poi Romeo è anche il regista della candidatura di Scopelliti che grazie all’attentato, vero o finto che sia, scoperto dallo 007 Marco Mancini, quello dell’autogrill, è riuscito anche a diventare governatore della Calabria, accumulando consensi. Romeo per chi vuole fare politica in Calabria è il “Dio della politica e della ‘ndrangheta” almeno così lo definisce l’ex assessore di Scopelliti, anche lui ‘ndranghetista e massone, Sebastiano Vecchio. E sarebbe appunto ai vertici di questa cupola degli invisibili. Che ha radici lontane, era stata ideata grazie proprio ad un boss come Paolo De Stefano, fascista e massone anche lui, aveva sdoganato la ‘ndrangheta a livello nazionale facendola partecipare alla strategia della tensione, dal golpe borghese in poi. Ma tutto questo avviene sotto la regia del venerabile Licio Gelli, l’uomo della P2. Che cosa fa Licio Gelli? Infiltra la P2 dei capi della ‘ndrangheta, ciascuno per ogni cosca. Questo gli consente di controllare da una parte le logge, di controllare il territorio, e di controllare anche le elezioni perché nessuno come la ‘ndrangheta è padrone del territorio in materia di voti. Ora questo connubio ha sicuramente aiutato la ‘ndrangheta a diventare la mafia più potente in Europa. Proprio perché era stata infiltrata dalla P2 un potere che è riuscito a resistere anche alla scoperta delle liste di Castiglion Fibocchi. Ecco secondo un pentito, quel potere della P2 è confluito in altre logge. Una di questa sarebbe La Fenice, fondata da un misterioso Conte, il conte Ugolini, avrebbe ereditato proprio parte del potere di Licio Gelli, imprenditori, politici, uomini dei servizi segreti. Una ragnatela che ha tessuto relazioni anche con alcuni politici che oggi stanno giocando una partita, importante, fondamentale, per la nomina del nuovo presidente della Repubblica.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Una delle più potenti logge deviate legate alla ‘ndrangheta ha il nome di un animale mitologico: la Fenice. La sua esistenza è stata rivelata da un imprenditore del porto di Gioia Tauro organico alla cosca Molè.

PROCESSO GOTHA 14/04/2019 COSIMO VIRGIGLIO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Era una vera e propria loggia, la Fenice, dove era stata istituita a Rizziconi - tempi passati - alla fine degli anni’80. E scelsero il nome la Fenice proprio perché a livello mitologico è rappresentata come l’uccello che rinasce sempre dalle ceneri. E quindi un potere che non basterà nessuna attività giudiziaria a poterla… a farla morire: risorgerà sempre.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La storia della Loggia Fenice è strettamente collegata allo Stato di San Marino. Da qui proviene infatti il suo fondatore: il conte Giacomo Maria Ugolini che mette in piedi alla fine degli anni ’80 un sistema di cui la loggia è solo un satellite. Ugolini è un misterioso personaggio che all’inizio degli anni ’90 viene nominato ambasciatore in Egitto e Giordania della piccola Repubblica del Titano.

ALVARO SELVA - EX MINISTRO DEGLI INTERNI REPUBBLICA SAN MARINO Lo propose lui, lo propose. Chiese di essere riconosciuto, di essere nominato ambasciatore. Cosa che il governo fece abbastanza volentieri.

GIORGIO MOTTOLA Solo che per voi qui a San Marino era uno che veniva dal nulla, praticamente.

ALVARO SELVA - EX MINISTRO DEGLI INTERNI REPUBBLICA SAN MARINO Eh sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A San Marino fino a quel momento nessuno aveva mai sentito parlare del conte Ugolini. Ma grazie alle sue relazioni con il governo italiano, in poche settimane è riuscito a guadagnarsi il credito dei ministri della Repubblica del Titano.

ALVARO SELVA - EX MINISTRO DEGLI INTERNI REPUBBLICA SAN MARINO Vantò delle amicizie, delle relazioni con il ministero delle Finanze, con il ministero della Difesa; con il ministero delle Finanze c’erano rapporti con Pollari.

GIORGIO MOTTOLA Nicolò Pollari?

ALVARO SELVA - EX MINISTRO DEGLI INTERNI REPUBBLICA SAN MARINO Sì.

GIORGIO MOTTOLA Lo stesso Nicolò Pollari che poi è diventato capo dei Servizi segreti?

ALVARO SELVA - EX MINISTRO DEGLI INTERNI REPUBBLICA SAN MARINO Dei Servizi segreti, Sì. Effettivamente ci consentì di risolvere alcuni problemi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nicolò Pollari diventa capo del Sismi nel 2001 quando al governo c’era Berlusconi e la delega ai servizi è stata affidata a Gianni Letta. Secondo Virgiglio l’allora capo del Servizio segreto militare era uno dei membri più importanti della loggia fondata dal conte Ugolini.

PROCESSO GOTHA 14/04/2019 COSIMO VIRGIGLIO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Ugolini aveva in mano il vecchio sistema dell’intelligence, tramite Pollari lui aveva in mano questo sistema qui.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Che ci fosse un rapporto stretto tra Ugolini e Pollari, ci viene confermato anche dal segretario storico dell’ex ambasciatore, anche lui massone dichiarato.

ANGELO BOCCARDELLI – ASSISTENTE PERSONALE DI GIACOMO MARIA UGOLINI Con Nicolò Pollari avevamo ottimi rapporti, ma un rapporto nato stranamente. Non so se lei abbia mai sentito parlare di Milingo.

GIORGIO MOTTOLA Come no.

ANGELO BOCCARDELLI – ASSISTENTE PERSONALE DI GIACOMO MARIA UGOLINI Mi ricordo che Nicolò Pollari aveva bisogno di incontrare questo… si parlava tanto di Milingo, di queste guarigioni, di queste cose.

GIORGIO MOTTOLA Pollari voleva un contatto di Milingo per una guarigione?

ANGELO BOCCARDELLI – ASSISTENTE PERSONALE DI GIACOMO MARIA UGOLINI Per una signora. E da lì ci incontrammo e cominciammo a frequentarci. Diventammo – devo dire - dei buoni amici.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Oltre a Pollari, della loggia Ugolini avrebbero fatto parte anche cardinali, imprenditori e industriali. Potere istituzionale che Ugolini mescolava al potere criminale della ‘ndrangheta che avrebbe avuto un ruolo di primo piano nella loggia coperta fondata dall’ex ambasciatore a San Marino.

ALVARO SELVA - EX MINISTRO DEGLI INTERNI REPUBBLICA SAN MARINO Si qualificava come massoneria, ma probabilmente era un titolo…

GIORGIO MOTTOLA Era una massoneria deviata?

ALVARO SELVA - EX MINISTRO DEGLI INTERNI REPUBBLICA SAN MARINO Deviata, deviata.

GIORGIO MOTTOLA Chi faceva parte di questa loggia segreta?

ALVARO SELVA - EX MINISTRO DEGLI INTERNI REPUBBLICA SAN MARINO Persone che venivano qualificate come industriali, nel mondo della finanza, del mondo bancario.

GIORGIO MOTTOLA Anche delle forze dell’ordine?

ALVARO SELVA - EX MINISTRO DEGLI INTERNI REPUBBLICA SAN MARINO Sì, sì, finanzieri. Sanmarinesi non c’erano. Italiani.

ANGELO BOCCARDELLI – ASSISTENTE PERSONALE DI GIACOMO MARIA UGOLINI L’ambasciatore è stato il fondatore della Gran Loggia di San Marino. Basta.

GIORGIO MOTTOLA E non c’erano logge coperte che facevano riferimento all’ambasciatore Ugolini?

ANGELO BOCCARDELLI – ASSISTENTE PERSONALE DI GIACOMO MARIA UGOLINI Assolutamente no.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma secondo il pentito Virgiglio il sistema Ugolini sarebbe nato dalle ceneri della P2 negli anni ’80, dopo la scoperta delle liste della loggia deviata di Licio Gelli. L’obiettivo era di proseguire l’esperienza massonica del venerabile.

PROCESSO GOTHA – 17/04/2019 GIUSEPPE LOMBARDO – PROCURATORE AGGIUNTO DI REGGIO CALABRIA Sappiamo tutti che formalmente la P2 viene disciolta con la legge Anselmi, cioè di quel modello che cosa, diciamo, passa al sistema Ugolini?

PROCESSO GOTHA – 17/04/2019 COSIMO VIRGIGLIO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Il potere: passa il potere però non viene fatto il potere com’era strutturato nella vecchia Propaganda 2. Non ci interessa a tutti i costi la politica, non ci interessa una fazione della politica, cioè destra, sinistra, non ci interessa. In mano dobbiamo avere il potere economico - finanziario, in mano dobbiamo avere l’ingresso delle merci, quindi i porti, e quindi questo è il sistema.

ANGELO BOCCARDELLI – ASSISTENTE PERSONALE DI GIACOMO MARIA UGOLINI Con Licio Gelli avevamo dei buoni rapporti, questo sì. Noi andavamo a trovarlo a Villa Wanda.

GIORGIO MOTTOLA Come mai frequentavate con l’ambasciatore Licio Gelli?

ANGELO BOCCARDELLI – ASSISTENTE PERSONALE DI GIACOMO MARIA UGOLINI Eravamo degli amici.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo la morte del conte Ugolini, diventa tesoriere dell’omonima fondazione, Giorgio Hugo Balestrieri, un ex capitano della Marina militare e della Nato. Tessera numero 2191 della loggia P2, è tra i fondatori della potente Loggia Montecarlo, istituita da Licio Gelli nel principato di Monaco poco tempo prima della scoperta delle liste a Castiglion Fibocchi.

GIORGIO MOTTOLA Che cos’era la loggia Montecarlo e perché è stata istituita?

GIORGIO HUGO BALESTRIERI – EX CAPITANO DELLA MARINA MILITARE ITALIANA La loggia Montecarlo è stata istituita perché c’era della gente in giro che voleva fare affari. Una loggia d’affari.

GIORGIO MOTTOLA Non bastava la P2?

GIORGIO HUGO BALESTRIERI – EX CAPITANO DELLA MARINA MILITARE ITALIANA La P2 era fatta, era finita. GIORGIO MOTTOLA Quindi la Loggia Montecarlo doveva in qualche modo subentrare alla P2?

GIORGIO HUGO BALESTRIERI – EX CAPITANO DELLA MARINA MILITARE ITALIANA Sì e no. Ma guardi io i primi tempi che ero lì andavo avanti e indietro con Washington. Sono stato veramente in grande contatto con Hugo Montgomery che era l’ex capo della Cia a Roma.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E della loggia Montecarlo avrebbe fatto parte anche il conte Ugolini che poi successivamente ha costituito la sua organizzazione massonica deviata, scegliendo come sede San Marino per una ragione molto precisa.

GIORGIO HUGO BALESTRIERI – EX CAPITANO DELLA MARINA MILITARE ITALIANA San Marino è tutto un riciclo. Io ho visto cosa facevano.

GIORGIO MOTTOLA Riciclavano soldi?

GIORGIO HUGO BALESTRIERI – EX CAPITANO DELLA MARINA MILITARE ITALIANA Ugolini portava fuori i soldi di un certo gruppo di italiani.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E i contatti grazie al suo ruolo di ambasciatore di San Marino, Ugolini li aveva soprattutto con i politici italiani.

GIORGIO MOTTOLA Immagino che lei con l’ambasciatore ne avrà conosciuti...

ANGELO BOCCARDELLI – ASSISTENTE PERSONALE DI GIACOMO MARIA UGOLINI Ne ho conosciuti. Abbiamo incontrato, conosciuto Fini, financo D’Alema con il quale avevamo stretto rapporti non di amicizia, ma un gran buon rapporto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Gianfranco Fini e Massimo D’Alema, ci fanno sapere che nessuna frequentazione c’è stata con Ugolini, ma solo rari incontri istituzionali nella sua veste di ambasciatore di San Marino. Secondo il pentito, vi sarebbe un politico di primissimo piano che avrebbe avuto un ruolo cruciale nel sistema Ugolini.

PROCESSO GOTHA – 17/04/2019 COSIMO VIRGIGLIO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Un referente particolarmente importante in Calabria negli ultimi tempi era quello di Gianni Letta, ma sempre da un punto di vista politico, raccordo politico.

PROCESSO GOTHA – 17/04/2019 GIUSEPPE LOMBARDO – PROCURATORE AGGIUNTO DI REGGIO CALABRIA Ci faccia capire meglio: che cosa vuol dire?

PROCESSO GOTHA – 17/04/2019 COSIMO VIRGIGLIO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Era l’espressione di questo sistema Ugolini sulla Calabria.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo Cosimo Virgiglio, l’imprenditore organico alla ‘ndrangheta, e appartenente alla loggia segreta Fenice, l’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta, sarebbe stato uno dei referenti del sistema messo in piedi dal Conte Ugolini, l’ambasciatore sammarinese che avrebbe raccolto l’eredità della P2.

GIORGIO MOTTOLA Sono Giorgio Mottola di Report, volevo farle una domanda se ha mai conosciuto l’ambasciatore Ugolini.

GIANNI LETTA - EX SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI Eh, non so nemmeno chi sia…

GIORGIO MOTTOLA Non sa neanche chi sia? Perché c’è un collaboratore di giustizia che dice che lei faceva parte di questa loggia Ugolini che l’ambasciatore Ugolini ha messo in piedi.

GIANNI LETTA - EX SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI Non so chi sia.

GIORGIO MOTTOLA Mai sentito? Era ambasciatore di San Marino.

GIANNI LETTA - EX SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI Assolutamente no.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’ex imprenditore ‘ndranghetista Cosimo Virgiglio ha raccontato anche di un incontro con Gianni Letta in un ristorante di Catanzaro, avvenuto all’inizio degli anni 2000 per discutere di un investimento dei Lloyd’s di Londra in presenza di imprenditori e maestri venerabili delle logge calabresi.

PROCESSO GOTHA – 17/04/2019 COSIMO VIRGIGLIO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Letta sì, l’ho incontrato direttamente lì, all’Orso Cattivo, quando scese giù per quel famoso investimento dei Lloyd’s di Londra. Avevano bisogno di investire 100 milioni di euro in Calabria acquistando delle strutture o ricettive o di distribuzione alimentare. A quella riunione parteciparono il nostro Maestro Venerabile, uno della Apicamera di Crotone, un altro signore di Sellia Marina, un grosso imprenditore, e lì insomma si pianificò come poterci muovere.

GIORGIO MOTTOLA Scusi dottor Letta se insisto, perché questo collaboratore di giustizia sta parlando in diversi processi e parla di questa loggia Fenice.

GIANNI LETTA - EX SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO

DEI MINISTRI Ma io non so chi sia e non so che dica, ma dice delle cose che non stanno né in cielo né in terra. GIORGIO MOTTOLA E non ha mai incontrato Cosimo Virgiglio, dottor Letta?

GIANNI LETTA - EX SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI No.

GIORGIO MOTTOLA All’Orso cattivo di Catanzaro?

GIANNI LETTA - EX SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI No, mai stato.

GIORGIO MOTTOLA Mai stato a Catanzaro.

GIANNI LETTA - EX SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI No.

GIORGIO MOTTOLA Si sta inventando tutto?

GIANNI LETTA - EX SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI Presumo di sì perché io non so nulla di quello che lei mi ha detto.

GIORGIO MOTTOLA Perché secondo questo collaboratore Ugolini avrebbe messo in piedi un sistema di potere che è stato un po’ la prosecuzione della P2.

GIANNI LETTA - EX SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI Non certamente con me.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora Cosimo Virgiglio, imprenditore, ‘ndranghetista, gran maestro venerabile è il primo a denunciare l’esistenza della loggia Fenice, fondata negli anni ‘80. E spiega anche l’origine del nome, perché come l’uccello mitologico, risorgerà, sopravviverà dice lui, anche alle inchieste giudiziarie. L’avrebbe fondata il conte Ugolini, insieme ad altre logge satelliti che gravitavano intorno al centro dell’impenetrabile Repubblica di San Marino, con diramazioni sino alla famigerata Gran Loggia di Montecarlo che era stata fondata negli anni ’80 da Licio Gelli quando stava per morire la loggia P2, la loggia massonica del venerabile. E secondo il tesoriere Balestrieri, il conte Ugolini da Montecarlo, avrebbe fatto uscire dei soldi. Ovviamente manca la versione di Ugolini, quindi lo dice Balestrieri questo. Quello però che è certo è che il conte Ugolini tesseva dei rapporti importanti con uomini delle istituzioni italiane, il capo dei servizi segreti Pollari, con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti Gianni Letta. E proprio Gianni Letta secondo sempre Cosimo Virgiglio sarebbe stato il referente delle politiche per la Calabria del conte Ugolini. Sarebbe stato presente in un vertice che si sarebbe tenuto nel 2005 presso un ristorante di Catanzaro, dove i Lloyd’s di Londra avevano manifestato l’intenzione di investire 100 milioni di euro sulla Calabria nell’acquisto di strutture turistiche e di società per la distribuzione alimentare. Letta smentisce, dice al nostro Mottola: io non conosco il Conte Ugolini né ho frequentato le logge. Noi ovviamente gli crediamo. Quello che è certo è che però Gianni Letta pur non essendo mai entrato in parlamento ha gestito il potere più di qualsiasi altro politico. E’ stato intercettato nell’inchiesta sulla P4 mentre dialogava con Bisignani, Bisignani il cui nome era nelle liste di Castiglion Fibocchi della P2, stava raccontando, svelando, a Letta dell’inchiesta sulla P4, inchiesta per cui Bisignani patteggerà anche la pena. Letta ha anche ammesso che Bisignani gli aveva suggerito, caldeggiato, le candidature del magistrato Papa e anche il nome gli aveva suggerito, di un vertice dei servizi di sicurezza. Attualmente sta tessendo la tela per Silvio Berlusconi, anche lui ex P2, per la nomina del nuovo presidente della Repubblica. E attualmente Letta è a capo di queste fondazioni che hanno una natura politica, economico-finanziaria, sanitaria, soprattutto culturale. E’ stato anche a capo di queste altre sino ad un po’ di tempo fa, ora io mi chiedo: sicuramente ce ne sarà sfuggita qualcuna ma come fa alla venerabile età di 86 anni a gestire tutto con la qualità con cui lo fa? Insomma, la nostra sicuramente è solamente invidia. Ex Rai, ex Ansa, ex Tempo è stato nominato vicepresidente della comunicazione Fininvest nell’87 e Berlusconi lo ha utilizzato spesso come un suo ambasciatore, l’aveva inviato presso il presidente della cassazione Santacroce in prossimità della sua condanna per i reati finanziari. Letta è stato anche l’artefice del patto del Nazareno, fra Berlusconi e Renzi. E poi è stato anche il protagonista, questa volta però non principale, del film di Alberto Sordi: Io so, che tu sai, che io so

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Allora stiamo parlando della cosiddetta cupola degli invisibili: una struttura occulta che è emersa durante i processi di Reggio Calabria che stanno ridisegnando la storia della ‘ndrangheta degli ultimi anni. E’ una struttura nella quale si sono infilati ‘ndranghetisti, la massoneria deviata, uomini dei servizi segreti, soggetti politici. Uno degli invisibili, secondo le intercettazioni e secondo i collaboratori di giustizia, sarebbe l’avvocato Giancarlo Pittelli uno di coloro che ha contribuito alla nascita e allo sviluppo di Forza Italia in Calabria, poi dopo ha aderito a Fratelli d’Italia. E’ l’avvocato dagli anni ’80 dei Piromalli e dei Mancuso, cioè delle due famiglie più importanti della ‘ndrangheta con i De Stefano. E secondo alcuni pentiti anche i De Stefano avrebbero investito nelle attività immobiliari di Silvio Berlusconi, Milano 2, insieme ai siciliani. Ovviamente l’avvocato Ghedini smentisce fino a prova contraria gli crediamo. Però è successo anche che negli anni ’80 quando Berlusconi aveva appena formato la Fininvest era sceso giù in Calabria per trasmettere si era appoggiato ad una emittente locale: TeleCalabriaUno. Dopo una serie di omicidi di stampo mafioso la Fininvest acquista TeleCalabriaUno e la affida ad un antennista che fino a quel momento aveva lavorato nell’emittente. A dargli le chiavi in mano del canale è proprio Galliani. Da chi è stato benedetto questo antennista?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nello stesso processo in cui il boss Graviano ha confermato gli investimenti di Cosa Nostra nelle attività di Berlusconi, un pentito calabrese Nino Fiume, ha per la prima volta raccontato di investimenti fatti dalla ‘ndrangheta nel progetto Milano 2 di Silvio Berlusconi. In cordata con la mafia siciliana, avrebbe dunque investito i soldi delle cosche calabresi in Milano 2 anche Paolo De Stefano, uno dei più importanti capi della storia della ‘ndrangheta.

PROCESSO 'NDRANGHETA STRAGISTA - 06/06/2019 NINO FIUME – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Perché Paolo De Stefano, sua moglie aveva la contabilità e doveva avere soldi da Milano 2, che li aveva investiti ai tempi di Bontate, e questi palermitani non gli restituivano mai i soldi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Negli stessi anni Silvio Berlusconi si dà anche alla televisione e fonda Fininvest. Per trasmettere i programmi di Canale 5 in Calabria si appoggia a una tv locale, Telecalabria Uno. Ma nel 1981 il proprietario dell’emittente calabrese, Francesco Priolo, viene ucciso in un agguato a Gioia Tauro. E a distanza di qualche settimana viene trovato ammazzato anche il figlio, Pino Priolo, succeduto alla guida della tv. Dopo l’omicidio, il gruppo Fininvest di Berlusconi acquisisce Telecalabria Uno e ne nomina responsabile Angelo Sorrenti, che era un dipendente dei Priolo.

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Nel momento in cui si concluse la trattativa della vendita sia Galliani che Lacchini mi dissero guarda adesso noi abbiamo bisogno di un responsabile e vorremmo che fossi tu.

GIORGIO MOTTOLA Eri un operaio specializzato…

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Si, quando c’era da installare, da fare, ero io…

GIORGIO MOTTOLA Certo, però eri un operario praticamente.

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Si, un operaio, un installatore.

GIORGIO MOTTOLA Ti ritrovi poi improvvisamente a gestire l’azienda.

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Sì, 900 mila lire al mese.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo che Adriano Galliani affida all’ex operaio la responsabilità della società di Fininvest in Calabria, per prima cosa Angelo Sorrenti va a fare visita al boss di Gioia Tauro Pino Piromalli.

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Andai a trovare Piromalli e mi ha detto tu puoi restare. E se te lo dico io che puoi restare… testuali parole.

GIORGIO MOTTOLA Ti diedi la benedizione, praticamente?

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Si, Piromalli mi ha dato la garanzia che non mi ammazzava nessuno dopo che hanno ammazzato la famiglia Priolo.

GIORGIO MOTTOLA Tu avevi un buon rapporto con Piromalli?

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Come si fa ad andare avanti laggiù senza…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel periodo in cui è il riferimento di Fininvest in Calabria, i rapporti di Sorrenti con la cosca Piromalli sono molto stretti al punto che cresima un nipote di Pino Piromalli. E nei mesi in cui il governo Craxi salva le trasmissioni di Fininvest con il decreto Berlusconi, i Piromalli chiedono a Sorrenti di entrare in società con loro.

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Loro erano appena usciti di galera e non potevano però risiedere nel comune di Gioia Tauro. Mi chiamarono, andai lì e Nino u catanese mi disse sono arrivati degli amici da Catania per dire che vogliono fare qui un’azienda metalmeccanica e noi abbiamo pensato perché non ce la facciamo noi? E abbiamo pensato a te.

GIORGIO MOTTOLA Quindi tu hai fatto praticamente da prestanome ai Piromalli in quella fase?

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Da socio. I soci ero io e poi c’erano rappresentanti delle famiglie Molé e Piromalli.

GIORGIO MOTTOLA A quel tempo eri già rappresentante di Fininvest in Calabria?

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Sì e se no i soldi dove li prendevo?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In questo modo il dirigente della società di Fininvest Angelo Sorrenti si teneva buono il boss Piromalli e la sua cosca.

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Gli facevo i miei regalini quando era il momento. Una macchina una volta gli ho regalato a Pino. Una Mercedes. Una Mercedes.

GIORGIO MOTTOLA Questo mentre tu eri responsabile di Fininvest giù in Calabria?

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Esatto.

GIORGIO MOTTOLA Fininvest ti considerava una garanzia rispetto alla ‘ndrangheta?

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Dopo quello che ero successo se ero ancora lì, vuol dire che qualcosa… Ero un cuscinetto tra loro e gli altri.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’inizio degli anni ’90 dopo che sono cominciati i suoi guai giudiziari, Sorrenti ha denunciato Giuseppe Piromalli per estorsione, contribuendo alla sua condanna. Ma i Piromalli avrebbero continuato ad avere un ruolo nelle vicende di Berlusconi. Infatti, Giuseppe Piromalli in persona, sarebbe stato addirittura determinante nella nascita di Forza Italia, stando almeno a quanto racconta in un’intercettazione un ex parlamentare berlusconiano: Giancarlo Pittelli, avvocato del boss Giuseppe Piromalli e imputato in diversi processi con l’accusa di essere uno dei cosiddetti “invisibili” della ‘ndrangheta.

GIANCARLO PITTELLI - AVVOCATO Dell’Utri io lo so… perché Dell’Utri la prima persona che contattò per la fondazione di Forza Italia fu Piromalli a Gioia Tauro. Tu pensa che ci sono due mafiosi in Calabria che sono i numeri uno in assoluto. Uno si chiama Giuseppe Piromalli e l’altro si chiama Luigi Mancuso. Io li difendo dal 1981.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Giancarlo Pittelli, ex Forza Italia, dal 2017 in Fratelli d’Italia, è finito agli arresti per i suoi contatti, i suoi legami, con i Piromalli. Ovviamente è innocente sino all’ultimo grado di giudizio. Per quello che riguarda l’antennista Sorrenti, invece, dopo essere andato a chiedere la benedizione e aver ottenuto la garanzia che non gli avrebbero sparato né a lui né ai suoi famigliari ha guidato la Fininvest in Calabria. Nel gioco nelle parti dice ero il cuscinetto fra Fininvest e la ‘ndrangheta. Ora Ghedini ci scrive dicendo che non è emerso nelle indagini un coinvolgimento della Fininvest, e che non poteva conoscere i rapporti personali dell’antennista con i Piromalli. Comunque le acquisizioni delle singole emittenti sul territorio – scrive Ghedini - non le faceva certo Berlusconi. Anche le dichiarazioni di Antonino Fiume sono prive di ogni fondamento, nessun investimento è stato fatto su "Milano2" da parte del boss Paolo Di Stefano, soggetto anch'esso del tutto sconosciuto a Silvio Berlusconi. E aggiunge Ghedini vi sarà certamente noto, che in più indagini vi è stata fatta una verifica sui flussi finanziari di Milano 2 e se n'è potuta constatare l'assoluta regolarità. Insomma, tutto bene anche per il boss Piromalli, che è a piede libero per aver scontato la pena. Ora nella galleria degli invisibili, tra i personaggi ce n’è uno che sarebbe stato funzionale a Forza Italia e che sarebbe rimasto invisibile anche alla giustizia italiana.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I nuovi equilibri che hanno determinato la nascita della Seconda Repubblica, avrebbero avuto origine qui in Aspromonte, durante una riunione tenuta tra il settembre e l’ottobre del 1991 al Santuario della Madonna di Polsi. Vi avrebbero partecipato boss di ‘ndrangheta provenienti da tutto il mondo ed esponenti di Cosa Nostra per discutere cosa fare dopo la caduta del Muro di Berlino e la crisi dei riferimenti politici storici.

GIORGIO MOTTOLA In questa riunione a Polsi si decide di sostituire i vecchi referenti politici?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Sì.

GIORGIO MOTTOLA Quindi Dc e Psi fuori…

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Si, il nuovo potere, il rinnovamento. In effetti subito dopo la riunione di Polsi sono cominciati gli attentati.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E sarebbe proprio nel corso della riunione di Polsi del 1991, che secondo il racconto fatto ai magistrati da Nucera, sarebbe stata pianificata l’inizio della strategia stragista che pochi mesi dopo avrebbe portato agli attentati di Capaci e via D’Amelio. Ma al summit non sarebbero stati presenti solo boss della mafia.

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA C’era pure uno dei Matacena.

GIORGIO MOTTOLA Amedeo Matacena?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Sì. Il pelato, u scucculato.

GIORGIO MOTTOLA Che cosa si dice durante quella riunione?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Si parla che bisogna rinnovare, che bisogna votare, che bisogna dare appoggio al partito degli uomini.

GIORGIO MOTTOLA Che cos’è questo partito degli uomini?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Gli uomini erano quelli che facevano parte della ‘ndrangheta.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il politico menzionato dall’ex boss ‘ndranghetista è Amedeo Matacena, punto di riferimento in Calabria di Forza Italia negli anni ’90.

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Non sono mai stato a Polsi io.

GIORGIO MOTTOLA In quell’occasione si provò a parlare di un nuovo partito da fondare, il cosiddetto partito degli uomini.

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Mai stato a Polsi. Ma se in Italia si facesse un partito degli uomini, non in quel senso di Polsi, nel senso di quello che significa uomini, in questo momento dove abbiamo dei quaquaraqua, sarebbe una gran cosa per l’Italia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 1994, tre anni dopo la riunione al santuario di Polsi raccontata da Nucera, Amedeo Matacena viene eletto per la prima volta deputato con Forza Italia. Il suo primo intervento in aula è per chiedere l’abolizione del 41 bis.

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Ho presentato documenti dove attraverso il 41 bis veniva estorta la dichiarazione dei pentiti. Non è ammissibile che il sistema della giustizia continui attraverso questi strumenti a violare sistematicamente i diritti civili, i diritti umani.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’epoca l’abolizione del 41 bis era in cima alle priorità di Cosa nostra e della ‘ndrangheta. Nel cosiddetto papello, è la seconda delle richieste che la mafia avrebbe fatto nella trattativa con lo Stato per far cessare le stragi.

GIORGIO MOTTOLA Si rende conto che ha fatto un discorso da portavoce delle organizzazioni criminali?

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Non è un problema mio. Ho svolto il mio mandato di libero parlamentare. Sono contrario e lo ero e lo sarò.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2013 Amedeo Matacena è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. E proprio per sfuggire alla pena da quasi 10 anni vive da latitante qui negli Emirati Arabi, a Dubai.

 AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Questo è la mia seconda patria, io non posso assolutamente dimenticare che quando la mia nazione, il mio Paese, mi ha tradito questo paese mi ha accolto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In realtà, stando alla sentenza della Cassazione, è Matacena ad aver tradito il suo Paese considerato che ha favorito le cosche mentre era un parlamentare della Repubblica. E a breve, poiché lo Stato italiano non è riuscito a farlo estradare, nonostante la condanna definitiva, potrebbe tornare in Italia da cittadino libero, senza aver mai scontato nemmeno un giorno di carcere.

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Se lo Stato non riesce a farmi espletare la pena entro il prossimo, adesso non ricordo, 3-4 giugno del 2022…decade la pena.

GIORGIO MOTTOLA Giugno è dietro l’angolo…insomma ci siamo quasi.

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Ci siamo quasi ma non tornerò a vivere in Italia, non vi preoccupate. Non è mio interesse.

GIORGIO MOTTOLA Anche perché la ri-arrestano, se viene in Italia, ci sono altri procedimenti.

AMEDEO MATACENA No, dopo il 3 giugno non ho più niente, non sono indagato da nessuna parte.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma in Italia altre inchieste potrebbero attendere Matacena che prima della condanna era tra gli uomini più ricchi della Calabria. Fino alla fine degli anni ’90 infatti, Amedeo Matacena è stato tra i proprietari della Caronte Spa, la società che da più di mezzo secolo ha il semi monopolio sui traghetti che fanno la spola sullo Stretto di Messina. Un impero che ha portato guadagni per centinaia di milioni di euro.

GIORGIO MOTTOLA Come ha fatto la sua famiglia a detenere il monopolio della tratta Villa San Giovanni – Messina dagli anni ’70 fino ad oggi praticamente?

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Abbiamo chiesto le concessioni e quello che ha vinto è stata la qualità di un servizio eccellente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma secondo una recente indagine della Dia di Reggio, il monopolio dei traghetti dei Matacena si è imposto grazie a un rapporto preferenziale con le più potenti cosche di ‘ndrangheta.

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA I Matacena non sono mai stati proprietari di niente, ma erano semplicemente persone che sapevano fare un certo mestiere, cioè quello di far camminare le navi e allora sono stati scelti e li hanno affidati a loro.

GIORGIO MOTTOLA Loro chi?

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA I De Stefano ….in particolare…

GIORGIO MOTTOLA I De Stefano hanno scelto i Matacena?

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Ma non sono stati soltanto loro, eh. Li c’è stata… tre cosche diverse: i De Stefano, i Piromalli, gli Alvaro, i Serraino.

GIORGIO MOTTOLA Quindi l’impero dei Matacena all’origine ha la ‘ndrangheta?

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Certo, non era dei Matacena, era della ‘ndrangheta.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Negli anni ’60 a gestire la rotta Messina – Villa San Giovanni era solo la Tourist Ferry Boat della famiglia Franza, originaria di Messina. Mentre la Caronte dei Matacena gestiva la tratta meno redditizia perché più lunga, Reggio Calabria - Messina. Stando al racconto di tre diversi pentiti le famiglie di ‘ndrangheta costrinsero l’azienda rivale a consorziarsi con i Matacena. Ne nacque la Caronte Tourist ferries boat che in poco tempo si sarebbe trasformata in un feudo ‘ndranghetista, in cui - secondo il pentito Giuseppe Liuzzo - le cosche si spartivano la gestione delle biglietterie, dei bar e dei posti di lavoro sulle navi. Secondo un collaudato manuale Cencelli.

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 È un quaquaraqua.

GIORGIO MOTTOLA Perché lui sostiene che il 35 percento delle assunzioni venisse spartito fra gli ‘ndranghetisti.

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Non potete fare domande su quello che dichiara per boutade un pentito. Deve chiedere ai Franza che fra l’altro avevano un ufficio con dei colonnelli ex carabinieri che dovevano verificare le persone che andavano ad assumere. Non può chiederlo a me.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma anche quando Matacena si è messo in proprio con la Amadeus Spa, tentando di gestire altre rotte tra la Calabria e la Sicilia, le sue navi venivano affittate secondo la Dia a società riconducibili al clan Santapaola di Catania.

GIORGIO MOTTOLA In tutte le attività sue e della sua famiglia in qualche modo si sono infilate un po’ Cosa nostra, un po’ la ‘ndrangheta.

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 L’Infiltrazione mi pare che c’è stata dappertutto.

GIORGIO MOTTOLA In Calabria c’è o no la ‘ndrangheta?

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Un problema c’è. O quantomeno c’è stato. Io ricordo quando eravamo ragazzini, durante la guerra di mafia, ne sono stati fatti tanti fatti di sangue.

GIORGIO MOTTOLA Dopo gli anni ’80 non si può più parlare di ‘ndrangheta?

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 No.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo la condanna e le inchieste giudiziarie ad Amedeo Matacena sono state sequestrate aziende, immobili e conti bancari. Ma qui nell’Emirato che gli ha garantito la totale protezione negli ultimi dieci anni le risorse non sembrano essergli mancante.

GIORGIO MOTTOLA Oggi com’è la sua vita qui a Dubai?

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Sicuramente meglio del passato, ho una mia società di consulenze.

GIORGIO MOTTOLA Quindi in che settore?

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Finanziario, di costituzioni societarie, di supporto ad altre attività, documentazioni…

GIORGIO MOTTOLA Immobiliari, immagino.

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Immobiliari anche, certo. Io sono come la Fenice, io so che sto risorgendo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Certo è curioso e anche inquietante il riferimento che fa Matacena al nome della Fenice, cioè il nome di quella loggia di cui farebbe parte secondo il maestro venerabile Virgiglio, secondo il quale anche questa loggia avrebbe ereditato il potere della P2 e che sarebbe sopravvissuta anche alle inchieste giudiziarie, come è successo del resto a Matacena. Una loggia massonica ai cui vertici ci sarebbe anche stato l’avvocato Paolo Romeo. Tornando invece a Matacena, ai traghetti Caronte&Tourist ci scrivono che è vero che le quote appartengono alla famiglia Matacena ma che non hanno alcun rapporto con Amedeo. Ecco, questo dovevamo. E intanto Matacena può camminare tranquillamente per le strade di Dubai perché gli Emirati non riconoscono il reato di concorso esterno alla mafia. Ecco chi va in quei posti, in viaggi a Dubai, e frequenta gli Emiri potrebbe spiegare a loro l’importanza, con una consulenza, l’importanza di combattere la mafia a livello globale. Se la Calabria è rimasta indietro nel nostro Paese lo dobbiamo anche a quella galleria di personaggi che abbiamo visto oggi, politici, massoni, uomini dei servizi segreti o in collegamento con i servizi segreti. Forse possiamo aspirare come Paese a qualcosa di meglio.

Francesco Grignetti per "La Stampa" il 25 maggio 2021. Dal Sudamerica alla sua Calabria, per Rocco Morabito, detto "il Tamunga", c'è sempre stato un ponte. E lui, considerato il primo broker della droga dei clan calabresi, attraverso quel ponte ideale faceva transitare tonnellate di cocaina, che poi le 'ndrine avrebbero smistato in giro per il mondo, il che ha reso la 'ndrangheta una delle organizzazioni criminali più potenti al mondo e lui, uno dei dieci latitanti più ricercati dalle polizie del pianeta. In Italia è stato condannato a trent'anni per associazione mafiosa e traffico internazionale di stupefacenti. La sua lunghissima latitanza è finita ieri a Joao Pessoa del Brasile, grazie ai Ros dei carabinieri, l'Fbi, la Dea e la polizia federale brasiliana. In Italia, Morabito era considerato il latitante più pericoloso di tutti, secondo solo a Mattia Messina Denaro, il boss imprendibile di Cosa Nostra. Lo hanno arrestato assieme a un altro criminale di origini calabresi, il torinese Vincenzo Pasquino, anche lui dedito al traffico di coca. È nato in provincia di Reggio Calabria, ad Africo, Morabito, nel 1966. Di famiglia schiettamente mafiosa, parente del temuto boss Peppe "Tiradritto" Morabito, a vent'anni era già considerato il re della coca di Milano. La sua ascesa s'interrompe bruscamente a metà degli Anni Novanta, quando è costretto a lasciare in fretta l'Italia. Nel febbraio 1995, il primo ordine di cattura internazionale. Inutile. Morabito inizia una lunghissima latitanza, durata 23 anni, durante la quale non interrompe mai i contatti con i clan d'origine, ma al contrario estende i suoi traffici. Il suo regno ha le basi in Uruguay, a Punta del Este, nota località di vacanza e di frontiera, dove non la legge non esiste, a un passo dal confine brasiliano. In Uruguay si spacciava per Francisco Antonio Capeletto Souza, imprenditore brasiliano, attivo nell'import-export e nella coltivazione intensiva di soia. Una copertura che ha tenuto per decenni. In Uruguay lo arrestarono già nel 2017. Viveva in una ricca villa con piscina, nel quartiere di Beverly Hills, scopiazzato in tutto e per tutto, anche nel nome, con l'omonima città californiana. Quando viaggiava, sceglieva solo i migliori hotel. E infatti lo arrestarono nella hall di un albergo. Quella volta sembrava che l'estradizione fosse a portata di mano. Ma i miliardi del narcotraffico fanno miracoli. E Morabito nel 2019, alla vigilia del trasferimento in Italia, riuscì a evadere dal carcere di Montevideo in maniera rocambolesca, attraverso un tunnel e poi sui tetti del carcere. Scomparve nuovamente nel nulla, assieme a tre compagni di evasione. Tre detenuti brasiliani. Negli ultimi due anni, gli investigatori italiani lo hanno cercato setacciando l'intero continente americano. Alla fine i carabinieri del Ros, presenti anche i colleghi dei comandi di Locri, Torino e Reggio Calabria, lo hanno rintracciato in Brasile. Di nuovo in una località super-turistica. Di nuovo calato nel lusso più sfrenato.

Arrestato il superboss Morabito in Brasile. Vi avevamo raccontato la sua vita da latitante in Uruguay. Le Iene News il 26 maggio 2021. È stato arrestato in Brasile il boss della ’ndrangheta Rocco Morabito, ricercato dal 1994. Nel 2017, con Giulio Golia siamo andati in Uruguay per vedere com’era la sua vita da latitante. Era stato già arrestato nel 2017 dopo 23 anni di latitanza. Due anni dopo, però, mentre attendeva l’estradizione in Italia nel carcere di Montevideo, era riuscito a fuggire. È stato arrestato in Brasile il boss della ’ndrangheta Rocco Morabito, ricercato dal 1994. Morabito, arrestato in un’operazione congiunta dei carabinieri del Ros e del Servizio di cooperazione internazionale di polizia, con la collaborazione di Dea, Fbi e dipartimento di giustizia statunitense, era inserito nell'elenco dei 10 latitanti più pericolosi del Viminale. Nel 2017 con Giulio Golia siamo andati in Uruguay per vedere com’era la sua vita da latitante. Il boss era infatti stato arrestato già nel 2017 dopo 23 anni di latitanza. Due anni dopo però, mentre attendeva l’estradizione in Italia nel carcere di Montevideo, era riuscito a fuggire. Poco dopo quell’arresto eravamo andati in Uruguay, a Punta del Este, dove il boss viveva tra ville da capogiro e strade appartate. Abbiamo trovato la sua dimora in un lussuosissimo quartiere. “Era un vicino come tutti gli altri”, ci ha detto un abitante del quartiere. “Educato e tranquillo”. In quell’occasione avevamo conosciuto anche Denny, l’uomo che aveva portato avanti la vendita milionaria della precedente casa di Morabito nella zona. “Conoscevi Morabito?”, gli ha chiesto la Iena. “No”, ci ha detto ridendo. “Io avevo conosciuto Francisco Capeletto”, risponde, ovvero la falsa identità brasiliana sotto cui viveva il boss. “Non l’avrei mai detto, era una persona tranquilla”. E ci ha parlato un po’ di Punta del Este: “Questo è un rifugio perché magari domani conosci una persona nuova e questa persona organizza feste, invita tutti e nessuno sa chi sia. E qui questa è una cosa normale. Ci sono molte persone qui che non si sa chi siano”. Questa volta Morabito è stato arrestato in un’abitazione a Joao Pessoa insieme a Vincenzo Pasquino, inserito anche lui nell’elenco dei latitanti pericolosi. Ora Morabito è stato trasferito dalla polizia brasiliana in una località segreta. Nonostante la latitanza, il boss continuava a gestire il traffico internazionale di sostanze stupefacenti incontrando anche esponenti di spicco della 'ndrangheta. E intanto, ha spiegato il comandate del Ros, Pasquale Angelosanto, non sembrava facesse una vita da latitante: “Andava in spiaggia e frequentava i locali”.

Giuseppe Legato per "La Stampa" il 26 maggio 2021. La sua ultima foto pubblica è dell'ottobre 2017. Lo ritrae abbracciato insieme a un giovane boss delle 'ndrine torinesi. Sciarpetta Louis Vuitton grigia al collo, giaccone bianco North Sails e una frase che racchiude la sua ascesa criminale nella composita galassia dalla 'ndrangheta calabrese: «Caro fratello ti voglio bene anche se tutti ci odiano. Ma solo perché vorrebbero essere come noi». Pochi giorni dopo quello scatto Vincenzo Pasquino, 34 anni, da Volpiano, professione venditore all'ingrosso di automobili importate dalla Germania, si è imbarcato su un volo per il Brasile - via Francoforte - e non è più tornato. Si è fatto vento, è scomparso come i latitanti più imprendibili inseguito da un mandato di cattura emesso dalla procura di Torino per mafia e narcotraffico internazionale. La polizia brasiliana, i carabinieri di via Valfrè e il Ros lo hanno arrestato l'altro ieri sera, alle 22 in un alloggio di Joao Pessoa, capitale costiera dello stato del Paraiba. Gestiva la latitanza di Rocco Morabito, uno dei più importanti broker di cocaina del mondo, ma sarebbe riduttivo rubricare questo giovane a custode di una primula rossa in terra straniera. E sarebbe sbagliato. Perché Pasquino era diventato da tempo ormai il colonnello delle famiglie di 'ndrangheta di Platì nel vorticoso mondo della droga. Che a tonnellate ogni anno arrivava dal porto di Santos a Vado Lugure e - di lì - in tutta Italia ed Europa. Talmente considerato nell'ambiente delle 'ndrine di élite da essere stato per lungo tempo l'anello di collegamento con i broker Nicola e Patrick Assisi arrestati a San Paolo a luglio 2019 dai carabinieri di Torino. Il giorno dell'irruzione in quell'attico, schiacciata tra lo schienale e la seduta del divano, c'era la fotocopia del passaporto di Pasquino. Che forse aveva fatto in tempo a fuggire pochi minuti prima del blitz. Lo hanno ritrovato con un passaporto paraguaiano in tasca, insieme all'altro grande narcos, Morabito, l'unico in grado di contrattare coi cartelli sudamericani a livello degli Assisi. «E questo - hanno spiegato il procuratore di Torino Anna Maria Loreto e il comandante provinciale dei carabinieri Francesco Rizzo - è il segno della sua ascesa inarrestabile». Che prima ancora che nei flash di agenzia delle ultime 36 ore era già chiara nelle carte dell'operazione Cerbero, babele di accuse contro le famiglie di Platì conclusa dalla prima sezione del nucleo investigativo con 82 arresti di cui ottantuno eseguiti. Mancava Pasquino che era scappato in Brasile dopo un viaggio lampo a Platì: «Qui in Calabria tutti chiedono di te» gli diceva un boss al telefono. «Devi scendere». La moglie, infuriata dei suoi continui - e improvvisi viaggi - lo aveva redarguito: «Ti usano come un galoppino, renditene conto». Ma Vincenzo, orfano di padre e madre, cresciuto sotto il grembiule della potente famiglia Agresta, lo aveva messo in chiaro subito: «Non mi piace fare questi discorsi ma sappi che se mi chiedono di scegliere tra loro e te io caccio te. Queste - le dice - sono persone che mi hanno cresciuto, io un padre non l'ho mai avuto. Ero un capraro e mi hanno insegnato a leggere e scrivere. Quando puzzavo di fame non c'eri tu a portarmi 5 euro per campare e comprarmi le sigarette». Nella lite coniugale che diventa romanzo criminale attraverso le intercettazioni dei carabinieri c'è il suo amico a spalleggiarlo: «Morena devi fartene una ragione! Hai sposato un delinquente. Se vuoi puoi seguirlo in Brasile e avrai una villa con piscina, ma devi accettarlo. Non hai sposato un rappresentante di gioielli». Da ieri, Pasquino è in carcere a Brasilia. Atterrato su un volo militare, è in attesa di estradizione.

Secondo più ricercato dopo Matteo Messina Denaro. Chi è Rocco Morabito, il narcos della ‘ndrangheta arrestato in Brasile dopo l’evasione dal carcere. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 25 Maggio 2021. Rocco Morabito è stato arrestato in Brasile dai carabinieri del Ros. E’ durata quasi due anni la fuga del narcos della ‘ndrangheta, evaso il 24 giugno 2019 dal carcere ‘Central’ di Montevideo, in Uruguay. Morabito, 54 anni (di cui 25 da latitante quasi esclusivamente in Sud America), originario di Africo (Reggio Calabria), era il secondo latitante più ricercato dopo Matteo Messina Denaro. I carabinieri del Raggruppamento Operativo Speciale lo hanno rintracciato a Joao Pessoa, zona est del Brasile, insieme a un altro narcotrafficante, Vincenzo Pasquino, torinese, anche lui latitante. Rocco Morabito è considerato il numero uno tra i broker che gestiscono il traffico di cocaina con i cartelli del Sudamerica. Alla sua cattura hanno collaborato anche Fbi e Dea. Ad agire, insieme al Ros, i carabinieri del gruppo di Locri (Reggio Calabria) e dei comandi provinciali di Reggio Calabria e Torino e gli uomini del servizio centrale di cooperazione di polizia – progetto Ican, della polizia federale brasiliana. Morabito deve scontare 30 anni di reclusione per associazione di stampo mafioso e traffico di droga. A coordinare l’attività del Ros, svolta in sinergia tra i reparti dell’Arma e il collaterale brasiliano, con il supporto dell’Fbi e della Dea statunitense, le procure distrettuali di Reggio Calabria e di Torino con l’ausilio della direzione generale Affari internazionali e cooperazione giudiziaria del ministero della Giustizia italiano e del dipartimento di giustizia statunitense. Morabito è considerato dagli investigatori uno degli esponenti apicali della criminalità organizzata calabrese. Era stato arrestato, dopo ben 23 anni di latitanza, nel settembre del 2017 in un hotel nella località di Punta del Este, in Uruguay, dove viveva in una villa con piscina, una Mercedes, 13 cellulari, 12 carte di credito e un passaporto brasiliano. Quasi due anni dopo (giugno 2019) evade a poche settimane dal ritorno in Italia (l’estradizione era stata autorizzata) insieme ad altri tre detenuti (Leonardo Abel Sinopoli Azcoaga, Matias Sebastián Acosta González e Bruno Ezequiel Díaz) dalla terrazza del carcere. Qualche mese dopo, con l’operazione Magma (novembre 2019) emerge che un ruolo chiave nell’evasione di Rocco Morabito l’avrebbero avutoalcuni esponenti del Bellocco residenti tra Buenos Aires e Montevideo. Morabito in Calabria è soprannominato “Il Tamunga”, per via del grosso fuoristrada Dkw Munga, considerato pressoché indistruttibile, con cui scorazzava per la Locride, è condannato a scontare 30 anni di carcere. Tra gli anni ’80 e ’90 è un esponente di spicco del clan dei Morabito. Ha studiato all’Università di Messina e nel 1988, quando aveva 22 anni, è stato arrestato per minacce rivolte a uno dei suoi professori universitari. Nell’89 suo fratello Leo Morabito è stato ucciso in un agguato mafioso e l’anno successivo anche Rocco è stato ferito in un altro agguato. Il suo nome è conosciuto anche a Milano dove a 25 anni ha iniziato a costruire il suo impero fondato sul traffico della coca. Nel capoluogo lombardo si divideva fra traffici e la bella vita nei locali che ha abbandonato solo con il rischio di un arresto imminente. Si hanno notizie di lui anche nell’ambiente camorristico. Prima di diventare latitante, assieme ad altri affiliati, Rocco Morabito è stato visto a Baia Domizia di Sessa Aurunca, all’interno dell’abitazione di Alberto Beneduce, boss e narcotrafficante camorrista conosciuto con il soprannome di “A cocaina” e trovato qualche settimana dopo carbonizzato nel bagagliaio di un’auto. Poi la fuga in Sud America dove sotto la falsa identità di Francisco Antonio Capeletto Souza, imprenditore brasiliano d’origine, aveva messo su una redditizia attività di import-export e una coltivazione intensiva di soia.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Grande Aracri, il boss pentito che fa tremare la politica. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 16 aprile 2021. A capo del clan insediatosi in Emilia, collabora con la giustizia: l’ascesa con gli omicidi, l’espansione negli affari con una fitta rete di protezioni istituzionali

Il pentimento di Nicola Grande Aracri, boss della 'ndrangheta, merita l'enfasi che spesso si accompagna a operazioni di importanza molto minore. È difficile fare un paragone con personaggi di epoche e mafie diverse, come Tommaso Buscetta, ma l'impatto potenziale dell'operazione coordinata dalla Dda di Catanzaro del procuratore Nicola Gratteri potrebbe rivelarsi superiore a quello del “soldato” di Cosa Nostra. Grande Aracri, 62 anni compiuti a gennaio, è una figura apicale nell'organizzazione criminale calabrese e bisognerà vedere fino a che punto si spingeranno le dichiarazioni. Ma di sicuro nessun capo 'ndranghetista del suo calibro aveva mai deciso di collaborare con la giustizia. Da Cutro, paese della provincia di Crotone gradualmente svuotato dall'emigrazione, il clan Grande Aracri si è insediato da circa quarant'anni nella zona di Reggio Emilia. In questo intervallo di tempo ha talmente prosperato con l'edilizia privata, gli appalti pubblici, le farmacie da portarsi al livello delle cosche storiche della mafia calabrese. E proprio dai capi del reggino Nicolino Grande Aracri ha imparato la lezione più importante: non sopravvive a lungo un'associazione criminale che non ha coperture politiche. Arrivati in Emilia in punta di piedi e con ben altri metodi rispetto a quelli del dominio violento praticato in Calabria a costo di faide sanguinose, i Grande Aracri hanno tessuto con pazienza una tela di favori che ha inglobato assessori comunali e regionali e ha sfiorato i vertici del governo quando l'ex sindaco di Reggio Emilia e ministro Graziano Delrio (Pd) si è dovuto difendere da un'eccessiva benevolenza verso la comunità dell'emigrazione cutrese. Brescello, dove il sindaco democrat Marcello Coffrini spendeva parole di stima verso Francesco Grande Aracri, fratello di Nicola, è stato il primo comune emiliano a essere sciolto per infiltrazioni mafiose nell'aprile del 2016. E mentre a nord il clan occupava tutti gli spazi lasciati vuoti dalle crisi aziendali e dal pecunia non olet di tanti imprenditori in difficoltà, senza per questo tralasciare i traffici illeciti tradizionali, a sud don Nicolino conquistava il potere a colpi di bazooka, come nell'omicidio di Carmine Arena, ucciso nel 2004 a Isola Capo Rizzuto dagli alleati Nicoscia perché schierato con i Dragone, rivali cutresi di Grande Aracri. Proprio l'assassinio di Antonio Dragone, suo ex boss, ha procurato a Nicolino ”Mani di gomma” l'ergastolo e il carcere a Opera in regime di 41 bis. Ma all'occorrenza le armi calabresi hanno lavorato anche in trasferta, per esempio con l'omicidio di Giuseppe Ruggiero da parte di sicari travestiti da carabinieri di cui parla il processo Aemilia e a Grande Aracri è stato attribuito un disegno indipendentista rispetto alla centrale del Crimine di Polsi, in Aspromonte. Lo stesso progetto che è costato la vita a Carmine Novella. Nonostante i rigori del 41 bis toccati al boss, la cosca cutrese non ha mai smesso di operare. Appena lo scorso novembre il procuratore Gratteri aveva messo agli arresti il presidente del consiglio regionale della Calabria, Domenico Tallini, per i suoi legami con i Grande Aracri nel business farmaceutico. Tallini è poi stato rimesso in libertà un mese dopo. Adesso per la Dda di Catanzaro si spalanca un'enciclopedia di delitti, di complicità, di comparaggi maturati all'ombra di quelle logge massoniche che il boss cutrese ha sempre considerato la chiave di volta di un potere solido. Nicolino Grande Aracri ha in mano quei segreti. Bisognerà vedere fino a che punto vorrà affondare il colpo. 

IL PROFILO - Nicolino Grande Aracri, il boss che ridisegnò la geografia della 'ndrangheta in Calabria e non solo. Antonio Anastasi su Il Quotidiano del Sud il 16 aprile 2021. Il Boss Nicolino Grande Aracri è stato capace, e ne fu condannato, per aver fondato una “provincia” paritetica rispetto a quella di Reggio, vera rivoluzione nella geografia mafiosa della Calabria per l’audace rivendicazione di autonomia rispetto alla casa madre della ‘ndrangheta, come emerge dalle carte del processo Kyterion, nome bizantino di Cutro che sta per argilla, la sostanza di cui è intrisa la collina su cui si erge la cittadina assurta, negli ultimi anni, a capitale mafiosa. Un progetto, quello di Grande Aracri, che è ormai scolpito nel capo d’imputazione del processo “Rinascita”, che ridisegna la mappatura della ‘ndrangheta individuando tre “province”: oltre a quelle di Reggio – la cui struttura unitaria è stata sancita dalla sentenza “Crimine” – e Vibo Valentia, c’è, appunto, Cutro, con supremazia sulla Calabria mediana e settentrionale. Se il “pentimento” fosse ritenuto attendibile dagli inquirenti della Dda di Catanzaro, che mantengono il più stretto riserbo, sarebbe un vero colpo all’unica organizzazione criminale presente in tutti i continenti e che, oltre a tenere sotto scacco interi territori della Calabria, con le sue ramificazioni fa affari in Nord Italia andando a braccetto con pezzi di politica e istituzioni, imprenditoria e massoneria deviata. Ne avrebbe di cose da dire, infatti, il capo di una “piovra” che, stando a un’intercettazione, potrebbe contare su un «esercito» di 500 uomini sparsi in tutta la Penisola; uno che vantava ingerenze in ambienti massonici forse in grado di arrivare a condizionare alcuni giudici. Un esercito irregolare che Grande Aracri, nel periodo in cui era tornato in libertà dopo una lunga detenzione, quei nove mesi di fuoco tra il 2012 e il 2013, dirigeva dalla sua ormai famigerata tavernetta monitorata dalle Dda di mezza Italia. Difficile, in questa fase embrionale del percorso intrapreso, dire se Grande Aracri fornirà un contributo nuovo rispetto alle emergenze processuali degli ultimi 30 anni, che hanno cristallizzato la caratura del capo crimine (“crimine internazionale” è la dote di ‘ndrangheta di cui si vantava col suo ex braccio destro, quel Salvatore Cortese pentitosi pure lui anni fa). In un caso analogo, il capo della cellula emiliana del clan, Nicolino Sarcone, non è stato ritenuto attendibile dalla Dda di Bologna perché, dopo la condanna a 15 anni, è parso agli inquirenti che volesse “salvare” i fratelli senza aggiungere nulla di nuovo nelle sue dichiarazioni. Quale sia il disegno di Grande Aracri è ancora presto per dirlo. Dal carcere di Milano Opera non si sarebbe mosso praticamente più essendosi beccato, tra le numerose condanne che deve ancora scontare, anche diversi ergastoli. Uno è divenuto definitivo per l’omicidio del suo rivale storico, il boss Antonio Dragone del quale fu luogotenente, ucciso a Cutro in un agguato in cui fu utilizzato un bazooka nel maggio 2004 (processo Kyterion). C’è l’ergastolo per l’omicidio di Giuseppe Ruggiero, assassinato a Brescello nel giugno ’92 da un commando travestito da carabinieri (processo Aemilia ’92, in Appello). C’è l’ergastolo per i sette omicidi di cui è stato ritenuto mandante negli anni di piombo tra il ’99 e il 2000, (processo Scacco Matto, Appello bis), vittime Antonio Simbari, Raffaele Dragone e Tommaso De Mare, Rosario Sorrentino, Francesco Arena e Francesco Scerbo. È la pietra miliare, il processo Scacco Matto, scaturito dall’operazione con cui nel dicembre 2000 furono disarticolate due cosche allora ritenute emergenti, quella dei Grande Aracri a Cutro e dei Nicoscia a Isola Capo Rizzuto, federatesi per scalzare dal comando nei rispettivi centri d’influenza le più blasonate famiglie Dragone e Arena. Ma la scalata è proseguita in Calabria e al Nord, fino al colpo forse decisivo. Nel gennaio 2015, con una manovra a tenaglia, scattarono le operazioni Kyterion, Aemilia e Pesci, condotte rispettivamente dalle Dda di Catanzaro, Bologna e Brescia, dalle quali sono sfociati processi per oltre 300 persone in gran parte di Cutro o provenienti da Cutro. Un esercito, nel quale tremano tutti, ora, dai colonnelli ai fanti, perché il “capo” assoluto ha iniziato a “cantare”. Ma trema pure una vasta zona grigia, un mondo di mezzo fatto di professionisti e imprenditori che fungeva da cerniera tra l’ala militare e l’economia apparentemente legale, la politica e le istituzioni.

'Ndrangheta, l'esercito dei nuovi pentiti che inchioda la politica in Calabria. Alessia Candito su La Repubblica il 6 aprile 2021. Nelle rivelazioni dei collaboratori il sistema che ha azzerato la democrazia e addomesticato i governi regionali. Uomini delle istituzioni, candidati, piccoli e grandi imprenditori legati ai clan, radicati soprattutto nei partiti di destra. La slavina è iniziata a Reggio Calabria, ma potrebbe travolgere l’intera regione. In poco più di un anno e mezzo, dieci nuovi pentiti si sono presentati di fronte ai pm della procura guidata da Giovanni Bombardieri, disposti a parlare del “sistema” che ha azzerato la democrazia, reso una farsa le elezioni, addomesticato i governi. Uomini delle istituzioni, politici, piccoli e grandi imprenditori, giovani e feroci capoclan, nuove leve. I nuovi collaboratori hanno storie diverse e vengono da mondi diversi, ma tutti stanno facendo tremare la classe politica calabrese in generale e la destra in particolare, che oggi conta su un esercito di più o meno storici campioni di preferenze indagati, arrestati o sotto processo per rapporti con i clan.

I politici sotto inchiesta per i rapporti con i clan. Imputati in diversi processi di mafia sono l’ex senatore Antonio Caridi di Forza Italia, l’ex sottosegretario regionale di An Alberto Sarra, l’ex consigliere regionale Sandro Nicolò di Fdi. Stesso partito dell’ex consigliere regionale Domenico Creazzo, a processo per scambio elettorale politico mafioso, mentre - Giunta per le autorizzazioni permettendo - ha scelto l’abbreviato il senatore di Fi, Marco Siclari. Sotto inchiesta ci sono poi l’assessore regionale Franco Talarico (Udc) finito ai domiciliari per gli accordi pericolosi fatti per ottenere voti a Reggio Calabria, Domenico Tallini, liberato dal Riesame dopo essersi dimesso da presidente del Consiglio regionale, l’ex sindaco di Rosarno, Giuseppe Idà, l’ex candidato della Lega, Antonio Coco. Indagato in un’inchiesta antimafia ma “solo” per aver fatto parte di un cartello di imprese costruito per truccare le gare c’è anche l’unico deputato leghista, Domenico Furgiuele. Ma soprattutto, nuovamente sotto indagine dopo aver quasi finito di scontare una condanna a 4 anni e mezzo per avere truccato i bilanci per coprire un buco da centinaia di milioni nei conti del Comune di Reggio Calabria, c’è l’ex governatore Giuseppe Scopelliti. Una carriera tutta a destra - dal Fronte della Gioventù al Pdl, fra i registi dello sbarco della Lega in Calabria - l’ex governatore e sindaco di Reggio per gli inquirenti è il simbolo di un sistema che si ripete, uguale a se stesso o quasi, dal 1970. E non si limita certo ai pacchetti di voti dirottati dalla ‘Ndrangheta su questo o quel candidato, ma ha a che fare con il reclutamento – se non la costruzione – del politico deputato ad intercettarli. Gente come Scopelliti, che per il pentito Consolato Villani “tutta l’Archi – quartiere feudo dei più potenti clan - l’ha preso, l’ha portato al Comune e gli ha detto ‘fai il sindaco’” perché come tale è stato scelto da un’élite che decide le strategie di tutti i clan. E da mezzo secolo detta l’agenda economica, politica e sociale in Calabria e non solo.

Laboratorio Reggio Calabria. Ecco perché conferma oggi il pentito Vecchio – ex assessore comunale, ex pentito, uomo del clan Serraino e massone - “fare Giunta con Scopelliti era una gran presa per il culo. Ci sedevamo, qualcuno ogni tanto dei suoi, del cerchio magico faceva qualche parte, ma era già tutto fatto, preconfezionato”. Dai clan. Con il numero due di quella stagione politica, Alberto Sarra, a fare da garante e paciere quando alcune famiglie storiche si sentivano trascurate dal sindaco che “dava troppo verso i De Stefano”, storico casato mafioso di Reggio Calabria. Risultato, spiega il pentito, “gli hanno tirato le orecchie anche l'altro schieramento, cioè i Condello”. Danneggiamenti ai mezzi delle partecipate del Comune, fischi in piazza. Poi c’è stato un incontro chiarificatore a Roma, dove il clan Alvaro controllava il lussuoso Cafè de Paris, ed è tornata la pace. Quando nel 2007 si è presentato per un secondo mandato, per Scopelliti è stato un plebiscito. La politica serve. Per distribuire lavoro e ramazzare lavori, dirottare finanziamenti, gestire consensi, garantire pace o caos sociale. Ma è solo un ingranaggio di un sistema in cui tutto - l’imprenditoria, le istituzioni, la società - si tiene e tutto ruota attorno alla ‘Ndrangheta. Appalti, finanziamenti, posti di lavoro, persino eventi culturali. “Se tu è vent’anni che mangi con loro (i clan ndr) ora perché devi dire che sei che sei estorto?” si arrabbia il boss Pino Liuzzo, pentito dopo oltre trent’anni da capo di una vera e propria “holding criminale” al servizio dei clan, capace di infiltrare il settore dell’edilizia privata reggina grazie alla sua società “Euroedil Sas”. E degli imprenditori della città, afferma, “Il 90% è così”. Maurizio De Carlo, cognato del boss Gino Molinetti “La belva”, ufficialmente era uno di loro, persino in prima fila nelle manifestazioni delle associazioni di categoria. Ma da sempre è stato un “burattino” del clan De Stefano e da collaboratore oggi conferma che a Reggio Calabria lavorare con la ‘Ndrangheta è regola, non eccezione.

Il mercato dei voti. Non si tratta di singoli episodi. O di singoli clan, in grado di arruolare il titolare di piccole e grandi società, pubblici funzionari o un aspirante amministratore. Quello c’è e gli esempi si sprecano. “Così come io avevo dialogato con i Serraino per ottenere voti – spiega il pentito Vecchio – Sandro Nicolò (ex consigliere regionale di Fdi ndr) dialogava con i Libri”. Lo stesso clan - ci si stupiva anche in ambienti di ‘Ndrangheta - che gli ha ammazzato il padre. In fondo è normale, fa capire Vecchio, “chi come me partecipa alla competizione sa bene quali sono gli schieramenti”. Succede a Reggio Calabria, come a Sant’Eufemia dove l’ex consigliere regionale Domenico Creazzo (Fdi) è riuscito a farsi arrestare ancor prima di essere proclamato per aver venduto il proprio futuro politico agli Alvaro. O poco distante, a Rosarno, dove l’ex sindaco Giuseppe Idà (ex vicesegretario regionale dell’Udc), finito ai domiciliari e poi scarcerato dal Riesame, era tanto legato al clan Pisano da affidare a loro persino il “marketing” elettorale. “Mi ha scritto l'intervento a me Cicciu U Diavulu – lo sentono dire i carabinieri - ce l'ho qua poi ce lo vediamo”. Tutto questo però è solo l’epidermide di un sistema che a monte si regge su decisioni di ‘Ndrangheta. Quella che non si vede, ma governa.

La tirannia della direzione strategica. A dettare non solo le regole ma anche il perimetro di gioco – dimostrano le più recenti inchieste – è la “direzione strategica” che dei clan calabresi decide linee guida, margini e obiettivi di intervento ed attualmente dell’organizzazione è il massimo livello conosciuto. La cupola. È “il livello supremo delle consorterie di ‘Ndrangheta” dice il pentito Giuseppe Di Giacomo e a farne parte - ha svelato l’inchiesta Mammasantissima del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e hanno confermato le sentenze- sono sette persone, sette esponenti dei clan più importanti. Due sono anche stati individuati. Il primo è Giorgio De Stefano, per decenni espressione ripulita dell’omonimo casato mafioso, penalista, ex consigliere comunale DC, già condannato con rito abbreviato in primo e in secondo grado come elemento di vertice della direzione strategica nel maxiprocesso “Gotha”. L’altro, legale anche lui, è Paolo Romeo, una storia nella destra eversiva ma finito a fare il deputato per il Psdi, uomo di Gladio dicono alcuni, affronta la medesima accusa nel processo con rito ordinario. “Era il dio della ‘ndrangheta e della politica” dice di lui Seby Vecchio, mentre Romeo da imputato si difende raccontandosi vittima di giustizialismo, pregiudizio e mistificazioni. Già condannati definitivamente per concorso esterno, numi tutelari della latitanza del terrorista nero Franco Freda, i nomi degli avvocati De Stefano e Romeo sono saltati fuori nelle inchieste sulle stragi di mafia degli anni Novanta, sulla banda della Magliana, su tentativi di golpe, sul boom delle leghe regionali. Forgiati negli anni dei Moti di Reggio che hanno preceduto il tentativo di colpo di Stato del principe nero Valerio Junio Borghese del dicembre ‘70, da allora – dicono le inchieste - sono i grandi tessitori dei destini politici ed economici della città, anche grazie ai rapporti massonici con cui hanno legato a sé grande borghesia, professionisti, politici. È pescando lì in mezzo che hanno costruito e disfatto carriere.

Politici fabbricati in serie. La carriera “di Scopelliti senza Paolo Romeo non ci sarebbe stata. Come non ci sarebbero state quelle di Umberto Pirilli, Pietro Fuda, Gianni Bilardi (che si sappia non indagati ndr) e Antonio Caridi” dice ai magistrati l’ex sottosegretario regionale Sarra, che non è un pentito ma dopo l’arresto ha iniziato ad accennare qualcosa del sistema in cui si è mosso. Di tutti “era il più spregiudicato” racconta di lui Vecchio, che proprio da Sarra è stato portato “a rapporto” da Paolo Romeo “come una presentazione, tipo ‘togliere il cappello a qualcuno’”. Nello stesso periodo, inizia a muoversi sulla scena Antonio Caridi, la “creatura” su cui la direzione strategica più ha puntato, spostandolo come una pedina fra il Comune di Reggio Calabria e il Senato. Con tanto di strategie ascoltate “in streaming” dagli investigatori che lo vedono uscire dalla casa del boss Peppe Pelle, lo scoprono a cene elettorali con i boss, da altri apprendono di incontri persino con latitanti. È così che Caridi diventa un crocevia di potere, con agganci nelle pubbliche amministrazioni, nello Stato e nelle grandi imprese. Lo spiega intercettato Antonio Gallo, l’imprenditore di recente arrestato come referente dei clan del crotonese, che ha messo nei guai persino l’ormai ex segretario nazionale dell’Udc Lorenzo Cesa e il suo assessore regionale Franco Talarico. Da loro, Gallo è andato a bussare quando nel 2016 Caridi finisce in carcere e lui necessita di nuovi referenti istituzionali per ramazzare commesse e affari in tutta Italia. Li adesca garantendo a Talarico un sicuro risultato elettorale alle politiche del 2018 nel collegio di Reggio, grazie all’apporto di uomini del clan De Stefano come Natale Errigo, che si presenta come uno “del gruppo che seguiva Caridi ovunque, anche al compleanno di Berlusconi”. E nel rimpiangere intercettato il tempo che fu, Gallo spiega tutto il sistema. Non diverso è lo schema che sta dietro al successo politico dell’ex parlamentare Amedeo Matacena jr, che da anni sverna da latitante a Dubai e con la sua fuga ha messo nei guai anche l’ex ministro dell’Interno, oggi sindaco di Imperia, Claudio Scajola, condannato per averlo aiutato. Prima di litigare con la famiglia, l’ex parlamentare era anche l’erede della holding del traghettamento Caronte, da qualche mese in amministrazione giudiziaria perché fin dalla nascita legata a quell’élite dei clan che negli anni Settanta già si mischiava con politica e professioni all’ombra delle logge. I Matacena erano in una delle più potenti– sostiene il pentito Cosimo Virgiglio - frequentata anche da “tale avvocato Romeo” come da politici, professionisti, boss. Rapporti che il padre dell’attuale latitante – dice Liuzzo – ha fatto valere quando nel 1994 ha deciso che il figlio doveva diventare deputato. “Essendo massone, il vecchio aveva promesso, in poche parole, sia di mettere a disposizione gli avvocati pagava lui, e sia che, in poche parole, aveva delle amicizie a Roma e che il processo lo faceva tornare indietro”. Risultato, spiega Liuzzo, per Amedeo, afferma, “è stata fatta una crociata. Quando è entrato in Forza Italia, lui ha avuto un boom da fare paura”. Lo hanno garantito i clan. E negli anni lo schema non è cambiato.

Era tra i 30 latitanti più pericolosi. Blitz in ospedale, arrestato il boss Francesco Pelle: "Ciccio Pakistan" in cura per il Covid. Redazione su Il Riformista il 29 Marzo 2021. Era in ospedale a Lisbona, in Portogallo, perché positivo al covid. E’ lì che i carabinieri di Reggio Calabria hanno individuato il boss Francesco Pelle, 44 anni, alias ‘Ciccio Pakistan’, protagonista della faida di San Luca e fra i primi 30 latitanti più pericolosi. Era ricercato anche all’estero dal giugno del 2019 per associazione per delinquere di tipo mafioso e omicidio. Il blitz in una clinica lusitana dove si trovava perché positivo al Covid. Il boss è ora in stato di fermo portoghese. Il prossimo passo sarà l’estradizione, a seguito della quale in Italia gli sarà notificata l’ordinanza di arresto. Francesco Pelle è accusato di aver ordinato l’omicidio di Giovanni Nirta, capo della ’ndrina rivale, che però sopravvisse all’agguato, nel corso del quale rimase uccisa Maria Strangio, moglie di Nirta. La vendetta dei Nirta arrivò nel 2007 con la strage di Duisburg. Il 19 luglio del 2019 “Ciccio Pakistan”, che si trovava a Milano con l’obbligo di dimora, fece perdere le proprie tracce dopo che la Cassazione aveva respinto il suo ricorso contro la condanna all’ergastolo come mandante della strage del Natale 2006, a cui seguì la mattanza di Duisburg nel Ferragosto dell’anno successivo.

Protagonista della faida di San Luca, arrestato per la seconda volta in ospedale. Chi è Francesco Pelle, il boss in carrozzella ferito mentre teneva in braccio il figlio. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 29 Marzo 2021. Costretto da quasi 15 anni sulla sedia a rotelle dopo un agguato subito, è in queste ore piantonato in ospedale in Portogallo il boss della ‘ndrangheta Francesco Pelle, 44 anni, ricoverato per covid all’Hospital de Sao Josè di Lisbona. Ad individuarlo, nel corso delle indagini dei carabinieri di Reggio Calabria, sono stati gli agenti dell’Unità nazionale contro il terrorismo (Unct) della polizia portoghese che hanno ricevuto le informazioni nell’ambito di ‘I Can’, il progetto della Direzione centrale della Polizia criminale in collaborazione con l’Interpool per la cattura dei latitanti e l’aggressione dei patrimoni illeciti della ‘ndrangheta. Le squadre investigative sono state attivate tramite i canali di Interpool una volta che le informazioni raccolte hanno dato la ragionevole certezza che il latitante si trovasse effettivamente ricoverato in ospedale. I Carabinieri Reparto Operativo reggino, con il Gruppo di Locri e della Compagnia di Bianco, nell’ambito delle indagini coordinate dalla Procura della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia, nelle persone del Procuratore Giovanni Bombardieri, del Procuratore Aggiunto Giuseppe Lombardo e del Sostituto Procuratore Alessandro Moffa, da tempo erano sulle tracce del latitante ed in ultimo lo avevano localizzato proprio nella penisola iberica. "Ciccio Pakistan", così come era soprannominato per via del colore olivastro della pelle, era ricercato in ambito internazionale dal 19 luglio del 2019: Pelle si trovava a Milano con l’obbligo di dimora e fece perdere le proprie tracce dopo che la Cassazione aveva respinto il suo ricorso contro la condanna all’ergastolo come mandante della morte di Maria Strangio (25 dicembre 2006), moglie di Giovanni Luca Nirta, reale obiettivo dell’agguato, nel corso della faida di San Luca tra le famiglie dei Nirta-Strangio e la cosca dei Pelle-Vottari. Nel raid vennero ferite anche tre persone tra cui un bambino. Fu la fase più cruenta della faida di San Luca. L’AGGUATO – Pochi mesi prima la sua vita cambiò definitivamente. Era il 31 luglio 2006 quando ad Africo "Ciccio Pakistan", che aveva 29 anni, venne ferito colpi di fucile mentre si trovava sul balcone di casa, insieme al figlio appena nato che teneva in braccio. I proiettili raggiunsero la spina dorsale, provocando una paralisi e costringendolo alla sedia a rotelle. La scia di sangue proseguì fino alla strage di Duisburg (o strage di Ferragosto, 15 agosto 2017), con sei morti ammazzati nella famiglia Pelle-Vottari.

LA PRIMA LATITANZA E L’ARRESTO IN OSPEDALE – “Ciccio Pakistan” divenne latitante subito dopo, ma il 18 settembre 2008 arrivò l’arresto in un ospedale di Pavia, dove si era recato per curare alcuni problemi di salute. Era ricoverato in una stanza singola della clinica alla Fondazione Maugeri di Pavia sotto falsa identità: si faceva chiamare Pasqualino, identità rubata a un altro calabrese paraplegico in seguito a un incidente stradale. Nella clinica era in riabilitazione dal mese di luglio ed era in attesa di un intervento per attutire i danni alla spina dorsale causatigli dal fucile a pallettoni nell’agguato del 2006. Un ricorso in Cassazione, poco dopo, permise a Pelle di lasciare il carcere in attesa di sentenza.

IL MATRIMONIO – Francesco Pelle ha sposato Annunziata Morabito, figlia di Giuseppe Morabito "u scassaporti", imparentato con i Morabito "i tiradrittu". Il 19 luglio 2019 quando i poliziotti si recarono nella sua abitazione, vicino all’ospedale Niguarda di Milano, trovarono solo la moglie con le valigie pronte per la fuga.

·        Cosa Nostra. 

Rinaldo Frignani per il "Corriere della Sera" il 23 novembre 2021. «Càlati juncu cà passa la china», ovvero «piegati giunco perché passa la piena». Prima che per contrastare il coronavirus, la resilienza - esaltata da questo proverbio siciliano - è stata anche un'arma in mano alla mafia. Molto prima che nel 1984 don Masino Buscetta aprisse, con il suo pentimento davanti al giudice Giovanni Falcone, uno squarcio decisivo per disegnare l'organigramma della cupola e del suo esercito. Ma se è vero che «i meriti vanno attribuiti al magistrato inquirente, dotato evidentemente di orecchie che volevano sentire; sensibile e soprattutto in grado di offrire fiducia al testimone pentito, sintonizzandosi in modo credibile nei confronti del mafioso disposto a collaborare», è altrettanto vero che «già dalla fine dell'Ottocento sapevamo molto e si erano registrati importanti approcci investigativi e accertamenti dell'autorità giudiziaria, in grado di delineare un quadro in cui si scorgevano con chiarezza i tratti salienti dell'organizzazione». «Sapevamo già tutto: Perché la mafia resiste e dovevamo combatterla prima» (Solferino Libri), è il titolo del saggio del generale di divisione Giuseppe Governale, già comandante del Ros dei carabinieri e poi direttore della Dia dal 2017 al 2020, inserito nella collana Melampo diretta da Nando dalla Chiesa. Un lungo viaggio nella storia di Cosa nostra: dai 31 rapporti inviati al procuratore del re nel 1898 dal questore di Palermo Ermanno Sangiorgi, nei quali già venivano descritti (proprio come fosse un rapporto di oggi) non solo organizzazione e metodi dei clan, ma anche le loro infiltrazioni nella Palermo che contava e a Roma, fino alla stagione dell'attacco allo Stato, passando però anche dalle confidenze del vicequestore Cesare Mori, mandato a combattere i briganti nel 1916, preoccupato dal fatto che nel resto d'Italia non si comprendesse la differenza con i mafiosi. Del resto risale al 1900 il dramma teatrale «La mafia» di Luigi Sturzo, «una testimonianza forte dei legami già allora esistenti tra mafia e istituzioni - scrive Governale nella sua introduzione - legami così forti e intensi da condizionare la giustizia». Come accertò di persona nel 1971 l'allora colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa, comandante della Legione carabinieri di Palermo nel «Rapporto giudiziario sui 114», scritto con Boris Giuliano, Giuseppe Russo ed Emanuele De Francesco (i primi tre caduti nella lotta alla mafia), dopo l'omicidio del procuratore capo Pietro Scaglione, e come scritto dieci anni prima da Leonardo Sciascia ne «Il giorno della civetta», dove la mafia non era più quella della coppola e della lupara. Anche se «essere subdoli, guardinghi, cerimoniosi, malvagi quando occorre, vendicativi oltre ogni misura», rimane la caratteristica di ieri e di oggi degli affiliati a Cosa nostra, che «come l'ago di mercurio di un termometro sale su, su per l'Italia, ed è già oltre Roma». Contro il quale non si può adottare la strategia dello «zero a zero» ma anzi sfruttare i successi - scrive ancora Governale - con «un coinvolgimento più generale della società civile, non bastando i soli sforzi investigativi: la mafia è una malattia oramai cronica, ad andamento altalenante: si combatte con il distanziamento sociale, cioè evitando l'esposizione, e con il vaccino, tenendo presenti le possibili mutazioni». Tanto più che ormai da un quarto di secolo le organizzazioni criminali «hanno scelto il tempo dell'attesa, quello dell'incudine, ma la partita è tutt' altro che vinta».

La denominazione: "Cosa nostra". Lavialibera.libera.it. Nel 1984 il pentito Tommaso Buscetta racconta al giudice Giovanni Falcone che boss e affiliati chiamano la loro organizzazione Cosa nostra. Dopo il maxiprocesso di Palermo abbiamo imparato a farlo tutti. Nata in Sicilia a metà dell’Ottocento, sbarcata in America, la mafia siciliana è tradizionalmente organizzata in famiglie, con una Cupola che raccoglie i boss dei mandamenti più importanti. È la mafia che negli ultimi 150 anni ha fatto più vittime innocenti, con un crescendo a partire dagli anni Settanta, quando le cosche corleonesi avviarono la stagione stragista. Cosa nostra oggi: l’ala militare dei clan è schiacciata dall’azione repressiva e dalla collaborazione dei pentiti; i capi corleonesi, Totò Riina e Bernardo Provenzano, sono morti in carcere; gli “scappati” sono tornati dagli Stati Uniti; cresce un’élite criminale non sempre inquadrabile secondo vecchi canoni. Matteo Messina Denaro, boss latitante di Castelvetrano (Tp), è l’ultimo grande boss in circolazione. 

Cosa nostra. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

«Cosa nostra» (nel linguaggio comune genericamente detta mafia siciliana o semplicemente mafia) è un'espressione utilizzata per indicare un'organizzazione criminale di tipo mafioso-terroristico presente in Italia, soprattutto in Sicilia e in più parti del mondo. Questo termine viene oggi utilizzato per riferirsi esclusivamente alla mafia di origine siciliana (anche per indicare le sue ramificazioni internazionali, specie negli Stati Uniti d'America, dove viene identificata come Cosa nostra statunitense, sebbene oggi entrambe abbiano diffusione a carattere internazionale), per distinguerla dalle altre associazioni ed organizzazioni mafiose. Gli interventi di contrasto da parte dello Stato italiano si sono fatti più decisi a partire dagli anni ottanta del XX secolo, attraverso le indagini del cosiddetto "pool antimafia" creato dal giudice Rocco Chinnici e in seguito diretto da Antonino Caponnetto. Facevano parte del pool anche i magistrati Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Storia. Dalle origini al Regno delle Due Sicilie. Nel significato criminale conosciuto oggi «Cosa nostra» nacque probabilmente nei primi anni del XIX secolo dal ceto sociale dei massari, dei "fattori" e dei gabellotti, che gestivano i terreni della nobiltà siciliana, avvalendosi dei braccianti che vi lavoravano, anche se in verità potrebbe essere molto più antica, dato che il feudo con tutto ciò che ne consegue, esiste in Sicilia fin dall'epoca normanna. Cosa nostra nacque perché fu da sempre sistema di potere e integrato con il potere politico-economico ufficiale vigente, iniziando così ad assumerne per suo conto le funzioni e le veci Una delle prime descrizioni (la prima di un certo rilievo) del fenomeno fu nel 1838 in un documento redatto in Sicilia dal funzionario del Regno delle Due Sicilie, Pietro Calà Ulloa, che a proposito del fenomeno scrisse: «Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di fare esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, orfatto moltiplicare il numero dei reati. [...] Così come accadono i furti escono i mediatori ad offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito» (Rapporto giudiziario del procuratore generale Pietro Calà Ulloa) I gabellotti rappresentavano il gruppo sociale nuovo nelle campagne siciliane del primo Ottocento. Essi erano i discendenti dei "servi" del feudatario e provenivano dalla corte dei signori; alcuni - pochi - fra essi guadagnavano tanto da arrivare a comprare interi feudi o parti di cui il signore si liberava; fra di loro nacquero i "baroni", che, con la terra, compravano il titolo dai feudatari in difficoltà economiche. Erano in stragrande maggioranza "capitalisti" ma non proprietari, perché la terra era ancora in mano ai nobili; i gabellotti possedevano il denaro contante, le sementi, le macchine agricole, il bestiame; soprattutto dalle loro file uscivano i preti, gli avvocati, i medici. Erano in prima linea, insieme coi nobili, in quella usurpazione e occupazione delle terre demaniali e degli usi civici che i contadini patiranno senza avere le armi per opporsi. Era loro necessaria una violenza privata: qualcuno che sorvegliava l'andamento dei lavori, qualcuno che riscuoteva gli affitti anche con la forza, qualcuno che proteggeva fisicamente la terra; le guardie dei gabellotti, anche dai titoli, richiamavano funzioni della vecchia feudalità: curatoli, campieri e via dicendo. Gabellotti e loro dipendenti erano gli unici a cavallo ed armati nelle campagne siciliane. I gabellotti segnarono il passare del tempo nelle arcaiche comunità agrarie della Sicilia: avevano un potere enorme, fare e disfare matrimoni, dare e togliere lavoro. Dentro il feudo, ma sotto tutti - e proprio quasi dentro gli inferi - stavano i braccianti "senza fuoco, né tetto", figli dell'abolizione della servitù della gleba iniziata nel 1781, o, nella sola Palermo, "40.000 proletari la cui sussistenza dipendeva dal caso o dal capriccio dei Grandi": una plebe cioè dalla miseria infinita quanto infinito è lo sfruttamento che le classi superiori esercitavano. In città, l'ordine pubblico era assicurato dai gendarmi del re; tradizionale diventerà per i Borboni anche l'impiego e l'arruolamento di "malandrini" dentro la polizia, in quanto essi - cosa non sconosciuta alla Francia di Luigi Filippo – erano considerati i più adatti per arrestare i malandrini ufficiali: si tratta di una polizia molto violenta e odiata, che non usava mezze misure e che aveva rapporti "diretti" con la malavita; essa diventerà ancora più occhiuta quando i Borboni le chiederanno di sorvegliare "i politici". In campagna imperversavano "i briganti", nei cui ranghi confluivano i contadini inferociti dalla fame e ribelli alla loro miseria. Contro i briganti, i signori usavano "i bravi", cioè quei loro servi bravi e addestrati nell'uso delle armi. Nel 1812 i Borboni abolirono la feudalità in Sicilia, ma stabilirono - sicuramente su imposizione dei nobili siciliani – che "tutte le proprietà, diritti e pertinenze in avanti feudali" rimanessero "giuste le rispettive concessioni" in proprietà "allodiali", cioè in proprietà economiche individuali. Quindi il feudo, nonostante altre misure legislative del 1838, resterà in vita fino al 1860, quando nel nuovo Regno d'Italia la terra della Sicilia occidentale (Palermo, Trapani, Agrigento) per il 90 per cento risulterà ancora in mani feudali. Fino al 1860, dunque, i gabellotti furono il perno dell'economia quasi esclusivamente agricola della Sicilia occidentale. In tutti questi anni, anche all'interno di una dipendenza "personale" dal signore feudale, i gabellotti seppero consolidare la loro posizione sociale, perché provvidero a tramandare all'interno delle loro famiglie e i redditi e lo stesso mestiere di gabellotto. Sempre nel 1812 i feudatari siciliani imposero al Borbone di Napoli di istituire "Compagnie d'armi" per stanare i briganti nelle campagne. Le Compagnie erano gruppi, armati e a cavallo, di privati che non facevano parte di una polizia ufficiale; essi venivano reclutati sul posto e quindi provenivano o dai bravi o dalle guardie dei gabellotti, conservandosi sotto le personali influenze dei nobili e dei gabellotti stessi. Nelle campagne siciliane sotto i Borboni si fronteggiavano tre "eserciti": i briganti, le Compagnie d'armi, i gabellotti e i loro uomini che più direttamente proteggevano "i burgesi", cioè gli abitanti del borgo. I rapporti fra questi tre gruppi armati furono contemporaneamente di conflitto e di comunione d'interessi; agli ammazzamenti generali si alternavano l'acquisto di bestiame e di merce rubata che il gruppo dei gabellotti faceva dai banditi; la non aggressione che i compagni d'arme garantivano ad alcune comunità previo pagamento anticipato di una congrua somma; l'incarico che poteva essere contratto con i briganti di andare a fare razzie e atti di terrorismo in altre zone e magari specificamente contro quel feudo o quel proprietario, in maniera che da quella aggressione il mandante occulto avesse i suoi vantaggi; i sequestri di persona che ai briganti fornivano lauti riscatti in denaro contante. E questa situazione generale fu tanto forte e radicata che anche i feudatari la subirono sulla propria pelle e sui propri beni. Già prima del 1840 i Borboni - signori di una "monarchia amministrativa" simile al regime asburgico - furono apertamente e specificamente informati di situazioni ormai cronicizzate. Lodovico Bianchini - alto e colto funzionario borbonico - avvertì Napoli che nelle campagne siciliane quasi tutti i proprietari pagavano "le componende", una cifra annuale per tenere calmi i banditi. Pietro Calà Ulloa, procuratore del re a Trapani, avvisò Napoli che "vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze - specie di sette - che dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente là un arciprete. Una cassa sovviene ai bisogni di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora d'incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo". In questa situazione, allora, di mafia ce n'è tanta nella Sicilia prima dell'Unità. Ma gli stessi gabellotti - pure se alcuni fra essi entrarono nel ceto dei "cavaleri", di quelli che non si sporcano le mani per campare - non ebbero mai nella Sicilia di quegli anni uno sbocco pubblico e restarono "sotto" i feudatari e i nobili siciliani, che conservavano nelle loro mani a Palermo tutto il potere ufficiale o ufficioso, sia con incarichi governativi, sia agendo come gruppi di pressione sul viceré o contro i Borboni. Ma – come ha osservato lo storico Virgilio Titone - questi nobili e i borghesi loro assimilati fecero politica con sistemi particolari. All'ombra di studi anche pregevoli, o di incontri e discussioni accanitissime da cui sortivano "programmi e proclami", i nobili siciliani non nascosero mai la paternità dei loro movimenti politici e coraggiosamente presero, dai Borboni, carcere e morte. Ma i nobili rifiutarono sempre di sporcarsi le mani nell'esecuzione materiale dei loro propositi. Così, nel 1860 i giovani nobili siciliani aiutarono in maniera decisiva Garibaldi, ma rimbrottarono aspramente "i sensali di cavalli" che, arruolati dagli stessi nobili, chiedevano se anche i signori sarebbero scesi in piazza.

L'unità d'Italia. Nel 1863 Giuseppe Rizzotto scrive, con la collaborazione del maestro elementare Gaspare Mosca, I mafiusi de la Vicaria, un'opera teatrale in siciliano ambientata nelle Grandi Prigioni di Palermo che aveva come protagonisti un gruppo di detenuti che godevano «di uno speciale rispetto da parte dei compagni di prigione perché mafiosi, membri come tali di un'associazione a delinquere, con gerarchie e con specifiche usanze, tra le quali veri e propri riti di iniziazione». È a partire da questo dramma, che ebbe grande successo e venne tradotto in italiano, napoletano e meneghino, che il termine mafia si diffonde su tutto il territorio nazionale. Lo sviluppo della criminalità organizzata in Sicilia si ha anche dopo l'Unità d'Italia. Lo Stato italiano, non riusciva a garantire un controllo diretto e stabile del governo dell'isola (la cui organizzazione sociale era molto diversa da quella settentrionale); funzionari statali cominciarono a fare affidamento sulle cosche mafiose che, ben conoscendo i meccanismi locali, facilmente presero le veci del governo centrale. Tuttavia, con il pretesto di proteggere gli agricoltori e contadini dal malgoverno feudale e dalla nobiltà, i mafiosi costrinsero gli agricoltori a pagare gli interessi per il contratto di locazione e a mantenere l'omertà. La prima analisi esaustiva in cui venne espressamente usato il termine mafia fu compiuta nel 1876 da Leopoldo Franchetti, dopo la celebre inchiesta compiuta insieme a Sidney Sonnino, che venne pubblicata con il titolo Condizioni politiche e amministrative della Sicilia. Uno dei più clamorosi processi di quegli anni fu quello tenutosi nel 1885 contro gli affiliati alla "Fratellanza di Favara", una cosca mafiosa operante nella provincia di Agrigento che aveva un rituale di iniziazione, il quale avveniva pungendo l'indice dei nuovi membri per poi tingere con il sangue un'immagine sacra, che veniva bruciata mentre l'iniziato recitava una formula di giuramento: tale cerimonia di affiliazione era tipica delle cosche mafiose di Palermo, a cui numerosi membri della "Fratellanza" erano stati affiliati nel 1879, durante la prigionia con mafiosi palermitani nel carcere di Ustica. Nel 1893, in seguito al delitto Notarbartolo, l'esistenza di Cosa nostra (e dei suoi rapporti con la politica) divenne nota in tutta Italia.

Le rivendicazioni agricole. Anche se non più con un regime feudale, nelle campagne siciliane gli agricoltori erano ancora sfruttati. I grandi proprietari terrieri risiedevano a Palermo o in altre grandi città e affittavano i loro terreni a gabellotti con contratti a breve termine, che, per essere redditizi, costringevano il gabellotto a sfruttare i contadini. Per evitare rivolte e lavorare meglio, al gabellotto conveniva allearsi con i mafiosi, che da un lato offrivano il loro potere coercitivo contro i contadini, dall'altro le loro conoscenze a Palermo, dove si siglavano la maggioranza dei contratti agricoli. A partire dal 1891 in tutta la Sicilia gli agricoltori si unirono in fasci, sorta di sindacati agricoli guidati dai socialisti locali, chiedendo contratti più equi e una distribuzione più adeguata della ricchezza. Non si trattava di movimenti rivoluzionari in senso stretto ma essi furono comunque condannati dal governo di Roma che, nella persona di Crispi, nel 1893 inviò l'esercito per scioglierli con l'uso della forza. Giuseppe de Felice Giuffrida, considerato il fondatore dei fasci siciliani, venne processato e imprigionato. Poco prima che fossero sciolti, la mafia aveva cercato di infilare alcuni suoi uomini in queste organizzazioni in modo che, se mai avessero avuto successo, essa non avrebbe perso i suoi privilegi; continuò però anche ad aiutare i gabellotti cosicché, chiunque fosse uscito vincitore, essa ci avrebbe guadagnato fungendo da mediatrice tra le parti. Quando fu chiaro che lo Stato sarebbe intervenuto con la legge marziale, la "Fratellanza", detta anche "Onorata Società" (due dei termini usati all'epoca per identificare Cosa nostra), si distaccò dai fasci (che avevano tentato in tutti i modi di evitare la penetrazione di mafiosi nelle loro file, spesso riuscendoci) e anzi aiutò il governo nella sua repressione. Come "vendetta" per l'azione dei Fasci, che voleva mettere in discussione il potere dei latifondisti, nel 1915 a Corleone i mafiosi uccisero Bernardino Verro, che era stato tra i più accesi animatori del movimento dei Fasci siciliani negli anni novanta del XIX secolo. Durante la presidenza di Giovanni Giolitti si permise alle cooperative di chiedere prestiti alle banche e di intraprendere da sole, senza gabellotti, contratti diretti coi proprietari terrieri. Questo, insieme alla nuova legge elettorale del suffragio universale maschile, portò non solo alla vittoria di diversi sindaci socialisti in varie città siciliane, ma anche all'eliminazione del ruolo mafioso nella mediazione per i contratti. Tuttavia "con Giolitti la mafia, assieme ai poteri forti (massoneria deviata, vecchia aristocrazia, borghesia eroica), monopolizzò tutta la vita economica e politica dell'isola, infatti gli appalti ed i finanziamenti alle imprese industriali e agrarie erano pilotati, così come le elezioni politiche ed amministrative". Per stroncare il pericolo "rosso", la mafia dovette allearsi con la Chiesa cattolica siciliana, anch'essa preoccupata per gli sviluppi dell'ideologia marxista materialista nelle campagne. Le cooperative cattoliche quindi non si chiusero ad infiltrazioni mafiose, a patto che questi ultimi scoraggiassero in tutti i modi i socialisti. Nel primo quindicennio del Novecento si iniziarono a contare le prime vittime socialiste ad opera della mafia, che assassinava sindaci, sindacalisti, preti, attivisti e agricoltori indisturbatamente. Il tema delle terre negate ai contadini resterà uno dei principali motivi di scontro sociale in Sicilia fino al secondo dopoguerra.

Il rapporto Sangiorgi.Al fine di contrastare il fenomeno, venne inviato in Sicilia Ermanno Sangiorgi, in veste di questore a Palermo nel 1898 mentre era in corso una guerra di mafia, iniziata due anni prima, nel 1896. Indagando sui delitti commessi dalle cosche della Conca d'Oro, Sangiorgi capì che gli omicidi non erano il prodotto di iniziative individuali, ma implicavano leggi, decisioni collegiali, e un sistema di controllo territoriale. Sangiorgi scoprì inoltre che le due famiglie più ricche di Palermo, i Florio e i Whitaker, vivevano fianco a fianco con i mafiosi della Conca d'Oro, che venivano assunti come guardiani e fattori nelle loro tenute e pagati per ricevere "protezione". Nell'ottobre 1899 Francesco Siino, capo della cosca di Malaspina sfuggito miracolosamente a una sparatoria tesagli dagli uomini di Antonino Giammona, capo della cosca dell'Uditore, nel contesto dalla guerra di mafia, venne messo alle strette da Sangiorgi e confessò che il suo avversario Giammona gli contendeva i racket del commercio di limoni, delle rapine, delle estorsioni e della falsificazione delle banconote. Inoltre dichiarò che la Conca d'Oro era divisa in otto cosche mafiose: Piana dei Colli, Acquasanta, Falde, Malaspina, Uditore, Passo di Rigano, Perpignano, Olivuzza.

Sangiorgi, in base a queste dichiarazioni, firmò molti mandati di cattura. La notte tra il 27 e il 28 aprile 1900 la Questura fece arrestare diversi mafiosi, tra cui Antonino Giammona. Alla procura di Palermo, Sangiorgi inviò un rapporto di 485 pagine che conteneva una mappa dell'organizzazione della mafia palermitana con un totale di 280 "uomini d'onore". Il processo cominciò nel maggio 1901 ma Siino ritrattò completamente le sue dichiarazioni. Dopo solo un mese, giunsero le condanne di primo grado: soltanto 32 imputati furono giudicati colpevoli di aver dato vita a un'associazione criminale e, tenuto conto del tempo già trascorso in carcere, molti furono rilasciati il giorno dopo.

La prima guerra mondiale e le sue conseguenze. Nel 1915 l'Italia entrò nella prima guerra mondiale; vennero chiamati alle armi centinaia di migliaia di giovani da tutto il paese. In Sicilia i disertori furono numerosi: essi abbandonarono le città e si dettero alla macchia all'interno dell'isola, vivendo per lo più di rapine. A causa della mancanza di braccia per l'agricoltura e della sempre maggiore richiesta di soldati dal fronte, moltissimi terreni vennero adibiti al pascolo. Queste due condizioni fecero aumentare enormemente l'influenza di Cosa nostra in tutta l'isola. Aumentati i furti di bestiame, i proprietari terrieri si rivolsero sempre più spesso ai mafiosi, piuttosto che alle impotenti autorità statali, per farsi restituire almeno in parte le mandrie. I boss, nei loro abituali panni, si prestavano a mediare tra i banditi e le vittime, prendendo una percentuale per il loro lavoro. Alla fine della prima guerra mondiale, l'Italia dovette affrontare un momento di crisi, che rischiò di sfociare in una vera e propria rivolta popolare, ad imitazione della recente rivoluzione russa. Al nord gli operai scioperarono chiedendo migliori condizioni di lavoro, al sud sono i giovani appena tornati a casa a lamentarsi per le promesse non mantenute dal governo (in particolar modo quelle relative alla terra). Moltissimi quindi andarono ad ingrossare le file dei banditi, altri entrarono direttamente nella mafia e altri ancora cercarono di riformare i fasci o comunque parteciparono ai consigli socialisti siciliani. Fu in questo clima di tensione che il fascismo fece la sua comparsa.

Il ventennio fascista. Il fascismo iniziò una campagna contro i mafiosi siciliani, subito dopo la prima visita di Benito Mussolini in Sicilia nel maggio del 1924. Il 2 giugno dello stesso anno venne inviato in Sicilia Cesare Mori, prima come prefetto di Trapani, poi a Palermo dal 22 ottobre 1925, soprannominato il Prefetto di ferro, con l'incarico di sradicare la mafia con qualsiasi mezzo. L'azione del Mori fu dura. Centinaia e centinaia furono gli uomini arrestati e finalmente condannati. Celebre è l'assedio di Gangi in cui Mori assediò per quattro mesi il centro cittadino, in quanto esso era considerato una delle roccaforti mafiose. In questo periodo venne arrestato il boss Vito Cascio Ferro. Dopo alcuni arresti eclatanti di capimafia, anche i vertici di Cosa nostra non si sentivano più al sicuro e scelsero due vie per salvarsi: una parte emigrò negli USA, andando ad ingrossare le file di Cosa nostra statunitense, mentre un'altra restò in disparte. Il "prefetto di ferro" scoprì anche collegamenti con personalità di spicco del fascismo come Alfredo Cucco, che fu espulso dal PNF. Nel 1929 Mori fu nominato senatore e collocato a riposo. I limiti della sua azione fu lui stesso a riconoscerli in tempi successivi: l'accusa di mafia veniva spesso avanzata per compiere vendette o colpire individui che nulla c'entravano con la mafia stessa, come fu con Cucco e con il generale Antonino Di Giorgio. Il carabiniere Francesco Cardenti così riferisce: "Il barone Li Destri al tempo della maffia era appoggiato forte ai briganti che adesso si trovano carcerati a Portolongone (Elba) se qualcuno passava dalla sua proprietà che è gelosissimo diceva: Non passare più dal mio terreno altrimenti ti faccio levare dalla circolazione, adesso che i tempi sono cambiati e che è amico della autorità [...] Non passare più dal mio terreno altrimenti ti mando al confino." I mezzi usati dalla Polizia nelle numerose azioni condotte per sgominare il fenomeno mafioso portarono ad un aumento della sfiducia della popolazione nei confronti dello Stato. Mori fu comunque il primo investigatore italiano a dimostrare che la mafia può essere sconfitta con una lotta senza quartiere, come sosterrà successivamente anche Giovanni Falcone. La mafia non appare tuttavia sconfitta dall’azione di Mori. Nel 1932, nel centro di Canicattì, vengono consumati tre omicidi (le cui modalità di esecuzione ed il mistero profondo in cui rimangono tuttora avvolti rimandano a delitti tipici di organizzazioni mafiose); intorno a Partinico, alla metà degli anni trenta, si verificarono incendi, danneggiamenti, omicidi [...] a sfondo eminentemente associativo; ma si potrebbero citare molti altri episodi dei quali la stampa non parla, cui il regime risponde con qualche condanna alla fucilazione e con una nuova ondata di invii al confino. Alcuni mafiosi erano membri del PNF, a conoscenza e con il favore di Benito Mussolini. Il principe Lanza di Scalea fu uno dei candidati nelle liste del PNF per le amministrative di Palermo mentre a Gangi il barone Antonio Li Destri, pure candidato del PNF, era protettore di banditi e delinquenti. Mori non ha sconfitto la mafia. Altri mafiosi iscritti al PNF erano Sgadari e Mocciano. Nel 1937 Genovese venne accusato di aver ordinato l'omicidio del gangster Ferdinando "Fred" Boccia, che era stato assassinato perché aveva preteso per sé una grossa somma che lui e Genovese, barando al gioco, avevano sottratto ad un commerciante; per evitare il processo, Genovese fuggì in Italia, dove si stabilì a Nola. Tramite le sue frequentazioni, conobbe alcuni gerarchi fascisti, finanziando anche la costruzione di una "Casa del Fascio" a Nola, inoltre si presume che Genovese fosse il rifornitore di cocaina di Galeazzo Ciano, il genero di Mussolini.

La seconda guerra mondiale, il separatismo e i moti contadini. Esistono teorie che affermano che il mafioso statunitense Lucky Luciano venne arruolato per facilitare lo sbarco alleato in Sicilia (luglio 1943) e su questo indagò pure la Commissione d'inchiesta statunitense sul crimine organizzato presieduta dal senatore Estes Kefauver (1951), la quale giunse a queste conclusioni:«Durante la seconda guerra mondiale si fece molto rumore intorno a certi preziosi servigi che Luciano, a quel tempo in carcere, avrebbe reso alle autorità militari in relazione a piani per l'invasione della sua nativa Sicilia. Secondo Moses Polakoff, avvocato difensore di Meyer Lansky, la Naval Intelligence aveva richiesto l'aiuto di Luciano, chiedendo a Polakoff di fare da intermediario. Polakoff, il quale aveva difeso Luciano quando questi venne condannato, disse di essersi allora rivolto a Meyer Lansky, antico compagno di Luciano; vennero combinati quindici o venti incontri, durante i quali Luciano fornì certe informazioni». Infatti la Commissione Kefauver accertò che nel 1942 Luciano (all'epoca detenuto) offrì il suo aiuto al Naval Intelligence per indagare sul sabotaggio di diverse navi nel porto di Manhattan, di cui furono sospettate alcune spie naziste infiltrate tra i portuali; in cambio della sua collaborazione, Luciano venne trasferito in un altro carcere, dove venne interrogato dagli agenti del Naval Intelligence e si offrì anche di recarsi in Sicilia per prendere contatti in vista dello sbarco, progetto comunque non andato in porto. È quasi certo che la collaborazione di Luciano con il governo statunitense sia finita qui, anche se lo storico Michele Pantaleone sostenne di oscuri accordi con il boss mafioso Calogero Vizzini per il tramite di Luciano al fine di facilitare l'avanzata americana, smentito però da altre testimonianze: infatti numerosi storici liquidano l'aiuto della mafia allo sbarco alleato come un mito perché avvenne in zone dove la presenza mafiosa era tradizionalmente assente ed inoltre gli angloamericani avevano mezzi militari superiori agli italo-tedeschi da non aver bisogno dell'aiuto della mafia per sconfiggerli. In un rapporto del 29 ottobre 1943, firmato dal capitano americano W.E. Scotten, si legge che in quel periodo l'organizzazione mafiosa «è più orizzontale [...] che verticale [...] in una certa misura disaggregata e ridotta a una dimensione locale» in seguito alla repressione del periodo fascista. Tuttavia, dopo la liberazione della Sicilia, l'AMGOT, il governo militare alleato dei territori occupati, era alla ricerca di antifascisti da sostituire alle autorità locali fasciste e decise di privilegiare i grandi proprietari terrieri e i loro gabellotti mafiosi, che si presentavano come vittime della repressione fascista: ad esempio il barone Lucio Tasca Bordonaro venne nominato sindaco di Palermo, il mafioso Calogero Vizzini sindaco di Villalba, Giuseppe Genco Russo sovrintendente all'assistenza pubblica di Mussomeli e Vincenzo Di Carlo (capo della cosca di Raffadali) responsabile dell'ufficio locale per la requisizione dei cereali. Nello stesso periodo emergeva il Movimento per l'Indipendenza della Sicilia, la prima organizzazione politica a mobilitarsi attivamente durante l'AMGOT, i cui leader furono soprattutto i grandi proprietari terrieri, tra cui spiccò il barone Lucio Tasca Bordonaro (in seguito indicato come un capomafia in un rapporto dei Carabinieri). Infatti numerosi boss mafiosi, fra cui Calogero Vizzini, Giuseppe Genco Russo, Michele Navarra e Francesco Paolo Bontate, confluirono nel MIS come esponenti agrari e da questa posizione ottennero numerosi incarichi pubblici e vantaggi, da cui poterono esercitare con facilità le attività illecite del furto di bestiame, delle rapine e del contrabbando di generi alimentari. Nell'autunno 1944 il decreto del ministro dell'agricoltura Fausto Gullo (che faceva parte del provvisorio governo italiano subentrato all'AMGOT) stabiliva che i contadini avrebbero ottenuto una quota più grande dei prodotti della terra che coltivavano come affittuari e venivano autorizzati a costituire cooperative e a rilevare la terra lasciata improduttiva. L'applicazione di tale normativa produsse uno scontro sociale tra i proprietari terrieri conservatori (spalleggiati dai loro gabellotti mafiosi) e i movimenti contadini guidati dai leader sindacali, tra i quali spiccarono Accursio Miraglia, Placido Rizzotto e Calogero Cangelosi, che vennero barbaramente assassinati dai mafiosi insieme a molti altri capi del movimento contadino che in quegli anni lottarono per la terra negata. Intanto nella primavera 1945 l'EVIS, il progettato braccio armato del MIS, assoldò il bandito Salvatore Giuliano (capo di una banda di banditi associata al boss mafioso Ignazio Miceli, capomafia di Monreale), che compì imboscate e assalti alle caserme dei carabinieri di Bellolampo, Pioppo, Montelepre e Borgetto per dare inizio all'insurrezione separatista; anche il boss Calogero Vizzini (che all'epoca era il rappresentante mafioso della provincia di Caltanissetta) assoldò la banda dei "Niscemesi", guidata dal bandito Rosario Avila, che iniziò azioni di guerriglia compiendo imboscate contro le locali pattuglie dei Carabinieri. Nel 1946 il MIS decise di entrare nella legalità ma ciò non fermò il bandito Giuliano e la sua banda, che continuarono gli attacchi contro le caserme dei Carabinieri e le leghe dei movimenti contadini, che culminarono nella strage di Portella della Ginestra (1º maggio 1947), contro i manifestanti socialisti e comunisti a Piana degli Albanesi (provincia di Palermo), in cui moriranno 11 persone e altre 27 rimarranno ferite. Infine la banda Giuliano sarà smantellata dagli arresti operati dal Comando forze repressione banditismo, guidato dal colonnello Ugo Luca, che si servì delle soffiate di elementi mafiosi per catturare i banditi: lo stesso Giuliano verrà ucciso nel 1950 dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, il quale era segretamente diventato anch'egli un informatore del colonnello Luca. In seguito Pisciotta venne arrestato ed accusò apertamente i deputati Bernardo Mattarella, Gianfranco Alliata di Montereale, Tommaso Leone Marchesano e Mario Scelba di essere i mandanti della strage di Portella della Ginestra ma morì avvelenato nel carcere dell'Ucciardone nel 1954.

Il dopoguerra e la speculazione edilizia. Nel 1950 venne varata la legge per la riforma agraria, che limitava il diritto alla proprietà terriera a soli 200 ettari ed obbligava i proprietari terrieri ad effettuare opere di bonifica e trasformazione: vennero istituiti l'ERAS (Ente per la Riforma Agraria in Sicilia) e numerosi consorzi di bonifica, la cui direzione venne affidata a noti mafiosi come Calogero Vizzini, Giuseppe Genco Russo e Vanni Sacco, i quali realizzarono enormi profitti incassando gli indennizzi degli appezzamenti ceduti all'ERAS e poi rivenduti ai singoli contadini. La riforma agraria comportò lo smembramento della grande proprietà terriera (importante per gli interessi dei mafiosi, che dopo la riforma riuscirono a rivendere i feudi a prezzo maggiorato all'ERAS) e la riduzione del peso economico dell'agricoltura a favore di altri settori come il commercio o il terziario del settore pubblico. In questo periodo l'amministrazione pubblica in Sicilia divenne l'ente più importante in fatto di economia: dal 1950 al 1953 i dipendenti regionali passarono da circa 800 ad oltre 1 350 a Palermo (sede del nuovo governo regionale), la quale era devastata dai bombardamenti del 1943 e 40 000 suoi abitanti, che avevano avuto la casa distrutta, richiedevano nuove abitazioni. Il nuovo piano di ricostruzione edilizia però si rivelò un fallimento e sfociò in quello che venne chiamato «sacco di Palermo»: infatti quegli anni vedevano l'ascesa dei cosiddetti “Giovani Turchi” democristiani Giovanni Gioia, Salvo Lima e Vito Ciancimino, i quali erano strettamente legati ad esponenti mafiosi ed andarono ad occupare le principali cariche dell'amministrazione locale; durante il periodo in cui prima Lima e poi Ciancimino furono assessori ai lavori pubblici di Palermo, il nuovo piano regolatore cittadino sembrò andare in porto nel 1956 e nel 1959 ma furono apportati centinaia di emendamenti, in accoglimento di istanze di privati cittadini (molti dei quali in realtà erano uomini politici e mafiosi, a cui si aggiungevano parenti e associati), che permisero l'abbattimento di numerose residenze private in stile Liberty costruite alla fine dell'Ottocento nel centro di Palermo. In particolare, nel periodo in cui Ciancimino fu assessore (1959-64), delle 4 000 licenze edilizie rilasciate, 1 600 figurarono intestate a tre prestanome, che non avevano nulla a che fare con l'edilizia, e furono anche favoriti noti costruttori mafiosi (Francesco Vassallo e i fratelli Girolamo e Salvatore Moncada), che riuscirono a costruire edifici che violavano le clausole dei progetti e delle licenze edilizie. Inoltre nell'immediato dopoguerra numerosi mafiosi americani (Lucky Luciano, Joe Adonis, Frank Coppola, Nick Gentile, Frank Garofalo) si trasferirono in Italia e divennero attivi soprattutto nel traffico di stupefacenti verso il Nordamerica, stabilendo collegamenti con i gruppi mafiosi palermitani (Angelo La Barbera, Salvatore Greco, Antonino Sorci, Tommaso Buscetta, Pietro Davì, Rosario Mancino e Gaetano Badalamenti) e trapanesi (Salvatore Zizzo, Giuseppe Palmeri, Vincenzo Di Trapani e Serafino Mancuso), i quali incettavano sigarette estere ed eroina presso i contrabbandieri corsi e tangerini. Nell'ottobre 1957 si tennero una serie di incontri presso il Grand Hotel et des Palmes di Palermo tra mafiosi americani e siciliani (Gaspare Magaddino, Cesare Manzella, Giuseppe Genco Russo ed altri): gli inquirenti dell'epoca sospettarono che si incontrarono per concordare l'organizzazione del traffico degli stupefacenti, dopo che la rivoluzione castrista a Cuba (1956-57) aveva privato i mafiosi siciliani ed americani di quell'importante base di smistamento per l'eroina. Secondo il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, nel 1957 il mafioso siculo-americano Joseph Bonanno (che si trovava in visita a Palermo) prospettò l'idea di creare una «Commissione» sul modello di quella dei mafiosi americani, di cui dovevano fare parte tutti i capi dei "mandamenti" della provincia di Palermo e doveva avere il compito di dirimere le dispute tra le singole Famiglie della provincia.

La "prima guerra di mafia" e la Commissione parlamentare antimafia. Lo stesso argomento in dettaglio: Prima guerra di mafia e Commissione parlamentare antimafia. Le tensioni latenti riguardo agli affari illeciti e al territorio sfociarono nell'uccisione del boss Calcedonio Di Pisa (26 dicembre 1962), che ruppe una fragile tregua raggiunta tra i principali mafiosi palermitani del tempo; l'omicidio venne compiuto da Michele Cavataio (capo della Famiglia dell'Acquasanta), che voleva fare ricadere la responsabilità sui fratelli Angelo e Salvatore La Barbera (temibili mafiosi di Palermo Centro): infatti, dopo l'assassinio di Di Pisa, Salvatore La Barbera rimase vittima della «lupara bianca» su ordine della "Commissione" e ciò scatenò una serie di omicidi, sparatorie ed autobombe; Cavataio approfittò della situazione di conflitto per sbarazzarsi dei suoi avversari e per queste ragioni si associò ai boss Pietro Torretta ed Antonino Matranga (rispettivamente capi delle Famiglie dell'Uditore e di Resuttana): gli omicidi compiuti da Cavataio e dai suoi associati culminarono nella strage di Ciaculli (30 giugno 1963), in cui morirono sette uomini delle forze dell'ordine dilaniati dall'esplosione di un'autobomba che stavano disinnescando e che era destinata al mafioso rivale Salvatore "Cicchiteddu" Greco (capo del "mandamento" di Brancaccio-Ciaculli. La strage di Ciaculli provocò molto scalpore nell'opinione pubblica italiana e nei mesi successivi vi furono circa duemila arresti di sospetti mafiosi nella provincia di Palermo: per queste ragioni, secondo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Antonino Calderone, la "Commissione" di Cosa nostra venne sciolta e molte cosche mafiose decisero di sospendere le proprie attività illecite. Nello stesso periodo la Commissione Parlamentare Antimafia iniziava i suoi lavori, raccogliendo notizie e dati necessari alla valutazione del fenomeno mafioso, proponendo misure di prevenzione e svolgendo indagini su casi particolari, e concluderà queste indagini soltanto nel 1976, dopo numerosi dibattiti e polemiche. Intanto si svolsero alcuni processi contro i protagonisti dei conflitti mafiosi di quegli anni arrestati in seguito alla strage di Ciaculli: numerosi mafiosi vennero giudicati in un processo svoltosi a Catanzaro per legittima suspicione nel 1968 (il famoso "processo dei 117"); in dicembre venne pronunciata la sentenza ma solo alcuni ebbero condanne pesanti e il resto degli imputati furono assolti per insufficienza di prove o condannati a pene brevi per il reato di associazione a delinquere e, siccome avevano aspettato il processo in stato di detenzione, furono rilasciati immediatamente; un altro processo si svolse a Bari nel 1969 contro i protagonisti di una faida mafiosa avvenuta a Corleone alla fine degli anni cinquanta: gli imputati vennero tutti assolti per insufficienza di prove e un rapporto della Commissione Parlamentare Antimafia criticò aspramente il verdetto. Nel marzo 1973 Leonardo Vitale, membro della cosca di Altarello di Baida, si presentò spontaneamente alla questura di Palermo e dichiarò agli inquirenti che stava attraversando una crisi religiosa e intendeva cominciare una nuova vita; infatti si autoaccusò di numerosi reati, rivelando per primo l'esistenza di una "Commissione" e descrivendo anche il rito di iniziazione di Cosa nostra e l'organizzazione di una cosca mafiosa: si trattava del primo mafioso del dopoguerra che decideva di collaborare apertamente con le autorità e il caso venne citato nella relazione di minoranza della Commissione Parlamentare Antimafia (redatta nel 1976). Tuttavia Vitale non venne ritenuto credibile e la sua pena commutata in detenzione in un manicomio criminale perché dichiarato "seminfermo di mente"; scontata la pena e dimesso, Vitale verrà ucciso nel 1984.

La stagione dei grandi traffici. Dopo la fine dei grandi processi, venne decisa l'eliminazione di Michele Cavataio poiché era il principale responsabile di molti delitti della "prima guerra di mafia", compresa la strage di Ciaculli, che avevano provocato la dura repressione delle autorità contro i mafiosi: per queste ragioni, il 10 dicembre 1969 un gruppo di fuoco composto da mafiosi di Santa Maria di Gesù, Corleone e Riesi (Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Calogero Bagarella, Emanuele D'Agostino, Gaetano Grado, Damiano Caruso) trucidò Cavataio nella cosiddetta «strage di viale Lazio». Dopo l'uccisione di Cavataio, nel 1970 si tennero una serie di incontri a Zurigo, Milano e Catania, a cui parteciparono mafiosi della provincia di Palermo (Salvatore Greco, Gaetano Badalamenti, Stefano Bontate, Tommaso Buscetta, Luciano Liggio) e di altre province (Giuseppe Calderone, capo della Famiglia di Catania, e Giuseppe Di Cristina, rappresentante mafioso della provincia di Caltanissetta subentrato al boss Giuseppe Genco Russo), i quali discussero sulla ricostruzione della "Commissione" e sull'implicazione dei mafiosi siciliani nel Golpe Borghese in cambio della revisione dei processi a loro carico; Calderone e Di Cristina stessi andarono a Roma per incontrare il principe Junio Valerio Borghese per ascoltare le sue proposte ma in seguito il progetto fallì. Durante gli incontri, venne costituito una specie di "triumvirato" provvisorio per dirimere le dispute tra le varie cosche della provincia di Palermo, che era composto da Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti e Luciano Leggio (capo della cosca di Corleone), benché si facesse spesso rappresentare dal suo vice Salvatore Riina. Infatti nello stesso periodo il "triumvirato" provvisorio ordinò la sparizione del giornalista Mauro De Mauro (16 settembre 1970), che rimase vittima della «lupara bianca» forse per aver scoperto un coinvolgimento dei mafiosi nell'uccisione di Enrico Mattei o nel Golpe Borghese. Le indagini per la scomparsa del giornalista furono coordinate dal procuratore Pietro Scaglione, che il 5 maggio 1971 rimase vittima di un agguato a Palermo insieme al suo autista Antonino Lo Russo: si trattava del primo "omicidio eccellente" commesso dall'organizzazione mafiosa nel dopoguerra. Nel 1974 una nuova "Commissione" divenne operativa e il boss Gaetano Badalamenti venne incaricato di dirigerla; l'anno successivo il boss Giuseppe Calderone propose la creazione di una "Commissione regionale", che venne chiamata la «Regione», un comitato composto dai rappresentanti mafiosi delle province di Palermo, Trapani, Agrigento, Caltanissetta, Enna e Catania (escluse quelle di Messina, Siracusa e Ragusa dove la presenza di Famiglie era tradizionalmente assente o non avevano un'importante influenza), che doveva decidere su questioni e affari illeciti riguardanti gli interessi mafiosi di più province Calderone venne anche incaricato di dirigere la «Regione» e fece approvare dagli altri rappresentanti il divieto assoluto di compiere sequestri di persona in Sicilia per porre fine ai rapimenti a scopo di estorsione compiuti dal boss Luciano Leggio e dal suo vice Salvatore Riina: infatti Leggio e Riina compivano sequestri contro imprenditori e costruttori vicini ai boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti per danneggiarne il prestigio, e si erano avvicinati numerosi mafiosi della provincia di Palermo (tra cui Michele Greco, Bernardo Brusca, Antonino Geraci, Raffaele Ganci) e di altre province (Mariano Agate e Francesco Messina Denaro nella provincia di Trapani, Carmelo Colletti e Antonio Ferro nella provincia di Agrigento, Francesco Madonia nella provincia di Caltanissetta, Benedetto Santapaola a Catania), costituendo la cosiddetta fazione dei "Corleonesi" avversa al gruppo Bontate-Badalamenti.

Inoltre gli anni 1973-74 videro un boom del contrabbando di sigarette estere, che aveva il suo centro di smistamento a Napoli: infatti i mafiosi palermitani e catanesi acquistavano carichi di sigarette attraverso Michele Zaza ed altri camorristi napoletani addirittura nel 1974 si provvide ad affiliare nell'organizzazione mafiosa Zaza, i fratelli Nuvoletta e Antonio Bardellino, al fine di tenerli sotto controllo e di lusingarne le vanità, autorizzandoli anche a formare una propria Famiglia a Napoli. Tuttavia nella seconda metà degli anni settanta numerose cosche divennero attive soprattutto nel traffico di stupefacenti: infatti facevano acquistare morfina base dai trafficanti turchi e thailandesi attraverso contrabbandieri già attivi nel traffico di sigarette e la facevano raffinare in eroina in laboratori clandestini comuni a tutte le Famiglie, che erano attivi a Palermo e nelle vicinanze; l'esportazione dell'eroina in Nordamerica faceva capo ai mafiosi palermitani Gaetano Badalamenti, Salvatore Inzerillo, Stefano Bontate, Giuseppe Bono ma anche ai Cuntrera-Caruana della Famiglia di Siculiana, in provincia di Agrigento: secondo dati ufficiali, in quel periodo i mafiosi siciliani avevano il controllo della raffinazione, spedizione e distribuzione di circa il 30% dell'eroina consumata negli Stati Uniti. Nel 1977 Riina e il suo sodale Bernardo Provenzano (che avevano preso il posto di Leggio, arrestato nel 1974) ordinarono l'uccisione del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, senza però il consenso della "Commissione regionale": infatti Giuseppe Di Cristina si era opposto all'omicidio perché avverso alla fazione corleonese e quindi legato a Bontate e Badalamenti. Nel 1978 Francesco Madonia (capo del "mandamento" di Vallelunga Pratameno, in provincia di Caltanissetta) venne assassinato nei pressi di Butera, su mandato di Giuseppe Di Cristina e Giuseppe Calderone poiché era legato a Riina e Provenzano, i quali, in risposta all'omicidio Madonia, assassinarono Di Cristina a Palermo mentre qualche tempo dopo anche Giuseppe Calderone finì ucciso dal suo sodale Benedetto Santapaola, che era passato alla fazione corleonese. Nello stesso periodo Riina fece espellere dalla "Commissione" anche Badalamenti (che fuggì in Brasile per timore di essere eliminato) e venne incaricato di sostituirlo Michele Greco (capo del "mandamento" di Brancaccio-Ciaculli, che era strettamente legato alla fazione corleonese). Nel 1979, la "Commissione", ormai composta in maggioranza dai Corleonesi, scatenò una serie di "omicidi eccellenti": in quei mesi vennero trucidati il giornalista Mario Francese (26 gennaio), il segretario democristiano Michele Reina (9 marzo), il commissario Boris Giuliano (21 luglio) e il giudice Cesare Terranova (25 settembre); nell'anno successivo vi furono altri tre "cadaveri eccellenti": il presidente della Regione Piersanti Mattarella (6 gennaio), il capitano dei carabinieri Emanuele Basile (4 maggio) e il procuratore Gaetano Costa (6 agosto), che venne fatto assassinare dal boss Salvatore Inzerillo per mandare un segnale ai Corleonesi, dimostrando che anche lui era capace di ordinare un omicidio "eccellente".

La "seconda guerra di mafia". Nel marzo 1981 Giuseppe Panno, capo della cosca di Casteldaccia e strettamente legato a Bontate, rimase vittima della «lupara bianca» per ordine dei Corleonesi; Bontate organizzò allora l'uccisione di Riina, il quale reagì facendo assassinare prima Bontate (23 aprile) e poi anche il suo associato Salvatore Inzerillo (11 maggio). Nel periodo successivo a questi omicidi, numerosi mafiosi appartenenti alle cosche di Bontate e Inzerillo vennero attirati in imboscate dai loro stessi associati e fatti sparire; il gruppo di fuoco corleonese eliminò anche numerosi rivali nella zona tra Bagheria, Casteldaccia ed Altavilla Milicia, che venne soprannominata «triangolo della morte» dalla stampa dell'epoca: in quell'anno (1981) si contarono circa 200 omicidi a Palermo e nella provincia, a cui si aggiunsero numerose «lupare bianche»; nel novembre 1982 furono ammazzati una dozzina di mafiosi di Partanna-Mondello, della Noce e dell'Acquasanta nel corso di una grigliata all'aperto nella tenuta di Michele Greco e i loro corpi spogliati e buttati in bidoni pieni di acido: nella stessa giornata, in ore e luoghi diversi di Palermo, furono anche uccisi numerosi loro associati per evitarne la reazione. Il massacro si estese perfino negli Stati Uniti: Paul Castellano, capo della Famiglia Gambino di New York, inviò i mafiosi Rosario Naimo e John Gambino (imparentato con gli Inzerillo) a Palermo per accordarsi con la "Commissione", la quale stabilì che i parenti superstiti di Inzerillo fuggiti negli Stati Uniti avrebbero avuta salva la vita a condizione che non tornassero più in Sicilia ma, in cambio della loro fuga, Naimo e Gambino dovevano trovare ed uccidere Antonino e Pietro Inzerillo, rispettivamente zio e fratello del defunto Salvatore, fuggiti anch'essi negli Stati Uniti: Antonino Inzerillo rimase vittima della «lupara bianca» a Brooklyn mentre il cadavere di Pietro venne ritrovato nel bagagliaio di un'auto a Mount Laurel, nel New Jersey, con una mazzetta di dollari in bocca e tra i genitali (14 gennaio 1982). Tra il 1981 e il 1983 vennero commessi efferati omicidi contro 35 tra parenti e amici di Salvatore Contorno, un ex uomo di Bontate che era sfuggito ad agguato per le strade di Brancaccio (15 giugno 1981); si attuarono vendette trasversali pure contro i familiari di Gaetano Badalamenti e del suo associato Tommaso Buscetta, i quali risiedevano in Brasile ed erano sospettati di fornire aiuto al mafioso Giovannello Greco, che apparteneva alla fazione corleonese ma era considerato un "traditore" perché era stato amico di Salvatore Inzerillo ed aveva tentato di uccidere Michele Greco: il padre, lo zio, il suocero e il cognato di Giovannello Greco furono assassinati ma anche i due figli di Buscetta rimasero vittime della «lupara bianca» e gli vennero uccisi un fratello, un genero, un cognato e quattro nipoti. Nello stesso periodo, nelle altre province Riina e Provenzano imposero i propri uomini di fiducia, che eliminarono i mafiosi locali che erano stati legati al gruppo Bontate-Badalamenti: infatti Francesco Messina Denaro (capo del "mandamento" di Castelvetrano) divenne il rappresentante mafioso della provincia di Trapani, Carmelo Colletti della provincia di Agrigento, Giuseppe "Piddu" Madonia (figlio di Francesco e capo del "mandamento" di Vallelunga Pratameno di quella di Caltanissetta mentre Benedetto Santapaola divenne capo della Famiglia di Catania dopo l'omicidio del suo rivale Alfio Ferlito (ex vice di Giuseppe Calderone), trucidato insieme a tre carabinieri che lo stavano scortando in un altro carcere nella cosiddetta «strage della circonvallazione» (16 giugno 1982). 

L'omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro (3 settembre 1982). In queste circostanze, la "Commissione" (ormai composta soltanto da capimandamento fedeli a Riina e Provenzano) ordinò l'omicidio dell'onorevole Pio La Torre, che era giunto da pochi mesi in Sicilia per prendere la direzione regionale del PCI ed aveva proposto un disegno di legge che prevedeva per la prima volta il reato di "associazione mafiosa" e la confisca dei patrimoni mafiosi di provenienza illecita: il 30 aprile 1982 La Torre venne trucidato insieme al suo autista Rosario Di Salvo in una strada di Palermo. In seguito al delitto La Torre, il Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini e il ministro dell'Interno Virginio Rognoni chiesero al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa di insediarsi come prefetto di Palermo con sei giorni di anticipo: infatti il ministro Rognoni aveva promesso a Dalla Chiesa poteri di coordinamento fuori dall'ordinario per contrastare l'emergenza mafiosa ma tali poteri non gli furono mai concessi. Per queste ragioni Dalla Chiesa denunciò il suo stato di isolamento con una famosa intervista al giornalista Giorgio Bocca, in cui parlò anche dei legami tra le cosche ed alcune famose imprese catanesi; infine il 3 settembre 1982, dopo circa cento giorni dal suo insediamento a Palermo, Dalla Chiesa venne brutalmente assassinato da un gruppo di fuoco mafioso insieme alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro e all'agente di scorta Domenico Russo.

Gli anni ottanta, i primi pentiti e i processi. L'omicidio del generale Dalla Chiesa provocò molto scalpore nell'opinione pubblica italiana e nei giorni successivi il governo Spadolini II varò la legge 13 settembre 1982 n. 646 (detta "Rognoni-La Torre" dal nome dei promotori del disegno di legge) che introdusse nel codice penale italiano l'art. 416-bis, il quale prevedeva per la prima volta nell'ordinamento italiano il reato di "associazione di tipo mafioso" e la confisca dei patrimoni di provenienza illecita. Tutto ciò indusse i mafiosi a scatenare ritorsioni contro i magistrati che applicavano questa nuova norma: il 26 gennaio 1983 venne ucciso il giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto, il quale era impegnato in importanti inchieste sui mafiosi della provincia di Trapani e preparava il suo trasferimento alla Procura di Firenze, da dove avrebbe potuto disturbare gli interessi mafiosi in Toscana; il 29 luglio un'autobomba parcheggiata sotto casa uccise Rocco Chinnici, capo dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, insieme a due agenti di scorta e al portiere del condominio. Dopo l'assassinio di Chinnici, il giudice Antonino Caponnetto, che lo sostituì a capo dell'Ufficio Istruzione, decise di istituire un "pool antimafia", ossia un gruppo di giudici istruttori che si sarebbero occupati esclusivamente dei reati di stampo mafioso, di cui chiamò a far parte i magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta; essi, basandosi soprattutto su indagini bancarie e patrimoniali, vecchi rapporti di polizia e procedimenti odierni, raccolsero un abbondante materiale probatorio che andò a confermare le dichiarazioni di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, che avevano deciso di collaborare con la giustizia poiché erano stati vittime di vendette trasversali contro i loro parenti e amici durante la «seconda guerra di mafia»: il 29 settembre 1984 le dichiarazioni di Buscetta produssero 366 ordini di cattura mentre quelle di Contorno altri 127 mandati di cattura, nonché arresti eseguiti tra Palermo, Roma, Bari e Bologna. Per queste ragioni, la "Commissione" incaricò il boss Pippo Calò di organizzare insieme ad alcuni terroristi neri e camorristi la strage del Rapido 904 (23 dicembre 1984), che provocò 17 morti e 267 feriti, al fine di distogliere l'attenzione delle autorità dalle indagini del pool antimafia e dalle dichiarazioni di Buscetta e Contorno. L'8 novembre 1985 il giudice Falcone depositò l'ordinanza-sentenza di 8 000 pagine che rinviava a giudizio 476 indagati in base alle indagini del pool antimafia supportate dalle dichiarazioni di Buscetta, Contorno e altri ventitré collaboratori di giustizia: il cosiddetto "maxiprocesso" che ne scaturì iniziò in primo grado il 10 febbraio 1986, presso un'aula bunker appositamente costruita all'interno del carcere dell'Ucciardone a Palermo per accogliere i numerosi imputati e avvocati, concludendosi il 16 dicembre 1987 con 342 condanne, tra cui 19 ergastoli che vennero comminati tra gli altri a Nitto Santapaola, Bernardo Provenzano e Salvatore Riina, giudicati in contumacia. In seguito alla sentenza di primo grado, il 25 settembre 1988 il giudice Antonino Saetta venne ucciso insieme al figlio Stefano lungo la strada statale Caltanissetta-Agrigento da alcuni mafiosi di Palma di Montechiaro per fare un favore a Riina e ai suoi associati palermitani: infatti Saetta avrebbe dovuto presiedere il grado di Appello del Maxiprocesso ed aveva già condannato all'ergastolo i responsabili dell'omicidio del capitano Emanuele Basile. Infatti il 10 dicembre 1990 la Corte d'assise d'appello ridusse drasticamente le condanne di primo grado del Maxiprocesso, accettando soltanto parte delle dichiarazioni di Buscetta e Contorno.

Gli anni novanta: le stragi e la trattativa con lo Stato italiano.

La strage di Capaci (23 maggio 1992). L'avvio della stagione degli attentati venne deciso nel corso di alcune riunioni ristrette della "Commissione interprovinciale" del settembre-ottobre 1991 e subito dopo in una riunione della "Commissione provinciale" presieduta da Salvatore Riina, svoltasi nel dicembre 1991: specialmente durante questo incontro, venne deciso ed elaborato un piano stragista "ristretto", che prevedeva l'assassinio di nemici storici di Cosa nostra (i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e di personaggi rivelatisi inaffidabili, primo fra tutti l'onorevole Salvo Lima. 

La strage di Via D'Amelio (19 luglio 1992). Il 30 gennaio 1992 la Cassazione confermò tutte le condanne del Maxiprocesso, compresi i numerosi ergastoli a Riina e agli altri boss, avallando le dichiarazioni di Buscetta e Contorno. In seguito alla sentenza della Cassazione, nel febbraio-marzo 1992 si tennero riunioni ristrette della "Commissione", sempre presiedute da Riina, che decisero di dare inizio agli attentati e stabilirono nuovi obiettivi da colpire: il 12 marzo Salvo Lima venne ucciso alla vigilia delle elezioni politiche; il 23 maggio avvenne la strage di Capaci, in cui persero la vita Falcone, la moglie ed alcuni agenti di scorta; il 19 luglio avvenne la strage di via d'Amelio, in cui rimasero uccisi il giudice Borsellino e gli agenti di scorta: in seguito a questa ennesima strage, il governo reagì dando il via all'"Operazione Vespri siciliani", con cui vennero inviati 7 000 uomini dell'esercito in Sicilia per presidiare gli obiettivi sensibili e oltre cento detenuti mafiosi particolarmente pericolosi vennero trasferiti in blocco nelle carceri dell'Asinara e di Pianosa per isolarli dal mondo esterno; il 19 settembre venne ucciso Ignazio Salvo (imprenditore e mafioso di Salemi), anche lui rivelatosi inaffidabile perché era stato legato a Salvo Lima. Il 15 gennaio 1993 Riina venne arrestato dagli uomini del ROS dell'Arma dei Carabinieri. In seguito all'arresto di Riina, si creò un gruppo mafioso favorevole alla continuazione degli attentati contro lo Stato (Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano) ed un altro contrario (Michelangelo La Barbera, Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi) mentre il boss Bernardo Provenzano era il paciere tra le due fazioni e riuscì a porre la condizione che gli attentati avvenissero fuori dalla Sicilia, in "continente": il 14 maggio avvenne un attentato dinamitardo in via Ruggiero Fauro a Roma ai danni del giornalista Maurizio Costanzo, il quale però ne uscì illeso; il 27 maggio un altro attentato dinamitardo in via dei Georgofili a Firenze devastò la Galleria degli Uffizi e distrusse la Torre dei Pulci (cinque morti e una quarantina di feriti).

La strage di via Palestro (27 luglio 1993). La notte del 27 luglio esplosero quasi contemporaneamente tre autobombe a Roma e Milano, devastando le basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro nonché il Padiglione d'Arte Contemporanea di Milano (cinque morti e una trentina di feriti in tutto); (27 luglio 1993) il 23 gennaio 1994 era programmato un altro attentato dinamitardo contro il presidio dell'Arma dei Carabinieri in servizio allo Stadio Olimpico di Roma durante le partite di calcio ma un malfunzionamento del telecomando che doveva provocare l'esplosione fece fallire il piano omicida (episodio ricordato come il fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma). Inoltre nel novembre 1993 i boss Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano, Giovanni Brusca e Matteo Messina Denaro avevano organizzato il sequestro di Giuseppe Di Matteo per costringere il padre Santino (che stava collaborando con la giustizia) a ritrattare le sue dichiarazioni, nel quadro di una strategia di ritorsioni verso i collaboratori di giustizia; infine, dopo 779 giorni di prigionia, Di Matteo venne brutalmente strangolato e il cadavere buttato in un bidone pieno di acido nitrico. A partire dal 1993 si svolse un importante processo per mafia, intentato dalla Procura di Palermo nei confronti dell'ex Presidente del Consiglio dei Ministri Giulio Andreotti. Alla fine di un lungo iter giudiziario la Corte di Appello di Palermo nel 2003 accerterà una «... autentica, stabile ed amichevole disponibilità dell'imputato verso i mafiosi fino alla primavera del 1980», sentenza confermata nel 2004 dalla Cassazione. Il 27 gennaio 1994 vennero arrestati i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, che si erano occupati dell'organizzazione degli attentati e per questo la strategia delle bombe si fermò. In quel periodo numerosi mafiosi iniziarono a collaborare con la giustizia per via delle dure condizioni d'isolamento in carcere previste dalla nuova norma del 41-bis e dalle nuove leggi in materia di collaborazione: nel 1996 il numero dei collaboratori di giustizia raggiunse il livello record di 424 unità; contemporaneamente le indagini della neonata Direzione Investigativa Antimafia portarono all'arresto di numerosi latitanti (Leoluca Bagarella, Pietro Aglieri, Giovanni Brusca ed altre decine di mafiosi).

Gli anni duemila e l'arresto di Provenzano. A partire dagli anni novanta, Bernardo Provenzano, con l'arresto di Totò Riina e Leoluca Bagarella, diviene il capo di Cosa nostra (era l'alter-ego di Riina fin dagli anni cinquanta), circondandosi solo di uomini di fiducia, come Benedetto Spera, cambia radicalmente la politica e il modus operandi negli affari della mafia siciliana; i mandamenti (divisioni mafiose delle zone di influenza in Sicilia) più ricchi cedono i loro guadagni a quelli meno redditizi in modo da accontentare tutti (una sorta di stato sociale), evitando ulteriori conflitti. Benché Bernardo Provenzano si trovi ad essere l'ultimo dei vecchi boss, Cosa nostra non gode più di massiccio consenso, come sino a prima degli anni novanta. Nel 2002 viene arrestato il boss Nino Giuffrè, braccio destro di Provenzano che diviene collaboratore di giustizia. L'11 aprile del 2006, dopo 43 anni di latitanza (dal 1963), Provenzano viene catturato in un casolare a Montagna dei Cavalli, frazione a 2 km da Corleone. Il 5 novembre del 2007, dopo 25 anni di latitanza, viene arrestato, in una villetta di Giardinello, anche il presunto successore di Provenzano, il boss Salvatore Lo Piccolo assieme al figlio Sandro. In seguito all'arresto dei Lo Piccolo si riteneva che al vertice dell'organizzazione criminale vi fosse Matteo Messina Denaro, boss di Castelvetrano (Trapani), latitante dal 1993.

Gli anni duemiladieci e l'arresto di Settimo Mineo.Nonostante la ricerca dei superlatitanti Matteo Messina Denaro e Giovanni Motisi da parte delle forze dell'ordine prosegue, il 4 dicembre 2018 il comando dei Carabinieri del capoluogo siciliano effettuano un'importante operazione chiamata "Cupola 2.0" che ha portato all'arresto di 46 persone per associazione mafiosa. Tra loro il gioielliere ottantenne Settimo Mineo, ritenuto il nuovo capo dei capi di Cosa nostra tramite elezione unanime in un summit organizzato da tutti i capi regionali il 29 maggio. Secondo gli inquirenti tale incontro ha posto le basi per la costituzione di una nuova commissione provinciale dopo 25 anni dall'ultima formazione da parte dei corleonesi ponendo Mineo come l'erede assoluto di Salvatore Riina. L'arresto di quest'ultimo come dichiarato dal Procuratore aggiunto Salvatore De Luca e dal pm Antonio Ingroia mette in dubbio per la prima volta la posizione di potere di Matteo Messina Denaro nell'organizzazione visto che anche per tradizione il capo assoluto di Cosa nostra non è mai stato un membro situato al di fuori della provincia di Palermo. Il 22 gennaio 2019 grazie alle rivelazioni dei due nuovi collaboratori Filippo Colletti boss di Villabate e Filippo Bisconti, capomandamento di Belmonte Mezzagno, arrestati nell'ultima operazione, vengono catturate 7 persone tra cui Leandro Greco, nipote di Michele Greco detto "il Papa" e Calogero Lo Piccolo, figlio di Salvatore, con l'accusa di riformare ed organizzare una nuova commissione provinciale dopo l'arresto di Settimo Mineo.

Organizzazione e struttura. Famiglia (mafia), Commissione provinciale, Commissione interprovinciale, Capodecina, Capomandamento e Mandamento (mafia). Secondo le dichiarazioni dei numerosi collaboratori di giustizia, l'aggregato principale di Cosa nostra è la Famiglia (detta anche cosca), composta da elementi criminali che hanno tra loro vincoli o rapporti di affinità i quali si aggregano per controllare tutti gli affari leciti e illeciti della zona dove operano; i componenti di una Famiglia collaborano con uno o più aspiranti mafiosi non ancora affiliati solitamente chiamati "avvicinati", i quali sono possibili candidati all'affiliazione e quindi vengono messi alla prova per saggiare la loro affidabilità, facendogli compiere numerose "commissioni", come il contrabbando, la riscossione del denaro delle estorsioni, il trasporto di armi da un covo all'altro, l'esecuzione di omicidi e il furto di automobili e moto per compiere atti delittuosi. Per essere affiliati nella Famiglia, esiste un rituale particolare (la cosiddetta "punciuta") che consiste nella presentazione dell'avvicinato ai componenti della Famiglia locale in riunione e, alla presenza di tutti, pronuncia un giuramento di fedeltà. I membri di una Famiglia eleggono per alzata di mano un proprio capo, che è solo un rappresentante, il quale nomina un sottocapo, un consigliere e uno o più capidecina, i quali hanno l'incarico di avvisare tutti gli affiliati della Famiglia quando si svolgono le riunioni. I rappresentanti di tre o quattro Famiglie contigue eleggono un capomandamento; tutti i mandamenti di una provincia eleggono il rappresentante provinciale, che poi nomina un sottocapo provinciale e un consigliere. Il collaboratore di giustizia Antonino Calderone dichiarò che «[...] originariamente a Palermo, come in tutte le altre province siciliane, vi erano le cariche di "rappresentante provinciale", "vice-rappresentante" e "consigliere provinciale". Le cose mutarono con Salvatore Greco "Cicchiteddu" [nel 1957] poiché venne creato un organismo collegiale, denominato "Commissione", e composto dai capi-mandamento»; anche il collaboratore Francesco Marino Mannoia dichiarò che «[...] soltanto a Palermo l'organismo di vertice di Cosa nostra è la "Commissione"; nelle altre province, vi è un organismo singolo costituito dal rappresentante provinciale».

I rappresentanti della provincia sono, a loro volta, componenti della cosiddetta "Commissione interprovinciale", soprannominata anche la "Regione", che nomina un rappresentante regionale e si riuniva solitamente per deliberare su importanti decisioni riguardanti gli interessi mafiosi di più province che esulavano dall'ambito provinciale e che interessano i territori di altre Famiglie. In quasi tutte le municipalità della Sicilia esiste almeno una cellula mafiosa di Cosa Nostra

I rapporti con lo Stato italiano. «Cosa nostra è da un lato contro lo Stato e dall'altro è dentro e con lo Stato, attraverso i rapporti esterni con suoi rappresentanti nella società e nelle istituzioni.» (Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia). Come si rivela dalle numerose presenze nel Parlamento e nel governo di elementi non estranei a frequentazioni mafiose, si fa strada negli anni novanta la tesi secondo cui lo Stato italiano nei suoi componenti politici abbia un certo rapporto di "convivenza" con questo fenomeno mai definitivamente soppresso. Lo stesso comportamento del CSM durante il lavoro di Giovanni Falcone che inizialmente non ricandidò il giudice come presidente della commissione antimafia da lui creata fa intendere una certa tendenza a voler ostacolare un lavoro diventato troppo scomodo per certi poteri deviati all'interno dello Stato. Uno dei momenti più critici è stata la trattativa Stato-mafia: fu contattato Vito Ciancimino, per mezzo di rappresentanti del Ministro dell'Interno Nicola Mancino fra cui il capitano del ROS Giuseppe De Donno, per far smettere la stagione delle stragi del 1992, 1993, in cambio dell'annullamento del decreto legge 41 bis e altri benefici per i detenuti mafiosi. A proposito dei rapporti tra mafia e stato, si parlerebbe di rito peloritano per riferirsi a una situazione di particolare contiguità (per non dire addirittura coincidenza) tra uomini di mafia e presunti esponenti delle istituzioni italiane. Esiste inoltre una Commissione regionale che decide l'andamento delle cose anche dal punto di vista politico, ovvero decide per chi, le persone di una famiglia e i loro affiliati dovessero votare. Per esempio Salvo Lima e Vito Ciancimino furono eletti da voti mafiosi di cittadini legati alla mafia della città di Palermo, Salvo Lima non mantenne le sue promesse elettorali e fu ucciso, invece Vito Ciancimino fu condannato per essere stato un mafioso conclamato.

Rapporti con le altre organizzazioni criminali. Cosa nostra, per via del suo carisma criminale e della sua potenza delinquenziale, ha intrattenuto, e intrattiene tuttora, rapporti con le più importanti organizzazioni criminali sia italiane sia estere. Il processo di globalizzazione interessa anche il fenomeno criminale mafioso, la mafia di tutti i paesi del mondo si unisce e collabora, portando avanti le sue attività criminali caratteristiche, come il narcotraffico, l'esportazione illegale di armi, la prostituzione, l'estorsione e il gioco d'azzardo, rappresentando un problema per l'umanità, per l'ordine civile della società e il quieto vivere.

Cosa nostra statunitense. La prima collaborazione tra le due organizzazioni viene formalmente identificata nel mese di ottobre del 1957 quando i capi siciliani ed americani si incontrarono all'Hotel delle Palme di Palermo per ricucire i rapporti dopo l'interruzione a causa dell'usura e del divorzio, due pratiche inammissibili per un vero uomo d'onore siciliano, e creare un anello di congiunzione per il traffico di droga su entrambi i fronti. In questo frangente sono proprio gli americani a suggerire ai siciliani l'istituzione di una struttura di vertice chiamata Commissione. Questa attività era gestita secondo quanto riferisce Rudolph Giuliani da Tommaso Buscetta e Gaetano Badalamenti dove la mafia siciliana fungeva da contatto in Asia, Europa occidentale e chi portava la merce attraverso la frontiera degli Stati Uniti per la durata di quindici anni. Nel 2003, Bernardo Provenzano inviò dei suoi emissari, Nicola Mandalà di Villabate ed il giovane Gianni Nicchi per tentare di riattivare i rapporti di collaborazione con le famiglie di New York ma vennero riconosciuti e fotografati dagli agenti di polizia insieme al boss Frank Calì della famiglia Gambino.

Organizacija. Nel 1994 viene segnalata la presenza della mafia russa sul territorio degli Stati Uniti, ad Atlanta, e sulla loro collaborazione con Cosa nostra. Verso il 1998, la Solncevskaja bratva di Mosca, può contare su un proprio capo a Roma che coordina gli investimenti della mafia russa in Italia. Dall'indagine risulta che rispettabili banchieri occidentali danno al boss russo consigli molto utili su come riciclare il denaro sporco dalla Russia in Europa, in maniera legale. Nel 2008 viene formalizzata la collaborazione fra mafia russa e Cosa nostra, 'ndrangheta e camorra. Sotto la supervisione della mafia russa le aziende agricole italiane, i trasporti delle merci: sia a livello internazionale, sia all'interno del paese. La mafia russa nel mondo conta circa 300 000 persone ed è la terza organizzazione criminale per la sua influenza, dopo l'originale italiana e le reti criminali cinesi. Il 2 ottobre 2012 nel Report Caponnetto si leggono le infiltrazioni della mafia russa nella Repubblica di San Marino e in Emilia-Romagna a carattere predatorio come le estorsioni.

Mafia nigeriana. Il 19 ottobre 2015 per la prima volta in Sicilia presunti membri di un'organizzazione criminale straniera vengono accusati del reato di associazione mafiosa, in particolare viene scoperta la confraternita nigeriana dei Black Axe che gestisce lo spaccio e la prostituzione nel quartiere Ballarò di Palermo sotto l'egida di Giuseppe Di Giacomo, boss del clan di Porta Nuova, ucciso il 12 marzo 2014. Si scopre quindi un'alleanza tra il clan palermitano e l'organizzazione nigeriana. L'Aisi, inoltre, dal 2012 controlla il presunto capo della confraternita Eyie, Grabriel Ugiagbe, gestendo i suoi affari criminali da Catania, spostandosi poi in Nord Italia, Austria e Spagna. Le famiglie catanesi ancora non sono né in contrasto né in sodalizio con essi.

Operazioni di polizia. Old Bridge. Dopo l'arresto dei Corleonesi e di Salvatore Lo Piccolo, si ipotizzò un ritorno della famiglia Inzerillo dagli USA, i cosiddetti scappati dalla seconda guerra di mafia scatenata da Totò Riina. Si voleva infatti ristrutturare l'organizzazione e ritornare al passato e rientrare nel traffico di droga, attualmente in mano alla 'Ndrangheta. Il 7 febbraio 2008 però vengono arrestate 90 persone tra New York e la Sicilia, presunti appartenenti alle famiglie Inzerillo e il suo boss Giovanni Inzerillo, Mannino, Di Maggio e Gambino, tra cui anche il boss Jackie D'Amico: fu la più grande retata dopo "Pizza connection".

Perseo. Il 16 dicembre 2008, con l'operazione Perseo, i Carabinieri di Palermo catturarono 99 mafiosi appartenenti ai vertici di Cosa nostra palermitana che, unitamente a decine di gregari, tentavano di ricostituire la Commissione provinciale palermitana.

New Bridge. Nel dicembre 2014 vengono arrestati 8 boss tra Italia e USA: Francesco Palmeri, detto “Ciccio l'americano” e considerato sottocapo dei Gambino, Giovanni Grillo, detto "John", Salvatore Farina, figlio del defunto boss di Cosa Nostra Ambrogio (imputato per l'omicidio del giudice Ciaccio Montalto), Carlo Brillante, Raffaele Valente, Daniele Cavoto, Michele Amabile, Francesco Vonella. L'operazione conferma ancora vivi i legami con la mafia siciliana.

New Connection. Il 17 luglio 2019 vengono arrestate dalla polizia italiana coadiuvata dall'FBI un totale di 19 persone tra Italia e USA compreso Salvatore Gambino sindaco di Torretta. L'operazione ha svelato il forte legame ancora esistente tra Cosa Nostra rappresentata dalla famiglia Inzerillo e quella dei Gambino di New York, ma soprattutto il potere ricostituito a Palermo da parte degli "Scappati" dopo il loro ritorno in Italia e la sopraggiunta morte di Salvatore Riina che ne aveva ordinato l'esilio dopo la Seconda guerra di mafia degli anni '80. Tra gli arrestati i cugini Francesco e Tommaso Inzerillo e Giovanni Buscemi boss del capomandamento di Passo di Rigano che dovranno rispondere di associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione aggravata, concorso esterno in associazione mafiosa, trasferimento fraudolento di valori aggravato e concorrenza sleale aggravata dal metodo mafioso.

Boss.

Alfio Ferlito

Antonino Calderone

Antonino Mandalà

Benedetto Santapaola

Bernardo Brusca

Bernardo Provenzano

Calogero Vizzini

Daniele Salvatore Emanuello

Domenico Raccuglia

Filippo Graviano

Filippo Marchese

Francesco Di Cristina

Francesco Domingo

Francesco Madonia

Francesco Messina Denaro

Francesco Paolo Bontate

Gaetano Badalamenti

Gaetano Fidanzati

Giovanni Arena

Giovanni Brusca

Giuseppe Alleruzzo

Giuseppe Calderone

Giuseppe Calò

Giuseppe Di Cristina

Giuseppe Falsone

Giuseppe Genco Russo

Giuseppe Giacomo Gambino

Giuseppe Graviano

Giuseppe Greco

Giuseppe Lucchese

Leoluca Bagarella

Leonardo Caruana

Luciano Liggio

Matteo Messina Denaro

Mariano Agate

Michele Cavataio

Michele Greco

Michele Navarra

Rosario Riccobono

Salvatore Greco

Salvatore Inzerillo

Salvatore La Barbera

Salvatore Lo Piccolo

Salvatore Montalto

Salvatore Riina

Sebastiano Rampulla

Settimo Mineo

Stefano Bontate

Tommaso Buscetta

Vincenzo Puccio

Vincenzo Rimi

Camera dei Deputati e Senato della Repubblica

XI Legislatura

Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle associazioni criminali similari

Seduta di lunedì 16 novembre 1992

audizione del collaboratore della giustizia Tommaso Buscetta.

 Pag. 341 AUDIZIONE DEL COLLABORATORE DELLA GIUSTIZIA TOMMASO BUSCETTA PRESIDENZA DEL PRESIDENTE LUCIANO VIOLANTE

INDICE pag. Sui lavori della Commissione

Violante Luciano, Presidente ...................... 343, 349 350, 428, 430, 431, 432, 434, 435, 436

Acciaro Giancarlo ...................................... 433

Angelini Piero Mario ................................... 431

Ayala Giuseppe Maria ...................................

350 Bargone Antonio ................................... 429, 434

Biondi Alfredo ................ 348, 350, 429, 432, 434, 435

Biscardi Luigi .................................... 346, 428

Borghezio Mario ........................................ 429

Brutti Massimo .................................... 344, 435

Calvi Maurizio ......................................... 346

D'Amato Carlo .......................................... 430

Ferrara Salute Giovanni ...................... 345, 429, 432

Ferrauto Romano ........................................ 344

Fumagalli Carulli Ombretta ........................ 346, 430

Galasso Alfredo ......................... 347, 350, 429, 435

Imposimato Ferdinando .................................. 349

Matteoli Altero .................... 345, 350, 430, 432, 435

Ricciuti Romeo .................................... 350, 430

Riggio Vito ............................................ 433

Scalia Massimo ......................................... 347

Taradash Marco .......................... 343, 344, 429, 435

Tripodi Girolamo .................................. 344, 429

Pag. 342 Audizione del collaboratore della giustizia Tommaso Buscetta

Violante Luciano, Presidente ...................... 351, 353 354, 355, 356, 357, 358, 359, 360, 361 362, 363, 364, 365, 366, 367, 368, 369, 370 371, 372, 373, 374, 375, 376, 377 378, 379, 380, 381, 382, 383, 384, 385, 386 387, 388, 389, 390, 391, 392, 393 394, 395, 396, 397, 398, 399, 400, 401, 402 403, 404, 405, 406, 407, 408, 409 412, 414, 415, 416, 417, 418, 419, 420, 421 422, 423, 424, 425, 426, 427, 428

Acciaro Giancarlo ...................................... 410

Angelini Piero Mario ................................... 414

Ayala Giuseppe Maria .............................. 367, 392

Bargone Antonio ........................................ 411

Biondi Alfredo ................ 366, 380, 384, 390, 391, 411 412, 422, 425, 428

Biscardi Luigi .................................... 410, 417

Borghezio Mario ................................... 402, 412

Boso Erminio Enzo ...................................... 412

Brutti Massimo ......................................... 411

Buscetta Tommaso ................... 351, 353, 354, 355, 356 357, 358, 359, 360, 361, 362, 363 364, 365, 366, 367, 368, 369, 370, 371, 372 373, 374, 375, 376, 377, 378 379, 380, 381, 382, 383, 384, 385, 386, 387 388, 389, 390, 391, 392, 393 394, 395, 396, 397, 398, 399, 400, 401, 402 403, 404, 405, 406, 407, 408 409, 415, 416, 417, 418, 419, 420, 421, 422 423, 424, 425, 426, 427, 428

Buttitta Antonio ....................................... 409

Cafarelli Francesco .......................... 358, 409, 419

Calvi Maurizio .................................... 357, 413

D'Amato Carlo ........................... 364, 377, 396, 415

Ferrara Salute Giovanni ........................... 405, 409

Ferrauto Romano ........................................ 412

Florino Michele ........................................ 412

Fumagalli Carulli Ombretta ............................. 412

Galasso Alfredo ............... 382, 393, 399, 411, 413, 424

Grasso Gaetano ......................................... 412

Imposimato Ferdinando ............................. 378, 410

Matteoli Altero .............................. 381, 389, 414

Olivo Rosario .......................................... 413

Ricciuti Romeo ............................... 393, 404, 414

Riggio Vito .................................. 371, 406, 409

Scalia Massimo ......................................... 410

Taradash Marco ..................... 368, 373, 387, 388, 410

Tripodi Girolamo ....................................... 410

ALLEGATO ............................................... 437

Pag. 343 La seduta comincia alle 10,35. (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente). Sui lavori della Commissione.

PRESIDENTE. Prima di dare inizio all'audizione prevista all'ordine del giorno, do la parola all'onorevole Taradash.

MARCO TARADASH. Signor presidente, prendo la parola per porre la questione della pubblicità dell'audizione del collaboratore della giustizia Buscetta, riguardo alla quale mi sembra che si sia creata all'esterno un'aspettativa, maturata anche dopo l'audizione di Calderone, che credo non giovi ai lavori della Commissione, il cui compito è quello di investigare anche sui rapporti tra mafia e politica. La magistratura, o almeno la parte più corretta di questa, ha sempre avuto una gestione dei pentiti ben sapendo che tra quello che dice il pentito e la verità c'è almeno lo spazio del riscontro; invece, se le nostre audizioni continuano ad essere come quella di Calderone, in realtà non vi è alcuna gestione da parte della Commissione delle posizioni assunte dai pentiti. Credo che questo sia il nostro problema. E' molto importante ascoltare personaggi ritenuti di grande attendibilità ma non possiamo dare per scontato che tutto ciò che viene detto sia vero né possiamo eccedere nello zelo e trasformare in fatti concreti quelle che sono soltanto cose sentite. Ritengo che mantenere un certo riserbo sulle audizioni di questo tipo giovi al lavoro della Commissione. Dovremmo perciò dichiarare segreta la seduta odierna ed affidare all'ufficio di presidenza il compito di riferire, attraverso una conferenza stampa, quello che si riterrà opportuno, mantenendo riservate le parti che debbono divenire materia di lavoro della Commissione.

PRESIDENTE. Prima di dare la parola ad un oratore per gruppo su tale questione, informo i colleghi di avere inviato, il 12 novembre scorso - il giorno successivo all'audizione di Calderone - ai Presidenti di gruppo della Camera e del Senato e, per conoscenza, ai Presidenti della Camera e del Senato la seguente lettera: "Onorevole Presidente, alcuni colleghi appartenenti a diversi gruppi parlamentari hanno presentato atti idonei a provocare un dibattito d'aula in relazione a dichiarazioni rese a questa Commissione dal collaboratore della giustizia Antonino Calderone nel corso di un'audizione svoltasi l'11 novembre 1992. Tale audizione si inquadra in un'indagine sui rapporti tra mafia e politica che la Commissione a larghissima maggioranza dei suoi componenti ha formalmente deliberato di condurre e che concluderà, probabilmente, entro il prossimo mese di dicembre. E' di tutta evidenza che ogni elemento raccolto nel corso dell'indagine predetta dovrà essere sottoposto ad un rigoroso accertamento per valutarne fondatezza e idoneità e dar luogo a conclusioni di carattere politico. Al termine dei lavori la Commissione presenterà al Parlamento un'apposita relazione. Non sfuggirà certamente alla sua sensibilità che le iniziative parlamentari condotte sulla base di elementi acquisiti dalla Commissione prima che ne siano state valutate

Pag. 344 fondatezza ed attendibilità rischiano di favorire, indipendentemente dalle intenzioni dei proponenti, distorsioni interpretative dannose per la reputazione di singole persone e per il lavoro stesso della Commissione. D'intesa con l'ufficio di presidenza ho ritenuto di sottoporre alla sua attenzione le considerazioni che precedono per le valutazioni che ella riterrà opportuno trarne. Prima di inviare questa lettera ho interpellato tutti i colleghi dell'ufficio di presidenza, ad eccezione dell'onorevole Tripodi con il quale, nonostante numerosi tentativi, non sono riuscito a mettermi in contatto.

MASSIMO BRUTTI. Anche secondo me è giusto fare una valutazione prudente delle dichiarazioni rese dal collaboratore della giustizia Calderone e di quelle che renderà oggi il collaboratore Buscetta. Non si può non deplorare il fatto che l'audizione odierna sia stata in qualche modo resa nota da alcuni organi di stampa e poi ripresa "a cascata" da tutti gli altri. Stabilire a priori il segreto su quanto verrà oggi qui detto non è del tutto giusto poiché non sappiamo ancora come si svolgerà l'audizione. Peraltro, fissare un vincolo rigido di segretezza può accentuare la fuga di notizie, le indiscrezioni che l'uno o l'altro può lasciarsi sfuggire all'esterno. Direi quindi che, senza adottare un criterio generale rigido, possiamo ora ascoltare il collaboratore della giustizia Buscetta, il quale probabilmente, come ha fatto Calderone, renderà spontaneamente una dichiarazione, alla quale seguiranno le domande predisposte dal presidente. La mia proposta è di procedere all'audizione riservandoci di decidere al termine di essa, sulla base di quello che avremo sentito, quali parti debbano essere poste sotto il vincolo della riservatezza e quali, invece, possano essere rese pubbliche senza difficoltà e senza problemi. Credo che, in generale, l'opinione pubblica abbia il diritto di conoscere notizie circa il funzionamento dell'organizzazione criminale della quale questi collaboratori ci parlano ed anche circa la rete di connivenze e di complicità. Tuttavia, se dovessero esservi motivi fondati per non rendere note alcune parti, potremo prendere tale decisione al termine dell'audizione.

ROMANO FERRAUTO. Credo che l'iniziativa assunta dal presidente sia opportuna e la condivido, anche sulla base del ragionamento fatto poco fa dal collega Taradash circa l'attendibità delle affermazioni che vengono fatte. Dunque, intervenendo proprio nel merito della pregiudiziale Taradash, ritengo che debba essere rinviata al termine dell'audizione la valutazione in merito alle rivelazioni che potrà fare il pentito Buscetta, decidendo in quella sede quali parti possano essere comunicate alla stampa e quali, invece, meritino una riservatezza particolare.

MARCO TARADASH. Saranno quelle che tutti conosceranno prima, allora!

ROMANO FERRAUTO. Concordo con la proposta di mantenere segreta l'audizione, per poi valutare rapidamente i fatti alla sua conclusione.

GIROLAMO TRIPODI. Desidero innanzitutto dare atto al presidente dell'iniziativa che ha preso e dichiarare che concordo con la posizione molto responsabile che ha assunto prospettando ai Presidenti delle due Camere l'inopportunità che nelle aule parlamentari si discuta di cose delle quali la Commissione antimafia si sta occupando. Detto questo, ritengo anch'io che dobbiamo evitare che quanto ascolteremo abbia eccessiva diffusione ed anche interpretazioni diverse. Ciò non toglie che alla fine dovremo trovare il modo di informare l'opinione pubblica nazionale, per evitare di trovarci poi di fronte a fughe di notizie che, invece, avrebbero potuto essere

Pag. 345 date dalla Commissione. Condivido dunque la proposta, avanzata dal collega Brutti, di decidere al termine dell'audizione quali parti debbano essere mantenute segrete e quali possano essere rese pubbliche. Decideremo anche se affidare al presidente l'incarico di comunicare, eventualmente attraverso una conferenza stampa, quanto si ritenga giusto. Chiarito questo punto, desidero anche precisare che se ognuno di noi ha assunto le posizioni che riteneva opportune quando abbiamo varato il programma, adesso il lavoro che abbiamo deciso e che abbiamo iniziato a svolgere non può essere messo in discussione anzi, dobbiamo dimostrare in ogni momento molta serietà, per non trovarci di fronte ad un'oscillazione di posizioni che potrebbe ostacolare lo svolgimento stesso del lavoro che ci siamo proposto.

ALTERO MATTEOLI. Non vi è dubbio che la pregiudiziale posta dall'onorevole Taradash abbia una forte motivazione. Ma devo essere sincero: senza offendere nessuno, ritengo ridicolo parlare di segretezza stamani, dopo quello che è accaduto da venerdì in poi. Neanche i rappresentanti di gruppo in Commissione - tra i quali rientro anch'io - erano stati informati su chi fosse il pentito che avremmo dovuto ascoltare oggi ed alcuni colleghi di gruppo - fortunatamente non si tratta del mio caso - sono arrivati a pensare che questi sapessero il nome ma non volessero dirlo. Dopo di che - altro che qualche indiscrezione! - abbiamo letto sui giornali ed ascoltato da radio e televisione tutte le notizie possibili sul "posto segreto". Aggiungo che non sono assolutamente d'accordo con la proposta di delegare all'ufficio di Presidenza il compito di tenere una conferenza stampa perché, non me ne vogliano i colleghi dell'ufficio di presidenza, ritengo che i maggiori responsabili di quanto è accaduto siano loro. Pensiamo anche al modo in cui è stato organizzato il nostro arrivo qui: siamo stati per mezz'ora davanti al palazzo di Montecitorio ad aspettare, come tanti ragazzini, un mezzo che ci conducesse in questa sede. Come tanti ragazzini, lo ripeto, mentre alcuni colleghi si sono alzati alle 4 o alle 5 del mattino per essere puntuali all'audizione! Quindi, non delego a nessuno la conferenza stampa e trovo assurdo che si parli di segretezza quando non siamo stati capaci di tenere segreta un'audizione così importante come quella odierna. Cosa vogliamo fare? Stabilire che la seduta sia segreta mentre poi ciascuno di noi - includo anche me - si rivolgerà al giornalista amico per fornire indiscrezioni? E' assolutamente fuori luogo il solo avanzare la proposta di seduta segreta, visto il comportamento che è stato tenuto. Dunque, che la seduta sia pubblica. Saranno i giornalisti a valutare ciò che vorranno o non vorranno scrivere e questa decisione sarà rimessa alla loro responsabilità, non a quella di qualcuno di noi.

GIOVANNI FERRARA SALUTE. A me pare che non vi sia alcun bisogno di esprimere un giudizio critico sull'accaduto. Il dato di fatto è che queste cose non sono segrete, non possono rimanerlo e - per inciso - io mi chiedo anche se sia giusto. Dopo tutto, noi siamo parlamentari, responsabili verso il corpo mistico del Parlamento italiano; siamo gli eletti dal popolo, responsabili verso gli elettori e non capisco perché io, ad esempio, dovrei tenere nascosto ai miei elettori quanto ho saputo nell'esercizio dell'attività parlamentare. Ma questa è una questione di principio che non possiamo risolvere qui. In pratica, se dopo l'audizione odierna (prescindo dal fatto se essa debba tecnicamente essere segreta o meno, perché si tratta di una scelta importante ma secondaria) i componenti della Commissione faranno i misteriosi, per cui all'esterno si viene a sapere che in questa sede sono state dette alcune cose che la Commissione ha ritenuto di tenere segrete, il risultato sarà in primo luogo che queste cose diventeranno ugualmente pubbliche; e in secondo luogo, che si speculerà sul fatto che

Pag. 346 la Commissione voglia tenerle segrete, quasi vi fossero comuni interessi inconfessabili da tutelare; in terzo luogo, si fantasticherà sulla base di ciò che verrà rivelato, per cui non avremo una realtà correttamente censurata ma del tutto deformata. A mio avviso, è perfino più pericoloso, sotto il profilo della serietà, cercare di mantenere il segreto. Esistono, invece, problemi più specifici: possono emergere in questa sede notizie che è necessario rimangano segrete per non intralciare la prosecuzione delle indagini giudiziarie; si tratta di una selezione che personalmente non sono in grado di fare e che più opportunamente potrà essere fatta solo in virtù di un rapporto con l'autorità giudiziaria che sta compiendo determinate indagini. In questo senso, e solo in questo senso, bisogna chiedersi cosa effettivamente possa essere utile non diffondere: a tal fine, ritengo che la presidenza possa avere l'autorità di operare una simile selezione; per il resto, mi rimetterei ad un rapporto responsabile ma realistico con l'opinione pubblica e con la stampa.

LUIGI BISCARDI. Desidero associarmi ai rilievi che sono stati mossi in ordine all'ampia informazione che è stata data dell'audizione odierna. Da ciò conseguono due esigenze: da un lato, quella dell'informazione che dobbiamo fornire all'opinione pubblica che di certo attende notizie; dall'altro, quella della riservatezza da parte della Commissione, soprattutto per ciò che concerne alcuni aspetti che possono risultare importanti per le indagini in corso. Ho ascoltato l'intervento del collega Ferrara Salute e sono anch'io convinto che debba esservi un rapporto tra parlamentari ed opinione pubblica ma credo che la Commissione possa dare alla presidenza il mandato di redigere un comunicato ufficiale che indichi i passi cruciali dell'audizione, naturalmente con la cautela necessaria in occasioni come queste.

MAURIZIO CALVI. Vorrei sottolineare che sotto il profilo istituzionale esiste un obbligo per tutti i membri della Commissione quando questa assuma i poteri della magistratura; in questo senso, non vi è dubbio che, nel momento in cui agiamo come una Commissione d'inchiesta, il requisito della riservatezza deve essere ancor più assicurato. Il secondo aspetto riguarda il fatto (previsto dalla legge) che i commissari sono tenuti all'obbligo della riservatezza e sono sottoposti a tutte le conseguenze, anche di carattere penale (lo dico tra virgolette), nel momento in cui questa venga meno. Si devono fare valutazioni non solo politiche ma anche di ordine istituzionale e queste ultime debbono risultare assorbenti in questa fase, altrimenti si corre il rischio di far venir meno gli effetti del lavoro compiuto dalla Commissione ai fini della relazione conclusiva che essa presenterà al Parlamento. A mio avviso, in questa fase si rafforza l'elemento della riservatezza, nel senso che i membri della Commissione sono tenuti ad offrire all'esterno valutazioni in qualche modo contenute. Se riuscissimo a mantenere la riservatezza di cui ho detto, certamente aumenterebbe anche l'interesse del paese nei confronti del nostro lavoro (un lavoro più esposto di altri, proprio per il carattere particolare della materia) e la considerazione nei confronti della Commissione. Per tali ragioni, riterrei opportuno in questa fase mantenere la segretezza dei nostri lavori, fermo restando che al momento della predisposizione della relazione finale sarà possibile offrire all'opinione pubblica una serie di elementi di carattere generale. Sotto tale profilo, condivido l'osservazione del collega Taradash relativamente all'obbligo della riservatezza, salvo un giudizio di carattere generale che potrà in seguito essere espresso.

OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Concordo con l'onorevole Taradash e con gli argomenti da questi portati, argomenti che non ripeterò. Mantenere la riservatezza mi sembra doveroso, anche perché

Pag. 347 tra ciò che viene affermato qui e l'effettiva verità vi è tutto l'aspetto del riscontro, che impone l'obbligo della riservatezza. Probabilmente abbiamo fatto male a non porci il problema già in occasione dell'audizione di Antonino Calderone. Se poi qualcuno verrà meno all'obbligo della riservatezza, diremo che egli ha violato una regola etica: non possiamo sostenere l'opportunità di fare a meno della riservatezza in ragione del fatto che qualcuno la violerà. Per quanto riguarda la conferenza stampa, riterrei più sensato decidere se e come tenerla alla fine dell'audizione odierna, valutando anche l'eventualità di diramare un comunicato.

MASSIMO SCALIA. Non ripeterò le osservazioni del collega Ferrara Salute, che condivido puntualmente. Ritengo che la questione della riservatezza vada affrontata dal punto di vista metodologico, a meno che nello stabilire cosa sia riservato non ci si voglia riferire al buon senso e ad elementi pragmatici. A proposito del segreto istruttorio - problema sollevato dal collega Ferrara - proporrei al presidente di sottoporre alla Commissione, dopo lo svolgimento dell'audizione, quali aspetti di essa possano configurare ipotesi ricadenti sotto la fattispecie del segreto istruttorio, che è il solo che in qualche modo mi fa sentire vincolato a certi comportamenti. Tutto il resto, infatti, mi sembra francamente assai poco definito. Ad esempio, può configurare riservatezza una conferenza stampa, da chiunque indetta? Dobbiamo, quindi, decidere anche su questi aspetti del problema perché altrimenti, se tutto non viene definito in modo preciso, l'unico limite che possiamo porci - lo ripeto - è quello del segreto istruttorio.

ALFREDO GALASSO. Ritengo che le complicazioni nascano da un errore iniziale, quello di aver deciso di ascoltare i pentiti mentre sono in corso indagini giudiziarie. E' inutile, quindi, star qui a stracciarsi le vesti. La questione che ora ci si pone è quella della sicurezza che può scaturire sia dalla segretezza sia dal suo contrario, vale a dire dal massimo della trasparenza. Poiché non credo che la responsabilità sia dell'ufficio di presidenza o del presidente, dico subito che sono stupefatto di quanto è accaduto: non riesco a capire per quale motivo un'audizione, che avrebbe dovuto essere segreta per ragioni di sicurezza, sia stata pubblicizzata in un modo tanto eccessivo, con un contorno di dichiarazioni e di aspettative tali da rappresentare - e lo dico senza esitazioni - quasi una provocazione. Siccome, sulla base della mia esperienza, considero ciò nient'affatto casuale, mi riservo di chiedere una discussione approfondita nel merito, che vada al di là della protesta per il modo in cui è stata platealmente pubblicizzata l'audizione di oggi. Ritengo che vi sia qualcosa di più profondo, che va analizzato e puntualmente approfondito. Una volta superate, mi auguro senza danno, le conseguenze di questa grave negligenza della disciplina della sicurezza, non penso ci sarà alcuna ragione - non foss'altro che per non creare disparità di trattamento in tutte le direzioni - per svolgere un'audizione segreta. Sul punto si potrà eventualmente decidere dopo, ma il mio parere è nettamente contrario perché si stanno "pasticciando" mille cose: la sicurezza, il riserbo, il riguardo dovuti alle persone che eventualmente potranno essere nominate, le aspettative che possono essersi create. Stando così le cose, sul piano politico-istituzionale la migliore difesa per la Commissione è proprio quella della visibilità, della trasparenza, quindi della pubblicità. Ritengo necessario, signor presidente, sottolineare l'assoluta opportunità di una riflessione - anche prima dell'epoca prevista - su queste vicende, in particolare sulla natura delle rivelazioni dei cosiddetti pentiti. Abbiamo infatti il dovere di fare chiarezza sul piano politico-istituzio-nale: non è possibile che i pentiti vengano immediatamente creduti, allorquando si tratta di accusare 200 o 300 persone, che poi vanno in galera, mentre quando si

Pag. 348 parla di politici o di magistrati, altrettanto immediatamente vengono considerati inattendibili. Così non va assolutamente bene! Ed è questione, presidente, che ci riguarda direttamente, perché è politica ed istituzionale e non giuridica. Ribadisco, quindi, la necessità di affrettare i tempi di un dibattito sul tema, magari attraverso la fissazione di una seduta straordinaria. Concludendo, desidero precisare che concordo soltanto sulla prima parte della lettera inviata dal presidente ai Presidenti delle Camere e non sulla seconda perché, a mio avviso, ciascun parlamentare deve assumersi - se non viola alcuna norma di legge - la responsabilità di presentare le interpellanze che crede avendo il diritto e il dovere di valutare ed in qualche caso di esplicitare quanto ha ascoltato: singolo o gruppo che sia.

ALFREDO BIONDI. L'atmosfera da "gita scolastica" di questa mattina ha davvero un po' turbato tutti perché abbiamo avuto la sensazione - o almeno l'ho avuta io - che la riservatezza quanto meno non fosse accompagnata al genio dell'organizzazione. Elevo una formale protesta, perché è perfettamente inutile pretendere da noi comportamenti coerenti, seri e riservati dopo ciascuna audizione quando sui giornali si legge quel che si legge. Stamani ho telefonato a mia moglie per dirle che andavo a una riunione un po' segreta; lei mi ha risposto: "La Gazzetta del lunedì dice che interrogate Buscetta". Siccome è l'ultimo giornale in Italia ad avere le notizie fresche, ciò significa che la notizia era davvero stagionata! Queste situazioni francamente dispiacciono perché creano il problema opportunamente posto dal collega Ferrara, vale a dire fino a che punto si possa tenere nascosta una cosa di cui la gente si aspetta di aver contezza ed oltre quale limite l'esigenza di dar conto delle azioni che ciascun parlamentare compie - anche nella sua qualità di rappresentante di interessi e di valori - non impinga nelle realtà processuali, nella reputazione delle persone; aspetto, questo, non certamente trascurabile ed opportunamente richiamato dal collega Galasso quando sottolineava il valore delle parole di chi accusa tutti o qualcuno, sceglie le accuse stesse, utilizza gli spazi vuoti che gli si presentano magari per levarsi qualche soddisfazione personale e forse non solo personale, visto che molte volte le domande sollecitano le risposte. Basta leggere i verbali e chi li legge per mestiere sa benissimo che certe cose vengono fuori a seconda delle sollecitazioni che si fanno, mentre altre invece si glissano, sicché appare un aspetto piuttosto che un altro o per lo meno non appare tutto ciò che noi vorremmo invece dimostrare esistere per essere fonte di prova. Ci troviamo, dunque, di fronte a questo problema: possiamo limitare le notizie quando il consesso di cui mi onoro di far parte è così numeroso e non controllabile sul piano personale, politico e parlamentare? Diceva bene il collega Galasso allorquando si chiedeva fino a che punto ciascuno possa contenere i propri doveri di esplicitazione. Non ho risposta per la domanda che ho posto, ma posso portare il contributo della mia esperienza. Ho fatto parte della Commissione di inchiesta sugli eventi del giugno-luglio del 1964, cioè della cosiddetta "Commissione SIFAR". Anche allora si interrogavano persone molto importanti o presunte tali in ragione della loro collocazione in settori della vita militare, politica ed amministrativa. Onestamente devo dire che tutti hanno ottemperato all'impegno di non dir mai nulla. Non dimentichiamo, inoltre, che in processi anche molto gravi, sui quali le notizie sono molto attese, i giudici - che sono pure numerosi in camera di consiglio, come capita nelle giurie popolari - non raccontano di certo quello che è accaduto in tale sede. Penso che tutti noi si debba assumere l'impegno d'onore che alcune cose - che possiamo individuare a conclusione del l'au dizione - non vanno dette perché, come diceva il professor Biondi (mio omonimo ma non parente) "'un è utile e 'un si pole". Chi le dice commette un

Pag. 349 fatto disdicevole sul piano etico, come ha sostenuto poc'anzi la collega Fumagalli Carulli. Oppure diciamo che siamo tutti liberi, ma non procediamo alle "somministrazioni" parziali attraverso un comunicato, accompagnato dalle dichiarazioni del più disinvolto tra noi. Procedere in tal modo è pericoloso, incontrollabile e fa correre il rischio di dare una valutazione strumentale che può indebolire le conclusioni finali alle quali si perverrà. Senza un'analisi, uno studio, una "camera di consiglio" al termine della quale esprimere un giudizio complessivo, si corre il rischio di svolgere un lavoro inutile e dannoso. Dunque, si cominci da oggi, perché l'audizione precedente è stata ampiamente considerata un esperimento da non ripetere, sia dagli organi di stampa sia dalle interrogazioni parlamentari presentate. Questa è la mia opinione, che non intendo imporre agli altri: esorto però a decidere, assumiamo impegni precisi - stavo per dire da "uomini d'onore", ma in questa sede non è conveniente! - da persone perbene, e rispettiamoli. Per il resto, affidiamo all'ufficio di presidenza il compito di fornire le notizie che non interessano a nessuno: l'opinione pubblica vuole vedere l'iride, non vuole meline, vuole capire che cosa è davvero successo. Ma se ciò non può essere detto perché crea problemi alle indagini o alle persone, assumiamo l'impegno di non dirlo. Per quanto mi riguarda, assumo tale impegno pur essendo tra i più loquaci, come ho dimostrato sempre.

FERDINANDO IMPOSIMATO. Ho già avuto occasione di manifestare le mie perplessità sulle audizioni dei collaboratori della giustizia perché temevo si verificasse quanto puntualmente sta accadendo. Tuttavia, una volta deciso di ascoltare i collaboratori della giustizia considerata la disponibilità dei magistrati a permettercelo, credo che il rischio di interpretazioni, falsificazioni o strumentalizzazioni delle dichiarazioni di Buscetta, e degli altri che incontreremo, non possa essere assolutamente evitato. Non penso che l'impegno di non parlare possa essere rigorosamente mantenuto, perciò ritengo che l'unica possibilità di evitare strumentalizzazioni sia di dare pubblicità all'audizione di Buscetta. In proposito, vorrei richiamare alla vostra attenzione un particolare importante: quando sono stati emessi i mandati di cattura nei confronti di taluni mafiosi a seguito delle dichiarazioni di Marchese e Mutolo, la stampa era in possesso della copia dell'ordinanza di custodia cautelare che saggiamente, secondo me, la polizia giudiziaria - d'accordo con i magistrati - aveva consegnato. E' stata proprio la possibilità data alla stampa di leggere le dichiarazioni ad evitare quegli interventi strumentali che senz'altro si sarebbero verificati. Ritengo sia possibile impedire la strumentalizzazione delle dichiarazioni di Buscetta solo consentendo alla pubblica opinione di partecipare all'ascolto delle dichiarazioni dei pentiti, come del resto avviene negli Stati Uniti d'America, dove le audizioni dei mafiosi vengono trasmesse in televisione. Ovviamente, ciò non significa che le dichiarazioni rappresentino il Vangelo, perché devono essere verificate e riscontrate, ma questo è un lavoro che svolgeremo noi da una parte ed i magistrati dall'altra. Ciò non toglie, ripeto, che così facendo si eviterà a qualcuno di noi il ricorso a dichiarazioni strumentali, parziali o faziose sulle affermazioni di Buscetta.

PRESIDENTE. Mi rincresce per l'inconveniente segnalato dai colleghi Biondi e Calvi che, devo dirlo, non è dipeso dagli uffici del Parlamento, in quanto del trasferimento dei parlamentari si erano incaricati gli uffici di polizia. Anzi, la Camera è intervenuta con una certa rapidità per mettere a disposizione mezzi e consentire ai parlamentari di giungere in tempo. Ci attiveremo affinché per il futuro non si ripetano più questi fastidiosi inconvenienti.

Pag. 350 Per quanto riguarda la questione di merito, sono state avanzate diverse proposte: quella di procedere in seduta segreta - che a norma di regolamento deve essere sostenuta da cinque membri della Commissione - sarà posta immediatamente in votazione, salvo la possibilità, in una successiva verifica, di valutare quali parti dell'audizione possano essere rese pubbliche. Voglio dire ai colleghi che a conoscenza dell'audizione del signor Buscetta erano formalmente i capigruppo, i componenti l'ufficio di presidenza (ai quali è stato consegnato venerdì un riassunto delle dichiarazioni di Buscetta), gli uffici di polizia che trattano con il signor Buscetta, e che non avevano alcun interesse a divulgare la notizia, nonché alcuni uffici giudiziari. Devo altresì ricordare alla Commissione che, a seguito d'intese intervenute con le autorità giudiziarie di Palermo, non verrano poste domande su due specifiche questioni su cui sono in corso indagini preliminari da parte di quell'autorità. Per il resto, l'autorità giudiziaria palermitana non ha posto difficoltà né sulla forma né sull'estensione dei quesiti.

ALTERO MATTEOLI. Signor presidente, non ho ben compreso di quali questioni si tratti.

PRESIDENTE. Infatti, non le ho riferite essendo materia di indagine. Forse non mi sono spiegato: l'autorità giudiziaria di Palermo ha chiesto di non porre domande su due questioni che naturalmente ha indicato ma che per delicatezza io non dirò. GIUSEPPE MARIA AYALA. E' corretto muoversi in tal senso.

ALFREDO GALASSO. L'autorità giudiziaria di Palermo dice a noi che cosa dobbiamo o non dobbiamo chiedere?

ALTERO MATTEOLI. Se non sappiamo di che cosa si tratta, rischiamo di porre al signor Buscetta proprio queste domande.

PRESIDENTE. Semmai, onorevoli colleghi, pregherò di non insistere su una particolare domanda. E' lo stesso criterio seguito la volta scorsa. Nella prima parte dell'audizione verranno poste alcune domande al signor Buscetta, poi seguirà una sospensione. Il signor Buscetta uscirà dalla sala in cui ci troviamo e i colleghi potranno formalizzare altre domande da porre. A quel punto, se tra le domande che i colleghi formuleranno rientrerà anche la materia indicata dai giudici di Palermo, pregherò i colleghi di non insistere.

ALFREDO GALASSO. Insisto affinché al termine della seduta si svolga una discussione, perché non si può andare avanti così.

ALFREDO BIONDI. Non credo che i magistrati possano dirci quello che dobbiamo fare. E' un questione di principio!

PRESIDENTE. Può darsi, ad ogni modo, che non venga posta alcuna domanda sulle questioni indicate dalle autorità giudiziarie di Palermo.

 ROMEO RICCIUTI. Siamo avvisati per il futuro.

ALTERO MATTEOLI. Signor presidente, vi un'altra questione che intendo evidenziare. Siamo tutti membri della Commissione, con gli stessi diritti e gli stessi doveri. Il presidente non può essere a conoscenza di notizie diverse rispetto a quelle note agli altri commissari, altrimenti si tratta di una gestione personalistica, che non possiamo accettare.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la proposta di svolgere in seduta segreta l'audizione del signor Tommaso Buscetta. Al termine dell'audizione, decideremo se e secondo quali modalità rendere pubbliche alcune parti della medesima e in che modo dare informazioni all'esterno. (La Commissione approva).

Pag. 351 (E' accompagnato in aula il signor Tommaso Buscetta). Audizione del collaboratore della giustizia Tommaso Buscetta. PRESIDENTE. Signor Buscetta, le chiedo di declinare le sue generalità.

TOMMASO BUSCETTA. Mi chiamo Buscetta Tommaso, sono nato a Palermo il 13 luglio 1928.

PRESIDENTE. Intende svolgere una dichiarazione preliminare?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, preferirei: sono stato invitato, negli ultimi anni, dalla Commissione del Senato americano sulla criminalità ed anche lì mi hanno chiesto di preparare una relazione prima di presentarmi a loro, in modo che avrebbero potuto farmi delle domande sulla mia relazione. Così ho fatto. Se voi volete, posso fare così.

PRESIDENTE. Ha già preparato una relazione?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. PRESIDENTE. Va bene, la esponga.

TOMMASO BUSCETTA. Premetto che sono un uomo libero. Non ho più nessun conto da regolare con la giustizia. La mia presenza in questa sala è volontaria; non avrò più sconti di giustizia, non dovrò particolari ringraziamenti. Vengo in nome di quella causa che abbracciai nel 1984. Credo fermamente che l'apporto dei collaboratori, così come è visto oggi, sia una cosa molto importante. Non perdetelo di vista: è una cosa che mai si era verificata in un processo siciliano, cioè di avere collaborazione da parte di gente appartenente a Cosa nostra. Vorrei chiarire - datemi l'opportunità di dire - che alcuni giornali, qualche politico parlano di suggerimenti. Non sono stato mai "suggerito" da nessuno. E' una cosa che mi offende. Io ho suggerito agli altri, non sono stato mai "suggerito" ed ho scelto una mia linea di condotta indipendentemente dai suggerimenti che mi potessero arrivare. Che sia ben chiaro. Perché si deve sfatare questa continua rincorsa: il politico al giornale, il giornale al politico, il politico al giornale e si fanno dei processi su cose inesistenti. Vorrei che questa mia presenza, per lo meno desidererei...scusate il mio italiano che è quello di un uomo che ha fatto la quinta elementare e certe volte fa confusione; questi sono i miei limiti. Vedo molto consenso oggi. La morte dei due giudici ha dato la possibilità che lo Stato italiano si svegliasse da quel torpore che l'ha sempre accompagnato, dal 1984 fino a pochi mesi fa, e desse quel contributo che doveva dare come forze di Stato per combattere il fenomeno mafioso. Il fenomeno mafioso non è comune, non è il brigatismo, non è la solita criminalità di cui la polizia si intende (e la combatte bene). Il fenomeno mafioso è qualcosa di più importante della criminalità: è la criminalità più l'intelligenza e più l'omertà. E' una cosa ben diversa. Un altro punto per me importante - ho fatto una scaletta e se non faccio bene, vi prego di scusarmi - è che è difficile per chi collabora con la giustizia puntellare le sue accuse con prove certe. Le accuse mafiose rimangono sempre nell'ambito mafioso, cioè omertose: quello che dico a te non lo dirai ad altri. Allora, quando avviene questo rapporto fra me e la persona a cui si rivolge il mafioso, sono cose che rimangono tra me e lui, cioè che non dovrò riferire neanche ai miei più diretti amici. Quando poi negli anni si parlerà di queste cose, quali sono le cose che potrà sostenere un collaboratore della giustizia? Potrà dire: io so questo. Sta a voi stabilire fino a dove arriva la prova per parlare di queste cose. Perché altrimenti nessuno parlerà mai più a favore della giustizia, perché diventa una cosa molto ridicola. Certamente mi domanderete perché fino a

Pag. 352 pochi mesi fa non avevo parlato di politica; vi prevengo e rispondo subito: il giudice Falcone - che in pace riposi - venne molte volte negli Stati Uniti per chiedermi se fossi già pronto per parlare di politica. Credo che sia venuto tre volte e sempre ho risposto di no, fino a pochi mesi fa; se fosse ancora vivo il giudice Falcone, io risponderei di no, perché le sentenze ... A me non interessa se l'imputato venga condannato o no, è una cosa che non mi interessa, a me interessa però che quando pure in tribunale riescono a fare una sentenza che poi arriva a Roma e sento che il processo ricomincia tutto da capo, non capisco più niente, rimango nella mia ignoranza e dico: ma cosa succede? Cosa è successo di nuovo? Perché lo Stato italiano non vuole combattere la mafia, questo è il mio modesto parere. Quindi quando Falcone mi domandava, io ero sicuro che dovevo rispondere di no. Questa scelta non era mai stata condivisa dal giudice Falcone, perché egli voleva la mia collaborazione fra mafia e politica e io avevo sempre detto "no", anche all'avvocato Galasso, parte civile nel maxiprocesso. Ho avuto la possibilità di leggere un documento nella rivista Avvenimenti sull'incontro fra me ed il giudice Falcone agli inizi di quest'anno. Credo che tutti voi conoscevate la dignità morale del giudice Falcone, tutti voi conoscevate la persona seria, la persona battagliera, ma era una persona che seguiva i canoni e la rigidezza della legge, egli non deviava. Il giudice Falcone venne molte volte a trovarmi negli Stati Uniti, ma sempre in compagnia di altri giudici e di poliziotti, mai solo. Ho avuto incontri con il giudice Falcone; non ho avuto telefonate con il giudice Falcone, io avrò telefonato al giudice Falcone negli anni 1986-1987. Da quell'epoca non ho mai più telefonato al giudice Falcone e lui neppure a me, perché non sapeva a quale numero trovarmi. Ma c'è di più: questo documento è falso perché dice che l'FBI ha registrato quello che io ho detto al giudice Falcone. E' stato commesso un grossolano errore: io non sono mai stato con l'FBI, io sono stato con l'FBI nel primo periodo, cioè fino a Natale 1984; dopo quel periodo sono stato preso in consegna dalla DEA e affidato a un uomo della DEA e anche quando dovevo parlare col giudice Falcone nel Dipartimento di giustizia americano, lo incontravo con la DEA. Quindi questa notizia sull'FBI è falsa. Che cosa è cambiato dopo la morte del giudice Falcone e Borsellino? E' cambiata una predisposizione nuova, un interessamento maggiore, una volontà a fare meglio di come si è fatto fino a pochi mesi fa; quindi mi trovo pronto alla collaborazione. Oggi in questa sede non ho nessuna intenzione di fare nomi di politici, non ho nessuna intenzione di sollevare polveroni; ho intenzione di farli e li farò ai giudici i quali non solleveranno polveroni, faranno indagini ed il nome del politico verrà fuori quando sarà opportuno che ciò accada. E' assurdo che si debba sentire che Buscetta Tommaso parla a ruota libera con la trasmissione seguita, per poi domani sentirmi denunziare per calunnia. Non voglio essere calunniato e non calunnio. Le mie sono verità, ma quelle mie; se poi posso provarle o no, sarà competenza della giustizia appurare se le mie dichiarazioni siano vere o no. E' mia convinzione che con le opportune inchieste giudiziarie, con il mio apporto - perché sono totalmente a disposizione - si potrà scoprire effettivamente questo rapporto. Non è il terzo livello, signori, scordatevelo: non esiste il terzo livello. Con il giudice Falcone abbiamo fatto delle lotte non comuni ma per me non è mai esistito e non esiste il terzo livello. Non vi sono politici che ordinano i mafiosi; non esiste questa possibilità e non è mai esistita. Il mafioso ha usato il politico e non viceversa. Avevo preso un appunto ma è di questa notte e quindi ero un po' assonnato; avevo scritto: "Lo Stato sa fare molto bene i funerali di Stato". Ho visto alla fine degli anni settanta, quando ero carcerato a Cuneo insieme con i terroristi, tutte le forze politiche

Pag. 353 italiane convergere senza corrente, né di sinistra né di destra, per combattere il fenomeno terroristico. Perché questo non è stato fatto per la mafia? E' quello che mi domando, è quello che domando a voi politici. Perché non è stato fatto? Perché ancora ci sono le correnti per nominare un giudice, per fare un superprocuratore? E' perché non si vuole combattere o perché vi siete abituati a stare insieme ai mafiosi? I mafiosi non guarderanno in faccia nessuno; chi non farà a loro comodo è destinato ad andarsene, ora o più tardi. Convincetevi, signori miei, convincetevi: il fenomeno mafioso non è solo criminale, è un fenomeno che porta molto più lontano di quello criminale. I mafiosi non fanno volantini, non scrivono al compagno. I mafiosi hanno intese con qualunque ceto della società. Il mafioso sa accedere a tutti i livelli. Prima di finire voglio dire soltanto una cosa a me molto cara. Per me la morte del giudice Falcone e del giudice Borsellino non è la solita morte di una persona comune; per me è stata qualcosa di più. Il giudice Falcone per me era il faro di questa lotta contro la mafia: lo Stato italiano non si è reso conto di chi fossero il giudice Falcone e il giudice Borsellino; non li hanno valutati, li hanno denigrati, specialmente il giudice Falcone. Io so leggere bene tra le righe ed ho in questo un'esperienza che vorrei trasmettere ad altri. Non so spiegarmi bene a parole, ma ho molta esperienza. Ho visto la delusione negli occhi del giudice Falcone tutte le volte che l'ho incontrato, ma egli sempre rideva. L'hanno accusato di essere una primadonna, anch'io lo sapevo che l'accusavano di essere una primadonna: ma era una primadonna che lavorava, era una primadonna che voleva seriamente combattere la mafia. Se era primadonna, lo era per questa ragione, non certo per andarsene a casa a vivere tranquillo e sfoggiare la sua consapevolezza nei ristoranti o nei night. Era una primadonna che viveva come un carcerato. E' a lui che nasce l'idea della superprocura, è a lui che nasce l'idea della DIA. Signori miei, sosteneteli; li avete gli ordini. Per me - per me, sottolineo - la mafia sta rantolando. L'ho detto anche al dottor Biagi nella mia intervista: per me la mafia sta rantolando. Ha bisogno di sentire che lo Stato non ne può più ma voi siete vicini a vincere. Resterà la criminalità, quella criminalità che la polizia saprà come combattere; ma la mafia è sull'orlo del fallimento: approfittatene. Ho finito, grazie.

PRESIDENTE. La ringrazio, signor Buscetta. Prima di passare alle domande, desidero informarla che la Commissione ha deciso di procedere in seduta segreta a questa audizione, riservandosi poi di decidere alla conclusione se rendere pubbliche alcune parti e quali. Lei, interrogato il 1^ febbraio 1988 dal giudice Falcone, disse, tra l'altro, che il nodo cruciale del problema mafioso è costituito dal rapporto mafia-politica, cui ha fatto riferimento anche in questa sua esposizione. Può spiegare alla Commissione parlamentare il significato di tale affermazione?

TOMMASO BUSCETTA. Come significato o come personaggi?

PRESIDENTE. Cosa significa l'affermazione che il rapporto mafia-politica è tanto importante?

TOMMASO BUSCETTA. Innanzitutto voglio dire una cosa. Non so se rispondo bene, ma siamo qui e possiamo andare avanti fino all'eternità, non ho il problema di far presto. Fin dagli anni nei quali si costituì la nuova Repubblica italiana e si formarono i partiti, la mafia votò sempre, anche per lo spauracchio che c'era - ci fu sempre, in tutte le epoche - del comunismo, dalla democrazia cristiana tutto a destra, senza il partito fascista, perché questo era un altro partito da non votare. Si aveva la possibilità di scegliere il candidato: cioè io potevo appoggiare un candidato della

Pag. 354 democrazia cristiana ed un altro poteva appoggiare un altro signore di un altro partito ma sempre dal lato destro. Quindi noi non abbiamo mai votato partiti di sinistra. Non mi parlate del 1987 o del 1989 perché credo che già sappiate la risposta. Ma negli anni precedenti si è sempre votato dalla democrazia cristiana fino al limite del partito fascista italiano. Non so se ho risposto perché non ho capito bene la domanda. PRESIDENTE. Questo l'abbiamo capito. Lei sostiene che il problema più importante è dato proprio dal rapporto tra mafia e politica, più importante del rapporto tra mafia e finanza, più importante del rapporto tra mafia ed altri strati della società. E' così o no?

TOMMASO BUSCETTA. Io credo di sì.

PRESIDENTE. Può spiegare perché è così importante?

TOMMASO BUSCETTA. Il mafioso ha sempre cercato - naturalmente dico fino al 1984, perché la mia vita si è fermata lì, quindi devo dire fino ad allora e non posso parlare di oggi - ed aveva l'appoggio politico del personaggio che a lui interessava per tutte le cose che si sarebbero svolte, non parliamo processualmente, perché allora non esistevano i processi o i processoni, ma per le deleghe per una importazione. Io stesso nel 1963 ero un importatore di burro a Milano, quindi anch'io avevo i miei politici ai quali rivolgermi per avere le licenze per l'importazione; quindi sto parlando in prima persona. Non dobbiamo pensare al processo, dobbiamo pensare a tutto quello che può essere inerente anche commercialmente. Quindi ogni candidato vendeva la sua disponibilità elettorale contro i voti. Punto e basta. Credo di non avere altro da aggiungere.

PRESIDENTE. Può fare alla Commissione esempi concreti di favori ricevuti da politici? Lei adesso ha parlato di licenze di commercio, può fare altri esempi?

TOMMASO BUSCETTA. Non possiamo aspettare che siano i giudici istruttori a comunicare questo a voi?

PRESIDENTE. Io le ho chiesto esempi, non di indicare quella licenza o quel favore.

TOMMASO BUSCETTA. Ho già fatto il mio personale esempio per quanto riguarda l'importazione di burro. Nel 1963 (non so se è ancora così) lo Stato concedeva delle licenze di importazione, cioè misurava l'importazione, dava 200 tonnellate a te, 250 tonnellate a lui e quindi era una bolgia per vedere chi poteva ottenere la licenza e chi poteva fare questo. Io no: quindi avevo bisogno di qualcuno che mi rappresentasse, in politica.

PRESIDENTE. Per quanto lei ne sa, a parte le importazioni, gli appalti rientravano in questa logica?

TOMMASO BUSCETTA. L'importazione delle banane è un'altra cosa, e non è il maxiprocesso in cassazione. E' l'importazione delle banane: io sapevo dell'importazione delle banane. Questi sono gli esempi che posso portare. Ma queste cose vanno dette in una maniera che si possa indagare prima di sollevare polveroni e fare preparare a chi sarà indagato ... facendo la figura di ...

PRESIDENTE. Gli appalti rientravano in questa logica?

TOMMASO BUSCETTA. Certo.

PRESIDENTE. Quali erano i suoi rapporti con Badalamenti e con Antonio Salamone? TOMMASO BUSCETTA. Sotto quale aspetto? Perché erano buoni con tutti e due.

Pag. 355 PRESIDENTE. Di che tipo di rapporto si trattava? Era un rapporto di confidenza, le parlavano, sia pure come avviene tra uomini d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, sì. Avevo con tutti e due un rapporto molto buono. Con Badalamenti prima degli anni 1975-76; poi nuovamente, perché mi faceva pena come era stato trattato nel 1980.

PRESIDENTE. Perché Badalamenti fu accantonato, è vero?

TOMMASO BUSCETTA. Fu accantonato. Credo nel 1978.

PRESIDENTE. Sì.

TOMMASO BUSCETTA. Con Salamone sempre buoni, fino al 1984, s'intende.

PRESIDENTE. Salamone era uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Era rappresentante...

PRESIDENTE. Di quale famiglia?

TOMMASO BUSCETTA. San Giuseppe Iato.

PRESIDENTE. Può spiegare alla Commissione la struttura di comando di Cosa nostra? Come funziona Cosa nostra secondo ciò che lei sa?

TOMMASO BUSCETTA. La struttura di Cosa nostra come commissione, come famiglie?

PRESIDENTE. Sì.

TOMMASO BUSCETTA. Le famiglie sono riunite a tre a tre ed esprimono un capo mandamento. Il capo mandamento è la persona votata dalle tre famiglie per rappresentarle nella commissione. Quindi, noi abbiamo le famiglie, un capo mandamento che rappresenta tre famiglie e una commissione. Dopo la commissione c'è la commissione interprovinciale, che è costituita dai rappresentanti delle province di Palermo, Catania, Caltanissetta, Agrigento e Trapani. Questa è la commissione interprovinciale, che sta sopra la commissione provinciale.

PRESIDENTE. Quali sono i compiti della commissione interprovinciale?

TOMMASO BUSCETTA. La commissione interprovinciale tratta problemi che vanno al di sopra dell'interesse della piccola borgata. Se si dovesse decidere (è solo un esempio) un colpo di Stato, si riunirebbe la commissione interprovinciale.

PRESIDENTE. Chi comanda davvero nella commissione interprovinciale? Hanno tutti lo stesso peso o c'è qualcuno che comanda di più o di meno, per quello che lei sa?

TOMMASO BUSCETTA. Facciamo da uno a dieci: Palermo 10, Agrigento 8, Trapani 8, Caltanissetta 6, Catania 4.

PRESIDENTE. Quando dice Palermo, a chi intende riferirsi in particolare?

TOMMASO BUSCETTA. Intendo dire la provincia di Palermo.

PRESIDENTE. Ma all'interno di questa provincia quale gruppo ha più peso?

TOMMASO BUSCETTA. Oggi io ...

PRESIDENTE. Più o meno peso nell'evoluzione dei tempi?

TOMMASO BUSCETTA. Se devo rispondere per oggi, sono i corleonesi.

PRESIDENTE. Da quando hanno cominciato la loro ascesa?

TOMMASO BUSCETTA. E' complessa questa domanda; beh, io posso rispondere.

Pag. 356 La loro ascesa - escalation, direbbero gli americani - è cominciata nel 1963.

PRESIDENTE. Con la strage di Ciaculli? All'epoca di quella strage?

TOMMASO BUSCETTA. Sì; si sono sciolte tutte le famiglie.

PRESIDENTE. Perché si sono sciolte le famiglie?

TOMMASO BUSCETTA. Perché la polizia a quell'epoca fece sul serio, veramente, mandò in galera tutto il fior fiore e disturbò gli altri mandandoli al confino. Quindi, mancando a quell'epoca quella che era la sfera più alta, la commissione, che era già stata costituita da Salvatore Greco, detto Cicchitedda, si sbandò. Allora, si sciolsero tutte le famiglie, anche perché fu poi la volontà di un tale Cavataio Michele che si sciogliessero tutte le famiglie per riformarle secondo come lui aveva pensato nei lunghi anni che aveva passato in carcere. Ma nel 1963 il Cavataio si era reso responsabile di una cosa gravissima: aveva messo delle bombe in una macchina ed erano morti dei poliziotti ed anche gente civile. A Villabate, per esempio, è morto un fornaio; la bomba era destinata ad un certo Li Peri, ma il Li Peri non scese di casa, passò il fornaio, vide la portiera della macchina aperta e la chiuse. A quell'epoca fu ritenuta una cosa molto grave da parte del Cavataio usare bombe come potrebbero averle usate i terroristi degli anni settanta. Da parte di tutti, all'unanimità (escluso solo il gruppo di Cavataio), fu giudicato che loro avrebbero dovuto pagare, fosse anche tra cento anni, quello che avevano commesso. La guerra si era svolta tra di noi negli anni 1963 e la sola cosa che era uscita fuori dai binari era stata la morte dei poliziotti e di quel civile di Villabate, e fu uno scandalo per Cosa nostra. Ora, invece, i corleonesi possono mettere le bombe per fare saltare in aria i giudici: questa è la loro Cosa nostra, la nuova Cosa nostra. Morendo il Cavataio, loro hanno perduto un uomo in quell'azione, Bagarella. Approfittando dell'allontanamento di Salvatore Greco detto Cicchitedda, nonché dell'allontanamento mio, di Badalamenti e di Stefano Bontade, loro imposero che la nuova commissione fosse costituita da tre persone: Salvatore Riina in sostituzione di Liggio...

PRESIDENTE. Che era in galera?

TOMMASO BUSCETTA. No, non era in galera, era molto ammalato, aveva un problema di reni, di vescica. Oltre a Salvatore Riina, Badalamenti e Bontade. Ma da questo momento ha inizio veramente la lotta contro tutti gli amici di Salvatore Greco, perché egli era responsabile di aver chiesto a Luciano Liggio negli anni sessanta perché avessero ammazzato Navarra. Qui noi andiamo a fare la storia e non so se abbiamo il tempo per poter ... Allora, Luciano Liggio non aveva sopportato questo affronto da parte di Cicchitedda e cominciò gradualmente ad eliminare tutte quelle persone che potevano essere vicine a Salvatore Greco, tra cui Badalamenti, Bontade, i Di Maggio, gli Inzerillo e ciò per una questione di potere. Potrei essere più dettagliato ma preferisco fermarmi qui, altrimenti facciamo ...

PRESIDENTE. Quali sono le caratteristiche dei corleonesi? In che cosa si differenziano come logica e come comportamenti rispetto a Cosa nostra tradizionale?

TOMMASO BUSCETTA. La ferocia, non c'è un'altra differenza.

PRESIDENTE. C'è un uso della violenza molto più ...

TOMMASO BUSCETTA. Ma non c'era prima, assolutamente, neanche da parte loro. E' una cosa che è nata ... e questo mi fa sorgere molti dubbi e mi fa pensare molto, per cui arrivo a delle conclusioni

Pag. 357 che preferisco non dire, perché sono cose che vanno oltre il problema mafioso e il problema criminale. Ci sono riflessioni molto profonde da parte mia.

PRESIDENTE. Può per cortesia accennare alla Commissione parlamentare ...

TOMMASO BUSCETTA. No, signor presidente, perché io sono certo che la seduta è segreta e che siete tutti delle rispettabilissime persone, non c'è dubbio. Però è politica, dovete fare delle dichiarazioni quando uscite da quest'aula ed io dovrei dire delle cose che possibilmente creerebbero panico ed io non voglio assolutamente che ciò si verifichi. Non voglio essere preso per pazzo, non ho quest'intenzione.

MAURIZIO CALVI. Senza fare nomi e cognomi, può fare delle riflessioni?

TOMMASO BUSCETTA. Le mie riflessioni sono gravi senza fare nomi e cognomi. Io non parlo di fare nomi e cognomi, parlo di riflessione personale e voi potreste benissimo dirmi: "Signor Buscetta, guardi, la smetta, se ne può tornare in America e lasciarci tranquilli".

PRESIDENTE. Quindi, sostanzialmente, lei teme che queste riflessioni, che sono sue, possano in qualche modo ... TOMMASO BUSCETTA. Signor presidente, io dico una cosa. Nel 1979 io sono carcerato. L'avvocato Galasso forse si arrabbierà con me - non vedo l'avvocato Galasso ... Nel 1979 io ero carcerato a Cuneo. Non pensate che le carceri siano invalicabili; le carceri sono valicabili. In carcere si viene con un documento falso ed entra qualsiasi persona. Io ne ho avuto.

PRESIDENTE. Documenti falsi?

TOMMASO BUSCETTA. Io ho ricevuto i capi mandamento dentro il carcere. Io ho ricevuto Michele Greco dentro il carcere. E mi veniva raccomandato un dottore che era stato carcerato, quindi non pensate che le carceri siano invalicabili: sono valicabili. Era il dottore Musumeci: i poliziotti avevano arrestato una serie di collaboratori perché sembrava che gli apparecchi dentali ... Noi abbiamo in bocca non so quanti denti, mentre sembrava che fossero 92. Erano troppi denti per una sola persona. Ed allora Greco entrò nel carcere, si rivolse a me ...

PRESIDENTE. In quale carcere?

TOMMASO BUSCETTA. All'Ucciardone, raccomandomi il dottor Musumeci, dentista. Mi disse: "Masino, mi raccomando a te. E' una persona perbene". Lui andò via poco tempo dopo, 8 o 15 giorni dopo, e andò all'ospedale e dall'ospedale poi andò in libertà. Però, io voglio dire che ho ricevuto visita anche da parte del capo della commissione.

PRESIDENTE. Stava dicendo che nel 1979 era a Cuneo.

TOMMASO BUSCETTA. Ero a Cuneo e mi mandarono l'imbasciata per parlare con i terroristi se si ammazzava il generale Dalla Chiesa in qualsiasi posto d'Italia e i terroristi avrebbero accettato di rivendicarlo, di fare il loro volantino. Io circuii un brigatista che era con me, importante perché aveva partecipato al sequestro Moro, e gli dissi, logicamente non facendo affermazioni, allo stile mafioso: sarebbe stato bello uccidere il generale Dalla Chiesa perché a voi vi dà disturbo. Ma se qualcuno lo ammazzasse il generale Dalla Chiesa, voi lo rivendicate? "No, no, noi rivendichiamo il generale Dalla Chiesa solo se uno di noi partecipa". Io mandai l'imbasciata indietro e il generale Dalla Chiesa, in quella occasione, rimase vivo perché io credo - io credo! - che l'entità che aveva chiesto il favore alla Cosa nostra di uccidere il generale Dalla Chiesa non voleva strascichi non si trovando chi aveva ucciso il generale Dalla Chiesa. Allora: ferma! Punto!

Pag. 358 Ma qual è il rimedio per uccidere il generale Dalla Chiesa? Secondo me - signori miei, non prendetemi per pazzo, per favore! - il generale Dalla Chiesa viene ucciso perché mandato in Sicilia ad andare a disturbare i mafiosi; e i mafiosi avrebbero dovuto liberarsi come un fatto fisiologico: tu ci disturbi, noi ti ammazziamo. Ma è vero questo il motivo perché viene ammazzato Dalla Chiesa? Non mi sono saputo spiegare? Solo così posso spiegarmi.

PRESIDENTE. Nel 1979, però, che interesse c'era ad eliminare il generale Dalla Chiesa?

TOMMASO BUSCETTA. Bravo! Se lo spieghi da solo. Spiegatevelo voi che siete intelligenti più di me. Io non so spiegarvelo. Certo che ancora non aveva disturbato nessun mafioso.

PRESIDENTE. Appunto.

TOMMASO BUSCETTA. O mi sbaglio?

PRESIDENTE. Ricorda se era la fine dell'anno oppure la prima parte del 1979? Era dopo l'assassinio di Terranova, che avvenne il 25 settembre del 1979, o prima?

TOMMASO BUSCETTA. Questo non posso ricollegarlo.

PRESIDENTE. Non ricorda se faceva caldo o freddo, visto che a Cuneo le stagioni si sentono?

TOMMASO BUSCETTA. Io posso ricollegarlo, attraverso il contatto con il brigatista che entrava dalla libertà, in che epoca è stato.

PRESIDENTE. Può dire il nome del brigatista?

TOMMASO BUSCETTA. E poi lo mandiamo fuori, e già va dal brigatista. Io lo posso dire, ma non lo so ... Signor presidente ...

PRESIDENTE. Non è un reato aver ascoltato una proposta di questo genere. Poi lei decida come ritiene. Non è che la inguaia.

TOMMASO BUSCETTA. No, non in questo senso. Siccome io ho intenzione di farli, questi discorsi, con i giudici istruttori di Palermo, i quali ho sentito giovedì, non dicendo questi discorsi, si intende. Io preferirei che il giudice istruttore poi facesse delle indagini per incontrare a questo per dirgli: ma qualche volta Buscetta ti parlò?

PRESIDENTE. Ho capito. Chi era la persona, o in che modo lei era stato contattato per fare questa proposta nel 1979?

TOMMASO BUSCETTA. Come?

PRESIDENTE. Come lei aveva ricevuto questo messaggio nel 1979?

TOMMASO BUSCETTA. E' molto semplice, veniva mio figlio, venivano i miei amici, attraverso ...

PRESIDENTE ... la persona che veniva da lei.

FRANCESCO CAFARELLI. Possiamo capire "l'entità"? A cosa si riferisce, nella scala gerarchica, quando parla dell'entità che prima aveva deciso e poi aveva deciso di non farlo?

PRESIDENTE. Soprassiederei a questa domanda.

TOMMASO BUSCETTA. Forse l'onorevole Cafarelli vuole sapere l'entità di Cosa nostra che aveva deciso questo? L'entità politica no! Però, se parliamo di entità di Cosa nostra, posso dirlo benissimo: la commissione.

Pag. 359 PRESIDENTE. Comunque, mi pare che lei abbia detto questo: che qualcuno, secondo la sua idea, potrebbe aver chiesto a Cosa nostra se si poteva fare quel tipo di operazione.

TOMMASO BUSCETTA. Ecco, sì. Perché, alla Cosa nostra cosa ci interessava il generale Dalla Chiesa? Nel 1979 non aveva niente contro i siciliani, in quel momento.

PRESIDENTE. Non c'è dubbio. Visto che stiamo toccando la questione Cuneo, lei ricorda che fu contattato anche per la vicenda Moro.

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Può spiegare alla Commissione in che termini fu contattato, che cosa successe?

TOMMASO BUSCETTA. Anche questo io vorrei ... Io fui contattato, ma addirittura per questa cosa ne vorrei parlare ai giudici. Non c'è da parte mia dire: no, non voglio parlare. No! Sono già aperto. Ma da questa parte qua io ho da suggerire ai giudici di andare a rintracciare delle bobine telefoniche, che appartengono a dei processi, dove si parla molto chiaramente dell'interessamento mio per essere trasferito di carcere per andare a parlare con i brigatisti se si può salvare la vita di Moro. Questo è nelle telefonate, ed io le ho lette le telefonate.

PRESIDENTE. Si, ma questo lei l'ha già detto davanti alla corte d'assise di Palermo.

TOMMASO BUSCETTA. Ed allora si deve avvicinare la persona che telefonava e che telefonava anche a mia moglie dicendo: noi stiamo facendo il possibile perché Masino sia trasferito a Torino. E poi sono andato a finire prima a Milano e poi a Napoli. Quindi sono andato in tutt'altro posto.

PRESIDENTE. Quindi lei doveva andare a Torino per cercare ...

TOMMASO BUSCETTA. Avrei dovuto andare a Torino.

PRESIDENTE. ... di tenere contatto con qualcuno. Le dissero con chi dovesse prendere contatto?

TOMMASO BUSCETTA. No, questa me la dovevo vedere io. Loro mandavano a chiedere il favore, ma non mi indicavano la persona. Ero io che dovevo vedere a chi mi potevo rivolgere di loro.

PRESIDENTE. Il compito che lei aveva, se non ho capito male, era quello di cercare di ottenere la liberazione di Moro. E' così?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. PRESIDENTE. Era stata la commissione a chiederle questo?

TOMMASO BUSCETTA. Era stata la commissione ed erano stati anche elementi della malavita milanese. Dico questo perché la commissione è una cosa che non si ascolta più perché non si è ascoltata mai, mentre l'elemento milanese è chiarissimo nelle telefonate dove dice: "non vogliono liberare a Moro". L'interlocutore che parla di Roma con questa persona a Milano, dice: non vogliono farlo liberare a Moro. Questo è nelle telefonate. Queste non sono mie dichiarazioni.

PRESIDENTE. Certo. Quindi lei fu contattato tanto da esponenti della commissione, quanto da persone della criminalità comune. E' così che ha detto?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. PRESIDENTE. Per cercare di entrare in contatto con un brigatista perché fosse liberato Moro.

TOMMASO BUSCETTA. E' esatto.

Pag. 360 PRESIDENTE. La commissione era d'accordo su questa strada?

TOMMASO BUSCETTA. Questo non posso stabilirlo, ma il messaggio mi veniva da Stefano Bontade. Io credo che la commissione era d'accordo. Non si sarebbe lui lanciato a capofitto in una cosa di questo genere senza che la commissione non lo sapesse. Io avrei potuto metterlo nei guai dicendo "a me Stefano mandò a dire di interessarmi".

PRESIDENTE. Dov'era a Palermo?

TOMMASO BUSCETTA. No, ero a Cuneo.

PRESIDENTE. A Cuneo ebbe questa sollecitazione?

TOMMASO BUSCETTA. No, no. Sono stato tre anni a Cuneo.

PRESIDENTE. Quando era a Cuneo ebbe questa sollecitazione?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. E doveva essere trasferito a Torino?

TOMMASO BUSCETTA. A Torino, dove c'erano i brigatisti. Invece sono stato portato prima a Milano e dopo a Napoli. PRESIDENTE. Quindi, non ebbe la possibilità di parlare di questa cosa.

TOMMASO BUSCETTA. No, credo che Moro era già morto. Non ricordo bene... si è perso là.

PRESIDENTE. Calò era d'accordo su questa linea?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so. Non lo so questo. PRESIDENTE. Non ha saputo di dissensi all'interno di Cosa nostra su questa questione?

TOMMASO BUSCETTA. Su questo proposito no.

PRESIDENTE. Le pongo la domanda per capire quali strategie lo Stato deve avere contro Cosa nostra: che cosa disturba di più, che cosa teme di più Cosa nostra? Che cosa possiamo fare per dare il massimo fastidio possibile? Capisce che cosa voglio dire?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. A voi non vi teme; non teme la giustizia perchè un mafioso per la strada si sente molto forte. La collaborazione di gente anche non mafiosa - questo è bene che lo fate rilevare nelle vostre interpretazioni - ... parliamo solo di mafia, mafia, mafia, ma c'è gente che collabora che non è mafiosa e collabora ad un livello altissimo, perché dà contributi notevolissimi. Quello che disturba veramente la mafia è non poter adempiere alle promesse fatte ai carcerati. L'uomo d'onore va in carcere sicuro, in tutte le epoche, che la sua famiglia starà bene, non passerà fame e che si interesseranno al massimo per poter farlo uscire. Non ci sarà mai un uomo d'onore, non c'era stato mai - correggo - un uomo d'onore che avesse temuto qualcosa su questo proposito. Ora, non mantenere questi impegni li preoccupa. Questo è molto grave. Quando dico "Riina sta rantolando" è perché veramente lo Stato ha risposto adesso a Riina. Ho sentito la sentenza di sabato, a lui non importa che gli abbiano dato l'ergastolo, ma ha un impegno morale con i Madonia, li ha portati allo sbaraglio, lui sarà molto, ma molto cattivo in questo momento.

PRESIDENTE. Quindi, la cosa che si teme è un rigore della giustizia tale da non consentire a Riina, ai capi, di mantenere le promesse. Un'altra persona ha detto "aggiustare i processi".

Pag. 361 TOMMASO BUSCETTA. Esatto. E' una parola tecnica.

PRESIDENTE. Che cosa vuol dire "aggiustare i processi"?

TOMMASO BUSCETTA. E' una parola tecnica. Come spiegare? Aggiustare i processi s'intende "ho parlato con il presidente", "ho parlato con il pubblico ministero", "ho parlato con il commissario", "ho parlato con un agente", "ho parlato con il testimone", "ho parlato con la giuria". Questo è aggiustamento di processo.

PRESIDENTE. Quindi, quando questo non è possibile, c'è un problema delicato.

TOMMASO BUSCETTA. Eh, diventa delicato.

PRESIDENTE. E' un problema in quanto uno come Riina promette "state tranquilli perché poi si aggiusta il processo" o lo è indipendentemente da questo?

TOMMASO BUSCETTA. Lui si è lanciato alla conquista della Sicilia, perché la Sicilia è sua; non pensiamo alla provincia di Palermo in mano a Riina perché è assurdo, lui ha tutte le province della Sicilia. Credo che l'interprovinciale era una cosa, lui la mantiene però ci mette i pupi che dice lui. Che cosa stavo dicendo?

PRESIDENTE. Stava dicendo che Riina comanda e che in questo momento ha lanciato una sfida molto elevata.

TOMMASO BUSCETTA. Ecco, ha lanciato una sfida molto grande allo Stato e ai perdenti. I perdenti sono finiti ormai. Non ci sono più i perdenti. Dovevamo stabilirlo e non siamo riusciti a stabilirlo nel processo chi erano i perdenti, perché io appartenevo ai vincenti. Calò ha vinto, io com'ero, perdente o vincente? Non l'abbiamo stabilito.

PRESIDENTE. Non c'erano né vincenti né perdenti. Nel passato, si aggiustavano i processi?

TOMMASO BUSCETTA. Ma certo, mica erano cose campate... il processo dei 114 recente, a Palermo, è una cosa che mi consta. PRESIDENTE. Fu aggiustato?

TOMMASO BUSCETTA. C'era il pubblico ministero, dottor Pedone se non vado errato, che sosteneva l'accusa e per tutta la durata del processo disse "ah, all'ultimo parlerò del presidente dell'associazione; all'ultimo parlerò di Gaetano Badalamenti, perché all'ultimo..." e tutti aspettavamo all'ultimo richieste. All'ultimo parlò di Badalamenti e fece la richiesta: il carcere espiato. Cioè Badalementi ha preso un anno e undici giorni e io due anni. E lui doveva parlare all'ultimo del presidente dell'associazione! Questi sono fatti, non dico bugie; sono fatti registrati: "all'ultimo parlerò del presidente di questa associazione".

PRESIDENTE. I processi si aggiustavano solo a Palermo o anche fuori?

TOMMASO BUSCETTA. No, anche fuori di Palermo. Specialmente in Calabria e nel napoletano. Senz'altro.

 PRESIDENTE. E a Roma? Scusi, che cosa interessava a Cosa nostra di quello che succedeva a Napoli o in Calabria?

TOMMASO BUSCETTA. Signori, vogliamo smetterla? Volete pensare che non è vero che a Napoli, in Campania e in Calabria ci sia solo la 'ndrangheta e la camorra? Non è vero, c'è la Cosa nostra!

PRESIDENTE. Spieghi questo.

TOMMASO BUSCETTA. C'è la Cosa nostra e loro sempre continuano con la 'ndrangheta. Non è vero; la 'ndrangheta esiste ancora, ma a livello di servire la Cosa nostra, non come entità che fa quello che gli pare e piace. Lasci sbagliare qualcuno della 'ndrangheta; lasci sbagliare Cutolo che fu l'idolo della camorra.

Pag. 362 Cosa nostra dalla Sicilia, insieme ai napoletani, distrusse a Cutolo. Chi è Cutolo oggi?

PRESIDENTE. Sì, è vero.

TOMMASO BUSCETTA. Ne hanno ammazzati mille e mille di persone, i siciliani e i napoletani. E' Cosa nostra, non camorra. PRESIDENTE. Quindi, quando i processi riguardavano uomini d'onore Cosa nostra si attiva?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Si attiva soltanto quando i processi arrivano in Cassazione oppure in tutti i livelli?

TOMMASO BUSCETTA. In tutti i livelli. Posso bere un bicchiere d'acqua?

PRESIDENTE. Certo. Vuole fumare? Vuole un caffè?

TOMMASO BUSCETTA. No, no, non fumo grazie. Ho smesso di fumare quattro anni fa.

PRESIDENTE. Lei ci ha spiegato che cosa reca maggiore danno a Cosa nostra: ebbene, che cosa reca maggiori vantaggi a Cosa nostra? Quali sono gli errori più gravi che, secondo lei, sono stati compiuti nella lotta contro Cosa nostra e che non bisogna ripetere?

TOMMASO BUSCETTA. Innanzitutto una giustizia no più dura, più giusta. No più dura perché già è dura la giustizia! Una giustizia giusta; la giustizia che veramente faccia i processi e non accetti... allora sì che è veramente una battaglia a Cosa nostra. E poi, come dissi al Senato americano, principalmente far vedere da parte dello Stato che è lo Stato quello che comanda, non è il mafioso. Perchè purtroppo nelle borgate siciliane chi comanda è il mafioso, non lo Stato. Sconoscono lo Stato. La figlia che scappò con il tizio? Non è allo Stato che ci si rivolge, ma al mafioso. Ancora oggi si rivolgono a Riina; tremano di paura per Riina ma si rivolgono a lui! Invece, facciamo vedere che lo Stato si interessa anche di queste cose!

PRESIDENTE. Quando Cosa nostra comincia a trafficare in stupefacenti?

TOMMASO BUSCETTA. Beh, ironicamente posso dire che sono "il re dei due mondi"... invece non è vero, sono un uomo povero, non possiedo una casa di proprietà. Questo fa parte della strategia di Cosa nostra. Sono stato perseguito e inseguito da lettere anonime che parlavano del mio contrabbando. Ma dove sono i soldi del contrabbando della droga che io avrei? Non lo so. Sinceramente non lo so! Una volta il giudice Falcone mi disse: "Va bene, signor Buscetta, anche l'uscere del tribunale sa che non è vero che lei trafficava in droga". Ma era tardi, tardi, già la nomea. Uno scrittore come Galluzzo scrive un libro e si inventa che sono stato arrestato nel centro di New York con una valigia con 85 chili di merce. Quindi parliamo di essere arrestato e portato in carcere. Falso! Come si può scrivere così? Lui è bugiardo; non è uno scrittore, è un bugiardo ambulante. Io non sono mai stato arrestato con una valigia che conteneva 85 chili di droga. Lasciamo perdere, questa è stata una deviazione. Comunque, sarà cominciato intorno al 1978, c'è stato un salto di qualità. Prima c'era il contrabbando delle sigarette; poi questo non servì più e si entrò nella fase del contrabbando di droga. E lo fecero con grande rilevanza.

PRESIDENTE. Tutto ciò verso la fine degli anni settanta?

TOMMASO BUSCETTA. Verso il 1978 cominciarono il vero e proprio... Quando uscii, nel 1980, vidi che i valori si erano persi. Chi aveva la villa al mare, chi in montagna.

Pag. 363 PRESIDENTE. Quindi, il traffico di stupefacenti ha portato cambiamenti dentro Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. E' stato il traffico di stupefacenti che ha deviato Cosa nostra, che ne ha fatto perdere i valori. Non ridete, per favore. Sono nato così e difficilmente si può cambiare. Io credevo in quella cosa.

PRESIDENTE. Quali sono stati i cambiamenti più importanti che si sono verificati per effetto del traffico di stupefacenti?

TOMMASO BUSCETTA. Tutta la strategia corleonese. Possiamo seguirla passo passo. Per poter fare un uomo d'onore nei miei anni...

PRESIDENTE. Quando è stato fatto uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Credo nel 1946. Ero molto giovane, direi bambino. Si mandavano dei biglietti per tutte le famiglie e per tutta la Sicilia, per sapere chi aveva da dire contro il giovane proposto per diventare uomo d'onore. Negli anni ottanta, adesso, si fa uomo d'onore chi sa sparare, mentre prima c'erano dei valori più morali. Non era necessario che sapesse proprio sparare; era necessario che ci fossero quelli che sapevano sparare, ma per essere uomo d'onore non era necessario. Sono stati fatti uomini d'onore avvocati, dottori, ingegneri, principi. Questi non vanno a sparare e non andavano a sparare. Erano fatti uomini d'onore perché servivano alla causa comune, chi perché aveva il feudo, chi perché doveva curare le ferite.

PRESIDENTE. Anche per le perizie mediche?

TOMMASO BUSCETTA. Certamente, per le perizie mediche. Quindi, Cosa nostra aveva bisogno di queste persone, che aderivano con molta volontà. Cosa nostra non si accingeva a fare un nuovo uomo d'onore se non dopo averlo sperimentato, sperimentato, sperimentato.

PRESIDENTE. Adesso, invece?

TOMMASO BUSCETTA. Adesso!

PRESIDENTE. Sono cambiati i rapporti tra gli uomini d'onore e tra le varie famiglie per effetto del traffico di stupefacenti?

TOMMASO BUSCETTA. Sono cambiati perché si ha valore nel contrabbando della droga secondo l'entità della famiglia. Si aveva valore, perché adesso non lo so più. Questo si intende?

PRESIDENTE. Sì.

TOMMASO BUSCETTA. Si aveva valore per l'importanza che l'individuo aveva in seno a Cosa nostra. Per importanza, fino a quando sono uscito nel 1980, si intendeva chi aveva saputo sparare di più.

PRESIDENTE. Quale può essere, in questa fase, la reazione di Cosa nostra, in particolare di Riina? Cosa può accadere?

TOMMASO BUSCETTA. Possiamo procedere sulle ipotesi?

PRESIDENTE. Sulle ipotesi e sulla base delle sue conoscenze.

TOMMASO BUSCETTA. Sulle ipotesi, credo che Riina farà cose molto gravi. Voglio dire una cosa, una primizia. Sono stato giovedì con i giudici e, ai tre che mi hanno interrogato, ho detto: state tranquilli, non siete voi quelli che va cercando Riina in questo momento. Non è per sempre; sto dicendo: in questo momento non è voi che Riina cerca. Riina cerca chi sta creando tanto fastidio a lui.

Pag. 364 Non facciamo nomi. Non sono un suggeritore e non vorrei che Riina non ci stesse pensando e io gli suggerisco a chi deve pensare. Sta cercando chi gli sta creando tanti disturbi, perché questa faccenda del pentitismo sta diventando veramente grave per lui. Non più il processo, adesso. Ecco perché dico che la mafia rantola. Non è più il processo in Cassazione che la interessa. Adesso ha un problema molto più grave: il pentitismo. Signori miei, non denigrate i pentiti, non li prendete per napoletani.

CARLO D'AMATO. Anch'io sono napoletano!

TOMMASO BUSCETTA. Chiedo venia. Mi riferivo ai processi, non ai napoletani. Per l'amor di Dio, nessuna allusione, come mi potrei permettere! Non confondiamo il processo di Tortora con i processi mafiosi. Per favore. I mafiosi, per quanto mi risulta, non prendono gli elenchi telefonici. C'è un detto a Palermo: "u carbuni si nun tinci, mascaria"; il carbone, se non tinge, sporca. Se le dichiarazioni dei pentiti non saranno al 100 per cento di vostro gradimento, state certi che il 70 per cento c'è: approfittatene, non denigrateli e non fate che la stampa li denigri, così come è stato fatto nei miei confronti. Ma io sono forte, non c'è niente da fare, sono forte moralmente, sono un uomo d'onore, non uomo d'onore di Totò Riina: sono nato uomo d'onore e non mi distruggono. Sono qua.

PRESIDENTE. Lei ci stava spiegando che Riina, in questo momento, starebbe pensando a qualcosa di importante, probabilmente non sul versante dei giudici.

TOMMASO BUSCETTA. Non credo.

PRESIDENTE. Piuttosto sul versante dei pentiti, per cercare di bloccare questo fenomeno.

TOMMASO BUSCETTA. Per bloccare questo apparato dello Stato che sta facendo tanto bene sotto questo profilo. Io credo che voi abbiate in mano la chiave d'oro per potervi spiegare tanti "perché" del passato e del presente. Avete la chiave d'oro per aprire il passato e il presente.

PRESIDENTE. Anche il presente?

 TOMMASO BUSCETTA. Anche il presente.

PRESIDENTE. Questa chiave sono i pentiti?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. I pentiti e le nuove strutture che voi avete fatto.

PRESIDENTE. E' prevedibile un'altra guerra di mafia?

TOMMASO BUSCETTA. E chi la fa la guerra a Riina? E' possibile solo una cosa: distruggendo Riina, ci saranno le guerre di mafia veramente, dove la mafia si autoannullerà. Riina lascerà come eredità tanti rancori nei gruppi mafiosi che si ammazzeranno come bastardi in prossimo futuro.

PRESIDENTE. Come è possibile che Riina sia da tanti anni latitante?

TOMMASO BUSCETTA. Queste domande dovrebbe rivolgerle alla polizia, non a me.

PRESIDENTE. Come si fa a sfuggire alla cattura? Si vive all'estero?

TOMMASO BUSCETTA. Ora no, ma parliamo del passato, un passato molto vicino. Liggio stava a Palermo, non era necessario che andasse nei giardini o nei boschi (ora credo che ci sia); ma i mafiosi stanno in città. Quando ero latitante, nel 1980 sono stato in città, non sono andato certo a seppellirmi in un bosco.

Pag. 365 PRESIDENTE. E nessuno è venuto a cercarla?

TOMMASO BUSCETTA. Abitavo in un condominio...

PRESIDENTE. In via della Croce Rossa, vero?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, in un condominio di via della Croce Rossa, dove abitava mio figlio Antonio. Io abitavo con mio figlio e nel palazzo di fronte abitava il commissario De Luca.

PRESIDENTE. E non si affacciava alla finestra?

TOMMASO BUSCETTA. Certo che non mi affacciavo alla finestra né potevo dire: guardate io sono qua!

PRESIDENTE. Quindi, non è venuto a cercarla nessuno?

TOMMASO BUSCETTA. No; è tanto che non sono stato arrestato; facciamo come Contorno: lei ha visto Pippo Calò? No, è qua. Se lo avesse visto, lo avrebbe ammazzato. Io non sono stato arrestato a Palermo e all'inizio del 1981 me ne sono andato in America.

PRESIDENTE. Lei pensa che Riina in questo momento sia in Sicilia?

TOMMASO BUSCETTA. C'è forse qualche dubbio? In quale altro modo potrebbe sostenere i lacci che manovra? Deve stare là.

PRESIDENTE. Poiché uno dei problemi più importanti da risolvere riguarda proprio l'arresto dei latitanti...

TOMMASO BUSCETTA. E' logico.

PRESIDENTE. ... può suggerire alla Commissione quali azioni sarebbe utile intraprendere a tal fine?

TOMMASO BUSCETTA. A me sembra una presunzione spiegare a voi cosa si debba fare per arrestare i latitanti. Avete creato un organo di Stato, di cui fanno parte, se non erro, carabinieri, Guardia di finanza e polizia; costoro avranno i mezzi, se voi politici li aiuterete, non mi rivolgo a lei personalmente ma alla classe politica italiana. Sosteneteli, perché la superprocura è una cosa importante. Dico che è importante non perché condivido quest'idea o perché vedevo in Falcone la persona degna di essa ma perché è assurdo che ogni procura spezzetti e l'altra non sappia... Lei è stato un giudice, vero?

PRESIDENTE. Sì.

TOMMASO BUSCETTA. E' assurdo che le procure non abbiano contatti fra di loro. E' bella l'idea di un centro d'informazione perché è in questo modo, processualmente, che li colpirete veramente!

PRESIDENTE. Per arrestare i latitanti non c'è bisogno di tutte queste strutture; si potevano arrestare anche prima. Come facevate se si voleva trovare una persona che si nascondeva?

TOMMASO BUSCETTA. Come facevo io? Ma c'era differenza tra come facevo io e come faceva Cosa nostra!

PRESIDENTE. Lo so.

TOMMASO BUSCETTA. Io andavo da 'o zù Peppino, poi 'o zù Peppino ciu ricìa 'o zù Ciccio, 'o zù Ciccio ciu ricìa 'o zù Jachino e poi arrivavo alla persona. Quindi è una cosa ben diversa. Forse lei, da torinese, non ha capito una parola di quello che ho detto. PRESIDENTE. Ho capito perfettamente. Quindi, è possibile che una persona sia a Palermo da latitante perché nessuno la va a cercare?

Pag. 366 TOMMASO BUSCETTA. E' possibilissimo, anche perché credo che a Palermo ci sia stata molta polizia accondiscendente. Nel 1980, quando ero a Palermo e mi recavo a casa di Stefano Bontade, incontravo tutti. Allora mi raccomandavano: "Per favore, non uscire prima dell'una e mezza e non tornare a Palermo dopo le quattro e mezza!". Cosa significa? Non che fossero stati corrotti i poliziotti ma si sapeva che in quell'orario nessuno della polizia era in servizio, non so se rendo l'idea. Ecco perché mi si diceva di non uscire prima dell'una e mezza e di non tornare dopo delle quattro e mezza. Che devo dire di più?

PRESIDENTE. Molti di voi latitanti eravate a casa vostra.

TOMMASO BUSCETTA. Questo poteva essere anche cattivo servizio! Io non ho corrotto nessuno, perché direi una tremenda falsità, ma il fatto è che a casa di mio figlio non veniva nessuno. Devo anche premettere che nella casa di mio figlio ero stato come "regolare": avendo avuto alcuni permessi in stato di semilibertà per recarmi a Palermo, avevo dato l'indirizzo di mio figlio dove andavo a dormire. Quindi la casa di mio figlio era già conosciuta perché vi avevo già abitato.

PRESIDENTE. E lei tranquillamente se ne è andato lì da latitante?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Dove altro è stato da latitante?

TOMMASO BUSCETTA. Sono stato in casa di Stefano Bontade, di Inzerillo. Vi dirò che il luogo dove Inzerillo teneva i suoi affari si trovava a cento metri dall'aeroporto di Bocca di Falco e si affacciava su un burrone da dove, a distanza di 100 metri, si alzava un elicottero - non ricordo se era della polizia o dei carabinieri - che sorvegliava la città di Palermo. Come ho detto, si sollevava a 100 metri di distanza dalla proprietà di Inzerillo dove, come minimo, erano parcheggiate cinquanta automobili, a volte anche cento. Mai però questi poliziotti si sono domandati: "Guarda, sembra un posteggio! Qui non c'è un supermercato, cosa fanno qui tutte queste automobili?". Nessuno se l'è mai chiesto. Io mi lamentavo con Inzerillo e gli dicevo: "Tu fai qui tutte queste riunioni nonostante l'elicottero che si alza proprio da sotto casa tua!". La risposta: "Ah, non si preoccupi!". PRESIDENTE. E lei non si preoccupava?

 TOMMASO BUSCETTA. Io invece continuavo a preoccuparmi, tanto che non ci andavo molto spesso. Mi preoccupavo di quell'elicottero che si alzava in volo a cento metri dalla sua proprietà.

PRESIDENTE. Può fare un passo indietro e fare riferimento all'omicidio di Scaglione?

TOMMASO BUSCETTA. Dell'omicidio Scaglione parlai con il dottor Falcone ma oggi devo aggiungere qualcosa di più a quelle dichiarazioni fatte al dottor Falcone. Nel 1970... (Alcuni deputati conversano tra loro). Signor presidente, mentre gli altri parlano io posso continuare, vero?

PRESIDENTE. Colleghi, ci rendiamo tutti conto che stiamo procedendo all'audizione di un teste? Egli domanda se può continuare la sua esposizione anche mentre parlano gli altri.

ALFREDO BIONDI. Mi pare che possa farlo.

PRESIDENTE. Il problema è di evitare che si parli in due.

TOMMASO BUSCETTA. Perdo la forza perché sembra che quello che dico non

Pag. 367 sia interessante e allora non vale la pena neanche parlarne, cioè io perdo quella carica agonistica...

PRESIDENTE. Abbiamo capito perfettamente.

GIUSEPPE MARIA AYALA. Carica agonistica?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, carica agonistica. Stavo dicendo - molto brevemente e, se sarà opportuno, ci torneremo - che nel 1970 mi incontrai con Salvatore Greco per un colpo di Stato in Sicilia; da quel momento, dopo aver parlato di colpi di Stato e di incontri...

PRESIDENTE. Ci arriveremo.

TOMMASO BUSCETTA. ... io e Salvatore Greco andammo via. Luciano Liggio stabilì di sua volontà di creare un clima di tensione nell'ambiente politico per preparare il colpo di Stato. Ognuno prese le sue mosse su quale fosse il politico da colpire. A Palermo mi pare che sia stato colpito un fascista, se non ricordo male.

PRESIDENTE. Sì, Nicosia.

TOMMASO BUSCETTA. Ma io non ero a Palermo. Queste sono cose che ho sentito in carcere. Un altro. L'obiettivo di Luciano Liggio fu il procuratore Scaglione. Perché il procuratore Scaglione? Perché aveva già incominciato l'escalation. Lui sapeva cosa ne pensasse Salvatore Greco di Vincenzo Rimini, un mafioso della provincia di Trapani. Cicchitedda vedeva in questo Vincenzo Rimini qualche cosa di padre, qualche cosa di grande, tanto da offrirgli - lui ed io - di farlo evadere dal carcere, nel 1970. Ma Vincenzo Rimini - guardi la mentalità! - mandò a dire a me e a Totò Cicchitedda se eravamo pazzi. Lui era stato condannato, innocente, e doveva espiare la pena, non doveva fuggire dal carcere. Guardi la mentalità: che metamorfosi di mentalità mafiosa. Ci mandò a dire: siete pazzi; no, no io non scappo dal carcere. E scelse il procuratore Scaglione...

 PRESIDENTE. Liggio scelse il procuratore Scaglione?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, perché in quel momento, in quei tempi il procuratore Scaglione era interessato alle rivelazioni di una donna che aveva accusato Vincenzo Rimini e che era stato provato che era falsa. Diceva, fra l'altro, di aver dato anche un appartamento. Io ricordo confusamente adesso...

PRESIDENTE. Ad una figlia, sì.

TOMMASO BUSCETTA. Ma già Luciano Liggio mirava come poteva annientare quel grande uomo che era Vincenzo Rimini, che poteva ancora influenzare la provincia di Palermo attraverso l'ascendente della propria personalità. Se ne era liberato perché lo lasciava in carcere: già c'era in carcere, ci rimaneva. Allora fa ammazzare il procuratore, lo fa ammazzare nel territorio dove io appartenevo, con la conseguenza che poi abbiamo visto: hanno detto che il procuratore era vicino agli uomini d'onore, lo hanno denigrato pure dopo morto. Ma la verità non è questa, la verità era minare le basi dello Stato. Lui si è scelto Scaglione, ma non c'era niente contro Scaglione.

PRESIDENTE. La scomparsa del giornalista De Mauro rientra nella stessa logica?

TOMMASO BUSCETTA. Rientra in questa logica. E' per questo che io non voglio parlare e non voglio essere preso per pazzo; perché io ho esperienza della vita e le mie esperienze possono essere giudicate da pazzo. Si può dire: questo qua è venuto dall'America per confonderci le idee. Quindi devo andare passo per passo.

Pag. 368 PRESIDENTE. Certo, come sta facendo. Dunque, lei ha detto che l'omicidio di Scaglione fu deciso da Liggio. E la scomparsa di De Mauro?

TOMMASO BUSCETTA. Ma tutti, tutti furono decisi da Liggio. Cioè da Liggio, da Badalamenti e da Bontade, non salviamo nessuno. Da Liggio, da Badalamenti e da Bontade.

PRESIDENTE. Anche le bombe che esplosero a Palermo in quel periodo rientrano in questo quadro?

TOMMASO BUSCETTA. Le bombe le preparava Francesco Madonia.

PRESIDENTE. Ho capito.

TOMMASO BUSCETTA. Ma Francesco Madonia fu trovato in possesso di bombe a casa sua, o fu trovato mentre metteva le bombe, non ricordo bene. Comunque era Francesco Madonia.

PRESIDENTE. Quindi rientrava in questo quadro?

TOMMASO BUSCETTA. Rientrava in questo quadro.

PRESIDENTE. Dunque, sostanzialmente, tanto l'omicidio di Scaglione quanto la scomparsa di De Mauro quanto queste bombe rientrano in un quadro che è quello di preparare le condizioni per ....

TOMMASO BUSCETTA. Per fare il colpo. PRESIDENTE. Ho capito. Può spiegare cosa sa ...

MARCO TARADASH. Nei verbali c'è scritto che non sapeva niente. Quindi questa è una novità.

PRESIDENTE. Ha detto all'inizio che aveva da dire una novità, ha esordito così. Signor Buscetta, può spiegare bene alla Commissione questa storia del tentativo di colpo di Stato del 1970, quello di Borghese, del quale lei ha anche parlato ai giudici? Come ne viene a conoscenza?

TOMMASO BUSCETTA. Ci chiama Giuseppe Calderone, insieme al Di Cristina.

PRESIDENTE. Cosa intende dire con "ci chiama"?

TOMMASO BUSCETTA. Perché eravamo negli Stati Uniti, anche Cicchitedda. Allora ci chiama per farci sentire che è stato preparato un colpo di Stato e che Borghese avrebbe intenzione di usare i mafiosi per farsi appoggiare in Sicilia. PRESIDENTE. Possiamo essere chiari? Vi telefona Pippo Calderone ...

TOMMASO BUSCETTA. Ma non c'è bisogno di telefonare, viene uno e ci avvisa.

PRESIDENTE. Dunque, viene uno ad avvisarvi in America e a questo punto voi partite. Chi viene vi dice che c'è un tentativo di colpo di Stato: vi fa anche il nome di Borghese?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. A quel punto voi cosa fate?

TOMMASO BUSCETTA. Andiamo in Sicilia. Direttamente dalla Svizzera andiamo in Sicilia.

PRESIDENTE. Quindi andate dall'America in Svizzera e poi dalla Svizzera...

TOMMASO BUSCETTA. A Catania, direttamente. A Catania ci incontriamo con Calderone che ci spiega...

PRESIDENTE. Avevate i vostri documenti o documenti falsi?

Pag. 369 TOMMASO BUSCETTA. Falsi. Io mi chiamavo Barbieri e Totò Cicchitedda si chiamava Caruso.

PRESIDENTE. Avete preso una macchina a nolo in Svizzera?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, l'abbiamo lasciata a Catania.

PRESIDENTE. E allora?

TOMMASO BUSCETTA. Chi sapeva tutto esattamente dei miei movimenti fino ad arrivare in Sicilia, e poi dalla Sicilia tornare in Svizzera fino ad arrivare in America, è il colonnello Russo. Sapeva tutto. PRESIDENTE. Perché?

TOMMASO BUSCETTA. Perché faceva parte del colpo. Il colonnello Russo era la persona indicata che doveva andare ad arrestare il prefetto di Palermo. Quindi quando io sono arrestato per i 114 e lui fa l'associazione dei 114, lui è il poliziotto più sicuro della vita, perché lui lo sapeva. Lui era incaricato, quando veniva il momento X, di andare ad arrestare il prefetto di Palermo. Poi la risposta dei massoni è stata "l'abbiamo addormentato", e io mi sono svegliato.

PRESIDENTE. Chi "abbiamo addormentato"?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so, è una parola tecnica.

PRESIDENTE. Lo so, ma le chiedo a chi si riferivano.

TOMMASO BUSCETTA. Al colonnello Russo. Era addormentato. E io gli ho detto: "Sì, e io mi sono svegliato dentro il carcere all'Ucciardone" pagando l'associazione, perché io sono venuto solo a questo scopo.

PRESIDENTE. Dunque, quando ci fu il processo dei 114 qualcuno protestò con i massoni per questo?

TOMMASO BUSCETTA. Io non so se protestarono o no, ma i massoni si sono interessati del processo dei 114.

PRESIDENTE. Può spiegare come?

TOMMASO BUSCETTA. Ah non lo so, non lo so. Fino a questo punto posso andare.

PRESIDENTE. Come fa a sapere che si sono interessati?

TOMMASO BUSCETTA. Perché l'abbiamo detto tra noi, che i massoni si sono interessati per il processo dei 114. Perché il processo dei 114 verteva tutto nel fermo di una macchina a Milano, macchina nella quale eravamo io, Gerlando Alberti, Giuseppe Calderone, Martino Caruso e Badalamenti.

PRESIDENTE. Quindi, voi...

TOMMASO BUSCETTA. Questa era l'associazione dei 114. E i 114 erano avvenuti così chiari perché il colonnello Russo sapeva tutto, dalla a alla zeta. Andò in Svizzera a trovare niente meno - questo il mio avvocato non se lo spiegava - il biglietto che io avevo scritto essendo ospite di quell'albergo.

PRESIDENTE. Sì. Mi scusi, la morte del colonnello Russo è legata in qualche modo a questa vicenda?

TOMMASO BUSCETTA. No, no. PRESIDENTE. E' indipendente, non c'entra. Quindi, lei stava dicendo che dopo essere stati avvertiti negli Stati Uniti voi andate in Svizzera, dove prelevate una macchina - mi pare d'aver letto da qualche parte che si trattasse di una Volvo ...

Pag. 370 TOMMASO BUSCETTA. Poi l'ho lasciata a Catania.

PRESIDENTE ... e dalla Svizzera scendete in macchina fino a Catania. Cosa trovate a Catania? Con chi parlate?

TOMMASO BUSCETTA. Giuseppe Calderone e Luciano Liggio.

PRESIDENTE. Che era a Catania.

TOMMASO BUSCETTA. Sì. Latitante, che prendeva il bagno nudo...

 PRESIDENTE. Sì, l'abbiamo saputo. E cosa vi dicono?

TOMMASO BUSCETTA. Abbiamo deciso che volevamo delle garanzie, perché si diceva che i mafiosi dovevano mettersi al braccio un bracciale per essere riconosciuti e voleva l'elenco di tutti i mafiosi della Sicilia. Noi dicemmo "sta scherzando, ma chi glieli dà?"; poi finisce come Mussolini e lui ha l'elenco delle persone. Allora si mandarono Giuseppe Calderone e Di Cristina a Roma per incontrarsi con il principe Borghese. Si incontrarono con il principe Borghese ed ottenevano niente fasce e niente nomi. E si aggiustavano i processi di Riina, di Natale Rimi e di Luciano Liggio, i due che erano veramente i più inguaiati.

PRESIDENTE. Questa fu l'offerta che fece Borghese: niente liste, niente segni di riconoscimento, si aggiustavano i processi per le persone più esposte e voi in cambio cosa dovevate fare?

TOMMASO BUSCETTA. Fare parte della rivolta e fare in modo che non ci fossere contrattacchi da parte dei civili, della polizia.

PRESIDENTE. Questo soltanto in Sicilia o dappertutto?

TOMMASO BUSCETTA. Io posso parlare solo per la Sicilia; non so cosa sia avvenuto nelle altre regioni.

PRESIDENTE. E poi come è andata?

TOMMASO BUSCETTA. Abbiamo detto a Calderone, a Di Cristina, a Bontade noi che ci siamo riuniti in quella famosa giornata in cui venne fermata la macchina con dentro me, Badalamenti e Caruso, avevamo finito una riunione a Milano ... abbiamo detto di fare in modo di non dare i nomi e poi di far mantenere quegli impegni che lui aveva preso. E ritorniamo in America; non appena sbarco in America, vengo arrestato e la prima cosa che mi domanda la polizia americana è: "Lo fate o no il golpe in Sicilia?", questa è la prima cosa che mi è stata chiesta non mi è stato chiesto quanta droga avessi portato o quanti omicidi compiuto ma soltanto: "Lo fate o no questo golpe?". Io gli ho detto: "Ma quale golpe?" "Quello con Borghese". Io dissi di non capire di cosa stessero parlando e quindi negai tutto ma gli americani ne erano a conoscenza. La risposta che poi mi arrivò negli Stati Uniti fu che il golpe non si era potuto fare perché c'era una flotta russa nel Mediterraneo, ma che gli Stati Uniti erano d'accordo. Se è vero o non è vero questo non lo so né posso controllarlo.

PRESIDENTE. Cosa sa di Giuseppe Calderone?

TOMMASO BUSCETTA. Era mafioso, era rappresentante.

PRESIDENTE. L'idea della commissione regionale viene da Calderone, che lei sappia?

TOMMASO BUSCETTA. No, credo di no, non lo so.

PRESIDENTE. Nel corso dell'interrogatorio dell'11 settembre ...

TOMMASO BUSCETTA. Comunque, si ricordi che alla provincia di Catania ho dato valore 4.

Pag. 371 PRESIDENTE. Catania valeva meno di tutte, insomma. Adesso è Santapaola il referente di Riina? TOMMASO BUSCETTA. Sì, ma vale sempre 4.

PRESIDENTE. Perché vale così poco?

TOMMASO BUSCETTA. Perché non hanno il carisma, la forza che può avere quello della provincia di Palermo.

PRESIDENTE. Ho capito, c'è proprio un problema di peso.

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Nel corso dell'interrogatorio dell'11 settembre scorso, lei ha detto: "Per la verità, mi risulta anche personalmente che esponenti di primo piano di Cosa nostra hanno avuto contatti politici a Roma utilizzando come ponte i cugini Salvo anche senza l'intervento di Salvo Lima. D'altra parte, come oggi ha detto, Lima Salvo era uno dei principali interlocutori politici di Cosa nostra ma non il solo. Ad esempio, per limitarci a Palermo, ci si rivolgeva anche ad altri uomini politici, ciascuno dei quali aveva un proprio punto di riferimento a Roma". Per quali questioni ci si rivolgeva a Lima?

TOMMASO BUSCETTA. Se dovessi parlare fino al 1984 ...

PRESIDENTE. Certo, per quello che sa lei.

TOMMASO BUSCETTA. ... sempre per quegli appalti e ... Io personalmente ... e lui si era scusato con me, aveva detto di non essersi potuto interessare perché il mio nome era troppo eclatante e ci saremmo fatti male a vicenda: lui politicamente ed io da un altro punto di vista. Mi disse comunque che si riteneva a mia disposizione. Quindi, Lima li aveva gli agganci a Roma per interessarsi per i processi, solo con il mio nome non si era potuto interessare. Quando chiediamo cosa facesse Lima per la mafia e di cosa si interessasse, io rispondo della vita quotidiana, di ciò di cui si può aver bisogno. Non possiamo chiedere se si interessasse di una specifica cosa, certamente non si interessava di droga (su questo potrei dare la mia parola d'onore, è fuori discussione), però si interessava di tutte le altre cose quotidiane, per esempio una licenza di caccia o un passaporto; tutte quelle cose quotidiane per ottenere le quali si ha bisogno di un'entità politica a Lima si chiedevano, sì, ma si chiedevano anche ad altri uomini politici. Io parlo di Lima e ne parlo perché si è fatta tanta polvere; mi sono lamentato con i tre giudici che sono venuti a trovarmi a Milano dicendo: "Voi avevate un impegno che avevamo scritto nel verbale: avevamo scritto che queste cose non si sarebbero ... per lo meno quando l'indagine fosse stata più completa". Però, loro erano contenti perché avevano trovato il tribunale della libertà a favore della loro indagine e quindi mi sono calmato un po'. Però, ritengo che queste cose debbono essere fatte più saggiamente: non vi potete permettere di essere deboli nei confronti di Riina, perché Riina - ricordatevelo - ... Forse questa audizione lascerà uno strascico cattivo nei miei confronti, ma io sono così, sono quello che voi vedete. Non è all'intelligenza di Riina che dovete mirare, non sappiamo chi Riina abbia dietro di sé perché lui ha la ferocia, lui ha gli uomini mafiosi in mano ma è una cosa intelligente quella che sta succedendo da Lima ad oggi?

VITO RIGGIO. Si spieghi meglio.

TOMMASO BUSCETTA. No, non lo posso spiegare, non lo posso spiegare e lei non si deve offendere.

PRESIDENTE. A cosa si riferisce dicendo "quello che sta succedendo da Lima in poi"?

Pag. 372 TOMMASO BUSCETTA. Alle stragi, non mi riferisco ad altro. Mai in nessun'epoca si era verificato un caso come l'omicidio di Chinnici, come quelli del dottor Falcone e del dottor Borsellino, mai.

PRESIDENTE. Perché non mette anche Ignazio Salvo in questo quadro?

TOMMASO BUSCETTA. Ignazio Salvo non serviva più a Totò Riina, gli era d'incomodo, non serviva più.

PRESIDENTE. E Lima? Serviva ancora?

TOMMASO BUSCETTA. Lima serviva a denigrare Andreotti, ma queste sono supposizioni mie, signori miei, per favore fermiamoci, non andiamo oltre. Non è che io non sia disposto a dare la mia collaborazione e la mia esperienza, sono dispostissimo; io faccio un atto notarile, se lo volete. Io sono un uomo libero, vado, vengo quando voglio, mi siedo, dormo perché non sono più il "soldatino" che deve obbedire, che sta deponendo per ottenere uno sconto di pena, oggi non ho sconti.

PRESIDENTE. Lei sta formulando un'ipotesi per quello che riguarda fatti che si sono verificati mentre lei era detenuto. Poiché lei nello stesso quadro ha inserito Lima e poi Falcone e Borsellino mentre non ha parlato di Ignazio Salvo, le chiedo perché lei sostenga che Ignazio Salvo non serviva più.

TOMMASO BUSCETTA. Secondo me non serviva più.

PRESIDENTE. Non serviva più da vivo?

TOMMASO BUSCETTA. Ma noi dobbiamo andare indietro. Non posso così in due parole determinare un argomento. I Salvo, quando incontrarono me - che hanno visto Dio in terra incontrando me - fra le altre cose mi dissero che chi aveva sequestrato Corleo era stato proprio Totuccio Riina, che loro non avevano la forza di dimostrarlo perchè era tanto segreto. Ma oggi lo sappiamo più perfetto. Era stato Riina, era stato Scarpuzzedda, erano stati tra di loro anche con il signor Calò. Quindi quando i Di Salvo mi vedono a me ...

PRESIDENTE. Cioé Ignazio Salvo?

TOMMASO BUSCETTA. Ignazio e Nino.

PRESIDENTE. I due Salvo?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, i due Salvo. Dicono: possiamo cominciare a fare la guerra a questi "quattru viddani"? "Viddani" significa contadini. Io dissi che non ne valeva la pena, perché i valori si erano perduti ed ognuno pensava al suo contrabbando se andava in porto, se dall'America arrivavano i soldi. Si erano perduti quei valori, quindi io non vedevo via d'uscita. Dissi a Stefano Bontade: tu sei un uomo morto perché ti vedo già morto. E me ne andai in Brasile. Quindi, quando Salvo è sempre in una posizione di buon equilibrio fra politica e mafia, a Riina lo lascia tranquillo: vai avanti! Nel momento in cui non serve più, è da eliminare. Perché il parente di quel Corleo che continua ancora ad indagare per vedere dove si trova il morto, perché vogliono anche il morto, le ossa ... PRESIDENTE. Anche a tanti anni di distanza?

TOMMASO BUSCETTA. Anche a tanti anni di distanza. Non so, ma mi sembra che ci siano cose di eredità. E' una cosa molto complessa.

PRESIDENTE. Invece Lima, lei dice, serviva ancora da vivo. O no? Non ho capito bene. Abbiamo capito che Ignazio Salvo non serviva più e quindi a questo punto è fatto fuori, anche perché sta continuando a cercare una cosa che non doveva cercare. Per Lima, invece?

Pag. 373 TOMMASO BUSCETTA. Per Lima, invece, è un politico e può darsi che non abbia mantenuto un impegno o può darsi che dietro la morte di Lima ci sia una cosa molto superiore all'impegno processuale. Siamo nel campo delle ipotesi.

PRESIDENTE. Lei ha fatto un cenno ed ha detto: Lima serviva a denigrare Andreotti.

TOMMASO BUSCETTA. Può darsi.

PRESIDENTE. Lima da vivo o Lima da morto?

TOMMASO BUSCETTA. Lima da morto. Da vivo no, certamente no.

PRESIDENTE. Quali erano i referenti romani di Lima?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so.

PRESIDENTE. Non lo sa o preferisce non dirlo?

TOMMASO BUSCETTA. Preferisco non dirlo.

PRESIDENTE. Quando lei preferisce non dirlo, lo dica. Quando non lo sa, dica che non lo sa, altrimenti non capiamo.

MARCO TARADASH. A questa domanda possiamo rispondere noi.

PRESIDENTE. Quali erano i referenti palermitani di Lima?

TOMMASO BUSCETTA. Principalmente i Salvo.

PRESIDENTE. Lima era parlamentare europeo ed era uomo anche abbastanza importante nella vita politica per cui non poteva occuparsi di tutto.

TOMMASO BUSCETTA. Ma mica gli dicevano: vammi a fare la spesa tutti i giorni. Chiedevano un favore oggi e un altro dopo un mese. Quindi erano impegni che poteva ...

PRESIDENTE. ... mantenere. Al di là dell'onorevole Lima, facendo riferimento alle cose che lei ha detto ai giudici l'11 settembre, quali erano gli uomini politici cui si rivolgeva Cosa nostra a Palermo ed a Roma? Lei ha detto che non era solo Lima e che c'erano anche altri.

TOMMASO BUSCETTA. Io preferirei dirlo ai giudici che farebbero delle indagini.

PRESIDENTE. Ho capito. Ci sono uomini politici che erano uomini d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Sono tuttora in vita, in attività?

TOMMASO BUSCETTA. Alcuni.

PRESIDENTE. In attività politica?

TOMMASO BUSCETTA. Credo di no. Ho dato una carrellata.

PRESIDENTE. Può fare i nomi?

 TOMMASO BUSCETTA. No. Li farò, però.

PRESIDENTE. Preferisce non farli.

TOMMASO BUSCETTA. Li farò, però.

PRESIDENTE. Quali sono gli uomini sostenuti da Cosa nostra nelle campagne elettorali?

 TOMMASO BUSCETTA. Come corrente, come partito?

PRESIDENTE. Come persone. Quali candidati?

Pag. 374 TOMMASO BUSCETTA. Innanzitutto si cerca la corrente.

PRESIDENTE. La corrente vuol dire il partito?

TOMMASO BUSCETTA. Se è comunista, se è ... niente da fare.

PRESIDENTE. Comunisti e fascisti niente. Poi?

TOMMASO BUSCETTA. Poi ...

 PRESIDENTE. Va bene, ho capito.

TOMMASO BUSCETTA. Si sceglie quello che ha già una caratteristica ad essere avvicinato, cioè quello a cui si possono, quando lui sarà eletto ... perché non è vero il fatto che si pattuisca prima: se tu diventerai onorevole, tu mi darai e io ti farò avere mille voti. Non è vero, per lo meno non si è mai usato, anzi si è detto: onorevole, io per lei farò le cose, speriamo che lei quando sarà onorevole non si dimenticherà. Quando poi diventa onorevole, c'è una forma di parlare con l'onorevole che è: o me la fai o me la fai! E l'onorevole fa. Sempre!

PRESIDENTE. Questo accade per tutti quelli che sono stati votati da Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. No, perché molte volte si fa confusione. Non si può stabilire quanti voti ha preso il Tizio o il Caio. E' una cosa molto difficile, solo il votato sa se ci sono stati, se sono affluiti i voti che Cosa nostra doveva dare per lui. E poi non è Cosa nostra.

PRESIDENTE. Ci spiega un po' bene?

TOMMASO BUSCETTA. E' il personaggio della Cosa nostra, non Cosa nostra. Il personaggio non dice all'altro della Cosa nostra che lui... o meglio dice: il presidente è cosa mia quindi, se tu hai bisogno di un favore dal presidente, devi rivolgerti a me. Mica ci devi andare direttamente. Quindi è una specie di monopolio il candidato eletto da me, che è differente dal candidato eletto da questo signore qui.

PRESIDENTE. Può spiegare alla Commissione come funziona questo meccanismo prima del voto? Bisogna scegliere un candidato da votare ...

TOMMASO BUSCETTA. No, non si sceglie il candidato da votare. Non è nè la commissione ...

PRESIDENTE. Mi faccia completare la domanda. Lei dice che non è Cosa nostra che sceglie, ma il singolo uomo d'onore. E' così?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, che se lo sceglie.

PRESIDENTE. Anche la famiglia o solo il singolo?

TOMMASO BUSCETTA. No, è quasi personale.

PRESIDENTE. Ho capito. Lei dice che questa scelta non è un contratto secondo cui io faccio questo e poi tu mi dai quest'altro.

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Si fa intendere. Però, si prendono prima contatti con quello che si voterà oppure no?

TOMMASO BUSCETTA. Certo.

PRESIDENTE. Può accadere che vi sia un uomo politico che è votato anche in zone, in quartieri dove una famiglia comanda senza che quest'uomo politico lo sappia?

TOMMASO BUSCETTA. No. Anzi, si può candidare qualsiasi persona. Non solo, avevamo la bontà di non impedire che lui si candidasse. Noi impedivamo solo il partito comunista nel vero senso

Pag. 375 della parola. Andavamo famiglia per famiglia a dire: partito comunista niente, è la cosa peggiore che esiste. Questo sì, ma per quanto riguarda tutti gli altri partiti, lasciavamo libertà a chi si voleva candidare. Era per questo, anzi, che l'uomo politico cercava il mafioso, perché sapeva che lui poteva ottenere molto di più di quello che si era candidato per conto suo.

PRESIDENTE. Cioè senza sostegno.

TOMMASO BUSCETTA. Senza sostegno.

PRESIDENTE. Poteva accadere che un uomo d'onore o più uomini d'onore decidessero di non votare più per un partito, o per certi candidati perché questi non li avevano sostenuti a sufficienza?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. A lei non risultano cose di questo genere?

TOMMASO BUSCETTA. No, a me non risultano queste cose.

PRESIDENTE. Per capire, se andiamo a vedere come si sia votato in un quartiere dove comanda quella certa famiglia si può dire, secondo lei, che l'uomo politico votato è persona con cui chi comanda in quel quartiere ha preso contatti?

TOMMASO BUSCETTA. Guardi, lei domanda una cosa tecnica alla quale non so rispondere. Credo che non si può vedere. L'uomo politico abitualmente - lei lo sa meglio di me - sa le preferenze che avrà, già ha una percentuale. Ha già la sua visione, ma quando questa percentuale aumenta lui sa benissimo...

PRESIDENTE. Vorrei capirlo meglio. Mi presento in un quartiere dove comanda una famiglia mafiosa particolarmente importante: se nelle elezioni precedenti ho preso pochi voti, mentre nelle attuali ne prendo tanti, ciò che significa che sono stato appoggiato? Oppure può accadere che la gente voti liberamente?

TOMMASO BUSCETTA. No, è stato appoggiato. Se il suo quoziente in quella borgata è di cento voti e improvvisamente, quando lei ha raggiunto un accordo con me, così, di benevolenza - non trattative, non ci sono trattative, per lo meno nell'ambiente mafioso - vedrà trecento voti, saprà che duecento sono venuti da parte mia, dal mio interessamento. Quindi, lei meglio di nessuno sa che mi deve rispettare perché quei voti saranno sempre suoi.

PRESIDENTE. Non può accadere, secondo quanto lei sa, che un uomo politico venga votato in modo massiccio, in un quartiere mafioso, dominato dalla mafia, se la mafia non ha deciso di votarlo.

TOMMASO BUSCETTA. E' molto difficile.

PRESIDENTE. In un interrogatorio davanti al dottor Falcone sostiene che Badalamenti mentre era con lei a Belem il 3 settembre 1982, avendo appreso dalla televisione dell'assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa, ritenne che l'omicidio era stato effettuato dai corleonesi, aiutati dai catanesi, che erano a loro più vicini, ed aggiunse (Badalamenti a lei) che "qualche uomo politico si era sbarazzato, servendosi della mafia, della presenza, troppo ingombrante ormai, del generale". Può spiegare alla Commissione il significato di questa ipotesi di Badalamenti?

TOMMASO BUSCETTA. Credo che l'ho fatto mezz'ora fa, più o meno. Già l'ho fatto questo, già ho dato questa risposta. PRESIDENTE. Ho capito.

 TOMMASO BUSCETTA. Lo stesso Badalamenti non si spiega perché nel 79 deve morire, perché nel 1979 lui non è più...

Pag. 376 PRESIDENTE. Non è ancora.

TOMMASO BUSCETTA. No, non è più il capo della commissione. E' finito; come uomo è finito, già è espulso da Cosa nostra.

PRESIDENTE. Certo.

TOMMASO BUSCETTA. Lui non si spiega come nel 1979 si doveva uccidere Dalla Chiesa da parte nostra e farlo rivendicare ai brigatisti. Poi, quando viene a Palermo il generale Dalla Chiesa e viene a disturbare i mafiosi (perché io so che li ha disturbati veramente)... lui non si spiega. Il fatto dei catanesi è un pour parler dicono i francesi, è uno scambio di vedute. Io penso che avranno usato anche i catanesi nell'omicidio, perché siccome devono agire nella pubblica via, nelle vie più centrali di Palermo, hanno usato gente sconosciuta. Lui già sapeva dei collegamenti tra Riina, i Greco e i catanesi.

PRESIDENTE. Il fatto che il generale Dalla Chiesa cominciasse a dare fastidio alla mafia e che fosse ucciso a Palermo, non necessariamente poteva far pensare al fatto che ci fosse un altro interesse ad uccidere il generale oltre a quello di difesa pura della mafia.

TOMMASO BUSCETTA. Sì, ma vede è il primo omicidio eccellente Dalla Chiesa e viene cercato. E' difficile che io trasferisca questa mia logica a voi.

 PRESIDENTE. Lo sta facendo capire benissimo.

TOMMASO BUSCETTA. E' difficile. Mai la mafia si era spostata a questi livelli. Solo perché aveva detto che i fogli rosa non si dovevano dare più. Noi avevamo subìto il prefetto Mori e non lo si era ammazzato - dico noi, forse non ero nato, lo dico per sentito dire -. Non si era ammazzato il prefetto Mori né quando era prefetto, né quando si ritirò. Cercare a Dalla Chiesa nel 79 non è più un problema mafioso; è un problema che va al di là della mafia. Poi si ammazza perché sta andando ad indagare sui costruttori di Catania o sulle patenti: è troppo in alto che si va. Questa è la mia opinione.

 PRESIDENTE. Quali sono gli altri omicidi di mafia che fanno sorgere tali tipi di dubbio: quello di La Torre, poco prima dell'uccisione del generale Dalla Chiesa, può far nascere questo dubbio?

TOMMASO BUSCETTA. La Torre... Poi loro hanno attuato la legge La Torre, l'hanno messa in pratica e hanno sequestrato tutti i beni dei perdenti.

PRESIDENTE. Quando La Torre fu ucciso, il 30 aprile 1982, la legge non c'era ancora.

TOMMASO BUSCETTA. Non c'era ancora, ma loro pensavano che si stesse interessando. In virtù di tutte queste cose - perché lei, stringi stringi, si ricorda il suo mestiere di giudice istruttore e ritorna sempre sullo stesso argomento - ed è l'opinione che mi sono creato da solo, non è vero che si vuole ammazzare perché quello merita di essere ammazzato: è un mezzo. Pio La Torre stava facendo la legge antimafia per il sequestro dei beni; va bene, allora l'ammazziamo tanto... l'ammazziamo per questa ragione, poi vediamo se... Stanotte stavo leggendo un libro di Caponnetto ... no, scusate del giudice Falcone, scusate la deviazione, in cui riferisce che una volta io raccontai a lui una barzelletta. Gli dissi che un tizio ricorre al dottore per un'infezione in un posto che, per la presenza di donne, non specifico. Disse il dottore "guardi, se è stato il filo spinato è una cura; se è stata un'altra cosa è un'altra cura! Dottore, lei mi dia l'altra cura, ma le giuro che è stato il filo spinato!".

PRESIDENTE. Ho capito.

Pag. 377 TOMMASO BUSCETTA. Quindi ... Andiamo al fatto vero: è inutile che io divago e parlo di un'altra ipotesi. Mi sono fatto una mentalità mia che può non andare d'accordo con la realtà. Non mi piace essere deriso e di essere preso in giro dicendo che sono un pazzo da legare. Le mie verità le affiderò ai giudici; le prove che loro troveranno, le porteranno avanti. Non desidero diffamare nessuno.

PRESIDENTE. Lei deve tener conto che la Commissione parlamentare ha il dovere di porre una serie di domande.

TOMMASO BUSCETTA. Ha ragione signor presidente.

PRESIDENTE. Quali sono gli altri omicidi che fanno nascere questo tipo di sospetto?

TOMMASO BUSCETTA. Ma tutti!

PRESIDENTE. Tutti?

TOMMASO BUSCETTA. Tutti. Il giudice Falcone è stato ucciso da Cosa nostra perché fu uno strenuo lottatore contro la mafia. Strenuo, onesto e dignitoso! Però è un mezzo per coprire altre cose, secondo il mio punto di vista. E' ucciso perché combatte la mafia; è ucciso dai mafiosi. Non si venga a dire che la mafia non c'entra! Perché se ne intendono quanto i dottori si intendono di astrologia. Io vedo altre cose intorno a queste cose.

CARLO D'AMATO. Lei ha detto che il terzo livello non esiste.

 TOMMASO BUSCETTA. Non esiste il terzo livello.

CARLO D'AMATO. E allora chi c'é dietro?

TOMMASO BUSCETTA. Eh, ma questo è un terzo livello interessato. Questo è un terzo livello interessato. Insisto che non c'è il terzo livello, perché i mafiosi non prendono ordini, ma possono i mafiosi dire ad altri "noi faremo così!".

PRESIDENTE. E voi cosa ne pensate?

TOMMASO BUSCETTA. Credo di averlo fatto capire cosa ne penso.

PRESIDENTE. No, i mafiosi dicono "noi faremo così" e chiedono all'altro "e voi cosa ne pensate?". E l'altro risponde di sì o di no.

TOMMASO BUSCETTA. Quello dice sì. Tranne che non è prospettato, come dire faremo questo, questa grande cosa. In sostanza mi trovo con dei rebus. Questi miei rebus li affiderò ai giudici e i giudici li svolgeranno.

PRESIDENTE. E' chiaro.

TOMMASO BUSCETTA. Se poi diranno "signor Buscetta, dei rebus che lei ci ha dato non comprendiamo niente", tanto di guadagnato. Credo che potrò dare a loro qualche chiave perché loro possano andare avanti.

PRESIDENTE. Dobbiamo sospendere la seduta per cambiare la cassetta della registrazione televisiva. La seduta, sospesa alle 13,25, è ripresa alle 14.

PRESIDENTE. Badalamenti le ha mai detto altro su Carlo Alberto Dalla Chiesa?

TOMMASO BUSCETTA. In questo momento non ricordo. Credo di no. In questo momento non sono molto... Mi sono alzato questa mattina alle 5 per venire qui.

PRESIDENTE. Si vuole riposare?

TOMMASO BUSCETTA. No. Voglio dire che forse non sono abbastanza lucido.

PRESIDENTE. Non si preoccupi.

Pag. 378 Dopo la strage del 3 settembre, vi capitò di riparlare di quell'omicidio?

TOMMASO BUSCETTA. Del 3 settembre?

PRESIDENTE. Si, la data dell'omicidio del generale Dalla Chiesa. Vi capitò di riparlarne tra uomini d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. Demmo sempre la versione che lui era andato in Sicilia a disturbare i mafiosi. Non abbiamo dato, almeno per quanto riguarda le persone con cui mi sono riunito, una versione diversa da quella che sto dicendo questa mattina. Abbiamo detto che avevano esagerato ammazzando Dalla Chiesa e la moglie e che ci sembrava che questo fatto fosse veramente anomalo, sempre indirizzando il nostro sguardo verso la mafia: lui li aveva disturbati e la mafia se ne era liberata. In effetti è così, signori miei, guardatelo con questi occhi: è la mafia che si è liberata di Dalla Chiesa. Quella che voglio dire è solo...

PRESIDENTE. Un'ipotesi.

TOMMASO BUSCETTA. Nel campo delle ipotesi, del "delirio".

PRESIDENTE. Forse è il caso di spiegare che il termine delirio riporta alla breve conversazione informale che lei ha avuto, poc'anzi, con l'onorevole D'Amato e che quindi assume un significato particolare. Le sue congetture riguardano soggetti e organismi italiani o stranieri?

TOMMASO BUSCETTA. Prettamente italiani, del nostro paese.

PRESIDENTE. Badalamenti le ha dato notizie sulle possibili cause della morte di Calvi?

TOMMASO BUSCETTA. Non mi ha dato notizie, per la verità. Mi disse: il tuo figlioccio, Calò,... Non so se lei capisce la parola "figlioccio".

PRESIDENTE. La prego di spiegarla.

TOMMASO BUSCETTA. Ho iniziato Calò, quindi ero il suo padrino. L'unico che ho portato a Cosa Nostra è stato Giuseppe Calò; l'ho iniziato io e quindi lui mi chiamava padrino. Quando questo padrinato e questa figliolanza si erano rotte, il Badalamenti mi disse: il tuo figlioccio è coinvolto nella vicenda Calvi fino a qua. Le parole, molte volte, tra uomini d'onore sono solo cenni. Non si possono avere curiosità nè interesse: basta quello che mi dici, purché sia la verità. Il dialogo si fermò quando lui disse: il tuo figlioccio è invischiato nel delitto Calvi fino a qua. Però, trovandomi a Roma e collaborando con la giustizia, sono stato chiamato da un ufficio di polizia a tradurre un verbale dal portoghese all'italiano. Non è che io sia traduttore, ma conosco il portoghese.  

PRESIDENTE. So che lei è stato in Brasile per molti anni.

TOMMASO BUSCETTA. Inoltre, ho una moglie e dei figli brasiliani. Traduco questo documento e noto che la polizia italiana, attraverso la testimonianza di una brasiliana, cognata di tale Nunzio Guido (Cosa nostra napoletana), aveva conferito con un poliziotto italiano, raccontando certi episodi che non erano di molto peso secondo la polizia italiana. Io in tutti quei personaggi ne riconoscevo due, uno era Giuseppe Calò, che all'epoca si faceva chiamare Mario Aialoro, e un altro un certo Mimmo, che conosco personalmente perché mi è stato presentato da Calò Romano.

FERDINANDO IMPOSIMATO. Balducci?

TOMMASO BUSCETTA. Esatto. Quando leggo il documento, conoscendo questi due molto bene (Mario Aialoro - Giuseppe Calò)...

Pag. 379 PRESIDENTE. Lei sapeva che erano la stessa persona?

TOMMASO BUSCETTA. Si, lo sapevo perché ero stato a Roma a casa sua nel 1980. Dico a questo funzionario di polizia che Mario Aialoro è Giuseppe Calò, il quale nella riunione con le mogli è in compagnia di Danilo Abbruciati, quello che va a sparare al direttore della banca di Milano. Vedete che disegno! Gli organi inquirenti non avevano fatto caso a questa cosa, che non era sfuggita a me che sono vecchio e conosco i fatti. Perché Pippo Calò stava insieme a Danilo Abbruciati pochi giorni prima della sparatoria del direttore del Banco Ambrosiano? Ci doveva essere un interesse. C'è poi la cosa che aveva detto Gaetano Badalamenti: Pippo Calò sta fino a qua nella vicenda Calvi. Io faccio un riassunto di "delirio" e dico: Pippo Calò ci sta fino a qua. Non è soltanto Badalamenti che dice una frase, perché c'è un altro riscontro, essendo difficile che si riunisse con Danilo Abbruciati, il quale pochi giorni dopo va a sparare al direttore del Banco Ambrosiano e lo ammazza. Ho finito.

PRESIDENTE. Altre notizie lei non ne ha avute?

TOMMASO BUSCETTA. Io non ne ho avute, però se per voi può essere una strategia, sappiate che i soldi guadagnati dalla mafia con la droga sono molto più ingenti di quelli che i vostri ...

PRESIDENTE. ...conti...

TOMMASO BUSCETTA. ... stabiliscono. Quindi, non è affatto impensabile che Calvi abbia avuto soldi mafiosi e ne abbia fatto cattivo uso.

PRESIDENTE. Cioè, che abbia avuto in deposito soldi mafiosi e ne abbia fatto cattivo uso?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

 PRESIDENTE. E per questo sia scattata la vendetta?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, una vendetta ma c'è un'altra cosa: uno molto vicino a Giuseppe Calò... Non so se queste cose debba dirle.

PRESIDENTE. Le dica pure, poi decideremo noi.

TOMMASO BUSCETTA. C'è una persona molto vicina a Pippo Calò e a Totò Riina che pochi anni fa viene trovata a Londra in possesso di eroina; viene messa in carcere in quella città dove già abitava. Quell'individuo è capace di impiccare Calvi e di metterlo sotto il ponte.

PRESIDENTE. Sta parlando di Di Carlo?

TOMMASO BUSCETTA. Esattamente. Si tratta di una serie di circostanze che mi fanno pensare, quasi vivere, che i mafiosi siano coinvolti nel caso Calvi.

PRESIDENTE. E' chiaro. Secondo lei, chi informava Badalamenti?

TOMMASO BUSCETTA. Badalamenti ha un nucleo familiare grandissimo, in America ed in Sicilia, che in parte è stato ammazzato e in parte no; comunque è un nucleo di gente che appartiene alla mafia. Un esempio tipico è che Badalamenti esce, Badalamenti viene espulso e chi assume la carica di rappresentante a Cinesi, borgata o paesino di Badalamenti, è il cugino, cioè Nino Badalamenti, che è rimasto in carica fino a quando non gli hanno sparato.

 PRESIDENTE. Badalamenti ha mai fatto collegamenti tra l'omicidio Calvi e quello di Dalla Chiesa?

TOMMASO BUSCETTA. No; Badalamenti sa fare molto bene, meglio di chiunque altro, intrighi ma non è molto sviluppato intellettualmente.

Pag. 380 PRESIDENTE. Ho capito, non è sveglio. Può parlare alla Commissione dell'invito che fece a lei Pippo Calò di restare in Italia quando voleva tornare in Brasile? Se non sbaglio, negli anni ottanta lei voleva tornare in Brasile...

TOMMASO BUSCETTA. Questo è scritto su tutti i giornali!

PRESIDENTE. Sì.

TOMMASO BUSCETTA. Mi disse di rimanere in Italia ma non era il caso: avevo sofferto tanto e me ne volevo tornare in Brasile dove sarei andato povero, non certo ricco.

PRESIDENTE. Voleva andare in Brasile per sfuggire all'eventuale cattura o no?

TOMMASO BUSCETTA. Credevo di aver già pagato abbastanza lo Stato italiano con otto anni di carcere.

PRESIDENTE. Ma doveva farne ancora qualcuno?

 TOMMASO BUSCETTA. Sì, dovevo fare ancora qualche anno di semilibertà. Ero stato otto anni in carcere e volevo andarmene; avevo una moglie giovane, credo bella - almeno ai miei occhi era bella - e non vedevo perché non dovessi godere mia moglie e i miei figli tranquillamente e lasciare tutti i problemi, compresi quelli avuti nel carcere dell'Ucciardone. Sebbene Ciancimino dica che io fossi l'ultimo, devo ricordare a questo signore che non ero l'ultimo, anzi ero il primo. Nel carcere dell'Ucciardone non è entrato nessuno per dire a ottocento detenuti: "Raccogliete il pane e mettetelo dentro le celle"; l'ha fatto solo Tommaso Buscetta.

PRESIDENTE. Ci spiega questa storia, che non conosciamo?

TOMMASO BUSCETTA. Hanno fatto sciopero, hanno buttato il pane fuori dalle celle.

PRESIDENTE. Quando?

TOMMASO BUSCETTA. Dal 1972 al 1977; il direttore del carcere, che mi stimava moltissimo, mi disse: "Signor Buscetta, se non interviene, io diventerò un direttore rigoroso e farò chiudere le porte". Andai nelle sezioni e dissi: "Rimettete il pane nelle celle". A far raccogliere il pane non è andato il signor Ciancimino ma ci sono andato io.

PRESIDENTE. E tutti raccolsero il pane?

TOMMASO BUSCETTA. Tutti raccolsero il pane. Questo fatto è avvenuto ed è stato oggetto di una notizia giornalistica. All'interno del carcere passavo molti guai, perché non si possono dominare 1.200 detenuti con 1.200 idee l'una diversa dall'altra: c'era l'infamone, lo spione, il malandrino, il mafioso, il magnaccia, tutte le categorie. Necessariamente dovevo dominare tutti quanti ma non è facile, mi creda, non è facile. Però ci sono riuscito. Sono stato portato a Cuneo, perché l'unico ad essere trasferito dal carcere di Palermo ad uno di massima sorveglianza è stato Tommaso Buscetta. Se ne sono infischiati dei peggiori e hanno mandato Tommaso Buscetta, a Cuneo: lì sono rimasto per tre anni.

 PRESIDENTE. L'onorevole Biondi le chiede chi intenda quando usa l'espressione "hanno mandato".

TOMMASO BUSCETTA. Forse non ho usato le parole giuste, mi correggo: le autorità preposte alla massima sorveglianza mi hanno prelevato dall'Ucciardone e mi hanno portato a Cuneo.

ALFREDO BIONDI. Le autorità preposte alla custodia?

Pag. 381 TOMMASO BUSCETTA. Le autorità preposte alle carceri di massima sorveglianza. Come le chiamavano allora?

PRESIDENTE. Carceri di massima sicurezza.

TOMMASO BUSCETTA. Lo dico più chiaramente: il generale Dalla Chiesa ha preso solo me dall'Ucciardone e mi ha mandato a Cuneo.

PRESIDENTE. Può cercare di spiegare perché fu preso soltanto lei?

TOMMASO BUSCETTA. Non me lo spiego; credo che ci sia stato un litigio tra il direttore del carcere di Palermo ed il generale Dalla Chiesa. Quando questi gli domandò quali fossero i detenuti da mandare nelle carceri di massima sorveglianza, il direttore del carcere di Palermo disse: "Nessuno". "Come nessuno? E Buscetta Tommaso?" Il direttore rispose: "Sì, c'è Buscetta Tommaso ma egli è un equilibrio dentro il carcere, non ha mai tentato di evadere o di segare sbarre, malgrado gli abbia concesso, dietro domandina, il possesso di seghetti perché egli ha l'hobby della costruzione delle navi da modellismo". "Ah, so che Buscetta si è sostituito a te!". Quindi io sono stato il centro di una disputa tra due personalità e sono stato trasferito a Cuneo.

ALTERO MATTEOLI. Lei come sa queste notizie?

TOMMASO BUSCETTA. Dal direttore del carcere, dottor Di Cesare, personalmente. Ma c'è di più: io sono uscito in permesso dal carcere perché una mia figlia si operava a Milano di peritonite ed era sul punto di morire; mi hanno dato cinque giorni di licenza e al quinto giorno esatto mi sono ripresentato sperando di essere trasferito da quel carcere in un altro carcere dove, nei colloqui settimanali, avrei potuto baciare i miei figli. Il generale Dalla Chiesa disse: no, lui deve rimanere a Cuneo.

PRESIDENTE. Si spiega il motivo di questa scelta nei suoi confronti?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so, io non lo so.

PRESIDENTE. Non può fare neanche ipotesi?

TOMMASO BUSCETTA. Neanche ipotesi.

PRESIDENTE. Stavamo parlando dell'invito fattole da Pippo Calò di restare in Italia. Vogliamo riprendere questo discorso?

TOMMASO BUSCETTA. Pippo Calò mi disse: "Perché devi andare in Brasile?" Gli dissi: "Pippo, qua io vedo che siete tutti ricchi". "Ma tu avrai tutti i soldi che vorrai, devi dire solo quanto vuoi". "No, sennò divento schiavo di questa routine. E poi non mi piace quest'atteggiamento che tu hai in commissione, di dire sempre sì quando i corleonesi parlano". "Ma i corleonesi sono nostri amici". "Sono i tuoi amici, non i miei. Comunque, io non desidero litigare. Ti conosco da bambino. Dobbiamo fare solo una cosa: io me ne vado in Brasile, voglio essere lasciato in pace". "Ma se tu rimani qua c'è una fortuna. Si devono fare i quattro quartieri a Palermo": tuttora non so che cosa significhi i quattro quartieri, non lo so, non me lo domandi. "Va bene - gli ho detto - e i quattro quartieri?". "C'è Ciancimino che è nelle mani dei corleonesi". "E proprio perché è nelle mani dei corleonesi io non ho niente a che vedere e me ne vado in Brasile".

PRESIDENTE. Cosa vuol dire che Ciancimino era nelle mani dei corleonesi? Era nelle mani dei corleonesi o di Riina?

TOMMASO BUSCETTA. E' un linguaggio locale, che è difficile tradurre in italiano. Quando Calò dice che era nelle mani dei corleonesi intende dire come

Pag. 382 struttura portante, in mano a Riina. Perché mica può essere in mano a Bagarella!

 PRESIDENTE. Cosa vuol dire essere nelle mani di qualcuno?

TOMMASO BUSCETTA. Che quello ne fa quello che vuole. O per lo meno che sono in società, o che sono molto amici.

PRESIDENTE. E' chiaro. E Ciancimino tuttora opera d'intesa con Riina, secondo lei, o questo rapporto si è rotto?

TOMMASO BUSCETTA. Dovrei entrare nel campo delle ipotesi e non lo so.

PRESIDENTE. Sulla base di ciò che lei conosce, di quello che ha visto e della capacità di interpretazione dei fatti che ha per aver fatto parte di Cosa nostra, ha tratto attualmente elementi che le possano far pensare che Ciancimino ha rotto con Riina?

TOMMASO BUSCETTA. No. Se è vero... Perché io non ho dato assicurazione al dottor Falcone che era vero, ho detto: Pippo Calò mi ha detto questo...

PRESIDENTE. Certo, certo.

 TOMMASO BUSCETTA. Se è vero che Ciancimino era nelle mani dei corleonesi e Ciancimino è tranquillo, può gridare, può dire "voglio essere sentito dall'Antimafia", mi creda: Ciancimino è d'accordo con Riina, ancora. Se è vero.

 PRESIDENTE. Se è vera la prima cosa, ho capito. Ciancimino era votato da Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. Anche dall'inizio.

PRESIDENTE. Anche dall'inizio.

TOMMASO BUSCETTA. Però lui aveva un collegio differente da Lima. Ma poi non c'erano ostacoli, non si creava l'ipotesi "tu questo non lo devi votare perché io voto Lima e tu non devi votare...". Ognuno era libero. L'importante è che non fosse comunista.

PRESIDENTE. Lima e Ciancimino non erano d'accordo?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Perché non erano d'accordo?

TOMMASO BUSCETTA. Che io sappia non sono stati mai d'accordo. Ma poi questi fatti si sono confermati nel 1980, quando sono uscito e mi sono incontrato con Bontade: era una rottura totale. E sembra, a dire di Bontade, che Ciancimino avesse ricevuto da Lima, per farlo restare nelle condizioni di eminenza grigia nella democrazia cristiana, questa concessione dei quattro quartieri - ripeto che non so cosa significhi - che era gestita da Ciancimino.

ALFREDO GALASSO. Quattro mandamenti, non quattro quartieri.

TOMMASO BUSCETTA. Ma ancora non so cosa significhi.

PRESIDENTE. Credo si trattasse del risanamento del centro storico. Non ho capito bene quale fosse la ragione dell'inimicizia tra Ciancimino e Lima.

TOMMASO BUSCETTA. L'inimicizia tra Ciancimino e Lima secondo me è politica, non è...

 PRESIDENTE. Non dipende da rapporti...

TOMMASO BUSCETTA. ... mafiosi. No, no. Credo che sia di corrente. Quando andai via nel 1963, lasciai Lima in una corrente fanfaniana; nel 1972 l'ho ritrovato

Pag. 383 andreottiano. Credo che più che altro sia per queste correnti che si creavano in seno ...

 PRESIDENTE. Quindi un'inimicizia che non dipendeva dalle alleanze degli uomini di Cosa nostra.

TOMMASO BUSCETTA. No, no, lo escludo categoricamente.

PRESIDENTE. E quali erano i rapporti di Lima con i corleonesi?

TOMMASO BUSCETTA. Io non li conosco. PRESIDENTE. Non li conosce.

TOMMASO BUSCETTA. No, perché io credo che non ci fossero. Nel senso che non erano ... I rapporti che potevano intercorrere tra Ciancimino e Riina... Io credo che tra Riina e Lima ... fosse un altro il contatto. Ma non credo assolutamente che ci fosse il rapporto che ci poteva essere con Ciancimino, personale.

PRESIDENTE. Ho capito. Cosa sa dei rapporti tra Balducci e Calò, oltre quanto ha detto?

TOMMASO BUSCETTA. Balducci e Calò erano soci in tutti i sequestri che si facevano nel romano, nella Toscana e nelle aziende anche commerciali.

PRESIDENTE. Sequestri di persona?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. Lo so molto bene, e c'è anche un giudice che lo sa molto bene.

PRESIDENTE. Lo sa molto bene. Ma non c'era un'intesa per cui gli uomini d'onore non dovessero fare sequestri di persona?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, in Sicilia.

PRESIDENTE. Solo in Sicilia. Fuori li potevano fare. Ho capito. Se un partito o un uomo politico che siano stati sostenuti durante una campagna elettorale poi non restituiscono il favore, cosa succede?

TOMMASO BUSCETTA. Innanzitutto parliamo per la prima parte: se un partito, non è ...

 PRESIDENTE. Ha ragione, mi correggo: un candidato.

TOMMASO BUSCETTA. Ecco: un candidato. Ma non ci sono... Se parliamo di un candidato che va cercando terra terra un appoggio politico, che dà un pacco di pasta o il paio di scarpe, quella è una cosa; se parliamo del rapporto tra un candidato e la mafia, anzi e un mafioso non la mafia, è un'altra cosa. Là c'è un parlare elegante: cioè, noi l'appoggiamo, io ti appoggio, vedrai i voti ..., speriamo che Dio ti benedica. Ma è senza patto. Ma dopo avvengono le cessioni.

PRESIDENTE. Ma il politico deve sapere o deve capire che quello che gli sta di fronte è un uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Lo intuisce, se è siciliano lo intuisce. Certo, se viene da Trieste non capirà mai chi ha davanti.

PRESIDENTE. Neppure se viene da Torino. Ma se questo candidato, dopo che è stato eletto, non fa quello che deve fare - diciamo così - cosa avviene?

TOMMASO BUSCETTA. Ma non è stabilito quello che deve fare.

PRESIDENTE. Cosa accade se un mafioso gli chiede un favore e questi non lo fa?

TOMMASO BUSCETTA. Se è nelle possibilità del candidato di fare il favore e non lo fa, sono fatti seri del candidato. Se invece non può farlo perché è impossibilitato a farlo, è un altro discorso.

Pag. 384 PRESIDENTE. Può accadere che un mafioso o un gruppo di mafiosi decidano di votare a dispetto, togliendo i voti a un candidato e dandoli ad un altro perché quello capisca che non ha fatto ...?

TOMMASO BUSCETTA. Lei mi fa una domanda alla quale devo rispondere per quello che ho appreso attraverso i giornali. Altrimenti non avrei una risposta da dare, perché non è successo nel passato. Hanno dato i voti al partito socialista: ma li hanno dati proprio a dispetto, per non votare la democrazia cristiana che forse avrà negato dei favori.

PRESIDENTE. E' stato un voto a dispetto: è possibile che sia così?

TOMMASO BUSCETTA. E' possibile. Anzi potrei giurare che è senz'altro così.

PRESIDENTE. Come fa l'uomo d'onore ad orientare il voto, a dire per chi si debba votare?

TOMMASO BUSCETTA. Con i fac-simile che vengono distribuiti.

PRESIDENTE. Come fa la gente a sapere che un determinato candidato è sostenuto da un uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Lo sanno, lo sanno. Lei non ha idea delle campane che si suonano in Sicilia, erano più rapide delle telefonate, si sanno queste cose e poi c'è "u zu Peppino" che vuole che si voti ... e lei non deve neanche sapere che servirà a qualche cosa questo uomo politico.

PRESIDENTE. Ci sono anche intimidazioni o no?

TOMMASO BUSCETTA. No, la mafia non fa intimidazioni, non ne ha bisogno.

PRESIDENTE. Che ruolo ha giocato Bontade nell'attività politica di Lima?

TOMMASO BUSCETTA. Io conosco questa parte, e sa perché? Perché Bontade, prima del 1963, non votava Lima, aveva altri candidati.

PRESIDENTE. E chi votava?

TOMMASO BUSCETTA. Eh, lasciamola così questa parte, perché poi questo deputato nel tempo si è maturato di più.

PRESIDENTE. Cosa vuol dire che si è maturato di più? Che è diventato più importante?

TOMMASO BUSCETTA. E' diventato più importante, è diventato forse, chissà, qualche cosa di più importante nel Governo, non ricordo bene.

PRESIDENTE. E' in vita?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so, come faccio a saperlo?

PRESIDENTE. Forse non mi sono spiegato: le sto chiedendo se è vivo o morto.

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so, non lo so. Ho capito bene la sua domanda, ma non lo so, devo inventare che è morto e poi quello è vivo e mi denuncia per calunnia?

ALFREDO BIONDI. E' ancora parlamentare o ha avuto una "disgrazia" di tipo elettorale?

TOMMASO BUSCETTA. Io credo che non sia più parlamentare.

PRESIDENTE. La Commissione avrebbe interesse a sapere se oggi, sulla base di quello che lei sa, un'ipotesi di separazione della Sicilia dal resto d'Italia o di un'autonomia di gran lunga maggiore possa coincidere con gli interessi di Cosa nostra attuale.

TOMMASO BUSCETTA. Come ipotesi, sto rispondendo come ipotesi: sì.

Pag. 385 PRESIDENTE. Sulla base di che cosa fonda questa sua ipotesi?

TOMMASO BUSCETTA. Le tremende condanne che si ricevono in questi anni mi fanno pensare che dovranno trovare una soluzione, perché non sarà ammazzando il giudice Falcone, il giudice Borsellino o quelli che verranno (perché ne verranno, disgraziatamente ne verranno altri) che si risolverà il problema. Le condanne rimarranno, la Cassazione ha chiuso certi processi, quindi non credo che vi saranno alternative che potranno essere favorevoli ... PRESIDENTE. Quindi, quello delle condanne è per lei un punto fondamentale?

TOMMASO BUSCETTA. Io credo fermamente solo in questo.

PRESIDENTE. Ricorda i nomi dell'assessore Trapani e del medico Maggiore?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Erano uomini d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, erano nella mia famiglia, entrambi consiglieri.

PRESIDENTE. Lei ha spiegato di aver conosciuto, durante il suo soggiorno a Roma presso Calò, sia Balducci sia Diotallevi. Può spiegare meglio quali rapporti avesse Calò con questi personaggi romani, con Abbruciati, e così via? Questi non erano uomini d'onore, vero?

TOMMASO BUSCETTA. No, assolutamente no.

PRESIDENTE. Un uomo d'onore può mettersi a commettere reati con gente che non è gente d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Quali reati? Se parliamo di sequestri, sì, è lui che ne assume la responsabilità. Se parliamo di omicidi, no, assolutamente, specialmente se sono omicidi decretati dalla commissione.

PRESIDENTE. Gli omicidi decretati dalla commissione sono effettuati soltanto da uomini d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Soltanto, non perdiamoci in chiacchiere, soltanto.

PRESIDENTE. Non possono essere altri?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Che rapporti aveva intrecciato Calò con questa gente a Roma?

TOMMASO BUSCETTA. Per quello che ho visto io personalmente, erano rapporti di briccone, di affari, andavano a sequestrare persone ed io ricordo che in quel periodo il Diotallevi voleva comprare qui a Roma una casa che costava (a quell'epoca erano molti soldi, forse oggi sono un po' svalutati) due miliardi; non so se poi l'abbia comprata.

PRESIDENTE. Antonino Rotolo aveva rapporti con questi personaggi?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Può spiegare alla Commissione chi era Antonino Rotolo?

TOMMASO BUSCETTA. Antonino Rotolo era una persona amica nostra, di un'altra famiglia rispetto a Pippo Calò ma che si era molto affezionato a Pippo Calò e che si era dato, insieme a Pippo Calò, a questi sequestri e al traffico di droga, diventando molto ricco ed antipatico a Stefano Bontade, il quale aveva detto che si era fatto uomo d'onore un uomo il cui cognato era vigile urbano.

 PRESIDENTE. Angelo Cosentino chi era?

Pag. 386 TOMMASO BUSCETTA. Era capo decina a Roma.

PRESIDENTE. Era un uomo importante?

 TOMMASO BUSCETTA. Era lui che comandava qui a Roma come Cosa nostra. Era dipendente di Stefano Bontade come decina, ma era lui che amministrava nella città tutto quello di cui c'era bisogno.

PRESIDENTE. Qual era la funzione di Cosentino?

TOMMASO BUSCETTA. Era di trovare agganci in Cassazione, di trovare case per far dormire i latitanti.

PRESIDENTE. I rapporti con i politici romani li teneva Cosentino?

TOMMASO BUSCETTA. In parte sì.

PRESIDENTE. Può chiarire quali rapporti avesse Pippo Calò con Nunzio Guida, di cui lei ha parlato un attimo fa?

TOMMASO BUSCETTA. Pippo Calò aveva rapporti con Nunzio Guida come uomo d'onore. Nunzio Guida prima era un grande contrabbandiere di sigarette insieme a Zaza.

PRESIDENTE. Ed era anche uomo d'onore Nunzio Guida?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, era anche uomo d'onore. Quindi, lo ha conosciuto come uomo d'onore insieme a Zaza e insieme hanno scaricato piroscafi e piroscafi di sigarette.

PRESIDENTE. Ha mai sentito parlare di Nunzio Guida in Brasile?

TOMMASO BUSCETTA. Ne ho sentito parlare prima, in prima persona.

PRESIDENTE. L'ha visto in Brasile?

TOMMASO BUSCETTA. No, non l'ho visto in Brasile. Lui ha delle amicizie molto elevate; quando io sono uscito dal carcere ho detto a Salamone che volevo andare in Brasile, ma il Brasile nel 1972 mi aveva espulso, per cui mi veniva un po' difficile ritornarvi. Salamone mi disse che Nunzio Guida avrebbe potuto aiutarmi in questa cosa e mi consigliò di andare da Alfredo Bono, che mi avrebbe messe in contatto con Nunzio Guida. Parlai con Nunzio Guida a Milano di questa cosa, ma la risposta, che giunse dopo vari giorni, fu che il mio nome era troppo eclatante in Brasile e che egli non poteva fare nulla, anche se si diceva che conoscesse l'allora Presidente del Brasile.

PRESIDENTE. Sa qualcosa dei rapporti tra Nunzio Guida ed Ortolani?

TOMMASO BUSCETTA. Credo che Nunzio Guida ospitasse Ortolani o che questi ospitasse lui.

PRESIDENTE. E dei rapporti tra Nunzio Guida e Gelli?

TOMMASO BUSCETTA. Questi non li conosco.

PRESIDENTE. Può dare chiarimenti alla Commissione sulla visita di uno dei Salvo a casa di Pippo Calò? Chi era, Ignazio?

TOMMASO BUSCETTA. No, era Nino. Siamo andati a pranzo a casa di Pippo Calò e nel pomeriggio io avrei dovuto incontrarmi con Salvo Lima e chi mi portava da Lima era Nino Salvo.

PRESIDENTE. Come mai andaste a mangiare a casa di Calò?

TOMMASO BUSCETTA. Calò era il mio figlioccio, il mio rappresentante, come devo dirlo? Io ero in casa di Pippo Calò, è Nino Salvo che viene a trovarmi in casa di Pippo Calò e dopo andiamo insieme a trovare Lima.

Pag. 387 PRESIDENTE. E Nino Salvo da chi era stato interessato?

TOMMASO BUSCETTA. Da me, io conoscevo Nino Salvo.

PRESIDENTE. Vorrei capire meglio. Quindi, lei parlò con Nino Salvo e cosa gli chiese?

TOMMASO BUSCETTA. Per la verità lui mi disse: guarda che Salvo - perché l'altro si chiama pure Salvo, cioé Lima - ti vuole vedere. PRESIDENTE. Era Lima che voleva vedere lei?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. Ti vuole vedere perché si vuole scusare. Tu avrai capito. Per la verità, Lima mi mandava dei messaggi in carcere, quando lui era segretario, e mi diceva che non poteva fare niente per me. PRESIDENTE. Quando lui era segretario di che cosa?

TOMMASO BUSCETTA. Mi sembra che fosse sottosegretario. Non ricordo, anzi mi sembra che fosse sottosegretario alle finanze.

 PRESIDENTE. E le diceva?

TOMMASO BUSCETTA. E mi diceva, attraverso Brandaleone - che è un'altra persona nella mia famiglia, che lei forse non avrà lì segnata perché non ne ho mai parlato con nessuno - che avrebbe fatto il possibile, ma che non c'era molto da fare perché il mio nome era troppo cubitale.

PRESIDENTE. E non si poteva quindi aiutarla. Andaste poi a parlare con Lima?

TOMMASO BUSCETTA. Andai poi a parlare con Lima.

PRESIDENTE. Sempre accompagnato da Nino Salvo?

TOMMASO BUSCETTA. Lui sapeva dove andare a trovare e poi io ero latitante e quindi dovevo stare attento. Andammo in un albergo, di cui non ricordo il nome.

MARCO TARADASH. L'intervento di Lima chi l'aveva chiesto?

PRESIDENTE. Buscetta dice che Lima aveva chiesto di parlare con lui.

MARCO TARADASH. Lima aveva mandato biglietti in carcere, ed allora?

PRESIDENTE. L'onorevole Taradash vuol sapere, poiché lei qui riferisce che Lima le aveva mandato dei messaggi in carcere ...

TOMMASO BUSCETTA. Non biglietti, messaggi a voce, orali.

PRESIDENTE. L'onorevole Taradash vorrebbe capire chi avesse detto a Lima: interessati.

TOMMASO BUSCETTA. Ma Lima era amico mio. Poi, non essendo più presente perché abbiamo fatto due strade completamente diverse, avevamo l'unione di un personaggio molto vicino a Lima, nella mia famiglia di Porta Nuova, che era amico nostro e che era Brandaleone, Ferdinando Brandaleone, che aveva un fratello assessore al comune di Palermo. PRESIDENTE. E Brandaleone era un uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Era un uomo d'onore.

PRESIDENTE. E il fratello?

TOMMASO BUSCETTA. Il fratello no, l'assessore. Ma ce ne erano tanti uomini d'onore nella giunta di Lima.

Pag. 388 PRESIDENTE. Ce ne erano tanti?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, e ne parlerò poi con i giudici. Ne parlerò: ce ne erano tanti uomini d'onore nella giunta di Lima e non perché Lima li volesse, ma perché erano votati. Portavano più voti del sindaco: dovevano essere degli assessori.

PRESIDENTE. Nelle giunte successive ci sono stati ancora uomini d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so. Non le dirò certo di no.

MARCO TARADASH. Buscetta ha detto: Lima era amico mio. Può descrivere i rapporti personali che ha avuto con Lima?

PRESIDENTE. E' meglio rinviare a dopo questa domanda. Quali erano i rapporti tra mafia e imprese a Palermo? In altri termini, per lavorare le imprese dovevano rivolgersi a Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. Sembrerà strano, ma è una parte che io non conosco perché non si facevano. Ma so benissimo che dopo il 1970, quando ero carcerato, si facevano perché entravano anche uomini d'onore che avevano subito dei processi perché avevano fatto degli attentati dinamitardi alle imprese di costruzione. Questo l'ho saputo, ma personalmente non l'ho conosciuto, questo fatto.

PRESIDENTE. Non conosce questo rapporto tra mafia ed imprese.

TOMMASO BUSCETTA. E' nato dalle intimidazioni, dalle bombe, dalle macchine che saltavano in aria, dai pilastri di cemento armato che cadevano. Quindi, è nato un rapporto di intimidazione e così ogni costruttore aveva il suo guardiano, dava una sovvenzione per i carcerati, perché questo era il nome.

 PRESIDENTE. C'era stata, dunque, un'azione di intimidazione. Siccome lei un attimo fa ha detto che la mafia non ha bisogno di intimidire, come mai è accaduto ciò?

TOMMASO BUSCETTA. Ma venivano imprese che dovevano essere intimidite, venivano imprese straniere: "siamo andati dal triestino per vedere se capiva il messaggio ed il triestino non capisce il messaggio".

PRESIDENTE. Bisognava spiegarglielo bene, insomma. I nomi degli imprenditori Costanzo, Graci e Rendo le dicono qualcosa?

TOMMASO BUSCETTA. Solo Costanzo, perché lo conoscevo di nome attraverso Pippo Calderone.

PRESIDENTE. Può spiegare che cosa sa di Costanzo?

TOMMASO BUSCETTA. La persona di fiducia di Costanzo, quando lui andava a costruire ... ecco: la risposta l'abbiamo subito. Se lui andava a costruire a Palermo, a Bolognetta, era il Pippo Calderone che andava a trattare dicendo: verrà Costanzo, verrà a costruire. Di cosa avete bisogno? Gli rispondevano: abbiamo bisogno di due guardiani, due impiegati. E perciò non c'era bisogno di mettere bombe o di intimidire.

PRESIDENTE. E Cassina?

TOMMASO BUSCETTA. Cassina io credo che aveva già un sopporto molto grande da parte di Salvo Lima che io conosco dal lontano 1960, 1959.

PRESIDENTE. Chi?

TOMMASO BUSCETTA. Io personalmente conoscevo il rapporto fra Cassina e Lima.

Pag. 389 PRESIDENTE. Mentre ci siamo, può spiegare alla Commissione questo suo rapporto d'amicizia con Lima?

TOMMASO BUSCETTA. Mio personale?

PRESIDENTE. Sì. TOMMASO BUSCETTA. Come ho detto già in un interrogatorio diventato pubblico, il Lima era figlio di un uomo d'onore attivo. Un uomo d'onore che era nella famiglia di Palermo. Molte persone hanno scambiato che il rapporto fra Lima ed i La Barbera fosse un rapporto dovuto all'elettorato, fosse un rapporto dovuto alle intimidazioni. Non è vero. I La Barbera non avevano bisogno di questo perché avevano il padre dentro la loro famiglia, quindi loro chiedevano a Lima quello che volevano attraverso il padre, non direttamente. Mentre io ero - come dire? - l'astro nascente, il personaggio nuovo ...

PRESIDENTE. Emergente.

TOMMASO BUSCETTA. ... che frequentavo il Teatro Massimo e che non avevo niente a che vedere con le bettole; una volta, quando io ero giovanotto, si usavano le bettole, ma io non le frequentavo ed andavo al Teatro Massimo. Io conoscevo personalmente il padre di Lima e mi fu presentato Lima dal padre. Tra noi si instaurò un rapporto che non era un rapporto fatto di "io ti do, tu mi dai". Assolutamente, questo non esisteva e si instaurò un rapporto: eravamo della stessa età, frequentavemo assieme il Teatro Massimo, lui mi mandava i biglietti per tutta la stagione lirica del Teatro Massimo. Questi erano i rapporti.

 PRESIDENTE. Come diceva, Cassina era sostenuto da Lima. E l'imprenditore Vassallo?

TOMMASO BUSCETTA. Credo che Vassallo era la "firma" di Lima, che Vassallo fosse scritto per sostituire il nome di Lima.

PRESIDENTE. Moncada?

TOMMASO BUSCETTA. Moncada no. Mocada era un membro della famiglia di Palermo.

ALTERO MATTEOLI. Cosa vuol dire "la famiglia di Lima"?

TOMMASO BUSCETTA. Io ho detto "la famiglia di Lima"?

PRESIDENTE. No, "la firma".

TOMMASO BUSCETTA. Forse confondo lo spagnolo con l'italiano: per "firma" intendo dire la ditta. Io credo che la ditta ...

PRESIDENTE. Era Vassallo.

TOMMASO BUSCETTA. ... che dietro quella firma ci fosse Lima. Un prestanome.

PRESIDENTE. Com'è che poi è stato sequestrato un nipote, anzi il figlio, di Vassallo, nonostante che questi avesse alle spalle Lima?

 TOMMASO BUSCETTA. E perché Lima è una garanzia?

 PRESIDENTE. Non era sufficiente?

TOMMASO BUSCETTA. No. E poi non credo molto a questo sequestro di Vassallo. Non lo conosco questo sequestro.

 PRESIDENTE. Può spiegare?

TOMMASO BUSCETTA. Che non c'è stato il sequestro.

PRESIDENTE. E' stato finto?

TOMMASO BUSCETTA. E' stato finto. PRESIDENTE. E perché?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so il perché.

Pag. 390 PRESIDENTE. Però, lei sa che è stato finto.

TOMMASO BUSCETTA. Non c'è stato il sequestro. Si è autosequestrato, io credo.

PRESIDENTE. Moncada era uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, Moncada era uomo d'onore della famiglia di Palermo. Salvatore Moncada, perché erano diversi fratelli costruttori, ma l'uomo d'onore era Salvatore Moncada.

PRESIDENTE. Salvatore Moncada dava copertura anche ai fratelli?

TOMMASO BUSCETTA. E' logico.

PRESIDENTE. Ha mai sentito parlare del dottor Mandalari?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. Ne ho sentito parlare in carcere da Agostino Coppola, da gente che è entrata in carcere. Era come si dice...

PRESIDENTE. Un commercialista.

TOMMASO BUSCETTA. Un commercialista di tutti gli amici nostri che venivano in carcere. Tu hai avuto un commercialista? Mandalari. Altre cose non so di Mandalari.

PRESIDENTE. Era il commercialista di tutti quelli di Cosa nostra o solo dei corleonesi?

TOMMASO BUSCETTA. Beh, lei ha fatto una bella domanda. Era amico dei corleonesi perché tutti quelli che venivano in carcere e avevano il commercialista Mandalari, incredibilmente erano tutti corleonesi. Cioè, non nati a Corleone...

PRESIDENTE. Del gruppo dei corleonesi.

TOMMASO BUSCETTA. Della corrente. Voi parlate di correnti, parlo pure io di correnti. Della corrente dei corleonesi.

PRESIDENTE. Gli imprenditori di Catania come sono entrati a Palermo? Tramite Pippo Calderone?

TOMMASO BUSCETTA. L'ho data la risposta.

PRESIDENTE. Nel corso di un interrogatorio del 9 agosto 1984 al dottor Falcone, lei ha dichiarato che se un imprenditore di una provincia intende eseguire lavori di notevole rilievo in un'altra provincia, il giudizio è riservato all'interprovinciale. E' così?

TOMMASO BUSCETTA. Bisogna vedere l'importanza della ditta. Perché se uno deve fare cento metri di strada, si rivolge personalmente all'uomo d'onore che lui conosce, anche se è di Balestrade, e dice "guardi io devo andare a fare cento metri di strada in quella borgata, in quel paese, in quella cittadina". Allora, va solo. Domanda il permesso al suo rappresentante e va.

PRESIDENTE. Se invece è un lavoro più impegnativo?

TOMMASO BUSCETTA. E allora può interessarsi l'interprovinciale e dire "guarda, c'è un appalto per vari miliardi, potremmo vedere di interessarci per non avere disturbo se andiamo a costruire a Palermo o, viceversa, se andiamo a costruire a Catania".

PRESIDENTE. Questo succede anche con gli imprenditori non siciliani?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so.

ALFREDO BIONDI. E la ripartizione come avviene? Quando si chiede un piacere, come avviene il conteggio dell'interesse della famiglia o dell'interprovinciale?

Pag. 391 PRESIDENTE. Dice l'onorevole Biondi...

ALFREDO BIONDI. Ha capito, ha capito.

TOMMASO BUSCETTA. Ho capito. Posso rispondere

 PRESIDENTE. Mi scusi, onorevole Biondi, ripeterei la domanda per la registrazione.

ALFREDO BIONDI. Sono vanitoso.

TOMMASO BUSCETTA. Allora siamo due vanitosi. L'aveva capito che ero vanitoso anch'io?

ALFREDO BIONDI. E' una bella qualità aver stima di se stesso.

TOMMASO BUSCETTA. La ripartizione non avviene, non c'è ripartizione. Voleva sentire la risposta? Allora mi dia ascolto. La ripartizione non avviene, perché al momento dell'interessamento dell'interprovinciale stabiliscono loro che cosa quella firma, cioè quella ditta, darà alla borgata dove andrà a costruire. Quindi, la ripartizione avviene con chi? Nella famiglia dove va a costruire e quello non deve ripartire con nessuno.

ALFREDO BIONDI. Ho sbagliato il termine, intendevo la quota. Come si fissa la quota?

TOMMASO BUSCETTA. La quota non c'è, non è una percentuale, è una stima.

ALFREDO BIONDI. Ho capito.

PRESIDENTE. Lei ha dichiarato al giudice Falcone di aver appreso da Stefano Bontade che il sindaco Martellucci, grazie all'intermediazione dei Salvo, aveva accettato che Ciancimino gestisse il risanamento dei mandamenti di Palermo.

TOMMASO BUSCETTA. Già non abbiamo parlato in precedenza di questo?

PRESIDENTE. Non abbiamo parlato di Martellucci. Abbiamo parlato di risanamento, c'è una cosa in più adesso. Si tratta di sapere per conto di chi i Salvo avevano svolto il ruolo di intermediazione.

TOMMASO BUSCETTA. Tra?

PRESIDENTE. Tra Martellucci e forse Ciancimino, perché Bontade le avrebbe detto che Martellucci, grazie all'intermediazione dei Salvo, aveva accettato che Ciancimino gentisse il risanamento dei mandamamenti di Palermo. Martellucci era sindaco e Ciancimino assessore. I Salvo per conto di chi avevano agito? Anzi, Ciancimino non era più assessore, era responsabile degli enti locali.

TOMMASO BUSCETTA. Martellucci non è un uomo d'onore. Martellucci non è avvicinato neanche da Bontade. Martellucci in quel momento è l'attuale sindaco di Palermo. Allora che cosa si vuole? Tranquillità alla giunta di Martellucci, ma è la corrente - e questa volta è appropriato - andreottiana che va a proporre a Martellucci di lasciare, di dare un boccone a Ciancimino, perché la giunta possa andare avanti.

PRESIDENTE. Così lasciava la giunta tranquilla, insomma.

TOMMASO BUSCETTA. Esatto.

PRESIDENTE. Poi fu messa la bomba nella villa di Martellucci.

TOMMASO BUSCETTA. Sì, e difatti Bontade mi disse "ma che cosa vuole questo gran cornuto del corto (il corto sarebbe Salvatore Riina)". Insomma, quello che voleva, Ciancimino l'ha ottenuto. Ma perché andare a mettere la bomba da Martelucci? Non ho altro da aggiungere.

Pag. 392 PRESIDENTE. Quali vantaggi trasse Cosa nostra dal fatto che il risanamento dei mandamenti fosse gestito da Ciancimino?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so assolutamente.

GIUSEPPE MARIA AYALA. Il risanamento non è mai stato fatto.

PRESIDENTE. Lo so, tant'è che recentemente è stata approvata una legge. Si tratta di capire quali siano le risposte del signor Buscetta.

TOMMASO BUSCETTA. Sarei morto di fame aspettando...

 PRESIDENTE. Le è andata meglio così, signor Buscetta. Lei ha detto, a proposito del golpe Borghese, che i contatti con Cosa nostra erano stati resi possibili dal fratello massone di Morana Carlo.

TOMMASO BUSCETTA. Esatto.

PRESIDENTE. Uomo d'onore della famiglia di corso dei Mille.

TOMMASO BUSCETTA. Esatto.

PRESIDENTE. E successivamente aggiunge che Giuseppe Di Cristina e Giuseppe Calderone avevano contattato massoni di grado più elevato rispetto a Morana.

TOMMASO BUSCETTA. Morana non era massone. Carlo Morana.

PRESIDENTE. Massone è il fratello.

TOMMASO BUSCETTA. Che poi il fratello aveva introdotto ai gradi più elevati.

PRESIDENTE. Per capire, il fratello massone di Carlo Morana aveva introdotto ai gradi elevati Di Cristina e Calderone. Lei ha anche precisato che Calderone e Di Cristina sarebbero andati a Roma, insieme con i massoni parlemitani e forse anche catanesi, per incontrarsi con Borghese.

TOMMASO BUSCETTA. Esatto!

 PRESIDENTE. E' esatta questa ricostruzione?

TOMMASO BUSCETTA. E' esatta questa ricostruzione.

PRESIDENTE. Può chiarire meglio questo rapporto con la massoneria?

TOMMASO BUSCETTA. Chi parlò di Borghese a Cosa nostra sono i massoni. Pippo Calderone o Giuseppe Di Cristina non conoscevano Borghese. Quindi l'appuntamento viene dato dal fratello di Carlo Morana a Pippo Calderone e a Giuseppe Di Cristina. Sono poi loro che sono condotti in un altro posto, che io non so, dei massoni e viene fatta la composizione "Borghese, il patto è...". Quando poi vanno a Roma, si vanno ad incontrare personalmente con Borghese e nasce quel fatto, le fasce...

PRESIDENTE. Sì, sì, l'elenco eccetera. Lei sa di altri rapporti tra uomini d'onore e massoni?

TOMMASO BUSCETTA. Vitale è cognato di Stefano Bontade ed era massone; Vitale era amico di Sindona; era stato Vitale a portare Sindona da Stefano Bontade e Inzerillo. Era stato Sindona a parlare a Inzerillo di golpe. PRESIDENTE. Questo è un altro, quello del 1979.

Pag. 393 TOMMASO BUSCETTA. No, stiamo parlando di un altro... Quando è stato Sindona in Italia?

PRESIDENTE. Nel 1979.

TOMMASO BUSCETTA. Stiamo parlando di un altro. Però non se n'è fatto niente perchè...

PRESIDENTE. Come di un altro? Prima abbiamo parlato di quello del 1970.

TOMMASO BUSCETTA. Esatto.

PRESIDENTE. Ora stiamo parlando del 1979.

TOMMASO BUSCETTA. Lei vuole sapere quello di mezzo? Del 1974?

PRESIDENTE. Qual è quello di mezzo?

TOMMASO BUSCETTA. Nel 1974 ce n'era un altro preparato.

PRESIDENTE. Vuole spiegarsi?

TOMMASO BUSCETTA. Ho ricevuto dal mio direttore del carcere, dottor De Cesare, la notizia che dopo pochi giorni sarebbe successo un colpo di Stato e io sarei passato, attraverso un brigadiere della matricola, per un cunicolo, sarei entrato in casa sua e sarei stato liberato. Sapevo che c'erano anche dei militari. Ma non vorrei dire queste cose, sennò diventa uno scandalo, per l'amor di Dio!

PRESIDENTE. Credo lo sia già stato. Nel 1974 qualcuno le disse che ci sarebbe potuto essere un tentativo di colpo di Stato - in cui lei sarebbe stato liberato - in cui c'entravano i militari. Questo le dissero?

 TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Lo disse il dottor Di Cesare, direttore dell'Ucciardone?

TOMMASO BUSCETTA. Di massoni e militari.

PRESIDENTE. Quanto ai rapporti tra uomini d'onore e massoni, abbiamo parlato delle vicende del 1970. Successivamente, nel 1974, la mafia aveva un ruolo?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, è logico. Come faceva a conoscermi Di Cesare per dirmi che mi avrebbe portato a casa sua?

PRESIDENTE. Di Cesare era uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. No, perciò dico che era stata la mafia a dirglielo.

PRESIDENTE. Vi è poi la vicenda Sindona del 1979. Che progetto aveva Sindona?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so, perché Stefano Bontade non riuscì a spiegarmelo. Gli disse: lei mi sembra pazzo, sono stanco di colpi di Stato. Se li vada a fare lei. Lo mandarono via.

PRESIDENTE. Esistevano rapporti tra uomini d'onore e massoni anche per ragioni più spicciole, quali un processo o una licenza?

TOMMASO BUSCETTA. No, non lo so.

ROMEO RICCIUTI. Consulenze di alto livello tra università e uomini della professione tramite la massoneria?

TOMMASO BUSCETTA. No.

ALFREDO GALASSO. Il principe Alliata era massone? P

RESIDENTE. Le ripeto la domanda; per maggiore chiarezza è opportuno che sia sempre il presidente a porre i quesiti. Il principe Alliata era massone?

TOMMASO BUSCETTA. Conoscevo il principe Alliata perché ho giocato con lui. Ma, a quell'epoca, non mi intendevo di massoneria. Non so se fosse massone.

PRESIDENTE. Dopo, se n'è inteso di massoneria?

Pag. 394 TOMMASO BUSCETTA. No, però ho cercato di sapere se c'erano dei rapporti con la massoneria.

PRESIDENTE. Il principe Alliata era uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. No. Forse la mia risposta è categorica. E' meglio dire: che io sappia, no.

PRESIDENTE. Pippo Calderone avrebbe riferito che nel 1977 Bontade avrebbe a sua volta riferito che c'era stato un pour parler perché entrassero dei mafiosi nella massoneria. Lei ha sentito parlare di questa vicenda?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Era noto che Giacomo Vitale fosse massone?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Lei sa di un intervento che avrebbe fatto Giacomo Vitale nei confronti di magistrati del processo dei 114?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Vitale aveva rapporti con le famiglie mafiose?

TOMMASO BUSCETTA. Aveva un cognato capomafia, capomandamento. Anzi, i cognati.

PRESIDENTE. Lei sa qualcosa dei rapporti tra Giacomo Vitale e Michele Sindona, oltre a quello che ha già detto?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Tra Sindona e Bontade ci fu quel colloquio...

TOMMASO BUSCETTA. E Inzerillo. Sindona aveva insieme a lui alcuni fratelli Gambino di New York. Questi sono imparentati con gli Inzerillo. Quindi hanno accompagnato Sindona. E' per questo che era presente Inzerillo. Era anche lui capomandamento.

PRESIDENTE. Cosa si sono detti durante il colloquio?

TOMMASO BUSCETTA. Io l'ho sentito raccontato: quel pazzo è venuto qua per il colpo di Stato; lo abbiamo mandato a quel paese, quale colpo di Stato!

PRESIDENTE. Lei dice di aver tentato di partecipare a due tentativi.

 TOMMASO BUSCETTA. Erano tutti andati "a buca".

PRESIDENTE. Quindi, tanto valeva non provarci più. E' chiaro. Lei sapeva che Sindona era massone?

 TOMMASO BUSCETTA. L'ho saputo attraverso Vitale e Stefano Bontade.

 PRESIDENTE. Sapeva che Miceli Crimi era massone?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Conosce questo nome?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Sapeva che Sindona era iscritto alla loggia P2?

TOMMASO BUSCETTA. Non sapevo che esisteva la P2.

PRESIDENTE. Ha mai sentito parlare della loggia Diaz?

TOMMASO BUSCETTA. Non so parlare di queste cose.

PRESIDENTE. Quindi non sa se i Greco erano iscritti alla massoneria?

TOMMASO BUSCETTA. I due fratelli? Non so.

Pag. 395 PRESIDENTE. E i Salvo?

TOMMASO BUSCETTA. Non so di uomini iscritti alla massoneria.

PRESIDENTE. Perché si interrompe il soggiorno di Sindona a Palermo?

TOMMASO BUSCETTA. L'hanno mandato via, l'hanno cacciato. Gli hanno detto: vai via.

PRESIDENTE. Non vi è rapporto con l'assassinio del giudice Terranova?

TOMMASO BUSCETTA. No, assolutamente.

 PRESIDENTE. Perché Terranova fu ucciso?

TOMMASO BUSCETTA. Perché era stato cattivello con Luciano Liggio.

PRESIDENTE. La proposta di Sindona di un tentativo di colpo di Stato separatista fu discussa nelle famiglie di Cosa Nostra?

TOMMASO BUSCETTA. Credo che Stefano Bontade ne parlò in Commissione ma quella fu la risposta: di andarsi a fare una bella camminata.

PRESIDENTE. Lei sa chi mise in contatto Sindona con il notaio Cordaro di Caltanissetta?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Non sa se Pino Mandalari sia un esponente della massoneria?

TOMMASO BUSCETTA. No.

 PRESIDENTE. Dopo la strage di Ciaculli le famiglie si sciolsero. Poi ci furono le assoluzioni di Catanzaro. Quale fu il successivo comportamento di Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. Dobbiamo andare al 1969-1970; la sentenza fu del dicembre 1969. Hanno ricominciato a ricostruirsi, attraverso Stefano Bontade, che allora era giovane e non era stato preso di mira dalla polizia. Credo che avesse vent'anni. Attraverso Stefano Bontade si sono cominciate a ricostruire, ma le cose si erano un po' fermate perché quel famoso personaggio di cui ho parlato all'inizio, Cavataio, preferiva che le famiglie si facessero così come lui voleva. Questo è un discorso lungo, da fare per la storia della criminologia. Non credo che vi interessi molto e perciò sarò succinto. Dopo la morte di Cavataio, nel 1970, si comincia la ricostruzione delle famiglie, ognuno nella sua borgata. Si istituiscono i capimandamento e si fa la Commissione. Questa però, in un primo tempo e cioè verso il 1974, è gestita soltanto da tre persone: Riina, Bontade e Badalamenti. Subito dopo l'arresto di Luciano Liggio, credo nel 1974, a Milano si comincia a fare la commissione così come si formò: ogni tre famiglie un capomandamento e si abolirono i tre.

PRESIDENTE. Cosa nostra fece qualcosa di particolare per mettersi in evidenza e per far capire che si erano riorganizzati?

TOMMASO BUSCETTA. Questa mi sembra una domanda da torinese e rispondo ad un torinese: la mafia non ha bisogno di queste cose, ognuno ha una famiglia numerosissima e questa famiglia ha altre famiglie. Già si sa, è un collegamento.

PRESIDENTE. Gli attentati degli anni settanta, l'omicidio di Scaglione, la scomparsa del giornalista Di Mauro...

TOMMASO BUSCETTA. Non erano per dimostrare che la mafia era tornata.

PRESIDENTE. Perché erano stati fatti?

Pag. 396 TOMMASO BUSCETTA. Perché dovevano scassare la credibilità del Governo italiano. PRESIDENTE. Creare le condizioni per il colpo di Stato?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Anche l'omicidio Scaglione?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. Ho spiegato che anche dietro l'omicidio di Scaglione come entità di Stato c'era un'altra cosa: Vincenzo Rimi; ha approfittato di servire Cosa nostra ma ha approfittato di servirsi lui stesso.

PRESIDENTE. Lei ha spiegato, se non ho capito male, che Cosa nostra non commette mai omicidi su commissione; sono cose che interessano lei, poi possono anche interessare altri.

TOMMASO BUSCETTA. E' logico, è questo il discorso.

 PRESIDENTE. Questa è l'ipotesi.

TOMMASO BUSCETTA. No, questa è certezza, non ipotesi.

PRESIDENTE. L'onorevole Riggio le chiede se questa riorganizzazione riguardi soltanto la provincia di Palermo o tutta quanta la Sicilia?

TOMMASO BUSCETTA. Solo la provincia di Palermo, perché era questa ad essere scassata.

PRESIDENTE. Quindi, a Trapani...

TOMMASO BUSCETTA. Funzionavano regolarmente.

PRESIDENTE. Avendo lei spiegato alla Commissione che l'assassinio di Scaglione, la scomparsa di De Mauro, le bombe messe in quel periodo erano diretti a togliere credibilità allo Stato e a creare l'ambiente ed il clima favorevoli al tentativo del colpo di Stato, l'onorevole Borghezio le chiede se le stragi che si sono verificate negli ultimi tempi possano avere un significato analogo.

TOMMASO BUSCETTA. Non posso rispondere a questa domanda: non lo so. Devo rimanere "a cavallo" per quelle che saranno le indagini e per quelle che potranno essere le mie riflessioni. Quindi, devo rispondere: "Non lo so". Da dove la prendo un'affermazione simile?

CARLO D'AMATO. Forse nel "delirio".

TOMMASO BUSCETTA. Di "delirio" abbiamo parlato fuori.

PRESIDENTE. Se non ho capito male, lei ha usato il termine "delirio" in senso scherzoso per indicare la sua ipotesi?

TOMMASO BUSCETTA. E' così.

PRESIDENTE. All'inizio dell'audizione lei ha fatto cenno alla pressione esercitata nei suoi confronti per la liberazione dell'onorevole Moro. Se non ho capito male, qualcuno le disse che la commissione aveva deciso che si poteva fare questa operazione di prendere contatto con i brigatisti e a tal fine lei doveva andare da Cuneo a Torino.

TOMMASO BUSCETTA. C'era un piccolo intrigo che dovevo fare nella mia qualità di uomo d'onore. Mentre avevo l'ordine di Cosa nostra di interessarmi al fine di salvare la vita di Moro, da parte della malavita milanese mi veniva lo stesso richiamo; io però non raccontai ai milanesi, che non erano uomini d'onore, che dalla Sicilia avevo ricevuto la stessa "voce". Quindi approfitto dell'occasione che mi offre la malavita milanese per essere trasferito al carcere di Torino.

PRESIDENTE. Allora era la malavita milanese che le aveva data la possibilità di essere trasferito?

Pag. 397 TOMMASO BUSCETTA. E' così ed è registrato.

PRESIDENTE. Lei fece domanda per andare a Torino?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo ricordo; comunque, accusavo delle malattie che si sarebbero trasformate in trasferimento...

PRESIDENTE. Ho capito.

TOMMASO BUSCETTA. ...in un centro clinico, che era quello di Torino.

PRESIDENTE. Poi invece fu mandato a curarsi a Milano? TOMMASO BUSCETTA. Mi portarono a San Vittore, da dove fui mandato a Napoli. Credo che in questo frattempo il povero Moro sia morto. Dico credo perché faccio confusione con le date.

PRESIDENTE. Non si preoccupi perché le date le controlleremo noi. A Milano incontrò dei brigatisti?

TOMMASO BUSCETTA. Incontrai quello che si interessava a me...

PRESIDENTE. Quello appartenente alla criminalità comune?

TOMMASO BUSCETTA. ...e che mi dà i verbali delle intercettazioni in cui si parla di tutto questo.

PRESIDENTE. L'uomo a cui allude era un detenuto?

TOMMASO BUSCETTA. Quando andai a Milano era già detenuto.

PRESIDENTE. Aveva i verbali delle intercettazioni?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

 PRESIDENTE. Apparteneva alla criminalità comune?

 TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Di Milano?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Nel senso che faceva il criminale a Milano o era milanese? T

OMMASO BUSCETTA. Nel senso che faceva il criminale a Milano ed era milanese. A Cuneo sono stato in cella con Francis Turatello che aveva tutta questa malvivenza milanese ai suoi piedi; quindi questo di cui parlo, e di cui parlerò con i giudici affinché possano essere condotte le ricerche delle bobine in questione, mi viene a trovare all'interno del carcere, dove entra con un documento falso per parlare con me. PRESIDENTE. Nel carcere di Cuneo?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. Mi dice appunto che c'è una certa possibilità ed io rispondo: "I terroristi che sono qui non sono all'altezza di poter rispondere a questa domanda; se andassi a Torino, potrei incontrarne degli altri a cui rivolgermi". Allora mi rispose che si sarebbe interessato attraverso un certo ministro - lo scoprite attraverso le bobine, perché è inutile che io ne faccia il nome - per farmi trasferire a Torino. Gli risposi: "Fallo". Allora mi dice: "Chiedi visita medica e dichiara che hai bisogno delle cure del centro clinico di Torino". Non ricordo se ho fatto la domandina. Poi mi disse: "Fatto! Sei trasferito!" ed io sono andato a Milano e da Milano sono andato a Napoli.

 PRESIDENTE. L'intercettazione riguardava il colloquio tra questa persona e lei nel carcere di Cuneo?

TOMMASO BUSCETTA. No, in quello di Milano.

PRESIDENTE. La conversazione registrata...

Pag. 398 TOMMASO BUSCETTA. Non riguardava me.

PRESIDENTE. Riguardava altre persone?

TOMMASO BUSCETTA. Sarò più chiaro: riguardava mia moglie. Questo parlava con mia moglie...

PRESIDENTE. Al telefono?

TOMMASO BUSCETTA. ...e le diceva: "Sai, abbiamo ottenuto il trasferimento di Masino che va a Torino". Poi in altre telefonate lui era in contatto con la persona o con le persone di Roma che avrebbero attuato il mio trasferimento. Nelle telefonate c'è anche...ed allora queste "cose buone" non vogliono salvare Moro. La spiegazione è tutta nelle bobine.

PRESIDENTE. L'onorevole Biondi le chiede se si trattava di una trascrizione della registrazione o se erano dei nastri.

TOMMASO BUSCETTA. Lessi la trascrizione delle registrazioni; come potevo ascoltare i nastri? Nel verbale c'è scritto "presa dalla bobina".

PRESIDENTE. Quale interesse aveva Turatello alla liberazione di Moro?

TOMMASO BUSCETTA. Turatello non c'era più; chi ha parlato di Turatello?

PRESIDENTE. Non ha detto che a Cuneo...

TOMMASO BUSCETTA. Turatello se ne era già andato da Cuneo. Ho detto, come riferimento, di conoscere la malavita milanese, persone nate a Milano attraverso il contatto con Turatello.

PRESIDENTE. Dagli atti del maxiprocesso di Palermo risulta che lei non è mai stato a Milano.

 TOMMASO BUSCETTA. Sul serio?

PRESIDENTE. Sì, risulta che il 14 ottobre 1977 è andato dalla casa circondariale di Regina Coeli alla casa circondariale di Cuneo; il 22 maggio 1978, dalla casa circondariale di Cuneo a Napoli; poi, il 15 giugno 1978, dalla casa circondariale di Napoli a quella di Cuneo. Risulterebbe che lei non è mai stato a Milano.

TOMMASO BUSCETTA. Guardi, io proprio a lei ... Io sono stato a Milano, non me lo sono sognato. Io sono stato tradotto a Milano, da Cuneo.

 PRESIDENTE. Dai carabinieri?

TOMMASO BUSCETTA. Logico! Come, da solo?

 PRESIDENTE. Successivamente risulta che il 16 marzo 1979 lei è stato trasferito da Palermo a Termini Imerese, il 20 marzo 1979 da Termini a Palermo, il 16 maggio 1979 da Palermo a Termini Imerese. Poi, è stato trasferito da Cuneo a Milano nel giugno 1979, praticamente un anno dopo l'assassinio di Moro.

TOMMASO BUSCETTA. Sì, ma io sono andato anche prima!

PRESIDENTE. Quindi lei insiste nel dire che è stato a Milano.

TOMMASO BUSCETTA. Io sono andato da Cuneo a Milano.

 PRESIDENTE. Mentre era in corso il sequestro Moro?

TOMMASO BUSCETTA. Ma ... Sì.

PRESIDENTE. Ricorda l'anno?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Ma ricorda che era stato sequestrato Moro?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

Pag. 399 PRESIDENTE. E ricorda se era stato ucciso?

TOMMASO BUSCETTA. No, non ricordo. Non riesco a mettere insieme queste date.

PRESIDENTE. Dunque, quando le viene fatta la proposta di intervenire per vedere se sia possibile avere un colloquio con i brigatisti perché Moro venga liberato, Moro è sequestrato e lei è a Cuneo. E' così?

TOMMASO BUSCETTA. E' così, esatto.

PRESIDENTE. Lei dice che successivamente va a Milano. In quell'arco di tempo, insomma, non un anno dopo.

TOMMASO BUSCETTA. In quell'arco di tempo.

ALFREDO GALASSO. Poiché la situazione carceraria alla quale il presidente ha fatto riferimento è stata riepilogata dal giudice Grasso al maxiprocesso proprio al signor Buscetta, che non vi sia menzione di questo soggiorno a Milano dipende dal fatto che non lo ricordava o che non aveva voglia di parlarne?

TOMMASO BUSCETTA. No, no, non me ne ricordavo. Perché non avrei dovuto menzionarlo? PRESIDENTE. Siccome lei ha deciso dopo l'assassinio del giudice Falcone di aprire ...

TOMMASO BUSCETTA. Ma non avrei motivo di omettere una traduzione. Siete in condizione di prendere l'elenco delle traduzioni dei carabinieri e di verificare quando volete.

PRESIDENTE. L'onorevole Ayala le chiede se ricorda quanto si fermò a Milano in quella circostanza.

TOMMASO BUSCETTA. Poco tempo.

PRESIDENTE. Per poco tempo intende pochi mesi o poche settimane?

TOMMASO BUSCETTA. Forse due settimane, forse venti giorni.

 PRESIDENTE. E a Milano riuscì ad avere contatti con i brigatisti oppure no?

TOMMASO BUSCETTA. No. Non ne avevo più bisogno, credo, a quell'epoca.

PRESIDENTE. Sulla base delle conoscenze che lei ha delle dinamiche interne a Cosa nostra ed in particolare della commissione provinciale, può dirci se questa commissione ha avuto un qualche ruolo nella strage del rapido 904? Quella strage per la quale ora Calò è stato definitivamente condannato?

TOMMASO BUSCETTA. Guardi, per me ... Siamo sempre in quell'ipotesi di cose molto più grandi di quelle che sono la Cosa nostra. Io credo che Calò c'entrasse in quelle bombe del treno.

PRESIDENTE. Ha avuto l'ergastolo. In genere questo significa che si è colpevoli.

TOMMASO BUSCETTA. Credo che c'entrasse, ma non posso asserirlo.

PRESIDENTE. Lei ha detto che uno come Calò se voleva fare un sequestro di persona poteva farlo con chi voleva, ma quando si trattava di omicidi la cosa era diversa e bisognava concordare con Cosa nostra. Per una strage come questa - alla quale risulta da tutta una serie di atti ed anche da sentenze definitive che abbia partecipato - è possibile che Calò abbia agito senza aver preso contatto con Cosa nostra, senza avere un'autorizzazione?

TOMMASO BUSCETTA. No, è impossibile. Calò non poteva fare una cosa del genere senza che la cupola, come voi la chiamate, lo sapesse. E' impossibile. Però c'è una cosa. Sembra che le mie dichiarazioni abbiano dei contrasti. Mi

Pag. 400 potreste dire: per fare dei crimini molto gravi Cosa nostra non usa gente che va fuori? Ma ci sono delle condizioni. Per potervelo spiegare meglio: se Calò ha partecipato alla strage del treno, indubbiamente non ha fatto partecipare nessun siciliano.

PRESIDENTE. Ho capito.

TOMMASO BUSCETTA. Non partecipando nessun siciliano, quello che ha fornito le bombe ha fatto un favore a lui. Non perché lui vuole che si mettano le bombe, ma l'intenzione sua è che le mettano le bombe.

 PRESIDENTE. Ma la decisione di fare questa cosa, secondo lei, è stata presa anche dalla commissione, da Cosa nostra o no?

TOMMASO BUSCETTA. Senz'altro. Lui non la fa una cosa senza informare Cosa nostra. Assolutamente non può farla. Lui rischia di morire. Può essere stato portatore e dire: "Ho un'occasione, ci sono Tizio e Caio che vogliono mettere una bomba". "Lasciali fare". "Va bene". Ma lo fanno loro, senza Pippo Calò. Quando lui si batte dietro le barre e dice "sono innocente", è innocente nel vero senso, perché può giurare la sua innocenza e non ci sono prove contro di lui. Però sotto banco lui avrà senz'altro partecipato: questa è la mia convinzione.

PRESIDENTE. Anche se si trattava soltanto di fornire le bombe per la strage doveva parlarne alla commissione provinciale?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

 PRESIDENTE. Frequentando Calò, lei ha mai avuto modo di conoscere un certo Pietro Cannizzaro?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Parente di Nitto Santapaola e che gestisce un negozio di abbigliamento a Roma.

TOMMASO BUSCETTA. No, no, non lo conosco. Sono andato in un negozio, qui a Roma, insieme a Pippo Calò, che mi ha fatto un bagaglio di diversi milioni, ma era verso via Nazionale ... Qual è quella piazza in fondo a via Nazionale?

PRESIDENTE. Piazza Esedra? Vicino alla stazione?

TOMMASO BUSCETTA. Piazza Esedra.

PRESIDENTE. L'onorevole Imposimato vuole sapere se si trattava dei soldi del sequestro Armellini.

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so da dove venivano i soldi. Li aveva lui.

PRESIDENTE. La sera famosa in cui avrebbe dovuto esserci il tentativo di colpo di Stato di Borghese, qualcuno di Cosa nostra andò a Roma?

TOMMASO BUSCETTA. Che io sappia no.

PRESIDENTE. Non sa se qualcuno ci andò?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so.

PRESIDENTE. Nessuno glielo disse dopo?

TOMMASO BUSCETTA. A me è stato detto che c'era anche la flotta russa nel Mediterraneo.

PRESIDENTE. Questa è la ragione per cui non è successo, ma se qualche uomo di Cosa nostra è andato a Roma a dare una mano lei non lo sa.

 TOMMASO BUSCETTA. No, non lo so.

Pag. 401 PRESIDENTE. Calderone ci ha detto che andò Natale Rimi: lei questo non lo sa?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so.

PRESIDENTE. Il 4 dicembre 1984 lei ha dichiarato al giudice Falcone che settori di partiti politici governativi e di altre istituzioni erano pronti a fornire il loro appoggio al golpe Borghese. Aggiunge che altri uomini d'onore, oltre a quelli da lei citati, avevano avuto rapporti con Borghese. In quell'occasione, davanti al giudice Falcone disse che avrebbe riferito in seguito su questi particolari; può far capire alla Commissione di cosa si tratti?

 TOMMASO BUSCETTA. Riferirò in seguito alla magistratura. Se me lo consente e se non la prende come una scortesia.

PRESIDENTE. Se bastasse questo a farla parlare, potremmo prenderla come una scortesia, ma non credo che basti.

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Può far capire a quali istituzioni si riferisca quando parla di "altre istituzioni"?

TOMMASO BUSCETTA. Non ho detto poco fa che il colonnello dei carabinieri era quello che andava ad arrestare il prefetto?

PRESIDENTE. Questa è una risposta.

TOMMASO BUSCETTA. Non ho parlato poco fa? Il resto lasciamolo ai giudici istruttori. Il colonnello Russo è un'istituzione o no?

PRESIDENTE. E' appartenente ad un'istituzione.

TOMMASO BUSCETTA. Appartenente ma è un'istituzione. Appartenente: devo correggermi, va bene. Io vedo il colonnello Russo come un'istituzione perché era il comandante ed era quello che andava ad arrestare il prefetto. PRESIDENTE. Sarebbe stato quello ...

TOMMASO BUSCETTA. Sarebbe stato: esatto.

PRESIDENTE. Cosa nostra aveva giudici amici a Palermo?

TOMMASO BUSCETTA. Giudici?

PRESIDENTE. Sì, magistrati amici, che vi facevano dei favori.

TOMMASO BUSCETTA. Ah, lei mi fa entrare in un campo che è assolutamente improponibile.

PRESIDENTE. Peggio di quello della politica?

TOMMASO BUSCETTA. Io credo di sì. Per l'amor di Dio!

 PRESIDENTE. Non vuole rispondere neanche sì o no?

 TOMMASO BUSCETTA. No, non risponderò a questa domanda perché ritengo che, come nella politica, se è difficile stabilire un rapporto tra due mafiosi, s'immagini con un politico, s'immagini con un giudice; ed io sarei così pazzo da avventurarmi in questo sentiero? No.

PRESIDENTE. Avete avuto favori, aggiustamenti di processi a Palermo?

TOMMASO BUSCETTA. Come ho già detto "u carbuni si nun tinci mascarìa", e ritorniamo nuovamente alla domanda di prima. Io personalmente non ho corrotto nessun giudice.

PRESIDENTE. La corruzione è un'altra cosa.

TOMMASO BUSCETTA. No, no, non posso parlare di queste cose.

Pag. 402 PRESIDENTE. Le ho chiesto se abbiate avuto aggiustamenti di processi a Palermo.

TOMMASO BUSCETTA. Aggiustamenti di processi ci sono stati a Palermo sempre, in tutte le epoche. Però, se mi chiedessero di indicare i giudici, io risponderei che non lo so.

PRESIDENTE. Anche se lo sa?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, anche se lo so.

MARIO BORGHEZIO. Presidente, può chiedere al signor Buscetta se siano state concesse grazie ad uomini d'onore?

PRESIDENTE. Le grazie le concede il Presidente della Repubblica. Trattandosi di fatti pubblici, possiamo compiere accertamenti diretti. L'essere detenuti è un impedimento a parlare tra voi, ad avere rapporti con l'esterno? Cosa cambia trovarsi nella condizione di detenuti rispetto a quella di uomini liberi?

TOMMASO BUSCETTA. Nessuna cosa, nessunissima cosa. L'uomo d'onore si qualifica e rimane sempre la stessa persona, solo che può avere un sostituto che fa le sue veci perché lui è detenuto.

PRESIDENTE. Dovunque si sia detenuti è così? L'uomo d'onore riesce sempre ad avere colloqui, a parlare, anche con documenti falsi?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Come si può fare, secondo lei, per isolare dalla famiglia l'uomo d'onore detenuto? Lei ha detto giustamente che bisogna essere rigorosi e fare giustizia fino in fondo, senza tentennamenti; però, una volta che sia stata fatta giustizia, gli uomini d'onore essendo detenuti comunicano con quelli che stanno fuori come prima: lei capisce che la cosa cambia, ma non di molto. Allora, vorremmo capire sulla base della sua esperienza come si possa fare per interrompere questi rapporti.

TOMMASO BUSCETTA. Asinara.

PRESIDENTE. Anche all'Asinara una volta al mese si possono ricevere visite.

TOMMASO BUSCETTA. Una volta al mese ma quando il mare è buono, perché trascorrono mesi interi senza poterci arrivare perché il mare non è buono.

PRESIDENTE. Quindi, la traduzione all'Asinara è una cosa temuta?

TOMMASO BUSCETTA. E' temuta, io lo so perché mi tremavano veramente le ginocchia quando dovevo essere trasferito all'Asinara. Mi dicevo: "Ma questo è un castigo di Dio", perché stare all'Asinara significava la rottura totale dei rapporti con il continente italiano.

PRESIDENTE. Quindi significava anche essere lasciati un po' a se stessi rispetto alla famiglia?

TOMMASO BUSCETTA. E' una cosa automatica, all'Asinara non si passa facilmente tutti i mesi. Il mio primo trasferimento da Palermo all'Asinara viene disposto dal generale Dalla Chiesa nel 1977; io vado fino a Porto Torres, vi arrivo tranquillo per imbarcarmi, mi sono imbarcato per tre volte e per tre volte sono tornato indietro sulla motovedetta dei carabinieri, non una motovedetta civile.

PRESIDENTE. Dopo l'omicidio di Dalla Chiesa tutti sfuggirono alla cattura: come mai?

TOMMASO BUSCETTA. (Ride con ironia) Ogni domanda ha bisogno di una risposta.

PRESIDENTE. Sembrerebbe di sì.

Pag. 403 TOMMASO BUSCETTA. E' perché qualcuno avrà detto che c'erano questi mandati di cattura. PRESIDENTE. Ci sarà stata un'informazione.

TOMMASO BUSCETTA. Già era "volata".

PRESIDENTE. Quindi, per capire, questa non è una supposizione: a lei è giunta notizia che l'informazione era già "volata".

 TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Perché lei era negli Stati Uniti?

TOMMASO BUSCETTA. Lo so anche ... Credo che per quanto riguarda l'uccisione di Costa, si sapeva ancor prima che Costa firmasse i mandati di cattura che li avrebbe emessi.

PRESIDENTE. Però in quel caso vi furono degli arresti.

TOMMASO BUSCETTA. Ma altre volte non vi furono.

 PRESIDENTE. Ha mai avuto rapporti con il giudice Campisi?

 TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Può spiegare alla Commissione di che tipo?

TOMMASO BUSCETTA. Il giudice Campisi è stato giudice di sorveglianza, no, io credo che mi sia messo a modello 13 per parlare con il dottor Campisi.

PRESIDENTE. A Cuneo?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, a Cuneo.

PRESIDENTE. Perché?

TOMMASO BUSCETTA. Perché volevo ottenere la semilibertà e il dottor Campisi mi disse che non era di sua competenza, che il giudice di sorveglianza era una signora, una donna.

PRESIDENTE. Quindi, lui non era giudice di sorveglianza.

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Era forse procuratore della Repubblica?

TOMMASO BUSCETTA. Forse.

PRESIDENTE. E lei perché si mise a modello 13 con il giudice Campisi e non con il giudice di sorveglianza?

TOMMASO BUSCETTA. Avevo saputo che lui aveva dei rapporti con i Calderone, che era amico dei Calderone, ma non ho avuto tempo di sollecitargli questa amicizia perché lui non era il giudice di sorveglianza e quindi non poteva fare niente per me.

 PRESIDENTE. Ma lei glielo disse?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Quando lui disse che non avrebbe potuto fare nulla, chiuse lì la faccenda?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Oltre a Lima, c'erano altri uomini politici che hanno avuto rapporti con la magistratura nel vostro interesse?

 TOMMASO BUSCETTA. Io credo di no. Comunque, è una cosa molto difficile stabilire qua se vi siano stati rapporti di questo tipo. Bisogna dire: "una volta tizio mi raccontò" e poi fare le indagini.

PRESIDENTE. La cosa che le chiediamo è più semplice: Lima era l'unica

Pag. 404 persona alla quale ci si rivolgeva per avere aggiustamenti di processi?

TOMMASO BUSCETTA. No, non era l'unica persona, c'erano altri politici.

PRESIDENTE. Sempre di Palermo o anche di fuori Palermo?

TOMMASO BUSCETTA. Credo anche di fuori Palermo.

PRESIDENTE. Non eletti in Sicilia, insomma.

TOMMASO BUSCETTA. Esatto.

PRESIDENTE. Cosa sa dell'omicidio di Piersanti Mattarella?

TOMMASO BUSCETTA. Mi sono ripromesso di parlare con i giudici di questa cosa, anche se già dissi a Falcone nel 1984 che era avvenuto su ordine della commissione. Credo che lo dissi, non lo ricordo più.

PRESIDENTE. Credo di aver letto qualcosa del genere.

TOMMASO BUSCETTA. Credo di aver detto al giudice Falcone che Bontade ed Inzerillo non erano d'accordo su questa cosa, che era stata la commissione e che anche loro poi avevano aderito.

PRESIDENTE. Cosa interessa ad un uomo politico non eletto in Sicilia di farvi favori nel rapporto con i giudici? Prima lei ha detto che, oltre a Lima, c'erano altri uomini politici che potevano fare dei favori.

TOMMASO BUSCETTA. Preferisco non rispondere a questa domanda perché essa ci porta in un campo molto più vasto.

PRESIDENTE. Mi fa terminare la domanda?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, scusi.

PRESIDENTE. Ci mancherebbe. Lei ha detto prima che c'erano altri uomini politici, oltre a Lima, a farvi favori anche nei rapporti con la magistratura. Le ho chiesto se si tratti di uomini politici eletti in Sicilia o eletti anche fuori e lei ha risposto eletti anche fuori. A questo punto, le chiedo quale sia l'interesse che può avere un uomo politico eletto anche fuori dalla Sicilia a fare favori a voi. Questa è la domanda: qual è la sua risposta?

TOMMASO BUSCETTA. Ma non può essere che l'uomo politico ha dei suoi amici che sono eletti in Sicilia?

PRESIDENTE. Non lo so, questo lo dice lei.

TOMMASO BUSCETTA. Io formulo ipotesi, non sto dicendo che è così. Per ipotesi posso dare questa risposta ma non posso dire: "sì, perché quello aveva l'amico ...". Io dico: e non può essere per ipotesi che quest'uomo politico abbia i suoi amici politici in Sicilia?

 PRESIDENTE. Quindi, essendo certo che uomini politici non eletti in Sicilia facevano questi favori, l'ipotesi è che li facessero perché avevano propri amici eletti in Sicilia?

TOMMASO BUSCETTA. No, quest'affermazione non la posso fare.

PRESIDENTE. E' un'ipotesi.

TOMMASO BUSCETTA. Ah, l'ipotesi sì.

PRESIDENTE. La cosa certa è che facevano i favori, l'ipotesi è che potevano farli perché avevano amici in Sicilia.

ROMEO RICCIUTI. Possiamo chiedere al signor Buscetta se c'erano, oltre agli uomini politici, uomini del mondo universitario o di altre professioni?

Pag. 405 PRESIDENTE. C'erano anche altre persone, non uomini politici, ad esempio professionisti, uomini dell'università, medici, che vi aiutavano in questo?

TOMMASO BUSCETTA. Abbiamo detto sempre di sì, in tutti gli interrogatori, che c'erano. L'abbiamo detto sempre, è dal 1984 che si dice.

PRESIDENTE. La Commissione, per capire meglio, è costretta a ripetere le domande, e le chiediamo scusa di questo. Lei conosce molto bene queste cose, mentre io e gli altri colleghi le conosciamo poco.

 GIOVANNI FERRARA SALUTE. Tornando al delitto Mattarella, mi pare di aver capito sarebbe stata la commissione ad ordinarlo.

PRESIDENTE. Pur con qualche dissenso.

GIOVANNI FERRARA SALUTE. Ed allora come mai ci sarebbero stati dei killer non di Cosa nostra, degli estranei?

PRESIDENTE. Il senatore Ferrara Salute le chiede: se è stata Cosa nostra a decidere l'omicidio Mattarella, come mai, secondo alcune ipotesi processuali, gli esecutori materiali - cioé chi ha sparato - sarebbero stati non appartenenti a Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. A me dispiace che non potrò vedere la fine di questo processo negli anni, perché sono già abbastanza vecchio, ma le garantisco che i fascisti in questo omicidio non c'entrano. Quei due sono innocenti. Glielo garantisco. E chi vivrà, vedrà.

 PRESIDENTE. Dell'omicidio Reina sa qualcosa in particolare?

TOMMASO BUSCETTA. E' nella stessa ipotesi, anzi certezza, che io dico al giudice Falcone che Reina e Mattarella sono stati uccisi per ordine della commissione.

PRESIDENTE. Ma qual è il motivo specifico per cui si uccidono Mattarella e Reina? Insomma, il danno.

TOMMASO BUSCETTA. Il danno è più che altro "impresariale".

PRESIDENTE. Che vuol dire?

TOMMASO BUSCETTA. Credo che Mattarella in special modo volesse fare della pulizia in questi appalti. Se andate a vedere a chi sono andati gli appalti in tutti questi anni, con facilità voi andrete a scoprire cose inaudite. Non è stato ammazzato perché avevano bisogno dei due fascisti. La Cosa nostra non fa agire, per ammazzare un presidente della regione, due fascisti. E' un controsenso. Non esiste questa possibilità. E quei due accusati sono innocenti.

PRESIDENTE. E Reina perché sarebbe stato ucciso? Per Mattarella più o meno si capisce: perché voleva mettere ordine.

TOMMASO BUSCETTA. Ne parlerò con i giudici.

PRESIDENTE. Ma dei motivi generali può parlare anche qui, senza dire chi lo ha ucciso, che non ci interessa.

TOMMASO BUSCETTA. Anche del motivo ne parlerò con i giudici.

PRESIDENTE. Quindi, mentre il motivo dell'omicidio Mattarella si può dire, quello dell'omicidio Reina qui non si può dire.

TOMMASO BUSCETTA. E' quasi nella stessa sintonia. Ci sono degli appalti che fanno gioco, gli interessi. Sono interessi che vanno ...

Pag. 406 PRESIDENTE. E' anche nell'ambito di questi interessi economici di appalti che viene ucciso Reina oltre Mattarella?

TOMMASO BUSCETTA. Reina credo che è ucciso prima.

PRESIDENTE. Sì, e perciò le chiedevo. Proprio per capire.

TOMMASO BUSCETTA. Credo di sì. PRESIDENTE. Insomma, c'è una questione di interesse.

TOMMASO BUSCETTA. Credo di sì.

PRESIDENTE. Lei ha dichiarato al giudice Falcone che Inzerillo informò la commissione solo dopo aver ucciso il procuratore Costa.

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Prima lo uccise e poi informò. E questo in qualche modo per ritorsione perché i corleonesi avevano fatto la stessa cosa in altre occasioni, cioé prima avevano ucciso e poi avevano informato. Lei ha detto che questo avevano fatto per altri omicidi di illustri personalità: può spiegare, per cortesia, chi erano queste illustri personalità uccise dai corleonesi per le quali questi ultimi avevano informato dopo la commissione?

TOMMASO BUSCETTA. Uno è il capitano Basile. Un altro è il capitano D'Aleo e un altro ancora il colonnello Russo. Michele Greco a me personalmente ha detto: io non lo so chi ha ammazzato il colonnello Russo. E poi ha dovuto rimangiarselo tutto.

PRESIDENTE. Perché era stato ucciso nel suo ...

 TOMMASO BUSCETTA. Lui non sapeva perché i corleonesi avevano agito per conto loro.

PRESIDENTE. La Ficuzza è a Corleone?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Oltre questi, ci sono anche altri omicidi?

TOMMASO BUSCETTA. In questo momento non ricordo, perché già sono un po' stanco, per la verità.

PRESIDENTE. Vuole riposarsi?

TOMMASO BUSCETTA. Mi riposo dopo.

PRESIDENTE. Vuole fermarsi un attimo, fare una passeggiata?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Può spiegare alla Commissione perché Greco Salvatore era chiamato "il senatore"?

TOMMASO BUSCETTA. Era un politico. Cioé era un politico nel senso che lui era la persona più adatta a darsi da fare in campo politico e nel campo imprenditoriale, per prendere dei soldi in prestito dalle banche, per creare nuove fonti di introiti per la famiglia Greco.

PRESIDENTE. Com'è che si è costituito Salvatore Greco? Questo in genere non succede.

TOMMASO BUSCETTA. Perché c'era aria di morte intorno a lui. Anche per suo fratello Michele.

VITO RIGGIO. Anche suo fratello si è costituito?

PRESIDENTE. Non credo, perché è stato catturato nei pressi di Termini Imerese. Il ruolo del "senatore" era quello di procurare appoggi politici, di contattare istituti di credito. Era efficace questo ruolo?

Pag. 407 TOMMASO BUSCETTA. Era efficace. Lui aveva le porte aperte in politica.

PRESIDENTE. Anche con uomini politici non eletti in Sicilia?

TOMMASO BUSCETTA. Questo non lo so.

PRESIDENTE. Non lo sa o non intende dirlo?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so.

PRESIDENTE. Si è mai chiesto come fa Totò Riina, ed anche il gruppo dei corleonesi, a condurre un così grande traffico di stupefacenti, ad incassare tutti questi soldi, a fare riciclaggio? Come fanno i corleonesi a riciclare?

TOMMASO BUSCETTA. Il riciclaggio non lo conosco.

PRESIDENTE. Non sa chi li aiuta, chi li sostiene in queste operazioni?

TOMMASO BUSCETTA. Non ho avuto la fortuna ... così devo dire?

PRESIDENTE. Sì, tutto sommato sì.

TOMMASO BUSCETTA. ... di avere anch'io un po' di soldi per riciclarli. Il traffico della droga, però, non era cominciato così. Era cominciato che erano pochi gruppi che avevano la morfina base e quindi i corleonesi dovevano accontentare della parte che spettava loro. Poi piano piano sono riusciti ad eliminare tutti quanti.

 PRESIDENTE. Lei dice che pochi gruppi di Cosa nostra avevano la morfina base.

 TOMMASO BUSCETTA. Non pochi gruppi, addirittura tre persone.

PRESIDENTE. Chi erano queste tre persone?

 TOMMASO BUSCETTA. Uno era La Mattina, un altro Savoca e l'altro non mi ricordo.

PRESIDENTE. Spataro?

TOMMASO BUSCETTA. Spataro, esatto. Che è nella mia famiglia. E La Mattina è nella mia famiglia. "Nella mia famiglia" nel senso di Cosa nostra.

 PRESIDENTE. Questi avevano la morfina base. Facevano la raffinazione in Sicilia?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, io credo a Palermo. In tutti i posti c'erano raffinerie a Palermo.

 PRESIDENTE. Questo in che anni?

TOMMASO BUSCETTA. Sto cercando di ricordare. Fino al 1980, che io ero a Palermo, c'erano.

 PRESIDENTE. Non ho capito cosa intendesse quando ha detto che i corleonesi dovevano accontentare.

TOMMASO BUSCETTA. Della parte che spettava a loro.

PRESIDENTE. Loro si dovevano accontentare?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, perché gli importatori sarebbero stati questi tre e quindi dovevano adeguarsi alla parte che poteva spettare loro.

PRESIDENTE. E le parti chi le stabiliva?

 TOMMASO BUSCETTA. Qui cominciano a nascere i gruppi. Quando si andava in commissione, più che discutere dei problemi di come sarebbe andata la Cosa nostra, si discutevano queste cose. Già era iniziato con le sigarette: se le navi dovevano entrare a turno nelle acque, o se prima entrava la barca di

Pag. 408 Spataro, poi la barca di La Mattina, poi la barca di Zaza. Così è stato anche per la droga. Quindi, per la droga si doveva aspettare anche la parte che a loro spettava, poi per investimento.

PRESIDENTE. Cioè?

TOMMASO BUSCETTA. Si investiva quanto si voleva.

PRESIDENTE. Come si investiva?

TOMMASO BUSCETTA. Si investiva. Si dice "io ho un carico di droga, quanto vuoi investire?" "300 mila dollari" e si facevano le quote di 300 mila dollari.

PRESIDENTE. Nel febbraio 1975 si decise di non fare sequestri di persona in Sicilia. Si ricorda da chi partì la proposta e perchè?

TOMMASO BUSCETTA. La proposta partì da Gaetano Badalamenti e da Stefano Bontade e Riina acconsentì, ma subito dopo c'è lo sgarbo di sequestrare Corleo.

PRESIDENTE. Perché, si fece questo accordo?

TOMMASO BUSCETTA. Perché questo attraeva la polizia. Nascevano dei problemi con la polizia. Poi si riteneva che non fosse una cosa molto buona per l'opinione pubblica far vedere che i siciliani sequestrano i siciliani. E allora in Sicilia niente sequestri.

 PRESIDENTE. Se invece veniva sequestrato qualcun altro, andava bene.

TOMMASO BUSCETTA. In altri posti... a ruota libera.

 PRESIDENTE. Dura tuttora questa regola?

TOMMASO BUSCETTA. Che dura tuttora non ne sono a conoscenza.

PRESIDENTE. Ho capito. Sequestri mi pare non se ne facciano in Sicilia.

TOMMASO BUSCETTA. Ce n'è stato uno e mi sembra siano morti tutti i sequestratori.

PRESIDENTE. Quello della signora Mandalà?

TOMMASO BUSCETTA. Mandalà, sì.

PRESIDENTE. C'entrava Cosa nostra nel sequestro della signora Mandalà?

TOMMASO BUSCETTA. No, la Cosa nostra ha ucciso tutti i sequestratori.

PRESIDENTE. Quali collegamenti di Cosa nostra ci sono stati fuori dalla Sicilia, in Calabria, in Campania e in Puglia?

TOMMASO BUSCETTA. Sui sequestri?

PRESIDENTE. No, in generale. Ci sono uomini d'onore anche in Campania, in Calabria?

TOMMASO BUSCETTA. E basta. Ci sarebbero anche a Milano. Ma come famiglie costituite è in Campania e in Calabria. Invece a Milano ci sono ma... è personalizzata la cosa.

PRESIDENTE. Che vuol dire?

TOMMASO BUSCETTA. Ci sono i Bono, ma già i Bono è rappresentante a Baucina ... a Bolognetta. A Milano agisce come se fosse boss, perché tutti si rivolgono a loro. Anche i gruppi di altre famiglie confluiscono verso i Bono.

PRESIDENTE. L'onorevole Tripodi chiede se per caso ha avuto notizia delle ragioni per le quali è stato ucciso il pubblico ministero Scopelliti in Calabria e se per caso le risulta, direttamente o indirettamente, che l'omicidio sia stato

Pag. 409 commesso per rallentare, bloccare o impedire il giudizio di Cassazione sul maxiprocesso.

TOMMASO BUSCETTA. Non sono in condizione di poter rispondere perché sono stato in America. Non avevo condizione per controllare questa cosa. Posso dire che è morto per questa causa. Secondo me è morto per questa causa. Secondo me, ma non ho niente per...

PRESIDENTE. E' una sua deduzione?

TOMMASO BUSCETTA. E' una mia deduzione.

 PRESIDENTE. E' possibile che Cosa nostra compia un omicidio in Calabria? Oppure si deve mettere d'accordo con i calabresi?

TOMMASO BUSCETTA. Non ho detto questo. Io ho detto che è Cosa nostra, ma possono agire i calabresi.

PRESIDENTE. Quindi, un delitto può essere commesso.

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Ho capito. Bardellino era uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. No. Bardellino? Sì, scusi, stavo pensavo a Balducci. Bardellino era rappresentante, addirittura.

PRESIDENTE. Zaza era uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Zaza è uomo d'onore.

PRESIDENTE. Nuvoletta?

TOMMASO BUSCETTA. Sono uomini d'onore.

PRESIDENTE. Cutolo invece no?

TOMMASO BUSCETTA. No, Cutolo era camorrista.

FRANCESCO CAFARELLI. E Peppino Sciorio di San Giuliano?

TOMMASO BUSCETTA. Era uomo d'onore.

 PRESIDENTE. Mi pare sia stato ucciso.

FRANCESCO CAFARELLI. Sì.

PRESIDENTE. Signor Buscetta, il giro delle prime domande è terminato. A questo punto lei si può riposare mentre i commissari formuleranno ulteriori domande da porle.

TOMMASO BUSCETTA. Okay.

 PRESIDENTE. Ha qualcosa da dire?

TOMMASO BUSCETTA. No, va bene.

PRESIDENTE. Grazie. (Il signor Buscetta è accompagnato fuori dall'aula).

PRESIDENTE. Colleghi, a questo punto potete formulare le ulteriori domande da rivolgere al signor Buscetta.

ANTONINO BUTTITTA. Ho trovato estremamente interessante la notizia data in ordine ai rapporti economico-finanziari tra Vassallo e Lima. Poichè tale notizia è stata riferita in termini generici e vaghi, vorrei che venisse approfondita. E' bene chiarire se in realtà tali rapporti siano esistiti oppure no.

GIOVANNI FERRARA SALUTE. Vorrei che si chiedesse se nella famiglia Bontade vi siano stati degli uomini politici oltre che dei mafiosi.

VITO RIGGIO. Signor presidente, vorrei che lei riprendesse un passaggio: in

Pag. 410 particolare quando viene spiegato che, a seguito del processo dei 114, erano state eliminate le famiglie nella provincia di Palermo. Il signor Buscetta può fornire qualche elemento sui rapporti tra le famiglie esterne alla città, tra le quali quella dei corleonesi, di Morreale, di Caccamo; in sostanza che tipo di rapporti esistevano tra queste famiglie e quella di Palermo?

MASSIMO SCALIA. Vorrei conoscere con maggior precisione la questione del trasferimento dal carcere di Cuneo a quello di Milano in rapporto alla richiesta rivolta, da parte della commissione, al Buscetta affinchè prendesse contatto con i terroristi presenti nel carcere di Torino. Il Buscetta sostiene di essere stato trasferito al carcere di Milano: vorrei che si facesse collimare questo periodo con quello del sequestro Moro, per altro molto breve (dal 16 marzo al 9 maggio). Vorrei che il presidente ponesse le domande in modo tale da definire con precisione - anche perchè Buscetta dice di essere stato a Milano dopo, nel 1979 - il periodo in cui è stato trasferito a Milano anzichè a Torino come sarebbe dovuto accadere secondo quello che racconta.

GIROLAMO TRIPODI. Vorrei porre una domanda sul rapporto tra criminalità organizzata, Cosa nostra e i servizi segreti. Il signor Buscetta ha detto che altre forze dello Stato hanno mantenuto rapporti, nei modi più diversi. Sarebbe opportuno affrontare il tema.

FERDINANDO IMPOSIMATO. Vorrei sapere se l'inerzia dello Stato di fronte alle richieste dei giudici Falcone e Borsellino di misure dirette a favorire la dissociazione fosse, a suo giudizio, determinata da comportamenti di uomini politici collegati a Cosa nostra. Vorrei inoltre sapere se il signor Buscetta fosse a conoscenza del fatto che anche il procuratore generale Spagnuolo venne informato della volontà della mafia (in particolare attraverso Pippo Calò, Flavio Carboni e l'onorevole Cazora) di occuparsi della salvezza di Moro. Risulta agli atti di quel processo che, durante il sequestro alcuni uomini si recarono da Spagnuolo per offrire la collaborazione della mafia e che poi questa collaborazione venne revocata.

GIANCARLO ACCIARO. Circa le ipotesi sul separatismo in Sicilia cui ha accennato il signor Buscetta, vorrei sapere se egli sia a conoscenza di contatti tra la mafia e movimenti politici (e non) della Sardegna, per una eventale ipotesi di separatismo di quest'isola. Più volte è stato detto che vi era libertà di azione per gli uomini d'onore relativamente ai sequestri effettuati fuori dalla Sicilia. Vorrei sapere se siano stati ipotizzati sequestri in Sardegna, considerando che vi è un collegamento tra Calò e Carboni e che quest'ultimo è stato un importante imprenditore sardo. LUIGI BISCARDI. Vorrei che si tornasse sul rapporto tra Vassallo e Lima, che è stato negato in un articolo recente da un uomo politico di grande importanza qual è il senatore Andreotti. Il signor Buscetta ha chiarito il rapporto tra Vassallo e Lima, dicendo che il primo era un prestanome. Poiché si è tanto insistito sulla sigla VALIGIO (Vassallo-Lima-Gioia), vorrei sapere qualcosa sul terzo elemento di tale rapporto, centrale per definire l'attività politico-amministrativa dell'onorevole Lima.

MARCO TARADASH. Sarebbe opportuno un chiarimento sulla dimestichezza del signor Buscetta con il direttore del carcere dell'Ucciardone, Di Cesare, il quale lo ha informato di un colpo di Stato e gli ha indicato un cunicolo dal quale evadere. Vorrei sapere per quanti anni Di Cesare sia stato direttore di quel carcere e che tipo di rapporti avesse con Cosa nostra e con il signor Buscetta stesso. In altre parole, occorrerebbe capire per chi lavorava Di Cesare, se per i servizi segreti, se per i golpisti o se per Cosa nostra.

Pag. 411 La seconda domanda è se il delitto Dalla Chiesa possa essere messo in relazione all'ipotesi di omicidio avanzata nel 1979, cioè se vi sia una continuità tra i due fatti.

ANTONIO BARGONE. Il signor Buscetta non è stato chiaro quando ha spiegato per quale motivo il generale Dalla Chiesa dava fastidio a Cosa nostra; ha sostenuto che è difficile trasferire la loro mentalità nella nostra. Forse sarebbe opportuno approfondire questo aspetto per chiarire quali fossero le iniziative di Dalla Chiesa che intralciavano l'attività di Cosa nostra. In secondo luogo, vorrei domandare se le attività criminali di Vernengo e Pecoraro durante il soggiorno obbligato fossero collegate a Cosa nostra ovvero fossero individuali, così come emerge dagli atti del maxiprocesso.

MASSIMO BRUTTI. Il signor Buscetta, nel corso degli interrogatori resi nel 1984 (il 23 luglio dinanzi al giudice Falcone e il 14 agosto), si riferisce ad alcune caratteristiche della famiglia dei corleonesi e della famiglia Madonia, cioè alla particolare segretezza dell'appartenenza a queste famiglie: "Devo far presente che caratteristica della famiglia di Corleone è quella di non far conoscere alle altre i nomi dei propri adepti. Di ciò Badalamenti Gaetano si è sempre lamentato". La stessa caratteristica viene riferita ai Madonia. Nel corso di un interrogatorio svolto ai primi si settembre, afferma: "Parlando con Gaetano Badalamenti e con Salamone, tutti e tre abbiamo avuto il sospetto che i personaggi più in vista della coalizione a noi avversa avessero in grande segretezza costituito fra di loro una distinta famiglia, al di fuori e contro le regole di Cosa nostra". Vorrei fosse chiesto se, all'interno di Cosa nostra, esista una struttura supersegreta alla quale abbiano dato vita i corleonesi, eventualmente con altri alleati. Il signor Buscetta ha parlato di alcuni delitti commessi all'insaputa di una parte della Commissione. In realtà, in base alle sue deposizioni, risulta che tutti i grandi delitti sono stati commessi all'insaputa di Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo. Ad esempio, Buscetta ha detto che il delitto Mattarella era stato deciso dalla commissione. In precedenza aveva detto che ciò era avvenuto all'insaputa di Bontade e di Inzerillo.

ALFREDO GALASSO. Veramente, aveva detto che non se ne era saputo nulla, tanto che i giudici avevano ritenuto che forse per questa ragione si erano rivolti ai fascisti.

MASSIMO BRUTTI. Dice testualmente: "Dell'omicidio di Michele Reina né Stefano Bontade né Salvatore Inzerillo né Rosario Riccobono sapevano nulla. Gli omicidi di Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella sono stati decisi dalla commissione di Palermo all'insaputa di Salvatore Inzerillo e di Stefano Bontade".

ALFREDO BIONDI. Oggi ha detto che erano in disaccordo.

MASSIMO BRUTTI. Infine, vorrei che si tornasse sul coinvolgimento di Cosa nostra in tentativi golpistici. Nel 1970 vi è il tentato golpe Borghese. Nel 1971 viene ucciso Scaglione e Buscetta ha detto che questo omicidio si collega alla strategia di tipo eversivo. Nel 1974 il direttore del carcere gli parla di un colpo di Stato. Conosciamo le tragiche vicende del 1984, cioè le due stragi di Brescia e del treno Italicus. Nel 1979 c'è la proposta fatta da Sindona ai perdenti, cioè a quelli che in quel momento stavano già perdendo peso all'interno di Cosa nostra: Bontade e gli Inzerillo. Vorrei che Buscetta chiarisse ulteriormente perché la vicenda del 1971 non possa essere appiattita su quella di un anno prima. Si tratta di altra cosa. Nel 1971 si trovano già in un'altra prospettiva, in un altro tentativo di tipo eversivo.

Pag. 412 GAETANO GRASSO. Vorrei chiedere qualche notizia circa le altre province, oltre le sei che sono state citate; in particolare, se esistano uomini d'onore o famiglie organizzate in altre province.

ROMANO FERRAUTO. Non nego l'importanza di questa audizione, anzi ritengo che faccia luce su una serie di aspetti; tuttavia credo che sia importante capire quale sia la situazione odierna, come la strategia e la filosofia della presenza mafiosa nel nostro paese sia cambiata. Chiederei a Buscetta - anche se occorre procedere all'audizione di altri collaboratori della giustizia che conoscono la realtà attuale - in quali settori ed in quale direzione oggi si potrebbe indagare.

PRESIDENTE. Può spiegarsi meglio?

ROMANO FERRAUTO. Ritengo decisivo che i collaboratori della giustizia offrano un contributo, ma poiché Buscetta non ha voluto parlare di uomini, di vicende, di fatti, dell'attualità, chiederei in quali settori sarebbe opportuno indagare.

ERMINIO ENZO BOSO. Il signor Buscetta parlava del grosso intervento del generale Dalla Chiesa; vorrei sapere, visto che queste particolarità avevano creato tali difficoltà da far decidere l'omicidio, se i superprefetti dotati di supepoteri abbiano mai disturbato Cosa nostra. Facendo riferimento ai rapporti tra IOR e Banco ambrosiano, vorrei sapere se il clero sia stato mai interessato a Cosa nostra e in quale misura.

MARIO BORGHEZIO. Vorrei sapere se esista un archivio di Cosa nostra, di cui non saltano mai fuori le carte amministrative né i conti. Inoltre vorrei sapere se si possa ipotizzare l'esistenza di "santuari" a questo dedicati e se possano essere individuati i luoghi geografici dove trovare questi documenti. Vorrei che il signor Buscetta ci potesse dire qualche cosa sul voto mafioso al nord, in particolare a Torino e a Milano e se abbia notizia di interventi di Cosa nostra in ordine alle operazioni di investimento al sud (parlo di operazioni patrocinate attraverso le varie leggi di intervento straordinario nel Mezzogiorno); quale sia il motivo per cui non sono mai stati effettuati sequestri di esponenti del mondo bancario e finanziario (le uniche eccezioni sono stati dei sequestri del tutto anomali). Infine, vorrei sapere se sia al corrente di acquisti da parte di esponenti di Cosa nostra di quote azionarie di società presenti in Borsa. MICHELE FLORINO. Vorrei sapere se, oltre ai collegamenti per contrabbando e traffico di stupefacenti con le famiglie calabresi e napoletane, gli uomini d'onore Bardellino, Zaza e soprattutto Nuvoletta abbiano avuto l'incarico di appoggiare nelle consultazioni elettorali determinati partiti politici.

ALFREDO BIONDI. Vorrei che al signor Buscetta venisse posta nuovamente una domanda che gli è stata già rivolta e che egli ha eluso, dal momento che ha detto che il delitto Dalla Chiesa in qualche modo ha coperto realtà diverse, superiori e peggiori di non so quale entità (ha usato proprio questo termine). Poiché ha parlato di "un uomo politico che si è sbarazzato della presenza troppo ingombrante del generale", gli chiederei qualche spiegazione sull'uomo politico e sulla presenza ingombrante. Verso chi c'era l'ingombro? Verso il mondo politico o verso quello militare in cui il generale si muoveva o verso le situazioni note al generale sui rapporti con il terrorismo? Vorrei sapere quale fosse questa entità e se fosse diversificata.

OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Vorrei che al signor Buscetta fosse chiesto di spiegare meglio la sua frase: "Lima da morto serviva a denigrare Andreotti". A chi serviva e perché? In quale senso ha detto questo? Solo come mera ipotesi o perché ha avuto notizie in merito?

 Pag. 413 ALFREDO GALASSO. Ritengo, signor presidente, che almeno un paio delle domande che desidero formulare dovrebbero essere firmate: intendo dire che sarebbe utile che Buscetta sapesse chi le ha poste perché, dato il personaggio, possono avere un senso proprio per questo. La prima domanda è in base a quale criterio egli abbia deciso di dire alcune cose e di non dirne altre. Infatti non è vero che si è riservato di rispondere su tutto: alcune cose le ha dette, anche di un certo impegno - vedi delitto Dalla Chiesa e delitto Moro - altre no. Non riesco a comprendere quale sia la ragione per cui ha compiuto certe scelte, ma ritengo sia importante saperlo. La seconda domanda è cosa stia succedendo ora all'interno di Cosa nostra. A questo riguardo, la prima cosa che mi lascia perplesso è che nell'intervista a Biagi, poi riportata testualmente, se non erro, da Panorama, alla domanda: "E' Riina?" Buscetta ha risposto: "Chissà, poi, se è Riina". Qui, stamane, ha invece fatto intendere che il soggetto più pericoloso è proprio Riina. Vorrei allora capire come stiano effettivamente le cose. (Commenti). Ha detto: "Oltre Riina"; ma nell'intervista che ho citato aveva detto: "Chissà se è Riina", quasi a far intendere che all'interno di Cosa nostra potrebbe essere successo qualcosa per cui Totò Riina o non conta più o addirittura non c'è più. L'altro punto su cui ho dubbi è la notizia, riferita come acclarata dai giudici di Palermo che hanno richiesto ed emesso il mandato di cattura, secondo cui dopo il delitto Lima sarebbe stata data agli affiliati di Cosa nostra una sorta di autorizzazione, se non proprio l'ordine, di costituirsi o di fare, comunque, ciò che volevano. Cosa molto strana, mai successa. Anche Calderone ha detto testualmente: "Questa è una strana storia" e strana sembra anche a me. Per questo vorrei chiedere a Buscetta cosa stia succedendo. Naturalmente la sua sarà un'ipotesi, un parere, comunque è interessante sapere quale giudizio dia di questa vicenda. Valuti il presidente se sia il caso di porre la domanda in termini ancora più brutali, cioè "C'è ancora Cosa nostra?". Inoltre non ho ben capito la vicenda del delitto Dalla Chiesa. Vorrei dunque che il presidente domandasse a Buscetta perché mai non abbia riferito ai giudici della corte d'assise durante il dibattimento quest'ultima notizia relativa al 1979, al terrorista e così via. Perché sono coinvolti politici e dei politici non aveva voglia di parlare o per qualche altro motivo? Non si tratta, infatti, di un piccolo particolare: alcuni personaggi sono stati condannati. Vi è, poi, la questione della commissione regionale-provinciale: fino a che epoca risulta a Buscetta che questi importanti delitti fossero deliberati a livello regionale, sia pure nella proporzione di 10, 8, 4 e via dicendo cui ha fatto riferimento? Fino a quando è stato richiesto il consenso delle altre province per delitti di una certa importanza? Ultima domanda - e questa veramente particolare - è se egli sappia chi è "lo zio", cioè quel famoso signore, piuttosto anziano, che entrava ed usciva dal tribunale informandosi o in qualche modo intercedendo rispetto alle vicende giudiziarie.

ROSARIO OLIVO. Signor presidente, vorrei chiedere al signor Buscetta un approfondimento, una valutazione sul processo di Catanzaro. Insisto ancora su tale questione perché mi pare che egli abbia espresso valutazioni abbastanza pesanti su un giudice che è stato pubblico ministero in quel processo nel 1968. Inoltre vorrei sapere qualcosa sui rapporti tra Cosa nostra e la Sacra corona unita: se si tratti di un rapporto simile a quello che Cosa nostra ha con 'ndrangheta e camorra.

MAURIZIO CALVI. Vorrei, signor presidente, che non si dimenticasse che oggetto dell'odierna audizione sono il delitto Lima, le interconnessioni mafia-politica con riferimento a Lima, lo spessore

Pag. 414 del sistema delle relazioni mafiose nonché l'estensione dei rapporti tra mafia e politica. Mi sembra, infatti, che queste audizioni si stiano indirizzando verso altre aree, pure di grande interesse, riguardanti la vita interna ed esterna della mafia, mentre ritengo che lo scopo finale debba essere quello di capire l'effetto Lima e l'estensione dei rapporti tra mafia e politica in relazione agli interessi che stavano dietro quest'uomo politico. Da questa audizione emerge che Buscetta è sicuramente l'uomo che è stato maggiormente a contatto con Lima, probabilmente perché andavano a scuola insieme, poi a teatro insieme; quindi è forse l'interlocutore che più di altri può farci capire il personaggio Lima e gli interessi che sono dietro ad esso. Vorrei quindi che cercassimo di approfondire questo rapporto per capire quali altri interessi comuni avessero, oltre quello del teatro. Approfittiamo, presidente, di questo grande rapporto di amicizia con Lima per estendere l'analisi ad un altro sistema di relazioni, perché, a mio giudizio, questo è l'interesse maggiore dell'audizione.

ALTERO MATTEOLI. Buscetta ha insinuato (uso questo termine ma è quasi un eufemismo) che Dalla Chiesa sia stato ucciso sì da Cosa nostra (il che a suo modo di vedere è fisiologico) ma anche da qualcun altro, quasi che il potere, il sistema avessero voluto morto il generale. Abbiamo ascoltato ciò che ha detto in proposito ma non abbiamo tentato di approfondire quel passaggio. Gradirei che lo facessimo domandandogli se questa sua insinuazione o per lo meno questo suo convincimento sia dato dal fatto che è legato al potere politico, alla stessa vicenda Lima ed ai collegamenti che quest'ultimo aveva con il potere centrale, con Roma, con Andreotti, per intenderci. Bisognerebbe, insomma, chiedergli se a suo avviso ambienti governativi o comunque dello Stato gradissero l'uccisione di Dalla Chiesa. La domanda posta in questi termini è molto brutale ma il presidente saprà porla in modo migliore. Nella precedente audizione, Calderone ci ha detto che il giudice Campisi fu trasferito a Cuneo; guarda caso nel periodo in cui Campisi è a Cuneo Buscetta viene trasferito nel carcere di quella città.

PRESIDENTE. Bisogna ricordare, però, che Campisi chiese di andare a fare il procuratore a Cuneo.

ALTERO MATTEOLI. Sì, si tratta di sapere se in qualche modo il trasferimento di Buscetta a Cuneo sia stato favorito. Inoltre, abbiamo accettato come normale il fatto che Michele Greco entri nel carcere dell'Ucciardone e vada a trovare Tommaso Buscetta, ma ci sarà qualcuno che avrà favorito l'ingresso di Michele Greco nel carcere. Per una persona perbene andare a trovare un detenuto è sempre complicato, mentre Michele Greco riesce a farlo agevolmente. Bisognerebbe chiedere, come suggeriva anche il collega Taradash, se ciò sia stato possibile solo grazie al direttore del carcere o se altri abbiano favorito l'accesso di Michele Greco.

ROMEO RICCIUTI. L'esperienza odierna può essere considerata interessante e di grande utilità storica, perché il personaggio è fondamentale. A noi tuttavia interessa sapere cosa faccia la mafia oggi in senso politico. Vorrei, perciò, che si insistesse in questa direzione, se vi è la possibilità di acquisire qualche altra notizia che sarebbe utilissima per la nostra attività. Un'altra domanda dovrebbe riguardare il separatismo: se si tratti di un disegno politico unitario di separatismo tra nord e sud (per cui vi può essere un collegamento con i fatti odierni) oppure se il disegno politico siciliano sia a suo avviso autonomo.

PIERO MARIO ANGELINI. Vorrei sapere se Buscetta conosca o abbia conosciuto in quanto uomo d'onore Calderone e gli altri collaboratori della giustizia Spatola e Mutolo; se conosca o gli sia

Pag. 415 stata fatta conoscere la sostanza delle loro confessioni, se li abbia mai incontrati e quale giudizio dia di loro.

CARLO D'AMATO. Nell'audizione di Buscetta è emerso un dato molto importante sotto il profilo della conoscenza del fenomeno mafioso, quello che non esistono organizzazioni separate ma esiste ormai un'unica mafia. Si tratta di un dato particolarmente significativo che, pur partendo dall'omicidio Lima, potrebbe consentirci l'individuazione di eventuali connivenze tra mafia e politica anche in Campania. Tra l'altro, Buscetta è stato anche a Poggioreale, conosce camorristi mafiosi napoletani; gli si dovrebbe chiedere se, al di là dei meccanismi di voto, sui quali è stato abbastanza esplicito (o almeno ha dato la sua versione di come avvenga questo collegamento elettorale), esistano collusioni che nel corso di questi anni abbiano potuto dare positivo riscontro alle attività mafiose della Campania utilizzando uomini politici di quella regione, tenendo anche conto che questo può essere un punto di riferimento utile per conoscere le attività mafiose in Sicilia, visto che la Campania è una regione particolarmente importante e significativa. Ho constatato anche nel corso di un colloquio ufficioso avuto con Buscetta durante la sospensione della seduta che egli si ritiene un collaboratore fondamentale, importante e si attribuisce anche una grande capacità di valutazione degli eventi, tant'è vero che, definendole deliri, parla di suggestioni e di congetture, compiendo anche un tentativo di interpretazione dei fatti. Alla luce di tutto questo, penso che potremmo chiedergli di esprimersi sull'attendibilità dei pentiti, anche perché nel medesimo colloquio di cui ho già parlato ha espresso alcuni giudizi negativi. Ad esempio, i magistrati che hanno emesso l'ordinanza di carcerazione dei componenti della cupola mafiosa per l'uccisione di Salvo Lima definiscono attendibili tutti i pentiti sulla base delle nuove leggi e dei criteri indicati dalla Cassazione: sarebbe importante avere anche a questo proposito alcuni elementi di valutazione da parte di Buscetta, elementi che potrebbero servirci per lo meno come dato culturale. (Il signor Buscetta è accompagnato nuovamente in aula). PRESIDENTE. Signor Buscetta, le rivolgerò adesso alcune domande formulate dai colleghi. A proposito dei rapporti economico-finanziari tra Vassallo e Lima, lei ha detto che Vassallo era la sigla dietro la quale c'era anche Lima. Può essere più preciso su questi rapporti, per quello che lei sa? La domanda le viene posta dal senatore Buttitta.

TOMMASO BUSCETTA. Queste domande che riguardano politici preferirei che fossero fatte dai giudici istruttori. Io non ho niente da nascondere a voi, perché voi potrete avere dai giudici istruttori tutte queste notizie. Quindi vi chiederei di lasciarlo questo campo.

 PRESIDENTE. Non le chiedo una cosa nuova.

 TOMMASO BUSCETTA. Sì, va bene, ma quando io entro nel particolare, sul perché Vassallo nasconde Lima, cominciamo a fare una storia che diventa una cosa lunga e che è di competenza del giudice istruttore. Lei è stato giudice istruttore.

PRESIDENTE. Questa è una risposta chiara. Nella famiglia Bontade c'erano anche uomini politici?

TOMMASO BUSCETTA. A mente non mi vengono, ma c'erano. Sì, c'erano.

PRESIDENTE. Quali erano i rapporti tra le famiglie di Palermo e quelle della provincia?

TOMMASO BUSCETTA. Scusi, signor presidente, in che termini?

Pag. 416 PRESIDENTE. Lei ha detto che le famiglie si erano sciolte, dopo il 1963. In particolare si erano sciolte le famiglie di Palermo, mentre le altre, se non ho capito male...

TOMMASO BUSCETTA. No, tutta la provincia di Palermo.

PRESIDENTE. Questa domanda le è stata formulata dal senatore Ferrara. Adesso l'onorevole Riggio le chiede per chi votasse la mafia della provincia. Aveva gli stessi orientamenti vostri oppure diversi?

TOMMASO BUSCETTA. In tutta la Sicilia aveva gli stessi orientamenti. Non era solo per la provincia di Palermo non votare comunista, ma per tutta la Sicilia.

PRESIDENTE. Non votare i due estremi.

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. L'onorevole Scalia le chiede maggiori chiarimenti - se ricorda - sulla traduzione a Milano. La aiuto: fu tradotto con un cellulare normale dei carabinieri o con la macchina?

TOMMASO BUSCETTA. Cellulare, e grosso.

PRESIDENTE. Con altre persone o da solo?

TOMMASO BUSCETTA. Io credo che ero insieme ad un altro. Uno.

PRESIDENTE. Era un detenuto comune, un terrorista, uno di Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. Non ho parlato. Non ci siamo parlati con l'altro detenuto.

PRESIDENTE. Siete arrivati direttamente a San Vittore o vi siete fermati da qualche parte?

TOMMASO BUSCETTA. Mentre ero da solo di là pensavo che questa cosa non deve creare... Quello che dico io può essere certificato attraverso gli uffici.

 PRESIDENTE. Stia tranquillo, si vedrà.

TOMMASO BUSCETTA. Io ricordo benissimo di essere andato a Milano da Cuneo.

PRESIDENTE. Volevo sapere se prima si è fermato o no da qualche parte: in una caserma o in qualche altro posto?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo ricordo. Non ho parlato con il detenuto che stava insieme a me. PRESIDENTE. Non si ricorda se era giorno o notte quando fu trasferito?

TOMMASO BUSCETTA. Quando fui trasferito era di giorno. Credo che sia stato nel pomeriggio.

PRESIDENTE. Comunque di giorno. Insomma, c'era luce. Il senatore Tripodi le chiede se può riferire alla Commissione, per quanto è a sua conoscenza, sui rapporti fra appartenenti a Cosa nostra ed appartenenti ai servizi segreti.

TOMMASO BUSCETTA. No. PRESIDENTE. No nel senso che non sa?

TOMMASO BUSCETTA. Non so. PRESIDENTE. Passo ora alla domanda formulata dal senatore Imposimato. Falcone e Borsellino più volte hanno chiesto leggi particolari per i collaboratori, le quali però sono venute in ritardo. Per quello che voi ne sapevate, Cosa nostra operava, nell'ambito delle sue possibilità, per impedire l'emanazione di tali leggi?

Pag. 417 TOMMASO BUSCETTA. Con i rapporti politici che poteva avere Riina, certo che le impediva.

PRESIDENTE. Lei pensa quindi che questi ritardi siano stati determinati dalle influenze di Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. E' sempre un'ipotesi mia, non ho certezze. Senz'altro.

PRESIDENTE. Il procuratore generale di Roma, Spagnuolo, era al corrente dell'interesse di Cosa nostra per Moro?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so.

PRESIDENTE. Ci sono stati incontri tra uomini di Cosa nostra e movimenti della Sardegna?

TOMMASO BUSCETTA. Credo di no.

 PRESIDENTE. Nei sequestri in Sardegna c'è la stata la mano di qualche uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. No!

PRESIDENTE. Il senatore Biscardi chiede quale fosse la funzione di Gioia nel rapporto tra Vassallo e Lima. Circolò una sigla.

TOMMASO BUSCETTA. Ritorniamo sempre alla stessa cosa. Vorrei non rispondere.

 PRESIDENTE. Io devo porle la domanda. Non la consideri una scortesia.

TOMMASO BUSCETTA. Signor presidente, non ho niente contro la sua domanda. Dico che ritorniamo sempre alla stessa cosa. Rispondo: risponderò a giudici.

PRESIDENTE. Risponderà ai giudici adesso, non in futuro.

TOMMASO BUSCETTA. No, no, ai giudici adesso.

LUIGI BISCARDI. Di Vassallo e Lima ha parlato però.

PRESIDENTE. Lei ha detto che tra Vassallo e Lima un rapporto c'era. Il senatore Biscardi vuole sapere se c'era un rapporto anche tra Vassallo e Gioia.

TOMMASO BUSCETTA. Vuole un'anticipazione? C'era!

PRESIDENTE. Da che cosa nasceva questa sua dimestichezza di rapporti con il direttore del carcere dell'Ucciardone, dottor De Cesare, le chiede l'onorevole Taradash?

TOMMASO BUSCETTA. Ho detto che era massone.

PRESIDENTE. De Cesare era massone?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. E quindi?

TOMMASO BUSCETTA. E quindi venivano le raccomandazioni dai massoni al massone, per me.

PRESIDENTE. Mi scusi, c'era un rapporto tale per cui se avevate bisogno vi rivolgevate ai massoni?

TOMMASO BUSCETTA. Io non mi sono rivolto.

PRESIDENTE. Non lei, Cosa nostra.

TOMMASO BUSCETTA. Se c'era bisogno, sì.

PRESIDENTE. Quindi De Cesare non era di Cosa nostra, era massone?

TOMMASO BUSCETTA. Assolutamente, era massone.

Pag. 418 PRESIDENTE. E in quanto tale aiutava lei o anche altri di Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. Aiutando me aiutava tutta la Cosa nostra perché io facevo le richieste.

PRESIDENTE. Sempre l'onorevole Taradash le chiede se sulla base delle sue ipotesi l'omicidio del generale Dalla Chiesa - risalente al settembre 1982 - può essere in collegamento con l'ipotesi avanzata nel 1979, quando qualcuno le disse...

TOMMASO BUSCETTA. Dissi che questa è la mia ipotesi.

PRESIDENTE. La sua ipotesi è questa.

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Vorrei che lei spiegasse, per cortesia, una questione che anch'io non ho capito bene forse perché mi sono distratto. Per quale motivo Dalla Chiesa dava fastidio a Cosa nostra? Lei si è riferito alla storia delle patenti e dei fogli rosa, che però non erano un problema.

TOMMASO BUSCETTA. No, no, non ho detto non era un problema, forse mi sono spiegato male. Era un problema, ma non era un problema tale da arrivare al punto di ammazzarlo pubblicamente insieme alla moglie.

PRESIDENTE. Quale fastidio dava Dalla Chiesa a Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. Mah, ho citato due casi: uno era con gli imprenditori; il secondo erano le patenti, i fogli rosa... e poi chiedeva leggi speciali. Quindi, il movente per ammazzarlo c'è. Legittimamente dice: la mafia si è stancata e l'ammazza; è pacifico questo. Se devo sostenere un'altra cosa, devo accettare che posso passare anche per una perizia psichiatrica.

PRESIDENTE. Ho capito cosa vuole dire. Vernengo e Pecoraro...

TOMMASO BUSCETTA. Vernengo? PRESIDENTE. Sì, Pietro Vernengo che ha avuto il soggiorno obbligato in Puglia, mi pare...

TOMMASO BUSCETTA. Questo non lo so. Però se è Pietro, io so chi è.

PRESIDENTE. Quando andarono in Puglia, lo fecero per collegamenti con qualcuno di Cosa nostra oppure no?

TOMMASO BUSCETTA. Guardi, in tutto il territorio nazionale - voi lo sapete - ci sono Cosa nostra.

PRESIDENTE. Anche in Puglia?

TOMMASO BUSCETTA. Ma in Puglia, in qualsiasi parte. Perché un siciliano va a Milano e va a costituire un punto fisso della Cosa nostra. L'errore più madornale che ha potuto commettere la Commissione antimafia di una volta è stato quello di mandare i siciliani fuori dalla Sicilia, a Milano, a Padova e a Bologna. E' stato l'errore più madornale perché li ha fatti espatriare. E' gente che non ha mai preso il treno, non sapeva che cos'era Bologna e voi gliel'avete insegnato. Quando dico voi intendo gli altri.

PRESIDENTE. Il soggiorno obbligato dette fastidio a Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. Dette fastidio ma per poco, poi si aggiustarono.

 PRESIDENTE. Quando lei ha riferito del fastidio che poteva dare Dalla Chiesa, ha parlato dei costruttori: a quali fa riferimento, a quelli di Catania?

TOMMASO BUSCETTA. Non ho altro riferimento da fare se non quello di Catania, perché a quelli dava disturbo Dalla Chiesa.

Pag. 419 PRESIDENTE. A uno o a più di uno?

TOMMASO BUSCETTA. Credo a più di uno di Catania.

 PRESIDENTE. Oltre al nome di Costanzo, che lei ha già fatto, è in grado di citarne altri o preferisce farlo all'autorità giudiziaria?

TOMMASO BUSCETTA. All'autorità giudiziaria.

PRESIDENTE. Un uomo politico che è vostro alleato può proporre leggi contro di voi? Come la prendete questa mossa?

TOMMASO BUSCETTA. Innanzitutto desidero chiarire ex vostro alleato.

PRESIDENTE. Certo, è come la storia dei politici.

TOMMASO BUSCETTA. Altrimenti torniamo punto e a capo. Posso dirle una cosa che mi viene alla memoria, poi quando parlerò con i giudici... Nel 1963 ci fu una riunione alla regione siciliana... No, alla provincia siciliana, ci sono due cose diverse se non sbaglio...

PRESIDENTE. Sì, certo.

FRANCESCO CAFARELLI. Diciamo amministrazione provinciale.

TOMMASO BUSCETTA. Amministrazione provinciale. Credo che il presidente fosse Reina. Allora si disse che si doveva combattere la mafia perché stava dando disturbo. Votiamo una mozione contro la mafia per alzata di mano. Hanno alzato la mano credo in novanta ed erano in novanta: quindi, tutti. Solo che là dentro c'erano anche uomini d'onore. Ho dato la risposta.

 PRESIDENTE. Quindi, può darsi che lo facciano, il che è positivo. Lei ha detto, ad un certo punto, che la famiglia dei corleonesi e quella dei Madonia non facevano conoscere i nomi dei loro aderenti.

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

 PRESIDENTE. Questo può voler dire che all'interno di Cosa nostra esiste un gruppo più ristretto non conosciuto?

TOMMASO BUSCETTA. No. Non è che esiste un gruppo più ristretto, esistono delle persone non conosciute, non un gruppo più ristretto. Avere persone non conosciute non è una malvagità nei confronti della conoscenza o meno; è una malvagità perché in caso di confronto loro hanno delle basi che agli altri uomini d'onore sono sconosciute. PRESIDENTE. Questi, quindi, non possono essere uomini che comandano.

TOMMASO BUSCETTA. No, tranne che poi nel corso della vita dirà: questo è stato messo in famiglia.

 PRESIDENTE. Lei, parlando nel 1984 con il giudice Falcone, afferma: "Nel 1978 la signoria vostra mi dice che sono avvenuti gli omicidi di Michele Reina e di Giuseppe Di Cristina. Circa il primo di tali omicidi non so nulla, ma rammento alla signoria vostra che lo stesso, data la sua eclatanza, non poteva che essere stato commesso su mandato della commissione, o meglio di tutti i componenti della stessa alleati con i corleonesi. Mi risulta che né Stefano Bontade né Salvatore Inzerillo né Rosario Riccobono sapevano nulla di ciò". Ed ancora: "Per quanto concerne gli omicidi di Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, so per certo, per averlo appreso da Salvatore Inzerillo, che trattasi di omicidi decisi dalla commissione di Palermo all'insaputa di esso Inzerillo, di Stefano Bontade ed anche di Rosario Riccobono". Dice inoltre: "L'omicidio del capitano Basile, secondo quanto mi ha detto Salvatore

Pag. 420 Inzerillo, è stato voluto dai corleonesi per motivi che ignoro. Sicuramente la commissione era consenziente, ad eccezione dei soliti Inzerillo e Bontade". Dunque, vi è un complesso di omicidi commessi all'insaputa di questi due personaggi.

TOMMASO BUSCETTA. Ho cercato, in quel periodo, di spiegare al giudice Falcone i contrasti che c'erano in seno alla commissione. PRESIDENTE. Bontade, Inzerillo e Riccobono stavano da una parte e la commissione dall'altra?

TOMMASO BUSCETTA. Credo ce ne fosse qualche altro: Gigino Pizzuti. Ho cercato di spiegarmi, ho fatto del mio meglio. Non stavo bene fisicamente.

PRESIDENTE. Quando ha svolto l'interrogatorio? OMMASO BUSCETTA. Non stavo bene. Ero un individuo che veniva da un trauma tremendo; in quei casi si attenua la lucidità. Mi sono state fatte iniezioni di curaro che, come sapete, rallenta l'azione dell'uomo in contrasto alla stricnina; avevo momenti in cui, anche se ero sempre presente, è potuta nascere qualche contraddizione da parte mia. Ma il fatto è che esistevano contrasti tra i gruppi e sia Bontade sia Inzerillo non vedevano la realtà. Dicevano che si doveva finire e credevano che Michele Greco facesse il giusto per tutti. Non sapevano che Michele Greco era venduto ai corleonesi. Questa la confusione di tutti i contrasti.

PRESIDENTE. Lei ha spiegato che il procuratore Scaglione venne ucciso nell'intento di gettare disordine e discredito sulle istituzioni. Il tentativo di Borghese è del dicembre 1970, mentre l'omicidio Scaglione è del 1971. Può spiegare meglio se questo vuol dire che il progetto di disordine andava anche oltre?

TOMMASO BUSCETTA. Andava oltre. Lui cercava di farsi i suoi interessi andando oltre e dicendo che era un tentativo per destabilizzare lo Stato.

PRESIDENTE. Quindi l'interesse alla destabilizzazione era presente in Liggio, anche al di fuori?

TOMMASO BUSCETTA. E' sempre stato presente. Non bisogna credere a quello che ha detto durante il maxiprocesso. Non si era reso conto che io già avevo parlato e disse, facendo l'eroe, che noi eravamo andati e lui si era rifiutato. Rifiutato a che? Un assassino come quello che si rifiutava?

PRESIDENTE. Lei ha detto che la destabilizzazione è sempre un obiettivo di Cosa nostra. O lo è di Liggio?

TOMMASO BUSCETTA. Di Liggio e quando parlo di lui parlo della corrente dei corleonesi.

 PRESIDENTE. Perché perseguono l'obiettivo di creare disordine e confusione?

TOMMASO BUSCETTA. Liggio in quel momento, nel 1971, era l'uomo più rovinato; non gli altri. Era stato assolto a Bari ma sapeva che questa assoluzione durava meno di niente. Fuggì e appena fu libero si allontanò. Doveva presentarsi al commissariato di Corleone a dire che era arrivato. Non l'ha voluto fare.

PRESIDENTE. L'obiettivo della destabilizzazione perseguito dai corleonesi, secondo le sue ipotesi, sarebbe in collegamento con i soggetti di cui ha parlato prima?

TOMMASO BUSCETTA. Credo di sì.

PRESIDENTE. Può dire se esistevano uomini d'onore in province siciliane diverse da quelle che lei ha indicato, cioè Palermo, Catania, Trapani, Agrigento, Caltanisetta e Enna? A Messina ce ne erano?

Pag. 421 TOMMASO BUSCETTA. A Messina sconosco che ci possa essere famiglia e se c'è è una cosa nuova.

PRESIDENTE. Il senatore Ferrauto le chiede, sulla base della sua esperienza, in che direzione si dovrebbe oggi indagare per raggiungere risultati particolarmente importanti.

TOMMASO BUSCETTA. La Commissione o i giudici?

PRESIDENTE. Entrambi i poteri, il Parlamento e la magistratura.

TOMMASO BUSCETTA. E' una cosa che dovete chiedere ai giudici, dopo che questi si saranno resi conto delle dichiarazioni che verranno fatte sulla politica. Dopo quel mio interrogatorio, in tempi futuri ma vicini, chiedetelo ai giudici.

PRESIDENTE. Lei intende dire che dopo le sue dichiarazioni nominative sulla politica si capirà dove "mettere le mani"?

TOMMASO BUSCETTA. Esatto. Questo il mio convincimento.

PRESIDENTE. Ciò riguarderebbe tanto la Commissione antimafia quanto la magistratura?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. I superprefetti, l'Alto commissario, i superpoteri hanno dato fastidio a Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Perché? Cosa serve?

TOMMASO BUSCETTA. Perché non hanno fatto niente per farsi temere. Non si sono viste quelle azioni per farsi temere.

PRESIDENTE. Il senatore Boso le chiede: se il generale Dalla Chiesa avesse avuto i superpoteri (tra l'altro li aveva richiesti) sarebbe stato temibile?

TOMMASO BUSCETTA. Temibilissimo.

PRESIDENTE. Perché?

TOMMASO BUSCETTA. Dalla Chiesa - secondo me, ma credo che sia provato - aveva un sentimento della patria che non ho riscontrato negli altri. Può darsi che sia questo uno dei motivi per cui era inviso a molti.

PRESIDENTE. Il senatore Boso le chiede se la Chiesa sia interessata a Cosa nostra.

TOMMASO BUSCETTA. Come?

PRESIDENTE. Mi spiego meglio. Come lei sa, l'Istituto per le opere di religione, cioè la banca del Vaticano, è stato coinvolto nella vicenda Calvi. Partendo da questo dato, il senatore Boso le chiede se le risutino rapporti tra esponenti della Chiesa e Cosa nostra.

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. L'onorevole Borghezio le chiede se esista un archivio di Cosa nostra.

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Gli uomini politici del nord eletti con i voti mafiosi a Torino e a Milano quando devono votare si comportano come gli uomini d'onore che stanno in Sicilia o no?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, se sono residenti in altri posti; se vivono in altri posti e lì fissano la loro residenza, si comportano allo stesso modo.

PRESIDENTE. Quando sono state sequestrate persone fuori dalla Sicilia - è sempre l'onorevole Borghezio che glielo chiede - si è trattato quasi sempre di

Pag. 422 persone appartenenti al mondo dell'imprenditoria ma mai persone che lavoravano nel sistema bancario e finanziario. C'è una ragione particolare o è solo un caso? T

OMMASO BUSCETTA. E' un caso.

PRESIDENTE. Le risulta che con i soldi ricavati Cosa nostra abbia acquistato quote di società per azioni?

TOMMASO BUSCETTA. Non mi risulta.

PRESIDENTE. Non le risulta o non lo sa?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so.

PRESIDENTE. Bardellino, Zaza e Nuvoletta sono tre uomini d'onore, o meglio uno era e gli altri due sono.

TOMMASO BUSCETTA. E' già scontato che è morto?

PRESIDENTE. Non è scontato. A lei risulta che possa essere vivo?

TOMMASO BUSCETTA. Non mi risulta ma non credo che sia morto.

PRESIDENTE. Come dicevo, Bardellino, Zaza e Nuvoletta sono uomini d'onore; in quanto tali avevano l'incarico di sostenere anch'essi i candidati alle elezioni a Napoli?

TOMMASO BUSCETTA. Certamente; perché no?

PRESIDENTE. Quindi anch'essi lo facevano?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Chi decideva i nomi?

TOMMASO BUSCETTA. Ho sempre detto che ognuno era libero di scegliersi il candidato.

PRESIDENTE. L'onorevole Biondi, che è stato parte civile nel processo per l'assassinio del generale Dalla Chiesa, le chiede di spiegare, se possibile, una sua frase detta a proposito di tale vicenda: lei ha parlato di "presenza troppo ingombrante" del generale Dalla Chiesa. Per chi tale presenza era così ingombrante?

TOMMASO BUSCETTA. Credo per lo Stato.

PRESIDENTE. Non per Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. No, non dava tutto questo fastidio per morire assassinato in quella maniera o, per lo meno, non aveva ancora dato tutto quel fastidio.

ALFREDO BIONDI. Ha fatto cenno anche ad alcuni uomini politici.

PRESIDENTE. Può precisare meglio?

ALFREDO BIONDI. Nella rogatoria del dottor Falcone del 3 settembre 1982 si legge: "Avendo appreso dalla televisione dell'assassinio del generale Dalla Chiesa, ritenni che l'omicidio fosse stato effettuato dai corleonesi aiutati dai catanesi, che erano a loro più vicini". E aggiunge: "Qualche uomo politico si era sbarazzato, servendosi della mafia, della presenza troppo ingombrante...". Signor Buscetta, non le chiedo di fare ora il nome dell'uomo politico, le chiedo solo se lo abbia fatto in quella occasione.

TOMMASO BUSCETTA. Lo dirò al giudice.

ALFREDO BIONDI. Questo l'ho capito ma vuol dire che il nome già l'ha detto. E' quello che volevo sapere.

PRESIDENTE. Quindi, con Badalamenti vi siete detti il nome dell'uomo politico?

TOMMASO BUSCETTA. Lo dirò al giudice. Pag.

423 PRESIDENTE. Certo, il nome lo dirà al giudice ma lei deve rispondere sì o no alla mia domanda. TOMMASO BUSCETTA. Non facciamo ora confusione; dirò il nome al giudice perché è possibile che quello che mi ha detto Badalamenti possa essere stato da lui inventato.

 PRESIDENTE. Forse non mi sono spiegato: noi non vogliamo sapere...

TOMMASO BUSCETTA. Ho capito: ce lo siamo detto.

PRESIDENTE. Si tratta di un uomo politico che ancora fa politica?

TOMMASO BUSCETTA. Ah, ah, ora che facciamo? Dieci carte, da uno a cinque, poi da cinque a uno e poi chiede: qual è l'ultima carta? Il cavallo. Dopo quante carte vuoi il cavallo? Non possiamo fare così!

PRESIDENTE. Signor Buscetta, lei faccia il suo mestiere così come la Commissione antimafia fa il suo; poiché le stiamo rivolgendo delle domande, lei risponda.

TOMMASO BUSCETTA. Non ho più mestiere.

PRESIDENTE. Lei sta rispondendo ad alcune domande che la Commissione ha il dovere di porle. Può rispondere come vuole, non può però presumere che non le si rivolgano determinate domande. Chiedere se si tratti di un uomo politico ancora in vita, tenendo presente che gli uomini politici in Italia sono alcune migliaia, non mi pare che sia una domanda che possa pregiudicare il suo interesse. Spero di essere stato chiaro.

TOMMASO BUSCETTA. E' vivo, anzi sono vivi.

PRESIDENTE. Sono più d'uno, quindi. L'onorevole Galasso le chiede con quale criterio lei abbia scelto cosa riferire alla Commissione antimafia.

TOMMASO BUSCETTA. Forse io ho criterio? Non ho criterio, io rispondo alle domande.

PRESIDENTE. Di fronte ad alcune domande, però, lei ha detto che preferisce riferire alla magistratura.

TOMMASO BUSCETTA. Appunto, preferisco. Il criterio è di non fare niente per intralciare quello che potrà essere il lavoro della magistratura, se so farlo.

 PRESIDENTE. Quello che lei pensa possa intralciare il lavoro della magistratura preferisce non dirlo qui, benissimo. In questa fase, secondo lei, cosa sta accadendo all'interno di Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. E' una domanda complessa.

PRESIDENTE. Può dare qualche indicazione alla Commissione?

TOMMASO BUSCETTA. Credo che in questo momento ci sia grande confusione perché, per quello che ho letto dai giornali e per quello che ho potuto sentire, il pentimento di Mutolo e Marchese è una cosa tremenda per loro. Questi personaggi hanno vissuto a diretto contatto con loro; questi personaggi conoscono veramente fatti per loro gravi; questi personaggi potranno indurre, con il pensiero, altri personaggi a pentirsi, quindi ci sarà una grande confusione.

PRESIDENTE. Nell'intervista rilasciata a Biagi nella scorsa estate ha detto a proposito di Riina: "Chi lo sa se è Totò Riina". Oggi lei ha fatto riferimento ad un Totò Riina molto forte ancora, che decide; è parso all'onorevole Galasso di cogliere una contraddizione tra le due affermazioni.

Pag. 424 TOMMASO BUSCETTA. Può darsi. Quando dico "può darsi Riina" e quando dico "Totò Riina" intendo fare un riferimento, perché è impossibile se quando si fa la lotta non c'è un leader. Se Riina è caduto in disgrazia, se l'hanno strangolato, ci sarà Provenzano al suo posto ma non posso saperlo da fuori. Allora, invece di parlare di corleonesi, anche perché non posso essere compreso, preferisco dire "Riina o chi sta al suo posto".

PRESIDENTE. L'onorevole Galasso le chiede se lei abbia elaborato qualche ipotesi sulla cui base ritenere che possa anche non trattarsi di Riina.

TOMMASO BUSCETTA. Le ipotesi si fanno nella Cosa nostra. Perché può venire la sorpresa che Riina sono cinque anni che è sotto terra. Si faceva il processo a Giuseppe Greco, detto Scarpazzedda, e quello era morto già da due anni. Si pensava che Scarpazzedda stava ammazzando, ma la verità era che non si trattava più di Scarpazzedda: era nato uno molto più pericoloso di lui, che aveva preso il suo posto e continuava ad ammazzare. Sono stato chiaro?

PRESIDENTE. Sì, è stato chiaro. A questo punto si pone la domanda: Cosa nostra, così come noi la intendiamo, esiste ancora?

TOMMASO BUSCETTA. Cosa nostra? Certo che esiste. E' esistita fino al pentimento di Marchese. Io credo che è esistita.

PRESIDENTE. Quindi esiste ancora. Abbiamo letto che dopo l'omicidio Lima vi sono stati casi di costituzione in carcere di uomini d'onore, tra i quali uno si era costituito ma non c'era ...

TOMMASO BUSCETTA. Si era costituito nel posto sbagliato.

PRESIDENTE. Sì, nel posto sbagliato. E' possibile, secondo la logica di Cosa nostra, che un uomo d'onore si vada a costituire dopo un omicidio?

TOMMASO BUSCETTA. Lo ha fatto Antonio Salamone.

PRESIDENTE. Può spiegare questa cosa alla Commissione?

TOMMASO BUSCETTA. Nel 1982 Salamone si recò in un paese della Calabria e si costituì per sfuggire alle domande pressanti di dare la possibilità di fare una base per uccidere me.

PRESIDENTE. In Brasile, ho capito. Quindi è possibile.

TOMMASO BUSCETTA. Preferì tornare in Italia e costituirsi, quando era cittadino brasiliano, con passaporto brasiliano, e non aveva niente di cui rispondere in Italia. Doveva rispondere del soggiorno obbligato.

PRESIDENTE. Se uno si costituisce i capi di Cosa nostra non pensano che egli abbia violato le regole?

TOMMASO BUSCETTA. Certo.

PRESIDENTE. Quindi?

TOMMASO BUSCETTA. Io non so dov'è Antonio Salamone!

ALFREDO GALASSO. Sappiamo che questa costituzione era in qualche misura autorizzata; era una cosa generale e non particolare, come se dopo il delitto Lima si fosse detto: se volete, andate a costituirvi. Questo hanno detto i giudici di Palermo.

PRESIDENTE. E' possibile che non sia stata un'iniziativa spontanea?

TOMMASO BUSCETTA. E' possibile. E' possibile perché ad un altro si può dire: "Dobbiamo fare una cosa molto importante, non voglio coinvolgerti, ti puoi

Pag. 425 costituire". Sono due cose diverse questa e quella di Salamone. Non c'è una regola precisa.

PRESIDENTE. Cioè Salamone si costituì sostanzialmente per evitare di ucciderla, correndo, a quel punto, anche dei rischi perché costituendosi violava una regola.

TOMMASO BUSCETTA. E' esatto. Ma lui cosa diceva al maresciallo? "Non dica che mi sono costituito, dica che mi ha arrestato".

PRESIDENTE. Certo. L'altro caso si ha, invece, quando Cosa nostra dice: "Stiamo facendo una cosa grande quindi ...". E questo avviene prima di un omicidio, non dopo.

TOMMASO BUSCETTA. Prima.

PRESIDENTE. L'onorevole Fumagalli le chiede di spiegare la frase: Lima morto serviva a denigrare Andreotti.

TOMMASO BUSCETTA. Lima era il lato democratico cristiano a Palermo. Questo significava la denigrazione di Andreotti, cioè della corrente andreottiana.

PRESIDENTE. Cioè uccidere Lima era ...

TOMMASO BUSCETTA. ... denigrare Andreotti.

PRESIDENTE. Denigrare nel senso di privarlo di peso oppure...

TOMMASO BUSCETTA. No, privarlo di voti.

PRESIDENTE. Quindi denigrare nel senso di indebolire. Mi chiede ora l'onorevole D'Amato se servisse anche a far capire che c'erano rapporti fra Lima ed Andreotti e quindi a far emergere questo tipo di contatti.

TOMMASO BUSCETTA. Questi discorsi preferirei farli con i giudici.

PRESIDENTE. Quindi denigrare voleva dire togliere voti.

TOMMASO BUSCETTA. Togliere voti.

ALFREDO BIONDI. Non prestigio.

TOMMASO BUSCETTA. Perdendo il prestigio perdeva i voti.

PRESIDENTE. Lei ha sostenuto in passato che l'uomo d'onore dice sempre la verità. Vuol spiegare cosa significhi questa frase? Dice sempre la verità davanti a chiunque si trovi?

TOMMASO BUSCETTA. No, no.

PRESIDENTE. L'onorevole Fumagalli, che è di Milano, come io sono di Torino, le chiede di spiegare questa frase.

TOMMASO BUSCETTA. Dire la verità significa che se è chiamato in una riunione deve rispondere con la verità. No a chiunque: se è chiamato dal suo capo deve dire la verità.

PRESIDENTE. E se è chiamato da altri uomini d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Non gli devono domandare, perché sono curiosi e lui ha il diritto di non rispondere.

PRESIDENTE. Quindi l'unica persona alla quale ha il dovere di dire la verità è il suo capo.

TOMMASO BUSCETTA. O la commissione.

PRESIDENTE. Proseguo con le domande dell'onorevole Galasso che mi erano sfuggite: perché non ha riferito in sede di maxiprocesso la notizia sul generale Dalla Chiesa relativa al 1979?

Pag. 426 TOMMASO BUSCETTA. E' semplice; io sono una persona dispostissima, adesso che c'è stata questa apertura, a testimoniare se ci fosse un nuovo processo. Quindi non è una preclusione nei confronti del generale Dalla Chiesa; è un problema che mi ero posto allora, di non parlare perché avrei complicato tutto il processo.

PRESIDENTE. Alla luce di quanto è successo poi - è questa una domanda che le faccio io - gli assassinii di Falcone e Borsellino e via dicendo, le sembra che la scelta che fece allora di non parlare di queste cose sia stata saggia?

TOMMASO BUSCETTA. Lei mi mette in difficoltà. Credo che la scelta sia stata saggia sotto un profilo materiale. Sotto un profilo umano forse io ho sbagliato, ma sotto il profilo materiale dovevo comportarmi così. Se avessi parlato di politica in quell'epoca, avrei vanificato le mie dichiarazioni. Sarebbero diventate zero perché avrebbero detto: credete a questo mascalzone che parla di cose che non sa?

PRESIDENTE. E' chiaro. Può dire alla Commissione fino a quale epoca i delitti erano deliberati a livello regionale? L'onorevole Galasso le domanda se vi è un'epoca fino alla quale gli omicidi più importanti erano decisi a livello di commissione interprovinciale.

TOMMASO BUSCETTA. La commissione interprovinciale è una cosa che viene dopo il 1974-1975, quindi io sono in carcere e queste discussioni non le so. Prima non esisteva, quindi la commissione che decideva era provinciale. PRESIDENTE. E, che lei sappia, fino a quando la commissione provinciale ha deciso se un grande delitto poteva essere compiuto?

TOMMASO BUSCETTA. Fino al 1975. Cioè partendo dal 1970, escludendo dal 1973 al 1970, è dal 1970 al 1975 che decide autonomamente.

PRESIDENTE. Lei sa chi fosse questo personaggio di Palermo, vicino a voi, credo massone, chiamato "lo zio"? Posso aiutarla dicendole che, secondo Calderone, Giacomo Vitale aveva rapporti con gli uffici giudiziari tramite questa persona anziana, chiamata "lo zio", che era un massone.

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so.

PRESIDENTE. Può spiegare meglio alla Commissione quello che ha accennato riguardo all'aggiustamento del processo di Catanzaro? Ha fatto un esempio relativo al pubblico ministero: ricorda altri fatti in ordine all'aggiustamento del processo? E' una domanda che le rivolge l'onorevole Olivo.

TOMMASO BUSCETTA. Anche a Catanzaro ci sono stati gli aggiustamenti. Il processo di Catanzaro è finito nel nulla. Sono andati tutti a casa, condannati con l'espiazione della pena.

PRESIDENTE. Ci sono rapporti, che lei sappia, tra Cosa nostra e la Sacra corona unita, l'organizzazione criminale pugliese?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Il senatore Calvi le chiede di precisare meglio il suo rapporto con Lima. Lei ha detto che era nata una specie di amicizia da molto tempo perché eravate quasi coetanei: il padre di Lima, che era uomo d'onore, gliel'aveva presentato, lei gli mandava i biglietti del teatro e così via. C'erano rapporti di questo tipo. Ritiene di poter dare qualche informazione in più alla Commissione?

TOMMASO BUSCETTA. La darò ai giudici, perché ho già cominciato il verbale con i giudici.

PRESIDENTE. Va bene.

Pag. 427 L'onorevole Matteoli le chiede se, secondo lei, ambienti governativi avessero interesse all'eliminazione di Dalla Chiesa.

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so, come faccio a saperlo?

PRESIDENTE. Chi ha favorito l'ingresso di Michele Greco all'Ucciardone?

TOMMASO BUSCETTA. La matricola, l'ufficio matricola, il brigadiere Buonincontro.

PRESIDENTE. Che è stato ucciso, se non erro.

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Da Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. Credo di sì.

PRESIDENTE. C'era secondo lei un rapporto tra l'andata del giudice Campisi a Cuneo ed il suo trasferimento nel carcere di quella città?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo conoscevo.

PRESIDENTE. Ma dopo ha saputo?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, ma molto dopo.

PRESIDENTE. L'onorevole Ricciuti vorrebbe sapere cosa faccia oggi Cosa nostra. Secondo lei, cosa sta succedendo?

TOMMASO BUSCETTA. L'abbiamo già detto, abbiamo già risposto a questa domanda.

PRESIDENTE. Durante il primo giro di domande, gliene ho rivolta una riguardante il separatismo e l'interesse che a questo riguardo può avere Cosa nostra. Lei ha risposto in particolare richiamando la necessità di avere un alleggerimento delle sentenze e sostenendo che da questo punto di vista il separatismo potrebbe risultare utile. Secondo lei, chiede il collega Ricciuti, vi è un rapporto tra questa forma di separatismo e quello di cui si discute al nord?

TOMMASO BUSCETTA. Secondo me, secondo la mia opinione, forse sì.

PRESIDENTE. Conosce il testo delle dichiarazioni di Calderone e di Mutolo?

TOMMASO BUSCETTA. No, di Calderone ho letto un libro.

PRESIDENTE. L'onorevole D'Amato le chiede se esista un collegamento tra uomini d'onore campani e politici campani.

TOMMASO BUSCETTA. Ne parlerò ai giudici, parlerò con loro di tutto quello che riguarda la politica. D'altronde, non sono più lucido come quando sono arrivato questa mattina e non vorrei fare confusione.

 PRESIDENTE. Lei ha detto prima, comunque, che anche gli uomini politici campani si comportano alla stessa maniera: lo conferma?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. PRESIDENTE. Inoltre, secondo lei, quali sono i criteri per valutare l'attendibilità di una persona che si presenta come pentito?

TOMMASO BUSCETTA. Eh, qua casca l'asino! Deve parlare con il pentito solo una persona competente e che ha vissuto dentro Cosa nostra.

PRESIDENTE. Uno che è vissuto dentro Cosa nostra è difficile che faccia il giudice, tranne quei casi ...

TOMMASO BUSCETTA. Ah, ah, è logico, ma chi è vissuto dentro Cosa nostra senza fare il giudice può stabilire se il pentito dice o meno la verità.

Pag. 428 PRESIDENTE. Ho capito, ci vuole un vaglio robusto.

ALFREDO BIONDI. E' successo che qualcuno dei pentiti abbia usato l'arma del parlare, del raccontare per farsi giustizia privata, per diventare il "tragediatore" di qualcun altro?

PRESIDENTE. L'onorevole Biondi le chiede se qualcuno dei pentiti abbia usato questa sua condizione per compiere una vendetta privata dicendo il falso.

TOMMASO BUSCETTA. Dei pentiti che io ho conosciuto, Calderone no, Contorno assolutamente no; Contorno ha sostenuto confronti con tutti quanti. Quindi, quelli che ho conosciuto io no; se verranno in futuro, non lo posso sapere.

PRESIDENTE. Il senatore Ricciuti le chiede questo: accertata la sfiducia totale nei confronti dei partiti cui la mafia ha fatto tradizionalmente riferimento, adesso il rapporto con la politica può dirigersi anche verso formazioni nuove, diverse da quelle tradizionali?

TOMMASO BUSCETTA. Se vuole un'opinione personale, dico senz'altro di sì.

PRESIDENTE. Si tratterebbe di partiti che ancora debbono nascere o che già sono nati?

TOMMASO BUSCETTA. Secondo me, sono già nati.

PRESIDENTE. Se un uomo politico amico di Cosa nostra deve fare una legge contro di voi (lei ha fatto capire prima che si può fare ugualmente) deve avvertirvi e spiegarvi qualcosa?

TOMMASO BUSCETTA. Guardi, nessuno meglio di lei mi può insegnare che, prima che si approva una legge in Italia, passano degli anni. Non è che in Italia una legge si faccia in poco tempo.

PRESIDENTE. Ma se poi la legge si fa?

TOMMASO BUSCETTA. Si fa e lui deve conservare quell'immagine pubblica anche a scapito di Cosa nostra.

PRESIDENTE. E Cosa nostra capisce questa cosa?

TOMMASO BUSCETTA. Nel passato la capiva, non so se adesso la capisca più.

PRESIDENTE. Le domande sono terminate e noi la ringraziamo molto. Vorrei chiederle se lei abbia una dichiarazione finale da rendere alla Commissione.

TOMMASO BUSCETTA. Sono molto stanco, avrei una dichiarazione finale da fare alla Commissione antimafia e mi riservo di scrivere una lettera a lei, signor presidente, che potrà leggerla a tutti i componenti la Commissione presenti in aula. Sono veramente stanco e sono certo che non mi esprimerei bene, cosa che invece vorrei fare.

PRESIDENTE. Va bene, scriva senz'altro questa lettera. Essa sarà allegata al resoconto stenografico della seduta odierna. (Il signor Buscetta viene accompagnato fuori dall'aula). Sui lavori della Commissione.

PRESIDENTE. Sulle questioni che già sono state toccate all'inizio della seduta odierna propongo che si pronunci un rappresentante per gruppo. In primo luogo, dobbiamo decidere se mantenere o meno segreta la seduta; in caso negativo, si pone la questione di quale informazione dare (un comunicato, una conferenza stampa o altro).

LUIGI BISCARDI. Il gruppo misto sostiene che non deve esserci nessun segreto, che tutto può essere reso pubblico,

Pag. 429 viste anche le dichiarazioni dello stesso Buscetta, che si è riservato di fare ai giudici i nomi e di riferire loro sui rapporti tra mafia e politica.

GIOVANNI FERRARA SALUTE. Poiché lo stesso Buscetta ha fatto notare di non aver detto cose che possano danneggiare le indagini, tutte le altre sue dichiarazioni possono essere rese pubbliche nel modo in cui decideremo.

GIROLAMO TRIPODI. Concordo con quanto detto dai colleghi che mi hanno preceduto perché ritengo che stamani noi abbiamo anche commesso un errore: avremmo fatto bene a tenere sin dall'inizio seduta pubblica. Per queste ragioni, non posso che essere favorevole a rendere pubblica l'audizione.

MARCO TARADASH. Signor presidente, io ho posto una questione di metodo e non di merito. A me non interessa, infatti, stabilire se Buscetta abbia detto cose più o meno importanti, se abbia offeso o meno qualcuno. Ritengo che la Commissione, nel momento in cui ascolta dei collaboratori della giustizia, dovrebbe sempre tenerne segrete le audizioni, visto che tutto quanto essi dicono può essere materiale di lavoro per la Commissione stessa. Francamente, penso che oggi sia stato commesso un errore a causa del quale si è costituita una forte attesa sulla possibilità che Buscetta avrebbe fatto i nomi dei politici, così come Calderone ne aveva fatto qualcuno. Procedendo in questo modo, perderemo di vista i nostri obiettivi e non saremo più una Commissione di inchiesta ma una cassa di risonanza per chi viene qui per avere domani titoli di prima pagina sui giornali. Ribadisco, pertanto, che la questione è di metodo e perciò non mi pronuncerò a favore o contro la pubblicità dell'audizione. Semmai, tale decisione avrebbe dovuto essere assunta a prescindere da quello che Buscetta avrebbe detto. Ed io mi rifiuto di stimare se quanto ha detto debba essere tenuto segreto o meno. A me interessano i lavori della Commissione e non le dichiarazioni di Buscetta.

ANTONIO BARGONE. Arrivati a questo punto, credo che la decisione più saggia sia quella di rendere pubblica la seduta, non foss'altro perché lo stesso Buscetta ha fugato tutti i dubbi che sono stati o potevano essere avanzati in proposito. Se non rendiamo pubblica la seduta, inoltre, qualcuno - in qualche modo avendone interesse - potrebbe adombrare che qui sono state dette cose di grande rilievo su esponenti politici, o comunque su settori del mondo politico. La pubblicità della seduta rappresenta, perciò, anche un utile deterrente per quegli esponenti della Commissione che intendessero instaurare un rapporto privilegiato con la stampa.

MARIO BORGHEZIO. Siamo ovviamente favorevoli alla pubblicizzazione della deposizione di Buscetta.

ALFREDO BIONDI. Concordo con l'onorevole Taradash a proposito del metodo: non si può scegliere di volta in volta cosa dire e cosa non dire; né è affatto scontato che le frasi ed i riferimenti che Buscetta sceglie possano essere di per sé tali da determinare tranquillità. Buscetta non ha fatto delle assoluzioni, ma dei rinvii. Tenere però nascosto quanto non è stato esplicitato mi sembrerebbe un volere inutilmente complicare le cose. Per il futuro - e sarà bene riunirci per decidere sul metodo - dovremo adottare un criterio generale. In questo momento mi dichiaro a favore della pubblicità dell'audizione perché altrimenti può sembrare che sappiamo più di quanto sua eccellenza Buscetta, nella sua infinita misericordia, ci ha consentito di dire o di non dire.

ALFREDO GALASSO. Mi sono già pronunciato prima per la pubblicità della seduta, anche nel caso che Buscetta

Pag. 430 avesse detto dei nomi. Figuriamoci ora che non li ha detti!

ALTERO MATTEOLI. Stamani, in apertura di seduta e senza sapere cosa Buscetta avrebbe detto, a nome del mio gruppo mi sono espresso a favore della pubblicità della seduta. Tutti ci aspettavamo grandi rivelazioni che non ci sono state, per cui ora mi sembra davvero assurdo tenere nel cassetto le sue dichiarazioni. Non ha detto niente e chi sa quali sarebbero i titoli sui giornali per ciò che non ha detto!

CARLO D'AMATO. Al punto in cui siamo, la pubblicità della seduta diventa un fatto relativo al contenuto delle dichiarazioni rese: se fossero state di un certo tipo, le avremmo tenute segrete; se fossero state di altro tipo, le avremmo rivelate. Concordo anch'io sulla necessità di discutere sul metodo da seguire. Noi abbiamo già adottato dei filtri ed io stamattina mi ero già espresso a favore della segretezza dell'audizione, anche alla luce delle iniziative assunte da alcuni gruppi subito dopo l'ultima riunione della Commissione. In considerazione poi della lettera inviata dal presidente ai capigruppo, credevo fosse opportuno un momento di ripensamento finalizzato al recupero di un comportamento che deve essere proprio di una Commissione che ha compiti tanto delicati. Devo dire, comunque, che il metodo sin qui seguito è corretto: il presidente opera da filtro delle domande, sia nella prima sia nella seconda fase. La valutazione di ciò che può scaturire da un'audizione di questo tipo non può però essere tenuta segreta, e questo criterio va stabilito una volta per tutte. In altri termini, dovremmo stabilire che, alla luce dell'esperienza degli ultimi due incontri, la pubblicità sarà assicurata per tutti gli altri. Ove così non facessimo, verremo coinvolti in un negativo dibattito; e questo anche nel caso in cui non vi fossero gli elementi concreti per un tale coinvolgimento. Ritengo, quindi, che si debba rendere pubblica la seduta di oggi. Tra l'altro, so che sono già state fatte dichiarazioni che fanno credere che da questa seduta sia emerso non si sa bene che cosa di strabiliante! La pubblicità della seduta, diventa un atto doveroso di chiarezza e di informazione dell'opinione pubblica per fugare ogni incertezza sul nostro lavoro, fermo restando che tale decisione dovrà trasformarsi in un metodo valido per il futuro.

PRESIDENTE. Secondo me, colleghi, dobbiamo decidere a prescindere dai comportamenti più o meno scorretti assunti da qualcuno di noi. Altrimenti, saltano anche i criteri utili a garantire comportamenti corretti tra di noi.

OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Signor presidente, credo che la questione riguardi il metodo, non il contenuto. All'inizio della seduta mi ero espressa a favore della riservatezza alla luce di considerazioni oggettive e prescindendo da quanto avrei ascoltato. Del resto, nella precedente riunione avevo già sottolineato la mia contrarietà all'utilizzo del metodo della pubblicità. Sconsiglierei tra l'altro vivamente di decidere di volta in volta se tenere segreta oppure no l'audizione, perché ciò darebbe luogo a letture certamente poco trasparenti e non corrette. Personalmente, ripeto, sono per la riservatezza dei nostri lavori (anche se mi rendo conto a questo punto di essere in assoluta minoranza), in quanto le affermazioni del pentito hanno bisogno di ulteriori elementi di valutazione, in termini tecnici, nonché di riscontri. Fungere da cassa di risonanza per le dichiarazioni di una persona, che non sappiamo se dice il vero o il falso, mi pare imprudente.

ROMEO RICCIUTI. Signor presidente, intervengo per motivo personale. Ho saputo che, prima ancora che si decidesse se dare pubblicità o meno all'audizione odierna, alcuni colleghi hanno rilasciato

Pag. 431 dichiarazioni agli organi di stampa. Se un fatto del genere venisse accertato presso le agenzie di stampa, le chiedo di adottare provvedimenti a carico del responsabile con grande severità: questo è il metodo più corretto per procedere. Nutro solo una preoccupazione, quella che si sappia all'esterno che il pentito, ancorché simpatico, ha trattato la Commissione con sufficienza, alla stregua di ragazzi in libertà ai quali si può far conoscere soltanto una parte della verità, dato che le rivelazioni più importanti verranno affidate ai magistrati. Ripeto, ho solo questa preoccupazione che, peraltro, mi passa subito.

PIERO MARIO ANGELINI. Poiché siamo vanitosi come Buscetta, ci preoccupiamo della nostra immagine e dell'opinione pubblica: sinceramente mi preoccuperei di più del rapporto tra noi ed i collaboratori della giustizia. Buscetta ha chiaramente affermato che ai giudici parlerà in un modo, a noi ha parlato in un altro, perché sa che dialogando con noi, parla a tutta la nazione. Quindi, personalmente mi interessa poco quello che è successo oggi, perché ormai la situazione è compromessa, mentre mi preoccupa quello che accadrà in futuro. Non è la stessa cosa se Mutolo - e gli altri collaboratori che ascolteremo - saprà di parlare ad una piazza pubblica oppure ad un nucleo di persone riservate. La riservatezza è l'unica condizione che questa Commissione deve osservare se vuole lavorare seriamente; diversamente, ci troveremo dinnanzi a confessioni evirate perché gli uditi sanno che ogni commissario riporterà le dichiarazioni secondo il proprio punto di vista. Se veramente si vuole potenziare il lavoro della Commissione antimafia, si deve dire chiaramente a Mutolo, o a chi verrà, che le rivelazioni sono raccolte da un gruppo di persone che tiene la bocca chiusa; altrimenti, che senso ha parlare con i collaboratori della giustizia?

PRESIDENTE. Colleghi, prima di procedere alla votazione vorrei segnalarvi una questione che non è stata trattata nel corso degli interventi dei commissari, ossia quella del perseguimento dello scopo. Poiché abbiamo deciso - quasi all'unanimità - di lavorare in un certo modo, facendo chiarezza su taluni argomenti e presentando una relazione compiuta al Parlamento, è necessario capire che cosa giovi o danneggi il lavoro. In quest'ottica, il tipo di reazione registrata dopo l'audizione di Calderone non mi pare abbia giovato allo scopo. Come avrete notato, Buscetta si è riferito esplicitamente al pericolo di ritorsione da parte di singoli, tanto che ha operato una scelta molto chiara nel senso cioè che i nomi li avrebbe detti ai giudici, mentre il quadro politico lo avrebbe delineato alla Commissione. Ora, senza peraltro esprimere opinioni, chiedo ai colleghi di valutare quale delle due scelte risulti più funzionale - mi riferisco alla segretezza o alla pubblicità della riunione - per la presentazione, in tempi rapidi, di una relazione seria al Parlamento. Naturalmente si pone il problema della serietà di ciascuno di noi in ordine alle dichiarazioni che si rilasciano. La Commissione non può adottare provvedimenti punitivi nei confronti di chi viola queste regole, anche se ritengo si debba assumere un orientamento tale per cui, una volta deciso per la seduta segreta, se un commissario parla deve necessariamente stabilire se stare dentro o fuori.

ALTERO MATTEOLI. Se sono state rilasciate dichiarazione agli organi di stampa, non possiamo sculacciare il responsabile. Rilevo però che il collega, con la sua azione, autorizza tutti noi a fare altrettanto. Poiché abbiamo atteso la fine della seduta per decidere sulla segretezza o sulla pubblicità - anche noi, che eravamo favorevoli alla pubblicità - non possiamo uscire dalla sala e stare zitti, perché dobbiamo rispetto agli elettori.

Pag. 432 Rilasceremo le dichiarazioni responsabilmente, perché non me la sento di non fare dichiarazioni (ai giornali di partito o agli amici giornalisti), visto che altri hanno ritenuto di rilasciarne durante la seduta.

ALFREDO BIONDI. Questo già risulta?

 ALTERO MATTEOLI. L'ha detto il collega e va acclarato. Non faccio altro che prendere contezza delle dichiarazioni di qualche attimo fa del collega Ricciuti. Se effettivamente sono state rilasciate dichiarazioni, non c'è scorrettezza da parte della Commissione verso l'esterno, ma nel rapporto interno. Il presidente avrà capito che sono portato per temperamento a dire ciò che penso: all'inizio della seduta ho pensato che l'ufficio di presidenza non si fosse comportato correttamente e l'ho detto; e così intendo andare avanti. Tuttavia, se appurerò che qualcuno ha rilasciato dichiarazioni, farò altrettanto, ossia rilascerò dichiarazioni responsabili, valutandole insieme con i colleghi del mio gruppo, ma la farò perché non intendo farmi dire da chicchessia "gli altri hanno parlato, voi no!"

PRESIDENTE. Colleghi, una volta esisteva il senso dello Stato ed io chiedo che venga considerato. C'è un punto fondamentale nella tenuta delle istituzioni e concerne i rapporti tra mafia e politica: penso che la Commissione abbia la legittimità e la forza di svolgere questa difficile indagine a condizione che vengano mantenuti comportamenti coerenti con la qualità della scelta operata. Altrimenti, occupiamoci degli spacciatori e del tabacco e basta! Occorre verificare se i comportamenti, le regole e la tenuta della Commissione siano all'altezza degli obiettivi: se non dovesse esistere questo livello, ripeto, sarebbe meglio lasciar perdere. Se qualcuno ha violato la regola, non è detto che tutti siano tenuti a comportarsi alla stessa maniera. Se qualcuno ha violato io, responsabilmente ed avvertendo il senso della tenuta istituzionale, non farò altrettanto. Credo, quindi, si ponga non tanto un problema di punibilità, quanto di incompatibilità: abbiamo votato, si è imposta una regola, la dobbiamo osservare tutti. Se qualcuno l'ha violata, ripeto, credo si ponga un problema di incompatibilità (comunque, non so se qualcuno abbia rilasciato dichiarazioni, perché io non mi sono mai mosso dalla sala). Tra l'altro, poiché si è stabilito di fare il punto della situazione a dicembre, ciò significa che passeranno solo alcune settimane e quindi l'esigenza di far conoscere può essere contenuta nell'arco di pochi giorni. Quanto poi alla possibilità di ricorrere ad un comunicato, ho dei dubbi, perché ogni parola può significare venticinque cose diverse. La conferenza stampa, poi, meno che mai. Vi chiedo quindi di valutare questi aspetti, che non sono assolutamente secondari.

GIOVANNI FERRARA SALUTE. Proprio in relazione a questi aspetti tutt'altro che secondari bisogna fare alcune considerazioni. Condivido le affermazioni del presidente, si impone il riconoscimento reciproco e a priori del senso di responsabilità. Se domani appariranno sui giornali alcune notizie, ciascuno di noi potrà essere sospettato di averle divulgate, per ragioni più o meno obiettive: cosa dovrebbe fare, forse discolparsi? La materia è estremamente difficile da definire. Per quanto mi riguarda, posso dire che non parlerò con nessuno dell'audizione di oggi, anche se non mi sembra sia emerso nulla di particolarmente drammatico. Se le indiscrezioni ci saranno lo stesso, posso solo confermare di non averne colpa. Ferma restando l'opportunità che ciascuno di noi mantenga la riservatezza, esiste un altro problema: se mantenessimo segreta la seduta, riusciremmo a sapere dai pentiti più di quanto sarebbero disposti a dirci nel corso di un'audizione pubblica? Ne dubito, perché la sfiducia

Pag. 433 probabilmente è dovuta a motivi più generali, cioè al sospetto che comunque non si voglia tenere il segreto. Il presidente ha richiamato al senso dello Stato ed alla responsabilità verso il paese. Allora, in futuro, occorrerebbe chiedersi se questa Commissione non dovrebbe esercitare la propria autorità nei confronti di chi viene ascoltato. In questo caso abbiamo permesso - ed abbiamo fatto bene - che il signor Buscetta non ci rispondesse quando non voleva. Sapete che questo comportamento sarebbe molto difficile da tenere dinanzi ad una Commissione del Senato americano: si verrebbe facilmente tradotti in un carcere federale. Per il futuro dobbiamo stabilire fino a che punto possiamo consentire la libera scelta di chi viene sostanzialmente non in stato di assoluta libertà se parlare o meno. Tornando ai fatti, credo all'opportunità del segreto ma dubito che ci credano gli altri, per cui il segreto stesso rischia di diventare una pura formalità, con lo svantaggio che - in assenza di un comunicato, molto complesso da elaborare - sarà difficile contestare notizie distorte che un domani dovessero apparire sulla stampa. Di conseguenza, ritengo che sia preferibile la pubblicità dei lavori, affinché si possa controllare quanto viene riferito.

VITO RIGGIO. Ho votato all'inizio per la seduta segreta, ma devo dire che a questo punto sono necessari, oltre alla convergenza ed un forte senso delle istituzioni, anche la consapevolezza di quanto accade in questa sede. Finora abbiamo ascoltato i pentiti Calderone e Buscetta, che rappresentano la storia della mafia; ci apprestiamo ad ascoltare pentiti che sono ricercati da Cosa Nostra e che sono in pericolo di vita. Se l'approccio è di tale leggerezza, per cui affrontiamo il lavoro in questa come in una qualsiasi Commissione parlamentare, e se il membro di un gruppo viola una regola anche gli altri ritengono di doverlo fare, mi rifiuterò di partecipare alle successive audizioni. Probabilmente non si ha la percezione di cosa possa significare, in particolare per alcuni, far capire che si sanno cose e non si vogliono dire o far dire cose che non andrebbero dette. Per motivi del genere è morta della gente. E' stato per consentire un filtro che avevo votato in favore della seduta segreta, per evitare una possibile interferenza con l'inchiesta della magistratura. Questo argomento non può essere sottovalutato e credo che abbia costituito la ragione di fondo, per lo meno quella che così è stata presentata, dell'atteggiamento del signor Buscetta. Sono altresì convinto che il clamore fatto intorno all'audizione di oggi abbia finito con il vanificarne gli effetti. Deve essere perciò chiaro che a volte, sotto l'istanza della trasparenza e della pubblicità, possono nascondersi atteggiamenti di sostanziale negazione degli obiettivi dell'inchiesta. Pertanto, occorre rispettare rigorosamente le regole. Non si tratta di dare segnali: quando si vota per la segretezza di una seduta, questa deve rimanere segreta e deve esserlo per tutti. Se non siamo in grado di garantirlo, dobbiamo pagarne il costo, cioè depotenziare la nostra attività rendendola pubblica. Non vedo alternative, a causa di una nostra debolezza dobbiamo dare pubblicità perché non siamo capaci di fare altrimenti, non perché sia la scelta più corretta.

GIANCARLO ACCIARO. Confesso che questa mattina sono partito deluso perché ho sentito il giornale radio. Inorridisco però quando sento dire dal collega che durante la seduta probabilmente qualcuno ha reso dichiarazioni pubbliche. Come ha giustamente affermato il presidente, la nostra responsabilità è di rendere dichiarazioni ben ponderate, attraverso una persona che sia credibile. Se quanto è stato detto è vero, viene una gran voglia di apparire sui giornali di domani. Io non sono un deputato molto conosciuto ed ho un grande bisogno

Pag. 434 di pubblicità, ma ritengo gravissimo quanto pare sia accaduto. Un certo modo di agire sminuirebbe la portata delle dichiarazioni che sono state rese in questa sede e porterebbe a riflettere se non ci sia un modo migliore per passare il tempo, anziché stare qui ed essere poi gli "ultimi della classe".

ALFREDO BIONDI. Esistono tre problemi, il primo dei quali è stato risolto dal signor Buscetta, relativo all'interferenza tra le sue dichiarazioni e l'attività che sta svolgendo l'attività giudiziaria. In proposito, mi permetto di suggerire una preselezione delle materie che possono costituire intralcio alle indagini, anziché lasciare ai nostri interlocutori questo compito. La questione riveste aspetti di opportunità ed ha risvolti sull'efficienza delle indagini giudiziarie in corso. L'unica soluzione è la stessa segretezza seguita dall'autorità giudiziaria; la Commissione, infatti, agisce con i medesimi poteri ma anche con gli stessi limiti. Non si tratta soltanto di cortesia e rispetto reciproco, ma anche di rispetto della legge. Per quanto mi riguarda, nonostante io sia poco portato alla riservatezza, sono tentato di resistere alle pulsioni di apparenza più che di sostanza. Del resto, sarebbe buffo far sapere che Buscetta non ha risposto a tutte le domande perché non si fida di noi. Il secondo problema riguarda la pubblicità della seduta, nel senso che fin dall'inizio, qualunque cosa succeda, si deve decidere se la seduta debba essere pubblica o segreta: usque ad sidera, usque ad infera. Non vorrei che dessimo l'impressione che qui dentro non sia stato detto niente mentre, secondo me, oggi è stata una giornata molto importante. Anch'io, come il collega Galasso, ho partecipato come parte civile al maxiprocesso e devo riconoscere che il quadro generale è riemerso ed è stato sottolineato. Credo che l'audizione odierna debba essere resa pubblica; chiedo però che si riunisca quanto prima l'ufficio di presidenza per concordare il metodo di lavoro riguardo alla segretezza delle sedute di audizione dei pentiti. Ho la sensazione che, per il bene delle finalità che intendiamo perseguire, dobbiamo decidere se interferire o no in ciò che è di competenza dell'autorità giudiziaria. Non va dimenticato che c'è anche il problema di salvaguardare la reputazione delle persone che può essere messa in discussione dall'uno o dall'altro argomento o da un eccesso di "istinto venatorio" che può avere il pentito. Se decidiamo che tutto il nostro lavoro debba essere pubblico, allora assumiamo l'iniziativa di decrittare fin dall'inizio le audizioni; se invece pensiamo che in tal modo rischiamo di intralciare il lavoro dell'autorità giudiziaria, decidiamolo noi ma non lasciamo tale decisione al pentito perché è abbastanza imbarazzante che egli sia più realista del re.

PRESIDENTE. Vorrei chiarire che il problema di interferenza con il lavoro dell'autorità giudiziaria non si pone perché essa è stata informata dell'audizione odierna. Come, mi sembra con correttezza, ho ricordato ricevendo anche qualche rampogna dai colleghi, essa ha posto il limite su due temi che non sono stati oggetto di nessune delle domande poste.

ALFREDO BIONDI. Anche questa è una "mordacchia".

PRESIDENTE. Ma quale "mordacchia"! Nessuno ha posto quelle domande.

ALFREDO BIONDI. Le domande non sono state poste perché non conoscevamo gli argomenti.

PRESIDENTE. Vi prego inoltre di tenere conto che Buscetta ha fatto oggi un lavoro molto importante, ha delineato vari quadri che costringono l'autorità giudiziaria a porre una serie di domande. Non è vero che egli abbia messo da parte certe cose a favore di altre; essendo un

Pag. 435 uomo intelligente, ha considerato la nostra una sede politica e qui ha dipinto una serie di quadri politici, riservandosi di fare ai giudici i nomi. In questo modo ha costretto - sia detto tra virgolette - l'autorità giudiziaria interessata a porre certe domande che non può a questo punto più fare a meno di porre.

ALFREDO BIONDI. Mi sembra di non aver rivolto critiche alla seduta.

PRESIDENTE. Certamente, ma era mia intenzione sottolineare certi aspetti circa l'interferenza con l'autorità giudiziaria. Se sulla pubblicità dei lavori deve decidere l'ufficio di presidenza, è evidente che esso avrà luogo al termine della seduta.

ALTERO MATTEOLI. A me sembra che il problema sia superato perché abbiamo appurato che sono state rilasciate alcune dichiarazioni: secondo le agenzie di stampa, alle ore 17.40 il collega Galasso ha ritenuto di rilasciare una dichiarazione.

ALFREDO GALASSO. Bisogna vedere che cosa!

ALTERO MATTEOLI. Rimane il fatto che la dichiarazione è avvenuta prima che noi decidessimo in merito alla segretezza della seduta.

ALFREDO GALASSO. Ho fatto una dichiarazione, non ho raccontato nulla.

MASSIMO BRUTTI. Non credo che sia di particolare rilevanza il fatto che qualcuno abbia rilasciato una dichiarazione, perché su ciò deciderà l'opinione pubblica (Commenti del deputato Piero Mario Angelini). Bisogna verificare quale sia l'oggetto della dichiarazione e se infranga il principio della pubblicità; comunque, ritengo che questo non sia tema di discussione, anche perché in questo momento non abbiamo poteri sanzionatori nei confronti di colui che abbia rilasciato dichiarazioni in contrasto con il dovere di segretezza. Il punto è che all'inizio della seduta abbiamo stabilito di mantenere segreta l'audizione, riservandoci di decidere alla fine se e quali parti rendere pubbliche. Ritengo che quello di scegliere di volta in volta sia il criterio migliore da seguire perché i collaboratori della giustizia che verranno qui devono sapere che la parte delle loro dichiarazioni che tocca determinate personalità potrà essere tenuta segreta, e ciascuno di noi ha l'obbligo di rispettare il dovere di segretezza. In questo momento siamo in grado di dire che nulla di quello che abbiamo sentito oggi costituisce turbativa per le indagini in corso o lede l'onorabilità di qualcuno. A questo punto, penso che si debba mettere in votazione la proposta di rendere pubblica l'intera audizione del collaboratore Buscetta, riservandoci per le prossime audizioni di decidere dopo aver valutato il tenore delle dichiarazioni rese.

MARCO TARADASH. A me sembra che il problema di oggi si riproporrà in futuro in modo esponenziale. Le prossime audizioni riguarderanno collaboratori che parleranno dell'attualità e non della preistoria della mafia e toccheranno l'onorabilità di persone che agiscono pubblicamente. Nell'assumere una decisione dobbiamo anche tener conto delle eventuali interferenze con l'azione portata avanti dalla magistratura. Quanto ai rapporti con la stampa, nel nostro paese essa è stata abituata da alcuni esponenti della politica a riferire quello che viene detto qui dentro come se fosse acquisito e verificato. Credo che nel prossimo ufficio di presidenza si dovrà valutare l'opportunità di continuare con le audizioni dei collaboratori della giustizia. Se esse si rivelano inutili perché i collaboratori non si fidano della Commissione e questa, a sua volta, non esercita i poteri di far giurare il teste o di incriminare eventualmente quello reticente, non vedo perché si debba

Pag. 436 continuare con queste audizioni che non servono a nulla e creano soltanto sospetto, interferenze e un clima intimidatorio da parte dal mondo esterno nei nostri confronti nel caso in cui vogliamo lavorare correttamente e quindi non dichiarare pubblico tutto quello che viene detto qui dentro.

PRESIDENTE. Desidero precisare che i testimoni non giurano e che, grazie ad una serie di pressioni esercitate anche dal gruppo federalista europeo, non è più prevista la contestazione immediata del teste. Pongo in votazione la proposta di revocare la segretezza della seduta. (E' approvata). La seduta termina alle ore 18,15.

Pag. 437 ALLEGATO Pag. 438 Pag. 439 Dichiarazione finale rimessa per iscritto dal signor Tommaso Buscetta: "Signor Presidente della Commissione Antimafia, ritengo utile e doveroso affidare a queste brevi note il mio più vivo ringraziamento per l'occasione che Ella ed i suoi colleghi parlamentari mi avete offerto di esprimere in piena libertà e con serenità le mie considerazioni su quel gravissimo fenomeno delinquenziale rappresentato dalla "cosa nostra" siciliana. Attraverso di voi ho potuto oggi esprimere con chiarezza un concreto grido d'allarme, che mi auguro sarà ascoltato da tutti sul grave rischio cui la società civile è esposta se scegliesse di continuare a convivere con la mafia e non decidesse di liberarsi, una volta per tutte, di questa realtà criminale. Con la stessa forza e con altrettanta chiarezza credo di aver espresso la mia fiducia che questa lunga battaglia contro "cosa nostra", fino ad oggi combattuta a fasi alterne, possa una volta per tutte essere affrontata con determinazione ed in modo tale da provocare la sua definitiva scomparsa dal vivere civile. Sono stato un mafioso e sono oggi un uomo libero degno di essere accettato dalla società ed in questa mia nuova veste voglio rinnovare il mio impegno a proseguire nella battaglia che ho intrapreso tanti anni addietro a fianco del giudice Falcone. In questa logica mi permetto di suggerire, attraverso di Lei e tutto il Parlamento italiano, alcune mie considerazioni sulle modalità che io, sulla base della mia esperienza di mafioso, ritengo utile per la definitiva sconfitta della mafia. E' innanzi tutto necessario che questa grave realtà delinquenziale sia conosciuta nella sua effettiva dimensione e nella sua capacità di colpire lo Stato e i suoi uomini migliori. Perché ciò avvenga non si può fare a meno di quelle persone che, avendo militato all'interno della "cosa nostra", ne conoscono a fondo le regole ed i segreti. E queste persone sono i cosiddetti pentiti. Persone che hanno spesso sofferto per primi sulla loro pelle la crudeltà e la violenza mafiosa, persone che hanno sofferto per una difficile scelta personale e che spesso non sono state nemmeno apprezzate per il contributo che hanno offerto nell'accertamento della verità e dei fatti. A queste persone bisogna offrire la possibilità di essere sereni nella loro scelta di vita e la certezza di essere sostenuti dal consenso Pag. 440 di quanti vogliano lottare contro la mafia. Perché i loro racconti siano sostenuti da prove è anche necessario che a coloro che decidono di collaborare con la giustizia sia consentito di affrontare con serenità il giudizio della pubblica opinione e di poter contare sulla benevolenza della legge e dei giudici che sono chiamati ad applicarla. Ed ecco allora la necessità che lo stato aiuti questi collaboratori a manifestare in piena libertà tutte le loro conoscenze e anche le loro colpe nella certezza però di poter contare sul sostegno di quella società civile che in fondo stanno in qualche modo proteggendo da un male grave come la mafia. Se queste leggi arriveranno, se sarà data fiducia ai pentiti, se saranno rese operanti le strutture dello Stato e nelle stesse potranno essere chiamati a prestare la loro opera gli uomini migliori, giudici e poliziotti, allora la strada per sconfiggere la mafia sarà tutta in discesa. Scomparirà quella "cosa nostra" che ha tenuto per tanto tempo la società civile e forse resterà una normale criminalità senza regole e senza tradizioni, che le strutture dello Stato potranno facilmente tenere sotto controllo. Per quanto mi riguarda, Signor Presidente, continuerò ad essere a Sua disposizione, del Parlamento, delle Istituzioni tutte e del nostro Paese. Se sarà necessario resterò in Italia, rischiando in prima persona, offrendo la mia conoscenza pregressa e la mia capacità di interpretare i fatti di mafia e potrò così essere ancora utile. Con gratitudine, i miei ossequi. 17 novembre 1992. Buscetta Tommaso

Mafia, due casi di lupara bianca e le parole del ragazzino di 11 anni. Orecchie, naso e dita tagliate, nipotino al nonno boss: “In famiglia hanno una laurea in chirurgia senza anestesia”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 24 Settembre 2021. “Nella famiglia di nonna sono laureati, in quella di nonno hanno una laurea in rispetto, in chirurgia senza anestesia”. Sono raccapricciante le parole di un ragazzino di appena 11 anni a colloquio in carcere con il nonno Salvatore Sanfilippo, 58enne capo dell’omonima cosca attiva a Mazzarino (Caltanissetta) e raggiunta nelle scorse ore da un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 55 persone, nell’ambito dell’operazione denominata Chimera, gravemente indiziati, a vario titolo, dei delitti di associazione di tipo mafioso, omicidio, estorsioni (consumate e tentate), reati in materia di armi e di sostanze stupefacenti, aggravati dal metodo mafioso. Il nipotino, stando a quanto emerso nelle indagini condotte dai carabinieri di Caltanissetta e Gela (coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia nissena), sottolineava a colloquio con il nonno la differenza socio-culturale tre le due famiglie, probabilmente riportando parole apprese nell’ambito di discorsi tra parenti del padre, anch’esso detenuto. Parole inquietanti soprattutto se si considerano i due casi di lupara bianca ricostruiti dopo decenni dai carabinieri (guidati dal Colonnello Ivan Boracchia, al comando del Reparto territoriale dei Carabinieri di Gela, e dal Colonnello Vincenzo Pascale, Comandante Provinciale di Caltanissetta) e che avrebbero visto le due vittime torturate (anche con il taglio di orecchie, naso e dita) e strangolate. Due omicidi cruenti, da esperti di “chirurgia senza anestesia”, ricostruiti già in passato (1995) dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia ma riscontrati, attraverso intercettazioni ambientali e attività tecniche, solo negli ultimi anni con gli odierni indagati che ricordavano e rievocavano i dettagli della macelleria mafiosa. Si tratta di due omicidi, maturati nel contesto della guerra di mafia tra Cosa Nostra e Stidda, cui il clan Sanfilippo era legato, avvenuti nel 1984 e nel 1991. Il primo vide come vittima un operaio di 22 anni, Benedetto Bonaffini, originario di Mazzarino e sospettato di appartenere ad uno dei gruppi criminali rivali. Stando alla ricostruzione degli investigatori, il giovane venne attirato con l’inganno da un suo amico in un luogo isolato e strangolato dopo essere stato picchiato a sangue. Il corpo non è mai stato ritrovato. Sette anni dopo, nel 1991, Luigi La Bella, 28 anni, anche lui di Mazzarino, venne torturato e ammazzato, sempre attraverso lo strangolamento perché sospettato di essere il custode delle armi del clan rivale nonché specchiettista (o vedetta) nel corso di un duplice omicidio che causò la morte di due “soldati” dei Sanfilippo. L’uomo, convocato in un’abitazione del clan, prima di essere strangolato, è stato interrogato per ore, torturato e mutilato mediante il taglio delle orecchie, del naso e delle dita. Anche in questo caso il corpo, gettato all’interno di un pozzo di campagna, non è stato mai ritrovato. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

La guerra di mafia, Mattarella e Dalla Chiesa: l’altra faccia della strategia della tensione. L’Italia 40 anni dopo aspetta ancora la verità. Roberto Leone su La Repubblica il 22 aprile 2021. La strategia del terrore di Cosa nostra degli anni 80 inserita nello scenario politico italiano e internazionale: dall’omicidio Moro, all’attentato a Wojtyla sino ai missili Usa nella base di Comiso, in gioco il destino dell’Europa tra Nato e Patto di Varsavia. Il grande business dell’eroina e il riciclaggio del narcotraffico. La paura dei comunisti al governo, la voglia di cambiamento, i servizi segreti: seguire il filo delle date per riannodare quello della storia. Quarant’anni fa, esattamente il 23 aprile 1981, veniva ucciso Stefano Bontade, il boss della mafia palermitana che più di ogni altro incarnava l’equilibrio tra crimine politica e affari. Per molti questa data ha segnato l’inizio della seconda guerra di mafia, dopo la prima che si era combattuta negli anni ‘60. Lo scontro tra i clan corleonesi e quelli palermitani, secondo le ricostruzioni sin qui fatte, era motivato dal desiderio di gestire in prima persona i proventi nel traffico di droga diventato, a metà degli anni ‘70, la principale attività criminale di Cosa nostra.

Il delitto il 3 settembre 1982. Chi era Carlo Alberto Dalla Chiesa, il generale ucciso a Palermo in un agguato dalla Mafia. Vito Califano su Il Riformista il 3 Settembre 2021. Era il 3 settembre 1982 quando il generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa veniva ucciso a Palermo, vittima di un agguato mafioso. Nell’attacco morirono anche la moglie, Emanuela Setti Carraro, e l’agente della scorta Domenico Russo. “La loro barbara uccisione rappresentò uno dei momenti più gravi dell’attacco della criminalità organizzata alle Istituzioni e agli uomini che le impersonavano – ha scritto in una nota il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella – ma, allo stesso tempo, finì per accentuare ancor di più un solco incolmabile fra la città ferita e quella mafia che continuava a volerne determinare i destini con l’intimidazione e la morte. A quell’odiosa sfida la comunità nazionale nel suo complesso, pur se colpita e scossa, seppe reagire facendosi forte della stessa determinata e lucida energia di cui Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva già dato esempio, durante il suo brillante percorso nell’Arma dei Carabinieri, nell’impegno contro organizzazioni criminali e terroristiche”. Dalla Chiesa era nato a Saluzzo, provincia di Cuneo, il 27 settembre 1920. Figlio di un ufficiale dei carabinieri – Romano, di origini emiliane come la madre – che diventerà vicecomandante generale dell’Arma. Proprio come il figlio. La madre si chiamava Maria Laura Bergonzi. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale partecipò alle operazioni militari nei Balcani come sottotenente di complemento. Si laureò in Giurisprudenza e in Scienze Politiche. Al momento dell’armistizio era responsabile della caserma di San Benedetto del Tronto. “Durante l’occupazione nazista – come raccontò in un’intervista a Enzo Biagi ripresa dalla Treccani – dopo essersi rifiutato di prendere parte ad azioni anti-partigiane, collaborò con i gruppi di resistenti nel territorio marchigiano fino alla fine dell’anno, quando riuscì a passare le linee nemiche. Molti anni dopo avrebbe dichiarato che quella resistenziale era stata una delle esperienze più importanti della sua vita, dal momento che ‘mi trovai alla testa di bande di patrioti e responsabile di intere popolazioni’”. Dalla Chiesa indossò la divisa a 22 anni e ricevette il primo incarico in Campania, destinato alla compagnia di Casoria, Legione di Napoli. A luglio del 1946 sposò a Firenze Dora Fabbo, conosciuta a Bari, figlia di un ufficiale dei carabinieri. E nel 1947, a Casoria, nacque la prima figlia: Rita, cui seguirono Fernando e Simona Maria. Di questi tempi le operazioni contro la criminalità. Entrò a far parte del Corpo di Forze Repressione Banditismo (CFRB) che operava in Sicilia. Gli fu assegnato il comando del Gruppo Squadriglie di Corleone. La sua principale indagine fu sull’omicidio del sindacalista socialista Placido Rizzotto. Alla conclusione delle indagini tornò a Firenze, per passare poi a Como, a Milano e a Torino. Dal luglio del 1966 assunse il comando della Legione di Palermo. Fronteggiò la cosiddetta “Prima Guerra di Mafia” e fu organizzatore dei soccorsi in occasione del terremoto del Belice, nel 1968, Sicilia Sud-Occidentale. Per il suo impegno i comuni di Gibellina e Montevago lo insignirono con la cittadinanza onoraria. Suo il rapporto dei 114: una mappa dei nuovi e vecchi capimafia siciliana. Per la prima volta, nel documento stilato da Dalla Chiesa, apparivano nomi che sarebbero stati spesso protagonisti di fatti di Mafia, anche negli anni a venire. Quindi il trasferimento a Torino, ambiente caldissimo sul fronte del terrorismo rosso, e quindi promosso a generale venne assunto alla guida della divisione Pastrengo a Milano. Su sua proposta il governo accettò la proposta di contrastare il terrorismo al Nucleo Speciale di Polizia Giudiziaria. Prima di passare a Milano fu assegnato alla guida del Coordinamento del servizio di sicurezza esterna degli Istituti Penitenziari (Sicurpena). Dora morì nel febbraio del 1978, stroncata da un infarto. “Per il generale il colpo fu durissimo, anche perché riteneva di avere una parte di responsabilità, avendo costretto la moglie a una vita di lontananze prolungate e attese angosciose. Fu da quel momento che iniziò a tenere un diario personale, scritto sotto la forma di lettere a Dora”, scrive ancora la Treccani. Dalla Chiesa fece parte anche di un gruppo di lavoro del ministero degli Interni durante il sequestro di Aldo Moro. Gli fu assegnata dal ministro Virginio Rognoni la guida di una nuova struttura di contrasto al terrorismo. Alla Pastrengo a Milano arrivò nel 1979. Il 19 febbraio 1980, a Torino, fu arrestato il brigatista Patrizio Peci, che divenne il primo e più importante collaboratore di giustizia. A partire dalle dichiarazioni di questi furono arrestati decine di militanti, smantellati i gruppi di Genova e Milano ma una sparatoria in un covo a Genova causò la morte di quattro brigatisti. Le polemiche furono enormi. Dalla Chiesa ammise anche, dopo l’esplosione del caso, di aver fatto domanda di iscrizione alla Loggia massonica P2, su insistenza di un suo ex superiore. Domanda che non aveva però avuto seguito. Dalla Chiesa sostenne e fece pressioni anche per rinchiudere i brigatisti nelle carceri di massima sicurezza. Fu nominato vice comandante dell’Arma alla fine del 1981 ma nel 1982 andò a Palermo per contrastare la Mafia in qualità di Prefetto. Il momento era drammatico: era in corso la cosiddetta “Seconda Guerra di Mafia”. “Subito dopo avere accettato l’incarico, però, in una lettera al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini, Dalla Chiesa non soltanto chiese un impegno più esplicito e concreto a sostegno della sua azione, ma espresse anche preoccupazione sull’ostilità di alcuni ambienti democristiani locali, da lui ritenuti i più legati alle cosche mafiose”, scrive ancora la Treccani. Pochi giorni prima l’inizio dell’incarico venne assassinato Pio La Torre, segretario regionale del Partito Comunista Italiano. “Come nella lotta al terrorismo, anche in questo caso la sua azione procedette su due piani. Sotto l’aspetto investigativo, Dalla Chiesa si interessò all’ascesa dei corleonesi, all’estensione del fenomeno anche alla Sicilia orientale (con la formazione di un asse Palermo-Catania) e alla sua marcata internazionalizzazione. Da un punto di vista psicologico, il prefetto si rendeva conto che, in un contesto caratterizzato da sfiducia e rassegnazione, era fondamentale far sentire la presenza delle istituzioni e sensibilizzare l’opinione pubblica. Nel complesso, però, attorno alla venuta di Dalla Chiesa, in alcuni ambienti sembrava esserci diffidenza, quasi fastidio”. Dalla Chiesa si risposò: con un’infermiera volontaria, Emanuela Setti Carraro. La sera del 3 settembre 1982, in via Isidoro Carini a Palermo, un commando affiancò l’auto sulla quale viaggiava la coppia. Il delitto fu subito inquadrato nella corsa al potere dei corleonesi in ascesa, successivamente in una cornice politica più ampia. Il pentito di Mafia Tommaso Buscetta mise in relazione il delitto con quello del giornalista Carmine Pecorelli, che secondo il collaboratore sarebbe stato messo a conoscenza dal Generale dell’intero memoriale di Aldo Moro. Pochi giorni dopo l’omicidio fu approvata la legge Rognoni-La Torre che introduceva il reato di associazione mafiosa. La storia di Dalla Chiesa è stata anche raccontata in diversi film, come Il generale Dalla Chiesa, diretto da Giorgio Capitani con Giancarlo Giannini nei panni del generale. “Esiste un "prima" e un "dopo" via Carini – ha scritto per questo giornale Alberto Cisterna – che non ha eguali in tanti decenni di lotta alle mafie; perché la predisposizione di un reato di associazione mafiosa – punita come distinta e separata dalla più vetusta associazione per delinquere (articolo 416) – ha segnato un traguardo di definitiva consapevolezza circa la peculiare e specifica minaccia che all’ordine costituito derivava dall’operatività dei clan. Non solo associazioni criminali, ma entità voraci di potere e alimentate da un’insaziabile e, a tratti, incontrollabile violenza. Da questo angolo visuale il sangue versato da Carlo Alberto Dalla Chiesa pesa e molto nella storia, in gran parte ancora da scrivere, della lotta alla mafia”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

La (vera) storia de Il generale Dalla Chiesa. Erika Pomella il 3 Settembre 2021 su Il Giornale. Il generale Dalla Chiesa è un'opera che porta sul piccolo schermo la storia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che svolse un ruolo fondamentale nella lotta contro la mafia. Il generale Dalla Chiesa - che andrà in onda questa sera su Canale 5 alle 21.24 - è il film di Giorgio Capitani che vede Giancarlo Giannini vestire i panni del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, padre di Rita Dalla Chiesa, ma soprattutto simbolo di quell'Italia onesta e onorevole che non si è mai piegata ai soprusi. Un eroe che ha combattuto contro la mafia e il terrorismo, senza mai arrendersi davanti alla criminalità.

Il generale Dalla Chiesa, la trama. Nato come miniserie in due episodi, Il generale Dalla Chiesa è il film che ripercorre la vita di Carlo Alberto Dalla Chiesa (Giannini): dai primi passi nel mondo militare, passando per l'impegno durante la Seconda guerra mondiale, fino alla lotta contro il terrorismo e la mafia. L'opera di Giorgio Capitani racconta anche i matrimoni dell'uomo, prima con Dora Fabbo Dalla Chiesa (Stefania Sandrelli) e poi con Emanuela Setti Carraro (Francesca Cavallin).

Chi era Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa è riconosciuto come uno dei più alti simboli della lotta contro la mafia, nonché un vero e proprio eroe per l'arma dei carabinieri. Nato a Saluzzo il 27 settembre 1920, il generale Dalla Chiesa era figlio di un ufficiale dei carabinieri che, come riporta la Treccani, si ritirò nel 1955 con il grado di vice comandante generale dell'Arma. Questo fece sì che Carlo Alberto Dalla Chiesa crescesse in un ambiente dove la legge, l'onore e l'amore per la patria fossero elementi fondamentali. Un ambiente domestico caratterizzato dal rispetto e dall'amore per l'Arma dei Carabinieri, che aveva dato un lavoro anche al fratello minore Romolo Dalla Chiesa. Carlo Alberto Dalla Chiesa inizia la sua carriera militare nel 1941, quando viene scelto come sottotenente durante la guerra del Montenegro. Un anno dopo, dopo essere entrato nei carabinieri, come racconta il sito dell'Arma dei carabinieri, "viene assegnato alla tenenza di San Benedetto del Tronto". Ebbe anche un ruolo importante durante la Seconda guerra mondiale e l'occupazione nazista: si rifiutò sempre di svolgere azioni anti-partigiane e anzi collaborò attivamente, diventando responsabile delle trasmissioni radio clandestine, che avevano un canale aperto con le forze degli alleati americani. Come riporta ancora il sito della Treccani, Dalla Chiesa considerò il suo servizio durante la Seconda guerra mondiale come una delle esperienze fondamentali non solo della sua carriera, ma della sua intera esistenza. In particolare sottolineò l'importanza della resistenza, che ricordò sempre con molto onore perché "mi trovai alla testa di bande di patrioti e responsabile di intere popolazioni." Nel luglio del 1946 sposò Dora Fabbo, anche lei discendente da una famiglia dedita all'Arma. Dal matrimonio nacque Rita Dalla Chiesa, nota conduttrice televisiva: a lei seguirono altri due figli, Fernando Dalla Chiesa e Simona Maria Dalla Chiesa. Nel settembre del 1949 entrò a far parte del Corpo Forze Repressione Banditismo (CFRB) in Sicilia: dopo aver vissuto per alcuni anni ad Agrigento con il padre, Dalla Chiesa aveva un rapporto di profondo amore per la Sicilia, che divenne ancora più forte quando il suocero assunse il comando della Legione di Palermo. Per la sua attività al CFRB Dalla Chiesa ricevette una medaglia d'argento al valor militare. Sul sito dei carabinieri si può leggere la motivazione di tale onore, in cui è scritto: "Durante nove mesi di lotta contro il banditismo in Sicilia cui partecipava volontario, dirigeva complesse indagini e capeggiava rischiosi servizi, riuscendo dopo lunga, intensa ed estenuante azione a scompaginare ed a debellare numerosi agguerriti nuclei di malfattori responsabili di gravissimi delitti. Successivamente, scovati i rifugi dei più pericolosi, col concorso di pochi dipendenti, riusciva con azione rischiosa e decisa a catturarne alcuni e ad ucciderne altri in violento conflitto a fuoco nel corso del quale offriva costante esempio di coraggio".

Carlo Alberto Dalla Chiesa contro la mafia. Dopo una breve battuta d'arresto nella sua carriera militare, Carlo Alberto Dalla Chiesa assunse il comando della Legione di Palermo nel 1966, rivestendo un ruolo principale in quella che è considerata la prima guerra della mafia. Se da una parte Carlo Alberto Dalla Chiesa era sempre attento al rigore delle sue caserme ma anche al lato umano con cui aiutava i cittadini siciliani, fu davvero fondamentale il suo apporto e la sua collaborazione con la commissione antimafia. Fu Dalla Chiesa a introdurre, come riporta la Treccani, le schede dei mafiosi, che avevano il compito di porre l'accento anche sui legami familiari e d'affiliazione che servivano per comprendere i legami tra i criminali che l'uomo era chiamato a debellare. A questo riguardo, durante un incontro alla commissione antimafia del 1962 riportato dal sito dei carabinieri, il militare disse: "Vorrei mostrare una scheda, che io ho preparato per la mia legione, per tutti i miei collaboratori, dedicata proprio ai mafiosi o indiziati tali.(...) attraverso le parentele e i comparati, che valgono più delle parentele, si può avere una visione organica della famiglia, della genealogia, più che un'anagrafe dei mafiosi. Quest'ultima è limitata al personaggio; la genealogia di ciascun mafioso ci porta invece a stabilire chi ha sposato il figlio del mafioso, con chi si è imparentato, chi ha tenuto a battesimo, chi lo ha avuto come compare di matrimonio; e tutto questo è mafia, è propaggine mafiosa (...) è molto più efficace seguire i mafiosi così, cioè non attraverso la scheda solita del ministero dell'Interno, ma da vicino, attraverso i figli, attraverso i coniugi dei figli, attraverso le provenienze, le zone dalle quali provengono, perché anche le zone d'influenza hanno la loro importanza". Si occupò anche della realizzazione di una speciale planimetria di Palermo, che poneva l'accento sui luoghi importanti per le famiglie mafiose. Nel 1973 Dalla Chiesa ottiene la promozione a generale e svolge un ruolo importante anche alla lotta al terrorismo e alle Brigate Rosse, soprattutto per quanto riguardava il sequestro del sostituto procuratore di Genova, Mario Sossi: la difficile trattativa per la liberazione dell'uomo portò Dalla Chiesa a cercare di contrastare il terrorismo di sinistra attraverso il Nucleo speciale di polizia giudiziaria. Sempre attento e sempre integerrimo, Carlo Alberto Dalla Chiesa continuò a combattere contro la mafia in Sicilia, in una Regione sempre più devastata dalla criminalità, in cui gli omicidi aumentarono a dismisura. Il generale fu sempre in prima linea nella lotta: questo, naturalmente, lo rese un bersaglio per i criminali che vedevano in questo uomo integro un grande ostacolo al proprio successo. La sera del 3 settembre 1982, mentre era in macchina con la seconda moglie Emanuela Setti Carraro, Carlo Alberto Dalla Chiesa venne affiancato da un commando di Cosa Nostra. Sul corpo del militare e di sua moglie vengono sparate trenta pallottole di kalashnikov che uccidono i due. Nello stesso attentato muore anche Domenico Russo, agente della scorta.

Erika Pomella. Nata a Roma, mi sono laureata in Saperi e Tecniche dello Spettacolo Cinematografico a La Sapienza. Dopo la laurea ho seguito un corso di specializzazione di montaggio e da allora scrivo di Cinema e Spettacolo per numerose testate. Ho collaborato con l’Ambasciata Francese in Italia per l’organizzazione della prima edizione del festival del cinema francese a Roma. Parlo fluentemente francese e, quando non lavoro, passo il mio tempo a leggere montagne di romanzi e ad 

Palermo, arrestato all’aeroporto il nuovo boss manager di Cosa nostra: Giuseppe Calvaruso. Gestiva affari da Singapore al Brasile. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 5 aprile 2021. Era appena tornato dal Sud America. Le indagini dei carabinieri lo accusano di aver preso il posto di Settimo Mineo al vertice del mandamento di Pagliarelli. Fermate altre quattro persone. Cosa nostra puntava su un giovane boss per rilanciare i grandi affari internazionali: Giuseppe Calvaruso, 44 anni, viaggiava parecchio da quando era stato scarcerato, nel 2016. I carabinieri del nucleo investigativo di Palermo l’hanno fermato ieri, alle 14.30, all'aeroporto Falcone Borsellino, di ritorno da un soggiorno in Brasile che durava ormai da un anno. Il boss si era imbarcato a Natal e aveva preso un volo con scalo a Parigi: meditava di restare a Palermo solo qualche giorno, per visitare i familiari. Poi sarebbe ripartito nuovamente. Con lui sono state arrestate altre quattro persone, sono mafiosi del clan di Pagliarelli, che Calvaruso continuava a guidare anche dall’estero. Pagliarelli è un’ampia zona nella parte sud-orientale di Palermo che da qualche tempo è ormai il laboratorio della riorganizzazione di Cosa nostra: era di Pagliarelli l’anziano boss Settimo Mineo, che stava ricostituendo la Cupola nel 2018; a Pagliarelli, i mafiosi continuano a nascondere un gran tesoro, che hanno necessità di investire in attività lecite. Le indagini del comando provinciale dell’Arma coordinate dal procuratore aggiunto Salvatore De Luca, dai sostituti Dario Scaletta e Federica La Chioma raccontano di un grande attivismo dell’ultimo boss manager di Cosa nostra. Calvaruso, un tempo braccio destro del latitante Gianni Nicchi, si era subito trasferito in Emilia Romagna dopo la scarcerazione, ufficialmente lavorava come collaboratore di un’azienda edile di Rimini. Presto, però, si era lanciato nel settore immobiliare, con ottimi risultati. I soldi non gli mancavano. Erano i giorni in cui condivideva una grande amicizia con un altro scarcerato eccellente: Antonino Spadaro, il figlio di don Masino, il vecchio padrino della Kalsa considerato il “re” del contrabbando. Anche Spadaro junior viaggiava spesso fra la Sicilia e il Brasile.

Investimenti da Singapore a Palermo. Due anni fa, Calvaruso era riuscito a entrare in contatto con un imprenditore di Singapore. Gli aveva proposto una serie di operazioni immobiliari in Sicilia: soprattutto, l’acquisto di alcuni palazzi nel centro storico di Palermo, qualche affare era stato concluso, Calvaruso puntava alla ristrutturazione degli immobili. Ma alcuni articoli sul conto del boss manager, finirono per insospettire gli investitori. Dice il generale Arturo Guarino, il comandante provinciale dei carabinieri di Palermo: "Il livello di Calvaruso è quello di un mafioso che coniugava una grande capacità di controllo del territorio con una mentalità imprenditoriale, capace di spaziare in una dimensione internazionale".

Calvaruso, reggente del mandamento. Le intercettazioni dei carabinieri di Palermo svelano che Calvaruso era diventato il reggente del mandamento di Pagliarelli dopo l’arresto di Mineo, avvenuto alla fine del 2018. Suo fidato vice era Giovanni Caruso, ieri arrestato pure lui, assieme a Silvestre Maniscalco, Francesco Paolo Bagnasco e Giovanni Spanò. Il clan esercitava un controllo ferreo sul territorio: gli autori di alcune rapine non autorizzate vennero violentemente pestati, i boss intervennero anche per recuperare un’auto rubata. Spesso, non c’era neanche bisogno di imporsi, le intercettazioni hanno sorpreso alcuni commercianti a chiedere l’autorizzazione al clan per aprire una nuova attività. Pure il pestaggio nei confronti dei rapinatori non autorizzati scattò su richiesta: il titolare di una rivendita di detersivi, preso di mira due volte in cinque giorni, preferì rivolgersi a Cosa nostra piuttosto che alla polizia per avere giustizia. Chiamò Caruso, gli affidò i video delle rapine, e il boss avviò subito l’indagine. Portata a termine, appunto, con il pestaggio dell’autore, picchiato alla presenza di Calvaruso. 

Palermo, il commerciante subì due rapine e si rivolse ai boss. I tre responsabili picchiati a sangue. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 5 aprile 2021. Le intercettazioni svelano l'indagine del clan di Pagliarelli per individuare tre pregiudicari che facevano assalti nei negozi senza autorizzazioni. C’è un capitolo dell’ultima inchiesta antimafia che racconta cosa sia ancora la mafia a Palermo. Un commerciante, Francesco Paolo Bagnasco, titolare dei negozi “Serena Detersivi”, si rivolse ai boss quando subì due rapine nel giro di cinque giorni. E i boss avviarono subito le indagini. Dopo aver visionato i video dei colpi, i picciotti di Pagliarelli si misero subito all’opera per rintracciare i responsabili. Non ci misero molto. In tre furono portati in un garage di via Piave, c'era pure l’ideatore del colpo, Giovanni Armanno, vennero tutti pestati a sangue. Alla presenza del boss Giuseppe Calvaruso. I carabinieri hanno ricostruito che il 29 agosto di due anni fa, due persone armate di coltello rapinarono il punto vendita di via Altofonte 89. Bottino, 4.500 euro, prelevati dalla cassaforte sistemata sotto il registratore di cassa. Il giorno dopo, alle 9,30, il commerciante chiamò il boss Giovanni Caruso e lo convocò in negozio: “Mi faresti una cortesia grande Giovà? Potresti salire cinque minuti ai Pagliarelli? Al negozio”. E Caruso si precipitò. Qualche ora dopo, era già al lavoro. I carabinieri l’hanno ripreso mentre mostra alcune immagini su un tablet ai suoi ragazzi. “Ma è grande però, non è picciotto”. Stavano cercando di scoprire gli autori. L’indagine di Cosa nostra era stata avviata. “Guarda a secondi sedici, è nervoso”. Cercavano di cogliere ogni dettaglio per scoprire i nomi dei responsabili. Ma, intanto, il 3 settembre, poco prima delle otto di sera, venne fatta un’altra rapina nel punto vendita di via Altofonte 89. Bottino, 2.800 euro. Anche quella volta, l’imprenditore fece la denuncia alla polizia, ma poi si rivolse ai boss. Caruso lo rasserenò: “Comunque ti ho trovato il pennello… dammi il tempo che lo devo ordinare. Perché lo devo cercare”. E ancora: “Ora stai sereno, come il tuo nome, Serena”. Per i carabinieri, il boss di Pagliarelli aveva trovato il responsabile dei due raid in negozio. L’imprenditore era impaziente. “Senti, ma i pennelli quando devi farmeli avere?”, diceva al telefono. Caruso lo rassicurava: “I pennelli, i pennelli. Ti dico la verità, sono due giorni che li cerco. Già ho capito i pennelli quali sono… quelli rossi, sono due giorni che li cerco. E due giorni che non li trovo”. Il sette settembre, i “pennelli” furono trovati. E Caruso comunicò all’imprenditore: “Comunque fatto, sono stato... sono ancora stanco. Ci siamo fatti una corsa, caricavo e scaricavo tutte cose”. I responsabili dei colpi erano già dentro un garage di via Piave. Il commerciante fu convocato ad assistere al pestaggio. Qualche ora dopo, Caruso diceva alla moglie: “Minchia mi sono rilassato questa giornata. Minchia mi sono dato una scarricata che tu non hai idea… appena è entrato, gli ho detto: ‘Cammina, prima che diventi scolapasta’”. In un’altra conversazione, disse: “Tre sono all’ospedale”. E ancora: “Pure il polso mi duole”. Ma il commerciante puntava a riavere i soldi indietro. E continuava a parlare al telefono con Caruso. “Senti, ma i pannelli sono arrivati?”, diceva. Caruso rispondeva: “Tu mi credi che non ne so parlare, perché non mi sono ancora visto”. I rapinatori (Martino Merino e Davide Bonura) erano stati sequestrati e portati nel garage di via Piave. Anche l’organizzatore dei colpi era stato pestato, si tratta di Giovanni Armanno, che la sera del 7 settembre finì al pronto soccorso dell’Ingrassia.

Torna in Sicilia per Pasqua, arrestato il boss Calvaruso: “Faceva affari dal Brasile”. Vito Califano su Il Riformista il 5 Aprile 2021. È stato arrestato il boss Giuseppe Calvaruso, ritenuto capo del mandamento mafioso palermitano di Pagliarelli. Era tornato in Sicilia per la Pasqua. Una trappola, queste festività, per l’uomo che viveva da tempo in Sudamerica, in Brasile, da dove faceva la spola con l’Italia. È stato arrestato dai carabinieri del comando provinciale nel corso dell’operazione Brevis. Il provvedimento è stato emesso dai pm Federica La Chioma e Dario Scaletta, coordinati dal procuratore aggiunto Salvatore De Luca della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo. Insieme con lui arrestati anche Giovanni Caruso, 50 anni, Silvestre Maniscalco, 41 anni, Francesco Paolo Bagnasco, 44 anni, Giovanni Spanò, 59 anni, accusati a vario titolo di associazione mafiosa, estorsione, lesioni personali, sequestro di persona, fittizia intestazione di beni, tutti reati aggravati dal metodo e dalle modalità mafiose. Calvaruso ha 43 anni e una condanna alle spalle. Secondo le indagini sarebbe diventato il reggente del mandamento dopo l’arresto del boss Settimo Mineo. Dal Brasile continuava a gestire gli affari del gruppo. Suo referente a Palermo Giovanni Caruso. Avrebbe intrattenuto relazioni con i vertici dei mandamenti di Porta Nuova, Noce, Villabate e Belmonte Mezzagno. Il cartello di Calvaruso svolgeva un ruolo di ordine pubblico, di sostegno ai detenuti mafiosi, di referente per commercianti e imprenditori. A quanto emerge il gruppo puniva la microcriminalità che agiva senza il suo benestare: facevano restituire le auto rubate, autorizzavano l’apertura di esercizi commerciali, pestavano piccoli delinquenti protagonisti di tali episodi senza permesso. L’estorsione si consumava anche sotto forma di ristrutturazione di immobili “da acquistare”. Il gruppo era infatti cresciuto nei settori dell’edilizia e della ristorazione: le estorsioni avrebbero portato proprietari di immobili a rivolgersi alle ditte legate a Calvaruso per lavori e ristrutturazioni. Per evitare il sequestro dei beni era stata costruita una fittissima rete di prestanome. Una capacità imprenditoriale confermata anche dagli affari con un cittadino di Singapore interessato a investire grossi capitali nei settori edile e turistico e alberghiero nell’isola.

Giuseppe Calvaruso, il boss-manager della mafia che fa picchiare i rapinatori. Giovanni Pisano su Il Riformista il 5 Aprile 2021. E’ considerato il nuovo capo del mandamento Pagliarelli, una delle organizzazioni mafiose siciliane più potenti, con base operativa nell’area sud-orientale di Palermo. Un boss di 44 anni che da circa un anno, tuttavia, vive in Brasile e, secondo la ricostruzione degli investigatori, ha rapporti commerciali con imprenditori di Singapore. Giuseppe Calvaruso è stato fermato dai carabinieri mentre scendeva con la scala mobile al piano terra dell’aeroporto Falcone e Borsellino di Palermo. Arrivava dal Brasile, voleva trascorrere qualche giorno in famiglia, in occasione delle festività pasquali, dopo circa un anno di assenza in Sicilia. Invece ai piedi di quella scala mobile ha trovato due carabinieri del nucleo investigativo di Palermo con in mano il provvedimento di fermo per associazione mafiosa. Oltre a Calvaruso, sono finiti in carcere anche il suo braccio destro Giovanni Caruso, 50 anni, che lo sostituiva durante i suoi lunghi soggiorni in Sudamerica e altre tre persone: Silvestre Maniscalco, 41 anni, Francesco Paolo Bagnasco, 44 anni, Giovanni Spanò, 59 anni. I cinque sono accusati a vario titolo di associazione mafiosa, estorsione, lesioni personali, sequestro di persona, fittizia intestazione di beni, tutti reati aggravati dal metodo e dalle modalità mafiose. Calvaruso era diventato il reggente del clan dopo l’arresto di Settimo Mineo, avvenuto alla fine del 2018. Il provvedimento è stato emesso dai sostituti procuratori della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo Federica La Chioma e Dario Scaletta, coordinati dall’aggiunto Salvatore De Luca. Secondo la ricostruzione degli investigatori, Calvaruso, scarcerato nel 2016, era fra i boss più attivi dal punto di vista imprenditoriale: oltre al riciclaggio dei proventi illeciti in attività pulite grazie a prestanome soprattutto in società operanti nel settore edile e della ristorazione, Calvaruso aveva avviato un canale di investimenti provenienti dall’estero, Singapore in primis. Grazie a mediatori siciliani da anni residenti a Singapore aveva stretto rapporti di natura economica con un cittadino singaporiano, interessato a investire ingenti capitali nel settore edile e turistico-alberghiero in Sicilia. Gli inquirenti hanno documentato investimenti immobiliari arrivati da Singapore per oltre due milioni e mezzo di euro pilotati dagli uomini del mandamento di Pagliarelli. Fra gli acquisti dell’immobiliarista di Singapore c’è anche un palazzo d’epoca di corso Vittorio Emanuele, a centro metri dalla cattedrale di Palermo. Il business dei clan consisteva nell’aggiudicarsi, se necessario con il ricorso all’estorsione, i lavori di ristrutturazione di tutti gli immobili acquistati dall’immobiliarista di Singapore. Calvaruso non si era accontentato del business con Singapore, voleva di più, era venuto a conoscenza di un affare finanziato dall’Onu per la realizzazione di case, scuole e ospedali in Niger. E ci voleva entrare con l’aiuto di uno studio di progettazione molto importante di Milano. Calvaruso era il perfetto esempio di boss manager, con agganci internazionali e l’idea di utilizzare i soldi illeciti per finanziare affari puliti. Ma era anche uno dei capi mandamento più “ortodossi” nella gestione del territorio di Pagliarelli con estorsioni a tappeto e pugno duro contro chi sgarrava. Nessuna azione criminale senza autorizzazione del boss era tollerata, nessuna attività commerciale o artigianale apriva senza l’ok di Cosa nostra. Calvaruso e il suo braccio destro Caruso gestivano il mandamento con le vecchie regole mafiose, dove chi sgarrava veniva punito in maniera esemplare come i tre giovani rapinatori picchiati a sangue per due rapine compiute in pochi giorni e senza autorizzazione a un negozio di detersivi. Il titolare denunciò, con tanto di video, tutto a Cosa Nostra ottenendo la punizione dei responsabili.

·        Cosa nostra cambia nome: l’Altare Maggiore.

Cosa nostra cambia nome. Ora i boss la chiamano "l'altare maggiore". Salvo Palazzolo su La Repubblica il 15 agosto 2021. L'espressione è emersa in un'intercettazione dei carabinieri fra due padrini arrestati a Torretta. Da almeno vent’anni, è un chiodo fisso per i padrini. «Bisogna cambiare tutti i nomi – disse un giorno Bernardo Provenzano - Non parliamo più di picciotti, né tanto meno di uomini d’onore, di famiglie o mandamenti, mai più nominiamo la Cupola». Adesso, sembra che il nome più importante i boss l’abbiano trovato. Un nome nuovo per Cosa nostra: “L’altare maggiore”. Così due mafiosi di Torretta chiamavano l’organizzazione discutendo di un’estorsione, e non sospettavano di essere intercettati dai carabinieri del nucleo Investigativo di Palermo su ordine della procura. I mafiosi continuano a mettere insieme sacro e profano. Un’altra fissazione, nonostante la scomunica ribadita da Papa Francesco. “L’altare maggiore”, dunque. E non è solo una questione di immagine per i boss. Bernardo Provenzano, il capo di Cosa nostra dopo le stragi del 1992, aveva addirittura nominato una commissione di studio per aggiornare il dizionario mafioso: «Cambiare nomi doveva servire ad evitare altri guai con le intercettazioni», ha spiegato il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè, il capomafia di Caccamo con un passato da professore di educazione tecnica e una reputazione criminale di grande saggio, lui era stato incaricato di presiedere la commissione per le riforme mafiose. Ora, i boss di Torretta, in stretto contatto con i Gambino di New York, hanno trovato un nome suggestivo. “L’altare maggiore”. Pensavano così di scansare il Grande fratello dell’antimafia che negli ultimi anni ha fermato più volte la riorganizzazione di Cosa nostra, smascherando movimenti e tracce. Un’altra intercettazione, il 29 maggio 2018, ha svelato una riunione della commissione provinciale di Palermo, la prima dopo l’arresto di Totò Riina, avvenuto nel gennaio 1993. Quella volta, il capomafia di Villabate Francesco Colletti parlava al suo autista di “rappresentanti” che si erano riuniti per un incontro solenne. Provenzano aveva visto lontano, le intercettazioni restano uno strumento straordinario per entrare nei segreti delle mafie. Camuffamenti di parole a parte, l’espressione “altare maggiore” solleva anche un altro fronte di riflessioni. I padrini insistono per avere una religione tutta propria. Leggete cosa diceva qualche mese fa un altro mafioso a proposito del parroco di Brancaccio ucciso per ordine di Cosa nostra nel 1993: «Padre Puglisi santo… ma santo di che? — così commentava un boss di Pagliarelli, anche lui sicuro di non essere intercettato — Ha fatto miracoli? Una volta ti facevano santo quando facevi i miracoli, questo miracoli non ne ha fatti». Lo stesso odio di Giuseppe Graviano, il padrino di Brancaccio che decretò la morte del sacerdote: «Mi hanno raccontato che era un uomo litigioso — diceva al compagno dell’ora — mi hanno raccontato che aveva problemi con tutti, che insultava le persone, che diceva parolacce e che durante le omelie accusava e offendeva». I boss vogliono riprendersi l’altare maggiore, sognano i preti accondiscendenti di un tempo e le confraternite complici degli inchini. Incuranti delle scomuniche, che presto saranno anche scritte nei documenti della Chiesa, a questo sta lavorando la commissione speciale voluta dal Papa, ne fanno parte don Luigi Ciotti e l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. In quella espressione che i due mafiosi di Torretta si ripetevano, sicuri di non essere scoperti, c’è tutto il drammatico piano di riorganizzazione di Cosa nostra, che non sembra per nulla fiaccata da arresti e processi. “L’altare maggiore” non è quello dei Corleonesi fedeli a Totò Riina e Bernardo Provenzano; adesso nei primi banchi si sono seduti i “perdenti” di un tempo, ritornati dagli Stati Uniti dopo un lungo esilio. Mafiosi che hanno un rito diverso, hanno soprattutto santi diversi sull’altare maggiore.

·        La Mafia romana.

I Costagliola. I Costagliola sono il clan che controlla il racket delle case popolari a Roma. Ad Acilia, periferia Sud della Capitale, hanno in mano il business degli alloggi. Per i giudici non sono una cosca di mafia ma il loro potere è enorme. “Siamo solo benefettori”, dice il rampollo del capo. Francesca Fagnani per “l’Espresso” il 3 ottobre 2021. Non danno nell'occhio come gli Spada, non sono tanti come i Casamonica, non girano in Ferrari, non fanno gli smargiassi, anzi si muovono (quasi sempre) sottotraccia, attenti a non attirare le forze di Polizia, abilissimi nel mettere a sistema lo sfruttamento dei bisogni degli indigenti, temuti come sono da tutta la zona. È così che nella sottovalutazione generale, da almeno dieci anni, la famiglia Costagliola è riuscita ad imporre la propria supremazia criminale attraverso il racket delle occupazioni abusive ad Acilia e Dragoncello, area sud e complicata di Roma, vicino ad Ostia. Esattamente come gli Spada, a poca distanza da lì, i Costagliola tra minacce, intimidazioni e sfratti forzosi disponevano delle case popolari come fossero di loro proprietà: «Te buttano subito fuori zio Carmine li ammazza, ma che stai a gioca' lo sai che fa quello, va su e li ammazza a tutti», dice Barbara Scutti, sodale del gruppo, in una delle tante conversazioni captate dai Carabinieri del Nucleo Investigativo di Ostia, coordinati dalla Procura di Roma, riferendosi a persone estranee all'organizzazione e intenzionate ad occupare case popolari a Dragoncello. «Ma che cazzo sta a capi' sta Monica? Io la piscio addosso a lei e ai soldi», dice Carmine Costagliola, a capo del sodalizio, riferendosi a tal Monica che sarebbe intenzionata a vendersi una casa popolare senza il suo consenso. Le indagini hanno portato nel giugno scorso all'arresto dei promotori del racket, Carmine e Gerardo, e alla denuncia di una trentina di persone. Un'operazione passata più o meno sotto silenzio, ma che racconta invece di come l'abbandono del territorio, l'inefficienza nelle assegnazioni delle case popolari e l'emergenza abitativa mai risolta, nel X Municipio come in tutta Roma, abbiano favorito il mercato nero delle occupazioni; un'attività che, come ha dimostrato la vicenda degli Spada a Ostia, è sempre spia di un quadro più allarmante, della presenza cioè di un potere criminale forte, ben radicato e riconosciuto sul territorio, un potere che con la violenza si fa welfare e lucra sulla disperazione delle persone, ma che offre loro - e lo fa velocemente - quella soluzione che le istituzioni non riescono a trovare, come ad esempio un tetto a chi non ce l'ha. Il degrado, la ghettizzazione all'interno di vaste aree di edilizia pubblica di cittadini in condizione economiche e sociali precarie, l'altissima concentrazione di pregiudicati e di persone agli arresti domiciliari hanno fatto il resto. Basterebbe farsi un giro tra i lotti Ater di San Giorgio ad Acilia, dove tra spaccio H24 e altri espedienti, si fa "di necessità virtù". Ma chi sono questi Costagliola che negli anni, senza trovare un argine, sono diventati i padroni di un'intera zona di Roma? I fratelli Carmine, Gerardo, Antonio e Salvatore Costagliola, i "napoletani" di Acilia, come sono chiamati, hanno lasciato Napoli anni fa per traferirsi a Roma, gravati da vari precedenti penali tra cui per Carmine il 416 bis per associazione a delinquere di stampo mafioso, camorra, per il quale ha trascorso in carcere circa vent' anni. Arrivati nella Capitale, forti del loro pedigree criminale, hanno colonizzato alcune borgate di Roma, come fecero al tempo i Casamonica e gli Spada. I Costagliola però hanno scelto un'altra linea, hanno scelto la zona d'ombra, decidendo di dedicarsi prevalentemente al racket delle case occupate, un'attività che crea un certo consenso sociale, è meno rischiosa del traffico degli stupefacenti e non espone al contrasto con i clan più importanti, che infatti da anni li lasciano fare. «Io non m' impiccio con certa gente, c'ho paura», mi dice una ragazza che occupa una casa ad Acilia e che per mesi ha pagato l'affitto al sodalizio: «Mi faccio gli affari mia sennò quelli mi fanno occupa' casa da qualcuno». «Loro c'hanno un altro peso rispetto a noi», mi spiega un pregiudicato che occupa una casa Enasarco a Dragoncello, «si sa chi so' e da dove vengono, ma da me non possono veni', perché io sono rispettato», «In quanto?», chiedo: «Sto con gli Spada e i Casamonica, mi sono fatto dieci anni di galera per traffico internazionale di droga per una cazzata con i calabresi. Basta?». Basta. I Costagliola evidentemente sanno chi poter vessare e chi no. «Se volevamo mangia' di quel pane, saremmo restati a Napoli, tu che dici?», mi spiega, alludendo alla camorra, Emanuele Costagliola, figlio di Gerardo, che accetta di parlarmi sotto casa, nel loro fortino, in via Petra, a Dragoncello. E quando provo a chiedergli di come funzionasse il meccanismo di assegnazione abusiva delle case e della percentuale che intascavano su ogni famiglia mi risponde: «Noi abbiamo fatto solo del bene alla gente, facevamo favori pe' gentilezza». «Mica tanto, se incassavate la stecca», dico: «Ma che c'hai preso pe' Tecnocasa?», risponde. Effettivamente funzionavano proprio come un'agenzia immobiliare, coadiuvati da soggetti che facevano da intermediari, con il compito di individuare le abitazioni da far occupare e di selezionare le famiglie che avevano bisogno di una casa, disposte a pagare ai Costagliola tra i 10 mila e i 20 mila euro che avrebbero recuperato solo in piccola parte come "buonauscita", quando a loro sarebbe subentrato un nuovo occupante abusivo, scelto ovviamente dall'organizzazione. Gli abitanti di zona ben conoscono la loro pericolosità e per questo tacciono. Tre anni fa, davanti al bar Grease a Dragoncello i Costagliola e i Sanguedolce - un gruppo criminale rivale, legato alla batteria di Ostia che fa capo a "Barboncino" - si sono affrontati in pubblico, con armi da fuoco e pestaggi. Sembra una versione romana di "Gomorra", ma invece è cronaca: i fratelli Alessio e Daniele Sanguedolce in pieno giorno aggrediscono Gianluca Tirocchi, uomo dei Costagliola, che fugge verso il bar. Mentre scappa Daniele gli spara, ma la pistola s' inceppa. Arrivano in soccorso di Tirocchi Gerardo Costagliola con l'arma nascosta all'interno dei pantaloni e suo figlio Emanuele con la pistola in mano. I Sanguedolce però se ne sono già andati. Emanuele spara in aria, urlando a chi si era affacciato alle finestre: «Fatevi i cazzi vostri», poi lui e suo padre Gerardo afferrano Valerio Antonacci, detto Petecchia (che aveva assistito all'agguato) e lo pestano brutalmente per farsi dire dove si erano rifugiati i Sanguedolce. Le spedizioni punitive dei Costagliola proseguono per giorni, perfino dentro al Cineland di Ostia. Nessuno apre bocca, nessuno denuncia, la Squadra Mobile riuscirà a far luce sul grave episodio, solo attraverso le intercettazioni ambientali e le immagini registrate dalle telecamere. Provo a chiedere ad Emanuele dello scontro con i rivali Sanguedolce: «Non li conosco Ostia, Dragoncello, Fiumicino, 'ndo stanno?». I conti, d'altronde, si regolano altrove. Un clima di omertà che rivela il saldo controllo criminale del territorio e l'assoggettamento dei suoi cittadini. Nel 2015, del resto, il X Municipio è stato commissariato per mafia, ma la mafia è uscita totalmente dalla campagna elettorale. Come se gli arresti degli ultimi anni avessero chiuso il capitolo criminale del litorale romano. E invece no. È un risiko complicato e in evoluzione quello della criminalità di Ostia. Le condanne per mafia e i sequestri hanno indebolito i clan più importanti: i Fasciani, i Triassi, i Casamonica e gli Spada, la batteria di Barboncino, sono stati piegati e messi all'angolo. Alcuni sono stati azzerati, altri sopravvivono senza il potere di un tempo. Eppure, nella fisica come nella mala, i vuoti non esistono e gli appetiti su Ostia e su tutto il litorale romano, compreso il porto di Fiumicino, sono tali da attrarre nuovi pesi e vecchie glorie criminali, pronte a ribaltare le alleanze. Basterebbe farsi un giro a Piazza Gasparri, in viale del Sommergibile, in via Marino Fasan o tra le palazzine Ater di via Baffigo per capire che la malavita cambia pelle ma i problemi restano sempre gli stessi: abbandono, racket delle occupazioni, usura e droga che gira a fiumi, giorno e notte. Ma a far gola, oltre alle floride piazze di spaccio, c'è anche altro: ci sono appalti da ottenere e stabilimenti balneari e attività commerciali da acquisire per ripulire capitali accumulati illegalmente. Per esempio. Chi sono oggi i nuovi padroni di Ostia? È certamente in corso un riassetto degli equilibri criminali. Fiaccate le più importanti famiglie, sono subentrati cani sciolti e personaggi di spicco, intorno ai quali si vanno aggregando le diverse consorterie criminali. Di certo alcuni nomi, ieri come oggi, restano molto influenti, come quello, pesantissimo, del clan napoletano dei Senese, molto attivo sul litorale romano, come dimostra il tentato omicidio di un anno fa di Paolo Ascani, cognato di Roberto Spada, il cui mandante per gli inquirenti sarebbe Girolamo Finizio, parente di Angelo Senese, fratello di Michele detto 'O Pazzo. Per il clan di Afragola, gli Spada dovevano essere annientati, tanto più dopo le inchieste che ne avevano decapitato i vertici. È in tal senso che Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik, uomo dei Senese ma sempre più indipendente, avrebbe compiuto un passo falso con quella pax mafiosa, siglata tra Barboncino e gli Spada della quale si era auto-proclamato garante insieme a Salvatore Casamonica durante un pranzo a Grottaferrata svelato dal Gico di Roma. Ma a chi conta davvero quella pace decisa in autonomia non poteva piacere per troppi motivi, al netto del potere criminale che nessuno a Roma può permettersi di scalare da solo. Quell'accordo avrebbe finito per rianimare da una parte il potere chiassoso degli Spada e dall'altra avrebbe rafforzato ancora di più il gruppo in ascesa di Barboncino. "Due piccioni con una fava" per Salvatore Casamonica e Fabrizio Piscitelli, ma non per gli altri, tantomeno per i Senese. Per i Costagliola, intanto, è stato escluso, al primo grado di giudizio, il reato di associazione mafiosa, un déjà vu fortissimo, del resto: ci sono voluti anni prima che si riconoscessero come mafiose le condotte dei Fasciani, degli Spada, dei Casamonica, dando ai clan una sorta d'impunità morale e tutto il tempo per inquinare il tessuto economico e sociale della città. 

Mafia a Ostia, clan Spada: ecco il libretto di istruzioni per i clienti del supermercato della droga. Romina Marceca su La Repubblica l'1 giugno 2021. Dalle carte dell'arresto di Francesco e Juan Carlos spunta il foglietto con le indicazioni per gil acquirenti di cocaina. Le rivelazioni della mamma che ha fatto scoprire il sistema: "Picchiavano mio figlio sulla testa con una mazza ferrata". "Gli Spada stanno cercando la famiglia di rumeni che sono scappati, lasciando la casa. Lo sanno tutti al bar di piazza Gasparri". Poche parole al telefono per mettere in guardia quella mamma che già stava parlando alla polizia e aveva denunciato la violenza del clan dei sinti nei confronti del figlio tossicodipendente.

Un braccio di ferro tra la voglia di riscatto e l'omertà che contraddistingue il litorale di Ostia, l'impero degli Spada.

Valeria Costantini e Rinaldo Frignani per il Corriere della Sera il 30 maggio 2021. «So già che con quello che dirò adesso la mia, la nostra vita, non sarà più la stessa». La prima riga del verbale è già una sentenza. Da martedì scorso in sei sono sotto protezione, lontano da Roma, e soprattutto da Ostia: madre, nonna, e quattro figli, tre ventenni e una bimba di cinque anni. La loro colpa è quella di essersi ribellati al clan Spada e aver aperto un'altra voragine negli affari illegali della famiglia di piazza Gasparri, a cui per l' ennesima volta è stata contestata l' aggravante mafiosa. In questo caso aggiunta a reati come sequestro di persona e riduzione in schiavitù - oltre che estorsione e traffico di stupefacenti - che già da soli prevedono pene molto pesanti. «D' ora in poi niente sarà più come prima, so cosa sto rischiando», ha raccontato alla polizia la madre dei ragazzi, ex badante per decenni proprio in casa Spada, dove ha contribuito a crescere gli stessi figli dei boss, oggi 30enni. Personaggi che adesso avevano trasformato in schiavi i suoi figli, sfruttandoli come vedette dello spaccio, corrieri della droga, e poi umiliandoli sui social, senza contare i pestaggi per i debiti di cocaina. «A casa nostra hanno sempre fatto quello che volevano, i miei figli maschi sono diventati tossici per colpa loro, il più grande ha 23 anni e deve consumare almeno 150 euro di crack al giorno per non andare in astinenza», è il senso delle rivelazioni della madre coraggio che i poliziotti del commissariato Lido, diretti da Antonino Mendolia, hanno soprannominato «Mater matuta», la dea romana del mattino, protettrice della nascita degli esseri umani, onorata da Romolo. La sua denuncia disperata, di una donna ormai con le spalle al muro e terrorizzata all' idea che uno dei suoi figli rapito potesse essere ucciso - con gli Spada che hanno costretto il 23enne a telefonarle dicendole di «non fare la stupida» e di smetterla di parlare con la polizia -, ha portato al termine di una rocambolesca caccia all' uomo a Ostia venerdì scorso al fermo dei fratelli Juan Carlos e Francesco Spada, 32 e 34 anni, figli di Armando Spada - uno dei quattro boss della cosca, fratello di Roberto, l' aggressore fra l' altro del giornalista Daniele Piervincenzi - e Filomena Di Silvio, per i quali proprio la madre delle loro vittime ha lavorato dall' inizio degli anni Novanta. Una di famiglia, insomma, e proprio per questo consapevole della fine che i suoi ragazzi avrebbero potuto fare, prima o poi. Ecco perché le sue dichiarazioni, acquisite dai magistrati della Dda, potrebbero portare a un nuovo colpo al clan ancora attivo a Nuova Ostia nonostante i ripetuti blitz delle forze dell'ordine degli anni passati. «Per loro ho fatto di tutto: la cuoca, la badante, la donna delle pulizie. Sono arrivata dalla Romania con mio marito, che è poi morto di malattia. Ero sola, senza soldi, con tre figli piccoli: mi hanno fatta lavorare per loro», ha detto ancora in commissariato.

Camilla Mozzetti per “il Messaggero” l'8 maggio 2021. Prima ancora che Andrea Piscitelli, fratello del più noto Fabrizio, venisse arrestato mercoledì sull' Appia Nuova perché trovato in possesso di un'arma appartenuta a un pregiudicato morto e ricercata dal 1999, a finire ai domiciliari - con l'accusa di spaccio - è stato il figlio Nicolò. Un ragazzo di appena 22 anni ma con un curriculum che, conta la polizia, vanta già diversi precedenti per stupefacenti, estorsione, ricettazione, minacce e resistenza. Sono le 12.25 del 27 aprile, giorno in cui i carabinieri della compagnia di Frascati, coordinati dalla Procura, mettono a segno un maxi blitz nel cuore di Tor Bella Monaca contro la famiglia Longo, smantellando una florida piazza di spaccio e contestando l'aggravante dell'associazione mafiosa. E sarà forse solo un caso ma in uno dei palazzi finiti all' alba al centro dell'operazione, nel seminterrato al civico 64 di via dell'Archeologia, Piscitelli-nipote viene trovato dalla polizia qualche ora più tardi intento a recuperare da solo dosi di cocaina ed eroina. La vicenda è questa: il nipote di Diabolik da un cumulo di rifiuti, che troneggia in un angolo del seminterrato, tira via una busta di tabacco prelevando dosi di droga già confezionate e riponendole in un bicchiere di plastica che tiene in mano. Poi, al termine del recupero, esce dirigendosi verso una Toyota Aygo parcheggiata nelle vicinanze ma prima ancora di salire in auto viene fermato dagli agenti di polizia del VI distretto Casilino, diretti da Michele Peloso, che lo stavano pedinando dopo la segnalazione di uno strano movimento in quell' edificio nel quale, alle prime luci del giorno, due uomini affiliati alla famiglia Longo vengono arrestati. Il ragazzo alla vista degli agenti consegna spontaneamente il bicchiere di plastica che ancora teneva in mano e dentro cui gli agenti trovano una bustina trasparente con 18 involucri di eroina per 6,6 grammi e un'altra bustina, sempre di cellophane, con altri 22 involucri di cocaina per 5,9 grammi. In tasca Piscitelli-nipote ha anche 235 euro. Da qui segue poi la perquisizione nel seminterrato dove gli agenti trovano altri 96 involucri di cocaina per complessivi 33 grammi e altre dosi di eroina (105 involucri per 35,7 grammi circa). Scatta l'arresto per detenzione ai fini di spaccio di sostanza stupefacente mentre il ragazzo non oppone resistenza, limitandosi a pronunciare le proprie generalità e specificando di essere il figlio del fratello di Fabrizio Piscitelli, il capo ultrà della Lazio e criminale di lungo corso, freddato con un solo colpo di pistola alla nuca il 7 agosto 2019 al Parco degli Acquedotti. Su sua richiesta non viene informato nessuno se non il proprio avvocato mentre la Procura dispone per il giorno seguente la direttissima in tribunale. Il ragazzo finisce ai domiciliari mentre da via di San Vitale il Questore Carmine Esposito emette nei suoi confronti, il giorno stesso, un avviso orale.

Emilio Orlando per leggo.it il 4 giugno 2021. Un delitto che oramai sembra non avere più “segreti”. Inquirenti e investigatori hanno infatti stretto il cerchio attorno ai mandanti e al killer che il 7 agosto di due anni fa ha ucciso “Diabolik” (soprannome di Fabrizio Piscitelli) su una panchina del parco degli Acquedotti, al Tuscolano. Un omicidio, secondo la sezione omicidi della squadra mobile, maturato all’ombra degli affari legati al di stupefacenti dei sodali del clan Senese. La direzione distrettuale antimafia, che coordina l’inchiesta, ha esteso il raggio delle indagini anche in altre organizzazioni criminali che operano a Boccea e a Primavalle, località dove il narcotraffico all’ingrosso viene sempre gestito da personaggi malavitosi della Tuscolana. Ma perché al capo ultras Piscitelli è stata inflitta una simile, definitiva “punizione”? La risposta sta nelle inchieste svolte negli anni scorsi, come quella in cui venne arrestato Marco Turchetta a Primavalle. Tifoserie violente e narcotraffico si incontravano proprio sulle curve degli stadi, anzi qui convergevano vari interessi criminali. Quella che appare come l’inversione di rotta decisiva dopo quasi settecento giorni d’indagine dall’omicidio Diabolik, è arrivata sia da alcune testimonianze che dalle ricostruzioni della polizia scientifica soprattutto dopo che in via di Boccea è stato gambizzato Leandro Bennato, altro componente attiguo ai Senese e finito in carcere per droga. Non solo. Un identikit del killer che ha sparato quel pomeriggio del 7 agosto è stato inoltre disegnato dopo le descrizioni fornite dall’autista (e bodyguard) che si trovava insieme al “Diablo” prima dell’esecuzione. Tra conferme e smentite sulla nazionalità dell’esecutore materiale del delitto, di certo c’è che sulla scena del crimine erano presenti due persone: il sicario e il “palo”.

Enrico Bellavia per “La Repubblica” l'8 agosto 2021. Un lampo nel buio che rischiara i contorni di un assassino da due anni rimasto nell'ombra. Così come il movente del delitto e le implicazioni. Non il contesto, quello era chiaro fin dall'inizio, tranne che ai riduzionisti ad ogni costo, inclini a considerare Roma estranea alle dinamiche mafiose. La rivelazione de L'Espresso che racconta la fine del killer di Fabrizio Piscitelli, torturato e ucciso a sua volta in Albania, aggiungono però molti elementi per decifrare un mistero troppo a lungo rimasto tale. Già ad aprile scorso il settimanale aveva dato notizia della nazionalità del killer, un albanese, assassino su commissione. Nella nuova ricostruzione di Francesca Fagnani c'è però un ulteriore elemento: prima di lasciare l'Italia, il sicario ha colpito ancora e con modalità identiche a Torvaianica, davanti allo stabilimento Bora Bora, uccidendo un ras locale della droga, Selavdi Shehaj, alias Tarzan, suo connazionale. Anche in quel caso un agguato in pieno giorno con l'assassino travestito da runner ad appena un anno dall'omicidio di Diablo al Parco degli Acquedotti. La droga come comune denominatore, il riassetto degli equilibri di potere criminale lungo la costa, l'altro elemento di coincidenza. Piscitelli aveva partecipato a un vertice per sancire il nuovo corso di Ostia dopo il tramonto per via giudiziaria del clan Spada. Anche lì la successione, conquistata da Marco Esposito detto Barboncino, è stata scandita dai colpi di pistola ma poi era stata siglata una tregua foriera di una ripresa degli affari. Il vertice con Salvatore Casamonica racconta un Piscitelli assurto a un rango che non era il suo. Leader della curva tra gli ultras della Lazio, per strada era cresciuto da gregario, di spicco ma gregario, di quel Michele Senese, il re di Roma che gioca a farsi passare per pazzo, che ha impiantato la sua camorra nella capitale. I genitori di Piscitelli, nel marzo scorso, avevano ipotizzato che la fine del figlio fosse legata alla sua volontà di abdicare, di farsi da parte, di lasciare droga e altri impicci. L'esatto opposto del ritratto di un capo in ascesa delineato nelle carte giudiziarie che hanno portato all'arresto del suo braccio destro Fabrizio Fabietti. Di sicuro Piscitelli aveva consolidato la propria posizione economica tanto da meditare una rispettabile vita da ristoratore.  La verità, probabilmente, sta nel mezzo: quella scelta, interpretata come una resa deve essere suonata inaccettabile al suo mondo di riferimento. L'impiego del killer albanese poi eliminato, conferma l'esistenza di una batteria di soldati pronti all'uso a disposizione delle famiglie che si fronteggiano sul vasto mercato della capitale. Senese dispone di una nutrita squadra che rispetta questo identikit. Di certo, Piscitelli che pure girava con un guardaspalle, non sembrava impensierito né nervoso. La panchina di un parco gli era apparsa come il luogo più sicuro per l'ennesimo appuntamento d'affari. Intorno a lui però si è fatto il deserto all'improvviso in un torrido pomeriggio d'agosto. Scomparso l'uomo con cui aveva l'incontro, lontano ma nei pressi il socio di sempre Fabietti, il bodyguard girato dall'altra parte. L'unico visibile, eppure un fantasma, il killer, che, ed è un altro particolare della ricostruzione de L'Espresso, gli si è quasi parato di fianco, mostrandosi prima del buio.  

Chi ha ucciso l’ombra di Diabolik. Il sicario albanese che due anni fa assassinò il leader degli ultrà della Lazio eliminò anche un connazionale a Torvajanica per finire a sua volta giustiziato dai clan del suo Paese. La guerra per il controllo di Ostia dietro al delitto. Francesca Fagnani su L'Espresso il 5 agosto 2021. Se la Giustizia ha i suoi tempi e i suoi vincoli, la vendetta invece non ne ha e corre più veloce. È quello che è successo ad un sicario albanese, un professionista spietato e preciso, utilizzato dai clan criminali per uccidere senza lasciare traccia, in Italia e all’estero. Aveva quarant’anni e decine di omicidi alle spalle, fino a quando tornato in Albania ad attenderlo non ha trovato la galera, ma la stessa sorte che ha scelto per le sue vittime: è stato ucciso, dopo essere stato torturato, per mano di altri criminali del suo paese. In molti hanno festeggiato, qualcuno anche a Roma. Era il 7 agosto del 2019. Sono trascorsi due anni dalla morte di Fabrizio Piscitelli, ucciso in un parco pubblico a Roma, in mezzo alla gente. Il caso ad oggi è ancora irrisolto e senza responsabili, eppure è il più rilevante omicidio avvenuto negli ultimi dieci anni in una città, in cui da tempo le organizzazioni criminali non sparano perché la torta è grande e c’è posto per tutti. Su questo giornale, a fine aprile si era data notizia che il killer che aveva colpito Fabrizio Piscitelli era un albanese: quel pomeriggio del 7 agosto, vestito da runner gli aveva sparato mentre il leader degli Irriducibili era seduto su una panchina al Parco degli Acquedotti, in attesa della persona che avrebbe dovuto incontrare. Coperto da bandana, occhiali da sole e da una calzamaglia che serviva a nascondere i tatuaggi, aveva estratto dal marsupio la pistola calibro 7.65, aveva puntato alla testa e si era dileguato. Era diventato un’ombra, un fantasma. Quello che oggi possiamo rivelarvi è che il sicario che ha ucciso Diabolik è morto, è stato ucciso in Albania, giustiziato da altri killer. Prima di essere ammazzato, all’albanese sarebbe stato dato un altro incarico in Italia: uccidere ancora. Secondo le informazioni in nostro possesso, infatti, sarebbe stato proprio lui nel settembre del 2020 a sparare a Selavdi Shehaj, alias Tarzan, un trafficante di droga albanese, colpito sulla spiaggia di Torvaianica, davanti allo stabilimento Bora Bora, intestato alla sua compagna. Il killer era arrivato sulla spiaggia vestito da runner, anche stavolta aveva puntato alla testa, sempre in mezzo alla folla e ancora una volta era stato infallibile. Quello di Shehaj era però un appuntamento con il destino solo rimandato, perché nel 2016 era sfuggito miracolosamente ad un tentativo di omicidio messo in atto da Emiliano Pasimovich, che tentò di investirlo. Un regolamento di conti maturato nel mondo dello spaccio sul litorale pontino, si disse. Un mondo quello della droga dove i nomi si rincorrono: Pasimovich infatti è in rapporti diretti con Fabrizio Fabietti, con il quale infatti finirà in carcere nell’ambito dell’inchiesta del Gico della Gdf Grande Raccordo Criminale, che ha portato agli arresti di cinquanta componenti del gruppo capeggiato dallo stesso Piscitelli e dal suo sodale e amico Fabietti. Ma torniamo al killer, che, secondo quanto siamo stati in grado di ricostruire, dopo l’omicidio di Diabolik e di Shehaj sarebbe andato in Spagna, dove gli sarebbero stati commissionati altri omicidi, di due connazionali, per poi tornare infine in Albania, dove ad attenderlo non c’era la giustizia, ma la vendetta criminale. A distanza di quasi due anni dall’omicidio Piscitelli, gli investigatori della Squadra Mobile di Roma, il 30 aprile scorso, hanno eseguito dei rilievi in 3D per ricostruire la struttura e le fattezze dell’assassino e confrontarle con i sospetti. Nulla si è saputo dell’esito di questi accertamenti, tardivi forse, se è vero -come possiamo dirvi oggi- che la caccia al killer è finita in altro modo. Resta ancora aperta però quella ai mandanti. Il Procuratore capo di Roma, Michele Prestipino ha in più occasioni sottolineato che quello del capo Ultrà non è un omicidio di strada, ma è un’esecuzione mafiosa funzionale al riassetto di alcuni equilibri criminali. Quali? A chi dava fastidio Fabrizio Piscitelli? Diablo è morto da uomo libero, eppure le ultime indagini della Guardia di Finanza hanno svelato dopo l’uccisione la sua alta caratura criminale, in grado con il suo braccio destro Fabrizio Fabietti di acquistare e vendere in pochi mesi 250 Kg di cocaina e 4250 kg di hashish alle principali piazze di spaccio di Roma: da Tor Bella Monaca a San Basilio, dalla Romanina a Primavalle, dalla Bufalotta al litorale romano; e forse è proprio qui, ad Ostia, che bisogna guardare per cercare una possibile interpretazione del caso Diabolik. Nel 2011 con l’uccisione di due esponenti della vecchia mala locale, Giovanni Galleoni e Francesco Antonini, gli Spada si prendono Ostia, ma nel 2017 il loro regno criminale crolla: il clan viene falciato da una serie di arresti per mafia che hanno spedito al 41bis le sue figure apicali. Gli Spada sul litorale a quel punto sono deboli e vulnerabili. Ad approfittarne è la batteria dei “napoletani” di Marco Esposito, detto Barboncino. Ad Ostia tornano le intimidazioni, le violenze, le stese e quindi anche le forze dell’ordine, con il rischio di bloccare gli affari. È a questo punto che Fabrizio Piscitelli decide di fare da mediatore come garante del gruppo di Barboncino insieme a Salvatore Casamonica , che rappresenta invece i cugini Spada. La pax mafiosa viene siglata in un elegante ristorante di Grottaferrata, a cui partecipano Diabolik, Salvatore Casamonica e l’avvocato di Piscitelli Lucia Gargano, condannata per questo a 6 anni e 8 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa. Una pace questa che solo i capi possono sancire, forti di un prestigio criminale indiscutibile e riconosciuto. Era tale quello di Fabrizio Piscitelli? Oppure si era attributo quel ruolo da solo e senza il consenso degli altri clan? Gli equilibri tra le consorterie criminali di Ostia da anni erano nelle mani di Michele Senese, detto ‘o Pazzo, boss del più potente clan camorrista operante a Roma, dove Michele e i suo fratelli hanno creato un impero attraverso il narcotraffico, utilizzando per primi la manovalanza albanese per gli affari più sporchi. Fabrizio Piscitelli ha cominciato a frequentare i Senese sin da ragazzino, da loro aveva imparato il mestiere criminale e loro lo consideravano un figlioccio. Gli avevano messo a disposizione la batteria degli albanesi per il recupero crediti, lo avevano fatto entrare sin da giovanissimo in affari importanti e lui da anni gli “pagava la stecca”. È credibile ciò che riferiscono persone del suo stesso ambiente e cioè che Diabolik si sentiva ormai forte ed autonomo e che si era stancato di dipendere e di corrispondere una percentuale dei profitti ai suoi padrini? E poi: i Senese erano d’accordo sul patto stipulato ad Ostia da Piscitelli? Oppure avrebbero preferito gestirlo loro, come sempre avevano fatto, e lasciare gli Spada al loro declino? Torniamo nuovamente a quel 7 agosto del 2019. Tra i tanti interrogativi aperti sulla morte di Piscitelli, alcuni riguardano le circostanze stesse dell’omicidio. Fin qui si è detto che il killer era sopraggiunto alle spalle del capo degli Ultrà della Lazio, sparandogli un colpo alla nuca, come riferisce tra l’altro Eliobe Creagh Gomes -un ragazzo cubano che gli era stato presentato da Fabietti e che da poco gli faceva da autista e bodyguard - e che quel giorno era accanto a lui sulla panchina, in attesa dell’appuntamento previsto. Ma Silvestro Mauriello, il medico legale che è intervenuto sulla scena del crimine e che ha poi effettuato l’autopsia sul corpo di Diabolik ci rivela un’altra verità: Piscitelli non è stato colpito alle spalle e alla nuca, ma in una posizione frontale e laterale, direttamente nell’orecchio sinistro, a contatto o al massimo a due centimetri dal viso, a differenza di quanto riferito da Eliobe. È lecito pensare, a questo punto, che il cubano abbia visto in faccia l’assassino? Perché è fuggito senza prestare soccorso all’uomo che avrebbe dovuto proteggere? Perché invece di chiamare un’ambulanza ha telefonato subito a Fabrizio Fabietti che era lì a pochi metri, all’ingresso del parco e che a sua volta è fuggito? Nel precedente articolo avevamo rivelato il nome della persona con cui Fabrizio Piscitelli aveva appuntamento al parco: Alessandro Capriotti, che invece aveva sempre negato questa circostanza alla Squadra Mobile di Roma. Dopo l’articolo non è arrivata nessuna smentita, né da chi indaga né dall’interessato.

LEGAMI CRIMINALI 

Capriotti a Roma è conosciuto come Er Miliardero, un narcotrafficante, bancarottiere e truffatore che ha accumulato tanti di quei soldi da poter fare una guerra. Salvo poi contrarre debiti in giro, come avrebbe fatto con gli albanesi.

Di fatto, quel giorno, Capriotti aveva dato appuntamento a Piscitelli alle 19 al parco, ma non si presentò mai, a differenza del killer. L’incontro era stato fissato il giorno prima, ma rimandato al 7 agosto da Capriotti stesso. Il sodale del Diablo, Fabietti ne era a conoscenza, tanto che era rimasto nella sua macchina all’esterno del parco, salvo poi fuggire dopo lo sparo. Sulle ragioni di quell’appuntamento, né Fabietti (oggi in carcere) né Capriotti hanno mai riferito agli inquirenti una parola. L’elemento nuovo di cui siamo venuti a conoscenza è che Fabrizio Piscitelli quel giorno avrebbe dovuto riscuotere da Er Miliardero circa 30 mila euro. Era una stecca sulla droga? Oppure su altro: è possibile che Piscitelli facesse da mediatore per il debito che Capriotti aveva con gli albanesi? Un altro dato finora inedito e che potrebbe essere utile alle indagini riguarda una riunione che ci sarebbe stata un paio di settimane prima dell’omicidio, tra Fabrizio Piscitelli, Er Miliardero, Fabrizio Fabietti e un uomo dei Senese. Di cosa si era discusso? Sull’omicidio Piscitelli è calato da subito un silenzio omertoso, inconsueto in una città come Roma. Nessuno parla, nessuno dà un contributo di verità a cominciare da Fabrizio Fabietti, che però si è preso la briga di pagare le spese del suo funerale, e da un uomo di assoluta fiducia di Diabolik, Alessandro Telich, il genio informatico (oggi anche lui in carcere) che garantiva da anni la sicurezza delle sue informazioni. Era in grado di bonificare qualsiasi ambiente dalle microspie installate dagli investigatori e di cancellare da remoto tutti i dati contenuti nei cellulari dei criminali che assisteva, a cominciare da Fabrizio Piscitelli e dai suoi sodali. Quando è stato ucciso, gli inquirenti hanno spedito in Germania i tre cellulari in possesso di Piscitelli per essere decriptati. Si sperava, a fronte di tanto silenzio, che quei telefoni una volta aperti potessero fornire preziose informazioni all’indagine. La notizia che possiamo darvi oggi invece è che Telich è riuscito a cancellare tutto: i tre cellulari di Piscitelli sono vuoti. Per strada, come si dice in gergo, serpeggia molto nervosismo se è vero (come è vero) che un amico di Diabolik è stato costretto a ritirare un’intervista televisiva che aveva concesso a volto coperto, dietro minacce molto pesanti, tra cui quella di mandargli “gli albanesi sotto casa”. E così è stato, quell’intervista è stata bloccata. Anche chi scrive- a seguito della pubblicazione su questo giornale del precedente articolo sull’omicidio di Piscitelli e di alcune partecipazioni televisive sul tema- ha ricevuto messaggi, insulti e pressioni: pessimo segnale del clima che si respira nell’ambiente più vicino a Fabrizio Piscitelli, anche tra coloro che dovrebbero essere i più interessati all’accertamento della verità. E i soldi accumulati da Diabolik che fine hanno fatto? Certo è che per essere utilizzati, andrebbero “ripuliti. È vero che qualcuno si è presentato in una gioielleria-compro oro in zona Anagnina con la pretesa di acquistare una serie di braccialetti di diamanti modello Tennis, in contanti e senza fattura? Vero è che in quel contesto dove il giro di soldi è enorme, così come i crediti da riscuotere, Fabrizio aveva pestato i piedi a molti, a troppi. La sua ambizione lo aveva forse portato a fare passi falsi, a darsi un peso che molto probabilmente non aveva o non era riconosciuto dagli altri. La sua vita privata sregolata e le sue frequentazioni sentimentali certo non lo hanno aiutato. Sgarri che in certi ambienti pesano e tanto. È stato ucciso al Parco degli Acquedotti, una zona da sempre sotto il controllo dei Senese, i suoi padrini. Nessuno ha potuto o ha voluto salvarlo: forse perché quella morte in fondo faceva comodo a molti? Se Fabrizio non fosse stato ucciso quel 7 agosto, oggi sarebbe in carcere con Fabietti e gli altri. Se il killer di Diabolik fosse stato individuato subito, oggi molto probabilmente sarebbe all’ergastolo. E invece lo hanno ucciso altri criminali come lui. Quando la vendetta e la giustizia di strada prendono il posto delle leggi che uno Stato si è dato e delle pene che ha previsto è tutta la società civile a perdere. Un omicidio di mafia, a Roma, che resta irrisolto sarebbe un torto gravissimo al dolore dei familiari e un danno serio alla sicurezza di tutti noi e al senso di fiducia dei cittadini nelle istituzioni.

Un sicario professionista di nazionalità albanese: ecco chi ha ucciso Diabolik. A quasi due anni dall’omicidio a Roma del leader degli Irriducibili della Lazio l’indagine punta sulle anomalie. A partire dalla scelta del killer e del delitto avvenuto nel territorio di un boss che era padrino della vittima. Francesca Fagnani su L'Espresso il 26 aprile 2021. Un colpo di dadi non abolirà mai il caso, come quella mattina del 7 agosto del 2019 quando Fabrizio Piscitelli si fa tatuare sulla gamba destra un teschio, simbolo della transitorietà della vita, della vanità delle cose terrene, del punto di non ritorno di ciascuno. Quello di Diabolik sarà poche ore più tardi, alle 18.50 su una panchina nel Parco degli Acquedotti dove un uomo vestito da runner lo raggiunge alle spalle e gli spara alla nuca, tenta di esplodere un secondo colpo, ma la pistola si inceppa. L’imprevisto però non serve a cambiare il finale perché Piscitelli è già morto. Chi ha ucciso Diabolik? A quasi due anni dall’omicidio più importante compiuto a Roma nell’ultimo decennio, non c’è ancora il nome del killer, né quello dei mandanti. Inchieste fondamentali - come Grande Raccordo Criminale e Tom Hagen della Guardia di Finanza, coordinate dalla Dda di Roma - hanno svelato l’enorme peso criminale del leader degli ultrà della Lazio, tanto operativo nel narcotraffico da poter sfamare decine di piazze di spaccio della città, tanto potente (o almeno si riteneva tale) da farsi garante ad Ostia di una pax mafiosa tra diverse e storiche consorterie criminali. Diabolik però è morto da uomo libero. Una figura apicale del crimine per gli investigatori, il re degli Irriducibili per i tifosi della Lazio, ucciso con una vera e propria esecuzione avvenuta di giorno in un parco pubblico e molto frequentato. Il procuratore Michele Prestipino ha definito questo «un omicidio strategico e funzionale al riassetto di alcuni equilibri criminali di Roma; ha una certa matrice ed è stato eseguito con una metodologia seria». Talmente seria che un bossolo è stato trovato per terra accanto al suo corpo, ma della pistola fumante invece non si sa ancora niente. O quasi. Ciò che possiamo rivelare oggi è che a sparare è stato un sicario professionista di nazionalità albanese. Alto, corporatura atletica, occhiali da sole, una bandana in testa, maglia e pantaloni da fitness e in vita un marsupio, dove nascondeva l’arma. L’hanno notato in molti in quel parco correre con disinvoltura verso la panchina dove sedeva Piscitelli, hanno sentito lo sparo e lo hanno visto allontanarsi, scavalcando la ringhiera che delimita il parco dal marciapiede di via Lemonia. Chi di certo lo ha guardato in faccia è Eliobe Creagh Gomez, un ragazzo cubano che da poco faceva l’autista e il bodyguard per il leader della curva Nord. Lo aveva accompagnato lui quel pomeriggio al Parco degli Acquedotti e gli si era seduto accanto sulla panchina. Ha assistito all’omicidio, ha visto il killer in faccia ed è fuggito, senza prestare soccorso, senza chiamare né un’ambulanza né la polizia. È salito sulla Jeep Compass bianca noleggiata da Piscitelli e ha buttato in un cassonetto la sigaretta elettronica e un cellulare (gli altri due sono stati trovati vicino al corpo) in uso a Diabolik. Creagh Gomez però non è il solo ad essere fuggito dopo lo sparo. Seduto nella sua automobile, all’ingresso del parco, c’era anche Fabrizio Fabietti, il sodale di Piscitelli, oggi in carcere per traffico internazionale di droga, lesioni, riciclaggio ed estorsioni. Il cubano ha provato inutilmente a chiamare lui subito dopo l’omicidio. Cosa ci faceva lì? Perché è scappato? Non è stato ancora chiarito. Di certo temeva di fare la stessa fine del socio: al momento del suo arresto, avvenuto qualche mese dopo, i finanzieri del Gico l’hanno trovato nascosto sul tetto, tra i motori del condizionatore, completamente bagnato dalla sua stessa urina. Si è placato solo quando ha compreso che a raggiungerlo non erano dei sicari ma i militari della Guardia di Finanza. Fabrizio Fabietti era amico e braccio destro di Diabolik, come ha voluto dimostrare pagando alla moglie di Piscitelli tutte le spese per il funerale. Condivideva tutto con lui, anche la paura di essere fatto fuori, eppure ancora non ha riferito agli inquirenti una sola parola utile a far luce su quel delitto. A cominciare dall’appuntamento che il suo amico aveva il 7 agosto alle 18,40. Quello che possiamo riferire oggi è che Diabolik si sarebbe dovuto incontrare con Alessandro Capriotti, soprannominato “Er Miliardero”, che invece interrogato dagli agenti della Squadra Mobile ha negato. In realtà si sarebbero dovuti vedere già il pomeriggio precedente, nello stesso posto e alla stessa ora, ma una telefonata arrivata all’ultimo momento lo avvertì che l’incontro era rinviato al giorno dopo. Er Miliardero è un nome pesante della malavita romana, un bancarottiere, ma soprattutto un narcos che ha fatto tanto di quel denaro con il traffico di stupefacenti da essersi guadagnato a ragione quel soprannome. Capriotti sta finendo di scontare la sua condanna agli arresti domiciliari, pena che gli consente però alcune ore di libertà, durante le quali va a trovare nei pressi dello stesso parco il figlio, anche lui in affari con la banda di Fabietti e Piscitelli. Ad ogni modo, quel 7 agosto a quell’appuntamento Er Miliardero non si presentò mai. Tra le tante stranezze di quel giorno ci sono due circostanze di cui siamo venuti a conoscenza e che se confermate sarebbero clamorose. Dopo l’omicidio, qualcuno avrebbe anticipato l’arrivo della polizia per la perquisizione a casa di Fabrizio Piscitelli a Grottaferrata. Per far sparire qualcosa? Per portar via il denaro, tanto, anzi tantissimo, che nascondeva in casa? E poi: perché dopo poche ore dall’omicidio, qualcuno molto vicino a Fabrizio, forse addirittura un familiare, si sarebbe preoccupato di concordare la versione da dare agli inquirenti? Su cosa? Chi indaga ne è a conoscenza? Piscitelli era una pedina importante di un’organizzazione criminale complessa e ramificata, fatta di acquirenti e fornitori, di broker del narcotraffico, di esperti informatici e di batterie di picchiatori, albanesi soprattutto. Diabolik e Fabietti facevano affari con tutti, dalla cosca di ’Ndrangheta Bellocco, ai Casamonica, dalla mala romana a quella albanese, sempre più forte, dagli Spada di Ostia al clan Senese del boss Michele, detto O’ Pazz , ma che pazzo non è mai stato.

Re indiscusso della camorra romana, arrivato nella capitale da Afragola negli ’80, ha creato un impero di spaccio e terrore, servendosi per primo della manovalanza albanese per i lavori più sporchi. Diablo era considerato come un figlioccio dai «napoletani della Tuscolana». Cresciuto a pochi metri di distanza dal loro villino al Quadraro, sin da ragazzo Piscitelli aveva imparato da loro a gestire il potere criminale. Da loro aveva ereditato la batteria dei picchiatori albanesi di Ponte Milvio, che utilizzava spesso e volentieri per recuperare crediti in modo convincente. Piscitelli condivideva con i fratelli di Michele Senese, Angelo e Gennaro, lavoro e amicizia. Era stato proprio Gennaro a presentare a Fabrizio la moglie Rita Corazza, sposata quasi trenta anni fa e da cui ha avuto due figlie. Un amore finito, Piscitelli era in procinto di andarsene da casa, secondo quello che avrebbe confidato agli amici. Un amore diventato tossico e distruttivo, mischiato a frequentazioni pericolose, a liti violente e a fiumi di cocaina. La complessa organizzazione criminale – descritta nell’operazione del Gico Grande Raccordo Criminale - alla cui testa sarebbe stato il leader degli Irriducibili con Fabrizio Fabietti era in grado di rifornire di cocaina e hashish tutta la città: «La devo dà a tutta Roma», diceva in un’intercettazione Fabietti. In pochi mesi, tra il febbraio e il novembre del 2018, erano riusciti ad organizzare una compravendita di 250 chili di cocaina e 4.250 chili di hashish, che avrebbero fruttato 120 milioni di euro. Il livello era questo. Nel mercato della droga però, si sa, i legami sono fluidi, gli amici diventano nemici e i nemici diventano sodali, per un credito, per un debito, per ridimensionare chi è ambizioso oltre misura o chi si allarga troppo, come forse ha fatto il Diablo che si sentiva tanto forte e solido da farsi garante insieme a Salvatore Casamonica di una pace mafiosa ad Ostia tra il clan Spada e il gruppo capeggiato da Marco Esposito, detto Barboncino, che Piscitelli considerava di sua gestione. A negoziare gli equilibri sul litorale romano nel 2006 tra la mafia, la camorra e la mala romana, tra i Triassi e i Fasciani, era stato il boss Michele Senese, la cui forza intimidatrice e il cui controllo del territorio erano riconosciuti e accettati da tutti gli altri gruppi criminali. Si può affermare lo stesso per Fabrizio Piscitelli? Probabilmente no. Per ora nessuno parla, né Fabrizio Fabietti, né Lucia Gargano - l’avvocato che portava i pizzini in carcere agli Spada per conto di Piscitelli - né Alessandro Capriotti che, pur continuando a negare l’appuntamento con Diabolik al parco, potrebbe aver fatto da esca, né gli amici, né gli ultrà finiti in carcere e neppure i familiari, per quello che forse sanno e che non dicono. Un clima omertoso e insolito in una città come Roma, dove di norma non si spara perché c’è spazio per tutti. A parlare saranno, si spera, i tre cellullari decriptati di Diabolik, ora che finalmente sono stati restituiti agli inquirenti dai tecnici tedeschi che ci hanno lavorato per più di un anno. Come sottolinea ancora una volta la procura di Roma, quello di Piscitelli non è un omicidio di strada, ma è un’esecuzione mafiosa avvenuta per una lotta di potere. Eppure sono passati due anni e nessun equilibrio è apparentemente saltato e nessuno soprattutto ha vendicato Diabolik, ucciso - è bene sottolinearlo - in un territorio amico dove a comandare da sempre sono i suoi padrini, i Senese, per mano di quegli albanesi arruolati tante volte da Piscitelli stesso. La sua era una morte inevitabile perché metteva forse d’accordo tutti? Uno scacco matto, ammesso che il Diablo fosse davvero un re. 

Fabrizio Piscitelli, arrestato il presunto assassino dell’ultrà laziale «Diabolik». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 17 Dicembre 2021. Svolta nelle indagini sull’omicidio di Fabrizio Piscitelli avvenuto l’estate del 2019. Il presunto omicida, un argentino di 52 anni, riconosciuto da un video. Arrestato anche un altro uomo per un delitto collegato a quello del Diablo. Ha finalmente un volto e un nome il presunto assassino di Fabrizio Piscitelli «Diabolik», il capo della curva della Lazio, vicino all’estrema destra e narcotrafficante, ucciso in un agguato al parco degli Acquedotti l’estate del 2019. Si chiama Raul Esteban Calderon ed è in carcere su richiesta della Dda capitolina e indagini della Squadra mobile e già convalidate dal gip. Con lui è stato arrestato Enrico Bennato, autore di un altro omicidio collegato al primo, quello di Shehaj Selavdi, albanese, avvenuto a un anno di distanza sulla spiaggia di Torvaianica e al quale avrebbe partecipato lo stesso Calderon, 52 anni, argentino, da anni nella Capitale e precedenti per rapina. Gli arresti risalgono al 17 dicembre ma solo ieri ne è stata data notizia. Ad entrambi è contestata l’aggravante del metodo mafioso. Riguardo alle indagini sul colpo di pistola esploso da un killer vestito da runner alla nuca di Diabolik mentre era su una panchina per un appuntamento che si rivelò una trappola, «Le fonti di prova su cui si è fondata l’adozione del provvedimento — spiega un comunicato della procura — sono costituite: dagli elementi raccolti dalla Squadra Mobile e dalla polizia Scientifica nel corso del sopralluogo effettuato sul luogo e nell’immediatezza del fatto e in particolare da un filmato estratto da una telecamera installata in zona con la quale è stata ripresa l’esecuzione del delitto». Inoltre, «dall’analisi tecnica del filmato dell’omicidio eseguita prima dalla polizia Scientifica e successivamente dal consulente tecnico incaricato dalla procura è emersa una chiara compatibilità tra il killer visibile nel filmato e il soggetto gravemente indiziato», concludono i pm. Alle indagini hanno contribuito alcune attività di intercettazione che hanno consentito di acquisire significativi elementi di riscontro in merito all’esecutore materiale dell’omicidio. Il fratello di Bennato, Leandro, coinvolto nella rivolta del carcere di Rebibbia un anno fa, tre mesi dopo l’omicidio di Diabolik, della cui banda criminale faceva parte (era il picchiatore per il recupero crediti), venne gambizzato in strada a Boccea. Si pensò allora a un possibile secondo agguato contro l’organizzazione capeggiata da Piscitelli, anche perché Leandro Bennato, nipote di boss e già latitante in Spagna, un altro fratello ucciso mentre compivano assieme un tentativo di omicidio, aveva partecipato al pestaggio di un presunto debitore del clan per oltre centomila euro. Ma l’arresto di suo fratello Enrico sembra fornire una lettura alternativa all’episodio.

L’omicidio dell’albanese Selavdi è avvenuto con modalità simili a quelle del capo ultrà: due uomini in scooter a volto scoperto l’hanno raggiunto in spiaggia e hanno fatto fuoco da breve distanza. Decisive in questo caso le testimonianze raccolte dai carabinieri di Frascati e l’esame dei video precedenti e successivi al delitto. Selavdi, legato a Diabolik, avrebbe pagato con la vita la sua partecipazione all’agguato contro Leandro Bennato in un giro di vendette incrociate.

I legami del capo degli Irriducibili della curva Nord dello stadio Olimpico con la malavita albanese e i suoi affari di droga ad alto livello nella Capitale sono fotografati da numerose altre inchieste della procura e portano ai rapporti consolidati con altri clan mafiosi e i rappresentanti romani di ‘ndrangheta e camorra. Di Piscitelli e della «batteria di albanesi» di Ponte Milvio si parlava già nel Mondo di Mezzo; lo stesso Diabolik, a conferma del suo ruolo di primo piano, faceva da garante a una fragile pace mafiosa a Ostia; e solo la sua uccisione ha tenuto fuori il nome di Piscitelli dall’operazione Grande Raccordo Criminale che portò carcere 51 persone per un giro di droga da 120 milioni di euro in nove mesi, del quale lui era il capo. In un’intercettazione Fabrizio Fabietti, amico fraterno del Diablo e suo braccio destro spiegava: «Ci sono sti albanesi pezzi di me... cornuti che sono magari muoiono tutti vengono, lo fanno per mezzo punto (500 euro di guadagno al chilo ndr)... la vanno a prendere loro fuori, se la portano loro, capito come fanno». L’omicidio di Diabolik e quello di Selavdi sarebbero maturati in questo contesto.

Raul Esteban Calderon arrestato per l’omicidio di Diabolik: «È lui il killer di Fabrizio Piscitelli». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 18 Dicembre 2021. Il presunto sicario del capo ultrà Fabrizio Piscitelli, soprannominato Diabolik, è stato incastrato da video, intercettazioni e da una testimonianza. Si tratterebbe di Raul Esteban Calderon, detto anche Francisco. Il presunto killer, accusato di essere l’uomo che sparò un unico colpo mortale mentre correva con un cappello in testa e una fasciatura sul polpaccio destro per coprire un tatuaggio, è un argentino di 52 anni. Si chiama Raul Esteban Calderon, detto anche Francisco (almeno secondo gli inquirenti), e avrebbe ucciso Fabrizio Piscitelli soprannominato Diabolik nel quadro di una faida tra gang criminali che per come l’hanno ricostruita i pubblici ministeri della Procura di Roma e gli investigatori della Squadra mobile è degna dell’ultima stagione di Gomorra. Agguati e trappole che non si sono fermate al capotifoso laziale tramutatosi in narcotrafficante, ma includono almeno altri due delitti, un ferimento e un paio di tentati omicidi andati a vuoto. Una scia di sangue legata al commercio di droga e probabilmente al ruolo divenuto troppo ingombrante di Piscitelli-Diabolik, dipinto dopo la sua morte addirittura come un «padrino» in grado di mettere d’accordo clan avversi di prim’ordine. Incrinando i vecchi equilibri criminali. Ma al sospetto assassino arrestato ieri con un provvedimento del giudice che ha convalidato il fermo ordinato dalla Procura, la polizia è arrivata per altre vie: le telecamere private che hanno ripreso l'esecuzione al parco degli Acquedotti, la sera del 7 agosto 2019; una pistola calibro 9 rubata durante una rapina ad aprile 2019 e sparita dopo il delitto; alcune intercettazioni dove si parla di Calderon come dell’assassino e la testimonianza di una persona a lui molto vicina che ne avrebbe raccolto addirittura la confessione. Un mosaico nel quale la morte di Piscitelli rappresenta una parte importante, ma non l’unica. L’argentino è accusato infatti, insieme al pregiudicato romano Enrico Bennato, anche dell’eliminazione di un albanese ucciso sul litorale di Torvaianica , a settembre del 2020, con modalità molto simili all’omicidio dell’anno precedente. Diabolik andò tranquillo all’appuntamento con la morte, senza protezioni e senza apparenti timori, e questo resta un nodo da sciogliere per arrivare ai mandanti che sapevano il luogo e l’ora dove il sicario avrebbe potuto colpire. Tranquillo pure lui, per come appare nei filmati recuperati da alcune telecamere di sicurezza, che l’hanno ripreso — irriconoscibile in volto per il capo coperto da un berretto con visie ra e gli occhiali da sole — mentre corre, spara, raggiunge la strada saltando la staccionata e scappa via sul motorino guidato da un complice. Per verificare la compatibilità di quella figura con Calderon sono stati confrontate non solo le proporzioni fisiche ma anche le modalità di corsa con quelle del sospettato, ripreso dai poliziotti mentre faceva attività fisica. Poi c’è il ruolo dei fratelli Bennato: Enrico ma soprattutto Leandro, coinvolto nella stessa indagine sulla banda di narcotrafficanti guidata da Piscitelli e dal suo socio Fabrizio Fabietti, smantellata dalla Guardia di finanza alla fine di novembre 2019 nell’operazione «Grande raccordo criminale» . Pochi giorni prima degli arresti, Leandro Bennato fu ferito in quella che doveva essere un’esecuzione, e la vittima avrebbe deciso di vendicarsi su Fabietti. Secondo l’accusa mandò il fratello e Calderon a cercare il rivale, ma gli appostamenti andarono a vuoto. Finiti in carcere sia Fabietti che Bennato, le ritorsioni sarebbero continuate con l’uccisione dell’albanese Selavdi Shehaj a Torvaiacanica , individuato come uno dei due attentatori di Bennato (anche l’altro sarebbe stato trovato ucciso, ma per questo le indagini sono ancora in corso).

Di questi delitti ha parlato Enrico Bennato in alcune conversazioni intercettate dagli investigatori, nelle quali chiama Calderon Francisco e lo indica come il killer di Piscitelli e di «quello sulla spiaggia». Rivelando il legame fra gli omicidi: «Se vengono a fare i prepotenti ci rimettono la vita, Diabolik e quegli altri due che hanno sparato a Leandro». A chiudere (provvisoriamente) il cerchio dell’accusa è stata però una testimone che aveva rubato la possibile arma del delitto al Parco degli Acquedotti, durante una rapina; dopo l’esecuzione di Piscitelli è andata a cercarla nel luogo dove l’aveva nascosta, ma non c’era più. Nei dialoghi intercettati con Calderon, la donna gli rinfaccia di aver ucciso Diabolik con la sua pistola, minacciando di raccontare tutto; lui non ammette, anzi s’infuria accusandola di essere matta. Ma davanti agli inquirenti la testimone ha confermato che l’argentino le confessò di aver ucciso Diabolik dietro un compenso in denaro. L’uomo avrebbe anche indicato mandante e movente, ma su questo l’inchiesta non è chiusa. Perché, come spiegò il procuratore Michele Prestipino davanti alla commissione antimafia, magistrati e investigatori continuano a considerare quell’assassinio «un omicidio strategico, funzionale al riassetto di alcuni equilibri criminali non soltanto della città di Roma».

Omicidio Diabolik, la foto del killer in fuga dopo l'esecuzione di Piscitelli: «Tradito da un tatuaggio». Giovanni Bianconi Il Corriere della Sera il 21 dicembre 2021. Il fotogramma della fuga del killer dopo aver ucciso Fabrizio Piscitelli, il Diabolik capotifoso laziale. Ecco gli elementi contro il presunto killer, l’argentino Raul Esteban Calderon. Ecco l’immagine del killer di Fabrizio Piscitelli — il «Diabolik» capotifoso laziale tramutatosi in narcotrafficante — ripreso mentre fugge dopo il delitto. Questo fotogramma, estratto dalle riprese di una telecamera di sorveglianza privata, è diventato uno dei principali elementi d’accusa nei confronti di Raul Esteban Calderon , il pregiudicato argentino arrestato la scorsa settimana con l’accusa di omicidio. L’immagine fa vedere il sicario che attraversa via Lemonia, la strada che costeggia il parco degli Acquedotti dove è avvenuto il delitto, e sul suo polpaccio destro si nota una benda. Seconda l’accusa dei pubblici ministeri della Procura di Roma che hanno fermato il sospettato, e secondo il giudice che ne ha ordinato l’arresto, quella fasciatura serviva a coprire un tatuaggio che Calderon ha proprio in quel punto, come mostrano altre foto scattate dagli investigatori della Squadra mobile di Roma durante l’indagine. Si tratterebbe di una precauzione presa per non essere riconosciuto, che ora è diventato un indizio a carico del sospettato. Nell’interrogatorio davanti al giudice, Calderon ha negato ogni accusa. A suo carico, oltre a questa immagine, ci sono anche altri elementi; a cominciare dalle intercettazioni e poi dalle dichiarazioni rese agli inquirenti dalla sua ex convivente, alla quale avrebbe confessato di aver ucciso Diabolik.

Omicidio Diabolik, le carte dell’inchiesta: così è maturata la decisione di giustiziare Piscitelli. Il Corriere della Sera il 21 dicembre 2021. Ultrà ucciso: gip, Calderon è killer professionista. «Il delitto di Fabrizio Piscitelli è maturato in un contesto criminale di gruppi contrapposti». È quanto scrive il gip di Roma Tamara De Amicis nell'ordinanza di convalida del fermo e di applicazione di misura cautelare nei confronti di Raul Calderon, il presunto killer arrestato per l'omicidio di Diabolik, avvenuto il 7 agosto 2019 a Roma. Nel contestare l'aggravante del metodo mafioso, il giudice delinea il quadro criminale in cui è maturato il delitto, riportando anche parti della richiesta formulata dal pm, con riferimenti alle indagini relative a “Grande raccordo criminale” ai rapporti col clan Senese, all'indagine “Mondo di Mezzo”. «In questo nuovo quadro ricostruito da indagini recentissime, che hanno avuto tutte conferma nelle sedi cautelari, il mondo criminale romano appare vistosamente retto dalle medesime regole e dal medesimo metodo “antichi” vigenti nei territori delle mafie tradizionali: l'attivismo di Piscitelli e il suo essere una figura di leader di carisma superiore o comunque pari ai capi delle famiglie criminali egemoni da decenni, come i Casamonica, sì da poter fare il paciere come un vero padrino, lo esponeva tuttavia a malumori, insofferenze e gelosie». «Alla fine dell’indagine Grande raccordo criminale, in alcune conversazioni registrate tra i suoi fedelissimi si paventavano esplicitamente rischi per la stessa incolumità di Diabolik. L'uomo appariva persino agli occhi dei suoi sodali eccessivamente imprudente nella aperta esibizione della sua leadership criminale, che schiacciava "competitor” di tutto rispetto - scrive il gip - E i rischi profetizzati nel 2018 di lì a poco si sarebbero materializzati, nella spietata esecuzione che vedeva Diabolik freddato nel parco di via Lemonia, riverso su una panchina, che sarebbe diventata oggetto di pellegrinaggio di tifosi e fedelissimi». «Il suo assassinio d'altra parte, ha calamitato l'attenzione dei media nazionali e persino internazionali per molti mesi, vuoi per la notorietà della vittima, oltre i confini del tifo locale, vuoi per l'effetto prodotto da una esecuzione così eclatante nella Capitale, dove, pur con sporadici fatti di sangue, regnava la pax mafiosa che - conclude il gip - Piscitelli stesso si era convinto di poter garantire fino a quel 7 agosto».

Omicidio Diabolik, Raul Esteban Calderon: «Non sono io il killer». Caccia ai fiancheggiatori. Fulvio Fiano e Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 19 Dicembre 2021. L’argentino Raul Esteban Calderon, arrestato per l’omicidio dell’ex ultra laziale, respinge le accuse. Gli investigatori cercano chi l’ha protetto in questi due anni. Di una cosa sono certi gli investigatori che in queste ore soppesano il successo della convalida dell’arresto del presunto killer di Fabrizio Piscitelli «Diabolik»: se Raul Esteban Calderon, fermato il 17 dicembre, non si è mai allontanato da Roma in questi due anni, vuol dire che ha goduto di una rete che l’ha fatto sentire protetto da possibili vendette e ha tenuto lontane le indagini, o almeno gli ha fatto pensare che così fosse. Ecco che, assieme ai mandanti del delitto, l’attenzione di Procura e Squadra mobile si concentra ora sui fiancheggiatori del 51enne argentino, che nel suo curriculum ha una lunga serie di rapine e amicizie negli ambienti criminali. Calderon avrebbe agito come killer su commissione e qualcuno potrebbe aver avuto ora interesse a scaricarlo. «Non sono stato io», ha assicurato Calderon nel suo interrogatorio di garanzia. Arrestato al Trullo senza opporre resistenza, l’uomo nega ora ogni accusa, assistito dall’avvocato Nicla Eleonora Moiraghi. Risponde di duplice omicidio aggravato dal metodo mafioso. Anche l’altro arresto, quello per l’eliminazione dell’albanese Shehaj Selavdi, avvenuto secondo la Procura in concorso con Enrico Bennato, è stato convalidato dal gip, ma in questo caso l’interrogatorio degli arrestati non è ancora avvenuto. I due delitti, secondo gli inquirenti, sarebbero legati da un unico filo. E quello dell’ex capo degli Irriducibili avrebbe, per importanza, ridisegnato gli assetti criminali della Capitale. Piscitelli viene ucciso nell’agosto del 2019. Tre mesi dopo rimane gravemente ferito Leandro Bennato, fratello di Enrico, e nel settembre 2020 a Torvaianica viene assassinato Selavdi. Quest’ultimo sarebbe stato nel commando che aveva provato a eliminare Bennato in un botta e risposta nato all’interno del gruppo criminale di Diabolik, descritto dall’indagine «Grande raccordo criminale»: «Un gruppo senza eguali in altre città italiane», lo definirono allora i magistrati, con la capacità di agire su più livelli nel mercato degli stupefacenti: acquisto e spaccio in nove quartieri (Ostia, Bufalotta, San Basilio, Colli Aniene, Tuscolano, Romanina, Borghesiana, Tor Bella Monaca fino a Frascati) e brokeraggio per trafficanti e rivenditori al dettaglio. Il via libera ad assassinare Diabolik sarebbe venuto da un accordo tra gli altri boss capitolini e questo complica la ricerca dei mandanti. Quanto all’agguato, Calderon viene incastrato da alcune intercettazioni e testimonianze, ma anche dal raffronto tra le immagini di quel delitto e quelle di Torvaianica: stessa modalità di azione ma anche stesse movenze e fisico del killer. Secondo una consulenza c’è una «chiara compatibilità» tra i due soggetti e su questa affermazione si giocherà forse il destino processuale dell’argentino.

Andrea Ossino e Luca Monaco per “la Repubblica – Roma” il 19 giugno 2021. L'assalto al fortino di Diabolik è lento e silenzioso. Non occorrono pallottole, ma solo accordi. È una questione d'affari, di soldi. E il denaro le famiglie Casamonica e Spada lo hanno, o comunque ne hanno abbastanza per entrare in quello che un tempo era il regno di Fabrizio Piscitelli, Ponte Milvio. La vicenda è raccontata negli atti, aggiornata dagli inquirenti e cristallizzata da un testimone importante, una donna che svela particolari sulle dinamiche del mondo della droga, della prostituzione e della realtà in cui era coinvolta l'ultima vittima della lunga scia di sangue iniziata con il delitto Diabolik: Adrian Pascu, pizzaiolo inserito in contesti criminali di alto rango. È stato ucciso due settimane fa davanti la porta della sua abitazione, a Primavalle, con tre proiettili allo stomaco. I numeri del business di Ponte Milvio Basta leggere i numeri per capire l'importanza della piazza che è allo stesso tempo simbolo della movida di Roma Nord e della malavita romana, rappresentazione di geografie criminali che si ripropongono in tutta la Capitale. La Confcommercio ricorda i 30 locali che fatturano 300 mila euro solo il sabato, 500 mila euro nel fine settimana. La strada parla di un giro di droga che nel fine settimana arriva a 130 mila euro. Di una media di 60 mila euro al giorno, quasi sempre di cocaina. Casamonica e Spada all'assalto della piazza di Diabolik Affari d'oro, legali e illegali, che fanno gola a molti. Anche alla famiglia Spada, che avrebbe già messo le mani su un paio di locali. E se già le ordinanze di 7 anni fa fissano i primi e maldestri tentativi dei Casamonica di affacciarsi nella piazza mettendo le mani sul ristorante "Il Tappeziere" per stabilire una centrale dello spaccio, recenti ricostruzioni rivelano che ultimamente sono riusciti a sedersi al tavolo dove un tempo sedeva Diabolik. Letteralmente. Perché dopo il 7 agosto 2019, dopo la morte del leader degli Irriducibili della Lazio, che gestiva anche una banda di trafficanti di alto livello, il locale frequentato da Piscitelli e dalla sua batteria di albanesi adesso ospita i Casamonica. Gli albanesi sono sempre lì. Solo che adesso sembrano fare affari con i Casamonica. A dirlo è anche una donna romana.

La testimonianza inedita

Terrorizzata, ha parlato con gli inquirenti dopo un'aggressione "da parte di persone non note". Il suo racconto, nel 2019, si è rivelato essere la base per ricostruire ciò che accade in due locali di ponte Milvio. Ragazze immagine che si prostituiscono in una camera di hotel. Cocaina che viene portata ai tavoli insieme alle bottiglie di champagne. E cellulari criptati e venduti a 3000 euro l'uno. Sembrerebbero essere proprio quelli di Alessandro Telich, l'ultras della Lazio che riforniva di cellulari criptati Diabolik e la sua banda: « Chiamate in completa sicurezza, che viaggiano su server assenti da intercettazioni esterne, in completa tranquillità», pubblicizzava " Tavoletta" elencando un prezziario: 300 euro per una bonifica, dai 1.500 ai 3.000 euro per uno smartphone con preinstallata l'app « Kline». Nel 2019 erano molto richiesti: «Stanno tutti impauriti... mi sa che ti faccio lavorare di brutto, tutta Roma vuole fare le bonifiche » , dicevano a Telich alcuni indagati nell'inchiesta sugli affari di Diabolik. Il testimone parla di una banda di cui farebbero parte anche albanesi, Casamonica, alcune guardie giurate e di cui avrebbe fatto parte anche Adrian Pascu, il pizzaiolo ucciso. Del resto una settimana prima di morire, il 27 novembre, la polizia lo aveva identificato insieme a un esponente della famiglia Casamonica. Un cambio di rotta per una persona che fino al 27 febbraio 2018 era a casa del braccio destro di Diabolik, Fabrizio Fabietti, a parlare di droga insieme a Dorian Petoku, un noto criminale albanese, elemento di spicco della batteria di Ponte Milvio che si riuniva in quel locale sulla Flaminia insieme a camorristi di prim' ordine " da ritenersi operanti sotto l'egida del noto Michele Senese". Quel locale, era la base di "un agguerrito gruppo criminale facente capo a Fabrizio Piscitelli, inteso "Diabolik",e comprendente anche soggetti provenienti da paesi dell'Est Europa". Adesso, quasi ogni sera, è frequentato dai Casamonica. 

Da ilmessaggero.it il 17 Dicembre 2021. Diabolik, arrestato il killer di Fabrizio Piscitelli. Ha un nome e un volto l'assassino di Piscitelli, freddato a Roma nell'agosto del 2019. La polizia e i carabinieri, coordinati dai magistrati della Dda di Roma, hanno proceduto al fermo di Raul Esteban Calderon accusato di omicidio aggravato dal metodo mafioso. Calderon è stato arrestato dagli agenti della Squadra Mobile di Roma, su decreto di fermo del pm, lo scorso 13 dicembre. Il provvedimento è stato convalidato poi dal gip che ha emesso una ordinanza di custodia cautelare in carcere. 

L'arresto di Raul Esteban Calderon

Raul Esteban Calderon è accusato di omicidio aggravato dal metodo mafioso. All'arresto si è arrivati dopo le indagini, coordinate dalla Dda di Roma con il procuratore Michele Prestipino e l'aggiunto Ilaria Calò. Il decreto di fermo, eseguito dalla Squadra Mobile di Roma è stato emesso il 13 dicembre scorso dalla Direzione distrettuale antimafia di Roma e convalidato oggi dal gip con l'emissione della misura della custodia cautelare in carcere, poiché gravemente indiziato come esecutore materiale dell'omicidio di Piscitelli.

Le prove, il video

«Le fonti di prova su cui si è fondata l'adozione del provvedimento sono costituite dagli elementi raccolti dalla Squadra Mobile e dalla Polizia scientifica nel corso del sopralluogo effettuato sul luogo e nell'immediatezza del fatto e in particolare da un filmato estratto da una telecamera installata in zona con la quale è stata ripresa l'esecuzione del delitto» spiega la Procura in una nota. «Dall'analisi tecnica del filmato dell'omicidio eseguita prima dalla Polizia scientifica e successivamente dal consulente tecnico incaricato dalla Procura è emersa una chiara compatibilità tra il killer visibile nel filmato e il soggetto gravemente indiziato».

Le indagini

Alle indagini hanno contribuito anche alcune attività di intercettazione che hanno consentito di acquisire significativi elementi di riscontro in merito all'esecutore materiale dell'omicidio. A rafforzare la gravità del quadro indiziario hanno contribuito anche alcune dichiarazioni. Calderon, inoltre è stato raggiunto da un'altra misura sempre in carcere insieme a Enrico Bennato (già detenuto per altri reati), in quanto gravemente indiziato dell'omicidio di Shehaj Selavdi, ucciso sulla spiaggia di Torvaianica il 20 settembre 2020. In questo caso a condurre le indagini sono stati i Carabinieri di Frascati, i cui risultati hanno portato a una «convergenza» con le indagini svolte dalla Squadra Mobile di Roma e in particolare dalle intercettazioni sono emersi fondati elementi riguardo agli esecutori materiali di entrambi gli omicidi ed al contesto in cui sono maturati», cioè dinamiche dei contrasti per il controllo delle piazze di spaccio della Capitale. 

Emiliano Bernardini per “il Messaggero” il 18 dicembre 2021. La voce è rotta dalle lacrime che restano intrappolate negli occhi. Trema quasi Ginevra Piscitelli rispondendo al telefono. Fa fatica a parlare della notizia dell'arresto del presunto killer di suo padre, Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik, ucciso il 7 agosto 2019 in un agguato al Parco degli Acquedotti da un colpo di pistola alla nuca. Le sensazioni che prova fluiscono senza filtri. Lei, che ha un carattere da guerriera, ogni tanto si interrompe per l'emozione.

Aveva già saputo dell'arresto del presunto killer di suo padre?

«No. La notizia l'ho saputa poco fa e l'ho appresa dai siti. Nessuno ci aveva avvertito prima». 

Che sensazioni ha provato?

«Non si può spiegare a parole cosa ho provato appena ho letto. Posso dire che siamo molto contenti e soprattutto sollevati, non ce lo aspettavamo, nella tragedia è stata per noi una bella notizia. È un bel regalo di Natale». 

Non avevate avuto nessun sentore che le indagini fossero vicine ad una svolta?

«No, davvero. Anche perché è tutto secretato. Ripeto, nessuno ci ha informato prima di quanto sarebbe successo». 

E adesso cosa succede?

«Adesso aspettiamo altre informazioni più precise perché al momento non ce ne sono. Dobbiamo anche sentire i nostri avvocati». 

Avevate perso le speranze dopo oltre due anni senza risposte?

«Sapevamo che gli investigatori stavano lavorando ininterrottamente ma a essere sincera avevamo un po' perso le speranze dopo due anni e mezzo».

Il nome del presunto killer è Raul Esteban Calderon un argentino di 52 anni. Vi dice qualcosa? O comunque lo avevate mai sentito nominare?

«No. Il nome dell'uomo che hanno arrestato non ci dice nulla, anche perché le prime notizie trapelate parlavano di un albanese». 

Si parla di un presunto killer. Qual è la tua speranza?

«La mia speranza è che accuse così pesanti siano fondate e che per aver convalidato l'arresto ci siano delle prove».

Ci sarebbe appunto un video che immortale il killer nel momento in cui spara.

«Mi rincuora il fatto che ci sia un video che riprende la scena e il possibile responsabile, perché in due anni e mezzo mi sono continuamente chiesta come fosse possibile che nessuna telecamera avesse immortalato anche solo un attimo di quanto accaduto». 

In famiglia come avete commentato?

«Guardi l'ho saputo ora e non ho ancora parlato con nessuno. Ora chiamo mia mamma». 

Michela Allegri e Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 18 dicembre 2021. Un killer vestito da runner, lo stesso, che avrebbe agito due volte: a distanza di un anno. Un professionista, che sarebbe stato ingaggiato come sicario per risolvere gli scontri legati alla spartizione delle piazze di spaccio a Roma e sul litorale. Il proiettile che, nel settembre dello scorso anno, ha ucciso sulla spiaggia di Torvaianica l'albanese Shehaj Selavdi, sarebbe stato sparato dalla stessa persona che, nell'agosto di un anno prima, avrebbe freddato con un colpo a bruciapelo Fabrizio Piscitelli diventato nell'ultimo periodo - secondo gli inquirenti - uno dei narcos più potenti della Capitale. Dopo due anni di indagini, il killer è stato arrestato al Trullo, periferia sud-ovest di Roma: si tratta di Raul Esteban Calderon, argentino, 51 anni. A incastrarlo, un video che ha filmato l'esecuzione e, soprattutto, le intercettazioni ambientali nel carcere di Rebibbia e le dichiarazioni fatte agli inquirenti da uomini vicini a Diabolik, che sapevano con chi avesse un appuntamento, il 7 agosto 2019, al parco degli Acquedotti di Roma. Piscitelli era stato ucciso mentre aspettava seduto su una panchina. Un uomo vestito da runner, con il volto coperto da una bandana, gli era passata accanto di corsa, aveva tirato fuori una pistola con silenziatore e aveva premuto il grilletto. Una scena ripetuta nel settembre 2020 sul lungomare di Torvaianica: la vittima, in questo caso, era Shehaj Selavdi, detto Simone, 38 anni. Aveva appena finito di scontare i domiciliari dopo essere stato arrestato nell'estate del 2017 per spaccio. A indagare sul suo omicidio, i carabinieri di Frascati, che hanno raccolto elementi fondamentali per permettere agli agenti della Squadra Mobile di stringere il cerchio sull'assassino del capo ultrà. Per l'omicidio di Selavdi, l'argentino è stato arrestato insieme ad Enrico Bennato, 53 anni, vari precedenti alle spalle e nipote del boss di Casalotti, Walter Domizi, detto il Gattino. Enrico è il fratello di Leandro Bennato, gambizzato nel novembre 2019 durante un agguato in via di Boccea da due sicari in moto. Un raid che, secondo gli inquirenti, sarebbe collegato all'inchiesta sulla morte di Piscitelli. Durante una perquisizione a casa di Enrico gli inquirenti avrebbero trovato delle armi e starebbero verificando se siano collegate al delitto. Il nome di Calderon, secondo fonti investigative, era emerso da tempo nell'inchiesta sulla morte del Diablo. La conferma, per la Procura, sarebbe arrivata grazie ad una perizia effettuata sul video che ha immortalato l'esecuzione e grazie alle testimonianze. Il video era stato prodotto da un impianto di videosorveglianza di un palazzo di via Lemonia, di fronte al Parco, e le immagini avevano catturato frontalmente sia Piscitelli, seduto sulla panchina, che il suo killer. Acquisito il nome di Calderon bisognava però trovare un'ulteriore prova tecnica e così il 29 aprile scorso, in un nuovo sopralluogo della Squadra Mobile, al Parco degli Acquedotti arrivarono dei periti dal Politecnico di Torino che piazzarono uno scanner terrestre ricostruendo tridimensionalmente la scena del crimine e tratteggiando il profilo del sospettato. La perizia ha dato esito positivo: l'immagine prodotta dallo scanner era perfettamente sovrapponibile al Calderon in carne ed ossa. «Dall'analisi tecnica del filmato dell'omicidio eseguita prima dalla polizia Scientifica e successivamente dal consulente tecnico incaricato dalla procura - spiega una nota del procuratore di Roma, Michele Prestipino - è emersa una chiara compatibilità tra il killer visibile nel filmato e il soggetto gravemente indiziato». E così ieri il gip ha convalidato il fermo a suo carico emettendo una misura cautelare in carcere, con l'accusa di omicidio aggravato dal metodo mafioso. Ora le indagini puntano a individuare i mandanti. Ma gli inquirenti hanno già le idee chiare: il movente dell'omicidio è la lotta per la gestione delle piazze di spaccio romane. Piscitelli, secondo i magistrati, era a capo di un gruppo di narcos che puntava a dominare a Roma, ridisegnando gli equilibri criminali. Nel novembre del 2019 era scattata l'operazione Grande raccordo criminale: la banda di Diabolik e del suo socio, Fabrizio Fabietti, era stata decimata. In 51 erano finiti in carcere e ai domiciliari: esponenti della malavita legata all'ambiente ultrà della Lazio, batterie di picchiatori e pugili che si occupavano del recupero crediti violento, estremisti di estrema destra.

Flaminia Savelli per “il Messaggero” il 19 giugno 2021. Dal Tuscolano a Ponte Milvio fino a Boccea, Primavalle e al litorale romano. È questa la direttrice sulla quale si muovevano gli affari di Fabrizio Piscitelli, il capo ultras della Lazio freddato con un colpo di pistola alla testa al parco degli Acquedotti. Non un luogo a caso: perché nella mappa del malaffare romano, ogni quadrante è ben spartito e i confini delineati. E secondo gli investigatori il movente che ha caricato l'arma di Raul Esteban Calderon, il presunto killer argentino al soldo della mafia albanese appena arrestato, sarebbe maturato perché Piscitelli, alias Diabolik, stava alzando il tiro e voleva allargare il giro d'affari. Era già arrivato a stringere accordi a Roma Nord e a Ostia. Più di un'ipotesi per gli investigatori. Intanto mentre il cerchio delle complicate indagini si chiude intorno al delitto del Diablo, gli inquirenti sorvegliano le piazze dello spaccio della Capitale. Dove sopravvivono vecchi legami e nascono nuove alleanze. Un ruolo di spicco quello di Piscitelli e a distanza di 16 mesi dal delitto restano ancora molti punti bui. Secondo quanto riportato nell'ultima relazione della Direzione investigativa antimafia (Dia) è stata accertata «l'operatività di un sodalizio tipo mafioso italo-albanese con qualificati collegamenti con esponenti della ndrangheta». E il posto lasciato vuoto da Piscitelli, sarebbe stato preso proprio dagli albanesi sotto la guida del clan Senese. La famiglia campana in affari con la camorra, che insieme al fiume di droga ha costruito un impero economico attraverso l'usura e il riciclaggio. Sono ancora i Senese che per primi, già alla fine degli anni Novanta, reclutano gli albanesi per lo spaccio di sostanze stupefacenti nel quadrante Est della Capitale. Dal Tuscolano tra Cinecittà e Don Bosco. E sempre loro che sono in affari con Piscitelli. Un'amicizia che li accompagna per oltre 30 anni: è uno dei fratelli Senese, Gennaro, che gli presenta la moglie Rita Corazza. Ma oggi il profilo criminale della città è cambiato anche se, le pistole non hanno mai smesso di sparare. C'è infatti un filo rosso che lega la criminalità albanese allo spaccio romano. Con una organizzazione ben ramificata su cui i riflettori sono già accesi. Un'intricata matassa, un equilibrio delicatissimo in cui vecchi e nuovi padroni gestiscono le piazze dello spaccio all'indomani della morte di Piscitelli. Intanto si continua a sparare: Selavdi Shehaj, un 38enne di origini albanesi con precedenti per droga, viene freddato sulla spiaggia di Torvaianica. La matrice è la stessa di Piscitelli: lo capiscono subito i carabinieri che indagano e che per primi allargano le indagini che arrivano fino all'Argentino, Calderon. Tra le due morti c'è altro sangue che scorre nelle piazze dello spaccio. Il 16 novembre, in via di Boccea, viene colpito all'addome Leandro Bennato, trafficante di droga arrestato in Spagna nel 2003. Durante le indagini, i carabinieri accertano lo stretto rapporto che lo lega ai Fasciani, il clan del litorale di Ostia. Il 26 gennaio del 2020, al Tufello, viene invece ucciso con una raffica di colpi alla schiena Gentan Kasa, uno spacciatore albanese in permesso premio. E poi l'ultimo agguato, quello del 6 dicembre a Primavalle dove è rimasto ucciso Adrain Pascu, l'albanese che in un recente passato aveva incrociato Diabolik lavorando in una pizzeria di Ponte Milvio. C'è infine un ultimo tassello che resta da inserire: la criminalità organizzata sud americana già operativa nel litorale pontino e dove sarebbe stato reclutato Calderon. Gli argentini starebbero infatti spingendo per entrare nel ricco mercato dello spaccio capitale.

Valentina Errante per “il Messaggero” il 19 dicembre 2021. Francisco. Così era conosciuto Raul Esteban Calderon, l'argentino che, per la procura di Roma, ha premuto il grilletto ed eliminato, in un pomeriggio di agosto di due anni fa, Fabrizio Piscitelli. Quando il procuratore Michele Prestipino e l'aggiunto Ilaria Calò hanno avuto in mano l'ultima prova, non ci sono stati dubbi. Non si poteva procedere con una richiesta di arresto, quell'uomo, senza neppure una casa, poteva sparire. Come era sparito tante altre volte, lasciando dietro di sé solo le tracce dei suoi ingressi in carcere: furto d'auto o rapina. Ma questa volta aveva fatto il salto di qualità. Raramente dormiva nello stesso posto, nessuna regolarità o abitudine. Neppure la richiesta del permesso di soggiorno, sebbene fosse in Italia almeno dalla fine degli anni Novanta. Il timore che lasciasse il Paese ha accelerato i tempi. L'ultima prova, arrivata un mese fa, era la comparazione antropometrica tra le movenze del killer del parco degli Acquedotti e il sospettato. Ed è stata una conferma. Ma il rischio, quando il cerchio si è chiuso, era che quell'uomo facesse perdere le sue tracce. Ed è sul pericolo di fuga che si è basato il provvedimento di fermo per Calderon. Un'ipotesi concreta, riconosciuta dal gip che lo ha convalidato e ha emesso una nuova misura cautelare. Perché l'argentino era quasi invisibile e sarebbe potuto sparire, diventare presto irreperibile. Soprattutto se si fosse accorto di essere seguito. Gli uomini della Mobile, del resto, lo tenevano d'occhio da tempo e un'ordinanza di custodia cautelare che rischiava di arrivare troppo tardi. L'inchiesta non è chiusa, adesso si cercano i mandanti: chi abbia deciso che il tempo del signore della droga, diventato così potente da non rispettare più le regole, fosse finito, non è ancora stato stabilito. La morte di Diabolik, però, non si consuma in uno schema semplice. A decidere che Piscitelli dovesse morire, probabilmente, non è stato un solo uomo, ma il cartello delle organizzazioni del narcotraffico, che si spartiscono le piazze di spaccio della Capitale e del litorale e per il quale Diablo, che da gregario si era autoproclamato padrone, era diventato troppo ingombrante. Da tempo Piscitelli aveva smesso di comportarsi da gregario. Sotto la protezione di Michele Senese aveva imparato a muoversi e a gestire in autonomia il suo business. Mentre le inchieste giudiziarie indebolivano clan storici come i Fasciani, gli Spada e i Casamonica, lui aveva iniziato a correre da solo. Fuori dalla curva degli ultrà biancocelesti, dove era cresciuto e diventato Diabolik. Una parabola ascendente e inarrestabile, che lo aveva portato non soltanto a guadagnare piena autonomia, mentre la sua squadra di picchiatori recuperava i crediti dei fiumi di droga, ma anche di sentirsi un boss. Piscitelli, credeva ormai di essere il capo come un tempo era stato Senese, il vero boss. Al suo fianco restavano solo i fedelissimi, come Fabrizio Fabietti, l'alter ego di Piscitelli, che pure ha rischiato di essere ucciso in un regolamento di conti e di equilibri violati. Il vertice con Salvatore Casamonica, in un ristorante di Grottaferrata, al quale avrebbero preso parte anche i legali di Roberto Spada, nel 2017, racconta un Piscitelli leader. Vuole la pax nel mercato della droga e delle estorsioni a Ostia. Dopo un anno di fuoco, come è stato il 2016, durante il quale il clan di Marco Esposito (Barboncino) tenta di prendere il posto degli Spada, sostiene di essere capace di interrompere la scia di sangue e gambizzazioni. Si fa garante tra i gruppi criminali. Come soltanto i veri boss possono fare. Intanto Piscitelli ha tradito ha assoldato gli albanesi e lavora con loro. Si prende gli uomini degli altri gruppi criminali, concede crediti milionari per lo spaccio alle altre organizzazioni. In questo modo pensa di essere il padrone, quasi di potere diventare un nuovo Michele Senese. In mezzo c'è la gambizzazione di Leandro Bennato, eseguita dall'albanese Shehaj Selavdi (che sarà ucciso nel settembre 2020 proprio da Calderon, secondo i pm) e forse da un complice che torna in Albania e lì trova la morte. Dopo poco più di due anni da quel pranzo a Grottaferrata, Diabolik è un uomo morto. Attirato con l'inganno da un amico (un altro trafficante secondo la moglie), nel parco degli Acquedotti. Non sospetta nulla, si sente invincibile. Invece la sentenza è già stata emessa. Il killer passa e gli spara. Un'azione studiata, messa a punto nei dettagli. Piscitelli è solo, neppure il suo guardaspalle si accorge di nulla. Sono state le intercettazioni a portare la procura sulle tracce di Calderon, avrebbe ucciso per soldi. Poi sono arrivate le testimonianze. Gli inquirenti hanno ricostruito il complesso mosaico, sulla tela delle piazze di spaccio. E le tessere hanno consentito di ricostruire tutti i passaggi che porterebbero dalla gambizzazione di Leandro Bennato, alla morte di Piscitelli e a quella di Elavdi Shehaj, l'albanese ucciso tra i bagnanti a Torvaianica. Adesso, secondo l'impianto dell'accusa, mancano solo i mandanti.

CAMILLA MOZZETTI per il Messaggero il 21 dicembre 2021. Il suo vero nome potrebbe essere un altro e non Raul Esteban Calderon, argentino di 52 anni. L'uomo è stato arrestato con l'accusa di essere il killer di Fabrizio Piscitelli ma la sua identità potrebbe essere un'altra. Di certo a tradirlo è stata l'ex compagna, madre della figlia minorenne, sua sodale negli in cui l'uomo prima di diventare - secondo l'accusa - un sicario di professione era un rapinatore di gioiellerie. La donna insieme a lui ha messo a segno diversi colpi - e come ricostruito da un servizio mandato in onda ieri sera nel telegiornale di La7 - sarebbe stata arrestata e poi intercettata. In una telefonata avrebbe accusato l'ex compagno di averle preso di nascosto la pistola usata poi, il pomeriggio del 7 agosto 2019, al parco degli Acquedotti per uccidere con un solo colpo alla nuca il capo ultrà. Dopo aver messo a verbale tutto la donna è stata condotta dagli investigatori in una località protetta. L'arma, invece, una calibro 9, ad oggi non è stata ritrovata mentre l'argentino conosciuto anche con l'alias Francisco avrebbe un'identità ufficiale falsa: il suo nome non sarebbe Raul Esteban Calderon e per appurarlo gli inquirenti sono ora in contatto con le autorità di Buenos Aires. A permettere agli investigatori di chiudere il cerchio su di lui, oltre alle rivelazioni dell'ex compagna anche le intercettazioni raccolte in carcere di Enrico Bennato, criminale della periferia Ovest di Roma che, parlando con il fratello arrestato per minacce all'ex fidanzata, avrebbe fatto il nome dell'argentino come esecutore dell'omicidio Piscitelli.

LA PERIZIA A sorreggere quest' impianto la perizia svolta dal professor Andrea Maria Lingua ordinario al politecnico di Torino sulle immagini riprese da un sistema di videosorveglianza. Il pomeriggio di quel 7 agosto una videocamera di un palazzo di fronte al parco degli Acquedotti riprende la scena del delitto: il capo ultrà seduto sulla panchina, il suo killer vestito da runner con una bandana sul polpaccio destro a coprire un tatuaggio che si avvicina, estrae l'arma e spara. L'analisi antropometrica seguente al sopralluogo dello scorso 29 aprile e la comparazione con le immagini del video hanno dato un match positivo: quell'uomo ripreso era l'argentino. Su cui pende anche un'altra accusa, in concorso con Enrico Bennato: quella dell'omicidio di Shehaj Selavdi, albanese, freddato con le stesse modalità usate nel delitto Piscitelli su una spiaggia di Torvaianica. I due delitti potrebbero essere collegati ed anche su questo si stanno concentrando ora le indagini mentre resta da scoprire il nome o i nomi dei mandanti. Di certo c'è che Diabolik è stato ammazzato in casa sua, in quella stessa zona storicamente controllata dai napoletani della Tuscolana vicini al boss Vincenzo Senese, dal 2013 in carcere.

Alessia Marani Camilla Mozzetti per "il Messaggero" il 20 giugno 2021. Un mandante che ha assoldato Francisco, il presunto killer argentino che il 7 agosto del 2019 ha ucciso il Diablo su una panchina del parco degli Acquedotti, c'è. Ma forse non è l'unico ad avere decretato la morte di Fabrizio Piscitelli, capo ultras della Lazio il cui nome già compariva nelle prime informative degli anni 90 sulle grosse partite di droga arrivate a Ostia via mare o via aeroporto con l'aiuto dei bravi ragazzi legati alla Nuova Camorra impiantata a Roma e il beneplacito delle altre mafie che parlano direttamente coi cartelli sudamericani. Di certo c'è che Diabolik è stato ammazzato in casa sua, in quella stessa zona storicamente controllata dai napoletani della Tuscolana vicini al boss Vincenzo Senese, dal 2013 in carcere. All'appuntamento era andato sicuro, senza portarsi dietro il suo esercito di scagnozzi albanesi o i fidi ultras spesso usati come picchiatori. Aveva sì litigato con tanti, un grosso narcos che dopo il carcere voleva tornare in pista alla grande e qualche screzio deve averlo avuto pure con i sodali del clan del Gattino a Casalotti a cui i fratelli Bennato fanno riferimento. Senza contare che si era messo in mezzo a troppi diverbi, questioni di droga, orologi, donne. Tutto passava da lui. Ma non pensava di essere ucciso. Invece, qualcuno a un certo punto potrebbe avere detto basta, facciamolo fuori.

IL COLLEGAMENTO Ma qual è il nesso tra l'uccisione di Diabolik da parte, stando alle prime indagini, dell'argentino Raul Esteban Calderon, 52 anni, e l'omicidio di Shehaj Selavdi, nel settembre del 2020 a Torvaianica, di cui sempre Francisco è accusato insieme a Enrico Bennato? Gli agenti di polizia della Squadra Mobile, che hanno raccolto elementi fondamentali per la congiuntura delle due inchieste, lo stanno cercando passando anche attraverso un altro misterioso delitto avvenuto nel gennaio del 2020 al Nuovo Salario. A morire in un agguato sotto casa era stato un altro albanese, Gentian Kasa. Si sta cercando un nesso attraverso i racconti delle pistole o, almeno, dei bossoli ritrovati sulle scene dei due crimini. Sia Salavdi che Kasa erano legati al capo ultrà. Personaggi che gravitavano nell'orbita criminale di Piscitelli dove, appunto, gli albanesi avevano un ruolo importante. Entrambi sono stati uccisi ad una distanza di tempo ravvicinata. Non solo, sia l'albanese freddato a Torvaianica che l'altro ucciso al Nuovo Salario sono morti per i colpi di una pistola calibro 7,65. E se al momento l'arma che l'argentino avrebbe impugnato per far fuori Diabolik - una calibro 9 - non è stata ancora trovata, per gli altri due omicidi, quello di Kasa e di Selavdi, gli investigatori potranno operare al più presto una comparazione. A Maggio scorso in un magazzino di via Casal del Marmo in uso ai familiari di quel boss di Primavalle furono ritrovate due pistole, una di questa è una calibro 7,65.

LE ANALISI Per i delitti di Torvaianica e del Nuovo Salario le armi non sono state trovate ma sulla scena del crimine gli inquirenti hanno rinvenuto i bossoli esplosi ed è possibile procedere ad una comparazione tra la pistola ritrovata nel magazzino e vedere se quei bossoli erano contenuti in dei proiettili che a loro volta sono stati inseriti nell'arma trovata a maggio. Se fosse così, non si potrebbe escludere che il boss di Primavalle non solo è coinvolto nell'omicidio di Torvaianica ma anche in quello del Nuovo Salario. Entrambi gli albanesi avevano un legame con Piscitelli ed entrambi vengono uccisi a pochi mesi di distanza dopo che il capo ultrà è stato freddato al parco degli Acquedotti e dopo che, aspetto da non trascurare, uno dei fratelli del boss di Primavalle ha rischiato di finire ammazzato all'uscita del Grande raccordo anulare direzione Boccea. 

Michela Allegri per “Il Messaggero” il 21 settembre 2021. C'erano l'usura e le estorsioni, le minacce, le armi nascoste in casa, le intimidazioni. C'era la paura delle vittime, che non hanno trovato il coraggio di denunciare e che, per ripagare i debiti con il clan di origine sinti, hanno dovuto persino vendere casa. C'era il controllo del territorio: la Romanina e Porta Furba come quartier generale, con i residenti terrorizzati, ma silenziosi, con bocca tappata di fronte alle domande degli investigatori, per timore di ritorsioni. Tutto questo, per il Tribunale di Roma, si traduce in una sentenza: il clan Casamonica è un'associazione mafiosa. Ieri i giudici della X sezione penale, dopo 7 ore di camera di consiglio, nell'aula bunker di Rebibbia hanno disposto condanne per oltre 400 anni di carcere a carico di 43 tra capi e affiliati alla famiglia sinti. La pena più pesante - come chiesto dal pm della Dda Giovanni Musarò, titolare del fascicolo - è per il boss Domenico Casamonica: 30 anni di carcere. Pesanti anche le condanne per gli altri capi del clan: 20 anni e mezzo per Giuseppe Casamonica, 12 anni e 9 mesi per Luciano, 25 anni e 9 mesi per Salvatore, 23 anni e 8 mesi per Pasquale, 17 anni per Consiglio, 19 anni per Massimiliano Casamonica. Esulta la sindaca di Roma, Virginia Raggi, con il Campidoglio costituito parte civile nel maxi-processo, iniziato nell'ottobre 2019 e scaturito dalla mastodontica operazione Gramigna dei Carabinieri: «Io di fronte al clan non mi sono mai piegata. Vivo sotto scorta per questo. Il tribunale ha confermato l'associazione di stampo mafioso. È la conferma che a Roma il clima è cambiato».

I COLLABORATORI Fondamentali per l'inchiesta, le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia: Debora Cerreoni e Massimiliano Fazzari. La prima, ex moglie di un rampollo del clan, aveva sostenuto di essere stata sequestrata: «Hanno minacciato di sciogliermi nell'acido». Aveva raccontato anche di montagne di denaro e delle minacce subite: «Uno di loro diceva di avere 10 milioni di euro nascosti nei muri». Del lusso ostentato nelle intercettazioni e sui social aveva parlato anche il pm Musarò nella requisitoria: Rolex e gioielli, per il clan, erano una forma di investimento non tracciabile, ma «l'esibizione del lusso rappresenta il modo con il quale i Casamonica dimostrano la loro potenza, i Rolex sono un segno distintivo». Nelle conversazioni captate si parlava di orologi che arrivavano a costare anche 200mila euro, ma anche di rubinetti d'oro che si trovavano nei bagni delle ville alla Romanina. «Stanno là tutti i soldi vostri - diceva intercettato un affiliato al clan - nei bagni nelle tubature, nei rubinetti dei bagni, alcuni anche nelle maniglie delle porte... c'avete il più grosso capitale d'oro che c'è a Roma». Il pm, prima di chiedere le condanne, aveva sottolineato anche un altro punto: «I Casamonica fanno paura alla popolazione romana». Un dato è emblematico: nel procedimento c'erano ben 25 vittime di usura ed estorsione, ma nessuna è costituita parte civile, nessuna ha denunciato. Anzi, «una persona aveva trovato il coraggio di farlo - ha detto il magistrato - ma la denuncia era stata fatta misteriosamente sparire. Nessuno presenta denunce, neanche quelli che, per pagare i debiti usurari, hanno dovuto vendere la casa, neanche quelli che hanno pagato per 16 anni, o quelli che erano così disperati da scappare all'estero». Tutte prove del potere di intimidazione esercitato dalla famiglia sinti e dai loro sodali. 

LE REAZIONI Ieri il Tribunale ha disposto anche risarcimenti per le parti civili: 25mila euro a testa per Campidoglio e Regione Lazio, 10mila per le associazioni costituite. Il presidente della Regione, Nicola Zingaretti, ha parlato di «una sentenza storica che finalmente mette nero su bianco che Casamonica equivale a mafia». Mentre l'avvocato Giulio Vasaturo, legale dell'associazione antimafia Libera, sottolinea anche come il verdetto serva a «fare luce su una sequela di episodi di estorsione e violenza rimasti sino ad oggi impuniti, anche a causa della dilagante omertà imposta dal clan». Luigi Ciatti, presidente dell'Ambulatorio Antiusura ha invece commentato: «È una sentenza che aspettavamo da tempo. Registriamo però l'assenza delle vittime, nessuna si è costituita parte civile: un fatto grave che va analizzato». Di diverso avviso l'avvocato Giosuè Bruno Naso, difensore di diversi imputati, tra i quali i Giuseppe e Domenico Casamonica: «Sentenza sconcertante, ma non sorprendente considerando il conformismo colto fin dall'inizio del dibattimento. Affronteremo l'appello».

Camilla Mozzetti per "il Messaggero" il 23 dicembre 2021. «Sicuro esce da qua...spari...» comanda Leandro Bennato a Raul Esteban Calderon. È il novembre 2019 e la scia di sangue partita tre mesi prima dal Parco degli Acquedotti con l'uccisione di Fabrizio Piscitelli (sotto l'indifferenza di alcuni passanti come si vede nelle foto tratte dal video) sembra non volersi fermare. Oltre a lui c'era un altro uomo da far fuori: il suo braccio destro, Fabrizio Fabietti. Ne era convinto Leandro Bennato, accusato oggi di essere il mandante dell'assassinio del capo ultrà. Per undici giorni, dal 14 al 25 novembre 2019, lui e Calderon - arrestato dalla Squadra Mobile e accusato di essere il killer del Diablo - hanno provato ad ammazzare Fabietti. Dopo la morte di Piscitelli in strada restano due gruppi contrapposti: nel primo ci sono i sodali di Diabolik che cercano vendetta, nel secondo i possibili mandanti e l'uomo accusato dell'omicidio. Cosa succede? A tre mesi dalla morte del Diablo, Leandro Bennato scampa miracolosamente ad un agguato mortale proprio la sera del 14 novembre. Non è un caso o, almeno, non lo è per gli investigatori. «Leandro Bennato e gli uomini a lui vicini ipotizzavano, con ragionevole margine di certezza, che l'attentato ai propri danni avesse quale mandante Fabrizio Fabietti, ossia il braccio destro di Piscitelli», scrive il gip Tamara De Amicis nell'ordinanza di custodia cautelare a carico dell'argentino. LA SEQUENZA Riavvolgiamo il nastro: il pomeriggio del 14 novembre 2019 Leandro Bennato è a bordo della sua Fiat Panda all'uscita Boccea del Gra quando due uomini, in sella ad una moto, gli si avvicinano nel tentativo di colpirlo a morte. Ma l'agguato non riesce, Bennato si salva dai proiettili esplosi e la sera stessa inizia a cercare chi, secondo lui, avrebbe dato l'ordine di ammazzarlo: Fabrizio Fabietti, alter-ego criminale di Piscitelli. «L'inseguimento da parte degli autori del reato, due giovani a bordo di una moto SH - scrive ancora il gip - aveva avuto infatti un'andatura prolungata, sino a quando i due avevano affiancato la Fiat Panda condotta dal Bennato esplodendo i colpi di pistola in prossimità di un incrocio; e, in tale lasso temporale, la vittima si era fatta l'idea che si trattasse di persone molto giovani riconducibili al gruppo avversario». Parte così la controffensiva. «A cominciare dal 16 novembre 2019 - si legge ancora nell'ordinanza - Leandro Bennato iniziava una serie di appostamenti a mano armata insieme a Raul Calderon e a bordo della vettura di quest' ultimo per sorprendere Fabietti nei luoghi da quest' ultimo solitamente frequentati».

LA CONTROFFENSIVA Tutte azioni, queste, monitorate dalle intercettazioni ambientali raccolte dalla Mobile nell'auto dell'argentino. Fabietti è stato seguito per giorni sotto l'abitazione della moglie e quando ha compreso le intenzioni del Bennato si è anche dotato di «una scorta armata» oltre ad «una serie di cautele, in particolare il controllo e bonifica dei luoghi da lui frequentati, prima fra tutte la sua abitazione». I tentativi di ucciderlo proseguono anche nei giorni seguenti. Il 25 novembre Bennato invita Calderon a scendere dall'auto: «Ce l'hai lo scaldacollo?» l'argentino risponde sì e Bennato aggiunge: «Mettitelo... pure i guanti». Un passaggio questo che per il gip dimostra la serietà «della volontà di compiere un gesto efferato» e sempre dalle intercettazioni ambientali «si evince l'attitudine del Calderon - conclude il gip - a prestarsi per il compimento di azioni di sangue». L'omicidio non va in porto. All'alba del 28 novembre scattano gli arresti dell'inchiesta Grande Raccordo Criminale che porteranno in carcere 51 persone tra cui Leandro Bennato e Fabietti, trovato nascosto, al momento dell'arresto, tra i condizionatori del terrazzo della sua abitazione sulla Tiburtina.

Preso il killer di Piscitelli (Diabolik): incastrato da un video. Orlando Sacchelli il 17 Dicembre 2021 su Il Giornale. Il leader del gruppo dei tifosi laziali "Gli Irriducibili" fu freddato a Roma nell’agosto del 2019. L'uomo in manette si chiama Raul Esteban Calderon: è accusato di omicidio aggravato dal metodo mafioso. È finito in manette l'uomo accusato di aver ucciso Fabrizio Piscitelli, conosciuto da tutti come Diabolik, capo degli Irriducibili della Lazio. Si tratta di Raul Esteban Calderon: l'accusa nei suoi confronti è omicidio aggravato dal metodo mafioso.

Piscitelli fu ucciso il 7 agosto 2019 al Parco degli Acquedotti, pochi minuti prima delle 19, mentre stava seduto su una panchina. Con lui c'era il suo autista. All'improvvisò arrivò un uomo, vestito da rider, gli puntò la pistola alla testa ed esplose un colpo, uccidendo Piscitelli. Una vera e propria esecuzione. ''Le fonti di prova - spiega la procura di Roma - sono costituite dagli elementi raccolti dalla Squadra Mobile e dalla Polizia scientifica nel corso del sopralluogo effettuato sul luogo e nell'immediatezza del fatto e in particolare da un filmato estratto da una telecamera installata in zona con la quale è stata ripresa l'esecuzione del delitto. Dall'analisi tecnica del filmato dell'omicidio eseguita prima dalla Polizia scientifica e successivamente dal consulente tecnico incaricato dalla Procura è emersa una chiara compatibilità tra il killer visibile nel filmato e il soggetto gravemente indiziato''.

Decisive, a quanto si apprende, sono state anche alcune intercettazioni, che hanno permesso di avere dei riscontri in merito all'esecutore materiale. Inoltre gli inquirenti nel corso delle indagini avrebbero raccolto anche alcune dichiarazioni importanti.

L'uomo arrestato, Calderon, è stato raggiunto anche da un'altra misura cautelare insieme a Enrico Bennato (già in carcere per altri reati), poiché è indiziato dell'omicidio di Shehaj Selavdi, ucciso sulla spiaggia di Torvaianica il 20 settembre 2020. Dalle intercettazioni effettuate sarebbero emersi fondati elementi riguardo agli esecutori materiali di entrambi gli omicidi nonché il contesto in cui sono maturati, con particolare riferimento ad alcuni contrasti per il controllo delle piazze di spaccio della droga nella città di Roma.

Orlando Sacchelli. Toscano, ho scritto per La Nazione e altri quotidiani. Dal dicembre 2006 lavoro al sito internet de il Giornale. Ho fondato L'Arno.it, per i toscani e chi ama la Toscana

Nelle due pistole della ex di Calderon i segreti dell'assassino di Diabolik. Stefano Vladovich il 23 Dicembre 2021 su Il Giornale. Oltre all'ultrà laziale e a un narco albanese, l'argentino ha commesso un terzo omicidio. Ma senza armi niente prove. Delitto Piscitelli, un omicidio nella guerra per il controllo della capitale pieno di lati oscuri. «Vengono qua a fa' casotti e ce rimettono la vita. Tutti e tre ce l'hanno rimessa Fra'». È l'intercettazione ambientale del 20 aprile scorso quando Enrico Bennato - arrestato con Francisco, alias Raul Esteban Calderon, 51 anni argentino, per l'omicidio Diabolik e di un affiliato albanese, Selavdi Shehaj, detto Simone - discute con un amico, Francesco Daffina. L'uomo parla di tre esecuzioni, ma la polizia li arresta per due omicidi: Piscitelli e Selavdi. Chi è il terzo che avrebbe sparato a Leandro Bennato, attentato pagato con la vita?

Due gruppi contrapposti, quello del Diablo, sempre più in ascesa sul traffico di cocaina e sul recupero crediti legati alla droga, appoggiato dalla tifoseria ultrà legata alla destra romana e dai picchiatori albanesi, e quello dei fratelli Bennato, nipoti del boss di Casalotti Walter Domizi, il Gattino, che conta su una batteria di sicari freddi e senza scrupoli. Rapinatori professionisti come Raul, che i parenti in Argentina chiamano invece Gustavo, assoldati per fare piazza pulita dei narcos emergenti. Fra inseguimenti a colpi di pistola, gambizzazioni e attentati mortali gli investigatori avrebbero stretto il cerchio su due casi insoluti. Il primo, quello su cui puntano maggiormente le indagini, è avvenuto il 25 gennaio 2020, ovvero a cavallo fra l'omicidio Piscitelli del 7 agosto 2019 e di Simone, al Bora Bora di Torvaianica, il 20 settembre 2020. Gentian Kasa, 45 anni albanese legato alle ndrine di San Basilio e alla camorra del Casilino, è in regime di semilibertà. Passa il sabato sera con la moglie, tra il Nuovo Salario e il Tufello, poi esce per tornare in cella. Il killer lo aspetta sotto al portone e con una 7,65 gli spara contro quattro colpi. Il quinto, una volta a terra, alla testa, per essere sicuri di non sbagliare. Un'azione, sottolineano gli inquirenti, di una precisione millimetrica. L'arma del resto è di piccolo calibro, va usata a distanza ravvicinata. È la stessa 7,65 tenuta assieme alla 9x21 usata per uccidere Diabolik? L'ex di Raul mette a verbale che la 7,65 era la sua pistola, quella con cui faceva rapine. Ma si inceppava spesso, quindi la sostituisce con la Beretta parabellum sottratta a un gioielliere durante un assalto. Le due armi Rina Bussone le nasconde in un vaso in giardino, Raul le prende, a sua insaputa, poco prima dell'arresto della donna proprio per quella rapina. Con una uccide Diabolik e Simone, poi la fa sparire, l'altra sarebbe stata utilizzata per eliminare Kasa. La prova regina per i tre omicidi sarebbe la comparazione balistica con i proiettili e i bossoli sequestrati. Se si trovassero le armi.

Ma c'è un altro caso misterioso: l'omicidio alla Magliana di Andrea Gioacchini, 34 anni, sorvegliato speciale appena uscito di galera. Con il fratello Sergio viene assunto da Tamara Pisnoli, ex moglie del calciatore Daniele De Rossi, per picchiare e seviziare chi non paga i debiti. Il 10 gennaio 2019 viene centrato alla testa da 3 proiettili 7,65, il calibro usato poi per Kasa. È la stessa pistola che Calderon prenderà alla Bussone assieme alla 9x21? Stefano Vladovich

Il killer ha intascato 100mila euro per uccidere Diabolik. Valentina Dardari il 22 Dicembre 2021 su Il Giornale. La compagna dell’omicida è stata intercettata e al telefono ha spiegato che l’ultrà laziale è stato ucciso con la sua pistola. Il killer di Fabrizio Piscitelli, l’ultrà laziale conosciuto con il nome di Diabolik, avrebbe intascato 100mila euro per commettere l’omicidio, avvenuto il 7 agosto del 2019 al Parco degli Acquedotti. A riferirlo agli inquirenti della Procura di Roma che hanno portato avanti le indagini è stata la ex-compagna di Raul Esteban Calderon, il presunto killer vicino agli ambienti della malavita albanese, che ha rivelato: “Raul mi ha detto che aveva avuto 100mila euro in contanti da Leo e siccome era poco, ma lui non aveva altri contanti, gli avrebbe dato 4 mila euro al mese”. La donna ha anche reso noto il nome di chi ha commissionato l’omicidio: “Leo era il mandante” .

Perchè il killer ha ucciso Diabolik

Il movente, sempre secondo quanto asserito dalla testimone, “era personale, nel senso che Leo era considerato un infame da Diabolik e che stava spargendo, avrebbe potuto spargere questa voce”. Le sue dichiarazioni sono contenute nell'ordinanza di convalida e di misura cautelare. Buscettina, come si è autodefinita, avrebbe deciso di parlare per lasciare quella vitaccia fata di guai e pistole. Come riportato da Repubblica, durante una intercettazione telefonica la donna aveva urlato nella cornetta all’allora suo uomo: “Sei tu che hai ammazzato a Diabolik con la pistola mia, lo sanno tutti. Hai ammazzato Diabolik con la pistola mia, la 9 x 21, m'hai rubato la pistola per fa n'omicidio de m...”.

La pistola a cui si riferisce era stata rubata in una gioielleria durante una rapina ed era poi stata nascosta “all'interno di un’anfora adibita a vaso di fiori” come riportato nell'ordinanza di custodia cautelare. La donna ha quindi raccontato ai magistrati del pool Antimafia di Roma che “l’anfora si trovava davanti l'ingresso dell'abitazione della mamma di un carabiniere, la quale abita sul mio stesso pianerottolo e che ha molte piante”.

Uccise capo ultrà della Lazio: arrestato presunto assassino di "Diabolik"

Improvvisamente arrivarono i soldi

Da un giorno all’altro però quell’arma era sparita nel nulla. In compenso però erano arrivati dei soldi e le rassicurazioni di Calderon alla sua donna: “Mi disse di non preoccuparmi perché le cose sarebbero cambiate, mi diceva che si vedeva con Leo e che qualcosa sarebbe uscito fuori”. L’argentino aveva giurato fedeltà alla famiglia di Enrico Bennato per la quale sembra che commise anche un altro delitto nel settembre 2020, uccidendo sulla spiaggia di Torvaianica l'albanese Shehaj Selavdi. Forse anche il socio di Diabolik, Fabrizio Fabietti, doveva essere ammazzato, come pensano gli inquirenti. In una intercettazione telefonica risalente al 20 aprile Bennato dice: “Se vengono qui a fa Casalotti, ce rimettono la vita Francè. Tutti e tre ce l'hanno rimessa: Diabolik e quell'altri due. Qui non devono venì a fa i prepotenti a Casalotti”.

E ancora, parlando dei rivali:“Non metti paura manco ar ca..o! Già non metti paura così, perché non fai niente, perché è morto pure quello, a sede su a panchina stava, a fumà a sigaretta, ha preso 'na revolverata qua dietroe uno! E n'altri due de quelli là, quelli che hanno sparato, vabbè so morti quelli che hanno sparato a Leandro'”. Leandro è il fratello di Enrico Bennato che era stato gambizzato quattro mesi dopo che Piscitelli era stato fatto fuori. I sospetti degli investigatori sono stati confermati anche dallo stesso Bennato: “Ha ammazzato Diabolik, lo sa tutta Roma. Le guardie però non c'hanno le prove, io so indagato eh, so indagato de Diabolik”. Infine, l'uomo ha anche rivelato di aver fatto scappare Calderon dopo il delitto mandandolo in Spagna, perché tutti sapevano che quello sulla spiaggia lo aveva ammazzato lui. Il giudice ha firmato l'ordinanza di custodia cautelare definendo queste frasi “particolarmente credibili”. 

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou,

Omicidio Diabolik, la ex fidanzata del presunto killer: mi hai rubato la pistola e hai sparato. Il Tempo il 21 dicembre 2021. «M’hai rubato la pistola per fà ’n omicidio de m...!». Così l’ex compagna di Raul Calderon, presunto killer di Diabolik in una telefonata intercettata contenuta nell’ordinanza di convalida del gip di Roma. Calderon, argentino, è in carcere con l’accusa di omicidio aggravato dal metodo mafioso in relazione alla morte di Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik, ucciso il 7 agosto 2019 nel parco degli Acquedotti a Roma con un colpo di pistola. All’arresto si è arrivati dopo le indagini, coordinate dalla Dda di Roma con il procuratore Michele Prestipino e l’aggiunto Ilaria Calò e il decreto di fermo è stato eseguito dalla Squadra Mobile di Roma. «Lo sai hai ammazzato Diabolik con la pistola mia, la 9X21, se me fai passà li guai sò cazzi tua Raul, quando te fai trent’anni lo vedi come stai male…cò questo addio bello…e fa che nessuno mai me viene a bussà perché dico tutto quello che so». «Tu stai male - replica Calderon - te rendi conto de quello che dici….dillo….urlalo brutta tr…». «A Raul….forse non hai capito che lo sanno tutti…te devi andà a fà trent’anni perché non me li voglio fà io per te…hai usato la pistola della rapina», conclude la donna. A tradire il presunto killer di Diabolik è stato anche il tatuaggio sul polpaccio, coperto da una fasciatura durante i momenti dell’omicidio. «Un rilevante elemento per l’identificazione del sicario è la presenza di una fasciatura atta a coprire il polpaccio destro. Grazie ai filmati eseguiti dalla polizia giudiziaria il settembre 2019 si evidenziava che sulla gamba destra di Calderon comparivano due tatuaggi» si legge nell’ordinanza di convalida del fermo del gip. «Sulla base di quanto rilevato durante il servizio è doveroso evidenziare che dalle immagini del video che ha documentato le fasi dell’omicidio di Piscitelli è emerso che il suo killer indossava una bandana verde, che copriva la capigliatura e una vistosa fascia bianca proprio al polpaccio destro idonea a nascondere la presenza di eventuali segni distintivi quali possono essere ad esempio i tatuaggi» scrive il gip. «Anche la bandana verde a copertura di tutta la parte anteriore del capo è risultata idonea ad occultare l’attaccatura dei capelli nella parte frontale della testa, particolarmente stempiata e perciò in teoria agevolmente riconoscibile da possibili osservatori dell’azione» si legge nell’ordinanza. 

L'inchiesta sulla morte dell'ultrà. Omicidio Diabolik, killer in fuga ripreso dalle telecamere e incastrato dal tatuaggio: “E’ stato lui, lo sa tutta Roma”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 21 Dicembre 2021. Ci sarebbe una immagine a incastrare Raul Esteban Calderon, il pregiudicato argentino arrestato la scorsa settimana con l’accusa di omicidio. È lui, secondo gli inquirenti, l’uomo che fugge dopo aver commesso il delitto, l’omicidio di Fabrizio Piscitelli, il “Diabolik” capo ultrà della Lazio con ‘interessi’ nel narcotraffico.

Le immagini sono riprese da una telecamera di videosorveglianza privata: in un fotogramma si vede un uomo vestito da runner che di corsa attraversa via Lemonia, la strada che costeggia il parco degli Acquedotti dove è avvenuto l’omicidio.

Sul suo polpaccio destro è ben evidente una grossa benda bianca sul polpaccio destro: per i pm della Procura di Roma che indagano sull’omicidio di Diabolik la fasciatura serviva a coprire il vistoso tatuaggio di Raul Esteban Calderon. Da precauzione per non essere riconosciuto, quella vistosa benda sarebbe diventata uno dei principali indizi nei suoi confronti.

Contro il presunto sicario argentino però c’è altro: a tradire il 52enne è stata anche l’ex compagna, madre della figlia minorenne e sua sodale in parte della carriera criminale, quando Calderon era un rapinatore di gioiellerie.

In una telefonata intercettata la donna avrebbe accusato il sicario di averle preso la pistola di nascosto per poi usarla nel pomeriggio del 7 agosto 2019 per uccidere Piscitelli con un singolo colpo di pistola alla nuca. Arma, una calibro 9×21, che ad oggi non è ancora ritrovata. Ex compagna che poi, scrive Il Messaggero, ha messo tutto a verbale ed è stata poi condotta in una località protetta.

“M’hai rubato la pistola per fa n’omicidio de m…!“, dice in una intercettazione l’ex compagna di Raul Calderon. “Lo sai hai ammazzato Diabolik con la pistola mia, la 9X21, se me fai passà li guai so’ ca..i tua Raul, quando te fai trent’anni lo vedi come stai male? Co’ questo addio bello? E fa che nessuno mai me viene a bussà perché dico tutto quello che so“, dice la donna. “Tu stai male – è la replica di Calderon – te rendi conto de quello che dici… Dillo… urlalo brutta tr...”. “A Raul… forse non hai capito che lo sanno tutti? Te devi andà a fà trent’anni perché non me li voglio fa’ io per te? Hai usato la pistola della rapina“, ribatte ancora l’ex compagna, che proprio per la questione dell’omicidio di Piscitelli romperà la relazione col 52enne argentino.

Ad indicare Calderon come responsabile del delitto anche una seconda persona: Enrico Bennato, criminale della periferia Ovest di Roma. Quest’ultimo, intercettato in carcere mentre parlava col fratello arrestato per minacce all’ex fidanzata, avrebbe fatto il nome dell’argentino come esecutore dell’omicidio di Diabolik. “Ha ammazzato Diabolik, lo sa tutta Roma, le guardie però non c’hanno le prove, io so indagato eh, so indagato de Diabolik“, dice Bennato, non sapendo in realtà che gli investigatori erano già in possesso delle prove contro l’argentino.

Proprio gli atti dell’indagine, che riporta Repubblica, evidenziano come Diabolik sia stato ucciso nell’ambito di una faida tra bande: “L’omicidio Piscitelli si inquadra in un particolare contesto di lotte criminali che vedeva il gruppo di Fabrizio Piscitelli affiancato dal suo braccio destro Fabrizio Fabietti, contrapposto al gruppo dei fratelli Bennato del quale fa parte l’odierno indagato“. 

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Ad incastrare l'assassino è la sua ex compagna. Omicidio Diabolik, oltre 100mila euro al killer per uccidere l’ultrà della Lazio: “Ma era diventato scomodo”. Redazione su Il Riformista il 22 Dicembre 2021. La vita di Fabrizio Piscitelli, il capo degli Irriducibili della Lazio conosciuto con il nome Diabolik, valeva 100mila euro. Questa è stata la somma data a Raul Esteban Calderon, il 52enne argentino accusato di aver ucciso Diabolik.

La cifra doveva essere consegnata in contanti da Leandro Bennato, e “siccome era poco, ma lui non aveva altri contanti, gli avrebbe dato 4 mila euro al mese”. Calderon ha ricevuto un “vitalizio” mensile per uccidere il capo degli ultrà della Lazio e per mantenere il segreto sull’omicidio. Ma a tradire il 52enne argentino è la sua ex compagna, madre della figlia minorenne e sua sodale in parte della carriera criminale, quando Calderon era un rapinatore di gioiellerie.

Come riportato da Repubblica, la donna rivela anche chi ha commissionato il delitto: “Leo era il mandante”. E il movente “era personale, nel senso che Leo era considerato un infame da Diabolik e che stava spargendo, avrebbe potuto spargere questa voce”. Piscitelli ormai era divenuto scomodo a tutti.

La donna racconta dei soldi inziati a circolare in casa Calderon: “Mi disse di non preoccuparmi perché le cose sarebbero cambiate, mi diceva che si vedeva con Leo e che qualcosa sarebbe uscito fuori”. Migliaia di euro nascosti nei cassetti e negli armadi in casa dell’argentino, il prezzo per aver giurato fedeltà alla famiglia Bennato.

Del resto l’argentino rischia di coinvolgere la donna in una storia più grande di lei, in quell’omicidio avvenuto il 7 agosto 2019 al Parco degli Acquedotti. In una telefonata intercettata, l’ex compagna accusato il sicario di averle preso la pistola di nascosto per poi usarla nel pomeriggio di due anni fa per uccidere Piscitelli con un singolo colpo di pistola alla nuca. Arma, una calibro 9×21, che ad oggi non è ancora ritrovata. L’ex compagna, scrive Il Messaggero, ha messo tutto a verbale ed è stata poi condotta in una località protetta.

“M’hai rubato la pistola per fa n’omicidio de m…!“, dice in una intercettazione l’ex compagna di Raul Calderon. “Lo sai hai ammazzato Diabolik con la pistola mia, la 9X21, se me fai passà li guai so’ ca..i tua Raul, quando te fai trent’anni lo vedi come stai male? Co’ questo addio bello? E fa che nessuno mai me viene a bussà perché dico tutto quello che so“, dice la donna. “Tu stai male – è la replica di Calderon – te rendi conto de quello che dici… Dillo… urlalo brutta tr…”.

“A Raul… forse non hai capito che lo sanno tutti? Te devi andà a fà trent’anni perché non me li voglio fa’ io per te? Hai usato la pistola della rapina“, ribatte ancora l’ex compagna, che proprio per la questione dell’omicidio di Piscitelli romperà la relazione col 52enne argentino.

Ad indicare Calderon come responsabile del delitto anche una seconda persona: Enrico Bennato, criminale della periferia Ovest di Roma. Quest’ultimo, intercettato in carcere mentre parlava col fratello arrestato per minacce all’ex fidanzata, avrebbe fatto il nome dell’argentino come esecutore dell’omicidio di Diabolik. “Ha ammazzato Diabolik, lo sa tutta Roma, le guardie però non c’hanno le prove, io so indagato eh, so indagato de Diabolik“, dice Bennato, non sapendo in realtà che gli investigatori erano già in possesso delle prove contro l’argentino.

Ed è proprio con Enrico Bennato che Calderon avrebbe commesso un secondo delitto, nel settembre 2020, quando l’albanese Shehaj Selavdi è stato ucciso tra le spiagge di Torvaianica.

Cosa ci dice del crimine a Roma l’arresto del presunto killer di Fabrizio Piscitelli detto Diabolik. Giovedì è stato fermato Raul Esteban Calderon, precedenti per furto e rapina, che secondo gli investigatori sarebbe il runner che ha sparato all’ultras e narcotrafficante. E ora gli inquirenti vogliono capire il riassetto del parterre criminale nella città. Massimiliano Coccia su L'Espresso il 20 dicembre 2021. “Non esistono delitti perfetti. Semmai esistono colpevoli molto fortunati” dichiarava Rocco Schiavone, il vicequestore di stanza ad Aosta, nato dalla penna di Antonio Manzini e devono averlo pensato le donne e gli uomini della Squadra Mobile di Roma che congiuntamente ai Carabinieri del Nucleo di Frascati, hanno scandagliato i filmati delle telecamere di sorveglianza di via Lemonia, davanti al Parco degli Acquedotti li dove il 9 agosto del 2019, ha trovato la morte Fabrizio Piscitelli, narcotrafficante, uomo di congiuntura di vari mandamenti criminali, capo carismatico degli Irriducibili Lazio. Un delitto che sembrava essere stato compiuto da un fantasma, che con la sua tuta da runner e la pistola Calibro 9 parabellum aveva messo fine alla vita, le opere e i crimini di Piscitelli detto “Diabolik”. Nel corso dei mesi si sono moltiplicate le ipotesi investigative sull’identità del killer, dalla pista albanese a quella della camorra passando per la ‘Ndrangheta, ma il presunto killer arrestato il 13 dicembre secondo gli inquirenti sarebbe Raul Esteban Calderon, argentino, classe 1969, accusato, dai magistrati della Dda di Roma, di omicidio aggravato dal metodo mafioso.

Fondamentali per gli inquirenti le riprese delle telecamere di un’abitazione su via Lemonia e i riscontri tassonometrici della corsa di Calderon, ripresa in vari pedinamenti dagli agenti della Mobile e confrontati con quelli dell’omicidio.

Un nome non di rango nella criminalità romana, un criminale di piccola levatura che in passato si rese responsabile di rapine, furti in appartamento nel Lazio e in Toscana, a cui è stato affidato di uccidere Piscitelli ormai divenuto scomodo a tutti. Facendo un passo indietro la morte di Piscitelli è stata succeduta cronologicamente da una serie di eventi di importanza cruciale a livello strategico per le geometrie criminali della Capitale; in primis l’inchiesta e gli arresti generati da “Grande Raccordo Criminale”, che qualche mese dopo l’omicidio di Diabolik ha di fatto messo dietro le sbarre tutto il suo cartello criminale (51 persone), raccontando il contesto in cui l’omicidio era maturato. Usura, traffico di droga, recupero crediti per conto della camorra erano gli asset economico del mandamento criminale ma su questi spiccava proprio il ruolo di Piscitelli che si ergeva a figura di controllo del territorio, di garanzia e di affidabilità.

Proprio queste ultime due caratteristiche nei mesi precedenti al suo assassinio sarebbero venute meno, tanto da mettere tutti gli attori criminali che si spartiscono Roma al centro di una decisione univoca che avrebbe portato alla sua uccisione. Il suo omicidio non può secondo gli investigatori essere infatti passato per una decisione solitaria di una delle organizzazioni che si spartiscono la città e la sua morte ha aperto scenari nuovi e diversi rispetto a quanto preventivato.

Piscitelli, secondo i suoi più stretti sodali, era in una situazione di difficoltà dovuta ad investimenti sbagliati, soldi da restituire e dalla scarsa protezione di cui godeva dopo la fine obbligata del sodalizio con Massimo Carminati e Riccardo Brugia. La debolezza di Piscitelli sarebbe stato il voler continuare a giocare su un tavolo di spartizione e trattative avendo al suo fianco alleati infedeli, che puntavano più al suo ruolo, che al mantenimento dell’equilibrio. Anche la modalità dell’omicidio avvenuto in un parco pubblico, in pieno giorno, nel lessico criminale è apparsa più come l’esecuzione di un infedele che la fine di un capo.

In questi mesi, dopo l’estradizione dall’Albania, Dorian Petoku, figura di vertice dell’organizzazione di Diabolik, ha scelto di rispondere alle domande degli inquirenti, in cerca di protezione Petoku avrebbe raccontato che gli arresti della batteria di Piscitelli avvenuti con l’operazione “Grande Raccordo Criminale” hanno evitato l’innesco di una guerra di mafia su Roma.

L’albanese, uomo di collegamento con la criminalità di Tirana, avrebbe ricostruito le dinamiche criminali che per anni hanno dominato Roma, le alleanze e la capacità di penetrazione di Piscitelli in vari settori della città, utilizzando il vettore della tifoseria, del condizionamento psicologico che questo creava in molti. Piscitelli aveva creato una fitta rete di relazioni, di indotto economico in grado di finanziare anche “La voce della Nord”, storica trasmissione radiofonica del tifo laziale. Un po’ di lotta e un po’ di governo, interlocutore per alcuni, traditore per altri, pranzava spesso a Ponte Milvio con Giuliano Castellino, ora detenuto insieme a Roberto Fiore per l’assalto alla sede della Cgil dello scorso ottobre, era visto girare sullo scooter a tinte giallorosse di quest’ultimo quando doveva spostarsi verso il centro storico per evitare di essere intercettato visivamente.

Dopo l’omicidio di Via Lemonia secondo quanto si apprende da fonti investigative, si era creata la frazione dei cosiddetti “lealisti”, coloro che avrebbero voluto lavare subito col sangue la morte del loro capo, innescando così potenzialmente una reazione a catena dalla scarsa prevedibilità. In questo contesto si comprende anche il video di Fabio Gaudenzi, detto Rommel, sodale di Piscitelli e amico di Carminati, che il 4 settembre del 2019, quindi neanche un mese dall’omicidio pubblicò un filmato delirante in cui con un passamontagna e una pistola parlava di una fantomatica organizzazione “I fascisti di Roma Nord” e della sua imminente costituzione in carcere per paura di fare la stessa fine di Diabolik.

Gaudenzi, in molte occasioni aveva chiesto di parlare con il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, per riferire del ruolo della ‘Ndrangheta nella gestione della droga a Roma. Da segnalare che assieme a Raul Esteban Calderon, è stato spiccato un mandato di arresto anche per Enrico Bennato, 53 anni, nipote di Walter Domizi, boss della zona Casalotti detto “Il gattino”. Bennato era già in cella per stalking contro la sua ex compagna, a cui aveva reso la vita un inferno, con minacce, striscioni, colpi di pistola esplosi contro il portone di casa. Colpi esplosi proprio da una pistola calibro 9 parabellum, la stessa che avrebbe ucciso sia Fabrizio Piscitelli che Shehaj Selavdi il 20 settembre del 2020 sulla spiaggia di Torvajanica, omicidio che avrebbe visto la partecipazione di Bennato e dello stesso Calderon.

Gli inquirenti puntano, grazie proprio alla posizione di fragilità dentro le dinamiche criminali dei due presunti killer, a comprendere fino in fondo il riassetto del parterre criminale nella città, un riassetto che sembra appena iniziato.

«Grazie ai pm e alle forze dell’ordine Roma non sarà mai mafiosa». Il magistrato Alfonso Sabella. «A Roma Est non c'è bisogno di una sentenza per sapere chi sono i Casamonica, ma questa città non sarà mai mafiosa». Il Dubbio il 21 settembre 2021. Il tribunale di Roma ha sentenziato che i Casamonica sono un’associazione a delinquere di stampo mafioso. Il loro territorio è la Capitale, ma il provvedimento, secondo il magistrato Alfonso Sabella, ex pm antimafia di Palermo, deve essere circoscritto. Lo spiega in un’intervista rilasciata alla Stampa, parlando proprio delle condanne inflitte ieri dai giudici collegiali romani. «Se tutto dipende dalle sentenze giudiziarie, si finisce per sopravvalutarle dal punto di vista sociale. Pensiamo a cosa nostra. Solo nel 1992 viene certificata dalla Cassazione come mafia. E prima, nel secolo precedente, non lo era? Per me lo era anche da bambino, perché sapevo di fronte a quali portoni non bisognava giocare a pallone. Credo che in certi quartieri di Roma Est non ci fosse bisogno di una sentenza per sapere chi sono i Casamonica, come gli Spada a Ostia». E aggiunge: «Quando io arrivai a Ostia, non ebbi bisogno di sentenze per respirare mafia nella palestra abusiva di Roberto Spada in un locale comunale. E infatti la feci chiudere. Peccato che poi qualcuno la fece riaprire». Alla domanda se “Roma è una città mafiosa”, Sabella risponde così: «No. E forse, grazie al lavoro svolto negli ultimi anni da magistrati e forze di polizia, non lo sarà mai. Ma è una città dove esistono organizzazioni mafiose, per un inesorabile e costante arretramento dello Stato, e per il dilagare di un fenomeno più grave della mafia, la corruzione pubblica, che ne rappresenta il brodo so coltura. E non parlo dei politici, ma dei burocrati. I funzionari comunali, per esempio, che hanno consentito ai Casamonica di costruire una villa abusiva nel cuore di Roma».

Aboliamo i reati associativi? Condanne pesanti per i Casamonica, ma “se tutto è mafia niente è mafia”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Settembre 2021. A differenza del gigantesco processo Mafia-capitale, che si concluse con la certezza che la mafia non c’entrava niente con gli episodi di corruzione ai quali quel processo si riferiva, e non era padrona a Roma, il processo ai Casamonica si è concluso con la condanna per mafia. E il conseguente diluvio di anni di prigione e probabilmente di 41 bis. Fino a 30 anni per Domenico Casamonica, 20 anni per Giuseppe Casamonica, 25 anni per Salvatore, 23 anni per Pasquale, 20 anni per Massimiliano, 19 anni per Liliana detta Stefania. In tutto i condannati sono 44. È giusto così? Leonardo Sciascia, che è stato il più importante e il primo intellettuale italiano a denunciare la mafia già dall’inizio degli anni Sessanta – quando gran parte del giornalismo e dell’intellighenzia ne negava l’esistenza – qualche anno dopo avvertì che “se tutto è mafia niente è mafia”. Non è una affermazione che tende a ridurre l’importanza della mafia, al contrario: la amplifica. Lo stesso Falcone, del resto, in molte occasioni spiegò la peculiarità di Cosa Nostra, che lui considerava una organizzazione del tutto speciale e diversa dalle normali organizzazioni malavitose. La sentenza contro i Casamonica invece va esattamente nella direzione opposta. Cosa sono i Casamonica? Non sta a noi dirlo, saranno giudicati nei vari gradi di giudizio. A occhio sono un clan fuorilegge, probabilmente, accusato di reati molto gravi, come estorsione, spaccio, usura, violenza privata. E poi accusati di associazione mafiosa. Non di omicidio, che è di gran lunga il più terribile dei delitti esistenti.  Neanche di ferimenti o altri reati violenti. Sebbene non siano accusati di omicidio, sono stati condannati per associazione mafiosa e quindi è stato possibile decidere per loro pene pesantissime, fino a 30 anni di carcere. Cosa ha spinto i giudici a decidere che la banda dei Casamonica è mafiosa, sebbene operi in un territorio lontanissimo dai territori tradizionali dove la mafia è nata e vive, e sebbene a carico della banda non sia stata mossa nessuna accusa di omicidio? Perché una banda della malavita viene considerata efferata e mafiosa sebbene non abbia ucciso e non sia legata in nessun modo a Cosa Nostra, o alla camorra o alla ‘ndrangheta? Esiste una differenza tra mafia e malavita? Non è chiaro. È più chiaro invece il motivo per il quale, da diversi anni, una parte della magistratura tende a battere la via della mafia per perseguire ogni tipo di crimine. Il motivo è duplice. Da una parte perché contestare a un imputato l’aggravante mafiosa consente metodi di indagine più efficaci e sbrigativi, ma evidentemente meno garantisti, e questo aiuta il lavoro di perseguimento di un reato. Se per esempio ti accuso di furto – per capirci – non posso intercettare te, né tantomeno i tuoi parenti o amici. Se ti appioppo l’aggravante mafiosa posso, e tutto diventa più facile. Poi c’è il secondo motivo e riguarda le pene, il regime speciale di detenzione, l’abolizione dei benefici penitenziari. Ormai in Italia è così: c’è un regime giuridico e penitenziario per i reati ordinari e un regime del tutto diverso per i reati mafiosi. E di conseguenza c’è la tendenza a chiedere con grande facilità l’aggravante mafiosa, per ragioni tecniche o per ideologia. Il problema è molto complesso. Sia perché è assai discutibile la costituzionalità della doppia giustizia. Come si può conciliare il doppio regime con l’articolo tre della Costituzione che impone l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge? Se la legge è legge deve esserlo per tutti, e per tutti con gli stessi modi, gli stessi tempi, gli stessi benefici e la stessa severità. Ma anche per un’altra ragione. Che senso ha il reato associativo? Far parte di un’associazione è una colpa se questa associazione commette crimini; ma allora non sarebbe giusto che il colpevole fosse punito per i crimini che ha commesso e non per l’essere o no lui un associato? Se sono associato e non faccio niente di male, qual è la colpa? Il reato associativo fu introdotto in Italia (e non esisteva in nessuna altra parte del mondo) un po’ dopo la metà dell’800. Per colpire il fenomeno del brigantaggio, che era contemporaneamente un fenomeno di illegalità ma anche un fenomeno politico. Settori vasti del popolo del Sud resistevano a quella che consideravano una invasione piemontese. Allora scattarono le famose leggi Pica (nome di un feroce deputato abruzzese che le propose e trovò l’appoggio del governo Farini), le quali per stroncare l’appoggio da parte della popolazione di gruppi del brigantaggio, decise che il modo migliore era introdurre un nuovo reato che permettesse una repressione di massa durissima e crudele. Che portò perfino alla messa a ferro e fuoco di interi paesi. Le leggi Pica sospendevano lo Statuto Albertino, il quale, come la nostra Costituzione, prevedeva l’uguaglianza dei diritti giuridici. Possibile che più di 150 anni dopo quelle leggi liberticide, lo Stato italiano debba ancora tenere in vigore quei principi, chiaramente in contraddizione coi principi generali del diritto? Negli ultimi decenni l’idea del reato associativo è stata difesa dai settori conservatori (ampiamente maggioritari) dell’establishment e dell’intellettualità, con la necessità di combattere prima il terrorismo e poi la mafia, che seminavano morti. Discutibile che la lotta a fenomeni criminali possa essere condotta in contrasto col diritto. Comunque oggi la situazione è molto diversa. Non stiamo più combattendo contro bande di omicidi. I delitti mafiosi sono dieci volte meno dei femminicidi. Il femminicidio, almeno su basi statistiche, è un’emergenza molto più grande. E allora non sarebbe utile tornare ai principi costituzionali e abolire le legislazioni di emergenza, specie quelle varate contro i briganti dell’800?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

I Casamonica sono una cosca: la lezione che arriva dalla Capitale. Il tribunale, diversamente da quanto accaduto per Buzzi e Carminati, riconosce che il clan sinti è mafia, come i Fasciani e gli Spada. Ma quando si colpiranno i complici nei palazzi? Enrico Bellavia su L'Espresso il 21 settembre 2021. Il funerale del padrino nella chiesa di Don Bosco, i petali, la carrozza e gli elicotteri. Il raid al Roxy Bar della Romanina come manifestazione di forza. Due episodi, che al pari della testata di Roberto Spada al giornalista Daniele Piervincenzi, a Ostia, hanno acceso l’interesse nazionale intorno al clan sinti che, in solitudine, fino ad allora solo alcuni cronisti, pesantemente minacciati, avevano raccontato, stimolando indagini giudiziarie che non avevano mai conquistato la ribalta, segnando più volte verdetti controversi e di segno opposto. Come del resto era accaduto anche per il clan Fasciani, il più antico e radicato sodalizio mafioso della capitale che riconduce in linea diretta all’epopea dello sbarco sulla costa laziale dei gruppi siciliani legati ai Caruana Cuntrera. La mafia di Roma, ora riconosciuta in sentenza anche per i Casamonica, però non si esaurisce nei tre gruppi più noti. Resta intatto il tema del collegamento del crimine organizzato con i centri di spesa e di potere dell’amministrazione pubblica. Le consolidate certezze sul punto datano alla presenza su Roma di Mario Aglialoro, alias Pippo Calò, all’incrocio tra mafia, servizi, eversione nera, centrali del riciclaggio di denaro sporco, Vaticano e Banda della Magliana. La Procura di Roma aveva provato ad aggiornare il database nell’impianto d’accusa del Mondo di Mezzo, ovvero l’ordinanza dal quale è disceso il processo Mafia Capitale, smentito in premessa dal verdetto giudiziario. Lì non c’era mafia e la violenza, l’assoggettamento, il controllo di porzioni di territorio non fisico ma metaforico, come il flusso di spesa per il sistema di alcune cooperative, a parere dei giudici, non configura il profilo tipico del 416 bis.

IL CASO. Diversa la valutazione per i Casamonica che pure hanno potuto crescere ed espandersi forti di un radicamento criminale e una rete di relazioni che ne ha fatto dei partner d’affari anche nel modo della cosiddetta economia legale. Licenze, permessi, abusi tollerati, tappeti rossi in banca, sono solo alcuni degli aspetti della fisionomia di un clan che ha potuto vivere e prosperare in relativa tranquillità conquistando pezzi di città e imponendo regole e leggi. L’usura come formidabile strumento di proselitismo e ampliamento del proprio raggio di relazioni è la caratteristica principale di un gruppo che tra i propri clienti annoverava anche pezzi della società civile, costretti dal bisogno a entrare in relazione con i boss ma spesso anche distratti e accomodanti nel riconoscere il lato oscuro dei munifici prestatori di quattrini sia pure a interessi stellari. Difficile immaginare che il moltiplicarsi di investimenti di camorra e ‘ndrangheta, per esempio nel settore della distribuzione e della ristorazione, siano esenti da nulla osta compiacenti.

INCHIESTA. Ha ragione il magistrato Alfonso Sabella che attribuisce importanza alla sentenza sui Casamonica ma sulla Stampa, “da cittadino” precisa di ”non considerarla fondamentale”. Un’apparente contraddizione che l’ex pm antimafia palermitano e assessore alla legalità della giunta Marino risolve così: “Se tutto dipende dalle sentenze giudiziarie si finisce per sopravalutarle dal punto di vista sociale”. Una sentenza, insomma, è frutto di innumerevoli variabili, non ultimi gli orientamenti dei collegi, i venti cangianti della giurisprudenza, un certo condizionamento di luogo e di tempo che fa oscillare i giudizi, la qualità delle prove raccolte, la solidità del lavoro condotto. Diversa quella che, sempre nell’intervista a caldo, Sabella chiama la “consapevolezza autonoma” della società civile. Nel sollievo con il quale è stato accolto il declassamento a corruzione del Mondo di Mezzo rispetto allo spettro infamante della mafia, si è intravista una deresponsabilizzazione della società civile della Capitale rispetto al rischio criminale, quasi che la corruzione non fosse l’evoluzione proteiforme del condizionamento anche mafioso sulle pubbliche amministrazioni e la politica.  Più immediata e forse anche più efficace è per questo un’altra considerazione. È sempre di Sabella ma non sta in quell’intervista sulla Stampa. Tuttavia in fondo la riassume: “Sopra la quinta elementare, per mafia non si condanna nessuno”. Non sempre vero ma abbastanza.  

Processo ai Casamonica, per i giudici è un clan mafioso. Oltre 40 condanne. Le Iene News il 21 settembre 2021. Oltre quaranta persone sono state condannate nel maxiprocesso al clan dei Casamonica. I giudici hanno stabilito che il clan è un’associazione mafiosa. Condannato a 30 anni il boss Domenico Casamonica. Oltre quaranta condanne sono state emesse a carico di persone considerate capi e affiliati del clan dei Casamonica. Lo hanno deciso i giudici della X sezione penale del Tribunale di Roma, che dopo circa 7 ore di camera di consiglio hanno condannato in primo grado 44 imputati con accuse che vanno a vario titolo dall'associazione mafiosa dedita al traffico e allo spaccio di droga, all'estorsione, l'usura e detenzione illegale di armi. Le toghe hanno riconosciuto l'associazione di stampo mafioso per l'organizzazione criminale attiva nell'area est della Capitale. In totale sono state emesse condanne per oltre 400 anni di carcere. Il processo è scaturito dall'indagine dei carabinieri "Gramigna" coordinata dai pm della Dda di piazzale Clodio. Per questa stessa vicenda, nel maggio del 2019, erano state disposte 14 condanne in abbreviato e tre patteggiamenti. I giudici della X sezione penale hanno inflitto una pena a trent’anni di carcere per il boss Domenico Casamonica, accogliendo in pieno l’istanza della Procura. Pene severe sono state comminate anche ad altre persone ritenute al vertice dell’organizzazione. Noi de Le Iene ci siamo occupati più volte dei Casamonica: nel 2018 il nostro Ismaele La Vardera era andato a casa di Guerino Casamonica, diretto discendente del capostipite Vittorio. Era la prima volta che una televisione entrava in una delle loro ville note per lo sfarzo. Lo scorso anno invece Alessandro Di Sarno e il suo autore erano stati aggrediti mentre cercavano di parlare con Nando Casamonica di un video pubblicato su Instagram in cui si vedeva il nipote, che avrà poco più di dieci anni, guidare una macchina in strada. Potete rivedere il servizio in testa a questo articolo.

I Casamonica. Camilla Mozzetti per "il Messaggero" il 14 dicembre 2021. Donne che occultato la droga, che la conservano e la nascondono per interesse e perché vengono pagate per farlo. Ma anche per permettere ai propri uomini - mariti o figli - di continuare a spacciare. Indisturbati. Ed ancora donne che si disfano dello stupefacente non appena scatta la perquisizione sempre con lo stesso fine: coprire le spalle a chi delinque. Dentro la famiglia Casamonica c'è anche questo ruolo assegnato alle figure femminili come emerso nuovamente ieri dopo un'attività del Nucleo operativo della compagnia dei carabinieri Roma Casilina. Tutto è partito da un appostamento: al Quadrano, zona in cui la famiglia spadroneggia da anni, i militari assistono a una scena. Il trentenne Armando Casamonica, poi arrestato, viene sorpreso mentre passa una palletta di cocaina ad un'acquirente, una donna romana di 50 anni, in mezzo alla strada non lontano dall'abitazione dell'uomo già conosciuto dalle forze dell'ordine per trascorsi legati sempre allo spaccio. I due vengono fermati e identificati. Segue poi la perquisizione nell'appartamento del 30enne ma ecco la sorpresa. 

LA DINAMICA 

In casa c'è la madre dell'uomo C.C. che verrà poi denunciata e che una volta capito come dietro la porta ci fossero dei militari pronti a passare al setaccio l'abitazione, inizia a far di tutto per disfarsi della droga che c'è. Quando i carabinieri entrano nell'abitazione la madre di Armando inizia a gettare dalla finestra del bagno e anche dentro al wc alcuni involucri. 

LA SCOPERTA 

I militari si insospettiscono mentre la donna prova a dare delle giustificazioni che appaiono subito poco convincenti: «Stavo solo cambiando l'aria, non ho gettato via nulla», prova a dire. Ma quei movimenti sembrano inconsulti e poco credibili. Ed è così che i militari scendono nel cortile, iniziano a cercare e proprio in corrispondenza della finestra del bagno ritrovano 2 grammi di cocaina imbustata e pronta ad essere venduta.  Risalgono e contestano il ritrovamento alla donna che, a quel punto, resta in silenzio. Verrà denunciata a piede libero per detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, mentre il figlio viene arrestato e sottoposto ai domiciliari. Nel corso della perquisizione, i militari recuperano anche un bilancino di precisione e mille euro in contanti, ritenuti provento dell'attività illecita.  Che il focolare domestico si sia trasformato in un luogo di spaccio e detenzione per alcuni componenti della famiglia Casamonica, seppur di livello inferiore rispetto ai grandi nomi, era emerso già qualche giorno addietro quando sempre i carabinieri del Casilino arrestarono un altro Armando Casamonica, omonimo del 30enne, che nonostante denunce ed arresti pregressi aveva preso l'abitudine di spacciare dalla finestra di casa, un appartamento al piano rialzano sempre nel quartiere di Cinecittà.

Da tgcom24.mediaset.it il 22 settembre 2021. "Ti spaccherei la testa, ti romperei le mascelle, tu non sai chi sono io". In queste parole sintetizzano al meglio il "metodo Casamonica": a pronunciarle, in un'intercettazione mandata in onda dalla trasmissione "Fuori dal Coro", il capofamiglia del clan Ferruccio. Il programma di Rete 4 ha intervistato alcune delle vittime della famiglia che ha terrorizzato Roma, che si rivolgevano a loro per chiedere prestiti: "Mi hanno picchiato, tanto da farmi finire in ospedale - racconta un commerciante - le minacce erano sia fisiche, sia mentali". Violenze e minacce per imporre la loro supremazia, come documentano le immagini finite sotto gli occhi degli inquirenti. Il clan è arrivato a chiedere interessi altissimi: "Sono arrivato a dare ai Casamonica 190 mila euro - racconta ancora il commerciante - ma non erano 190 mila euro di prestiti, erano da 10 o 20 mila euro". E ancora, un'altra vittima del processo afferma: "Chi contrae debiti con i Casamonica, rimane debitore a vita e ha l'obbligo di riconoscergli quanto”.

Casamonica, la sentenza del maxiprocesso: “È mafia”. Il Tribunale di Roma ha condannato per associazione di stampo mafioso i componenti della famiglia Casamonica del quartiere Romanina a Roma. Valentina Stella su Il Dubbio il 20 settembre 2021. Il clan Casamonica è mafia: lo hanno stabilito i giudici della Decima sezione penale del Tribunale di Roma che oggi pomeriggio alle 18 nell’aula bunker di Rebibbia, dopo sette ore di Camera di Consiglio, hanno emesso una sentenza di condanna a carico di 44 imputati con accuse che vanno a vario titolo dall’associazione mafiosa dedita al traffico e allo spaccio di droga, all’estorsione, all’usura e alla detenzione illegale di armi. Al processo si è arrivati dopo gli arresti compiuti dai Carabinieri del Comando provinciale di Roma nell’ambito dell’indagine “Gramigna”, coordinata dal procuratore di Roma Michele Prestipino. Per questa stessa vicenda, nel maggio del 2019, erano state disposte quattordici condanne in abbreviato e tre patteggiamenti. L’accusa – i pubblici ministeri Giovanni Musarò e Stefano Luciani – aveva chiesto 630 anni di carcere per 44 imputati, di cui quattordici accusati di associazione mafiosa. I vertici del clan erano tutti collegati in videoconferenza dagli istituti di pena dove sono reclusi. Presente in aula, invece, alla lettura della sentenza, il procuratore aggiunto della Dda di Roma, Ilaria Calò. Stamattina si era fatta viva anche la sindaca Virginia Raggi con un tweet, per cavalcare l’onda del processo a fini elettorali molto probabilmente: «Oggi processo Casamonica. In questi anni ho abbattuto le loro ville abusive. Erano lì da decenni. L’ho fatto senza paura, al fianco dei cittadini onesti. Sempre dalla parte della legalità. #AvantiConCoRAGGIo». Ma quindi a Roma c’è o no la Mafia? La risposta si inserisce nel più ampio dibattito in dottrina che riguarda l’art. 416 bis c.p., in particolare il comma 3 dell’articolo: “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva”. La più recente decisione in materia ha riguardato il clan Spada: la Corte d’Assise di Appello di Roma, il 12 gennaio 2021, ha riconosciuto la qualificazione di associazione di stampo mafioso del sodalizio. La sentenza è arrivata all’esito di un maxiprocesso, che ha portato ad oltre 17 condanne, per un totale di circa 150 anni di reclusione, confermando l’associazione mafiosa decisa in primo grado dalla Corte di Assise il 24 settembre 2019. Come ricorda Giulia Morello su giurisprudenzapenale.com, «il clan Spada è stato definito dalla dottrina e dalla giurisprudenza come “mafia autoctona”, inserendosi nel più ampio alveo delle cd. mafie atipiche o non tradizionali, alla cui categoria, peraltro, si riconducono anche le mafie delocalizzate e le mafie straniere. […] Si pone, peraltro, sul sentiero recentemente tracciato dalla Suprema Corte con la pronuncia Fasciani». Invece con la sentenza della Sesta Sezione della Cassazione del 12 giugno 2020 nel caso ribattezzato inizialmente come “Mafia Capitale” è stata esclusa la qualificazione mafiosa dell’associazione criminale riferibile a Buzzi e Carminati. A luglio, nella sua arringa, l’avvocato Giosuè Bruno Naso, legale, insieme alla figlia Ippolita, di diversi membri della famiglia Casamonica, rivolto ai giudici, aveva detto: «Nella fase dibattimentale non ci siamo sentiti considerati sullo stesso piano della pubblica accusa: questo è un aspetto che investe l’involuzione sul piano culturale che sta subendo e che ha subìto da alcuni lustri a questa parte la giurisdizione penale in questo Paese. […] Voi avete rifiutato il processo di rito accusatorio, lo avete rifiutato, voi siete convinti che siete pagati per fare giustizia e non è così: voi siete pagati per rispettare la legalità, l’articolo 111 Cost. usa una sola volta l’aggettivo “giusto”,  ma non si riferisce alla sentenza ma al processo. La giurisdizione si attua mediante il giusto processo che rispetta sistematicamente le regole del gioco, costi quel che costi, costi anche una sentenza non giusta.  Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti in condizioni di parità, mi rivolgo alla vostra intelligenza e alla vostra coscienza: ma secondo voi questo processo si è svolto in condizioni di parità davanti al giudice terzo e imparziale?».

Complessivamente più di 400 anni carcere. Casamonica, 40 condanne al Maxi Processo al clan: “È Mafia”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 20 Settembre 2021. Il clan Casamonica è un’organizzazione mafiosa. È quanto hanno deciso i giudici della decima sezione penale del Tribunale di Roma nel Maxi Processo a Roma: oltre 40 imputati sono stati condannati a pene che complessivamente superano i 400 anni di carcere. La sentenza nell’aula bunker del carcere di Rebibbia. Le condanne sono arrivate dopo sette ore di camera di consiglio. È la chiusura del primo grado del procedimento partito con l’operazione “Gramigna” del 2018 e di altre successive che scoperchiarono crimini e affari del sodalizio. Domenico Casamonica è stato condannato a 30 anni, Giuseppe Casamonica a 20 anni e 6 mesi, Luciano Casamonica a 12 anni e 9 mesi, Salvatore Casamonica a 25 anni e 9 mesi, Pasquale Casamonica a 23 anni e 8 mesi, Massimiliano Casamonica a 19 anni e 4 mesi. L’accusa aveva chiesto per tutti e sei 30 anni di carcere con accuse a vario titolo di associazione di tipo mafioso dedita al traffico e allo spaccio di droga, all’estorsione, l’usura, la detenzione illegale di armi e tanto altro. “Una decisione molto importante”, ha osservato il procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia, Ilaria Calò, che ha coordinato le indagini insieme al procuratore capo Michele Prestipino e ai pm Giovanni Musarò e Stefano Luciani. Una sentenza “storica” e “un segnale importante per i cittadini”, secondo il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti. Da campagna elettorale il tono della sindaca Virginia Raggi evidenzia: “A Roma il clima è cambiato”. Le indagini, condotte dai carabinieri del Nucleo investigativo di Frascati, erano partite nell’estate del 2015 e documentando “l’esistenza di un’associazione mafiosa autoctona strutturata su più gruppi criminali, prevalentemente a connotazione familiare”, hanno scritto gli inquirenti. Al gruppo è stato imputato lo spaccio di tutta l’area sud-est della città, e avrebbe nella zona di Porta Furba il suo quartier generale e forti legami con altri gruppi di mafia, a cominciare da Ndrangheta e Camorra. Il procedimento si è avvalso di una collaboratrice di giustizia, per anni parte della ‘famiglia’, ex cognata del boss Giuseppe, il cui apporto è stato fondamentale per ricostruire i traffici di droga, le attività di usura ed estorsione, le minacce del clan e i ruoli apicali e secondari al suo interno.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Casamonica, la gerarchia del clan svelata dall’ex moglie del boss: “Non c’è un capo dei capi. Ho parlato per i miei figli”. Gran parte del merito dell’operazione Gramigna, che ha portato all’arresto di 38 persone, per di più appartenenti o affiliati al clan dei Casamonica, va a Debora Cerreoni, 34 anni, ex compagna di uno degli esponenti di spicco della nota famiglia sinti. Vincenzo Bisbiglia su Il Fatto Quotidiano il 17 luglio 2018. Una donna giovane che ha deciso di dire basta a soprusi e violenze. E che, per amore dei propri figli, ha iniziato a collaborare con i magistrati permettendo loro di infliggere un colpo forse mortale al clan divenuto simbolo della malavita capitolina. Gran parte del merito dell’operazione Gramigna, che ha portato all’arresto di 38 persone, per di più appartenenti o affiliati al clan dei Casamonica, va a Debora Cerreoni, 34 anni, ex compagna di uno degli esponenti di spicco della nota famiglia sinti, Massimiliano Casamonica. È stata proprio Debora a tracciare agli inquirenti la mappa delle gerarchie del clan, a raccontare retroscena ed a confermare quelle fino a quel momento erano solo tesi non dimostrate. “I miei bambini dovranno seguire esempi diversi”, ha scritto in una lettera agli investigatori il 5 agosto 2015. Un matrimonio, quello fra Debora e Massimiliano, celebrato nel 2002 con rito rom e durato fino al 2014, dal quale sono nati tre figli ma che è stato vissuto sempre nel terrore e fra le minacce. Di Massimiliano, che era gelosissimo, ma soprattutto delle “cognate” Liliana e Antonietta, che mal sopportavano il comportamento poco allineato di Debora. Lei che non era mai stata accettata – veniva definita “gaggia”, vocabolo dispregiativo utilizzato verso chi non è rom – e addirittura sequestrata. “Quando abitavo in vicolo di Porta Furba – ha raccontato agli inquirenti – vivevo in una situazione di totale soggezione, ero obbligata a rispettare tutte le disposizioni dei Casamonica (non solo di Massimiliano, ma anche dei fratelli), dovevo vestirmi come dicevano loro e non potevo fiatare. Le poche volte che ho tentato di fare di testa mia sono stata minacciata, picchiata e addirittura sequestrata. Lo stato di soggezione in cui mi trovavo diventava poi insopportabile quando Massimiliano (Casamonica, ndr) era detenuto, perché io per i Casamonica ero una ‘gaggia’ e per questo avevo, ai loro occhi, meno diritti di una donna di etnia rom”. È Massimiliano Fazzari, collaboratore di giustizia, a confermare agli inquirenti la versione di Debora: “A me sotto casa – racconta – Liliana mi disse addirittura: ‘Massimo, guarda che se sapete qualcosa, o tu, o Noemi sa qualcosa, e lo vengo a sapere dopo, guarda che vi squagliamo dentro all’acido”. Debora scappa dalla sua prigione di Porta Furba nel 2014, poi il 5 agosto 2015 decide di recarsi in procura e raccontare tutto. “Magari posso tradurvi – scrisse ai pm – tutto quello che volete o insegnarvi la loro lingua, oppure se tutto quello che vi ho detto e che dovrò ancora dirvi quando verrete qua, potrò testimoniare contro di loro. Anche se il mio rischio di vita si alzerà. Ripeto che queste cose le farò ugualmente anche perché avendo vissuto e convissuto con loro tutto questo tempo non solo ho perso la dignità di essere mamma (come avrei realmente desiderato per i miei bimbi) di essere donna e di essere una persona onesta, come in realtà mi sento”. E i racconti vanno a buon fine. Fra le altre cose, Debora inizia a parlare del funerale di “zio Vittorio”, dei rapporti con la Parrocchia Don Bosco e di come alcuni sacerdoti che ne facevano parte abbiano visitato più volte il “quartier generale” di vicolo Porta Furba. “Lo zio Vittorio – racconta Debora – era il capo solo del suo nucleo familiare, non era il capo di tutti i Casamonica. Del resto i Casamonica sono strutturati in questo modo: ogni nucleo familiare ha il suo capo (ad esempio, nella famiglia di Massimiliano, il capo era Giuseppe Casamonica, come ho già riferito) e i vari nuclei familiari sono legati fra loro, ma non esiste un capo assoluto di tutti, un capo dei capi”. E ancora: a seconda della zona di competenza, ogni nucleo familiare ha la sua autonomia e il suo capo”. Quindi “ho sentito dire da Domenico Spada (il pugile, detto anche Vulcano), da Liliana Casamonica e dallo stesso Massimiliano che lo zio Vittorio aveva rapporti, in particolare, con un certo Nicoletti della Banda della Magliana”. Tutti però, “costituiscono un unico gruppo criminale”. Debora Cerreoni è stata inserita, insieme ai tre bambini, nel programma di protezione per i testimoni di giustizia.

A.D.F. per "la Verità" il 19 aprile 2021. L'ultima eredità del clan è una palazzina distrutta, di cui è rimasto solo lo scheletro. Un rudere, vandalizzato perché lo Stato non lo riutilizzi mai. Via Francesco Di Benedetto, quartiere Romanina, quadrante Sud-Est di Roma. Nel feudo dei Casamonica, spuntano i resti di quelli che un tempo erano gli appartamenti di Consilio e Raffaele Casamonica, Loredana Licheri e altri esponenti della famiglia, confiscati da dieci anni. «Li hanno devastati prima di andar via», racconta Monica Lozzi, presidente del settimo Municipio di Roma. Succede anche questo nel percorso che porta alla confisca di un bene: spesso le procedure possono durare anni, gli immobili restano nelle disponibilità delle organizzazioni criminali, che ne fanno ciò che vogliono. Anche spogliarli di tutto, rendendoli inutilizzabili. Ci sono voluti più di cinque anni prima che lo Stato si riappropriasse degli spazi in via Roccabernarda, dove la villa abusiva del clan è stata lasciata inutilizzata dopo lo sgombero. «Roccabernarda è stato un monumento alla sconfitta dello Stato, nonostante la confisca», spiegano dall' Osservatorio per la legalità e la sicurezza della Regione Lazio, che ha seguito l' abbattimento dell' immobile e la trasformazione dell' area in un parco della legalità. Nel solo settimo Municipio, su 15 beni confiscati, 11 sono riconducibili alla famiglia Casamonica: negozi, terreni, appartamenti. Tutti ancora in attesa di una rifunzionalizzazione. In vicolo di Porta Furba, le case sottratte a Giuseppe Casamonica non hanno ancora trovato una destinazione certa: «La posizione degli immobili non aiuta», spiega ancora la presidente Lozzi, che del quartiere ha imparato a conoscere ogni angolo. «Siamo in pieno borgo Casamonica, circondati dagli esponenti della famiglia. È complicato trovare una associazione che si prenda l' onere di gestirli».

Andrea Ossino per “la Repubblica – ed. Roma” il 27 marzo 2021. Gli indagati hanno descritto Salvatore Nicitra come il " Re di Roma Nord". E la confisca di ieri dimostra che quello che un tempo era considerato " l' uomo di fiducia di Enrico De Pedis" si è immedesimato bene in quel ruolo. I carabinieri che ieri hanno messo le mani sul tesoro da circa 13 milioni di euro del boss di Montespaccato, hanno infatti bussato alla porta della villa da oltre 500 metri quadrati riconducibile all' indagato. E' in via della Giustiniana e vale un milione e settecento mila euro. Le statue in marmo adornano il salotto o costeggiano la piscina a cui si accede superando il lungo colonnato che delimita il viale d' ingresso. La rubinetteria d' oro è posta sopra un lavello d' argento che richiama la forma di una conchiglia. E i quadri dalle imponenti cornici placcate in oro nascondono casseforti incastonate al muro. Lo stile dell' arredamento dipinge i gusti di quello che nelle intercettazioni viene definito come " il controllore di tutta la criminalità di Roma-Nord". Salvatore Nicitra è stato arrestato nel 2018. I carabinieri hanno poi ricostruito quella che secondo gli inquirenti è un' associazione che con modalità mafiose ha preso il controllo del settore della distribuzione e gestione delle apparecchiature per il gioco d' azzardo. In carcere erano finite 38 persone che, secondo l' accusa, avevano messo le mani sulle zone di Controllavano Montespaccato, Aurelio, Primavalle, Cassia e Monte Mario. Quella di Nicitra è una storia che parte dalle bische controllate per la Banda della Magliana e arriva alle macchinette mangiasoldi imposte ai commercianti e all' impero creato grazie a milioni riciclati in ristoranti o ripuliti in Asia, Spagna, Austria, Francia. I pentiti come Maurizio Abbatino e Antonino Mancini dicono che negli anni ' 90 era " l' uomo di fiducia di Enrico De Pedis". E le inchieste lo collegano a diversi omicidi. Il suo nome compare nell' indagine sul crollo della cella che il 10 agosto del 1983 uccise Giampiero Caddeo, in un attentato scampato dall' acerrimo nemico Roberto Belardinelli, nella sparatoria di Primavalle ( 1988) in cui vennero uccisi Franco Martinelli e Valerio Belardinelli, fratello di Roberto, mentre Franco Martinelli rimase ferito. E nel 1992 il figlio e il fratello di Nicitra sono scomparsi nel nulla. Per gli inquirenti è il primo caso di lupara bianca a Roma. La caratura criminale ha permesso all' indagato di poter rinunciare alla violenza, di occuparsi solo degli affari. E andavano bene, fino all' arrivo dei carabinieri. Lo dimostrano 10 società, 1 quota societaria, 11 rapporti finanziari, 11 autoveicoli, 2 nude proprietà e 33 immobili. Un tesoro adesso nelle mani dello Stato.

Fulvio Fiano per corriere.it il 23 febbraio 2021. Qualche anno fa, mentre Marcello Colafigli era detenuto, il suo avvocato assicurava che nell’usufruire dei benefici di pena concessigli, l’ex membro storico della Banda della Magliana sarebbe stato al riparo dagli errori del passato, che non avrebbe più frequentato, cioè, gli stessi ambienti criminali nei quali si è immerso tutta la vita e dove è tuttora un nome evocato con riverenza. E invece ieri «Marcellone», l’uomo condannato all’ergastolo per quattro omicidi, tra cui quello di Enrico De Pedis, detto Renatino, è finito di nuovo in carcere. Originario del reatino, era tornato a Roma ospite della sorella a Casal Palocco. E in regime di semilibertà è stato sorpreso più volte dagli agenti del commissariato Lido a frequentare pregiudicati di Ostia, cosa che gli era espressamente vietata. Nessun nome di peso tra questi, sembrerebbe, e lui avrebbe assicurato ai poliziotti che neanche sapeva chi fossero. A 67 anni, dopo oltre 30 trascorsi in regime di detenzione, torna ora in cella (qui, cosa fanno gli altri boss sopravvissuti). Meno di recente, la figura di «Marcellone» era stata riportata alla popolarità in tv da «Romanzo Criminale», anche se lui non si è mai riconosciuto nel personaggio di «Bufalo». De Pedis lo uccise, secondo la sentenza passata in giudicato, per vendicare dei torti subiti all’interno della Banda della Magliana, nella quale Colafigli incarnava con Franco Giuseppucci, «il Negro», e Maurizio Abbatino, l’ala originaria che si scontrò poi con i «testaccini». Alle 13 del 2 febbraio di 31 anni fa, dietro Campo de’ Fiori, affiancò «Renatino» in scooter e aprì il fuoco. Era evaso dall’ospedale psichiatrico giudiziario. Alla guida del mezzo c’era Roberto D’Inzilllo legato ai neo fascisti, altro ambiente con cui Colafigli ha avuto frequentazioni, soprattutto all’Alberone, suo quartiere di elezione assieme a Magliana e San Paolo, che erano sotto il suo controllo. E sempre per vendetta, stavolta di un omicidio, quello di Giuseppucci, uccise nel 1981 Maurizio Proietti, il «Pescetto» del clan rivale dei Pesciaroli, in via di Donna Olimpia. Il soprannome «Bufalo» gli deriva anche dalla forza fisica con la quale, secondo un episodio tramandato nelle leggende criminali, ruppe il vetro di un blindato con un pugno. Coinvolto e condannato anche per gli omicidi di Franco Nicolini “Franchino er criminale” ras delle scommesse a Tor di Valle, e del commerciante Sergio Carozzi, ha scontato le sue condanne facendo dentro e fuori dagli ospedali psichiatrici. L’ultimo carcere che l’ha ospitato è stato quello di Torino. Sarebbe dovuto uscire nel 2009, ma avendo più condanne superiori ai 24 anni (27 per De Pedis, 24 per Carozzi), la pena fu tramutata in ergastolo. «Si aspetta di tornare il prima possibile libero per potersi rifare una vita da persona civile e cosciente di aver fatto parte di un gruppo criminale che non esiste più», diceva l’avvocato Gianluca Pammolli, che contro l’ergastolo si rivolse alla Corte Europea di giustizia. Colafigli non ha mai negato il suo passato malavitoso, ma ha considerato sbagliate le condanne su singoli episodi. Nega ad esempio di aver ucciso De Pedis (qui ricordato da «Franchino il becchino»). Il caso torna ora al tribunale di sorveglianza.

La sindaca tricoteuse. La gogna di Carminati e la soap antimafia di Raggi. Iuri Maria Prado su il Riformista il 12 Marzo 2021. Non è indifferente che “Mafia Capitale” fosse una fantasia della pervicacia accusatoria anziché una cosa vera: perché il carcere duro sofferto per anni dall’imputato principale, Massimo Carminati, si deve a quel presupposto fantasioso, a quella rappresentazione che ha contraffatto la verità fino alla sentenza finale. Le delizie del 41 bis, questa tortura di Stato, per un lustro hanno sostituito la vita di un innocente: un dichiarato fascista, certamente non “una mammoletta”, come lui dice di sé, ma innocente. Avrà fatto altro, ma non ciò che gli imputavano. La mafia che nessuno poteva capeggiare, perché non c’era, era la cosa fantastica che consentiva allo Stato di costringere una persona, per anni, in custodia cautelare, e di costringervela con la durezza che si riserva alle vittime del pregiudizio antimafioso. La sindaca Raggi, secondo la tradizione di certo presenzialismo forcaiolo, ha creduto di dover dare testimonianza di sé assistendo alla lettura del dispositivo della sentenza emessa l’altro giorno dalla corte di appello di Roma: era la decisione che sistemava le pene dopo l’accertamento che la mafia di “Mafia Capitale” stava nei romanzi e nei reportage del giornalismo embedded in procura, ma non nelle responsabilità effettive degli imputati. E tra i “cittadini” in nome dei quali questa signora ha fatto il suo comizio ci sono anche quelli tenuti in carcere in modo improprio, prima del processo che ha accertato l’inesistenza delle aggravanti mafiose: quelle che bastano a far mandare in galera qualcuno se ad agitarne il feticcio è l’iniziativa del pm engagé. Sarà trascurabile, ma un addebito di mafiosità senza riscontro non è meno ingiusto solo perché a esserne destinatario è l’uomo nero. Soprattutto se quell’allegazione infondata non si limita a mettere in gioco, senz’altra conseguenza, la dicitura di una rubrica di reato, ma infligge un trattamento che non meriterebbe nemmeno il colpevole, figurarsi l’innocente. La civiltà del diritto sta contro il “mondo di mezzo”, ma tanto più fermamente contro lo Stato che vi si riduce imitandone i modi e riproducendone le pratiche sopraffattorie.

Parità tra accusa e difesa? L’accusa di mafia era solo nella testa di Pignatone e dei suoi sostituti. Salvatore Buzzi su Il Riformista il 30 Novembre 2021. Oggi sono entrato per la prima volta nell’aula bunker del carcere di Rebibbia e la cosa mi ha fatto molto effetto perché sono stato presente in ben 300 udienze che si sono tenute in questa aula ma io ero solo in videoconferenza, collegato dal carcere di Tolmezzo perché ritenuto talmente pericoloso da non poter essere detenuto a Rebibbia. Oggi sono presente perché vi è una udienza del processo “mafia capitale-ter” che stancamente sta andando avanti da ben 3 anni, niente a che vedere con le 4 udienze a settimana del processo di primo grado. Mi ha colpito l’enormità dell’aula e la distanza siderale tra avvocati e corte per non parlare degli imputati chiusi nelle gabbie poste sul lato destro guardando la corte. Gabbie ancor più separare dal resto per la presenza di una cordicella in metallo che impedisce agli avvocati di avvicinarsi se non a 2 metri per conferire con i propri assistiti. Mi ha stupito la differenza siderale tra accusa e difesa con i PM che arrivavano con scorte e auto blindate fin dentro il cortile interno mentre gli avvocati costretti ad arrivare con i mezzi propri nel traffico della Tiburtina da oltre 7 anni con i lavori in corso per ampliamento e costretti a parcheggiare a oltre 100 metri e poi recarsi a farsi identificare per entrare in tribunale. Per non parlare poi dei PM che hanno a disposizione la polizia giudiziaria che possono impiegare senza risparmio e con la conoscenza di tutte le intercettazioni telefoniche mentre gli avvocati non hanno che i brogliacci e se vogliono le trascrizioni se le devono pagare mentre se vogliono ascoltare le intercettazioni hanno una situazione logistica quasi proibitiva. Ma non voglio dilungarmi ancora sulla sproporzione dei mezzi tra accusa e difesa, voglio solo ricordare che in Parlamento vi è uno stuolo di avvocati parlamentari ben di più dei magistrati parlamentari e nonostante questa presenza massiccia assistiamo a queste evidenti disparità: io credo che questo risultato lo si deve anche alla mancanza dello spirito corporativo degli avvocati e al loro proverbiale solipsismo. Ultima considerazione: se abbiamo vinto il processo per quanto riguarda l’accusa di mafia con queste evidenti sproporzioni, è segno che di mafia non c’era nulla se non nella mente di Pignatone e dei suoi sostituti e che nessuno pagherà il fio per questo clamoroso errore. Salvatore Buzzi

«Mafia Capitale, le coop di Buzzi si potevano salvare». Gazzetta di Reggio il 15/3/2021. «Noi continuavamo a essere quelli di Mafia Capitale. Ci siamo trovati in una situazione di mercato impossibile. Resta l’amarezza che vari soggetti bancari, associativi e imprenditoriali avrebbero potuto fare di più. Quelle coop si potevano salvare». A parlare è Guido Saccardi, volto noto della cooperazione reggiana, ormai ex amministratore delegato del Consorzio Eriches 29 e delle coop 29 Giugno Onlus, 29 Giugno Servizi, Formula Sociale e A.b.c.. Sono le imprese riconducibili a Salvatore Buzzi, il cosiddetto ras delle coop romane arrestato nel dicembre 2014 insieme all’ex Nar, Massimo Carminati, e condannato il 9 marzo scorso a 12 anni e 10 mesi nell’Appello Bis del processo Mondo di Mezzo, che ha svelato un vasto sistema di corruzione travolgendo la capitale. Un’inchiesta che ha fatto il giro del mondo, ribattezzata giornalisticamente Mafia Capitale, sebbene la Cassazione abbia fatto poi cadere l’aggravante di mafia, rimandando le carte in Appello per la rideterminazione delle condanne. A novembre dello scorso anno, la guardia di finanza ha proceduto nei confronti di Buzzi e Carminati alla confisca definitiva di beni per circa 27 milioni, composti da ville, terreni, 13 automezzi e un tesoro di 69 opere d’arte di autori del ’900, dalla Pop Art al Futurismo, al Surrealismo. Un patrimonio dal quale sono escluse quelle imprese finite in mano al reggiano Saccardi, dissequestrate dal tribunale già dal 2018 con lo scopo di un loro rilancio, dopo averle ripulite dalle figure coinvolte nell’inchiesta, nell’ambito di un accordo siglato fra lo stesso tribunale e Legacoop, nella persona del presidente nazionale Mauro Lusetti. Le cinque coop ora sono naufragate. E sono tutte finite in liquidazione coatta. L’obiettivo dell’accordo era salvaguardare soprattutto l’occupazione: lavoratori reinseriti socialmente, fra i quali ex detenuti o detenuti in semilibertà, impegnati in attività come la raccolta rifiuti, la manutenzione del verde, l’assistenza domiciliare o l’accoglienza dei migranti, inconsapevoli ingranaggi di quel sistema criminale portato alla luce dall’inchiesta della Procura di Roma. Lavoratori che avevano creduto in quella parabola di redenzione del loro mentore Salvatore Buzzi, condannato nel 1980 per omicidio volontario, presto diventato un detenuto modello e simbolo nazionale della rieducazione carceraria e dell’integrazione lavorativa dei detenuti. Il 29 giugno 1984, Buzzi organizzò a Rebibbia il primo storico convegno sulla condizione delle carceri in Italia, fondando l’anno successivo la sua prima cooperativa, intitolata proprio all’iniziativa. Una parabola in ascesa che trent’anni dopo, con il processo Mondo di Mezzo, ha rivelato una realtà opposta rispetto a quella della redenzione, con Buzzi incastrato da intercettazioni diventate simbolo dell’inchiesta, poi risultate estrapolate dal contesto in cui furono pronunciate: «Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati?». E poi: «Il traffico di droga rende di meno». E ancora: «Noi quest’anno abbiamo chiuso con quaranta milioni di fatturato ma tutti i soldi, gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero». Un patrimonio presto precipitato, che Saccardi – nel ruolo di amministratore delegato del gruppo e di presidente del cda di tre di quelle che erano ormai le ex cooperative di Buzzi – era stato chiamato a salvare, insieme a Flaviano Bruno e Andrea Dili. «Abbiamo cercato d’accordo con Legacoop di non far saltare il gruppo, dove lavoravano un migliaio di persone – afferma ora Saccardi – abbiamo provato a intraprendere diversi progetti e piani industriali per il rilancio, ma alla fine ci siamo resi conto che lo stigma di Mafia capitale ci aveva tolto ogni appetibilità nel mercato. Tutti scappavano». L’impresa è subito apparsa ardua. Prima del dissequestro e del tentativo di rilancio, nel periodo di amministrazione giudiziaria delle società, i conti erano di fatto già franati, con una perdita di gruppo nel 2017 pari a 14,5 milioni, partendo da un utile nel 2014 di 2,7 milioni: il Consorzio Eriches 29 era passato da un utile di 412mila euro del 2014 a una perdita di 1,5 milioni del 2017; nello stesso periodo, la 29 Giugno Onlus da un utile di un milione a un rosso da 8,1 milioni; stesso utile, nel 2014, per la 29 Giugno Servizi, poi franata a 3,4 milioni nel 2017. E ancora: Formula Sociale, passata da un utile di 600mila euro a una perdita di 792mila euro. Segno meno per 548mila, sempre nel 2017, anche per la A.b.c.. Numeri ai quali si aggiunsero le competenze dei tre amministratori giudiziari che, prima dell’arrivo di Saccardi, incassarono come acconto un milione ciascuno per la procedura. «Si continuava a lavorare per quegli stessi enti pubblici che non avevano saldato ai tempi di Buzzi – racconta Saccardi – gli amministratori giudiziari avevano fatto ben poco per smuovere la situazione. Ci siamo trovati in una situazione di mercato impossibile». Da gennaio 2020, tutte le ex imprese di Buzzi sono in mano ai liquidatori coatti nominati dal Mise, che ora stanno cercando di recuperare crediti anche e soprattutto da parte di pubbliche amministrazioni romane. «Vantavamo ad esempio un importante credito nei confronti di Ama, ma recuperarlo era quasi impossibile – conclude Saccardi – Dopo tre mesi, avevamo già la consapevolezza che non si poteva fare di più. Ho una grande amarezza: ho conosciuto lavoratori preparati, che vivevano il lavoro come occasione di riscatto sociale e di dignità personale. Nel momento in cui andavamo verso la liquidazione, abbiamo salvaguardato la maggior parte dei posti di lavoro, ma per loro lavorare in un’impresa privata rappresentava qualcosa di diverso. Se avessimo incassato i crediti, le coop potevano continuare. Così non è stato. Resta per me un’esperienza umana e professionale importante che meritava di finire diversamente».

Federico Capurso per “La Stampa” l'8 ottobre 2021. Doppio hamburger, nduja, provola, cheddar, verdure grigliate e salsa Arizona. Sono gli ingredienti dell'hamburger «Mondo di mezzo», finito nel menù del nuovo locale aperto da Salvatore Buzzi all'estrema periferia est di Roma. Si può ordinare anche un «Gomorra», un «Libanese» o un «Suburra»: ogni panino ha un riferimento al mondo della criminalità romana. Non vuole però che si faccia del «moralismo», Buzzi, che insieme a Massimo Carminati ha dato vita al Mondo di mezzo - quello vero - finito al centro dell'inchiesta inizialmente chiamata Mafia Capitale, anche se "mafia" non era. Da ieri, tra i tavolini in legno e gli scaffali pieni di libri che raccontano la sua vicenda giudiziaria, Buzzi ha iniziato a fare il ristoratore.  «Questa è la mia quarta o quinta vita, ho perso il conto», dice lui, in camicia nera e fazzoletto rosso che spunta dal taschino. «Speriamo sia quella buona». 

Quei nomi non li poteva evitare? Don Ciotti sostiene siano una pericolosa banalizzazione del male.

«Non banalizzo il male. Semmai esorcizzo i gravissimi errori giudiziari. Don Ciotti, quando c'era chi banalizzava il crimine scrivendo libri e libri su di me e su Mafia Capitale, che non era mafia, non aveva niente da dire?». 

Perché chiamarli in questo modo?

«Perché siamo stati vittime di questi nomi. La nostra inchiesta si è alimentata della fiction. Era la fantasia che rincorreva la realtà: Carminati sembrava il capo di tutta Roma». 

C'è anche il panino di Carminati?

«Certo che c'è: il panino Samurai. Non penso se la prenda. Anzi, se viene mi fa piacere. Dovrebbe venire anche il mio amico Bobo Craxi a suonare». 

Sul menù scrive che i pm pagano doppio e i giudici il triplo. I suoi avvocati non le hanno consigliato di evitare certe provocazioni visto che il processo è ancora aperto?

«Ma no. Se i giudici sono ironici, capiscono. Comunque non credo che Giuseppe Pignatone (ex procuratore di Roma, ndr) entrerà mai nel mio locale».

Così, non la supererà mai questa storia.

«Ormai sono su Wikipedia, dove mi definiscono imprenditore e criminale. Come si fa a superarla? Se lei è qui è perché ormai vengo associato a quel mondo. Ne farei volentieri a meno, mi creda». 

Sembra che lei sfrutti la sua storia per farsi pubblicità.

«Mi fa piacere che ci sia questa attenzione, anche se non mi aspettavo tutto questo clamore, né questo moralismo».

Vuole passare da vittima?

«Ho pagato. Sono stato condannato per 65mila euro di tangenti quando fatturavo 180 milioni. Quelle tre tangenti sono una cosa banale». 

Ne parla come se non fossero un reato.

«D'accordo, ma sono cifre ridicole. Il resto era tutto un darsi da fare per farmi pagare dalla pubblica amministrazione. In cambio, assumevo il figlio o sponsorizzavo qualcosa. Non è corruzione, semmai concussione».

È sempre un reato. Ma come è arrivato da quella vita alla decisione di aprire una paninoteca?

«Per un ristorante servivano troppi soldi. Dopo un anno di ricerca ho trovato questa occasione. Il locale andava male e il proprietario voleva vendere. Noi gli abbiamo chiesto di farci provare per un anno e per ora paghiamo 500 euro al mese». 

Il mondo di mezzo è finito?

«Sì, ora faccio solo il ristoratore. Spero in una nuova vita».

Daniele Autieri per “la Repubblica - ed. Roma” l'8 ottobre 2021. Non si può dire che pecchi di senso dell'umorismo. Eppure l'ultima trovata di Salvatore Buzzi ha fatto infuriare Virginia Raggi, il suo entourage e le migliaia di follower che popolano e alimentano i profili social della sindaca uscente. Per una volta, a tenere banco, non sono i fantasiosi nomi affibbiati ai panini del pub aperto dall'uomo divenuto simbolo del "Mondo di Mezzo", ma il video che Buzzi ha postato sulla sua pagina Facebook in cui l'addio della Raggi al Campidoglio viene raccontato mandando in rewind le immagini di cinque anni fa, quando la sindaca appena eletta arrivava in macchina sotto la statua di Marco Aurelio. Vedersi mentre cammina a passo di gambero, ripercorre all'indietro quegli scalini, si infila nell'auto e mestamente indietreggia fino a sparire dall'inquadratura, ha convinto la Raggi che fosse l'ennesima occasione buona per rispolverare la storia del ritorno dei Lanzichenecchi. E ieri la sindaca uscente ha pubblicato sul suo profilo il video di Buzzi accompagnandolo al laconico commento: «Sono già tornati». Il botta e risposta mediato dalla velina dei social era prevedibile dopo che i due protagonisti della vicenda se l'erano promessa pochi mesi fa quando - alla sentenza che ha fatto decadere l'accusa di mafia nei confronti di Buzzi e Carminati - la sindaca dichiarò: « Mafia Capitale è stato uno dei capitoli più bui della storia della nostra città: sono stati calpestati i diritti dei cittadini e questo è stato riconosciuto». In quel caso l'uscita della prima cittadina non andò giù a Buzzi che promise una querela e una richiesta di risarcimento danni da 100.000 euro. «Ogni promessa è mantenuta - chiosò all'epoca Buzzi in un video - ci vedremo in tribunale Virginia, ciao!». Non stupisce allora che il "rosso", come in tanti lo hanno chiamato per distinguerlo dal "nero" Carminati, si sia tolto l'ultimo sassolino dalla scarpa nei confronti di una sindaca che si è sempre raccontata come una paladina della lotta alla criminalità. «Se non era per me e per Giuseppe Pignatone (l'ex-procuratore capo di Roma) - scherza Buzzi mentre accoglie i primi ospiti del suo locale - non sarebbe mai diventata sindaca. Ha vissuto sulla retorica di mafia capitale che però mafia non era». Dagli Spada ai Casamonica, dalle periferie di Ostia ai palazzoni della Tuscolana, fino ai pullman della legalità spediti nelle piazze di spaccio di Tor Bella Monaca, la battaglia ai mafiosi è divenuta bandiera politica e scure elettorale, alimentata spesso dalle parole. E proprio sulle parole si è giocato anche l'ultimo round di questo match tra i paladini del bene e le forze del male. Lui, l'uomo nero, anzi rosso, ci ha riso su. «In questo locale pagano tutti - ha detto - amici, parenti e conoscenti, i pubblici ministeri pagano doppio e i giudici triplo». Viene da chiedersi quale sarebbe il conto presentato alla sindaca.

Il video è stato manipolato. Assalto grillino contro Buzzi, per Raggi & Co. non può festeggiare la sconfitta della sindaca: “Vergogna italiana”. Redazione su Il Riformista il 7 Ottobre 2021. “Sono già tornati”. Laconica e senza troppe parole la sindaca uscente di Roma Virginia Raggi commenta un video postato il 5 ottobre su Facebook da Salvatore Buzzi, per anni perseguitato dai media e dalla magistratura per l’inchiesta Mondo di Mezzo, in cui si vede Raggi togliersi la fascia tricolore del sindaco. Un post muto, senza commento dell’utente Buzzi, per salutare ironicamente la sindaca pentastellata. Ma quello che potrebbe essere anche un semplice festeggiamento per il risultato elettorale, che ha visto Raggi arrivare quarta dietro Enrico Michetti, Roberto Gualtieri e Carlo Calenda, diventa oggetto di attacchi della casta grillina. Da Danilo Toninelli, ex ministro dei Trasporti durante il governo Conte I, alla vicepresidente del Senato Paola Taverna, passando poi per il vice ministro dello Sviluppo Economico Stefano Buffagni e l’ex Iena Dino Giarrusso si alzano voci di dissenso e critiche per il video postato sui social network da Buzzi. Fedeli al mantra di “Legalità e giustizia”, i grillini hanno spiegato quale sarebbe, secondo loro, il motivo che si cela dietro il post di Buzzi. “Certo, festeggia e non potrebbe fare altrimenti: con Virginia e il M5S in Campidoglio per cinque anni certi giri d’affari, quelli a cui era abituato, hanno subito un brusco stop. Buzzi festeggia perché pensa che ora le cose andranno meglio?“, scrive su Facebook Paola Taverna.

Dello stesso tenore il post di Giarrusso: “Adesso capite a chi fa comodo che Virginia non sia più sindaca e non possa più fermare i loschi affari che sono stati fatti per anni a scapito dei cittadini romani? Questa vergogna non sarebbe possibile in nessuno Stato europeo. L’Italia onesta si ribelli alla sua arroganza. Buzzi è una vergogna italiana” ha scritto europarlamentare del Movimento 5 Stelle. Il video postato da Buzzi, in realtà, è stato manipolato e montato al contrario proprio per destare l’effetto di un’uscita di scena dell’ex sindaca. Anche la scelta musicale vuole alludere a un saluto a Raggi: in sottofondo, infatti, si sente la voce di Lucio Dalla cantare “Ciao”. Il filmato originale era stato girato nel giugno del 2016, quando l’ex sindaca è arrivata in Campidoglio dopo il suo trionfo elettorale di 5 anni fa. E proprio intervenuto sul ruolo di Raggi, Buzzi, a margine dell’inaugurazione del suo contestato pub ha detto a La Presse: “La Raggi deve ringraziare me se è diventata sindaco altrimenti quando mai ci diventava? La ammiro però, non pensavo fosse cosi resiliente”. Dal punto di vista degli appalti, “Raggi non ha ripulito niente, guarda la città, i giardini, le buche, i bus che prendono fuoco, non è successo nulla… Poi qualche scandaluccio c’è stato anche ai tempi suoi eh …“, ha commentato Buzzi.

Un gustoso menù di panini speciali. Buzzi apre il suo pub a Roma, dai panini “Mondo di Mezzo” al “Libanese”: “Qui i giudici pagano il triplo”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 6 Ottobre 2021. “Mondo di Mezzo” è stato il nome di una saga giudiziaria. Oggi è quello di un panino. Lo si può gustare nel pub che aprirà il 7 ottobre a Roma in via di Tor Vergata. Il titolare è Salvatore Buzzi che dopo anni di accuse, condanne, carcere e titoli in prima pagina che per anni lo hanno tormentato e ancora lo tormentano, ha deciso di darsi alla ristorazione. E lo fa con spirito ironico mentre si prepara all’inaugurazione del suo pub, quattro vetrine a pochi passi dall’Ikea.

“In questo locale pagano tutti: amici, parenti e conoscenti, i pubblici ministeri pagano doppio e i giudici triplo. Hanno diritto allo sconto gli ex soci e i dipendenti del gruppo 29 giugno”, ha detto all’AdnKronos che ha rilanciato la notizia. E, a giudicare dal menù, le premesse del Buzzi’s Burger sono molto gustose. Ci sono il Mix Buzzi’s burger, i panini speciali Gomorra, Suburra, Samurai, Mondo di Mezzo e Agro Pontino o l’hot dog Er Terribile. Nel menù fioccano anche i riferimenti ai personaggi della malavita romana e della Banda della Magliana abbinati a vari tipi di panini da 100, 250, 500 grammi: c’è il panino “Libanese”, dal soprannome del vecchio capo della Magliana Franco Giuseppucci, al “Freddo” alias cinematografico dell’altro capo Maurizio Abbatino, e poi il “dandy”, “er Bufalo”. C’è perfino “Er Secco” Vegano o le insalate di “Genny” e “Scrocchiazzeppi”. Il Riformista lo ha intercettato qualche settimana fa in occasione del banchetto per il referendum sulla Giustizia Giusta in piazza Cardelli. “Sono venuto a firmare per il referendum per la giustizia perché sono per la separazione delle carriere, tra Pm e giudici, sono per la responsabilità civile per i magistrati perché mi sento una vittima di questo sistema – disse ai microfoni del Riformista – L’inchiesta Mafia Capitale che ha travolto me e tanti altri imputati e le nostre cooperative si è rivelata un flop. E invece di pagare pegno sono stati tutti promossi”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Salvatore Buzzi contro la sindaca: “Se Raggi parla ancora di mafia la querelo”. Fanpage.it il 9/3/2021. "Se Virginia Raggi parla ancora di mafia la querelo e le chiedo i danni". Sono le parole di Salvatore Buzzi uscito dall'Aula dopo la lettura del dispositivo della sentenza d'appello bis, che lo condanna a 12 anni e dieci mesi di reclusione nel processo sul ‘Mondo di Mezzo'. "Non si può più parlare di mafia dopo il 22 ottobre del 2019 – quandola Cassazione ha fatto cadere l'accusa – intraprenderò un'azione civile contro Raggi, che dovrebbe invece ringraziarmi, perché se è diventata sindaca di Roma lo deve a me e a Pignatone". "Quello di Mafia Capitale credo sia stato uno dei capitoli più bui della storia della nostra Capitale. Sono stati calpestati i diritti dei cittadini, e questo è stato riconosciuto – dichiara la sindaca di Roma Virginia Raggi uscita dall'aula a margine della sentenza d'appello bis di stasera- Credo sia fondamentale il lavoro di ricostruzione che stiamo facendo, che parte dalle macerie fatto di bilanci puliti, regolari, appalti legali e trasparenza. I cittadini romani meritano questo. So di essere scomoda perché porto avanti questo percorso, però non si può assolutamente tornare indietro, dobbiamo garantire a Roma queste condizioni di legalità, trasparenza e regolarità". "Faremo nuovamente ricorso in Cassazione, aspettando le motivazioni" sono le prime parole di Salvatore Buzzi, dopo la lettura del dispositivo della Corte d'Appello bis. Una sentenza che ha finito "molto più dura di quanto ci aspettavamo, considerato che il reato più grave era l'associazione a delinquere, il pg aveva chiesto 12 anni e otto mesi, sono stato assolto da sue capi e me ne hanno dati 12 anni e dieci mesi". Ciò che sperava Buzzi era "una condanna tra gli otto e i dieci anni".

Mondo di mezzo, Buzzi chiede 100mila euro di danni alla Raggi: «Mi dà del mafioso». Buzzi contesta alla sindaca di Roma di averlo diffamato associandolo alla mafia nonostante la Cassazione abbia annullato l’aggravante mafiosa che gli era stata in origine contestata nell’ambito del processo Mafia Capitale. Il Dubbio venerdì 12 marzo 2021. Salvatore Buzzi chiede 100mila euro di danni alla sindaca di Roma, Virginia Raggi, contestandole di averlo diffamato associandolo alla mafia nonostante la Cassazione abbia annullato l’aggravante mafiosa che gli era stata in origine contestata nell’ambito del processo scaturito dall’inchiesta “Mondo di Mezzo”. Nella richiesta di risarcimento danni per diffamazione, a quanto apprende l’Adnkronos, l’avvocato Marco Turchi intima alla Raggi, per conto di Buzzi, di corrispondere la somma «entro e non oltre 10 giorni» dal ricevimento della richiesta, riservandosi «ulteriori azioni legali presso le sedi giudiziarie competenti». In particolare, l’avvocato Turchi nel documento destinato alla sindaca evidenzia come, nonostante con la sentenza del 22 ottobre 2019 la Cassazione abbia sancito definitivamente l’annullamento dell’aggravante mafiosa per Buzzi, le parole della Raggi in «numerose dichiarazioni, interviste e pubblicazioni» ledano «in maniera palese e profonda» l’immagine dell’ex ras delle coop associandolo «a condotte aventi carattere mafioso, già riconosciute, da ormai un anno e mezzo, come non esistenti». Una «condotta diffamatoria», secondo l’avvocato, che, «perpetrata a mezzo video e tramite chiari riferimenti politici alla Sua qualifica di Sindaco di Roma, accentua la gravità del danno subito dal sig. Buzzi». Il legale richiama esplicitamente le dichiarazioni rilasciate dalla Raggi il «9 marzo 2021 innanzi alla Corte di Appello di Roma», cioè al processo d’Appello bis su “Mafia Capitale” celebrato per rideterminare le pene per venti imputati, tra cui Buzzi, condannato a 12 anni e dieci mesi. Secondo Turchi, «grazie alle interviste» rilasciate dalla sindaca, capaci di influenzare un gran numero di persone, Buzzi «sarà, suo malgrado, ancora qualificato nelle pubbliche cronache come “mafioso”». «È stata una condanna molto più dura di quanto ci aspettavamo perché ha considerato più grave il reato di associazione a delinquere semplice. Il pg aveva chiesto 12 anni e 8 mesi. Faremo ricorso nuovamente in Cassazione. Comunque meglio dei 18 anni della volta scorsa», aveva commentato ieri Buzzi, dopo la sentenza dell’Appello Bis che lo ha condannato a 12 anni e 10 mesi.

Mondo Mezzo: appello bis, a Carminati 10 anni. (ANSA il 9 marzo 2021) La prima Corte d'Appello di Roma ha condannato a 10 anni l'ex Nar, Massimo Carminati nel processo di appello bis al Mondo di mezzo. I giudici hanno, invece, inflitto 12 anni e 10 mesi a Salvatore Buzzi, il ras delle cooperative romane. Il processo si è celebrato per una ventina di imputati dopo che la Cassazione ha fatto cadere l'accusa di associazione mafiosa e chiesto il ricalcolo della pena.

"Mondo di mezzo", Carminati e Buzzi condannati a 10 e 12 anni (e 10 mesi) nell'Appello bis. Valentina Errante per ilmessaggero.it il 9 marzo 2021. Arriva dopo sette anni dall'inchiesta la sentenza d'Appello bis sul "Mondo di Mezzo", dopo che  il 22 ottobre di due anni fa la Cassazione ha fatto cadere l'accusa di mafia e smentito l'impianto della procura nell'inchiesta ordinando un processo d'appello bis per il ricalcolo delle pene. Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, protagonisti del maxi processo, erano in aula e non da detenuti ma da liberi, essendo scaduti i termini di custodia cautelare. Sono loro, per la Cassazione, il vertice delle due associazioni a delinquere semplici. Carminati è stato condannato a 10  anni, Buzzi a 12 anni e 10 mesi . Cinque anni all'ex consigliere Luca Gramazio. Il processo d'Appello bis per il ricalcolo delle pene per 20 imputati si è aperto lo scorso 8 settembre, a quasi un anno dalla sentenza della Cassazione. In aula si sono ritrovati fianco a fianco Buzzi e Carminati mentre per altri imputati invece si è scelta la strada del concordato. Tra questi l'ex consigliere Luca Gramazio, l'ex ad di Ama Franco Panzironi, Fabrizio Franco Testa e Riccardo Brugia.

Le richieste. Il procuratore generale Pietro Catalani  aveva chiesto nelle scorse udienze di condannare Carminati a undici anni e un mese e Salvatore Buzzi a 12 anni, 8 mesi e 20 giorni di reclusione.

Mondo di mezzo, sentenza d'appello bis: 10 anni a Carminati, 12 anni e 10 mesi per Buzzi. Andrea Ossino,  Francesco Salvatore su La Repubblica il 9 marzo 2021. L'ex Nar potrebbe però non tornare in carcere ma scontare una pena alternativa. Buzzi: "Faremo ricorso in Cassazione". Assolti Scozzafava, Gaglianone, Esposito. Presente in aula anche la sindaca Virginia Raggi. Dieci anni di reclusione per l'ex militante dei Nar Massimo Carminati e 12 anni e 10 mesi all'ex capo delle cooperative Salvatore Buzzi. È l'esito del processo d'appello bis al 'Mondo di Mezzo', disposto dalla Cassazione solo per la rideterminazione delle pene per venti imputati, a seguito della sentenza del 22 ottobre del 2019 che faceva definitivamente cadere il reato di mafia. In aula per la lettura della sentenza era presente anche la sindaca Virginia Raggi. Il procuratore generale Pietro Catalani aveva chiesto per l'ex Nar Carminati undici anni e un mese e per Salvatore Buzzi 12 anni, 8 mesi e 20 giorni di reclusione. "Con questa sentenza il mio assistito è sotto il limite che consente una misura alternativa e quindi potrebbe non tornare più in carcere". Lo afferma Cesare Placanica difensore di Massimo Carminati. L'ex Nar, presente in aula, ha trascorso 5 anni e 7 mesi di carcere preventivo. Per Buzzi la corte d'appello di Roma ha Stabilito anche l'incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione per tre anni, mentre a Carminati da una parte ha revocato la misura della libertà vigilata, dall'altra ha comminato 4 mila euro e confermato la misura di sicurezza dell'assegnazione a una colonia agricola o casa di lavoro per almeno due anni e tre mesi. "È stata una condanna molto più dura di quanto ci aspettassimo perchè la corte ha considerato più grave il reato di associazione a delinquere semplice. Il pg aveva chiesto 12 anni e 8 mesi e venti giorni di reclusione. Faremo ricorso nuovamente in Cassazione. Comunque meglio dei 18 anni della volta scorsa". A dirlo è Salvatore Buzzi, dopo la sentenza dell'appello bis che lo ha condannato a 12 anni e 10 mesi nel processo al "Mondo di Mezzo". Tra le pene ricalcolate ci sono quelle che riguardano, tra gli altri l'ex consigliere comunale Luca Gramazio (5 anni e 6 mesi), Fabrizio Franco Testa (5 anni e 6 mesi), l'ex Ad dell'Ama Franco Panzironi (3 anni e 6 mesi), Riccardo Brugia (6 anni), Matteo Calvio (5 anni e 7 mesi), Paolo Di Ninno (3 anni, 8 mesi e 10 giorni), Alessandra Garrone (2 anni, 9 mesi), Claudio Caldarelli (4 anni e 5 mesi), Emanuela Bugitti (2 anni, 8 mesi), Carlo Pucci (4 anni), Carlo Maria Guarany (2 anni, 6 mesi e 15 giorni), Claudio Bolla (3 anni e un mese), Roberto Lacopo (4 anni e 7 mesi), Paolo Di Ninno (3 anni, 8 mesi e 10 giorni), Pierpaolo Pedetti (un anno e 9 mesi), Michele Nacamulli (1 anno). Assoluzione, infine, per l'imprenditore Agostino Gaglianone, Angelo Scozzafava (che nella vicenda dell'appalto Cup fungeva da componente della commissione aggiudicatrice della gara) e Antonio Esposito, amministratore di una cooperativa. "Quello di 'mafia capitale' è uno dei Capitoli più bui della storia di Roma. Sono stati calpestati i diritti dei cittadini e questo è stato riconosciuto. Io credo sia fondamentale il lavoro di ricostruzione che stiamo facendo, che parte dalle macerie: fatto di bilanci puliti, regolari e di appalti legali e trasparenza. I cittadini romani meritano questo". Così la sindaca Virginia Raggi, commentando la sentenza. Raggi ha poi aggiunto: "io lo so, sono scomoda perchè porto avanti questo percorso, però non si può assolutamente tornare indietro. Dobbiamo garantire a roma queste condizioni di legalità, trasparenza e regolarità". "Questo processo ha accertato il radicamento nella città di Roma di due pericolosissime associazioni criminali". Così l'avvocato Giulio Vasaturo dell'Associazione Libera parte civile nel processo: "Un dato di fatto che di per sé non si presta ad alcuna minimizzazione".

Una storia che parte da lontano. Quella relativa al procedimento un tempo conosciuto come "Mafia Capitale" è una storia che parte da lontano. Inizia 7 anni fa, nel dicembre 2014, quando l'estremista di destra Massimo Carminati e il patron della cooperativa 29 Giugno Salvatore Buzzi vengono arrestati insieme ad altre 26 persone, (tra politici, imprenditori e pregiudicati) accusate di aver fatto parte di un'associazione mafiosa capace di avvolgere la vita sociale, economica e politica della Capitale.

La sentenza di primo grado. I vertici dell'organizzazione sgominata con l'inchiesta "Mondo di Mezzo" sono costretti a trascorrere un periodo al 41bis fino a quando i giudici di primo grado, nel luglio 2017, emettono una sentenza severa che tuttavia non riconosce l'accusa di mafia. Secondo la Corte si tratta di due associazioni criminali distinte, spesso interconnesse, ma non mafiose. Buzzi viene comunque condannato a scontare 19 anni di carcere e Carminati 20.

La sentenza d'appello del 2018. Poi l'appello. La sentenza dell'11 dicembre del 2018 stabilisce che il "mondo di mezzo" è di nuovo mafia, proprio come sostenuto dai pm romani. Nonostante l'aggravarsi delle accuse i "mafiosi" Buzzi e Carminati vengono condannati a pene più lievi. Il patron della 29 Giugno avrebbe dovuto scontare 18 anni e 4 mesi, mentre il "Cecato" avrebbe dovuto trascorrere 14 anni e 6 mesi in prigione.

Ottobre 2019: l'ennesimo ribaltone. Il 22 ottobre 2019 arriva però l'ennesimo ribaltone: la Cassazione straccia definitivamente l'accusa di mafia. I protagonisti dell'inchiesta escono di prigione, vanno ai domiciliari e vengono rispediti in appello per ricalcolare le pene. Nel frattempo gli effetti dell'indagine condotta dai carabinieri continuano. La finanza sequestra definitivamente un tesoretto da circa 27 milioni di milioni di euro tra cui ville, terreni, 13 automezzi e molte opere d'arte, ben 69, attribuite ad importanti autori del '900, dalla Pop Art al Futurismo, al Surrealismo. Adesso la seconda sentenza di Appello, mentre continuano parallelamente le altre inchieste e gli altri processi nati dall'indagine "madre".

Valentina Errante per "il Messaggero" il 10 marzo 2021. Non è ancora finita. Di certo ci sarà un nuovo processo Mondo di mezzo in Cassazione ma solo per Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, che però potrebbe non tornare più in carcere, a meno che non vengano disposte nuove misure cautelari. Ieri, la prima Corte d' Appello ha condannato a dieci anni Il Nero e a dodici anni e 10 mesi l' ex ras delle coop Salvatore Buzzi, aumentando di qualche mese le richieste della procura generale. Le sorprese, nel processo disposto dalla Corte di Cassazione, che due anni fa aveva definitivamente cancellato l' ipotesi dell' associazione a delinquere di stampo mafioso riconoscendo due organizzazioni criminali semplici, non sono mancate, perché molti imputati sono stati assolti da alcuni capi di imputazione. Anzi alcuni, come Angelo Scozzafaca e Agostino Gaglianone, sono stati assolti del tutto. La decisione è arrivata dopo una camera di consiglio durata oltre quattro ore. Praticamente per tutti, tranne che per Buzzi, il ritorno in carcere non è previsto. «Con questa sentenza Carminati è sotto il limite che consente una misura alternativa e quindi potrebbe non tornare più in carcere», commenta Cesare Placanica che, insieme all' avvocato Francesco Tagliaferri lo difende. Il calcolo riguarda uno sconto di pena per ogni anno trascorso dietro le sbarre. Per Buzzi e i suoi legali, Alessandro Diddi e Piergerardo Santoro, la condanna è stata superiore alle aspettative: «È molto più dura di quanto ci aspettassimo - commenta - perché la Corte ha considerato più grave il reato di associazione a delinquere semplice, anziché quello di corruzione. Faremo ricorso nuovamente in Cassazione». E così nel nuovo processo gli unici due imputati dovrebbero essere Buzzi e Carminati, ritenuti i vertici delle associazioni a delinquere. I sodali hanno concordato le pene e pagato il debito con la legge.

LE PENE. Dei tredici imputati che hanno ottenuto un accordo sulla pena c' è anche l' ex consigliere Luca Gramazio, che chiude il caso con 5 anni e sei mesi, quindi l' ex ad di Ama Franco Panzironi tre anni e 6 mesi. Riccardo Brugia ha ottenuto una pena di sei anni, mentre per Fabrizio Franco Testa di cinque anni e sei mesi. Cinque anni e 7 mesi, Paolo Di Ninno tre anni, otto mesi e 10 giorni, Alessandra Garrone due anni, nove mesi e 10 giorni, Claudio Caldarelli quatto anni e 5 mesi. Assolto anche Antonio Esposito, accusato di essere il prestanome di Carminati. Alla lettura della sentenza era presente la sindaca Virginia Raggi. «Questa vicenda ha rappresentato uno dei capitoli più bui della storia della nostra capitale: sono stati calpestati i diritti dei cittadini e questo è stato riconosciuto. Io credo sia fondamentale il lavoro di ricostruzione che stiamo facendo».

LA VICENDA. Era il dicembre 2014 quando l' inchiesta della procura di Roma travolse la città. L' ipotesi dei pm che accusavano politici e funzionari era che un' associazione a delinquere di stampo mafioso agisse all' interno delle amministrazioni. Il vertice erano Buzzi e Carminati, i sodali consiglieri regionali e comunali, oltre a gregari dell' ex Nar. La forza di intimidazione era del Nero, mentre Buzzi avrebbe utilizzato i suoi rapporti e la rete delle cooperative per ottenere appalti. Un teorema crollato al primo grado di giudizio, nonostante le pesantissime pene ai due principali imputati: venti anni a Massimo Carminati e 19 a Buzzi. Ma per il Tribunale la mafia non c' era. In secondo grado le pene sono state ridotte, 14 anni e 6 mesi con 3 anni di libertà vigilata per l' ex Nar, 18 anni e 4 mesi con 3 anni di libertà vigilata, per il re delle coop, ma i giudici di appello avevano accolto la tesi dell' accusa e l' ipotesi di mafia, spazzata via definitivamente dalla Cassazione. Carminati e Buzzi sono tornati liberi la scorsa primavera per decorrenza termini. L' ex Nar è stato scarcerato dopo cinque anni e 7 mesi di detenzione preventiva una parte della quale, fino al luglio del 2017, in regime di 41 bis, il carcere duro. Al momento nei confronti di Carminati non sono stati disposti nuovi provvedimenti restrittivi da parte della Corte d' Appello o della Procura, l' unico obbligo è quello di dimora nel comune di Sacrofano.

L'appello bis di "Mondo di mezzo". Non Mafia Capitale, stangata per Buzzi e Carminati. Angela Stella su Il Riformista il 10 Marzo 2021. È arrivata alle 20 di ieri sera, dopo cinque ore di Camera di Consiglio, la sentenza d’Appello bis sul “Mondo di Mezzo” che ha dovuto rideterminare le pene per alcuni imputati: sentenza più severa per Salvatore Buzzi, condannato a dodici anni e dieci mesi, mentre per Massimo Carminati la pena è di dieci anni. Per Buzzi la Corte d’Appello di Roma ha stabilito anche l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione per tre anni, mentre a Carminati da una parte ha revocato la misura della libertà vigilata, dall’altra ha comminato 4 mila euro e confermato la misura di sicurezza dell’assegnazione a una colonia agricola o casa di lavoro per almeno due anni e tre mesi. Comunque al momento gli imputati non andranno in carcere. Presente al momento della lettura della sentenza da parte del Presidente Tommaso Picazio anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi. Lo scorso primo dicembre, come ha ricordato l’Adnkronos, il procuratore generale Pietro Catalani aveva chiesto una condanna a undici anni e un mese per Massimo Carminati e a 12 anni, 8 mesi e 20 giorni di reclusione per Salvatore Buzzi. Al primo processo di Appello, l’11 dicembre del 2018, quando era stata ribaltata la sentenza di primo grado con il riconoscimento dell’associazione mafiosa, Carminati venne condannato dai giudici della Terza Corte d’Appello di Roma a 14 anni e mezzo, e Buzzi a 18 anni e 4 mesi. Era stata poi la Corte di Cassazione, il 22 ottobre 2019, a far cadere l’aggravante mafiosa ex articolo 416 bis, quando i giudici della Sesta sezione penale di piazza Cavour avevano “semplicemente” riconosciuto la presenza di due associazioni a delinquere distinte ma non la loro mafiosità. La stessa sentenza stabilì quindi la celebrazione di un processo d’appello bis per il ricalcolo delle pene. Il processo d’Appello bis per il ricalcolo delle pene per 20 imputati si è aperto lo scorso 8 settembre, a quasi un anno dalla sentenza della Cassazione. In aula si sono ritrovati fianco a fianco Salvatore Buzzi e Massimo Carminati mentre per altri imputati si è scelta la strada del concordato. Tra questi l’ex consigliere Luca Gramazio, l’ex ad di Ama Franco Panzironi, Fabrizio Franco Testa e Riccardo Brugia. Carminati e Buzzi erano stati scarcerati lo scorso anno: la prima scarcerazione, lo scorso 16 giugno, è stata quella di Massimo Carminati. L’ex Nar aveva lasciato il carcere di Oristano, dove era detenuto in regime di 41bis, dopo che l’istanza di scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare, con il meccanismo della contestazione a catena, presentata dagli avvocati Cesare Placanica e Francesco Tagliaferri era stata accolta dal Tribunale della Libertà. Carminati uscì così dal carcere dopo 5 anni e 7 mesi di detenzione e per lui è stato disposto l’obbligo di dimora nel comune di Sacrofano. Dieci giorni dopo sono tornati liberi Salvatore Buzzi e l’ex consigliere regionale Luca Gramazio, entrambi erano agli arresti domiciliari. Una liberazione dovuta sempre alla decorrenza dei termini di custodia. Nel frattempo sono passati definitivamente allo Stato beni per quasi 30 milioni di euro appartenuti ad alcuni degli imputati, tra cui una novantina di opere d’arte che Massimo Carminati custodiva nella sua villa: disegni di Renato Guttuso, dipinti e diverse opere grafiche di Mimmo Rotella, opere a firma di Giacomo Manzù e Giacomo Balla e una serigrafia di Mirò. Un atto che rappresenta l’epilogo delle indagini patrimoniali svolte, su delega della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, nei confronti degli indagati e dei loro prestanome.

La storia criminale di Matilde Ciarlante, la donna che ha paura del Cecato. Fino al momento dell'arresto, il suo nome era inserito tra i 100 latitanti più pericolosi d'Italia. Nella sua lunga carriera vanta rapporti stretti con la camorra, la Banda della Magliana e il clan di Massimo Carminati. Che difende. E soprattutto teme. Lirio Abbate su L'Espresso il 27 gennaio 2021. La storia criminale di Matilde Ciarlante, 67 anni, romana, è una fra le più pesanti della Capitale. E anche la più intrecciata. Il suo nome era inserito nella lista dei cento più pericolosi latitanti del nostro Paese. Lo era fino a lunedì 25 gennaio quando è stata arrestata dalla Guardia di Finanza nel quartiere romano di Prati, nei pressi dello studio professionale di un suo parente. Una volta fermata Matilde Ciarlante per tentare di sottrarsi alla cattura, ha esibito un documento falso. E i documenti falsi e le storie criminali la collegano alla Banda della Magliana, alla camorra, a Cosa nostra e pure al clan di Massimo Carminati. Si può partire dagli ultimi fatti in cui è stata protagonista lei e il fascistone cecato della Capitale. La scena si svolge a Roma a gennaio del 2000 quando i carabinieri del nucleo operativo, gli stessi che hanno condotto indagini parallele alla polizia sul furto al caveau della banca della città giudiziaria, che ha visto protagonista una banda di criminali guidata proprio da Massimo Carminati tra venerdì 16 e sabato 17 luglio 1999, si presentano nei mesi successivi al furto ai magistrati e comunicano che c’è una coppia che ha delle informazioni. Chi vuole parlare sono Giuseppe Cillari (deceduto nel 2002) e la compagna Matilde Ciarlante, sono marito e moglie e nella Capitale si muovono con disinvoltura e spregiudicatezza in una variegata serie di ambienti malavitosi. Sono entrati e usciti dal carcere diverse volte e gestiscono un flusso di denaro costante. A inizio carriera, a Salerno, Cillari si lega alla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo (che in questi giorni è stato ricoverato nel reparto ospedaliero per detenuti di Parma per le sue non buone condizioni di salute). Trasferitasi a Roma negli anni Ottanta, però, la coppia contribuisce probabilmente all’omicidio di Vincenzo Casillo, luogotenente di Cutolo, ucciso per vendetta da Pasquale Galasso, esponente della Nuova famiglia di Carmine Alfieri. Nove anni dopo, nel 1992, Galasso si pentirà, e definirà Cillari come persona astuta, ambigua, che segue solo i suoi interessi offrendo la sua amicizia ogniqualvolta pensa di trarne un profitto. Nella Capitale, infatti, Cillari e Matilde Ciarlante intrecciano relazioni con personaggi legati alla malavita del calibro del costruttore Enrico Nicoletti. O ancora con Pippo Calò, il cassiere a Roma della mafia siciliana e con vari settori della criminalità organizzata, scegliendo sempre amici e nemici in funzione del proprio tornaconto. Sono abili doppiogiochisti con rapporti ad ampio spettro, e non disdegnano di tanto in tanto di collaborare con le forze dell’ordine, attirandosi in questo modo le minacce di Nicoletti che li considera spioni. Il loro fiuto per gli affari, leciti e illeciti, e il loro collaudato mimetismo li portano con il tempo ad accumulare tanti miliardi, senza rimetterci il collo. Cillari soffre da anni di diabete mellito, ha gravi problemi renali e tre volte la settimana deve sottoporsi alla dialisi. Nel 1996 ha avuto un ictus, che lo ha molto provato ma senza togliergli la lucidità. Si muove soltanto con la sedia a rotelle, e per questo i carabinieri chiedono ai pm di interrogarlo a Roma, a casa sua, perché per lui è impossibile spostarsi. La mattina del 19 febbraio 2000, quindi, i magistrati si presentano nella sontuosa abitazione della coppia, e vengono accolti all’ingresso da un fidato amico dei padroni di casa. I pm sono sorpresi, a fare gli onori di casa è un sacerdote, don Patrizio, amico e ospite della famiglia Cillari, che si presenta come segretario del vescovo di Salerno e afferma di essere stato trasferito in Vaticano perché chiamato a far parte del Comitato centrale del grande Giubileo dell’anno 2000 come collaboratore di monsignor Crescenzio Sepe. Il prelato fa accomodare i magistrati e i carabinieri e offre loro da bere mentre attendono l’arrivo di Cillari. Il salernitano compare davanti agli ospiti sulla sedia a rotelle. Parla in dialetto. Se non fosse una faccenda serissima sembrerebbe di assistere a una scena da commedia all’italiana. Gli inquirenti raccolgono le dichiarazioni di Cillari e poi ascoltano quanto ha da dire anche la signora Ciarlante. Hanno parlato per ore e, verso le tre del pomeriggio, i verbali sono stampati e pronti per essere firmati, ma Cillari non si trova. Un paio di ore prima, infatti, è uscito di casa con la sedia a rotelle, è salito su un’auto ed è andato via insieme all’amico sacerdote. I magistrati sono allibiti, ma anche adirati per questo comportamento, e mandano immediatamente un carabiniere a cercarlo. Cillari viene trovato in un ristorante vicino alla Fontana di Trevi, seduto a mangiare. Solo nel tardo pomeriggio fa rientro a casa, e finalmente può firmare il verbale. Che cosa raccontano Giuseppe Cillari e Matilde Ciarlante ai magistrati? La coppia racconta che verso la metà di dicembre del 1999, dopo l’arresto dell’appuntato Adriano Martiradonna e degli altri carabinieri per il furto al caveau, una sera si sono presentati a casa loro Piero Tomassi, che non vedevano da dieci anni, e Angelo Calabria, un loro socio in affari. I due sanno che la Ciarlante sta trattando un’importante compravendita immobiliare e le offrono di procurarle lauti finanziamenti provenienti dall’estero. Tempo dopo la coppia organizza una cena a cui oltre a Calabria e Tomassi prendono parte Virgili e un conoscente comune. Cillari conosce Virgili da tempo. Sette anni prima, dopo un colpo simile a quello all’agenzia 91 della Banca di Roma, gli ha dato una mano a piazzare la refurtiva, 4 miliardi d’oro, da un gioielliere romano di sua fiducia. Conosce anche Tomassi, detto Sbirulino: «Tomassi è quello della roba elettrica» spiega Cillari ai pm, «mentre Virgili è l’ingegnere» cioè la mente organizzativa. Durante la cena, Virgili dice alla coppia che ha bisogno di piazzare dell’oro, un’enorme quantità. «Volevano squagliare dell’oro, li volevano fare in lingotti e poi li volevano vendere» racconta il salernitano ai pm. È stata la sua banda a realizzare il colpo alla Banca di Roma, che ha fruttato secondo il Mago delle vedove un bottino di 50 miliardi di lire, fra gioielli e certificati, questi ultimi appartenenti in gran parte a un magistrato. Si sono recati da Cillari per proporgli di acquistare i lingotti: «Mi hanno parlato… a me mi dicevano quanto lo pagavo al grammo… io gli dissi al prezzo di mercato meno il 10 per cento. […] Erano cinque quintali. Poi brillanti, monili, pietre preziose… tengono 50 miliardi sottoterra». Quella sera, ricorda Matilde Ciarlante, Stefano Virgili è molto inquieto. Sta sempre in piedi, continua a camminare avanti e indietro, nervoso, fumando il sigaro. Si sente braccato. Ha saputo che i carabinieri suoi complici sono stati arrestati ed è convinto che a incastrarli siano state le continue telefonate che gli hanno fatto per chiedergli i soldi. Quelle telefonate sono state di certo intercettate e inoltre gli è stato detto che uno di loro ha parlato, e non ci vorrà molto prima che arrivino a lui. Gli serve un alibi, a tutti i costi, e chiede a Cillari se conosce qualcuno della polizia o dei carabinieri disposto a produrgli un falso verbale di fermo che attesti, per la notte del furto, la sua presenza in una località lontana da Roma. Cillari e Ciarlante raccontano ai pm di aver appreso da lui e dai suoi tre amici che la refurtiva è stata prima nascosta sottoterra, «a do’ tengono i garage… sottoterra… loro hanno i parcheggi, eh», poi è stata spostata altrove ed è da poco stata portata a Montalto di Castro, un paese a cento chilometri da Roma, con un furgone. Qui Tomassi ha un amico che potrebbe occuparsi di trasformare l’oro in lingotti. «Tomassi lo fondeva, lo portava a una fonditura vicino a Montalto di Castro e lo fondeva, e poi a me mi portava i lingotti, facevano i pani e prendevano i soldi» ricorda Cillari ai magistrati. I carabinieri, con cui la Ciarlante ha un rapporto piuttosto assiduo dato il curriculum criminale di cui si fregia, le chiedono di fare da tramite: vorrebbero avere un confronto con uno della banda del colo al caveau. La donna lo chiama, gli assicura che non sarà arrestato e lui accetta di farsi sentire. Il 22 febbraio l’uomo è a Roma. L’amico di famiglia, don Patrizio, lo va a prendere alla stazione e lo porta al Gemelli, dove Cillari sta facendo la dialisi. E dove i carabinieri sono ben appostati e determinati ad arrestarlo. E così avviene. Questa la ricostruzione dei fatti fornita ai magistrati da Matilde Ciarlante, in tutte le sue pieghe di ambiguità, che lasciano opaco il ruolo effettivo giocato dalla donna. Che ogni tanto la coppia salernitana faccia qualche soffiata agli investigatori è cosa nota, ma Stefano Virgili e compagni scelgono lo stesso di rivolgersi a loro. Forse perché l’arresto dei carabinieri «infedeli» coinvolti nel colpo al caveau li costringe prima del tempo ad affrontare il problema di come piazzare la refurtiva, forse perché non hanno a disposizione un’alternativa, o forse perché i due, per quanto un po’ inaffidabili, hanno comunque le credenziali migliori per occuparsi della faccenda. Qualcuno dei criminali si premura di avvisare Matilde Ciarlante di fare attenzione, perché dietro quel furto ci sono personaggi pericolosi appartenenti alla malavita organizzata. È gente della Banda della Magliana di cui molti hanno paura. E qui nell’alludere al personaggio innominabile, Massimo Carminati, all’improvviso tutti i protagonisti di quella sorta di commedia all’italiana si fanno seri. Anche tra i malviventi esiste una gerarchia del terrore, un pesce più grande in grado di inghiottire in ogni momento i più piccoli. E i più piccoli lo sanno e ne hanno paura. E il marito di Ciarlante tenta di difendere davanti ai magistrati Carminati. Anche Matilde Ciarlante insiste sull’estraneità di Carminati al colpo alla Banca. Tanta determinazione nel tenere fuori dalla faccenda la Banda della Magliana e Massimo Carminati potrebbe essere dettata dalla paura di ritorsioni. La paura di Ciarlante per il cecato.

Chi era il Libanese? Cosa nasconde la scia di sangue. Francesca Bernasconi il 8 Giugno 2021 su Il Giornale. Il Libanese, il Dandi e il Freddo. Sono loro in Romanzo Criminale i protagonisti della malavita romana degli anni '70. Ma cosa si nasconde dietro a omicidi, traffici illeciti e sparatorie descritte in libri e film? Ecco la vera storia della Banda della Magliana. Libanese, Freddo e Dandi. Sono loro i capi della banda che in Romanzo Criminale conquista Roma, a colpi di omicidi, minacce e lotte. Soprannomi diventati ormai noti grazie a romanzi, film e serie televisive, che prendono spunto dagli avvenimenti della malavita romana: "Si parte da un fenomeno reale - ha spiegato a IlGiornale.it la giornalista investigativa Angela Camuso, autrice del libro Mai ci fu pietà, che ricostruisce le vicende della banda - ma poi l'arte, la fantasia e la scrittura hanno fatto il loro lavoro. Si tratta di un'elaborazione artistica di una realtà". Nascosta tra le trame di film e romanzi, però, emerge la storia del gruppo criminale che sconvolse la Capitale e che ha cambiato per sempre la criminalità romana. Il Libanese, il Freddo e il Dandi sono ispirati a Franco Giuseppucci, Maurizio Abbatino ed Enrico De Pedis, che alla fine degli anni Settanta furono tra i fondatori di un'organizzazione criminale, come non se n'erano mai viste prima nella Capitale: la Banda della Magliana.

Prima le batterie, poi la Banda della Magliana. Roma. Anni Settanta. I criminali locali si dedicavano a traffici minori, come furti, estorsioni, gioco d'azzardo e qualche rapina. A farla da padrone nella Capitale erano invece i Marsigliesi, il clan arrivato dalla Francia, che gestisce gli affari più redditizi, come il traffico di stupefacenti e i sequestri di persona. Nel 1976 l'arresto dei principali boss dei Marsigliesi creò un vuoto nella malavita romana, che permise ai criminali locali di abbandonare il loro "ruolo marginale" e sostituire la mafia francese. Per questo, i romani iniziarono a organizzarsi in batterie, associazioni criminali formate da poche persone che si dedicarono al controllo di una sola zona della Capitale: "All'epoca la città era organizzata in batterie, divise territorialmente o per settori, specializzate in rapine o altri traffici - ha raccontato la giornalista Camuso - Ma a un certo punto i romani che contavano nel campo della criminalità decisero di unirsi". Tra i malavitosi c'era anche Franco Giuseppucci, detto Er Fornaretto (poi soprannominato anche Er Negro): a lui le varie batterie affidavano le proprie armi, che venivano custodite in una roulotte parcheggiata al Gianicolo. Il nascondiglio però venne presto scoperto dai carabinieri, che arrestarono Giuseppucci: restò in carcere per qualche mese. Quando uscì, Er Fornaretto ricominciò con la sua attività. Fino al giorno in cui qualcuno gli rubò il maggiolino Volkswagen a bordo del quale aveva nascosto le armi affidatigli da un altro criminale locale: Enrico De Pedis detto Renatino. Dopo alcune ricerche, Giuseppucci scoprì che le armi erano state acquistate da un criminale locale che operava nella batteria di Maurizio Abbatino detto Crispino, e andò da lui per reclamarle. "Fu questa l'occasione nella quale conoscemmo Franco Giuseppucci - ha raccontato nel corso di un interrogatorio proprio Abbatino -il quale si unì a noi che già conoscevamo Enrico De Pedis cui egli faceva capo, che fece sì che ci si aggregasse con lo stesso". Così invece di riprendersi le armi di De Pedis, Er Fornaretto strinse un'alleanza con gli altri due membri della mala romana e si formò una banda, caratterizzata da un maggior numero di partecipanti e da vincoli più stretti tra di essi, che comprendono fedeltà e solidarietà tra i componenti. La differenza tra la banda e la batteria, oltre al maggior numero di membri e di interessi, sta anche nel vincolo di fedeltà e aiuto reciproco: "Si formò questa organizzazione - spiega Angela Camuso - fatta di mutua solidarietà, secondo cui ciascun membro doveva ritenersi responsabile delle azioni degli altri e avrebbe dovuto aiutare chi finiva in carcere e le famiglie dei detenuti". Alla banda si unì poi anche il gruppo capeggiato da Nicolino Selis detto Er Sardo che, come riferito da Antonio Mancini (membro della banda che si pentirà e collaborerà con gli inquirenti), già nel 1975 progettava mentre era in carcere la nascita di un'organizzazione criminale sulla base di quella fondata da Raffaele Cutolo, boss della Nuova Camorra Organizzata. Con Cutolo Selis aveva stretto anche un contatto, che sarà utile al gruppo negli anni successivi, per l'espansione del traffico della droga. Oltre all'appoggio della camorra, la nuova organizzazione potè godere anche del sostegno della mafia siciliana, in particolare nella persona di Pippo Calò. "Eravamo noi della Magliana a tenere i rapporti con Raffaele Cutolo - spiegherà poi Maurizio Abbatino - mentre il gruppo di De Pedis era più vicino ai siciliani. Prima a Stefano Bontade e poi a Pippo Calò. Con i calabresi, i Piromalli e i De Stefano, c'era una collaborazione... ma non ricordo rapporti di affari. Ci facilitavano i contatti con persone importanti". A spiegare come avvenne il consolidamento tra i vari gruppi fu sempre Abbatino, durante un interrogatorio, come precisato nell'ordinanza di rinvio a giudizio pubblicata da Notte criminale: "Negli anni 1978-1979, unitamente a Franco Giuseppucci (detto il 'Negro'), Giovanni Piconi, Enzo Mastropietro, Emilio Castelletti, Renzo Danesi (detto 'El Caballo'), Giorgio Paradisi e Marcello Colafigli, costituivamo una banda dedita inizialmente alle rapine; ben presto tale attività alquanto redditizia ci consentì di passare a lavorare la cocaina. A seguito dell'accresciuta forza del nostro gruppo, poiché si offriva l'occasione di allargare i campi di interesse al settore dell'eroina, attraverso Franco Giuseppucci, venne stabilito un collegamento operativo tra il nostro gruppo e quello di Nicolino Selis, che agiva in Acilia, e del quale facevano parte Fabrizio Selis, Edoardo Toscano (detto 'Operaietto'), Fulvio Lucioli, Giovanni Girlando (detto 'Gianni il Roscio'), Libero Mancone, Vittorio Carnovale (detto il 'Coniglio') e Giuseppe Carnovale (detto il 'Tronco'), nonché Roberto Frabbetti". Così, alla fine degli anni Settanta, l'aggregazione delle diverse batterie dedite al controllo dei vari quartieri della Capitale, diede vita alla Banda della Magliana, un'organizzazione criminale in espansione formata da decine di personaggi appartenenti alla malavita romana, che prendevano parte alle decisioni insieme. "La banda della Magliana non ha mai avuto un capo - ha spiegato la giornalista investigativa Angela Camuso - c'erano tanti capi che però erano anche soldati: non c'era una divisione di ruoli. C'è sempre stato invece un gruppo di personaggi, che avevano la stessa voce in capitolo".

Dal debutto alla conquista di Roma. Inizialmente la banda si dedicò sostanzialmente ai traffici minori, soprattutto rapine. Il vero salto avvenne nel novembre del 1977, con il sequestro del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere. Per portare a termine il rapimento e soprattutto per gestire la custodia dell'ostaggio, la Magliana si rivolse alla banda di Montespaccato. "Io, Giuseppucci, Piconi, Castelletti, Danesi, Enzo Mastropietro, Paradisi e “Bobo” dovevamo curare e curammo le fasi preparatorie del sequestro, nel corso delle quali si unì a noi anche Marcello Colafigli, conosciuto dal Giuseppucci, che procurò il cloroformio utilizzato per il rapimento - spiegherà Abbatino - Il ricettatore amico di Paradisi doveva tenere, come in effetti tenne, i contatti con la famiglia del Grazioli. Quelli di Montespaccato dovevano custodire, come in effetti fecero, per qualche tempo l’ostaggio". Dopo il sequestro alla famiglia del duca arrivò la prima richiesta: dieci miliardi di lire per riabbracciare il proprio caro. Il contatto finale si ebbe il 14 febbraio 1978 e venne stabilito il pagamento di due miliardi di lire. Tramite una sorta di caccia al tesoro, il figlio dell'ostaggio pagò il riscatto, ma Massimiliano Grazioli non fece mai ritorno a casa: venne ucciso, stando a quanto riferito da Abbatino, dalla banda di Montespaccato, perché aveva visto in faccia uno dei carcerieri. La somma derivata dal riscatto venne divisa in parti uguali tra i gruppi che avevano partecipato al sequestro e la Banda della Magliana utilizzò parte di quel denaro per allargarsi in nuove attività. Il resto era diviso tra i membri, ognuno dei quali riceveva la "stecca para", cioè un guadagno fisso a prescindere dal ruolo avuto nel sequestro. Per poter estendere il proprio controllo su Roma, i membri della banda iniziarono a ricorrere agli omicidi, eliminando sistematicamente i propri avversari: "All'inizio - spiega la giornalista Camuso - ci furono una serie di omicidi, perché c'erano gruppetti criminali di Roma che non volevano sottostare alla banda". Uno dei primi a cadere fu Franco Nicolini, che gestiva il traffico delle scommesse clandestine all'ippodromo, affare che aveva suscitato l'interesse della banda, decisa a espandersi anche in quel campo: il 25 luglio del 1978, Nicolini venne avvicinato da due membri dell'organizzazione criminale mentre si trovava nel parcheggio dell'ippodromo e venne ucciso a colpi di pistola. Ma la mossa che permise agli uomini della Magliana di conquistare la Roma criminale fu l'alleanza con la Nuova Camorra Organizzata e con la mafia siciliana, che consentirono ai criminali romani di mettere le mani sul traffico di stupefacenti. Nel 1978, la Banda venne in contatto con Raffaele Cutolo e attivò un canale con i camorristi per la fornitura di sostanze stupefacenti. Stessa cosa fecero con la mafia siciliana: "Avevano fatto un'alleanza con la mafia siciliana, attraverso Pippo Calò, uomo che era stato mandato da Cosa Nostra a Roma per riciclare i soldi, che fece arrivare dalla Sicilia i carichi di eroina. Così monopolizzarono il mercato dell'eroina su Roma". Lo smercio della droga era organizzato tramite una rete di spacciatori, che operavano a vari livelli: piccoli pusher attivi a livello locale facevano capo a spacciatori di livello medio, che a loro volta erano in contatto coi membri della banda. Impossibile, infatti, spacciare droga senza prima passare da quelli della Magliana: "A quel punto - spiega la giornalista Camuso - tutte le organizzazioni furono inglobate nella manovalanza della Banda: o compravi la droga dalla Banda o venivi ucciso". "Già nel 1979, c'eravamo estesi su tutta Roma. L'approvvigionamento della droga non era più un problema", dirà poi Antonio Mancini. Ogni gruppo controllava una zona di Roma. In particolare, il Testaccio era sotto il dominio di Abbruciati e Giuseppucci, Trastevere, Torpignatta e Centocelle era controllato da De Pedis, Magliana, Eur e Monteverde facevano capo ad Abbatino, Ostia, Acilia e la Garbatella erano controllate rispettivamente da Selis, Edoardo Toscano e Claudio Sicilia. Così la Magliana arrivò a controllare tutta Roma grazie alla "forza economica" raggiunta prima con le rapine e i sequestri poi col traffico di droga: "Loro avevano i capitali dei sequestri di persona, che vennero investiti nell'eroina. Da lì nacque la potenza della banda", specifica la giornalista Camuso. Un altro punto di forza della Banda era costituito dalle alleanze con le altre mafie e dai legami con i poteri forti, tra cui politici e funzionari (al Ministero della Sanità venne trovato un deposito di armi della Banda), i servizi segreti deviati, i Nuclei Armati Rivoluzionari (Nar), di cui faceva parte Massimo Carminati, diventato anche membro della Banda, e personalità operanti attorno al Vaticano, tanto che fu ipotizzato un coinvolgimento della banda nel caso Orlandi. Quelli furono gli anni del sequestro di Aldo Moro, rapito il 16 marzo del 1978 dalle Brigate Rosse (il pentito Abbatino rivelerà: "Cutolo ci ha mandato un personaggio politico a parlare per vedere se sapevamo dov'era il covo di Moro"), dell'omicidio di Mino Pecorelli e della strage di Bologna. Si tratta dei più grandi misteri italiani, ancora senza una soluzione certa, attorno ai quali sembrarono orbitare anche i membri della Magliana, che in quegli anni dominava tutta la malavita romana: "A un certo punto - ricorda la giornalista - la Banda diventa una sorta di agenzia del crimine per cui chi veniva a Roma e voleva entrare nell'ambiente criminale doveva passare da loro".

Le lotte interne e il declino. Per anni la banda continuò indisturbata i suoi traffici. Tutta la criminalità romana faceva capo a quelli della Magliana. La situazione iniziò a cambiare con la morte di Franco Giuseppucci, il 13 settembre del 1980: quel giorno un colpo di pistola lo raggiunse mentre si trovava a piazza San Cosimato, nel cuore di Trastevere. A uccidere Er Negro fu uno dei membri della famiglia Proietti, clan rivale alla banda, che aveva subito un duro colpo con la morte di Nicolini, dato che si era ritrovato privato dei propri traffici. La morte di Giuseppucci, uno degli ideatori della Banda, diede il via a una lotta con il clan rivale, che portò con sé una lunga scia di sangue, conclusasi con la morte dei fratelli Proietti. Dopo aver vendicato Er Negro però i due gruppi principali della banda iniziarono una lotta interna: da una parte c'era la Magliana guidata da Maurizio Abbatino, dall'altra i Testaccini di Danilo Abbruciati e Enrico De Pedis. Questi ultimi in particolare avevano intensificato le loro collaborazioni con politici e coi poteri forti, diventando una sorta di holding criminale al servizio dei potenti. "A un certo punto - ricorda la giornalista Camuso - c'è stata una divisione tra i vari personaggi e lì è stato l'inizio della fine".

La morte di "Renatino". C'era un altro componente della Banda, che aveva deciso di mettersi di traverso: Nicolino Selis. "Questi era entrato in contatto con dei siciliani, i quali gli avevano assicurato la fornitura di tre chilogrammi di eroina - racconterà il pentito Abbatino -Secondo gli accordi, tale fornitura avrebbe dovuto essere ripartita al 50% tra il suo e il nostro gruppo, ma Nicolino ritenne di operare una ripartizione di due chilogrammi per i suoi e di uno per noi e, pertanto, impartì al Toscano istruzioni in tal senso. Si trattò di un passo falso: Edoardo Toscano non attendeva altro. Mi mostrò immediatamente la lettera, fornendo così la prova del 'tradimento' del Selis, col quale diventava non più rinviabile il "chiarimento". In altre parole, Nicolino Selis doveva morire". E così avvenne. Il 3 febbraio del 1981, infatti, Er Sardo venne assassinato e il suo corpo, mai ritrovato, venne sepolto in una buca sull'argine del Tevere. Intanto iniziavano a farsi avanti i primi pentiti. Il primo a percorrere questa via fu Fulvio Lucioli, detto Er Sorcio, che venne arrestato nel maggio del 1983 e raccontò di rapine, omicidi, traffici di stupefacenti, legami della banda con mafia e camorra e con politici, massoni e Nar. Grazie alle sue dichiarazioni e a quelle di Claudio Sicilia, altro membro del gruppo, vennero arrestate una sessantina di persone, 37 delle quali ottennero una condanna in primo grado per traffico di sostanze stupefacenti, che venne poi annullata e tutti verranno assolti. Le tensioni interne alla Banda non si erano ancora placate e l'atteggiamento di Enrico De Pedis le aveva anzi accentuate. Il boss dei Testaccini infatti intensificava sempre di più gli affari con la mafia, i politici e uomini potenti, investendo parte dei proventi in attività legali e rifiutandosi di dividerne il ricavato. Per questo gli uomini della Magliana decisero di ucciderlo: il 2 febbraio 1990, mentre era a bordo del suo motorino, diretto verso casa, Renatino venne affiancato da una moto. A bordo due killer assoldati per ucciderlo gli spararono un colpo alle spalle. Così anche il terzo tra i membri fondatori dell'organizzazione criminale venne assassinato.

Il pentimento di Abbatino. Nel maggio 1983, Maurizio Abbatino, membro di spicco dell'organizzazione criminale e sopravvissuto alla sanguinosa lotta interna, venne arrestato. Per non rimanere nel carcere di Rebibbia, Crispino si finse gravemente malato e venne trasferito in una clinica all'Eur, con una falsa diagnosi di tumore osseo in stato avanzato, a causa del quale fece credere di essere rimasto paralizzato. Il 20 dicembre del 1986 Maurizio Abbatino scappò dalla clinica e fuggì in Sud America: "A Roma si era aperta una caccia all'uomo mai vista - racconterà Crispino - Mi cercavano ovunque. Falsificai un passaporto sottratto a un amico di mio fratello e passai il confine con la Svizzera. Poi da Ginevra mi imbarcai su un volo per Rio de Janeiro". Da lì poi si spostò in Venezuela, dove venne individuato alla fine del 1991 dalla Squadra Mobile e dalla Criminalpol, che da anni gli davano la caccia. Il 24 gennaio del 1992, Maurizio Abbatino venne arrestato e nell'ottobre dello stesso anno venne estradato in Italia. Finì così la fuga di uno dei membri della Banda della Magliana. Ma, una volta catturato, Abbatino decise di collaborare con gli inquirenti, probabilmente per vendicarsi degli ex compagni che lo avevano lasciato solo e avevano ucciso suo fratello, e iniziò a rivelare nomi, traffici e azioni criminali della banda. Il 16 aprile del 1993 scattò a Roma l'Operazione Colosseo, che prevedeva l'azione di 600 agenti tra Criminalpol, Digos e Squadra Mobile: 69 furono gli ordini di cattura firmati dal giudice istruttore Otello Lupacchini, che in mano aveva un fascicolo ricco di date, nomi e informazioni sull'organizzazione criminale. A finire in manette furono, tra gli altri, anche Antonio Mancini, Massimo Carminati ed Enrico Nicoletti (cassiere della banda). Molti, nel 1995 torneranno in libertà, per scadenza dei termini di custodia cautelare. Ma le rivelazioni del Crispino, che confermarono quelle dei primi pentiti, si sommeranno a quelle di Antonio Mancini e Fabiola Moretti e porteranno al primo vero maxiprocesso che vide sul banco degli imputati l'intera organizzazione criminale.

Una storia ancora aperta. Oggi la Banda della Magliana "storica" non esiste più e i suoi membri sono morti o sono stati arrestati. Qualcuno, come Abbatino e Mancini, è diventato un collaboratore di giustizia. Grazie alle rivelazioni del Crispino, si aprì nel gennaio 1995 il processo per il sequestro e l'omicidio del duca Grazioli, riconosciuto come il primo vero atto della Banda della Magliana. Ma l'intera banda finì sotto accusa nell'ottobre del 1995, quando in un'aula bunker allestita appositamente, prese il via il maxiprocesso contro 98 imputati: tra i capi di imputazione figuravano i reati di traffico di sostanze stupefacenti, riciclaggio, omicidio, rapina e associazione a delinquere di stampo mafioso. Nel giugno del 1996, il pubblico ministero Andrea De Gasperis chiese condanne per un totale di quasi 500 anni di carcere. La Corte decise per la condanna all'ergastolo di alcuni membri della banda, ad altri vennero imposte decine di anni di carcere, mentre qualcuno se la cavò con 4-6 anni di detenzione. La Corte d'Assise d'Appello confermò sostanzialmente le condanne di primo grado, applicando qualche riduzione di pena, ma la Cassazione decise di rinviare il tutto, per valutare nuovamente l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. Così la seconda Corte d'Assise di Roma stabilì che la Banda della Magliana non poteva essere considerata associazione di stampo mafioso e tutte le condanne vennero ridotte. Nonostante i pentimenti e le condanne, tracce della presenza della Banda sono ancora visibili nella malavita della Capitale. "Non è che i soldi sono spariti quando sono iniziati gli arresti o gli omicidi dei membri - spiega la giornalista Angela Camuso - i capitali sono rimasti e sono stati reinvestiti nelle attività commerciali di Roma, sono rimasti in circolo. È evidente che qualcuno li ha gestiti. Lo zoccolo duro della criminalità è rimasto ed è sempre lo stesso. Magari sono morti i padri e sono rimasti i figli, ci sono state nuove alleanze, ma il meccanismo di lavoro sulla piazza romana è sempre quello". Lo strascico della banda si è visto col processo Mafia Capitale: "Massimo Carminati non è comparso all'improvviso sulla scena romana, lui ha continuato a lavorare nell'ambito criminale. Pensiamo anche ai Casamonica: loro erano il braccio della banda per il recupero crediti. E Nicoletti ha continuato a essere un punto di riferimento per le operazioni di riciclaggio e per i prestiti a strozzo". Sulla scena romana, precisa Camuso, sono rimasti "una serie di personaggi che hanno continuato a mantenere il controllo su alcuni settori di attività. Ora che si chiami Banda della Magliana, mafia romana o criminalità romana è la stessa cosa: sono sempre loro". I membri storici dell'organizzazione criminale che ha dominato Roma sono stati arrestati o sono morti, ma all'intera vicenda non può essere messa la parola fine, anche perché la storia della Banda della Magliana si intreccia con i più grandi misteri italiani, mai risolti: "È una storia che non è mai finita", conclude Camuso.

Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza.

·        La Camorra. La Mafia Napoletana.

Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” l'1 Novembre 2021. "Le Figaro" l'aveva chiamata "Madame Camorra"; Manuela Arcuri la interpretò in una fiction. Lei, Pupetta Maresca, si descrive come una donna che amava cantare, vivere e che, se ha ucciso, l'ha fatto solo per senso di giustizia. Certo è che della vita di Pupetta Maresca rimangono saldi alcuni avvenimenti storici. Un matrimonio lampo con Pasquale Simonetti, boss del mercato di Napoli e amico di Lucky Luciano, freddato per motivi di controllo del territorio. Un omicidio commesso per "giustizia " da Pupetta nei confronti di chi le portò via l'amore. Un secondo matrimonio con Umberto Ammaturo, boss della camorra e affiliato alla parte degli stabiesi, oltre che alleato con Escobar nel traffico internazionale di armi. Pupetta ha vissuto in prima persona la guerra tra clan a Napoli che in soli tre anni fece più di 1.500 morti all'inizio degli anni Novanta ed oggi, malata, racconta qualche stralcio di una vita vissuta sempre al limite ma, come dice lei, sempre con passione. Parlando con Pupetta Maresca si comprende un pezzo di cultura della criminalità organizzata degli anni Ottanta e Novanta. Un pezzo di storia italiana, che sarebbe assurdo dimenticare. «Gomorra è diseducativa per i bambini. Ho visto una puntata, ma di fronte a certe scene anch' io ho spento la tv». A parlare è Pupetta Maresca, la donna della camorra che osò sfidare il capo della criminalità organizzata di Napoli Raffaele Cutolo negli anni Ottanta. Oggi Pupetta, una storia da film, non sta bene. La incontro nella sua casa di Castellammare di Stabia, all'ultimo piano di uno stabile che ha visto combattere i clan della Nuova Camorra Organizzata, quella di Cutolo, contro quelli della Nuova Famiglia, dei Giuliano, Bardellino e Ammaturo. Nonostante la malattia Pupetta è sempre una bella donna, la cui vita è passata dal carcere al cinema per terminare con le fiction. «Sono nata il 19 gennaio 1935 a Castellammare di Stabia, in via Tavernola 29. Eravamo sette figli: quattro maschi e tre femmine. Delle femmine, io ero la più grande. Due maschi erano più grandi me, gli altri due più piccoli» 

Che tipo di famiglia eravate, Pupetta?

«Una famiglia agiata, la nostra, e un padre padrone. Anche la mamma, per dire la verità, non scherzava. Era autoritaria. Ma la severità di papà era unica. Se arrivava a casa una persona con la quale lui doveva parlare a quattr' occhi, bastava un suo sguardo e dovevamo scomparire tutte quante noi donne. Altrimenti, botte». 

Cosa faceva tuo padre?

«Avevamo una salumeria molto avviata e, poco distante, la macelleria. Io tutte le mattine, alle sei in punto, prendevo servizio alla macelleria, per poi rientrare a casa per occuparmi delle faccende domestiche: fare i letti, lavare, stirare. Cantavo ad alta voce le canzoncine che andavano di moda e la gente passava davanti al negozio e mi ascoltava sorridendo. Eravamo in piena guerra e anche noi, a Castellammare, dovevamo subire i bombardamenti aerei americani». 

Che ricordi hai della Seconda guerra mondiale?

«Ero piccolina, ma ne ho tanti stampati nella mia memoria. Ricordo dopo l'8 settembre del 1943, il giorno dell'armistizio, arrivarono i tedeschi con i mitra spianati. La sera salivano sul monte a piedi e ci guardavano con occhi feroci. Una mattina, dal balcone di casa mia, vidi i tedeschi catturare i maschi ad uno ad uno per portarli nei lager. Feci in tempo ad urlare a papà: "Scappa! Scappa! Fùi, fùi, fùi". E si salvò. Avevo paura del buio...». 

Che ricordo hai degli americani?

«Tedeschi e fascisti avevano perso la guerra e gli americani erano simpatici, molto carini. Cantavano, ci rifornivano di cioccolato e di ogni altro cibo. C'era da mangiare per tutti. Si cominciava ad essere felici. Gli anni del dopoguerra furono gli anni che videro l'inizio della mia adolescenza. Ricordo con nostalgia il rock». 

...e il tuo primo amore?

«Un ragazzo tedesco, figlio di un esperto contabile che lavorava a Napoli, presso la direzione della flotta dell'armatore Achille Lauro, e che a Napoli aveva trasferito tutta la famiglia: la moglie e i quattro figli: Laura, Anna e Mattia. Del quarto non ricordo il nome. Ma il mio primo ragazzo fu Mattia, che si era innamorato di me. Suo padre, durante l'occupazione, collaborava con i nazisti e faceva loro da guida quando si recavano ad arrestare i militari italiani che si erano nascosti con l'intenzione di resistere all'occupazione». 

E tu?

«Quando venni a saperlo, lo rinfacciai a Mattia, gli diedi del traditore. Non volli più saperne di lui. Poi ebbi un flirt con un ragazzo di circa diciott' anni, Bruno. Famiglia benestante, proprietaria di un importante caseificio. A Bruno piacevano le canzoni, come a me, e le cantavamo assieme. Ma lui era un po' violento. Troppo, per me. Una sera picchiò a sangue una ragazza che ci aveva molestato. Lo lasciai. Mi accadrà poi di incontrarlo casualmente alcune volte, a Napoli, in compagnia della moglie e della loro figlia. E finalmente conobbi Pasquale Simonetti...». 

Pascalone O' Nola.

«Pochi giorni dopo esserci conosciuti mi disse che ero bella, che gli piacevo, che mi voleva sposare. Non potei resistere più di sei mesi. E ci sposammo. Per poco tempo riuscimmo ad essere felici assieme. Perché e affiliato alla parte degli stabiesi, oltre che alleato con Escobar nel traffico internazionale di armi. me lo ammazzarono». 

Come accadde?

«La macchina, a volte la guidava l'autista, a volte Pascalone, e ricordo come fosse ieri la mattina in cui un'automobile prese a inseguirci. Pascalone era al volante e appena se ne rese conto frenò bloccando l'inseguitore, scese, aprì la sua portiera e lo tirò fuori come se fosse una borsa. Io ebbi paura e lo supplicai di lasciarlo andare. Così lo lasciò andare. Era il primo segnale del conflitto che stava aprendosi tra Pascalone e Antonio Esposito, "Totonno 'e Pomigliano", per il controllo del mercato ortofrutticolo. Il conflitto riguardava il prezzo delle patate. Esposito voleva abbassare i prezzi. Pascalone era di parere opposto: li voleva più altio. Due punti di vista, e due personalità, inconciliabili. Finchè si giunse a quel terribile 16 luglio 1955, esattamente ottanta giorni dopo il nostro sì matrimoniale». 

Lei era già incinta?

«Sì. Ottanta giorni erano trascorsi tra le nostre nozze e l'assassinio di Pascalone. E ottanta esatti ne trascorsero tra la morte del mio amato marito e la mia vendetta, anzi giustizia, che si concretizzò con l'uccisione, a colpi di pistola, di colui che aveva ordinato di uccidere Pascalone. Non capivo niente. Ero una ragazza che voleva andare a ballare, che voleva essere felice. Sul corpo di Esposito furono trovati altri colpi di pistola oltre a quelli che avevo sparato io. Chi furono quelli che gli spararono? Non è stato mai provato che fu proprio la mia pistola ad ucciderlo». 

Perché uccise?

«Io avevo ucciso per amore, cioè per vendicare il mio uomo, e per non essere ammazzata, non soltanto io, ma anche il bambino che portavo in grembo. Cioè, avevo sparato per legittima difesa». 

Lei andò in carcere, e lì nacque Pascalino, il figlio del suo marito assassinato.

«Pascalino nacque a gennaio e per me fu un momento bellissimo, di grande gioia, anche se già immaginavo il dolore che mi avrebbe aggredito quando, dopo il periodo di allattamento, avrei dovuto separarmi da lui».

La sua fama divenne internazionale, addirittura ricevette in regalo abiti per suo figlio dalla regina di Persia.

«Fu così, un gesto molto bello che ricordo con affetto». 

Uscita dal carcere si fidanzò con Ammaturo, uno dei boss della camorra. Come andò?

«Umberto lo avevo conosciuto a casa di una mia amica, poco tempo dopo essere tornata in libertà. Mi sentivo sola. Avvertivo di essere incompresa anche da parte dei miei genitori. Una sera venne a prendermi e mi portò a cena a Pompei. Poi, correttissimo, mi riportò a casa. Mi corteggiava, mi telefonava con insistenza. Ci sposammo e dal nostro amore nacquero due figli». 

Ammaturo poi si è pentito e ha dichiarato che è stato lui a uccidere Semeraro, tagliandogli la testa perché aveva tradito.

«Se lo ha detto lui... Quel periodo fu terribile, e in tre anni ci furono più di 1500 esecuzioni nella lotta tra Cutolo e la Nuova Famiglia». 

E la sua conferenza stampa contro Cutolo al circolo della stampa di Napoli?

«C'era in palio la mia vita. Se avessi taciuto, sarei morta nel silenzio e nell'indifferenza generale. Desidero però chiarire che, in quell'occasione, non dissi, rivolta a Cutolo: "Io ti ammazzo!", ma dissi: "Se tocchi i mei fratellini io faccio la stessa cosa a te". 

La mattina dopo, il telefono di casa mia prese a squillare. Alzavo la cornetta ed erano continue minacce di morte: "Devi morire!", "Maledetta!". Incominciai a rispondere per le rime: "Io alle nove, ogni mattina, vado ad aprire il mio negozio di abbigliamento. Ti aspetto là. O muoio io, o muori tu". Non venne mai nessuno.

E tuttavia trascorsi giorni di tensione, di paura, soprattutto pensando alla tutela dei miei due figli gemelli, allora dodicenni, che frequentavano le medie e ogni mattina dovevano recarsi na scuola». 

I giornalisti, la stampa, l'avevano idealizzata, era diventata una "tagliatrice di teste": nacque il mito di Pupetta. Oggi Pupetta cosa desidererebbe?

«Che i miei ragazzi siano felici. E sapere la verità su chi uccise mio figlio Pascalino».

Raffaele Sardo per “la Repubblica - ed. Napoli” il 26 agosto 2021. Tradito dall'amore. Gennaro Esposito, 34enne elemento di spicco del clan Mazzarella, è stato arrestato la scorsa notte a Barcellona, dov'era stato raggiunto dalla sua compagna. Esposito, conosciuto col soprannome di "Genni capa 'e bomba" era irreperibile dal luglio 2020. Nei suoi confronti sono stati emessi due provvedimenti dell'Autorità giudiziaria partenopea. Esposito deve rispondere delle accuse di estorsione aggravata dalle finalità mafiose e associazione a delinquere di stampo mafioso. Nei confronti di Esposito e di altri affiliati al clan Mazzarella, era stata emessa ordinanza di custodia cautelare lo scorso ottobre. Contro di lui le accuse di alcuni collaboratori di giustizia. Esposito avrebbe sparato con una mitraglietta nei confronti di due emissari del clan Minichini/Rinaldi/ De Luca Bossa arrivati a bordo di una Smart per ritirare una tangente a casa di due spacciatori che gestivano una piazza di spaccio a via Cangiani. L'agguato, a scopo intimidatorio, avvenne il 12 gennaio del 2018. Con lui c'era un complice, Farid Cinquegrana, che sparò nella stessa occasione, ma con una pistola calibro 7,65. La scorsa notte a Barcellona il F. A. S. Team Spagnolo, attivato dal Servizio di Cooperazione Internazionale di Polizia italiano su indicazioni dei Carabinieri del Nucleo Investigativo di Napoli, ha arrestato Esposito. Seguendo la compagna, partita da Napoli, i carabinieri del nucleo investigativo del Comando Provinciale di Napoli lo hanno localizzato. L'operazione si inquadra nell'ambito di un'articolata indagine partita a novembre e coordinata dai magistrati della Procura della Repubblica di Napoli - Direzione Distrettuale Antimafia. All'Arma dei Carabinieri e alla procura della Repubblica di Napoli - Direzione distrettuale antimafia, sono arrivati i complimenti della ministra dell'Interno, Luciana Lamorgese, «per le complesse indagini che hanno portato alla localizzazione e alla conseguente cattura a Barcellona, anche grazie all'attivazione del Servizio di cooperazione internazionale della direzione centrale della Polizia criminale, del pericoloso latitante, accusato, tra l'altro, di associazione a delinquere di stampo mafioso e di estorsione aggravata». «La professionalità delle nostre forze di polizia e la proficua collaborazione investigativa internazionale - ha concluso Lamorgese - stanno consentendo di infliggere ripetuti colpi alla criminalità organizzata». Esposito è ora in carcere in attesa del provvedimento di estradizione.

Da ansa.it il 25 agosto 2021. È stato arrestato a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, lo scorso 14 agosto, ma è stato reso noto solo oggi, il narcotrafficante Raffaele Mauriello, 32 anni, considerato tra i latitanti di massima pericolosità dalla Direzione Centrale della Polizia Criminale. L'arresto è avvenuto nell'ambito di indagini coordinate dalla Procura della Repubblica di Napoli e condotte dalla Squadra Mobile della Questura di Napoli, con il supporto del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato. Nei confronti di Mauriello pendono tre provvedimenti cautelari emessi su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli per omicidio, associazione di tipo mafioso e finalizzata al traffico di stupefacenti. Latitante dal settembre 2018, è chiamato a rispondere del duplice omicidio di Andrea Castello e Antonio Ruggiero, entrambi avvenuti a Casandrino (Napoli) nel 2014, nonché di quello nei confronti di Fabio Cafasso, avvenuto nel 2011 nel quartiere Scampia di Napoli, tutti maturati nell'ambito della "terza faida di Scampia". Lo stesso è inoltre ritenuto appartenente al clan "Amato-Pagano" per il quale, secondo gli inquirenti, Mauriello ha curato l'importazione e la distribuzione di ingenti quantità di cocaina, tant'è che lo stesso è ritenuto vicino al noto trafficante internazionale Raffaele Imperiale, arrestato in circostanze analoghe qualche settimana fa dalle autorità emiratine. Il ministero di Giustizia sta perfezionando in questo periodo le intese per completare la procedura di estradizione in tempi brevi.

Dopo Imperiale, nuovo colpo alla camorra e al traffico di droga. Blitz in villa a Dubai, arrestato il latitante Raffaele Mauriello: “Stava pariando…” Ciro Cuozzo su Il Riformista il 25 Agosto 2021. Dopo il broker della droga Raffaele Imperiale, la polizia di Napoli piazza un altro colpo a Dubai, considerata almeno fino a qualche tempo fa zona franca per le persone legate alla criminalità organizzata. Negli Emirati Arabi è stato infatti arrestato lo scorso 14 agosto Raffaele Mauriello, 32 anni, ricercato dal 2018 in ambito internazionale ( e considerato tra i latitanti di massima pericolosità dalla Direzione Centrale della Polizia Criminale. L’arresto è avvenuto nell’ambito di indagini coordinate dalla Procura della Repubblica di Napoli, guidata da Giovanni Melillo, e condotte dalla Squadra Mobile della Questura di Napoli, guidata dal dirigente Alfredo Fabbrocini, con il supporto del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato. Mauriello, detto ‘o chiatto e figlio di Ciro Mauriello, elemento apicale del clan Amato-Pagano (detenuto da anni), si trovava in una villa quando è stato arrestato dalla Polizia di Dubai nell’ambito concretizza gli sforzi di un’intensa attività di cooperazione internazionale Giudiziaria e di Polizia svolta dal Ministero di Giustizia, dal Servizio per la Cooperazione Internazionale di Polizia, attraverso le Agenzie di Interpol ed Europol. Nei confronti di Mauriello pendono tre provvedimenti cautelari emessi su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli per omicidio, associazione di tipo mafioso e finalizzata al traffico di stupefacenti. E’ ritenuto appartenente all’organizzazione criminale di stampo camorristico Amato-Pagano, gli scissionisti della prima ora dall’organizzazione guidata all’epoca da Paolo Di Lauro. Per il clan Mauriello avrebbe curato l’importazione e la distribuzione di ingenti quantità di cocaina, tant’è che lo stesso è ritenuto vicino al trafficante internazionale Raffaele Imperiale, arrestato a inizio agosto sempre a Dubai. Ricercato in Italia dal maggio 2017, Mauriello è chiamato a rispondere in via definitiva del duplice omicidio di Andrea Castello e Antonio Ruggiero, entrambi avvenuti a Casandrino (Napoli) nel 2014. I due erano fedelissimi di Mariano Riccio (genero di Cesare Pagano, nella faida che scoppiò interna al clan degli Scissionisti). Inoltre deve rispondere anche dell’omicidio di Fabio Cafasso, avvenuto nel 2011 nel quartiere Scampia di Napoli, tutti maturati nell’ambito della “terza faida di Scampia”. Mauriello inoltre è indagato anche per per concorso nel duplice omicidio del 20 giugno 2016 in via Giulio Cesare a Melito, roccaforte del clan Amato-Pagano, dove insieme a Domenico Amato (all’epoca 16enne e figlio di Rosaria Pagano, sorella del superboss Cesare), si rese protagonista dell’omicidio di Alessandro Laperuta, 32 anni, e di Mohamed Nuvo detto “Maometto”, 30 anni, uccisi da Amato per “dare l’esempio” perché  avevano “sgarrato” e dovevano essere puniti per le iniziative autonome che avevano intrapreso. Il Ministero di Giustizia sta perfezionando in questo periodo le intese per completare la procedura di estradizione in tempi brevi. Mauriello si trovava a Dubai da diversi anni così come rivelato nel 2017 dal pentito Gennaro Notturno, detto ‘o sarracino, ai magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. “Ho incontrato Pietro Caiazza in carcere a Secondigliano quando è stato arrestato l’ultima volta nel 2017 e in quell’occasione mi rivelò diversi dettagli della questione che stava succedendo a Melito, dei suoi scontri con Ciro Mauriello e di diversi omicidi. So che Raffaele Mauriello (figlio di Ciro, ndr) sta ora a Dubai”. Ad avvalorare questa ipotesi sono le intercettazioni telefoniche tra suocera e nuora in un appartamento di Arzano o dichiarazioni captate durante un colloquio in carcere con il papà Ciro. Quelle che, apparentemente sembravano solo parlare delle condizioni meteo, ma che nascondevano ben altro e hanno portato gli investigatori ad approfondire la questione. “Lì dove fa caldo, di sicuro si sta organizzando”, ma anche “Ha detto che fa caldo, che stava pariando, che si stava divertendo”. “Non importa quanta ricchezza o potere accumulano i latitanti, o quanto lontano viaggino, il lavoro della polizia non si ferma. Casi come questo sottolineano più che mai il potere della cooperazione internazionale della polizia attraverso la rete globale dell’Interpol”, ha affermato il segretario generale Jürgen Stock. Imperiale e Mauriello sono detenuti negli Emirati Arabi Uniti mentre il procedimento di estradizione è stato avviato.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Raffaele Imperiale, arrestato il boss dei Van Gogh anello di collegamento tra Narcos e Camorra.  Fabio Postiglione su Il Corriere della Sera il 20 agosto 2021. Le due tele di Van Gogh rubate dal museo di Amsterdam nel 2002 dovevano essere sue. Contattò il ladro che aveva commesso il furto e in due giorni racimolò cento milioni di dollari in mazzette da mille. «Paesaggio marino a Scheveningen» e «Una congregazione che esce dalla chiesa riformata di Nuenen» furono ritrovati quattordici anni dopo in un casolare in provincia di Napoli. Erano stati comprati da Raffaele Imperiale, sulla carta un imprenditore immobiliare che dal 2010 vive a Dubai. Per l’Antimafia un narcotrafficante in fuga, il boss dei Van Gogh. Su «Lelluccio ’o parente», 46 anni, originario di Castellammare di Stabia (Napoli), c’era un ordine di cattura internazionale. Tre giorni fa la Criminalpol lo aveva inserito nell’elenco dei sei italiani più pericolosi. Un’indagine del Gico e della Squadra Mobile di Napoli coordinata dalla Procura partenopea, che ha ricostruito come un puzzle l’altra faccia di Imperiale, ha portato al suo arresto, notizia rimbalzata in Italia dopo la pubblicazione sul quotidiano olandese Telegraaf. Era con la famiglia in una villa di lusso nel cuore di Dubai e adesso è in carcere in attesa che gli Emirati accettino la richiesta di estradizione dell’Italia, per gli accordi bilaterali firmati nel 2019. Ha una condanna a 5 anni e 10 mesi non ancora definitiva e le accuse contenute in centinaia di pagine di verbali di collaboratori di giustizia della camorra, che hanno disegnato il volto e il ruolo del broker del narcotraffico. Imperiale è l’anello di congiunzione tra i cartelli del Sudamerica, la mafia olandese, e le maggiori famiglie della ’ndrangheta e della camorra. Quando aveva 18 anni era soprannominato «Ferrarelle», perché la mattina con il suo Apecar consegnava vini e acqua minerale in giro per Castellammare. Nel novembre del 1996 suo fratello Samuele morì. Lui gestiva un coffee shop al centro di Amsterdam. Raffaele scoprì la sua vocazione: fare affari in proprio. E a 21 anni lasciò Napoli. Per oltre dieci anni ha vissuto in un appartamento modesto ad Amsterdam, imparando l’inglese, lo spagnolo e l’olandese. Ha conosciuto chi importava la marijuana, ma soprattutto l’ecstasy e l’hashish. Tutto ciò che guadagna «Lelluccio» lo reinveste comprando droga di primissima qualità da vendere nel suo coffee shop: quasi trenta chili al mese. La voce gira in fretta e arriva fino a Napoli. è in questi anni, dalla ricostruzione fatta dall’Antimafia, che inizia a collaborare con la camorra. I boss delle Vele di Scampia hanno bisogno di nuovi canali per far arrivare le dosi in fretta. Imperiale è l’uomo giusto e così da «Ferrarelle» diventa «’O parente», il parente, una persona di famiglia. In Olanda riceve le visite degli emissari dei clan di Secondigliano, Scampia e Marano che chiedono consegne rapide, senza rischi. Due le tratte: sui camion o via mare partendo dalla Spagna (dove si trasferirà nel 2006 comprando un ristorante) con destinazione porto di Genova. Prezioso, preziosissimo Lelluccio, perché insospettabile. «Nel 2011 volevamo assolutamente contattarlo, per noi era un personaggio fondamentale — ha raccontato un ex affiliato a un gruppo degli scissionisti dei di Lauro, Carmine Cerrato —. Era lui il principale fornitore di droga degli Amato-Pagano e rappresentava da tempo la loro carta vincente, era capace di garantire importazioni di cocaina per diverse tonnellate alla volta. Portarlo dalla nostra parte significava acquisire il controllo della principale fonte di importazione della droga in Campania». E poi era prudente, qualità essenziale per diventare un boss. Parlava con un sistema di cifratura Vpn, una rete virtuale, il sistema che di solito viene utilizzato dalle aziende per il trasferimento dei dati in maniera riservata ai dipendenti. Impossibile da intercettare. Così Imperiale è diventato potente, milionario e invisibile. Fino all’arresto a Dubai. 

Imperiale, boss globale del narcotraffico tra lusso e van Gogh. Floriana Bulfon,Conchita Sannino su La Repubblica il 20 agosto 2021. Una fuga durata oltre venti anni. Il profilo da supermanager del narcotraffico globale, una vita lussuosa radicata nel cuore di Dubai. E in mezzo gli affari che non hanno odore, con amici facoltosi e anche graduati su cui contare in mezzo mondo. È finita, almeno apparentemente, la latitanza di Raffaele Imperiale, il padrino del brokeraggio internazionale, tra i maggiori ricercati delle polizie di mezza Europa, che restituì, in cambio di uno sconto di pena, i due capolavori di Van Gogh, bottino di un clamoroso furto e fatti ritrovare in un casolare della provincia napoletana delle origini. Imperiale è stato arrestato nel cuore degli Emirati sulla base di un provvedimento della Procura di Napoli grazie ad un'intensa attività di cooperazione internazionale basata sulle indagini del Gico della Guardia di Finanza e della squadra Mobile di Napoli. "Un eccellente risultato" - si congratula la ministra dell'Interno Luciana Lamorgese - con il procuratore Giovani Melillo e con le forze di polizia coinvolte da mesi in una delicatissima e mai facile interlocuzione con le autorità di Dubai. Ora si attende l'estradizione entro i primi giorni di settembre. L'accusa per il boss dei tre continenti, che si muoveva tra Europa, Asia e America del Sud è di aver messo in piedi una delle più potenti e diversificate associazioni criminali. L'arresto è avvenuto il 4 agosto ma è stato mantenuto segreto fino a ieri, quando la notizia è trapelata dai media olandesi. Un silenzio deciso dalla procura di Napoli per evitare il rischio di manovre parallele. Un anno fa gli Emirati comunicarono la cattura di uno dei luogotenenti di Imperiale, identificato tramite le impronte digitali; ma quando gli investigatori italiani incontrarono l'uomo in carcere, si sono trovati davanti una persona con impronte differenti. Nella sua attività planetaria il boss campano avrebbe costruito relazioni profonde anche con apparati di intelligence d'ogni Paese, capaci di tutelarlo in cambio di informazioni. In Italia non lo aspetta che una breve parentesi in carcere. Lo scaltro boss è riuscito, grazie alle restituzioni dei beni allo Stato e al tenacissimo lavoro del suo collegio difensivo, ad ottenere un clamoroso sconto di pena: dalla prima condanna a 18 anni inflitta nel 2018, dopo una battaglia di ricorsi nel 2021 in Cassazione è arrivato il verdetto più lieve che Imperiale auspicava: 5 anni, 10 mesi e 20 giorni. Da almeno una dozzina d'anni però i pentiti napoletani descrivono Lelluccio 'o Parente come l'uomo delle tonnellate di droga che arrivavano sicure e facili dal nord Europa. È il 2003 quando il camorrista Biagio Esposito, al servizio degli Scissionisti di Scampia, oggi pentito, si fionda a Malaga per incontrare Imperiale, alla presenza dei boss Lello Amato e Cesare Pagano. Racconta: "'o Parente (Imperiale, ndr) mi veniva indicato quale fornitore di cocaina dall'Europa all'Italia, 200 o 300 chili a macchina". Non solo. Dopo che a Napoli si è consumata la carneficina delle due faide di Scampia, ecco in un altro incontro, a Barcellona, i due boss napoletani Amato e Pagano ancora a tavola in un covo con Imperiale. Dice Esposito: "Pagano e Amato fecero un ordinativo di armi: kalashnikov e pistole. Lì appresi che 'o Parente li aveva riforniti sia nella guerra del 2004 che in quella dopo". Ma Lelluccio pensa in grande. I suoi facoltosi amici professionisti progettano di costruire ville a Dubai "da 20 milioni ciascuna" e tentano di contattare lo studio dell'archistar Zaha Hadid. Gli inquirenti gli sequestrano società con sede nel Regno Unito, in Spagna ma soprattutto in Olanda, dove c'è il fulcro della sua rete. Lì tra i suoi referenti - stando alle accuse - ci sarebbe il boss Ridouan Taghi, l'esponente più noto della Mocro maffia, la nuova generazione di criminali che ha conquistato il porto di Rotterdam. È stato estradato anche lui da Dubai nel 2019 e c'è il sospetto che sia coinvolto nell'uccisione del giornalista Peter R. de Vries, il delitto che un mese fa ha sconvolto i Paesi Bassi. Insieme a lui nel grande business della coca avrebbe avuto un ruolo chiave anche Rico il soprannome di Richard Riquelme Vega, il "cileno più pericoloso del mondo" come l'ha definito la tv di Santiago. Proprio dalla memoria del telefonino di Rico sono spuntati i messaggi indirizzati a Imperiale. Nelle chat parlano in codice di coca "di buona qualità". Scrive il 12 aprile 2016 Imperiale in inglese: "Ok hermano, se vuoi posso vedere". E Riquelme chiede: "Dove dobbiamo portarla". Imperiale ha la risposta pronta "Amsterdam hermano". Nelle comunicazioni criptate emergerebbero persino discussioni su come eliminare rivali scomodi. E nello smartphone pure un video in cui il cileno compare insieme a Imperiale e al re della droga irlandese Daniel Kinahan. La prova di un supercartello che da Dubai ha gestito l'importazione di quantità record di cocaina e di cui Imperiale è considerato il regista. Ora la sfida è portarlo in Italia, prima che possa attivare le sue protezioni: anche al ministero della Giustizia si sono mobilitati per accelerare i tempi e hanno trasmesso agli Emirati tutta la documentazione già tradotta in arabo.

La vita da sceicco del boss Imperiale a Dubai, tra auto di lusso, donne e club esclusivi. Benedetta Paravia su La Repubblica il 20 agosto 2021. "No Graff, no love" ("senza Graff non c'è amore"), Questo il motto di Raffaele Imperiale, la sua idea del regalo appropriato per una donna: un gioiello della marca più costosa al mondo. Infatti il superboss del narcotraffico, arrestato il 4 agosto a Dubai, era il miglior cliente del negozio Graff di Dubai Mall, uno dei più grandi centri commerciali del mondo. Alto, elegantissimo nei suoi completi sartoriali, tutti su misura e rigorosamente made in Napoli, aveva grande nostalgia della sua Castellammare, dove non poteva più andare. Imperiale è noto a Dubai per aver fatto innamorare tante ragazze, grazie a una impercettibile nota di romanticismo. I suoi amici facevano parte di un jet set internazionale, molti potentissimi.

La vita da sceicco del super boss. Imperiale, che aveva messo in piedi una delle più potenti reti criminali tra Europa, Asia e America del Sud, frequentava solo i ristoranti migliori e pagava il conto per tutti. Ma poi amava la tranquillità e le cose semplici e andava con i figli a mangiare hamburger e patatine. Non c'era posto a Dubai che fosse inaccessibile per Imperiale: ovunque sempre un tavolo pronto per lui e i suoi amici. Hotel, club, ristoranti, feste: quando arrivava i camerieri si rallegravrano, perché avrebbero guadagnato la migliore mancia della stagione. Nel club Provocateur del Four Seasons a Jumeirah (ora chiuso) aveva l'abitudine di ordinare 30 bottiglie di Magnum Cristal. Girava con tre guardie del corpo, cosa del tutto inutile a Dubai, città tra le più sicure, ma a chi gli chiedesse il perché, rispondeva: "Servono per proteggere gli altri da me, se mi fanno arrabbiare. Hanno il compito di bloccarmi". Quando scoppiava la rissa, arrivava sempre qualcuno ad avvertirlo: "Devi andare via, subito!". E il gruppo di supercar con autisti aspettava che lui salisse a bordo per tornare alla base: la magnifica penthouse a Le Reve in Dubai Marina. Una torre blindata, il cui ingresso sembra la hall di un grande albergo e gli ascensori si attivano solo con il codice criptato.

Il pericoloso latitante con la faccia da filantropo. Nella lista dei latitanti più pericolosi, descritto dai pentiti napoletani come l'uomo delle tonnellate di droga che arrivano dal nord Europa, Imperiale mostrava a Dubai la sua faccia da filantropo: donando vestiti e giocattoli agli orfani di una casa famiglia e mantenendo ragazze madri e i loro figli in Sud America. Girava con auto ultra personalizzate di cui possedeva uno dei pochi modelli esistenti al mondo. Le targhe erano a due numeri, massimo tre, come quelle degli sceicchi. Nel 2015 si fidanzò con Dil, una ragazza gelosissima e manesca che vinse su tutte le altre. Nel 2016 a gennaio lasciò la penthouse e sparì: in quei giorni uscirono i primi articoli su di lui.

Antonio E. Piedimonte per “la Stampa” il 20 agosto 2021. Preso a Dubai il ceo della camorra spa. La notizia dell'arresto di Raffaele Imperiale, che risale a diversi giorni fa ma è trapelata solo ieri, ha messo a soqquadro gli ambienti criminali di mezzo mondo, dalla Colombia all'Olanda passando per il Cile, la Spagna e ovviamente l'Italia. Nonostante i risibili soprannomi - «O cumpagno», «Lelluccio Ferrarelle», «Zi' Lello» - l'uomo, 46 anni a ottobre, era una sorta di «ad» di una delle grandi holding mafiose europee. Unanimemente considerato il principale narcotrafficante al servizio di molti clan della camorra (in sinergia con le 'ndrine calabresi), specializzato anche nel riciclaggio di denaro. La sintesi migliore l'ha offerta un pentito: «È lui che gestisce tutto, lui è la mente». Figura apicale e personaggio fuori dal comune, amante dell'arte al punto da comprare due Van Gogh rubati; e anche degli animali, per un suo pastore tedesco fece venire dagli Usa un addestratore molto apprezzato dai vip sborsando 100mila euro. Il numero uno dei supermanager del crimine organizzato era da tempo nel mirino di tutte le polizie d'Occidente - compresa la Dea statunitense, l'Interpol e l'Europol - sia per la sua straordinaria capacità di mantenere un profilo basso ai limiti dell'invisibilità (solo un paio di foto ne mostrano le fattezze) sia per le sue capacità professionali, a cominciare dalle «triangolazioni» che garantivano il regolare approvvigionamento della droga dalla Colombia a Scampia, passando per la Spagna (centro di smistamento), Paese dove si stabilì (lo chiamavano «Rafael Empire») e dove ebbe modo di investire fiumi di denaro in ristoranti e società insieme ai suoi soci napoletani, cioè le famiglie del cartello degli Scissionisti che anche grazie a lui riusciranno a demolire l'impero dei Di Lauro. Un debito di gratitudine che i camorristi condividono con gli altri «amici» di Imperiale: il boss irlandese Daniel Kinahan (che organizzerà il proprio matrimonio negli Emirati), il padrino cileno Richard Riquelme Vega (in galera dal 2017 ma ancora in servizio), i feroci capi del «Cartello del Golfo» colombiano e la famiglia calabrese 'ndranghetista dei Mammoliti (attiva tra la Piana di Gioia Tauro, la Val d'Aosta e la Germania). E soprattutto il potente boss olandese-marocchino Ridouan Taghi (estradato nel 2019 proprio da Dubai), coinvolto nell'omicidio del giornalista investigativo Peter de Vries, massacrato con 5 colpi di pistola un mese fa ad Amsterdam a pochi passi dalla sua redazione. Per una singolare coincidenza l'Olanda riveste un ruolo speciale nella storia di Imperiale, la cui scarna biografia dice che è nato a Castellammare di Stabia nel 1974, figlio di un ricco costruttore che per hobby acquista la locale squadra di calcio. Da bambino è rapito ma poi riesce a scappare, un episodio rimasto avvolto nel mistero. Da ragazzo cerca di trovare la sua strada, per un periodo lavora nel campo della diffusione dell'acqua minerale (da lì uno dei soprannomi), poi la svolta, nel 1996, ad Amsterdam, quando eredita dal fratello un coffee shop. Il giovane si lancia nel ricco mercato della droga. E incontra la persona giusta, Rick Van de Bunt, e finché non sarà ucciso (a Madrid nel 2008) sarà il suo punto di riferimento, facendolo entrare in contatto con i narcos sudamericani. Ora può attivare le sue «dirette», ovvero le spedizioni senza intermediari: il grande salto è fatto. Zì Lello si rende invisibile ma senza perdere i contatti, né con i ras colombiani né con i rappresentanti di grandi banche e dell'alta finanza. Ci vorranno quasi 10 anni e un pentito per consentire agli investigatori di indicarlo come uno dei massimi signori della droga. Arriva la prima condanna: 18 anni poi ridotti grazie alla restituzione dei Van Gogh trovati (nascosti) in una sua villa nello Stabiese, 2 quadri che, come terrà a precisare, gli erano costati 100 milioni di dollari (anche se la vicenda conserva dei punti oscuri). Sempre braccato, il manager dei boss è infine costretto a trasferirsi a Dubai con la famiglia, decide di sacrificarsi e si rassegna alle ristrettezze delle super suite del grande albergo «Burj Al Arab» (quello a forma di vela), risicato rifugio da 30mila dollari a notte. In seguito, con i soci napoletani, acquista diversi appartamenti (dove portare le collezioni d'arte) nella stessa Dubai che anche per questo è entrata suo malgrado nel novero dei paradisi delle mafie. Ora però, con l'operazione coordinata dalla Procura della Repubblica di Napoli e condotta dal Gico e dalla Mobile, la straordinaria carriera della «mente» sembra davvero finita. «Un risultato eccellente», ha commentato la ministra dell'Interno Luciana Lamorgese. Un successo che si aggiunge al recente arresto della «regina nera» Maria Licciardi, e che fa entrare il 2021 nei libri di storia della lotta alla camorra.

Era tra i sei latitanti italiani più pericolosi. Arrestato Raffaele Imperiale, la vita a Dubai del broker della cocaina tra matrimoni di boss e documenti falsi. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 19 Agosto 2021. Quando l’hanno arrestato è stato trovato in possesso di svariati documenti d’identità nella speranza di cavarsela con un nominativo falso ma è stato tutto vano. Raffaele Imperiale, 46 anni, è stato arrestato a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, lo scorso 4 agosto. Inserito tra i sei latitanti di massima pericolosità dal ministero dell’Interno (insieme ai mafiosi Matteo Messina Denaro e Giovanni Motisi), Imperiale è ritenuto dagli investigatori di mezza Europa uno dei più potenti broker della droga, cocaina in particolare, in circolazione. Da anni viveva a Dubai ed era ufficialmente ricercato dal 2016 per traffico internazionale di stupefacenti (è stato condannato a 8 anni e 4 mesi di reclusione). Per gli 007 è anche sospettato di riciclaggio di denaro ma saranno le indagini e i processi a chiarire anche questo aspetto. Il suo arresto, avvenuto a inizio agosto nell’ambito di indagini coordinate dalla Procura della Repubblica di Napoli (guidata da Giovanni Melillo) e condotte dal GICO di Napoli e dalla Squadra Mobile della Questura di Napoli (diretta dal primo dirigente Alfredo Fabbrocini), con il supporto dei Servizi Centrali della Guardia di Finanza e della Polizia di Stato, è stato comunicato solo oggi, giovedì 19 agosto, per motivi ancora poco noti ma probabilmente riconducibili alle difficili trattative burocratiche con gli Emirati per ottenere l’estradizione. Al momento Imperiale si trova in carcere a Dubai ma il Ministero di Giustizia guidato da Marta Cartabia sta perfezionando in questo periodo le intese per completare la procedura di estradizione in tempi brevi. “A Dubai scontiamo i difetti e i limiti della collaborazione prestata dalle autorità di altri Stati, in particolare gli Emirati Arabi Uniti” ha dichiarato nei mesi scorsi il procuratore di Napoli Melillo. Il trattato di estradizione tra i due Paesi non è ancora entrato in vigore e al momento Dubai resta una delle mete preferite dai criminali. Nato a Castellammare di Stabia il 24 ottobre 1974, inizialmente noto agli inquirenti come “Lello di Ponte Persica”, frazione del medesimo comune partenopeo, o anche “Lelluccio Ferrarelle” o “Rafael Empire”, Imperiale è stato capace di costruire un imponente network di trafficanti internazionali, in particolare di cocaina. L’attività di brokeraggio internazionale ed il rapporto d’affari con la criminalità organizzata partenopea sono stati cristallizzati nella prima decade del 2000, quando sono stati documentati contatti con camorristi del clan Di Lauro di Secondigliano, tra cui Elio Amato ed Antonio Orefice. Tale legame è sopravvissuto alla scissione degli Amato dai Di Lauro nel corso delle tre faide di Scampia. Negli ultimi 10 anni sono stati numerosi gli arresti ed i sequestri che hanno colpito l’organizzazione di Imperiale: tra questi si ricorda il maxi-sequestro di 1.330 chili di cocaina avvenuto a Parigi il 20 settembre 2013, quando nell’occasione è stato arrestato il fedelissimo Vincenzo Aprea, al quale era stato affidato il compito di sovrintendere all’importazione dello stupefacente proveniente con volo di linea Air France da Caracas in Venezuela. Il patrimonio illecitamente accumulato gli ha permesso di acquistare sul mercato nero due dipinti di Van Gogh di valore inestimabile, rubati nel 2002 ad Amsterdam in Olanda e ritrovati dalle Fiamme Gialle del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Napoli in una vecchia villa a Castellamare di Stabia nel 2016 e restituiti al museo di Amsterdam dedicato al pittore olandese. Ossessionato dalla riservatezza (di lui non esistono praticamente immagini "pubbliche"), l’unica immagine diffusa delle forze dell’ordine è relativa a numerosi anni fa. Il 22 gennaio 2021, in una intervista rilasciata a Il Mattino, Imperiale si è dichiarato estraneo alla vicenda, asserendo di aver comprato i preziosissimi quadri in quanto appassionato di Arte. Vittima da ragazzo di un tentativo di rapimento al quale riesce misteriosamente a sfuggire, eredita dal fratello maggiore un coffee shop ad Amsterdam e da qui inizia la sua carriera criminale, tessendo pazientemente contatti e alleanze con i narcos sudamericani, con il clan Amato-Pagano – destinato a diventare famoso come clan degli Scissionisti – che gli consentono di diventare uno dei maggiori fornitori di cocaina delle piazze di spaccio partenopee, e con organizzazioni criminali di mezza Europa, dalla Bosnia all’Irlanda. Secondo il quotidiano olandese De Telegraaf, Imperiale nel 1996 ha rilevato la caffetteria Rockland ad Amsterdam dando il là, come detto, alla sua carriera da broker della droga insieme al pregiudicato dei Paesi Bassi Rick van de Bunt. Sempre secondo il De Telegraaf, il broker utilizzava fino al 2016 i due quadri di Van Gogh come garanzia quando si trattava di cocaina con i clan sudamericani. Lo stesso Imperiale, tuttavia, nell’intervista a Il Mattino ha smentito questa circostanza: “La realtà è che la storia dei quadri di Van Gogh mi ha giovato processualmente ma nuociuto mediaticamente”. I quadi “li ho acquistati per me, insomma per averli. Chi dice che lo abbia fatto per investire i miei illeciti proventi non sa cli cosa parla”. E poi ancora: “Guardi, vengo da una famiglia di persone per bene, oneste e agiate. Questo ha indirizzato la mia formazione educativa e culturale e mi ha permesso di apprezzare il valore estetico delle cose. Mio padre, quando ero bambino, non di rado mi portava a visitare città storiche e musei. Tutto ciò mi ha reso non insensibile all’arte ed alla pittura in particolare. Per questo i due Van Gogh hanno rappresentato un’opportunità che ho colto senza esitazioni. Il fatto di possederli, tuttavia, superata l’iniziale emozione, ha finito per essere un peso, per questo l’aver contribuito a far sì che il Museo di Amsterdam rientrasse in possesso di tali capolavori, pensi quello che vuole, mi rende orgoglioso”. Secondo la DEA, l’agenzia federale antidroga statunitense, Imperiale nell’estate del 2017 era presente al matrimonio del mafioso irlandese Daniel Kinahan, andato in scena in un hotel di lusso, dove erano presenti anche altri narco europei.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista. 

Dall'ostentazione al tradimento nel giro di pochi mesi. Dal matrimonio di Tony Colombo al pentimento, Genny Carra "distrugge" i Cutolo: fuochi d’artificio nel Rione Traiano. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 12 Maggio 2021. Poco più di due anni fa ostentava la sua presenza, con tanto di foto pubblicate su Instagram, al matrimonio tra il cantante neomelodico Tony Colombo e Tina Rispoli, vedova del boss degli Scissionisti Gaetano Marino (ammazzato in un agguato nel 2012), poi nel giro di pochi mesi è finito in carcere per camorra (insieme al cognato Enzo Cutolo, considerato il reggente del clan) prima di passare a collaborare con lo Stato e, di fatto, contribuire a disarticolare il clan Cutolo del Rione Traiano, di cui era uno degli esponenti apicali avendo sposato la figlia del boss Salvatore "Borotalco" Cutolo, in carcere da oltre un decennio. E’ la storia di Genny Carra, 38enne pentito che con le sue rivelazione ha aiutato negli ultimi tempi la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli ad assestare un duro colpo alle organizzazioni camorristiche presenti nell’area flegrea di Napoli. L’ultimo blitz all’alba dell’11 maggio quando i carabinieri del Nucleo Investigativo e della Compagnia di Bagnoli hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 12 persone, ritenute affiliate ai clan Cutolo e Sorianiello, attivi principalmente nel Rione Traiano, in quella che è considerata la più grande piazza di spaccio a cielo aperto della città di Napoli. Tra gli arrestati figura anche Giuseppina Ostinato, 55 anni, moglie di ‘Borotalco’ e suocera di Genny Carra. Una notizia, quella dell’ennesimo blitz avvenuto nel corso dell’ultimo anno e mezzo contro il clan Cutolo, che è stata accolta con fuochi d’artificio nella parte alta del Rione Traiano, quella dove, secondo le ultime relazioni della Direzione Investigativa Antimafia, gestisce gli affari illeciti la famiglia Petrone-Puccinelli. Sin dal pomeriggio di martedì 11 maggio, infatti, nel Rione Traiano si sono registrati botti anomali che potrebbero essere interpretati in due modi. Il primo è quello relativo ai festeggiamenti per l’indebolimento di un clan considerato rivale solo per la gestione dello spaccio ma con il quale esistevano, almeno fino a poco tempo fa, rapporti di buon vicinato. Pace e droga per non attirare l’intervento delle forze dell’ordine, in sintesi. La seconda chiave di lettura potrebbe essere relativa invece a un espediente che le organizzazioni criminali utilizzano per lanciare messaggi a clienti e organizzazioni nemiche, ovvero quello di sparare batterie fuochi d’artificio, anche in pieno giorno, per annunciare l’arrivo di un nuovo carico di droga o per avvisare che l’attività di spaccio non si è fermata nonostante il recente blitz. Genny Carra dall’estate del 2019 ha lasciato Napoli insieme alla moglie  Candida Cutolo (figlia del boss) e ai due figli. Pochi mesi prima la partecipazione al matrimonio di Tony Colombo e Tina Rispoli. Proprio con il cantante neomelodico di origine palermitana ma napoletano d’adozione, Carra vantava buoni rapporti perché in più di un’occasione lo aveva chiamato ad esibirsi nelle feste di piazza organizzate nel Rione Traiano. Sui social quel giorno pubblicò una foto in compagnia della moglie con tanto di didascalia (“Gli invitati più belli di Tony Colombo”). Un modo per ostentare e rimarcare la presenza al matrimonio-evento che ha provocato polemiche infinite ma anche più di qualche imbarazzo nell’amministrazione napoletana per la grottesca vicenda dei permessi concessi e dimenticati per il flash mob di piazza del Plebiscito.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

DIETRO LE QUINTE DEL (VERO) ARRESTO DI MICHELE ZAGARIA, CAPO DEL CLAN DEI CASALESI. Il Corriere del Giorno il 2 Maggio 2021. Vittorio Pisani nel 2011 a capo della Squadra Mobile di Napoli, era stato tra i protagonisti dell’investigazione che aveva portato alla cattura di Iovine, tema della prima serie di Sotto Copertura. Stava lavorando per mettere la parola “fine” alla latitanza di Michele Zagaria, che come nel film venne realmente trovato e catturato in un bunker. Si è conclusa questa sera la fortunata serie televisiva trasmessa da RAIUNO “Sotto Copertura, la cattura di Zagaria”. Michele Romano, il personaggio interpretato da Claudiò Gioè ha un nome di fantasia, dietro il quale esiste una persona vera, al quale il personaggio è liberamente ispirato: quel poliziotto nella vita reale si chiama Vittorio Pisani ed esattamente come accaduto nella serie tv, proprio poco prima della cattura di Michele Zagaria, (nella fiction interpretato da Alessandro Preziosi) era finito sotto inchiesta a causa delle dichiarazioni calunniose di un collaboratore di giustizia. Vittorio Pisani nel 2011 a il capo della Squadra Mobile di Napoli, era stato tra i protagonisti dell’investigazione che aveva portato alla cattura di Iovine, tema della prima serie di “Sotto Copertura”. Stava lavorando per mettere la parola “fine” alla latitanza di Michele Zagaria, che come nel film venne realmente trovato e catturato in un bunker. Pisani a suo tempo finì indagato per rivelazione di notizie riservate, abuso d’ ufficio e  favoreggiamento, a causa di un collaboratore di giustizia, Salvatore Lo Russo, boss dell’omonimo “clan” che opera nella zona Miano di Napoli, il quale in precedenza era stato di Pisani, e successivamente lo aveva accusato di aver favorito in questo modo alcuni imprenditori come Marco Iorio e Bruno Potenza, impegnati in attività di riciclaggio in alcuni ristoranti, in cambio di informazioni utili alla cattura di Zagaria. Se già al vaglio delle indagini le accuse del collaboratore che accusavano Pisani anche di corruzione si erano rivelate prive di ogni fondamento, inducendo i magistrati della Dda di Napoli all’ archiviazione, per sgretolare le altre accuse, addirittura era stato necessario un processo. Pisani con grande dignità e mente lucida ha affrontato il processo in primo grado, difendendosi solo e soltanto nell’aula del tribunale, senza mai cedere alla tentazione di una difesa mediatica per la quale avrebbe avuto sicuramente non poche occasioni.  Vittorio Pisani uscì assolto dal processo di primo grado con formula piena: dall’accusa rivelazione di segreto con la motivazione “per non aver commesso il fatto” e dalle accuse di abuso e dal favoreggiamento perché “il fatto non sussiste”.  La più ampia e limpida delle assoluzioni. Ad annientare definitivamente le accuse arrivò la sentenza di secondo grado, il 18 giugno 2015, nella quale i giudici della Corte d’ Appello sottolinearono come il processo avesse provveduto “a dissolvere ogni dubbio” sulla condotta del superpoliziotto Pisani. La procura generale non presentò ricorso per Cassazione e pertanto la sentenza di secondo grado divenne definitiva, restituendo Vitttorio Pisani al suo lavoro, anche se in contesti diversi e ben più importanti della guida della squadra Mobile di Napoli. A seguito delle sentenze che lo hanno completamente riabilitato, Vittorio Pisani nel 2016 è stato promosso al ruolo di dirigente superiore, con decorrenza dal 2011, cioè dall’ anno dell’ inizio della vicenda giudiziaria che aveva subìto a causa dell’ accusa di Lo Russo così togliendo ogni eventuale ombra dalla sua divisa, rimasta vittima di quello che in Sicilia viene chiamata “mascariamento”, la strategia che la criminalità organizzata spesso utilizza per infangare il nemico ed annientare il suo lavoro per la legalità. Una storia amara che ha indotto la fiction, a realizzare le nuove puntate. L’attore protagonista Claudio Gioè, in alcune interviste ha ammesso che sarebbe stata proprio la tempesta che stava investendo Vittorio Pisani a suggerire alla produzione la cautela di cambiare il nome al personaggio nella prima serie, svincolandolo dalla realtà. E caso vuole che oggi, quasi a chiudere il cerchio, la cronaca si intrecci nuovamente con la finzione: pochi giorni dopo la messa in onda è arrivata infatti la notizia che il processo di Appello ha confermato la condanna di Lo Russo a tre anni e rotti di reclusione proprio per aver calunniato Vittorio Pisani. che attualmente è il numero due dell’Aisi, il servizio segreto interno. Il covo di Michele Zagaria, ultimo “padrino” del clan camorristico dei Casalesi, detto “’o Monaco” oppure “Capastorta”, ricercato da molti lustri, era proprio in fondo a quel viottolo di Casapesenna un piccolo comune della provincia di Caserta, nascosto cinque metri sottoterra all’interno di una villetta familiare come tante, cancello di ferro battuto all’esterno e una piccola edicola votiva della Madonna nel cortile. Un rifugio che era stato realizzato come un bunker hi-tech nascosto sotto stireria dell’abitazione: dentro la stanza, una parete scorrevole si muoveva lungo un binario a motore azionato da un telecomando. Nelle intercettazioni lo chiamavano ’O ping pong”. Spostata la parete, scendendo giù per una scala in ferro di quindici gradini, si accedeva attraverso un piccolo corridoio e un altro paio di gradini ad una piccola abitazione di circa 65 metri quadrati, perfettamente areata da un impianto di ventilazione di venti metri quadri con letto a una piazza e mezzo, tre monitor a circuito chiuso per guardare all’esterno, un bagno con doccia. Nessun computer, né telefoni cellulari. “Ha vinto lo Stato, lo Stato vince sempre”, disse il padrino consegnandosi all’ex capo della squadra mobile di Napoli, Vittorio Pisani, dirigente allo S.C.O. il Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, che ha diretto l’operazione coordinata dal procuratore aggiunto Federico Cafiero de Raho (ora alla guida della Procuratore Nazionale Antimafia) con il pm Catello Maresca e gli altri sostituti del pool anticamorra impegnati nelle inchieste sui clan dei Casalesi. Era il 7 dicembre 2011. Fra qualche mese, saranno passati dieci anni da quel giorno. Michele Zagaria ex capo dei Casalesi gestiva un giro d’affari pari di circa 30 miliardi di euro, da quel giorno è al carcere duro al 41 bis nel penitenziario di massima sicurezza di Parma, uno dei più rigidi e rigorosi carceri d’Italia, dove sta scontando una condanna all’ergastolo. A differenza dell’altro padrino arrestato dopo 15 anni di latitanza, Antonio Iovine detto il “Ninno”, Zagaria non ha mai voluto collaborare con la giustizia. Lo scorso febbraio, il fratello di Michele Zagaria, Pasquale è stato scarcerato per fine pena, dopo che un anno fa aveva ottenuto gli arresti domiciliari per motivi di salute durante l’emergenza Covid con un provvedimento che aveva fatto finire nella bufera mediatica e politica l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, e fatto saltare il capo del Dap, Basentini, provvedimento che era stato successivamente revocato dal giudice di Sorveglianza di Brescia. Anche gli altri fratelli di Michele Zagaria attualmente sono liberi.

Mafia e benzina, il cartello dell’oro nero: ecco chi sono i padroni dei distributori. Dalle raffinerie alle pompe di carburante, così la criminalità ha messo le mani sul business del petrolio. Un accordo tra ‘ndrangheta, Camorra e Cosa nostra. Quattro procure e la Guardia di finanza in ottomila pagine d’indagini raccontano quali sono gli impianti nelle mani delle mafie. Enrico Bellavia e Antonio Fraschilla su L’Espresso il 28 aprile 2021.

Frutta più della droga, spalanca le porte del salotto buono dell’economia, apre a relazioni internazionali: le mafie, tutte insieme, si sono prese anche il petrolio. Forti di un patto di spartizione che ricalca la signoria geografica sul Sud d’Italia, flirtano con colossi del calibro di Esso e Agip, controllano la filiera, dalle raffinerie alla grande distribuzione fino alla vendita al dettaglio. Dal bunkeraggio dei porti ai distributori di carburante nel meridione. Hanno marchi propri creati ad arte o ne controllano di esistenti. Riversano fiumi di denaro in società che finiscono per espugnare. Con gli amministratori, irretiti dalla solita illusione di considerare i clan alla stregua di finanziarie, fatalmente stritolati dall’abbraccio mortale. Quattro diverse indagini su truffe e accise evase per la cifra sbalorditiva di un miliardo di euro, lette in controluce, incrociando dati e spunti investigativi, rivelano la rete mafiosa dell’oro nero. Il ferreo controllo di cosche come i Cappello, i Piromalli o i Moccia sull’affare delle benzine e della logistica che muove le cisterne. Con i loro prestanome, le loro teste di legno, i broker a procacciare affari, i politici lesti con licenze e autorizzazioni, un sistema di talpe pronte a vendere informazioni e i signori del carburante, dalle loro eleganti scrivanie in mogano, a recitare il ruolo di burattini. Duecento finanzieri dei Nuclei di Polizia economica e finanziaria, sotto il comando del generale Giuseppe Zafarana, coordinati dalle procure di Roma, Napoli, Catanzaro e Reggio Calabria, con la supervisione della Direzione nazionale Antimafia, tirano le somme di operazioni che hanno già inquadrato il ruolo di 400 tra boss e operatori del settore, 70 dei quali finiti agli arresti nelle settimane scorse per una truffa fotocopia ai danni dell’erario. Ma questo aspetto è solo la cifra più evidente di un sistema che svela come un’altra fetta di business legale, l’ennesima, sia finita nelle mani dei colletti bianchi del crimine. Unendo i punti, c’è la mappa del controllo della distribuzione con l’acquisto del petrolio sia dalle grandi raffinerie dell’Eni o della Saras, sia attraverso operazioni di contrabbando, lo stoccaggio nei depositi e la vendita in strada nel circuito delle pompe bianche, cresciute come funghi al Sud contro l’oligopolio delle major, affermatesi come marchi indipendenti e concorrenziali. Insegne come la Sp Energia Siciliana di Orazio Romeo, erede dell’impero fondato da Sebastiano Pappalardo alle falde dell’Etna, con 120 distributori o le società del gruppo dei Ruggiero in Calabria o dei Coppola in Campania. Stelle di prima grandezza come i Piromalli di Gioia Tauro fanno capolino dietro ai big nazionali se di mezzo c’è il proprio regno calabrese. Mentre i Mancuso di Limbadi, storici partner e talvolta antagonisti, puntano alla Rompetrol, colosso dell’estrazione e distribuzione del petrolio nell’Est Europa, per allestire un network in grado di fare concorrenza all’Eni e alla Lukuoil nella gestione delle pompe di benzina. Immaginano di investire 100 milioni di euro per farsi un loro deposito costiero. Hanno tutto quello che serve. Racconta il fiduciario del ramo, Giuseppe D’Amico: «Se lo Stato viene là, poi noi facciamo lo Stato». Dalla sua, D’Amico ha il boss Luigi Mancuso, lo zio, «quello che grida», la forza della cosca. Il «supporto amministrativo lo dà la politica», quello economico gli investitori kazaki coinvolti da un broker milanese. E «per far quadrare il cerchio, in modo che quando arrivano le carte partono in modo veloce», c’è anche «squadretta e compasso», ovvero la massoneria. Notano i magistrati: «In poche battute, Giuseppe D’Amico metteva a nudo tutte le componenti di un sistema masso-mafioso che governa e soffoca la vita economica e sociale della Calabria».

IL GRANDE PATTO. «La nostra indagine nasce quando ci accorgiamo di un legame tra la Camorra napoletana, rappresentata in questo comparto da Alberto Coppola, e la Max Petroli, un grande gruppo della distribuzione di petrolio a Roma», racconta Domenico Napolitano comandante del nucleo Pef di Napoli. La società in sospetto di contaminazione è quella fondata dal petroliere Sergio Di Cesare, guidata dal 2017, un anno prima della morte dell’imprenditore, dalla moglie, Anna Bettozzi, trascorsi da starlette e solida presenza nel mondo degli affari. Rapporti, dice lei, di peso: «Io ho soci che si chiamano Tronchetti Provera e Silvio Berlusconi».

L’occasione del contatto coincide con le difficoltà economiche in cui versa l’erede dell’impero Di Cesare. Lesta a cogliere l’opportunità di finanziarsi senza troppi impicci, Bettozzi acconsente e si vanta pure di essersi messa alle spalle ingombranti protettori: «Io dietro c’ho la camorra». Non disdegna neppure di evocare i romani Casamonica, quando serve. Poi avverte il fiato sul collo, fiuta che i metodi non ortodossi dei nuovi amici cozzano con l’immagine di rampante manager dalle frequentazioni altolocate. Ma è troppo tardi. La verità è che Coppola offre 550 mila euro pronto cassa. Attinge dall’inesauribile forziere del cugino Antonio Moccia, a capo di un gruppo camorrista che da Napoli ha messo radici a Roma, provando a ripulire la facciata di un castello di affari sporchi. Anche così la Max Petroli prende il largo e il volume d’affari cresce in 36 mesi di 45 volte. Addentrandosi nei meandri dei rapporti, prima delle eloquenti conversazioni captate dalle cimici, viene fuori la giostra delle 200 società “cartiere” che alimenta la girandola di fatture per cessioni inesistenti di petrolio in ambito comunitario, Iva esente, e che rimane invece in Italia. Lungo la via del petrolio si arriva più a sud: al deposito della Italpetroli di Locri in mano a Domenico e Giovanni Camastra, legati ai clan della ’ndrangheta, a quello della Made Petrol Italia e ad altre società legate a Sergio Leonardi, imprenditore contiguo al clan Mazzei di Catania, alle ditte dei Ruggiero, emanazione dei Piromalli nel Reggino e a quelle dei fratelli D’Amico, considerati uomini di Luigi Mancuso a Vibo. È la rete. Scrivono gli investigatori: «Facendo leva sulla rispettiva appartenenza e contiguità ai contesti criminali di riferimento, i campani Giuseppe Mercadante e Alberto Coppola (contigui alla criminalità organizzata napoletana - rispettivamente al clan dei Casalesi ed al clan Moccia), i calabresi Antonio e Giuseppe D’Amico (appartenenti alla Locale di Limbadi) ed i siciliani Sergio Leonardi e Gioacchino Falsaperla (contigui alla criminalità organizzata catanese e, in particolare, ai clan Mazzei e Pillera), nonché tramite i rapporti e le relazioni con imprenditori attivi nel settore del commercio di carburanti (con particolare riguardo a Virgina Di Cesare, Anna Bettozzi e Felice D’Agostino, amministratori e gestori di un deposito fiscale sito in Roma), definivano accordi criminosi che, oltre a prevedere una generale e stabile destinazione di forze, mezzi e risorse agli interessi della associazione, pianificavano ed attuavano differenti sistemi di evasione delle imposte». Non c’è nulla di casuale in questa cartina. Perché la spartizione è decisa a tavolino. In un piano che prevede la suddivisione per aree di influenza che copia il controllo territoriale delle organizzazioni e summit a suggello dell’intesa, come quello del 9 luglio del 2019 a Villa San Giovanni tra Giuseppe D’Amico, per il clan Mancuso e Leonardi per i Mazzei. O come quell’altro incontro, questa volta tra un imprenditore siciliano e D’Amico in cui quest’ultimo fa esplicito riferimento a intese consolidate tra le due sponde dello Stretto. Al tempo in cui Cosa nostra e ’ndrangheta si diedero la mano per le Stragi del 1992 e del 1993 e vagheggiavano dei magnifici orizzonti che il futuro Ponte di Messina avrebbe riservato a entrambe le consorterie. Dice D’Amico: «A gennaio ti faccio conoscere un personaggio che con i tuoi compaesani stavano a tavolino... questo si è seduto... si è seduto per lo Stretto, si è seduto per tante cose... quando c’è stato il problema in Sicilia che hanno fatto tutte quelle casinate là... alla zona di Carini». Amministratori locali, spinti dal vento del consenso pilotato dalle ’ndrine, sono a completa disposizione dei gruppi impegnati a lavare con la benzina i profitti di mille traffici. Dal tritolo al petrolio, è sempre questione di business. E che si passi per l’eccidio Falcone o per intese su nuovi affari, finita per i siciliani l’era corleonese di Riina, da questa parte dello stivale è sempre con i Mancuso di Limbadi che bisogna fare i conti.

LE POMPE DI BENZINA. Patti anche per impiantare un canale alternativo e perfettamente efficiente della distribuzione del carburante. Il Sistema, se opera nel ramo del contrabbando, fa arrivare il petrolio da Slovenia e Nord Africa, oppure in modo apparentemente più canonico, dalle grandi raffinerie. In questo caso il gioco di prestigio consisteva nel darlo per rivenduto a livello comunitario ma anche destinato a scopi agricoli. Formalmente dato via, il carburante tornava in circolo nei distributori sotto il controllo dell’organizzazione a prezzi concorrenziali in grado di attrarre gli automobilisti. Un giro che ruotava oltre che sulla Max Petroli di Roma sulla Petrol di Leonardi, sulla Dr Service dei D’Amico a Vibo Valentia e soprattutto sulla Italpetroli a Locri della famiglia Camastra, indicati nel novero dei prestanome dei Piromalli con un nugolo di altri amministratori. Come Antonino Grippaldi, finito adesso agli arresti: imprenditore molto noto in Sicilia per essere stato presidente di Confindustria Enna e fino a qualche giorno fa vicepresidente dell’Università Kore. Amico e poi grande avversario di Antonello Montante, l’ex presidente di Confindustria Sicilia a capo di una rete nazionale per indirizzare indagini e affari in nome della finta antimafia condannato a 14 anni. Grippaldi, secondo i magistrati, dopo un accertamento della Guardia di finanza il giorno di San Valentino del 2019 avrebbe aiutato l’organizzazione a creare un’altra società per gestire il deposito di Locri coinvolgendo anche Leonardi, altra figura chiave dell’organizzazione: Leonardi è un imprenditore catanese, proprietario di una rete di distribuzione, la Lbs Rifornimenti, che nel 2018 compare in un’altra indagine sul contrabbando di petrolio comprato da una raffineria a pochi chilometri da Tripoli. Dopo lo stoccaggio nei depositi controllati, occorre però avere comunque una rete di distribuzione. E qui arriva la parte più sorprendente, perché mettendo insieme le indagini delle quattro procure viene fuori l’enorme influenza della criminalità sulle pompe di benzina. «Soprattutto pompe bianche, ma non solo, e con ramificazioni dal Lazio alla Sicilia», dice Gavino Putzu, comandante del Nucleo Pef di Roma. Una rete a servizio è quella dell’erede di Pappalardo, Orazio Romeo, con le sue società Energia siciliana ed Energia pugliese: da sole oltre 120 pompe di benzina sparse soprattutto nel Sud, ma con presenze anche in Toscana e Veneto. Verifiche sono in corso poi su un altro importante imprenditore che avrebbe in gestione diverse pompe di benzina nel Meridione e che sarebbe consuocero di un condannato attualmente al 41-bis. Poi ci sono le pompe di benzina dei Piromalli. Il collaboratore Antonio Russo ha detto ai pm di Catanzaro: «I Piromalli hanno le loro pompe di benzina: c’hanno Esso a Gioia Tauro, c’hanno l’Agip, hanno un altro Esso dei fratelli Schiavone». Altra catena in mano ai clan calabresi sarebbe la Lp Carburanti (che gestisce anche insegne Tamoil), legata ai Mancuso. Ma proprio i Mancuso hanno anche dell’altro. Il collaboratore di giustizia Giulio Rubino, del clan Cappello di Catania, ha riferito ai pm di un viaggio a Limbadi per incontrare Luigi Mancuso per un problema di un carico di droga (altro elemento che prova l’asse Sicilia-Calabria) insieme alla compagna di Turi Cappello, Rosa Campagna. Ed è proprio Campagna a riferirgli in quella occasione che «tutte le pompe di benzina da lì alla Campania in qualche modo erano sotto di lui, di Luigi Mancuso». La filiera è lunga e importante. E un ruolo chiave ce l’hanno anche i broker, come i milanesi Francesco Mazzani e Francesco Porretta, che avevano fatto arrivare in Calabria il manager kazako legato alla Rompetrol, Arman Magzumov, per far fare il grande salto ai Mancuso; oppure Renato Lavazza, «formalmente di professione odontotecnico ma di fatto broker attivo nel settore del commercio dei carburanti con società in Inghilterra». È proprio Lavazza che intercettato dice: «Conviene vendere il gasolio che la droga eh...hai dei guadagni che sono allucinanti».

Operazione "Febbre, oro nero": 45 arresti e 71 denunce. Vendevano gasolio agricolo spacciandolo per quello normale: blitz a Napoli, Salerno e Caserta contro i Casalesi. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 12 Aprile 2021. Le mani dei Casalesi e dei Cicala si allungano sul mercato degli idrocarburi: con l’accusa di associazione per delinquere con l’aggravante del metodo mafioso, intestazione fittizia di beni e società e truffa ai danni dello Stato, questa mattina su ordine dei tribunali di Potenza e Lecce sono state arrestate 45 persone e ne sono state denunciate altre 71 tra le province di Salerno, Brescia, Napoli, Caserta, Cosenza e Taranto. Il sospetto sodalizio era “finalizzato alla commissione di frodi in materia di accise e Iva sui carburanti”, di legge nelle ordinanze. L’operazione, denominata “Febbre: oro nero”, è stata coordinata dalle Direzioni distrettuali antimafia lucana e salentina, mentre le indagini – svolte da carabinieri e finanzieri – hanno accertato l’infiltrazione dei due clan nell’area di Vallo di Diano, al confine tra Campania e Basilicata. Il carburante partiva dal deposito come gasolio agricolo, poi alcune documentazioni false ne modificavano la natura per farlo arrivare direttamente alle pompe bianche, quelle non appartenente a nessun grande distributore. La differenza tra le due miscele è soltanto cromatica, ma quello agricolo – essendo destinato alle aziende – gode di alcune agevolazioni fiscali che ne abbassano leggermente il prezzo. “L’indagine sviluppa uno degli aspetti nei quali la criminalità si sta infiltrando, il campo della commercializzazione dei carburanti”, sottolinea il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho. “L’operatività di due gruppi criminali – aggiunge – si è evoluta in modo sinergico al punto da ampliare il contrabbando di petrolio, portando i profitti fino oltre i 30 milioni all’anno”.

Nel Tarantino operava “un gruppo criminale di matrice mafiosa”, mentre la famiglia Diana in Campania “è stata oggetto di interesse investigativo per il clan del Casalesi.  L’infiltrazione mafiosa è stata resa possibile, spiegano gli inquirenti, attraverso l’uso di prestanomi. “Si tratta di un’operazione di grandissima importanza – conclude De Raho – perché appena qualche giorno fa abbiamo parlato di come clan camorristici e n’drangheta si siano dedicati al commercio dei carburanti, quello in cui hanno impiegato i loro profitti, un reinvestimento dei ricavi di provenienza delittuosa”.

Petrolmafie, ecco tutti i nomi dei 400 indagati nell’inchiesta sui carburanti. Nell’indagine che ha coinvolto le procure di Reggio Calabria, Catanzaro, Napoli e Roma oltre ai 70 arrestati sono coinvolte decine di persone tra esponenti delle mafie, colletti bianchi e imprenditori. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 14 aprile 2021. Sono oltre 400 gli indagati nell’ambito della mega inchiesta su mafie e petrolio e che ha coinvolto i comandi provinciali della guardia di finanza di Napoli, Roma, Catanzaro e Reggio Calabria, insieme ai finanzieri dello Scico e ai carabinieri del Ros, coordinati dalle rispettive Direzioni distrettuali antimafia e dalla Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. L’Espresso è in grado di pubblicare tutti i nomi al momento finiti nel registro degli indagati, al di là dei 70 arresti dei giorni scorsi e del sequestro di beni complessivo per più di un miliardo di euro. Anni di indagini condotti dalla Guardia di finanza e dai carabinieri del Ros che hanno svelato il grande sistema della gestione in nero del petrolio in buona parte del Paese. Quello che sta emergendo, mettendo insieme tutte le inchieste delle quattro procure coinvolte, è un sottobosco dove c’erano i rappresentanti delle mafie locali, ma anche colletti bianchi spregiudicati e imprenditori che si prestavano ad operazioni illecite per evadere le imposte, ma non solo: perché considerando il numero di società coinvolte sta venendo fuori che moltissimi depositi di petrolio sono in qualche modo infiltrati dalle mafie. Tra i nomi coinvolti ci sono rappresentanti di spicco di clan di mafia, ‘ndrangheta e camorra, da Luigi Mancuso  ai Moccia per la camorra, a nomi legati ai clan Santapaola e Cappello in Sicilia. Ma ci sono anche volti legati ai potenti clan calabresi dei Piromalli, dei Pelle e dei Piscopani. Nel lunghissimo elenco degli inagati ci sono anche broker molto noti nel settore, come Sergio Leonardo, Francesco Mazzani, Giuseppe Di Lorenzo, Francesco Porretta, e imprenditori come Anna Bettozzi, vedova del petroliere Sergio Di Cesare, Antonino Grippaldi, ex presidente di Confindustria Enna e vicepresidente della Kore di Enna, Orazio Romeo, ex patron della Sp energia siciliana o Vincenzo Ruggiero, noto imprenditore del settore carburanti in Calabria. Coinvolte anche decine di aziende note del settore come Max Petroli  e la Italpetroli, e piccole società che gestivano singoli depositi.  L’accusa principale per tutti è quella di aver creato associazioni per evadere le imposte attraverso il cosiddetto sistema delle cartiere: società che acquistavano il carburante per rivenderlo, sulla carta, all’estero non pagando l’Iva e che invece poi lo reimmettevano nel mercato italiano a prezzi concorrenziali. Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha definito questa operazione una «Rinascita Scott 2»: «Le mafie non hanno steccati né procedure da rispettare ma sono presenti dove c'è da gestire denaro e potere. Questa indagine dimostra la grande sinergia tra le principali mafie italiane. Quasi contemporaneamente quattro procure si sono trovate a indagare sullo stesso oggetto, quello dei petroli e da un'intercettazione ambientale si dice che il settore “ci sta fruttando più della droga”. Quattro procuratori che hanno lavorato insieme e in maniera determinata per arrivare a un risultato». Il procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri ha aggiunto: «Le mafie, ‘Ndrangheta o Camorra, indistintamente dalla loro origine, operavano su orizzonti finanziari diversi che non sono più il traffico di stupefacenti ma quello dei petroli che fino ad oggi hanno visto operare solo i colletti bianchi. Dove ci sono i soldi e gli affari le mafie intervengono. Abbiamo trovato i punti di riferimento delle varie cosche. I colleghi hanno operato sotto il coordinamento degli aggiunti Gaetano Paci e Giuseppe Lombardo e sono riusciti a ricostruire i piani criminali sui quali operava l'organizzazione che faceva capo a imprenditori calabresi unitamente a soggetti campani. Avevano creato un articolato sistema di cartiere, gestivano sia le false fatturazioni, le operazioni in frode d'Iva e sia la fase del riciclaggio e dell'autoriciclaggio curando nel dettaglio il recupero delle somme sottratte allo Stato. Grazie a questi imprenditori di riferimento delle cosche operavano in Calabria, Campania e Sicilia. Abbiamo sequestrato 27 conti bancari tra Bulgaria, Ungheria, Romania, Inghilterra e Croazia. Sono state sequestrate circa 100 società interessate alla frode fiscale e molte delle quali cartiere. Sono stati sequestrati una serie di beni di lusso, anche all'estero, che venivano utilizzati dai soggetti dell'organizzazione. Nel maggio 2019 è stato sequestrato un milione di euro in contatti che l'organizzazione da Napoli stava facendo arrivare ai promotori calabresi. Anche oggi le perquisizioni hanno consentito di avere ulteriore conferma di questa disponibilità economica di questi soggetti».

Una spia dentro l'antimafia e quelle feste vip sulle terrazze romane, così Ana Bettz comandava la mafia del petrolio. Giuliano Foschini,  Andrea Ossino su La Repubblica il 9 aprile 2021. Dalle carte dell'inchiesta sull'associazione mafiosa gestita dalla cantante-ereditiera emerge uno spaccato incredibile della nuova criminalità italiana, tra i casalesi, Gabriel Garko e Palamara. Quando diceva: "Io c'ho dietro la camorra ma tu, esattamente, ndo ca... vai?" "Aho a Piè. Io c'ho dietro la camorra. Tu, esattamente, 'ndo ca... vai?". Con una battuta, fulminante, Bettozzi Anna, in arte Ana Bettz, starlette, eriditiera milionaria, capo di un'associazione mafiosa che trafficava petrolio di contrabbando a spese dello stato secondo quattro procure antimafia (Roma, Napoli, Catanzaro e Reggio Calabria), regala uno spaccato straordinario di un pezzo del nostro Paese: un luogo senza più bordi, dove tutto si mischia, sovrappone senza potersi più distinguere. E così le aspiranti starlette diventano camorriste, cantano alle feste di Berlusconi o di magistrati la sera, mentre la mattina fatturano centinaia di milioni con i capi clan. Pagano attori famosi per fingere relazioni sui settimanali, sfilano sul tappeto rosso del festival di Cannes dopo aver portato milioni di euro criminali in contanti da una parte all'altra del confine a bordo di Rolls Royce. La storia è quella raccontata in decine di migliaia di pagine dalla Guardia di Finanza e i carabinieri del Ros dopo più di tre anni di indagini: un vorticoso giro di denaro, società fittizie e traffico di petrolio di contrabbando, che ha permesso a gruppi camorristici e 'ndranghetisti di arricchirsi, sulle spalle dello Stato, di quasi un miliardo di euro. Non pagando le tasse e frodando l'Iva. Un sistema sofisticato che ha avuto ulteriore ossigeno negli ultimi 12 mesi, grazie alla crisi di liquidità causata dalla pandemia. Risultato: 71 arresti, un miliardo di beni sequestrati. Il centro della storia, che non è né commedia né farsa, ma mafia, tremendamente mafia, è questa signora romana di 63 anni, Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz, personaggio dalle mille sfaccettature: aspirante starlette, poi cantante un po' stonata, diventa ereditiera del petrolio, dopo aver sposato l'imprenditore Sergio di Cesare, morto tre anni fa, all'inizio dell'inchiesta. La Bettozzi, anzi la Bettz, non ama stare dietro i riflettori. Ma davanti. E' vicina di casa in Sardegna di Berlusconi, regina di molte terrazze di Roma Nord che prova a usare come trampolino, senza riuscirci però, per la sua carriera da cantante. Pubblica un paio di dischi, riesce a cantare anche qualche festa in Sardegna a casa del presidente del Consiglio, ma nulla più. Alla morte del marito eredita una fortuna. Il tesoretto è nella Maxpetroli, società che commercializza prodotti petroliferi. L'azienda - secondo la ricostruzione che ne fanno Finanza e Ros - non naviga però in ottime acque. Anzi. E per questo la Bettz chiede un'iniezione di liquidità ad amici. Purtroppo però gli amici sono gli uomini del clan Moccia che, come spiega il procuratore capo di Roma, Michele Prestipino, "storicamente ha fatto registrare la propria presenza in regime di monopolio dei prodotti petroliferi". L'iniezione di liquidità arriva. E anche la protezione del clan di Afragola che scoraggia i tentativi estorsivi di altri gruppi criminali come i Casamonica. Ed è importante. "La Bettozzi diventa così - scrive il gip Tamara de Amicis nell'ordinanza di custodia cautelare - il capo indiscusso dell'organizzazione, della persona più di tutti "esperta" della materia anche grazie a quanto imparato dal marito. Nulla si muove senza il suo assenso; è lei che intavola il rapporto con Alberto Coppola e, tramite lui, con tutto il gruppo napoletano dal quale riceve cospicui finanziamenti per la propria attività illecita, remunerando adeguatamente gli investimenti fatti da costoro". Anna Betz è donna risoluta. E riesce a tenere però testa anche ai camorristi. "Aho, me state a prendere per c...?" urla al telefono a Coppola, il suo referente, che fino a qualche giorno fa negava fosse uomo di camorra. Sapeva dell'inchiesta, perché aveva spie nella Finanza, all'Agenzia delle Dogane e forse nella magistratura ("erano a conoscenza di un vertice avvenuto alla Dna" annota il gip). " La Bettozzi - scrive il giudice - che riesce a mantenere saldamente nelle mani della propria famiglia il deposito della Maxpetroli resistendo senza difficoltà alle pressioni del Coppola che, anche forte della provvista di denaro a lui messa a disposizione dal clan Moccia, cerca di insinuarsi nel deposito romano", senza riuscirci. Non vuole avere a che fare con gente inesperta: "Alberto io non sono abituata così! Perdonami. Perdonami io ho soci che si chiamano Tronchetti Provera e Silvio Berlusconi", dice al telefono parlando con Coppola. Durante le numerosi conversazioni i due si scherniscono a vicenda, si chiamano "amore", fingono di essere fidanzati. In realtà si sono conosciuti nel 2017, "tramite un social network". Lei ha bisogno di liquidi. Lui già da un po' "è inserito nel settore della vendita di carburanti e dispone agevolmente di società da utilizzare per le frodi". Il risultato dimostra la teoria del capo dei magistrati romani, Michele Prestipino: tra imprenditori e mafia c'è "un rapporto che segue un paradigma scolastico per cui c'è un gruppo imprenditoriale che in poco tempo ha moltiplicato 45 volte il proprio volume di affari e lo ha fatto grazie all'organizzazione mafiosa". La Bettozzi, che ben "conosce i meccanismi fraudolenti già contestati al marito dal quale ha ereditato l'azienda, non è affatto una sprovveduta nel coltivare un rapporto apparentemente stravagante". È Coppola a inserire la Bettozzi nel mondo campano, dove società presentano finte dichiarazioni di intento, fatturando poi fittiziamente. L'immagine di un garage dove hanno sede decine di aziende, gestite di fatto da personaggi di facciata che al telefono si confondono anche sul nome delle società che avrebbero dovuto rappresentare, fotografa il meccanismo utilizzato per frodare il Fisco attraverso teste di legno. "La figura del professionista terzo da nominare amministratore serve solo come specchietto per le allodole e per scaricare responsabilità? - scrivono gli inquirenti - Unica obiezione, bisogna mettere al posto di comando (apparente) una persona credibile, non i soliti "rumeni sdentati", come sottolinea la Bettz. "Ancora una volta viene dimostrata l'insufficienza del concetto di infiltrazione per descrivere la presenza massiva nei sistemi economici complessi e delicati, con una vera e propria costellazione di impese mafiose che offrono e mettono a disposizione ingenti risorse finanziarie e offrono straordinaria capacità di garantire servizi illegali come quelli di una rete impressionante di società cartiere per false fatturazioni che consentono straordinari profitti", ricorda il procuratore di Napoli, Giovanni Melillo. La Bettozzi usa la mafia per avere denaro e la mafia usa l'azienda della Bettozzi per moltiplicarlo ed entrare in un affare importante. "Dove ci sono i soldi le mafie intervengono - conferma il procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri - il valore aggiunto di questa indagine è il collegamento con gli uffici giudiziari che ha consentito di operare sequestri in tutta Europa ricostruendo il piano criminale fatto di false fatturazioni e riciclaggio". I casalesi, i Moccia, i Formicola. Tutti i clan sono interessati all'oro nero. E riescono a insinuarsi ad alti livelli.  Lo dimostra una riunione avvenuta nel 2019 a Vibo Valentia. Seduti introno a un tavolo ci sono Luigi Mancuso, dell'omonima famiglia, altri personaggi in odor di mafia, due broker, gli interpreti e anche un rappresentante dell'azienda di idrocarburi Kmg, la KazMunaiGaz del Kazakistan. Mangiano e parlano di affari. L'obiettivo è quello di far costruire una boa capace di far attraccare le petroliere, facendo arrivare il petrolio a Vibo Valentia ed evitando di passare dal porto di Gioia Tauro, una zona sotto il controllo di altre famiglie mafiose che avrebbero voluto una percentuale. Nel corso di quel pranzo è anche stato posto un problema: a Maierato, poco distante da dove volevano piazzare la boa, ci sono i depositi dell'Eni. Mancuso ha la soluzione: "ha detto che gli avrebbe fatto ritirare le licenze dagli enti locali e che avrebbero usato anche le cisterne dell'Eni. Questo per dire le mafie non hanno frontiere e sono capaci di interagire con chiunque, a qualsiasi livello. L'operazione si è interrotta perché il collettore tra i broker e Mancuso, Prenestì è stato arrestato per omicidio e tentato omicidio", ha spiegato il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri. A Roma, nel frattempo, Ana Bettz cercava un volto pulito per la sua azienda. Sente il fiato degli inquirenti alle costole. Negli atti si legge che sua figlia, Virginia di Cesare, propone a un altro indagato di nominare Giulio Tremonti nel consiglio di amministrazione: "L'amministratore può anche non essere a conoscenza dell'eventuale falsità delle dichiarazioni di intento visto che è il cliente a dichiarare di possedere i requisiti di esportatore abituale ed è l'Agenzia delle Entrate che avalla la richiesti". L'interlocutore è perplesso. Tremonti si accorgerebbe delle modalità illecite con cui la società opera e perciò non accetterebbe mai un incarico simile. Sarebbe meglio, dicono, individuare un soggetto che abbia in passato rivestito un ruolo nella Guardia di Finanza, che possa bloccare sul nascere eventuali indagini. Gli indagati sapevano di essere nel mirino degli inquirenti. Ma hanno deciso di non fermarsi e di affinare la loro tecnica. Hanno ad esempio escogitato un trucco per trasportare il gasolio per autotrazione spacciandolo come gasolio agricolo, quindi sottoposto ad accise differenti. Falsificavano gli atti. E se il carburante veniva controllato durante il trasporto i camion erano dotati di leve e pulsanti che facevano esplodere un colorante in grado di cambiare il colore del gasolio per camuffarlo. Il petrolio "sospetto"  finiva poi nelle "pompe bianche" turbando la libera concorrenza del mercato. E poi bisognava pulire il denaro. E gli indagati sanno come fare. Acquistano macchine di lusso, case, nascondono i soldi in borsoni o in cassette di sicurezza e li investono in attività commerciali, immobili e sponsor tra Ungheria, Bulgaria, Grecia, Malta, Inghilterra e Croazia. Ma ad Ana Bettz non bastava comandare nel clan. Cercava altro, anche. Il successo. Imperdibili sono le sue interviste a Novella 2000 nelle quali racconta l'amore con Gabriel Garko, l'attore (che ha raccontato anche la sua omosessualità) che tiene a libro paga. 250mila euro, sotto forma di un contratto per la società. Le prove sono contenute nelle telefonate intercettate. La sera del 28 febbraio 2019, ad esempio, Anna Bettozzi arriva alla stazione di Milano. Alle 19.41 chiama Garko e discutono del contratto. L'attore si lamenta: "Si era parlato del contratto in un certo modo...poi a me è arrivato un contratto fatto in un altro....il contratto era da 200mila". "E quanto doveva essere?". chiede la donna. "Il contratto doveva essere da cento". risponde Garko. "100 in nero e 100 in fatturato, sul contratto va messo solo il fatturato. Il cash prima del contratto". Qualche giorno dopo sono insieme sul tappeto rosso del festival di Cannes. E' a bordo della sua Rolls Royce, mentre stava cercando di superare il confine di Ventimiglia, quando viene fermata con 300 mila euro in contanti. Non sa che non è un controllo casuale. I finanzieri, in albergo, le trovano un milione e 700 mila euro. "Mortacci loro", dice la signora che qualche sera dopo cantava su una terrazza romana a una festa con i magistrati Luca Palamara e Cosimo Ferri. Ieri quando i finanzieri sono andati a metterle le manette per portarla in carcere ha avuto un malore. Ora è in clinica. Ma sa che  un'altra storia sta per cominciare.

CAMORRA, ‘NDRANGHETA & PETROLIO. ARRESTATA ANNA BETZ: “ERA A CAPO DELL’IMPRESA CRIMINALE”. Il Corriere del Giorno il 9 Aprile 2021. L’operazione coordinata da quattro diverse procure Antimafia ha portato anche al sequestro di circa 1 miliardo di euro. ALL’INTERNO IL VIDEO DELL’OPERAZIONE. L’accusa a carico della Bettozzi è di essere a capo del sodalizio criminale. La donna si occupava praticamente di tutto. Stringeva accordi con i “clan” di camorra dei Moccia, Formicola e dei Casalesi e progettava modifiche societarie per “tenere indenni da indagini i componenti del sodalizio” . Anna Bettozzi, in arte Anna Bettz allorquando venne fermata nel maggio 2019, dalla Fiamme Gialle a bordo della sua Rolls Royce con autista mentre cercava di varcare il confine di Ventimiglia, per recarsi insieme all’ attore Gabriel Garko (non indagato nell’ inchiesta) al Festival del Cinema di Cannes, avrebbe dovuto capire che i finanzieri non l’ avevano fermata casualmente. In quell’occasione, mentre i finanzieri le trovarono 300.000 euro in contanti nascosti in un paio di stivali a coscia alta, e svolgevano i primi accertamenti, sono state registrate le telefonate tra la Bettozzi e l’avvocato Apolio, che le consigliava di mettere le chiavi di alcune cassette di sicurezza in tasca all’autista. Uno stratagemma inutile, perché le cassette furono aperte all’hotel Gallia di Milano, dove la Bettozzi disponeva in maniera permanente di una suite, e trovate altre banconote per 1 milione e 400.000 euro. In un’intercettazione del febbraio 2019 vi fu lo scontro di Garko con la Bettozzi a proposito del compenso da 250 mila euro per girare lo spot della società petrolifera. “Scusa noi abbiamo stabilito 250: 50 te li ho già dati e rimangono 200. Cento in nero e cento fatturato. Sul contratto va messo solo il fatturato (…) Adesso, la settimana prossima firmiamo il contratto e ti do una parte, alla fine dei lavori e basta“, diceva al telefono la Bettozzi. “Il cash prima del contratto“, replicava l’attore che dunque sarebbe stato pagato in nero. La vedova ereditiera del petroliere romano Sergio Di Cesare non poteva immaginare che la Finanza era sulle sue calcagne da un bel po’, cioè da quando la procura di Ancona aveva intercettato la sua voce in alcune conversazioni in relazione ad un’indagine sull’omesso versamento delle accise e sulla commercializzazione di carburante di contrabbando. Da quell’evento è partita l’inchiesta che ieri mattina ha portato i comandi provinciali della Guardia di Finanza di Roma, Napoli, Reggio Calabria e Catanzaro a notificare 71 ordinanze di custodia cautelare. L’operazione coordinata da quattro diverse procure Antimafia ha portato anche al sequestro di circa 1 miliardo di euro, guidata dalla pm Ida Teresi, e dal procuratore capo Giovanni Melillo della procura di Napoli , e dal procuratore Michele Prestipino della procura di Roma. Sul campo impegnati oltre mille militari dei rispettivi Nuclei PEF e dello SCICO della Guardia di Finanza, nonché su Catanzaro dei ROS dei Carabinieri. Mentre sul fronte camorristico risulta la centralità del clan Moccia nel controllo delle frodi negli oli minerali oggetto delle misure cautelati, sul versante della ‘ndrangheta i clan coinvolti sono Piromalli, Cataldo, Labate, Pelle ed Italiano nel reggino, e Bonavota di S. Onofrio, gruppo di San Gregorio, Anello di Filadelfia e Piscopisani a Catanzaro. “Si tratta del capo indiscusso dell’organizzazione, della persona più di tutti ‘esperta’ della materia anche grazie a quanto imparato dal marito Sergio Di Cesare”. “Nulla si muove senza il suo assenso – riporta l’ordinanza del gip Tamara De Amicis che ha disposto il carcere per la Bettozzi – è lei che intavola il rapporto con Alberto Coppola e, tramite lui, con tutto il gruppo napoletano dal quale riceve cospicui finanziamenti per la propria attività illecita, remunerando adeguatamente gli investimenti fatti da costoro”. Per l’indagata “sembra persino superfluo formulare considerazioni ulteriori rispetto a tutto quanto emerso nel corso dell’indagine” sottolinea il giudice. Le indagini hanno dimostrato che la Bettozzi “dispone di ingentissime provviste di denaro liquido, nascosto nei luoghi più disparati”. “Dalle indagini sono emerse le cassette di sicurezza di un hotel milanese (dove è stato già effettuato un sequestro) – continua la Gip nell’ ordinanza – la propria abitazione e quella di vari parenti (in una conversazione Filippo Bettozzi, parlando con lei, afferma – parlando dell’allocazione del denaro – di aver “sistemato” la nonna e tale zia Tonia). Si tratta di luoghi "sicuri", posto che – come emerge da un’altra conversazione – la Bettozzi è particolarmente attenta alla collocazione del denaro. In più l’indagata vanta una fitta rete di soggetti pronti ad aiutarla nell’occultamento di tali ingenti risorse“. L’indagine coinvolge 71 persone  ha portato al sequestro della Made Petrol Italia. L’accusa a carico della Bettozzi è di essere a capo del sodalizio criminale. La donna si occupava praticamente di tutto. Stringeva accordi attraverso Alberto Coppola e Felice d’Agostino, entrambi attualmente detenuti in carcere, per la commercializzazione di ingenti quantità di prodotto energetico, favorendo i “clan” di camorra dei Moccia, Formicola e dei Casalesi evadendo il pagamento dell’Iva, e “costituiva società cartiere da utilizzare per le frodi Iva, assieme a Virginia Di Cesare, Filippo Maria Bettozzi decideva quali società dovessero caricare prodotto energico dai depositi di Made“. Anna Bettozzi secondo quanto riportato nell’ordinanza del Gip Tamara De Amicis, progettava modifiche societarie per “tenere indenni da indagini i componenti del sodalizio” . Anna Bettozzi, procuratrice speciale e amministratrice della Maxpetroli Italia, e sua figlia Virginia Di Cesare, secondo le accuse avrebbero promosso “un’associazione a delinquere” mafiosa finalizzata a  frodare il fisco, dimenticando di versare iva e accise, riciclando il denaro, corrompendo e rivelando segreti d’ufficio. Tutto ciò servendosi anche del “denaro proveniente da associazioni criminali organizzate anche di stampo camorristico”, usando i soldi del clan Moccia, offerti da Antonio Moccia a suo cugino Alberto Coppola, e da lui girati ad Ana Bettz per “risanare la situazione finanziaria della Maxpetroli Italia consentendo alla donna di riavviare redditiziamente l’attività del deposito capitolino”. Secondo gli inquirenti anche Virginia Di Cesare figlia della Bettozzi,”cura la gestione del denaro contante che rappresenta esclusivo profitto di reati”, come emerge dalle intercettazioni in cui racconta di aver acquistato con 90.000 euro un’auto alla sorella , o “di aver prelevato dalla cassaforte del compagno D’Agostino, evidentemente presso la loro abitazione, otto milioni di euro in contanti, che deve mettere al sicuro”. In altre conversazioni dove si parla di banconote ci sono quelle in cui Anna Bettozzi riferirebbe di aver fatto contare i soldi delle “mazzette” al figlio Roberto e quelle in cui lei ed il figlio conteggiano altro denaro; in quell’occasione la cantante avrebbe anche comunicato “la somma prelevata per il pagamento in nero in favore dell’attore Gabriel Garko“. La donna un tempo vicina di casa di Silvio Berlusconi a Porto Rotondo , aveva iniziato la sua carriera nel settore immobiliare. Poi è entrata nel mondo dello spettacolo e sposato il petroliere Sergio Di Cesare, con cui nel 1999 venne sequestrata in una villa romana. I rapinatori rubarono 100 milioni di lire prima di scomparire nel nulla. Ereditata l’ azienda petrolifera del marito, aveva ha cercato di far lievitare i profitti della società, e per farlo però sarebbe entrata in contatto con il “clan dei Casalesi”, attraverso la famiglie Moccia ed i Formicola. Dopo soli 3 anni il giro d’affari della Maxipetroli è cresciuto esponenzialmente, aumentando il fatturato di ben 45 volte superiore. La Bettozzi trovandosi a gestire una società in grave crisi finanziaria, grazie alla conoscenza di Coppola era riuscita a ottenere forti iniezioni di liquidità da parte di vari clan di camorra, tra cui quelli dei Moccia e dei Casalesi, che le avevano consentito di risollevare le sorti dell’impresa, aumentando in modo esponenziale il volume d’affari, passato in tre anni da 9 milioni di euro a 370 milioni di euro , come ricostruito dal III° Gruppo Tutela Entrate della Guardia di Finanza di Roma su delega della D.D.A. capitolina, anche grazie alla trasmissione da parte della Procura di Napoli delle proprie risultanze investigative. In un’intercettazione del 4 marzo 2019 gli investigatori della Guardia di Finanza hanno intercettato la stessa Anna Bettozzi vedova Di Cesare, in arte Ana Bettz, fornire a sua sorella Piera Bettozzi (estranea all’indagine) una sorta di confessione: “A Piè, io dietro c’ho la camorra! Tu dove caz… vai… Te stanno a pijà per il culo… Cioè questi stanno… Lo sai quanto c’ha in giro Felice (…) di me… Ti sto dicendo… Ho capito! Sai quanto… No! E io controllo che sia borderline, quasi regolare… io! Sai quanto c’ha in giro! Quindici milioni al giorno, quell’altro cinque milioni, io altri cinque e insieme c’abbiamo 15 e 10, 25/30 milioni al giorno! Tu dove cazzo vai? (…) La gestione non ti può dare… Sei responsabile sempre te… Tu la legge, ti danno l’associazione…“. La donna secondo gli inquirenti stava cercando di dissuadere la sorella dall’idea di aprire un deposito di carburanti, “prospettandole la pericolosità dell’attività da lei svolta, per la quale "ha dietro la camorra", che comporta il serio rischio di essere imputati per associazione per delinquere”. Nell’indagine condotta dalla Direzione distrettuale antimafia della Procura di Roma, coordinata dal procuratore Michele Prestipino e dall’aggiunto Ilaria Calò, sono stati arrestati anche Virginia Di Cesare  27 anni, figlia di Anna Bettozzi, mandata ai domiciliari perché “madre di un bambino in tenera età”, il compagno di Virginia, Felice D’Agostino, il figlio della Bettozzi  Roberto Strina, 40 anni, il nipote Filippo Maria Bettozzi, e l’avvocato Ilario D’Apolito, legale della società e della Bettozzi, posto anche lui ai domiciliari. Una presunta associazione a delinquere ben organizzata a conduzione praticamente familiare, che disponeva di “ingentissime provviste di denaro liquido“. Nell’indagine emerge il ruolo di Alberto Coppola che era riuscito al rilancio della Maxpetroli mediante un’iniezione di liquidità nel momento del bisogno, grazie agli investimenti del denaro della Camorra. Sono numerosi i colloqui telefonici intercettati tra Coppola e la Bettozzi. I rapporti fra i due erano spesso molto tesi: “Alberto io non sono abituata così! Perdonami. Perdonami io ho soci che si chiamano Tronchetti Provera e Silvio Berlusconi“, diceva la donna ignorando di essere intercettata. A conferma dell’importanza attribuita al nuovo canale “legale” di investimento, se ne occupa personalmente un esponente di vertice del clan, Antonio Moccia attraverso contatti, ampiamente intercettati, con l’imprenditore di settore Alberto Coppola, coi commercialisti Claudio Abbondandolo e Maria Luisa Di Blasio e col faccendiere Gabriele Coppeta. Coppola utilizzava nelle proprie relazioni commerciali la sua parentela con il camorrista Antonio Moccia , presentandosi all’occorrenza come suo cugino; e lo stesso Moccia qualificava il Coppola pubblicamente come suo “cugino”. Il rapporto tra la Bettozzi e Coppola nacque nel 2017, “tramite un social network” cioè Facebook, su cui la Bettozzi è molto attiva. Coppola “è inserito nel settore della vendita di carburanti e dispone agevolmente di società da utilizzare per le frodi. La Bettozzi, che ben conosce i meccanismi fraudolenti già contestati al marito dal quale ha ereditato l’azienda, non è affatto una sprovveduta nel coltivare un rapporto apparentemente stravagante“. Sarebbe stato Coppola ad introdurre la Bettozzi nel “giro” campano, dove alcune società presentavano finte dichiarazioni di intento d’acquisto, attraverso fatturazioni fittizie. Decine di società che avevano sede in un garage, come emerso dalle indagini, gestite di fatto da personaggi di facciata che si confondevano al telefono anche sul nome delle società che avrebbero dovuto rappresentare. A complicare le indagini agevolate in un primo momento da alcune intercettazioni esplicite e la scoperta di società palesemente fittizie, sono stati alcuni uomini delle forze dell’ordine e dell’agenzia delle dogane che avrebbero rivelato segreti d’ufficio aiutando gli indagati. La Bettozzi che aveva affidato in passato la gestione della sua immagine a Lele Mora, amava trascorrere la vita tra feste nella Capitale e nella villa di Punta Lada a Porto Rotondo, e comparsate in televisione al “Maurizio Costanzo Show” , “Domenica in” e “Quelli che il calcio“, di cui ancora resta traccia su YouTube, pur essendo abituata ad essere seguita dai paparazzi, non aveva capito, che a pedinarla, c’erano anche le fiamme gialle dell’ antimafia ed antiterrorismo che le contestano anche l’aggravante mafiosa. Le indagini delle Fiamme Gialle hanno scovato ed accertato “omessi versamenti di oltre 172 milioni di iva”, più di 12 milioni di accise, 78 mila euro di Ires, per un totale di oltre 185.622 milioni euro. Gli ingenti profitti di denaro sporco incassati dalla Maxpetroli devono essere puliti e gli indagati per farlo utilizzano diversi metodi. Acquistano macchine di lusso, immobili, un mare di denaro nascosto in cassette di sicurezza bancarie. Il denaro sarebbe poi stato reinvestito in attività commerciali, investimenti immobiliari e sponsorizzazioni come quella versata all’attore Gabriel Garko, per “l’attività di promozione pubblicitaria del marchio della società Maxpetroli” quando nel marzo 2019 gli vennero versate 250 mila euro, di cui 150 mila in contanti. Oggi sono state sequestrate circa 100 società, beni di lusso e conti correnti in Ungheria, Bulgaria, Grecia, Malta, Inghilterra e Croazia e su richiesta della Procura di Roma sono stati messi i sigilli a tutti gli impianti della Maxipetroli, un sequestro da 180 milioni di euro che va ad aggiungersi ad altri 180 milioni già nelle mani della Guardia di Finanza. Per capire la caratura del sodalizio è importante la riunione del gennaio 2019, a Vibo Valentia, a cui partecipa tra gli altri un rappresentante dell’azienda di idrocarburi Kmg, la KazMunaiGaz del Kazakistan, due broker arrestati adesso a Milano, Luigi Mancuso dell’omonima famiglia e altri personaggi in odor di mafia. Il tema dell’incontro è molto chiaro: fare arrivare il petrolio in Calabria. A tavola si discute addirittura di creare una boa capace di far attraccare le petroliere, facendo arrivare il petrolio evitando di passare dal porto di Gioia Tauro, una zona sotto il controllo di altre famiglie mafiose non coinvolte nell’affare. Per il procuratore di Napoli, Giovanni Melillo “ancora una volta è stata dimostrata l’insufficienza del concetto di infiltrazione criminale per spiegare la presenza delle associazioni mafiose nel mercato, attraverso una costellazione di aziende che offrono una capacità di garantire servizi illegali come quello messo in atto con società cartiere intestate a prestanome che offrono false fatturazioni, che consentono straordinari profitti” . “L’attività di indagine ha dimostrato come si sviluppa il rapporto tra imprenditori e organizzazioni mafiose“. da detto, nel corso di una conferenza stampa online, il procuratore di Roma  Michele Prestipino. “Questa – ha aggiunto – è stata un’indagine davvero insolita e particolare che ha messo insieme l’intelligenze investigative di quattro uffici giudiziari. La parte romana dell’inchiesta è molto intrecciata con quella della procura di Napoli e ha riguardato l’operatività di un gruppo radicato da anni nella Capitale, che storicamente ha fatto registrare la propria presenza in regime di monopolio dei prodotti petroliferi. Seguendo le vicende di questo gruppo è emersa la presenza di personaggi legati a importanti gruppi di Camorra che hanno fatto da tramite tra questo gruppo imprenditoriale e gruppi di riferimento mafiosi che hanno autorizzato questo rapporto per finanziare il gruppo imprenditoriale traendo vantaggi e profitti”. “Come dicono le intercettazioni ‘il petrolio sta fruttando più della droga’”, afferma il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri. Lo sa bene Antonio Moccia, personaggio di spicco del più antico e potente sodalizio camorristico operante tra Napoli e Roma, che si è occupato in prima persona per mettere le mani sull’affare. “Dove ci sono i soldi le mafie intervengono. Dalla Turchia a Malta vengono proiettati gli interessi degli indagati”, aggiunge Giovanni Bombardieri, capo della procura di Reggio Calabria. Il colonnello Gavino Putzu, comandante del Nucleo PEF della Guardia di Finanza di Roma, ricorda come il petrolio “sospetto”  finiva nelle “pompe bianche” falsando il mercato. L’astuzia dell’organizzazione è dimostrata dal trucco escogitato per trasportare il gasolio per autotrazione spacciandolo come gasolio agricolo, quindi sottoposto ad accise differenti. I camion, rivelano le indagini, erano dotati di leve e pulsanti che facevano esplodere un colorante in grado di cambiare il colore del gasolio per camuffarlo. Riassumendo, quindi, Antonio Moccia, Alberto Coppola e Anna Bettozzi risultano gravemente indiziati di aver stretto un accordo societario di fatto per la commissione di illeciti di cui hanno beneficiato praticamente tutti i soggetti coinvolti; il rapporto con Alberto Coppola è stato fondamentale per la Bettozzi in quanto l’uomo era subentrato nell’azienda in un momento di evidenti difficoltà economiche e gestionali dovute anche ai problemi di salute del marito Sergio Di Cesare. La Bettozzi, infatti, è risultata donna scaltra e molto ben inserita negli ambienti del potere imprenditoriale (e non solo) capitolino, ma tuttavia non all’altezza di sostituire da sola il coniuge, petroliere di collaudata esperienza: il patto con Coppola e Moccia, ha apportato agli affari comuni la competenza “specialistica” del Coppola e soprattutto le provviste finanziare e il sostegno del potere mafioso del Moccia, le une e l’altro non soltanto ben accetti ma anche ambiti e “ricercati” dal mondo affaristico romano.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 9 aprile 2021. C'è la cronaca mondana che diventa giudiziaria, con gli affari occulti tra la cantante-ballerina Ana Bettz e l' attore Gabriel Garko, coppia dello spettacolo fotografata al centro di Roma e intercettata dalla Guardia di finanza mentre contratta pagamenti in nero per una pubblicità. E c' è la storia di una imprenditrice ereditiera - la stessa Ana Bettz, al secolo Anna Bettozzi, vedova del petroliere Sergio Di Cesare - accusata di favorire la camorra, compreso il famigerato clan dei Casalesi. Questo e molto altro svela l' operazione condotta da quattro Procure (Roma, Napoli, Catanzaro e Reggio Calabria) con i Nuclei di polizia economico-finanziaria delle Fiamme gialle e il Ros dei carabinieri, chiamata «Petrol-mafie spa»: frodi fiscali e autoriciclaggio per un valore complessivo di circa un miliardo di euro, che hanno portato all' arresto di circa 70 persone in tutta Italia. Tra le quali Ana Bettz e un pezzo consistente della sua famiglia: due figli, un nipote, il compagno della figlia e l' avvocato dell' impresa. I pagamenti a Garko sono diventati un capo di imputazione: autoriciclaggio aggravato dall' aver agevolato un' organizzazione di stampo mafioso (i Casalesi) perché 150.000 euro consegnati in contanti all' attore sarebbero parte dei guadagni illeciti derivanti dai finanziamenti ricevuti dal clan e riciclati attraverso la frode fiscale nel commercio di gasolio. Agli atti dell' inchiesta c' è una telefonata del 28 febbraio 2019 in cui l' attore (che al momento non figura tra gli indagati) si lamenta con la Bettozzi perché gli è arrivato un contratto da 250.000 euro mentre «doveva essere da 100», cioè centomila. La donna lo rassicura: «Abbiamo detto che dopo strappiamo tutto. Scusa, noi abbiamo stabilito 250... 50 te li ho già dati e rimangono 200», al che Garko chiarisce: «100 in nero e 100 fatturato...sul contrato va messo il fatturato!». Ma al di là dei lati nascosti di un rapporto pubblicizzato sui settimanali rosa, l' indagine della Procura antimafia di Roma ha scoperchiato i finanziamenti occulti alla Maxpetroli (oggi divenuta Made Petrol) con cui la camorra riciclava i guadagni illeciti e correva in aiuto di un' impresa in difficoltà, realizzando un' evasione dell' Iva, dell' Ires e delle accise calcolata in oltre 185 milioni di euro. Dall'inchiesta risulta che il rapporto tra Bettozzi e il tramite della camorra, Alberto Coppola, è nato da un contatto su Facebook e s' è sviluppato facendo entrare nell' impresa ereditata da Ana Bettz i soldi del clan Moccia (tra i più importanti di Napoli), dei Casalesi (attraverso Armando Schiavone apostrofato come «il nipote del barbone», cioè di Francesco Schiavone detto Sandokan) e del clan Micola. Grazie a questi finanziamenti il volume d' affari della Made petrol sarebbe lievitato in tre anni - secondo gli accertamenti della Finanza - da 90 a 370 milioni di euro. In un colloquio intercettato il 4 marzo 2019, la stessa Bettozzi ha in qualche modo confessato le sue relazioni pericolose, mentre cercava di convincere la sorella Piera a desistere dal progetto di aprire un deposito di carburanti: «A Piè, io dietro c' ho la camorra! Tu dove c... vai... Te stanno a pijà per il c... Lo sai quanto c' ha in giro Felice (...). E io controllo che sia borderline, quasi regolare... Sai quanto c' ha in giro! 15 milioni al giorno, quell' altro 5 milioni, io altri 5 e insieme c' abbiamo 15 e 10, 25/30 milioni al giorno! Tu dove c... vai? (...) Sei responsabile sempre te... Tu la legge, ti danno l' associazione...». Felice è verosimilmente Felice D' Agostino, trentanovenne pugliese introdotto nella Maxpetroli da Coppola, fidanzatosi con Virginia Di Cesare (figlia di Ana Betz) da cui ha avuto un bambino, finito anche lui in carcere con l' accusa di associazione a delinquere. Come paventato dalla stessa Bettozzi, che l' 11 maggio 2019 ebbe un primo complicato incontro con la Guardia di finanza. Stava andando in Francia, al festival di Cannes, e fu fermata mentre passava la frontiera a Ventimiglia su una Rolls Royce guidata da un autista. I militari controllarono l' interno dell' automobile e trovarono 300.000 euro in contanti nascosti in uno stivale a coscia alta. La donna si attaccò al telefono con l' avvocato Ilario D' Apolito (altro arrestato nell' operazione di ieri) che gli ripeteva: «Ma la chiave ce l' hai tu?... Mettila in tasca ad Augusto (l' autista, ndr )...». Parlava della chiave delle cassette di sicurezza dell' hotel Gallia di Milano, dove poche ore più tardi i finanzieri scoprirono banconote per un altro milione e 700.000 euro. «Come hanno fatto a trovare le chiavi? - si rammaricò subito dopo l' avvocato -. Glielo avevo detto pure ad Augusto, mettitele nelle mutande...».

Candida Morvillo per "corriere.it" il 10 aprile 2021. Era marzo dello scorso anno, un attimo prima che scattasse il lockdown e, a Roma, i paparazzi di Novella 2000 immortalavano un bacio nella notte fra Gabriel Garko e Ana Bettz. L’attore e la donna, vistosa vedova di petroliere, uscivano da un ristorante e s’involavano poi in una Bentley. «A ben vedere, si direbbe che non abbiano discusso soltanto di lavoro», scriveva il settimanale, sottolineando che lei era miliardaria, oltre che ballerina e cantante. C’erano le premesse di un romanzo rosa, ma ora siamo al romanzo criminale, con lei accusata di essere in affari con la camorra, lui sospettato di aver incassato da lei 150mila euro in nero. Ufficialmente, per girare uno spot, forse, chi sa, per lanciare lo spot con un fidanzamento a contratto. Essendoci stato di mezzo un coming out con effetti retroattivi, il dubbio è lecito. Un anno fa, però, i due provavano ancora a far sognare. Prima che tutto chiudesse, comparivano su un tappeto rosso, Gabriel in smoking, Ana con un abito da sera nero, effetto belvedere sul décolleté. «Lo amo incondizionatamente», dirà Ana, sempre a Novella 2000. Specificando che quella invitata sul red carpet era lei, non lui. E giù con la storia dell’incontro fatale: «Ho conosciuto Gabriel tramite sua sorella che è una terapista eccezionale. Eravamo a Roma, un paio di anni fa. Ci siamo presi un aperitivo all’aperto. Lui era ancora fidanzato con Adua Del Vesco». Il giornalista chiedeva: pensate di sposarvi? «Never say never…». Mai dire mai. Dovevano girare insieme un filmato pubblicitario, poi rinviato a causa del Covid, per la Made Petrol Italia, il colosso ora al centro di un’inchiesta condotta da quattro procure e denominata Petrol Mafie Spa. Garko doveva vestire i panni di 007, Ana quelli di una Bond Girl, colonna sonora: un brano cantato da lei, prodotto nientemeno che da Craig David. Annuncio plausibile: ad Ana i soldi non mancavano. Tant’è che, ora, si parla di frodi fiscali da un miliardo di euro, 70 persone sono gli arresti, inclusa Bettz, subito finita ricoverata per un malore. Garko non è indagato. Vedrà il suo avvocato oggi e la sua manager Nadia Bravo fa sapere che «non ha dichiarazioni da fare». I suoi pagamenti, però, sono diventati un capo di imputazione: autoriciclaggio aggravato dall’aver agevolato un’organizzazione di stampo mafioso, i Casalesi, perché 150mila euro del compenso sarebbero stati consegnati in contanti all’attore e sarebbero frutto di guadagni illeciti che derivano dai finanziamenti ricevuti dai clan e riciclati attraverso una frode fiscale nel commercio del gasolio. Agli atti dell’inchiesta, c’è un’intercettazione del 28 febbraio 2019, prima del bacio fatale davanti alla Bentley. Garko si lamentava con Ana che gli era arrivato un contratto da 250 mila euro e non erano quelli gli accordi: «Doveva essere da cento». Lei lo rassicurava: «Dopo, strappiamo tutto. Scusa, noi abbiamo stabilito 250… 50 te li ho già dati, rimangono 200». E Garko specifica: «Cento in nero, cento fatturati. Sul contratto, va messo il fatturato!». Stanotte, Garko deve aver dormito poco e male. Oggi, vedrà il suo avvocato, probabilmente lo stesso che lo sta supportando sull’Ares Gate, lo scandalo sulla presunta setta che ruota attorno al produttore Alberto Tarallo e al sospetto d’istigazione al suicidio di Teodosio Losito, ex di Tarallo. È con loro che Garko ha girato le sue fiction di maggiore successo, e il 12 marzo è stato sentito dalla Procura di Roma come persona informata sui fatti. Anche in questa vicenda non è indagato. Dopo quelle quattro ore di interrogatorio, ha cercato di starsene il più possibile defilato, nella villa di Zagarolo, fuori Roma, coi suoi due cavalli, i quattro gatti, un cane lupo, un alano e un acquario da 8mila litri d’acqua pieno di pesci tropicali. Zero interviste, zero apparizioni tv. Pensare che solo pochi mesi fa, aveva fatto una scelta che contava di aprirgli una nuova vita, «senza segreti, senza bugie» aveva detto. Il coming out in diretta tv, al Grande Fratello Vip, a settembre, lo aveva liberato dal peso di quello che lui stesso, quel giorno, ha definito «il segreto di Pulcinella»: per anni, si era detto eterosessuale, pur di restare il sex symbol di tante fiction, mostrandosi fidanzato ora con Eva Grimaldi ora con Adua Del Vesco. Ora con Ana Bettz. Proprio in queste settimane, era in corso la prova del nove: un nuovo ruolo da attore, utile a verificare che il coming out non aveva intaccato la sua credibilità come attore, come per anni aveva temuto. Il 13 marzo, Garko aveva postato su Instagram una foto in camice verde: «Oggi prove da dottore». Sul set sarà un eroe da corsia. Ma ora, fuori dal set, l’impresa è uscire pulito e a testa alta dal brutto affare dei soldi in nero e della Petrol Mafie Spa.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 9 aprile 2021. E dunque, come da blitz della Guardia di Finanza, accade in Italia che fra Trash e Cash ci siano più cose e più soldi di quante se ne potevano sognare abbagliati da luce, lusso, carne, spettacolo e visibilità. Nel senso che un tempo i magheggi petroliferi, non certo una novità, si combinavano nel buio più pesto, erano una roba di misteri, segreti, anonime vergogne. Quando venne fuori il primissimo scandalo, metà anni 70, i protagonisti che avevano mollato quattrini ai partiti per frodare legalmente il fisco erano illustri sconosciuti. E anche in seguito - ancora traffici illegali, dribbling tributari, dossier Mifobiali, fino all' affaire Eni-Petromin - tutto avveniva rigidamente al coperto, di solito con la degna supervisione di spioni, faccendieri, massonerie e consorterie assortite. Basti pensare all' enigmatico romanzo di Pier Paolo Pasolini, Petrolio appunto, e alle verità postume che nascondeva, alcune forse addirittura fatte sparire con destrezza da occulti manovratori. Ecco. Con la vicenda di questa Ana Bettz, a suo dire un' artista e show woman, e con la collaborazione straordinaria e marketizzante dell' ex modello e attore Dario Oliviero, al secolo Gabriel Garko, il ribaltamento degli impicci petroliferi può dirsi compiuto e definitivo. All' altezza di un tempo forse lurido e sfarzoso, verrebbe da aggiungere con una punta di moralismo, ma certamente incardinato sull' eccesso di ribalta e vetrina, oltre che sovraccarico rispetto ai suoi stessi orizzonti e obiettivi. Una tale smania di stupire per farsi ammirare, una tale volontà di ostentazione da far sorgere il sospetto che tutta la luccicante impalcatura esibizionistica fosse montata come arma di distrazione, perfino di massa, per coprire il vero core-business e i suoi poco raccomandabili interlocutori campani - che su queste frenetiche apparenze, magari, sono già più scettici. Chi ha un quarto d' ora di tempo e un soldino di curiosità può agevolmente raggiungere la pagina "official" di Ana Bettz su Instagram; e lì dentro, ripensando all' andirivieni di borsoni pieni di banconote e all' ordinaria evasione fiscale, farsi un' idea di come l' odierna civiltà dell' immagine si dispieghi con brillantezza occultando le magagne che pure tutti ci portiamo appresso - però qui sotto i morbidi tappeti, i soffitti e le dorature Casamonica style, gli aerei privati, i motoscafoni, le auto da sceicchi, gli alberghi a otto stelle, le mazze da golf maneggiate come scettri di un piccolo grande reame virtuale, ma fino a un certo punto. E davvero qui non si vorrebbe peccare di maschilismo, ma ci si soffermi anche sulle pose d' esorbitante erotizzazione, l' abbondanza di cuoio, le trasparenze invasive, gli altissimi tacchi, la magia della cosmesi, la spiritualità della chirurgia, "the body" è l' auto-sintesi. Una vita in posa nella società dell' imperativo estetico e della prestazione; una messa in scena che va oltre le velleità e forse anche i successi artistici del soggetto, per cui vale la pena notare anche un singolare comparto Bettz "per il sociale": lei col bimbo nero in braccio, "stop violenza sulle donne" e naturalmente la pandemia acchiappata al volo con "una campagna di solidarietà per gli italiani" e l' immancabile "appello" a Mattarella, Conte e Speranza. Dolce nel fondo: il gossip, donde l' ampio servizio illustrato sul "bacio nella notte" - artificiosamente paparazzato - fra lei e Garko. Questi reca alla triste e vistosa fiaba idrocarburica un' Italia antica, cicisbea, ma anche iper evolutasi nel sogno del divismo di bocca buona costruito da vecchie glorie press agent e scaltri e cinici produttori. Mai, bisogna riconoscere, il mondo dello showbiz è stato un modello etico e di maturità, così come da sempre la bellezza funziona come una scorciatoia obbligatoria e spesso sfruttata ben oltre qualsiasi fraintendimento. Né mai nessuno proporrà Garko senatore a vita. Però la franca risolutezza del suo negoziare, così autentico e anche duro nelle intercettazioni, distrugge e insieme sbeffeggia la scena madre e le lacrime di Gabriel che Alfonso Signorini, reuccio del GF, ha propinato qualche mese fa a diversi milioni di italiani. Al dunque la nebulosa trash si è estesa ben oltre i confini originari. S' è fatta economia clandestina, ricca pattumiera, reginetta del cash.

Valentina Errante per “il Messaggero” il 9 aprile 2021. Parlava con tutti al telefono Anna Bettozzi, ereditiera del petroliere Sergio Di Cesare, ex cantante e ballerina. Ana Bettz, come si faceva chiamare sulla scena, parlava con quelli che definiva gli zingari, perché collegati ai Casamonica, e con Gabriel Garko, uomo immagine della sua nuova società petrolifera, che doveva pagare con 100mila euro in nero. Vantava soci come Tronchetti Provera e Berlusconi, ma di fatto a fare iniezioni di liquidità alla sua società era stato il boss Antonio Moccia, con almeno 500mila euro cash consegnati in un bar di Napoli, attraverso il cugino Alberto Coppola. E alla sorella, Ana, diceva: «Ah Piè, io dietro c' ho la camorra». Ed era vero, almeno secondo la procura e il gip di Roma, che ieri l' hanno mandata in carcere con l' accusa, tra l' altro, di essere a capo di un' organizzazione criminale legata alla mafia. Una mega inchiesta, che ha visto lavorare il procuratore Michele Prestipino e l' aggiunto Ilaria Calò e le Dda di Napoli, Catanzaro, Reggio Calabria. Il volume d' affari della società petrolifera della Bettozzi, grazie ai capitali riciclati, aveva visto crescere il fatturato di 45 volte in 36 mesi, da 9 a 370 milioni. Petrolmafie, si chiama l' operazione condotta dai reparti territoriali della Guardia di finanza e dallo Scico, che hanno ricostruito un complesso meccanismo di frode fiscale nel settore degli oli minerali, e hanno portato a 56 arresti, 15 fermi e al sequestro di beni per quasi un miliardo di euro. Il comune denominatore delle quattro inchieste era la «nefasta sinergia» tra mafie e colletti bianchi che avrebbero consentito a camorra e ndrangheta di far fruttare al massimo le frodi fiscali. Al centro delle indagini romana e napoletana la società Max Petroli poi trasformata nella Made Petrol Italia, diretta da Virginia Di Cesare, figlia della Bettozzi ma, di fatto, secondo gli investigatori, sempre controllata dalla madre. Iniezioni di liquidità sarebbero arrivate, sempre attraverso Coppola anche dai casalesi. Ma la Bettozzi, fermata nel 2019 alla frontiera di Ventimiglia con 300mila euro in contanti nascosti nella sua Rolls Royce (un milione e 400 mila euro è stato trovato più tardi nell' albergo dove alloggiava) non ha mai ceduto il comando: «È ancora lei - scrive il gip - che riesce a mantenere saldamente nelle mani della propria famiglia il deposito della Maxpetroli (poi Made Petrol) resistendo senza difficoltà alle pressioni del Coppola che, anche forte della provvista di denaro a lui messa a disposizione dal clan Moccia, cerca di insinuarsi nel deposito romano, acquisendo una forma di partecipazione societaria che la Bettozzi prontamente respinge, mantenendo nelle proprie mani le redini del comando». La frode fiscale si consumava attraverso la sospensione di imposte, prevista per gli idrocarburi, ma lo stoccaggio avveniva utilizzando decine di società fittizie, collocate in garage, che non pagavano l' Iva e le accise al momento dell' immissione sul mercato. La contestazione per la Bettozzi riguarda 180 milioni di euro. Autoriciclati nella società. «Scusa, noi abbiamo stabilito 250, 50 te li ho già dati e rimangono 200: 100 in nero e 100 fatturato, sul contratto va messo solo il fatturato!». I soldi per lo spot destinati a Gabriel Garko erano sempre quelli della Max Petroli, autoriciclati, secondo il gip. «Si era parlato del contratto in un certo modo - dice Garko al telefono alla Bettozzi - poi a me è arrivato un contratto fatto in un altro». E così la Bettz spiega e l' attore ribadisce: «100 in nero e 100 fatturato, sul contratto va messo solo il fatturato». Scrive il gip, emerge «la stipula di un contratto per la realizzazione di uno spot pubblicitario tra Anna Bettozzi e l' attore Gabriel Garko in cui parte del corrispettivo pattuito, pari a 150.000 euro, è stato versato in denaro contante». Era fiera di sé Ana Bettz, si vantava di avere imparato come gestire gli affari: «Io ho creato un impero tu ti fidi di me, io ho creato un impero nel mio piccolo, rispetto a Berlusconi nessuno..» dice in un' altra telefonata intercettata. Evanta anche le sue amicizie. Nel marzo 2018, la donna dice sempre al telefono: «Io oggi non ho risposto quattro volte a Berlusconi, l' ultima chiamata da Arcore perché mi chiamava con il privato, io non ho risposto in quanto sono incazzata con lui».

Annalisa Grandi per corriere.it il 17 maggio 2019. Il suo nome d’arte è Ana Bettz. All’anagrafe Anna Bettozzi, 59 anni, imprenditrice e cantante sarda, vedova del petroliere Sergio Di Cesare, nonché cantante, è stata fermata dagli agenti della Guardia di Finanza a Ventimiglia a bordo di una Rolls Royce. Aveva con sé 300 mila euro in contanti.

I soldi. Le Fiamme Gialle a quanto si è appreso avevano seguito l’auto sin dalla partenza: oltre ai 300 mila euro trovati a bordo, ne sarebbero stati trovati un altro milione e 700 mila in un luogo che non è stato svelato. La donna, imprenditrice e cantante, è ora indagata per riciclaggio dalla Procura di Imperia che vuole fare luce sulla provenienza di quel denaro. L’operazione è coperta dal massimo riserbo.

Chi è. Anna Bettozzi, nata a Porto Rotondo, come vicino di casa in Sardegna aveva Silvio Berlusconi, e per la prima parte della sua carriera si era dedicata al settore immobiliare: all’epoca, come racconta «Il Secolo XIX» aveva i capelli neri e pubblicizzava «Le case firmate». Poi, la svolta: Anna si dà al mondo della musica e dello spettacolo, nome d’arte Ana Bettz, capelli biondi e balli scatenati nei suoi video. Per citarne uno, «Ecstasy», primo singolo del 1997, realizzato dal produttore dei videoclip di Madonna e Michael Jackson. Nel 2011 è stata anche presenza fissa a «Quelli che il calcio». Un nome noto, insomma. Vedova del petroliere Sergio Di Cesare, nel 1999 insieme al marito era stata sequestrata per una notte nella villa in cui i due vivevano, al Quarto Miglio, a Roma. I rapinatori avevano portato via soldi e oggetti preziosi per un valore totale di circa 100 milioni delle vecchie lire.

Gianni Barbacetto per ''il Fatto Quotidiano'' il 18 maggio 2019. Lele Mora è preoccupato: come agente di spettacolo e come petroliere. Sì, anche come petroliere. Il motivo della sua preoccupazione? Un' operazione della Guardia di finanza di Imperia, che ieri ha fermato alla frontiera di Ventimiglia una Rolls Royce e ha sequestrato 2 milioni di euro in contanti. Sull' auto viaggiava Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz, bionda, cantante, ballerina, amica di Lele Mora che un tempo l' aveva nella sua scuderia di artisti. Oggi Ana Bettz è più che altro donna d' affari e di petrolio. Perché ha sposato il petroliere Sergio Di Cesare, di cui è diventata vedova, erede e continuatrice d' imprese commerciali e finanziarie. Le Fiamme gialle sono andate a colpo sicuro: seguivano la sua Rolls Royce e quando l' hanno bloccata al confine tra Italia e Francia hanno trovato nella vettura, senza troppo cercare, 300 mila euro in contanti. Contemporaneamente hanno sequestrato un altro milione e 700 mila euro in un luogo che i magistrati della Procura di Imperia, che indagano per riciclaggio, hanno mantenuto segreto. Ora l' inchiesta dovrà svelare da dove vengono quei soldi, quali erano i meccanismi del riciclaggio e chi ne era coinvolto. Nata a Porto Rotondo, in Sardegna, 59 anni fa, Anna Bettozzi aveva i capelli nerissimi quando faceva pubblicità per un' agenzia che vendeva "case firmate" in Sardegna. Poi diventa bionda, si trasforma in Ana Bettz e nel 1997 incide in California il suo primo singolo, Ecstasy, con un video realizzato dal produttore dei videoclip di Madonna e Michael Jackson.

Sposa Sergio Di Cesare, discusso petroliere della Europetroli. Nel 1999, Anna e Sergio subiscono nella loro villa di Roma, al Quarto Miglio, un sequestro-lampo che dura una notte e si conclude all' alba con i rapinatori che se ne vanno portando via soldi e oggetti preziosi per circa 100 milioni di lire. Nel 2011 è ospite a Quelli che il calcio, dove lancia il suo ultimo brano, Move On, e il suo ultimo album, The One. Una carriera musicale non indimenticabile. Ma negli affari va anche peggio. Nel 2015 suo marito viene arrestato per contrabbando di prodotti petroliferi ed evasione delle accise. Nell'agosto 2018, Di Cesare muore e Anna assume la guida di fatto delle sue società. Due mesi dopo, partecipa alla fiera "Oil&Nonoil", a Verona, con un grande stand dell' azienda Max Petroli Italia. Due le presenze nello stand che non passano inosservate: una Ferrari "edizione limitata" e un Lele Mora in versione petroliere. Sì, perché la Max Petroli è controllata dalla figlia di Di Cesare, Virginia, 25 anni, ma a "curarne l' immagine" è l' ex agente delle star, già condannato per bancarotta e per bunga-bunga. Intervistato in quell' occasione, Lele Mora spiega perché si trova in quello stand: "È un modo come un altro per stare vicino a un' amica, Ana Bettz. Del resto, io di petrolio so tutto: da parecchi anni faccio affari con tante società importanti con la Somo", la società petrolifera dello Stato iracheno. "Affari commerciali. Lavoro con il Kurdistan, col crude oil. Ed ero anche molto amico di Chavez: la Pdvsa venezuelana era una società magnifica. So che la Max Petroli è chiacchierata, ma adesso Sergio è mancato e ha lasciato tutto alla moglie che sta pagando tutti i debiti". Ecco dunque l' uomo che è stato condannato per aver portato ad Arcore le ragazze del bunga-bunga risorto nei panni del petroliere di successo. Anche in queste vesti, Lele Mora ora ha da preoccuparsi per il blitz della Rolls Royce.

Dagonews il 23 luglio 2020. A 'sto punto, avrà pensato Cosimo Maria Ferri, tanto vale divertirsi. Il magistrato, già sottosegretario alla Giustizia e attualmente deputato di Italia Viva, era con il suo amico Luca Palamara alla festa di compleanno della giornalista di giudiziaria Rita Cavallaro, a pochi passi da piazza Venezia. Sulla terrazza gran calca di giornalisti di giudiziaria (Valentina Errante del "Messaggero" e Brunella Bolloli di "Libero"), la pierre Monica Macchioni e Fabrizio Caccia del "Corriere", l'attore Francesco Testi e il vetenirario dei vip Federico Coccia, la mitologica Olga Bisera, finanzieri e carabinieri ben graduati, che hanno accolto strabuzzando gli occhi la guest-star del compleanno: Ana Betz, al secolo Anna Bettozzi, sventolona ormai in pensione nota meno per le sue canzoni e più per aver ereditato la fortuna del petroliere Sergio Di Cesare. Noi non siamo bacchettoni: non c'è niente di male a uscire con gli amici di sera. Certo, i due sono al centro di un'indagine scottante che coinvolge una buona parte della magistratura, quindi forse qualche attenzione in più ci vorrebbe. Ma il dettaglio che rende la faccenda più seria è che la sedicente cantante un anno fa è stata fermata al confine tra Italia e Francia a bordo di una Rolls Royce con 300mila euro in contanti, ha subìto il sequestro di un altro milione e 700mila euro, ed è indagata per riciclaggio. È chiaro che uno non può conoscere il casellario giudiziario di tutti i partecipanti a una festa, ma almeno quello della guest-star, che finì su tutti i giornali pochi mesi fa, sarebbe bene tenerlo a mente. Anche perché i magistrati hanno un obbligo deontologico di stare attenti alle loro frequentazioni fuori dalle aule di tribunale. Ma avendo visto, Ferri e Palamara, le loro conversazioni spiattellate su migliaia di pagine di intercettazioni, ed essendo dunque ampiamente sputtanati, ormai avranno mollato gli ormeggi…

L'operazione. Anna Bettozzi in arte Ana Bettz, l’ex cantante coinvolta nell’inchiesta Petrolmafie Spa. Vito Califano su Il Riformista il  9 Aprile 2021. È al centro di un’inchiesta, un’operazione enorme e delicata denominata Petrolmafie Spa, Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz. È stata arrestata. Una settantina di persone sono state destinatarie di misure cautelari personali nell’ambito della vicenda. Le ordinanze emesse dai gip di Napoli, Roma, Palermo e Reggio Calabria. Sequestrati beni per un miliardo di euro. Bettozzi è stata anche una cantante, Ana Bettz il suo nome d’arte, vedova del petroliere Sergio Di Cesare. È stata arrestata. Bettozzi ha anche un passato da immobiliarista. Nota anche per le sue lussuose feste. È stata spesso ospite in televisione, al Maurizio Costanzo Show e a Quelli che il Calcio, durante la sua carriera di aspirante popstar. Ha inciso alcuni singoli e un concerto al teatro Sistina di Roma nel 1999. In quegli anni lavorò con professionisti del calibro del coreografo Franco Miseria, del coreografo Luca Tommassini, del producer di Celine Dione e Cher Kofi e di David Foster. ”Ho tenacia sono del leone, stesso segno zodiacale di Madonna, alla quale mi paragonano”, dichiarò in occasione del concerto. Bettozzi fu fermata già nel 2019 quanto passava la frontiera con la Francia a Ventimiglia, per andare al Festival di Cannes, e i militari trovarono 300mila euro in contanti nascosti in uno stivale a coscia alta. Nelle cassette di sicurezza dell’hotel Gallia di Milano, dove soggiornava, i finanzieri trovarono poi contanti per un milione e 700mila euro. La Made Petrol Italia Srl, ex società Max Petroli, della quale Bettozzi sarebbe stata amministratrice di fatto secondo l’accusa, figura tra i beni sequestrati. L’operazione è stata coordinata dalle Dda di Roma, Napoli, Catanzaro e Reggio Calabria. Tra le 70 persone coinvolte nel caso anche due figli, un nipote, il compagno della figlia e l’avvocato dell’impresa. Bettozzi è accusata di favorire la Camorra, in particolare i clan dei Casalesi, dei Moccia, dei Micola. L’accusa riguarda frodi fiscali e autoriciclaggio per un valore complessivo di circa un miliardo di euro. Capo d’imputazione anche i pagamenti a Gabriel Garko: 150mila euro che secondo le indagini, riporta Il Corriere della Sera, farebbero parte dei guadagni illeciti derivanti da finanziamenti ricevuti dal clan e riciclati attraverso frode nel commercio di gasolio. Il pagamento in nero, stando all’accusa, per una campagna pubblicitaria della Made Petrol. Garko non è indagato. L’operazione dei Nuclei di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza e del Ros dei Carabinieri avanza dei presunti finanziamenti occulti alla Made Petrol attraverso la quale la Camorra riciclava i suoi guadagni e sosteneva un’impresa in difficoltà. Per la Finanza il volume di affari della società è passato in tre anni da 90 a 370 milioni di euro.

Concita De Gregorio per “la Repubblica” il 10 aprile 2021. La signora Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz, faceva transitare i denari oltreconfine nascondendoli (300mila euro) in "uno stivale a coscia alta". Il suo avvocato si raccomandava all'autista (Augusto, non Ambrogio, alla guida di una Rolls Royce, comunque) di mettere la chiave della cassetta di sicurezza "nelle mutande". Da anni mi chiedevo come potesse esserci tutto questo smercio di stivaloni lunghi un metro nella brevilinea popolazione italica. Non donano, è vero, ma rendono - capisco adesso. Sceneggiatori in crisi d'identità alla lettura delle cronache. L'eredità del marito petroliere premorto, i Casalesi, Gabriel Garko stipendiato (se capisco bene) per fingersi fidanzato, la villa in Costa Smeralda adiacente a quella di Silvio, le terrazze romane danzanti e fra gli ospiti il giudice Palamara, magistrato già noto per altre frequentazioni. Le ambizioni canore non baciate dal successo anche per via di un talento distribuito in modo diseguale: più vivace per gli affari, meno per l'arte. La lingua, poi, immortalata nelle intercettazioni: "A Pie', io dietro c'ho la camorra. Tu 'ndo co vai". E la divisa da lavoro, dove lo stivalone all' inguine è il dettaglio sobrio. Colpisce, in questo stile di vita - chiamiamolo così, al netto dei reati contestati all'arresto - l'assoluta impermeabilità alle tragedie che colpiscono il 98 per cento della popolazione, come se l'epidemia e il lockdown lì non attecchissero. Colpisce anche che il restante 2 per cento siano sempre gli stessi. In un missaggio psichedelico di mafie showbiz magistrati ex presidenti del Consiglio ecco riaffacciarsi Sandokan, della dinastia degli Schiavone, e persino il caro Lele Mora, in un cameo.

Andrea Ossino per “la Repubblica - Edizione Roma” l'11 aprile 2021. I Casamonica sono stati messi in fuga dagli "amici", dalla famiglia mafiosa dei Moccia. Lady petrolio ha potuto godere della protezione della cosca di Afragola trapiantata a Roma. E grazie ai capitali della camorra l'impero petrolifero ereditato dal marito ha potuto superare la crisi di liquidità. Ma dal carcere di Teramo adesso Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz, rispedisce le accuse al mittente. «Ho commesso degli errori e sono pronta a pagare, ma non mai avuto nulla a che fare con la criminalità organizzata», ha detto in occasione del suo interrogatorio di garanzia. Collegata da remoto dal penitenziario abruzzese, l'ex strarlette accusata di essere al vertice di un'associazione a delinquere che avrebbe frodato l'Iva e le accise vendendo carburante di contrabbando e riciclando anche denaro, si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Davanti al gip Tamara de Amicis ha reso solo dichiarazioni spontanee. «Non ho mai conosciuto nessuno che facesse parte della criminalità organizzata - ha sostanzialmente detto la donna - Parlavo sono con Alberto Coppola, ma per motivi lavorativi». Le intercettazioni acquisite dalla finanza raccontano un' altra storia. «Aho a Piè. Io c ho dietro la camorra. Tu, esattamente, 'ndo ca... vai?», diceva alla sorella non sapendo di essere intercettata. Sarà difficile per i legali della donna, i penalisti Paola Balducci e Pierpaolo Dell' Anno, fare cadere l'accusa di mafia che quattro diverse procure contestano alla Bettozzi. E poi ci sono i reati fiscali. «A livello tributario sono pronta a pagare e saldare quando devo, sono disposta anche a vendere la mia stessa casa», ha detto al gip. « Si tratta di un'operazione che era già in atto - affermano i difensori - è stato nominato un consulente esperto, un professionista romano incaricato di restaurare i debiti aziendali, quantificando il dovuto per mettere in regola la società. Quando verificheremo i debiti aziendali offriremo alla procura un risarcimento del danno. Nel frattempo ricorreremo al tribunale del Riesame». L'indagata, durante le sue dichiarazioni, ha anche parlato del figlio finito in carcere: «Sono preoccupata per lui, non c'entra nulla, era nella società da poco tempo, è un ragazzo giovane e sensibile e adesso che è in carcere ho paura per la sua salute».

The show must go on. Bettz capomafia e Garko suo sgherro, i giornali crocifiggono la coppia su ordine della procura. Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Aprile 2021. L’Europa ha detto all’Italia che deve applicare il principio di presunzione di innocenza, quando qualcuno viene indagato o processato. E che non va bene che siano i Pm, cioè l’accusa, ad informare l’opinione pubblica sul perché quel tizio, o quella signora, è sicuramente colpevole. L’Italia ha recepito l’indicazione con un solenne voto del Parlamento. Forse un po’ pleonastico, visto che in verità l’idea della presunzione di innocenza è scritta chiara chiara nella Costituzione. Però meglio ripetere. E subito dopo il voto, effettivamente, è calato il silenzio. Basta scandali basati solo su un avviso di garanzia, e basta accuse fondate su indizi o sulle tesi della pubblica accusa. Il silenzio è durato, appunto, 48 ore. Anche perché in quelle 48 ore, disgraziatamente, le Procure non sono riuscite a portare a termine nessun arresto eccellente. Finite le 48 ore è scattato l’arresto di una miliardaria molto bella e molto nota, che oltretutto, forse, è fidanzata con Gabriel Garko, attore anche lui celebre e bello. A questo punto la presunzione di innocenza, per cause di forza maggiore, è stata sospesa. I Pm hanno fornito ai giornali tutti gli elementi necessari per crocifiggere i due, in particolare Ana Bettz, e i giornalisti, come fanno di solito anzi quasi sempre, hanno impacchettato i due e descritto per filo e per segno tutte le loro colpe. In un articolo del più importante giornale italiano c’è scritto, facile facile, che il “romanzo rosa tra i due si è trasformato in romanzo criminale”. Lei, se capisco bene, è un’influente capomafia, o forse capocamorra, lui un suo sgherro, quantomeno evasore fiscale ma probabilmente anche riciclatore, un po’ concorrente esterno, anche se al momento non ha ricevuto neppure un avviso di garanzia. Le intercettazioni scorrono impetuose come torrenti, sono anche molto gustose, tengono ferma la linea tracciata tempo fa da un settimanale rosa che aveva beccato Ana e Gabriel mentre si davano un bacio. Il settimanale rosa però aveva almeno fatto la fatica di trovarsela da solo la notizia, i Grandi giornali invece l’hanno avuta già confezionata dalle Procure e l’hanno copiata. E la Costituzione? E le raccomandazioni dell’Europa? E il voto del Parlamento? Provate a chiederlo negli uffici di una Procura o nelle stanze delle redazioni giudiziarie dei giornali. Vi guarderanno come dei marziani, non tratterranno il sorriso. “Che c’entra la Costituzione, ragazzo, questo è il giornalismo. E il giornalismo ha il dovere di informare, non può fermarsi di fronte ai grandi principi dello Stato liberale. Mica avrai creduto davvero a quel voto del Parlamento?” Voi ci avevate creduto? Beh, allora più che ingenui siete un po’ scemi. Né i Pm né i giornalisti rinunceranno mai al loro vero potere: condannare senza processare, mettere alla gogna a proprio piacere, fare scandalo, suscitare emozioni e voglia di manette e forca. Rassegnatevi. P.S. Cambiando argomento: era necessario arrestare il dottor Marcello Grasso? Era utile, questo la capisco, perché il dottor Marcello è fratello del senatore Pietro Grasso e dunque la notizia del suo arresto è un bel boccone per i giornali. Ma era necessario? C’erano le condizioni che rendevano necessario il carcere? Forse sì, ma non ne sono affatto sicuro.

‘a Piccerella e la storia della valigetta da 300 milioni per convincere l'affiliato. Maria Licciardi e Costantino Sarno: ‘mamma camorra’ al 41bis, il pentito che ritrattò scarcerato: “Nell’Alleanza non collabora nessuno”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 10 Dicembre 2021. Da una parte Maria Licciardi, la “mamma camorra” (ribattezzata così dagli investigatori) fermata il 7 agosto scorso e spedita a 70 anni al 41bis, il carcere duro, perché riveste ancora una “posizione di responsabilità” e “risulta essere in grado di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell’organizzazione criminale di appartenenza”. Dall’altra la scarcerazione dopo 24 anni, e il passaggio agli arresti domiciliari fuori Napoli, di Costantino Sarno, elemento apicale dell’Alleanza di Secondigliano, la confederazione di famiglie malavitose guidata dai Licciardi, Contini e Mallardo che, secondo la procura di Napoli, continua a guidare quasi incontrastata (dall’altro lato c’è il clan Mazzarella con il quale è stato raggiunto negli ultimi anni una sorta di accordo per tutelare gli affari illeciti e allontanare la pressione delle forze dell’ordine) la camorra partenopea, mantenendo un ascendente determinante sui piccoli clan che gestiscono, o provano a farlo, piccole porzioni di territorio. Sarno (nato il 7 dicembre del 1953), arrestato nel giugno del 1997 dopo cinque anni di latitanza, iniziò a collaborare con la giustizia per pochi mesi salvo poi ritrattare tutto, approfittare di un permesso premio per darsi alla macchia ed essere nuovamente arrestato nel febbraio del 1998 in provincia di Venezia. “Per le estorsioni sul bancolotto esisteva una società tra noi (i Licciardi), i Mallardo e i Contini: 40-30-30” queste le sue parole ai magistrati l’8 luglio del 1997, prima del clamoroso dietrofront che, così come ricordato recentemente dal procuratore di Napoli Giovanni Melillo, porta l’Alleanza di Secondigliano a non avere pentiti di spicco tra le sue fila. Un particolare che giustificherebbe le radici profonde dell’Alleanza di Secondigliano nel tessuto economico e sociale della città di Napoli e non solo. “Non è un caso – ha sottolineato Melillo – che mai negli ultimi 30 anni figure di rilievo delle famiglie mafiose che reggono le redini di quel cartello abbiano rotto il patto di omertà che li accomuna”.

Costantino Sarno qualche anno prima dell’arresto entrò in forte contrasto proprio con i Licciardi nell’area a nord di Napoli. Al centro dello scontro il contrabbando di sigarette. Padrino di Miano e San Pietro a Patierno, fu protagonista di una violenta faida con il clan Stabile prima delle tensioni proprio con i Licciardi che portarono alla scomparsa per “lupara bianca” di quattro fedelissimi di Sarno (Roberto Rosica, Arturo Galiano, Nicola Mirti e Walter Mallo, zio omonimo del giovane arrestato negli anni scorsi dopo aver sfidato a Miano e nel rione Don Guanella il clan Lo Russo). La decisione di collaborare inizialmente con la giustizia potrebbe essere stata dettata da quest’ultimo episodio. I pm, per la prima volta, potevano entrare nelle strette maglie dell’Alleanza di Secondigliano e conoscerne il modus operandi. Ma la fattiva collaborazione di Sarno durò pochi mesi “perché verosimilmente qualcheduno gli ha offerto centinaia di milioni delle vecchie lire per comprare il suo silenzio e 24 anni di galera che si è fatto fino a poche settimane fa” ha recentemente spiegato Alfredo Fabbrocini, capo della Squadra Mobile di Napoli.

Il riferimento è al gennaio del 1998 quando Maria Licciardi, soprannominata ‘a Piccerella (la piccolina) per il fisico minuto e la statura bassa e chiamata “zia” dai tanti affiliati che nel corso degli ultimi decenni hanno avuto modo di conoscerla, venne fermata dalla polizia mentre viaggiava a bordo di una Nissan Micra con ben 300 milioni delle vecchie lire nascosti sotto al sedile. Per gli investigatori si trattava della prima delle due tranche promesse a Costantino Sarno per evitare la collaborazione con la giustizia. Fatto sta che nel corso dei mesi quest’ultimo ritratterà tutto.

Maria Licciardi invece, come anticipato dal quotidiano Il Roma nei giorni scorsi, è stata trasferita nelle scorse ore dal carcere di Lecce a quello di L’Aquila al 41bis dopo che il ministero della Giustizia guidato da Marta Cartabia ha accolto l’istanza con la quale la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli chiedeva il carcere duro per la 70enne fermata dai carabinieri del Ros all’alba dello scorso 7 agosto nell’aeroporto romano di Ciampino dove stava per imbarcarsi su un volo diretto a Malaga (Spagna) dove risiede la figlia. 

Nel decreto firmato dalla ministra Cartabia si legge che ‘a Piccerella, “in considerazione dello storico e carismatico ruolo dirigenziale e organizzativo assunto costantemente negli anni e della piena operatività in quanto liberi degli altri componenti del ‘direttorio’ dell’associazione”, e “nonostante lo stato di detenzione, è in grado di mantenere collegamenti con la criminalità organizzata ed è concreto e attuale il rischio che possa tentare di continuare ad avere rapporti con gli affiliati in stato di libertà tramite i colloqui carcerari, svolgendo in tal modo attività di direzione e di raccordo con gli altri partecipi all’associazione”. “Mamma camorra” era stata già sottoposta dal 24 gennaio 2003 al 21 dicembre 2009. 

La soffiata precedente e la breve latitanza prima del Riesame

Sorella di Gennaro ‘a Scigna (la scimmia), boss a capo dell’omonimo clan stroncato nel 1994 da un’ernia ombelicale nel carcere di Voghera, Maria Liccardi avrebbe assunto il comando dell’Alleanza da quando è stata scarcerata nel 2009 dopo aver scontato una condanna a otto anni, molti dei quali al 41 bis. Gli altri due fratelli, Pietro e Vincenzo, sono detenuti da tempo. Per tale motivo lo scorso 7 agosto i carabinieri evitarono di farla salire sull’aereo diretto in Spagna.

Troppo alto il rischio di lasciar espatriare la donna che già nel 2019 sfuggì a un imponente blitz contro i clan dell’Alleanza e soprattutto contro la cosca dei Contini-Bosti. Ben 126 le misure cautelari emesse all’epoca dal Gip Roberto D’Auria nell’ambito dell’operazione Cartagena. All’appello mancava però proprio lei.  “Maria Licciardi è irreperibile” commentò nel corso della conferenza stampa il procuratore Melillo. La donna, probabilmente grazie a una puntuale soffiata, riuscì ad abbandonare la sua abitazione ai piani alti di una palazzone nella Masseria Cardone a Secondigliano, periferia nord di Napoli, prima dell’arrivo dei carabinieri. Poche settimane dopo, mentre “zia Maria” era latitante, il tribunale del Riesame annullò tutto e la donna, ribattezzata anche ‘boss in gonnella‘, tornò a casa.

Ma la Procura e le forze dell’ordine non hanno gettato la spugna. Le indagini sono andate avanti anche negli ultimi anni con il procuratore Melillo che, quando l’attenzione mediatica e cinematografica era spesso rivolta alle baby gang e alle “paranze” di camorra che si combattevano a colpi di stese e raid incendiari, ha più volte sottolineato che non bisognava dimenticare chi agiva dietro le quinte, chi manovrava dall’alto bande di ragazzini pronte a tutto pur di conquistare un pezzo di strada dove spacciare o imporre il racket.

“L’Alleanza di Secondigliano ha le mani sulla città” ha ripetuto spesso riepilogando la genesi dell’organizzazione nata con la stessa mentalità dei Casalesi e del clan di Carmine Alfieri, che all’epoca diede vita alla Nuova Famiglia, vincitrice negli anni Ottanta della cruenta faida con la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Il fermo di Maria Licciardi, nata il 24 marzo del 1951, venne convalidato dal Gip nei giorni successivi.

Le nuove accuse a Maria Licciardi

Licciardi è indagata per associazione di tipo mafioso, estorsione, ricettazione di somme di denaro di provenienza illecita e turbativa del regolare svolgimento di un’asta giudiziaria, reati aggravati dalle modalità mafiose. Tornata libera nel 2009, nel corso degli ultimi 12 anni è stata impresa ardua cristallizzare le numerose accuse nei suoi confronti emerse dalle parole dei collaboratori di giustizia e dalle indagini sul campo da parte delle forze dell’ordine, complicate dalle continue bonifiche di abitazioni, scooter e auto in uso all’organizzazione (volte a eliminare la presenza di dispositivi di intercettazione).

Adesso carabinieri e procura ci riprovano. Stando all’impianto accusatorio, Maria Licciardi ha progressivamente assunto la direzione della consorteria criminale, gestendo le attività illecite attraverso disposizioni impartite, anche durante incontri e summit riservati, ad affiliati con ruoli apicali e ai capizona ai quali erano affidate porzioni dell’area di influenza dell’organizzazione (Masseria Cardone, Don Guanella, Rione Berlingieri e Vasto).

Inoltre “zia Maria”, sempre secondo la ricostruzione degli investigatori, veniva costantemente aggiornata delle dinamiche interne al clan Mallardo di Giugliano e manteneva rapporti amichevoli anche con il clan della Vanella Grassi (i girati della faida di Scampia), i potenti Di Lauro e i Polverino di Marano di Napoli.

Le investigazioni avrebbero anche evidenziato un’attenta gestione della cassa comune da parte della 70enne, che puntualmente provvedeva al sostegno delle famiglie degli affiliati detenuti, ciò anche per evitare pericolose defezioni collaborative. Sono state censite condotte di natura estorsiva, tra cui l’intervento in occasione di un’asta giudiziaria riguardante la vendita all’incanto di alcuni immobili ubicati a Secondigliano, e le minacce rivolte da Maria Licciardi nei confronti una donna ritenuta responsabile di aver sottratto un’ingente somma di denaro alla famiglia mafiosa.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Antonio E. Piedimonte per "La Stampa" l'8 agosto 2021. La fiaba nera della regina invisibile è finita. A chiudere l'ultima scena, ieri nell'aeroporto di Roma-Ciampino, i carabinieri dei Ros, gli investigatori dell'Antimafia e i magistrati della procura di Napoli che hanno messo fuori gioco la protagonista: Maria Licciardi, il «superboss fantasma» alla guida del cartello noto come Alleanza di Secondigliano, la donna che a suo tempo Luigi Giuliano («re Lovgino», il capo dei capi), indicò come «La mamma della camorra». Meno suggestive le parole che fungono da titoli di coda per questa trentennale epopea criminale: associazione di tipo mafioso, estorsione, ricettazione. Un passo falso? Il desiderio di rivedere la figlia che vive in Spagna? Un tentativo di fuga perché aveva capito che il suo regno era in pericolo? Non è ancora chiaro cosa sia accaduto, di certo «a Piccerella» (la piccolina, il suo soprannome) ha commesso un errore. Dopo anni di invisibilità, si è «mostrata» agli occhi dei cacciatori dell'Arma giusto un attimo prima di imbarcarsi, un frangente fatale, così come le sue possibili conseguenze: senza di lei (carismatica al punto da mantenere la pace tra i grandi clan) ora la cosca e l'intera coalizione rischiano di implodere. E difatti i nemici hanno già cominciato a sparare i fuochi d'artificio (un classico da queste parti) e ad aprire bottiglie di champagne che equivalgono a tamburi di guerra. Dalla cronaca alla leggenda e ritorno: «Mater camorra» ha le fattezze di una dimessa settantenne dal sorriso gentile, un'anziana bassina e minuta lontana anni luce dalla Scianèl di «Gomorra» (che a lei sarebbe ispirata). «Mater camorra» è anche il titolo di un bellissimo libro di Luigi Compagnone uscito nel 1987. E c'è chi si chiede: quest' anonima signora che potresti incrociare al supermercato è davvero la «bloody Mary» che l'ex boss della Sanità accusa di oltre cento efferati omicidi? Nessun dubbio per gli inquirenti: lei ha guidato l'Alleanza, ovvero la federazione che dopo aver sterminato l'esercito cutoliano (oltre 900 morti), dagli anni Novanta detta legge a Napoli e non solo. Un potere immenso al pari delle risorse finanziarie, miliardi investiti in attività (legali) in Italia e in Europa: alberghi, ristoranti e bar di lusso, abitazioni, villaggi vacanze e intere filiere del vestiario, dalle fabbriche ai negozi (in origine i Licciardi e i Contini, loro sodali, erano dei magliari). «Mi chiamo Licciardi Maria, sono casalinga ma ho sempre lavorato, ho fatto la calzolaia», disse ai giudici nel 2003 in un processo che la vedrà assolta (lo Stato le pagò un risarcimento per ingiusta detenzione). Nel 2019 sfuggì a un maxiblitz ma poi i suoi avvocati riuscirono ad annullare la misura cautelare. Defilata, protetta da un reparto speciale destinato al suo «occultamento». Dopo gli anni di carcere, sempre lontana dai riflettori. Non fu provato un suo coinvolgimento nemmeno nella «strage della Resurrezione», dal nome della chiesa dove fu affissa lista dei ragazzi che sarebbero stati ammazzati per punire l'uccisione (involontaria) del «Principino», amato nipote ed erede al trono. Ne giustiziarono una decina (molti fuggirono all'estero), finché una processione di mamme del quartiere si recò dalla Piccerella per una supplica: fermare le esecuzioni. E così fu. Questa è una cosa seria, una cosa da donne, avrebbe detto in quell'occasione Mater camorra. E la storia sembra darle ragione: celate tra fornelli e bambini, dietro le quinte, mamme, sorelle e mogli hanno sempre dettato la linea. Invisibili finché, negli ultimi anni, con i maschi in galera o al camposanto si è reso necessario uscire allo scoperto. Tra i casi più noti: la «vedova nera» Anna Mazza a capo del clan Moccia sino al 2017; Teresa De Luca Bossa, prima donna al 41 bis (nonché mamma del mandante dell'autobomba fatta esplodere a Ponticelli); Nunzia D'Amico massacrata in strada con sette colpi di pistola. Un elenco ora destinato ad allungarsi e insanguinarsi sempre di più.

In manette Maria Licciardi, la donna boss a capo dell’Alleanza di Secondigliano. La regina del clan, detta “‘’a Piccerella” stava fuggendo in Spagna. I carabinieri del Ros l’hanno bloccata a Ciampino. Aveva già trasferito all’estero parte della cassaforte di famiglia. I capitali del narcotraffico investiti in alberghi. Il procuratore Melillo: «Interessi criminali anche nella sanità». Francesca Fagnani su L'Espresso il 7 agosto 2021. All’alba di questa notte, l’Alleanza di Secondigliano ha perso il capo dei capi: Maria Licciardi è stata arrestata. ‘A Piccerella è stata sorpresa all’aeroporto di Ciampino dai Carabinieri del Ros, coordinati dalla Procura di Napoli, guidata da Giovanni Melillo. Stava partendo, o meglio, stava fuggendo nel paese prescelto da molti camorristi, la Spagna, dove a gestire gli affari di famiglia si trova già da tempo sua figlia Regina. È sempre stata abile la boss di Masseria Cardone a far perdere le sue tracce: nel ’98 era stata inserita nella lista dei 30 criminali più ricercati d’Italia e il 26 giugno del 2019 “mamma camorra” – avvisata per tempo e coperta da una fitta rete di protezioni - era sfuggita al maxi blitz che aveva portato al sequestro di beni per 130 milioni e all’arresto di 126 affiliati all’Alleanza di Secondigliano. Erano finiti dentro esponenti del clan Contini, Mallardo e Bosti, ma lei no. Dopo una latitanza di due mesi, l’ordine di arresto di Maria Licciardi era stato revocato dal Tribunale del Riesame e lei era tornata libera. Ma sentiva il fiato sul collo, fiutava il pericolo e le orme degli investigatori; per questa ragione, qualche mese fa, in vestaglia viola e con la sigaretta in bocca era uscita da casa da sola in piena notte, pronta a sparire. Aveva sbagliato mossa, come ha fatto anche stanotte del resto. Maria, detta ‘a Piccerella per il suo fisico minuto e la sua indole schiva, ha ereditato l’impero criminale dei Licciardi da suo fratello Gennaro, detto ‘a scigna, fondatore dell’Alleanza di Secondigliano – dopo aver fatto la guerra alla Nco di Raffele Cutolo – insieme a Ciccio Mallardo ed Edoardo Contini. Licciardi era considerata dagli altri boss del cartello “la mente fine del clan”, la sua propensione al comando e la sua ferocia poi hanno fatto il resto e alla morte di Gennaro Maria ha scalato il gotha di Secondigliano, costringendo alla ritrattazione, per esempio, Costantino Sarno, padrino di Miano, un pentito potenzialmente pericolosissimo per l’Alleanza: solo lei poteva riuscirci, solo a lei era stato dato e riconosciuto questo potere. Torna in carcere la donna che dagli anni ‘90 è considerata alla testa e alla cassa del cartello di Secondigiano, il sodalizio criminale più pericoloso e potente della Campania, con una capacità di controllo del territorio totale e una forza d’infiltrazione nell’economia legale che non ha eguali nel nostro Paese. Negli anni, l’holding di Secondigliano ha esteso i suoi interessi ovunque nel mondo, accumulando una montagna di denaro attraverso il narcotraffico, la vendita internazionale di capi contraffatti, le scommesse clandestine, le estorsioni. Una ricchezza immensa da occultare e rinvestire attraverso ramificate attività legali, intestate a incensurati, in settori strategici come quello alberghiero e congressuale, per esempio, attraverso l’acquisizione di strutture e villaggi a Napoli e provincia, oltre che in zone turistiche come la Costiera. L’abbraccio mortale della camorra imprenditrice di Secondigliano tutto lambisce e tutto inquina, anche la pubblica amministrazione, la Sanità prima di tutto: alcuni ospedali sono cosa loro. L’ospedale San Giovanni Bosco di Napoli, per esempio, era diventato la “sede sociale” dell’Alleanza di Secondigliano, come ha dichiarato il Procuratore Melillo, “ne controllavano gli appalti, le assunzioni, i rapporti con i sindacati”. Con l’operazione di questa notte, lo Stato ha dato scacco matto al re, anzi alla regina, una mossa imparabile per l’Alleanza, una sconfitta pesante per il clan di Masseria Cardone. Cosa accadrà adesso? Si teme una nuova guerra di successione, finché gli equilibri criminali non troveranno un nuovo assesto, all’interno e all’esterno del cartello di Secondigliano. E allora si ricomincerà tutto da capo.

Nuove accuse contro 'a Piccerella ritenuta a capo dell'Alleanza di Secondigliano. “Zia” Maria Licciardi e il volo per la Spagna, il blitz a Ciampino per evitare la fuga di “mamma camorra”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 7 Agosto 2021. Aveva prenotato un volo per Malaga che decollava da Ciampino alle 6.40 di sabato 7 agosto. Maria Licciardi era diretta in Spagna dove da anni vive la figlia Regina e altri componenti della sua famiglia. Da donna libera, la 70enne ritenuta dagli investigatori napoletani ‘mamma camorra’, al vertice della potente Alleanza di Secondigliano, è stata bloccata intorno alle 5 del mattino all’aeroporto dello scalo romano perché destinataria di un decreto di fermo di indiziato di delitto, emesso dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli guidata da Giovanni Melillo e sul quale si pronuncerà delle prossime ore il Gip del tribunale partenopeo. Semplice vacanza in terra spagnola o fuga all’estero perché consapevole di una indagine in corso nei suoi confronti? Poco conta per i carabinieri del Ros e per la procura di Napoli che da anni seguono i movimenti della donna, soprannominata ‘a Piccerella (la piccolina) per il fisico minuto e la statura bassa e chiamata “zia” dai tanti affiliati che nel corso degli ultimi decenni hanno avuto modo di relazionarsi con la sorella di Gennaro ‘a Scigna (la scimmia), boss a capo dell’omonimo clan stroncato nel 1994 da un’ernia ombelicale nel carcere di Voghera.

La soffiata precedente e la breve latitanza prima del Riesame. Troppo alto il rischio di lasciar espatriare la donna che già nel 2019 sfuggì a un imponente blitz contro i clan dell’Alleanza e soprattutto contro la cosca dei Contini-Bosti che con i Mallardo e appunto i Licciardi formano la cupola di un’organizzazione camorristica che vanta al suo interno numerosi gruppi minori operativi in buona parte dei quartieri di Napoli e che storicamente si contrappone al clan Mazzarella, con il quale, negli ultimi anni, si sarebbe raggiunta una pax mafiosa in nome degli affari. Ben 126 le misure cautelari emesse all’epoca dal Gip Roberto D’Auria nell’ambito dell’operazione Cartagena. All’appello mancava però proprio lei.  “Maria Licciardi è irreperibile” commentò nel corso della conferenza stampa il procuratore Melillo. La donna, probabilmente grazie a una puntuale soffiata, riuscì ad abbandonare la sua abitazione ai piani alti di una palazzone nella Masseria Cardone a Secondigliano, periferia nord di Napoli, prima dell’arrivo dei carabinieri. Poche settimane dopo, mentre “zia Maria” era latitante, il tribunale del Riesame annullò tutto e la donna, ribattezzata anche ‘boss in gonnella‘, tornò a casa. Ma la Procura e le forze dell’ordine non hanno gettato la spugna. Le indagini sono andate avanti anche negli ultimi anni con il procuratore Melillo che, quando l’attenzione mediatica e cinematografica era spesso rivolta alle baby gang e alle “paranze” di camorra che si combattevano a colpi di stese e raid incendiari, ha più volte sottolineato che non bisognava dimenticare chi agiva dietro le quinte, chi manovrava dall’alto bande di ragazzini pronte a tutto pur di conquistare un pezzo di strada dove spacciare o imporre il racket. “L’Alleanza di Secondigliano ha le mani sulla città” ha ripetuto spesso riepilogando la genesi dell’organizzazione nata con la stessa mentalità dei Casalesi e del clan di Carmine Alfieri, che all’epoca diede vita alla Nuova Famiglia, vincitrice negli anni Ottanta della cruenta faida con la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Maria Licciardi, nata il 24 marzo del 1951, dopo il fermo avvenuto all’alba a Ciampino è stata trasferita nel carcere di Rebibbia a Roma in attesa della convalida del fermo che dovrebbe arrivare entro lunedì 9 agosto. Con lei si stavano imbarcando altre due persone.

Le nuove accuse a Maria Licciardi. Licciardi è indagata per associazione di tipo mafioso, estorsione, ricettazione di somme di denaro di provenienza illecita e turbativa del regolare svolgimento di un’asta giudiziaria, reati aggravati dalle modalità mafiose. Con gli altri due fratelli (Pietro e Vincenzo) detenuti, avrebbe assunto il comando dell’Alleanza da quando è stata scarcerata nel 2009 dopo aver scontato una condanna a otto anni, molti dei quali al 41 bis, per associazione di stampo mafioso: venne sorpresa nel gennaio del 1998 dalla polizia mentre viaggiava a bordo di una Nissan Micra con ben 300 milioni delle vecchie lire nascosti sotto al sedile. Per gli investigatori si trattava della prima delle due tranche promesse a Costantino Sarno, ex elemento apicale dell’Alleanza in procinto di passare dalla parte dello Stato. Nel corso dei mesi quest’ultimo ritratterà tutto mentre ‘a Piccerella finisce in carcere dopo circa due anni di latitanza e il relativo inserimento nella lista dei 30 criminali più ricercati d’Italia. Tornata libera nel 2009, nel corso degli ultimi 12 anni è stata impresa ardua cristallizzare le numerose accuse nei suoi confronti emerse dalle parole dei collaboratori di giustizia e dalle indagini sul campo da parte delle forze dell’ordine, complicate dalle continue bonifiche di abitazioni, scooter e auto in uso all’organizzazione (volte a eliminare la presenza di dispositivi di intercettazione). Adesso carabinieri e procura ci riprovano. Stando all’impianto accusatorio, Maria Licciardi ha progressivamente assunto la direzione della consorteria criminale, gestendo le attività illecite attraverso disposizioni impartite, anche durante incontri e summit riservati, ad affiliati con ruoli apicali e ai capizona ai quali erano affidate porzioni dell’area di influenza dell’organizzazione (Masseria Cardone, Don Guanella, Rione Berlingieri e Vasto). Inoltre “zia Maria”, sempre secondo la ricostruzione degli investigatori, veniva costantemente aggiornata delle dinamiche interne al clan Mallardo di Giugliano e manteneva rapporti amichevoli anche con il clan della Vanella Grassi (i girati della faida di Scampia), i potenti Di Lauro e i Polverino di Marano di Napoli.

Le investigazioni avrebbero anche evidenziato un’attenta gestione della cassa comune da parte della 70enne, che puntualmente provvedeva al sostegno delle famiglie degli affiliati detenuti, ciò anche per evitare pericolose defezioni collaborative. Sono state censite condotte di natura estorsiva, tra cui l’intervento in occasione di un’asta giudiziaria riguardante la vendita all’incanto di alcuni immobili ubicati a Secondigliano, e le minacce rivolte da Maria Licciardi nei confronti una donna ritenuta responsabile di aver sottratto un’ingente somma di denaro alla famiglia mafiosa. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Maria Licciardi: le violenze, la droga, l’Alleanza. Chi è la boss che ispirò Scianel. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera l'8 agosto 2021. Gli anni al 41 bis, poi la lunga latitanza: governava la sua famiglia e stringeva patti. Per i pentiti ha deciso centinaia di omicidi e diretto tutti i traffici di cocaina e eroina: «È più pericolosa di Matteo Messina Denaro». La «Piccerella» Maria Licciardi è un boss vero. L’arte del comando di un cartello criminale l’ha appresa sul campo, osservando e sbagliando, dando ordini violentissimi e raccogliendo su di sé una pazienza trappista fatta di silenzio, abnegazione e profitto. La famiglia è il mezzo e il fine del profitto, il sangue è la garanzia unica della fiducia. Fidati solo del tuo sangue è l’imperativo della «Piccerella» non perché il tuo sangue sia migliore di altri ma perché nessun rivale crederà mai al tradimento di un tuo parente e quindi sarà costretto ad esserti fedele.

L’ascesa. Il suo soprannome Maria Licciardi lo ha preso dall’aspetto minuto, dall’essere sempre identificata come la piccola di casa dai suoi fratelli Gennaro, Pietro e Vincenzo, i colonnelli dell’organizzazione della Masseria Cardone, il cuore di Secondigliano. Gennaro detto «’a Scigna» era destinato a comandare quell’area desolata di Napoli che non aveva speranza di crescita, pochi negozi e poco commercio, area già profondamente cementificata, e che invece i clan seppero trasformare in un immenso supermarket al dettaglio di droga. Gennaro Licciardi, però, morì giovanissimo per un’ernia ombelicale nel carcere di Voghera. Erano gli anni 90 e toccò ai fratelli Pietro e Vincenzo prendere l’eredità della famiglia. Ma Maria «’a Piccerella» capì che in realtà era arrivato il suo momento. Il marito Antonio Teghemie, detto «Tartufon» per la pelle scura, è sempre stato un principe consorte, un uomo che l’ha accompagnata nelle sue strategie ma non ha direttamente mai deciso nulla. Decidere è essere tempestivi, meglio decidere male che non decidere è la dottrina politica della Licciardi, ma anche evitare la decisione se non necessaria, rinviarla se non c’è un imperativo. Prudenza e spietatezza sono le sue regole. E hanno funzionato.

L’alleanza. La grande e (ultima) alleanza di famiglie camorriste napoletane è l’Alleanza di Secondigliano, un cartello nato negli anni 90 e che riuniva potenti famiglie: i Contini, i Mallardo, i Licciardi, con un ruolo esterno dei Di Lauro (che avrebbero voluto in linea teorica mantenersi soltanto come trafficanti pronti a vendere a chiunque) e dei Lo Russo (con cui la Licciardi entrerà in conflitto). La Licciardi confidava sul mastice dell’Alleanza: i matrimoni. Eggià perché tre sorelle — Anna, Rita e Maria Aieta — hanno sposato i tre boss ai vertici del gruppo: Francesco Mallardo, Eduardo Contini e Patrizio Bosti. L’Alleanza sanciva una struttura fortissima con centinaia di affiliati e decine di bocche da fuoco, ma in realtà questa armata criminale spesso ha zoppicato. Per esempio, non ha saputo costruire quel Direttorio (proprio così lo chiamavano, come la struttura decisionale della Francia rivoluzionaria) che avrebbe dovuto stabilire ogni singolo omicidio, ogni singola partita di trapani falsi, ogni singolo negozio d’abbigliamento che si muoveva sul territorio comandato da loro. L’Alleanza, però, così come non ha saputo realizzare la dittatura criminale a cui ambiva, al contempo non si è mai davvero sciolta, ha preso di volta in volta forme diverse, funzionando e confrontandosi nelle vicende più importanti. Di certo la scelta di portare il riciclaggio del proprio danaro in Spagna e nei settori turistici e della distribuzione è una scelta coordinata dai vertici. In Spagna era stato arrestato — e poi scarcerato — Patrizio Bosti. E proprio in Spagna Maria Licciardi stava andando quando l’hanno arrestata, per raggiungere sua figlia Regina proprietaria di negozi d’abbigliamento (membri della famiglia della piccerella sono proprietari di importanti hotel ad Aversa e a Napoli). Raccontare in poche parole come abbia fatto a sfuggire sempre alle accuse — i pentiti parlano di centinaia di omicidi e di una direzione certosina di tutti i traffici di cocaina ed eroina — sarebbe impossibile. Arrestata nel 2001, resta in carcere per otto anni come un capo: al 41 bis. Una volta fuori riesce a sfuggire al blitz del 2019 contro l’Alleanza. Poi, incredibilmente, viene cancellato il suo ordine di cattura e da donna libera torna a comandare, sino a pochi giorni fa. Quando arriva un nuovo arresto.

Il personaggio. Il personaggio di Scianel, nella serie Gomorra, è profondamente ispirato a Maria Licciardi, donna che in nessuno ripone fiducia se non nel patto che porta profitto. Donna che si fida quando a comandare sono le donne perché si sottraggono alla teatralità simbolica degli omicidi ma portano la spietatezza direttamente dentro le dinamiche quotidiane. E infatti lei non chiede ai suoi uomini di ostentare violenza, ma di portarla nella vita quotidiana dei nemici. Non sceneggiate ma operatività: ai nemici va tolto il lavoro, il sonno, vanno isolati e solo poi uccisi. Per Maria Licciardi la famiglia è la radice di ogni profitto, di ogni ricatto, di ogni guerra. Se non esistesse il concetto di famiglia non esisterebbero le organizzazioni criminali. La famiglia è innanzitutto organizzazione, è mutuo soccorso ma solo verso chi ha il «merito» di condividere lo stesso sangue. Il matrimonio è un patto economico tra gruppi. I figli sono protezione del patrimonio e eredità. Le amicizie sono momentanee e utili se arrecano vantaggio. Chi crede che questo sia solo un comportamento delle famiglie criminali non ha abbastanza studiato le famiglie del capitalismo contemporaneo, macchina di controllo e competizione, di accordo e feroce ricerca di profitto. La criminalità organizzata è soltanto capitalismo nudo, senza infingimenti, e il concetto di famiglia di Maria Licciardi non è il solito familismo amorale di Banfield quanto piuttosto la regola della concorrenza, della competizione, del colpire prima di essere colpiti, di trovare la strada per ricattare, comandare, arricchirsi. La famiglia che perdona e accoglie per poter essere non solo violenza ma anche garanzia di sicurezza e pace, perché è nella sicurezza e nella pace che crescono maggiori guadagni. Questo a’ piccerella l’ha sempre saputo. Ha visto la sua famiglia condurre faide spietate, come quando venne ucciso Vincenzo Esposito, il principino nipote prediletto di Gennaro Licciardi, e pretesero con un elenco l’uccisione di tutti i coinvolti nell’agguato al loro rampollo. Scrissero una lista dei condannati a morte e in più di dieci anni riuscirono a farseli consegnare tutti. Eppure Maria Licciardi ha sempre saputo che comanda chi porta la pace, non chi vince. Così quando si scindono i Di Lauro non fa torto al boss Paolo appoggiando gli spagnoli, ma non si lascia nemmeno coinvolgere nel conflitto. Quando Costantino Sarno sta per pentirsi, inizia a fare dichiarazioni e fa arrivare voce che in cambio di soldi è disposto a ritrattare, i clan si organizzano: lo paghiamo poi spariamo in testa a lui e alla sua discendenza. Maria Licciardi non accetta, lo si paga e lei si fa garante del suo non pentimento. Andrà esattamente così. Oggi è riuscita a creare una rete di legami con i Polverino (gruppo legato a Cosa Nostra di Marano di Napoli), con le nuove generazioni criminali di Vanella Grassi e soprattutto con gli ex rivali dei Mazzarella. A tutti garantisce profitto e nella sua zona, Masseria Cardone, non vuole pusher e file di tossici a comprare, non vuole pali e sentinelle armate. Tutto questo lo vuole fuori dalla sua Masseria, il quartiere della sua famiglia. Il posto dove ha fatto la latitanza e dove ha sempre vissuto.

La pericolosità. Giuseppe Misso, uno dei boss più potenti, ora collaboratore di giustizia, la descrive così: «Maria Licciardi è un boss, è molto più pericolosa di Matteo Messina Denaro». Misso conosce bene la ferocia dell’Alleanza di Secondigliano. Negli anni 90 si era rifiutato di allearsi con Gennaro ’a scigna, ed era al vertice di un’organizzazione che si era opposta all’Alleanza, per questo (e per molte altre ragioni) sua moglie Assuntina Sarno venne massacrata a colpi di kalashnikov nel 1992 sull’autostrada Caserta-Napoli di ritorno da un processo. Eppure Maria Licciardi fu scagionata come mandante dell’omicidio. E si è rimessa, come sempre, al servizio della famiglia, un’unità di potere che si estende da Santo Domingo alla Germania. Quando mi chiedono quando finiranno le mafie rispondo quando finiranno le famiglie. Quando l’umanità troverà nuove forme d’organizzazione sociale, nuovi patti d’affetto, nuove dinamiche in cui crescere vite. Famiglie! Focolari chiusi; porte serrate; geloso possesso della felicità Vi detesto, André Gide.

Chi è Maria Licciardi, a’ Piccerella che comanda il clan di Secondigliano. Guida l’alleanza del quartiere di Napoli, garantisce la pace e ricicla in hotel. Storia della donna che dopo 7 anni di 41 bis è ora il capo dei capi. Francesca Fagnani su L'Espresso il 15 Marzo 2021. «Mi chiamo Licciardi Maria, sono casalinga ma ho sempre lavorato, ho fatto la calzolaia. Detesto la droga, se vedo dei giovani che si drogano mi dispero» (Maria Licciardi, 2003). Nella mafia siciliana sarebbe impensabile, una donna capo dei capi. E allo stesso modo nelle altre organizzazioni criminali, tutte, tranne una. «‘A Piccerella», «la mente fine», «bloody Mary», «mamma camorra», Maria Licciardi è stata soprannominata in tanti modi diversi, ma la qualifica che meglio la definisce da vent’anni è un’altra: boss. Licciardi è al vertice del cartello criminale più pericoloso e potente della Campania e non solo: l’Alleanza di Secondigliano. ’A Piccerella oggi è libera, sfuggita ancora una volta alla cattura, nell’ultimo maxi blitz avvenuto nella notte del 26 giugno 2019. All’alba in un’imponente operazione del Ros e dei carabinieri di Napoli furono sequestrati beni per 130 milioni e arrestati 126 affiliati all’Alleanza di Secondigliano, tra i quali figurano personaggi di spicco dei clan Mallardo, Contini, Bosti, Licciardi. Tranne lei, tranne Maria Licciardi, che, avvisata per tempo e coperta da una fitta rete di protezioni, riuscì a fuggire. La sua latitanza però è durata poco, dopo appena due settimane il tribunale del riesame ha infatti revocato l’ordine di arresto: per i giudici, il coinvolgimento della Licciardi è ritenuto poco chiaro rispetto ad alcune intercettazioni ambientali portate tra le prove. La sua posizione è stata archiviata sebbene alla testa (e alla cassa) del potente sodalizio camorristico di Secondigliano, a sentire gli investigatori, ci sia proprio lei. Mamma Camorra vive dove ha sempre vissuto, nella roccaforte dei Licciardi a Secondigliano, la Masseria Cardone, dove non c’è degrado, non ci sono vedette né piazze di spaccio. ’A Piccerella non vuole che nella sua zona si venda droga, non vuole vedere tossici per le sue strade, tanto meno le forze di polizia. Pensare che invece a soli 200 metri, dall’altra parte di Corso Secondigliano, c’è il «Terzo Mondo», come viene chiamato il Rione dei Fiori, dove tra le fatiscenti case popolari si vende droga h24. Tutto intorno alla Masseria Cardone è un Bronx di abbandono e delinquenza: le Case Celesti, l’immenso rione Don Guanella, Monterosa, le Case Gialle dove hanno messo gli sfollati di Scampia e poi i lotti battezzati con una lettera, K,G,P,R dove le persone oneste vivono senza servizi e nella paura, assoggettate alla sopraffazione dei clan. L’influenza dell’Alleanza di Secondigliano è immensa e va ben oltre Napoli, lambisce e inquina interi settori dell’economia del Paese, estendendo i propri interessi nel mondo. L’holding criminale gestisce un’immane ricchezza accumulata negli anni con il traffico di stupefacenti, le estorsioni, le scommesse clandestine, la vendita globale di capi contraffatti. Una montagna di soldi da ripulire e reinvestire attraverso ramificate attività legali, intestate a incensurati, in settori strategici come quello alberghiero, che valgono per i clan quanto le piazze di spaccio. I villaggi sorti in zone di grande appeal turistico, per esempio. Solleva più di qualche dubbio il caso dell’Hotel Max ad Aversa, in mano alla famiglia del marito di Emanuela Teghemiè, figlia di Maria Licciardi e Antonio Teghemiè, detto Tartufon. L’hotel Max, dotato di uno spazio per i congressi e ben 35 camere, risulta gestito dal 2016 dalla società Max Hotel, il cui unico socio nonché amministratore è Immacolata Donzelli, zia del marito di Emanuela. La signora Immacolata prima del 2016 era totalmente sconosciuta al fisco, mentre il marito percepiva circa 24 mila euro l’anno, lavorando come dipendente nella raccolta dei rifiuti per il comune di Napoli. Sorprende anche il capitale sociale della società Max Hotel di appena 2.900 euro, un po’ esiguo per una struttura così importante. Complicata a dir poco è anche la vicenda del Gran Hotel Capodimonte di Napoli le cui quote, in un vortice di trasferimenti societari, sono passate dalla cognata della figlia di Maria Licciardi, Loredana Donzelli, al marito e poi a terzi. L’altra figlia di Maria, Regina, gestisce imprese di abbigliamento (non a caso) in Spagna, dove i clan campani sono molto presenti.

Chi è questa donna minuta, classe ’51, che nell’ombra e mantenendo un profilo basso è riuscita a scalare i vertici della camorra?

’A Piccerella è la sorella di Gennaro, capostipite del clan, detto ’a Scigna, capozona di Secondigliano per conto di Luigi Giuliano, il re di Forcella, uno dei capi storici della camorra. I Licciardi erano inizialmente specializzati nel commercio di capi di abbigliamento falsi, poi il salto di qualità nel traffico di stupefacenti: eroina, cocaina, hashish. Gennaro fu tra i fondatori prima della Nuova Famiglia - un sodalizio malavitoso nato per fare la guerra alla Nco di Raffaele Cutolo - e poi negli anni ’90 dell’Alleanza di Secondigliano, con Edoardo Contini e Ciccio Mallardo. Com’è andata a finire è cronaca: i cutoliani sono stati sterminati e il cartello di Secondigliano si è preso Napoli. Se è innegabile che la rilevanza di Maria Licciardi all’interno del sodalizio si fa decisiva con la morte in carcere di Gennaro nel 1994 e l’assenza per detenzione e latitanza degli altri due fratelli, è anche vero che la propensione al comando le è in qualche modo connaturale. Interessante quanto riferito da importanti collaboratori di giustizia: Pasquale Avagliano ha detto che Maria Licciardi era la «regia occulta» del clan. Lo stesso Gennaro, che era detenuto, gli avrebbe riferito che gli affari criminali erano da lui discussi, in occasione dei colloqui carcerari, solo con la sorella Maria. Un altro collaboratore, Salvatore Conte, racconta che Maria era «la mente fine» dell’organizzazione. Luigi Giuliano la definì addirittura «la mamma della camorra». Inquietante l’episodio di Giuseppe Misso, boss del rione Sanità, che dal carcere aveva respinto l’invito di Gennaro ’a Scigna ad aderire al loro cartello. Un affronto insopportabile, a cui segue quello di sua moglie Assunta Sarno che durante un’udienza si sarebbe rivolta a Maria Licciardi, dicendo che quando il marito Misso fosse uscito di galera, Gennaro ’a Scigna gli avrebbe dovuto pulire le scarpe. Era troppo. Poco dopo, il 14 marzo del 1992, sulla bretella autostradale Caserta-Napoli, un commando di killer raggiunge l’automobile su cui viaggiava Assunta Sarno con altre persone. Muore trucidata a colpi di kalashnikov. Per gli investigatori, tra i mandanti dell’omicidio della donna ci sarebbe anche Maria, che invece verrà assolta. Maria Licciardi, la «mente fine» della cupola, si occupa degli aspetti più strategici, come trattare l’acquisto di droga, fornire assistenza legale e sostegno alle famiglie durante i periodi di detenzione degli affiliati. Pratiche necessarie per assicurarsi il rispetto dell’omertà. Il suo controllo sul territorio è totale: si passa da lei per dirimere in modo diplomatico o meno questioni personali, come crediti da esigere, debiti da estinguere, infedeltà coniugali da chiarire. A Secondigliano, al dominio della Piccerella non sfuggono nemmeno i sacramenti: è cosa sua il sistema di «comparaggio», che serve a irrobustire i vincoli criminali, attraverso la scelta dei padrini per battesimi e cresime. Su tutto, però, c’è un episodio che meglio di ogni altro chiarisce la posizione di vertice che occupa la Licciardi sin dagli anni ’90: il pentimento di Costantino Sarno, feroce boss di Miano. «Stiamo tutti per affogare nel fiume Sarno», manda a dire Vincenzo Licciardi dal carcere di Parma dove è recluso. L’Alleanza trema: quella collaborazione è una minaccia per la sopravvivenza del cartello criminale, bisogna costringere Sarno a desistere, facendo pressione sui parenti. A quel punto il boss di Miano indica in Maria Licciardi l’unica persona che avrebbe potuto gestire la sua ritrattazione: è lei che avrebbe dovuto firmare il patto per la sua salvezza e quella della sua famiglia; è lei per il gotha di Secondigliano la garanzia che dopo aver comprato il suo silenzio, Sarno non li avrebbe traditi di nuovo. Nessun altro gode di quel credito e di tanto rispetto. Il 15 gennaio 1998, in zona Masseria Cardone, la polizia ferma una Nissan Micra. Dentro c’è proprio Maria Licciardi e sotto al sedile posteriore dell’automobile c’è una busta con 300 milioni di lire in contanti. Per gli inquirenti si tratta della prima tranche del compenso deciso per la ritrattazione di Costantino Sarno. La Dda di Napoli chiede l’arresto di Licciardi per associazione mafiosa e lei dal quel momento scompare, entrando nella lista dei trenta criminali più ricercati d’Italia. Costantino Sarno intanto ritratta tutto. È il salto decisivo per la Piccerella, è la sua consacrazione al vertice dell’Alleanza. Dopo due anni di ricerche in tutta Italia, a Melito, gli agenti della Squadra Mobile riescono a catturarla, in realtà non si era mai mossa dalla sua zona. Per lei si aprono le porte del carcere duro, per sette anni, da dove continuerà - come emerge dalle conversazioni captate durante i colloqui con il marito - ad impartire ordini, a provvedere alle «mesate» per i parenti dei detenuti e a controllare gli affari del clan. Uscita dal carcere, Licciardi torna al suo posto, alla Masseria Cardone, da dove tuttora gestisce senza far rumore gli equilibri interni alla federazione, garantendo la pax mafiosa con l’altro grande cartello che domina la città, quello dei Mazzarella. «La comoda rappresentazione di una camorra ormai allo sbando, ridotta a una serie di gruppuscoli, appare smentita dalla realtà. Il numero degli omicidi di camorra risulta chiaramente indicativo del raggiungimento di un sostanziale equilibrio mafioso», scrive il procuratore capo di Napoli Giovanni Melillo. Se oggi a Napoli si spara meno che in passato è solo perché i cartelli camorristici, sempre più potenti, hanno bisogno della pace per fare affari.

·        La Mafia Milanese.

Gli impuniti di Buccinasco, il fortino milanese della Quinta mafia. Il clan Papalia detta ancora legge. Anche grazie ai trascorsi legami nelle carceri con reti deviate dei servizi segreti. Ma un omicidio rompe la tregua nella regione che ospiterà le Olimpiadi invernali. E il boss manda l’avviso di sfratto al sindaco che chiede aiuto. Fabrizio Gatti su L'Espresso il 24 Novembre 2021. Era il capoluogo della ’ndrangheta al Nord. Adesso Buccinasco è molto di più: è la cassaforte dei segreti della Quinta mafia, quel patto lombardo che dalla prima Repubblica a oggi permette a decine di complici e collusi di godersi la vecchiaia in libertà. Alcuni collaboratori di giustizia lo hanno definito «il Consorzio»: una cooperazione, cominciata durante la guerra fredda italiana e gli anni del terrorismo, che riunisce organizzazioni mafiose, apparati deviati dell’intelligence, eversione di destra, logge coperte.

Da corriere.it il 19 maggio 2021. Resta in carcere Renato Vallanzasca, l’ex bandito della Comasina condannato al carcere a vita per più delitti. Lo ha deciso la Cassazione, che ha respinto il ricorso presentato dalla difesa di Vallanzasca che è detenuto nel carcere milanese di Bollate. Il verdetto degli ermellini è stato depositato mercoledì e conferma la decisione emessa dal Tribunale di sorveglianza di Milano il 23 giugno 2020. Vallanzasca - che ha 71 anni - aveva chiesto la libertà condizionale o in subordine la semilibertà. Era tornato in carcere nel 2014, dopo essere stato arrestato per rapina per aver tentato di rubare dei boxer e altri generi di consumo di scarso valore all’Esselunga di viale Umbria a Milano. Fermato dall’addetto alla vigilanza, Vallanzasca, che era in permesso premio, aveva reagito. Nella sentenza i giudici sottolineano come i comportamenti di Vallanzasca non siano allo stato «oggettivamente tali da riflettere il definitivo ripudio del passato stile di vita e l’irreversibile accettazione di modelli di condotta normativamente e socialmente conformi». I giudici condividono quanto già messo in luce dal tribunale di sorveglianza di Milano - che, nel giugno 2020, respinse le istanze di Vallanzasca - e, in particolare, la «mancata emersione di atteggiamenti del condannato che segnino, nei confronti delle numerosissime vittime degli innumerevoli e gravissimi reati, anche al di là di risarcimenti di tipo economico, pur possibili alla luce della non seriamente contestata percezione di somme di denaro per pubblicazioni, diritti di autore, anche per lo sfruttamento cine-televisivo dell’esperienza di vita del condannato, un’evidente ed effettiva resipiscenza». Il «processo di recupero» del detenuto Vallanzasca - condannato a 4 ergastoli più altre numerose pene detentive - «non è stato e non è oggi esente da incertezze e profonde contraddizioni, il cui apice è rappresentato - ricorda la Corte - dalla non remota recidiva delittuosa e dai complessivi comportamenti “minimizzanti” assunti rispetto ai propri anche recenti comportamenti». La sua «prolungata detenzione» (pressoché ininterrotta dal 1981, quando venne arrestato dopo la terza evasione) è inoltre stata «varie volte interrotta - si osserva nella sentenza di oggi - per benefici e misure premiali poi inevitabilmente revocati a causa dei comportamenti devianti del condannato, sicché non può certo dirsi che la privazione della libertà personale sia stata ininterrotta e senza possibilità di anticipata conclusione». La Cassazione, in particolare, ricorda come, nel 2014, «ammesso alla semilibertà», Vallanzasca «ha nuovamente commesso il delitto di rapina che costituisce l’ordinario dispiegarsi della sua personalità criminale» e anche «l’avviato percorso di `mediazione penale´ - si rileva in sentenza - ha un carattere piuttosto astratto e a-specifico, in quanto caratterizzato da manifestazioni formali e senza un reale, pur possibile, effettivo confronto con le vittime dei reati».

Per il "Bel Renè" confermata la decisione del Tribunale di Sorveglianza. Vallanzasca resta in carcere, Cassazione nega la libertà condizionale: “Non ha ripudiato il passato”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 19 Maggio 2021. Renato Vallanzasca, l’ex bandito della Comasina condannato a quattro ergastoli, non ha ripudiato il suo passato e per questo dovrà restare nel carcere milanese di Bollate, non potendo accedere alla libertà condizionale o alla semilibertà.

A deciderlo è stata la Corte di Cassazione, confermando la sentenza datata giugno 2020 del tribunale di Sorveglianza di Milano che aveva respinto le istanze del ‘Bel René’ sostenendo che per la sua scarcerazione fosse necessario un “percorso graduale”. Nel 2014 Vallanzasca, all’ora in permesso premio, era tornato in carcere dopo l’arresto per rapina: il 71enne aveva tentato di rubare dei boxer e altri generi di consumo di scarso valore all’Esselunga di viale Umbria a Milano. Fermato dall’addetto alla vigilanza, Vallanzasca, che era in permesso premio, aveva reagito, nel tentativo di evitare l’arresto che lo aveva riportato in carcere a Bollate, dove si trova tutt’ora. I comportamenti del "Bel René" secondo i giudici della Cassazione non sono “oggettivamente tali da riflettere il definitivo ripudio del passato stile di vita e l’irreversibile accettazione di modelli di condotta normativamente e socialmente conformi”. Sostanzialmente quindi la Cassazione conferma quanto chiarito nel giugno 2020 dal tribunale di Sorveglianza di Milano aveva respinto l’istanza che Vallanzasca aveva presentato tramite il suo difensore dell’epoca, l’avvocato Davide Steccanella, per chiedere di riottenere la semilibertà concessagli nel 2013 e revocata appena un anno dopo per il furto all’Esselunga. In quell’occasione Vallanzasca aveva scritto una lettera ai giudici: “Quell’etichetta continua a perseguitarmi – aveva scritto l’ex boss della Comasina, condannato a 4 ergastoli -. Per tutti resto il bandito. Eppure di anni ne sono passati tanti”. L’ex bandito della Comasina "paga" dunque nel suo prolungato stato di detenzione, ormai dal lontano 1981, interrotto “varie volte – scrivono i giudici – per benefici e misure premiali poi inevitabilmente revocati a causa dei comportamenti devianti del condannato, sicché non può certo dirsi che la privazione della libertà personale sia stata ininterrotta e senza possibilità di anticipata conclusione”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Da blitzquotidiano.it il 21 maggio 2021. Renato Vallanzasca resta in carcere perché inaffidabile. Al famoso bandito non è stata concessa la semilibertà. La Cassazione ritiene che Vallanzasca possa commettere altri reati fuori dalla galera. Ultimo caso contestato, quello del furto al supermercato nel 2014. Ma la ex moglie, Antonella D’Agostino, sta moltiplicando i propri appelli, nel tentativo di riportarlo a casa. Sia al Corriere della Sera che a MOW Magazine ha urlato l’innocenza del marito. Assicurando che è cambiato e che il furto al supermercato sia stato in realtà una svista.

Renato Vallazasca resta in carcere: niente semilibertà. Resta in carcere Renato Vallanzasca, l’ex bandito della Comasina, oggi 71enne. E’ stato condannato al carcere a vita per più delitti tra i quali l’omicidio di due agenti di polizia commesso a Dalmine (Bergamo) nel 1977. E poi sequestri di persona e una sfilza impressionante di reati. La sua vita è stata quasi tutta passata in cella e segnata da evasioni. La Cassazione ha respinto il ricorso per ottenere la libertà condizionale, o almeno la semilibertà, presentato dalla difesa di Vallanzasca. Lui è detenuto nel carcere milanese di Bollate senza più permessi per uscire e svolgere lavoro esterno solidale dopo l’ultima tentata rapina – due mutande, un paio di cesoie e del concime per un valore di 66 euro – compiuta in un supermercato di Viale Umbria, a Milano, il 13 giugno 2014.

Niente semilibertà a Vallanzasca: le motivazioni della Cassazione. Il verdetto conferma la decisione emessa dal Tribunale di sorveglianza di Milano lo scorso 23 giugno. Ad avviso della Cassazione – nonostante il parere favorevole ai benefici espresso dall’equipe di educatori che segue Vallanzasca da quando la semilibertà gli è stata revocata quasi sette anni fa – i comportamenti dell’ex bandito non dimostrano ancora “il definitivo ripudio del passato stile di vita e l’irreversibile accettazione di modelli di condotta normativamente e socialmente conformi”. Per la Suprema Corte, inoltre, come sottolineato dai magistrati di sorveglianza, che hanno negato a Vallanzasca il ritorno al lavoro esterno nella cooperativa per disabili dove già si era impegnato, mancano ancora “atteggiamenti” di “evidente ed effettiva resipiscenza” nei confronti “delle numerosissime vittime degli innumerevoli e gravissimi reati, anche al di là di risarcimenti di tipo economico”, pur possibili “per la percezione di somme per pubblicazioni, diritti di autore, anche per lo sfruttamento cine-televisivo dell’esperienza di vita del condannato”.

Vallanzasca e le contraddizioni del processo di recupero. Il “processo di recupero” di Vallanzasca “non è stato e non è oggi esente da incertezze e profonde contraddizioni, il cui apice è rappresentato – scrivonoi giudici – dalla non remota recidiva” del giugno 2014 e dai “complessivi comportamenti ‘minimizzanti’ assunti rispetto ai propri anche recenti comportamenti”. Dura in maniera continua dal 1981 la vita in cella di Vallanzasca quando venne arrestato dopo la terza evasione: e l’uomo ha avuto più volte l’opportunità di ottenere “benefici e misure premiali poi inevitabilmente revocati a causa dei suoi comportamenti devianti”, sicché “non può certo dirsi – rileva il verdetto – che la privazione della libertà personale sia stata ininterrotta e senza possibilità di anticipata conclusione”. Nella relazione dell’equipe dei rieducatori si sostiene invece che l’ex bandito “è ormai un settantenne che ha trascorso in carcere l’intera sua vita e che non è in grado di operare alcun risarcimento economico avendo sempre lavorato in cooperative di volontariato sociale: negare per questa ragione la liberazione condizionale” significa “discriminare il condannato per ragioni economiche”, e ignorare “il percorso di reinserimento sociale già tangibilmente compiuto”.

L’appello di Antonella D’Agostino su MOW Magazine. In esclusiva su MOW magazine parla Antonella D’Agostino. Scrittrice e regista, nonché ex compagna delle scuole elementari ed ex moglie di Renato Vallanzasca. “Sono distrutta, ma voglio riportarlo a casa”. Antonella D’Agostino è stata sposata dal 2008 al 2018 con Vallanzasca e sottolinea: “Io non lo abbandonerò mai, non ho buttato via 20 anni della mia vita per farlo marcire in carcere”. Poi aggiunge: “Dimostrerò al Tribunale di Milano che dal maggio 2005 al febbraio 2012, cioè quando eravamo insieme, non è mai successo niente, Renato non ha mai commesso un reato o non gli è stata contestata una infrazione. Non sarà un caso, no?”. E circa il furto nel supermercato del 2014, durante il regime di semilibertà presso il carcere di Bollate, aggiunge: “Se fossi stata con lui non sarebbe accaduto perché è stata una svista, non una rapina. Renato ha una certa età, non voleva rubare quelle cose. Semplicemente non le aveva messe nel cestello e poi se le era dimenticate addosso. Anche perché quelle mutande non poteva neanche mettersele a causa di un intervento alla gamba che non gli avrebbe permesso di utilizzarle”.

Il "brighella del Giambelin", tutta la verità su Renato Vallanzasca. Rosa Scognamiglio l'11 Maggio 2021 su Il Giornale. Renato Vallanzasca è stato uno dei più prolifici banditi della storia. Dopo 46 anni di carcere, l'ex boss della Comasina è ancora in carcere. "Non è più il criminale di un tempo, merita di uscire", dice al Giornale.it l'ex legale di Vallanzasca. "Il bel Renè". "Il boss della Comasina". E ancora "il bandito dagli occhi di ghiaccio". Sono questi i soprannomi con cui Renato Costantini Vallanzasca venne chiamato sulle pagine della cronaca a partire dagli anni '70. Primatista di evasioni carcerarie, re delle rapine a mano armata e dei sequestri di persona, Vallanzasca fu per circa un ventennio il capo della "banda della Comasina", la ghenga milanese che seminò il panico per le vie del capoluogo meneghino durante gli anni di piombo. Autore di numerosi omicidi, il criminale è stato condannato in totale a 4 ergastoli e 295 anni di reclusione. La sua vita ha ispirato il film "Gli angeli del male" del 2010, scritto da Michele Placido e interpretato dall'attore Kim Rossi Stuart nel ruolo del bel Renè. Ma chi era davvero "il bandito dagli occhi di ghiaccio"? "Vallanzasca è stato un 'criminale coraggioso', tra i peggiori in cui mi sia imbattuto nella mia lunga carriera. Non si faceva problemi a impugnare l'arma per sparare, ma era anche il primo che s'introduceva in banca quando c'era da fare una rapina lasciando indietro i suoi soci. Con questa definizione non intendo in alcun modo aggiungere valore alla sua ingloriosa carriera. Anzi. Dico solo che si può essere "stra criminali", come lo era lui, ma anche coraggiosi", racconta a ilGiornale.it Achille Serra, l'ex capo della Squadra Mobile di Milano che diventò il nemico giurato del fuorilegge milanese. Lo scorso anno, per la seconda volta dal 2018, il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha respinto la richiesta di liberazione condizionale e di semilibertà dell'ormai ex boss della Comasina nonostante una relazione redatta da una equipe di esperti del carcere di Bollate accertasse il "cambiamento profondo, intellettuale ed emotivo" del detenuto. "Vallanzasca non è più il criminale di un tempo, ha avuto un cambiamento profondo durante questi 46 anni di carcere. Sono convinto che se avesse trascorso i suoi ultimi anni di vita nel letto di casa propria, nessuno avrebbe avuto nulla da ridire. Meritava una chance e invece ha subito un'ingiustizia. Se si è deciso che rappresenta il prototipo del bandito e che quindi deve morire in galera lo si dica chiaramente", spiega alla nostra redazione Davide Steccanella, legale di Vallanzasca fino al 2020.

Il "brighella del Giambelin". Renato Costantini Vallanzasca nasce a Milano il 4 maggio del 1950 da Osvaldo Pistoia e Maria Costantini Vallanzasca, dalla quale eredita il cognome. Da piccolo Renato è un bambino vivace, determinato ed estroverso. Nella primavera del '58, all'età di soli 8 anni, libera una tigre e altre fiere dal circo Medini che si è attendato in via Porpora, nei pressi della stazione ferroviaria di Lambrate, a due passi dalla sua abitazione. Beccato dalla polizia a poche ore dal raid, il giovanissimo Vallanzasca viene portato al carcere minorile Cesare Beccaria dove rimane per circa 48 ore. La vicenda gli costa l'affidamento forzato a casa della signora Rosa, la prima moglie del padre, che Vallanzasca chiama "zia", in via degli Apuli, nel quartiere del Giambellino, alla periferia sud-ovest di Milano. È lì che Renato organizza la sua prima banda criminale, conquistando ben presto la fama di "Brighella del Giambelin" (brigante del Giambellino). In pochi mesi la ghenga si specializza in furti e taccheggi all'interno dei grandi magazzini Standa, Upim e Rinascente. Dai negozi i piccoli teppisti trafugano cibo, stufette e persino materassi che poi regalano ai meno abbienti. Al tempo Vallanzasca è ancora giovane e inesperto. Eppure il suo nome comincia a circolare negli ambienti della Ligéra, la vecchia "mala" milanese, con cui stabilisce subito dei contatti. Ma si tratta solo di una breve parentesi, la rapida gavetta banditesca che precede l'exploit criminale degli anni '70, quando diventerà "il boss della Comasina".

Da brigante di periferia a bandito: l'ascesa criminale di Vallanzasca. L'attività criminosa di Vallanzasca si consolida verso la fine degli anni '70 con le rapine a mano armata all'interno dei supermercati del centro di Milano. Per due anni il brighella del Giambellino mette a segno un colpo dietro l'altro riuscendo ad accumulare un patrimonio che gli assicura agi e bella vita. Auto di lusso, orologi e abiti firmati si sprecano tanto quante le donne che si gettano ai suoi piedi, ammaliate dallo sguardo di ghiaccio del "bel Renè". La prima battuta d'arresto nell'ascesa criminale avviene nel 1972 quando, una decina di giorni dopo una rapina al supermercato Esselunga in Viale Monterosa, viene arrestato dagli uomini della squadra mobile di Milano, diretta al tempo da Achille Serra. "Ogni sabato, a Milano, c'era una rapina nei supermercati - racconta Achille Serra - Quattro o cinque ragazzotti sparavano in aria col mitra per strada e poi saccheggiavano interi negozi di alimentari. Questi episodi divennero così frequenti da seminare il panico tra la popolazione, tanto che le persone finirono per avere paura di uscire per fare la spesa al fine settimana. Al tempo, lavoravo alla sezione rapine della polizia in coppia con il maresciallo Scuri, uno che conosceva gli ambienti della mala milanese. Un giorno Scuri mi disse che nel gruppo di rapinatori c'erano due fratelli incensurati della Comasina. Non potendo fare accertamenti da remoto - all'epoca, non disponevamo ancora dei computer - optammo per un blitz a casa dei sospettati. Quando entrammo nell'appartamento, i Vallanzasca finsero di dormire: fu la prima volta che vidi Renato. Gli chiesi di seguirmi in Questura mentre il maresciallo Scuri rimase con l'altro fratello a fare la perquisizione nell'abitazione. Arrivati in ufficio, Renato non esitò a lanciarmi un guanto di sfida. 'Caro Achille - era così che mi chiamava - se riesci a mandarmi in galera io ti regalo questo orologio d'oro', disse sfilandosi il Rolex dal polso che ripose sulla mia scrivania. Io avevo 'il fegato che mi scoppiava' per la provocazione ma rimasi in silenzio a fissarlo. Nel mentre, telefonò il maresciallo Scuri per dirmi di aver trovato nel secchio della immondizia a casa dei Vallanzasca tanti pezzettini di carta che, ricomposti come un puzzle, davano le buste paga dei dipendenti del supermercato in Viale Monterosa, dove c'era stata l'ultima rapina. A quel punto, non c'erano più dubbi su chi fossero gli autori del misfatto. Allontanai l'orologio dalla scrivania, poi mi rivolsi a Renato: 'Tieniti pure il tuo Rolex - gli dissi - tanto ti arresto lo stesso'. Quella fu la prima volta che gli misi le manette ai polsi".

La prima evasione da San Vittore. Dopo quattro anni di detenzione tra le mura del carcere di San Vittore, durante i quali si rende protagonista di numerose rivolte e pestaggi con altri detenuti, Vallanzasca mette a segno la prima di una rocambolesca serie di evasioni. Pur di riconquistare la libertà, il bandito della Comasina è disposto a tutto, persino a procurarsi un'epatite ingerendo uova marce, iniettandosi urine per via endovenosa e inalando gas propano. L'intento è quello di farsi trasferire all'ospedale degli infettivi e da lì tentare la fuga. "Riuscendo a corrompere un infermiere del carcere, fece in modo di far rilevare l'epatite virale dagli esami del sangue - è la versione di Achille Serra - Non era vero nulla, ma in questo modo riuscì a farsi mandare all'ospedale degli infettivi. Lì corruppe la guardia che lo piantonava, con la promessa di dargli tre milioni se lo avesse lasciato scappare. Una volta guadagnata la fuga, si diresse con l'auto verso il Sud Italia ma alle porte Montecatini la sua corsa s'interruppe - al tempo, Vallanzasca non lo conosceva ancora nessuno. A un posto di blocco, alcuni agenti della stradale gli chiesero di esibire patente e libretto. Lui finse di recuperare i documenti dal baule della vettura, e invece tirò fuori una pistola con cui sparò, ferendo a morte, uno dei poliziotti. Fu da quell'episodio nacque il 'criminale Vallanzasca'". La morte del pubblico ufficiale non inibisce la fuga del bel Renè. Anzi sarà proprio durante il lungo periodo di latitanza che l'attività criminale della cricca di Vallanzasca subirà una nuova evoluzione, con il passaggio dalle rapine a mano armata ai sequestri di persona.

La banda della Comasina. Negli anni '70, Milano è una città in pieno fermento culturale e produttivo: "una città tremendamente viva", così come racconta il giornalista Michele Serra in un articolo per il quotidiano La Repubblica del 26 ottobre 2007. Eppure, è proprio a due passi dal centro che l'ex terrorista Giuseppe Memeo sparerà alla polizia durante gli scontri in via De Amicis. Sono anni duri, difficili: sono gli Anni di Piombo. Gli stessi in cui la banda della Comasina troverà terreno fertile per dare seguito a un business criminale senza precedenti: 76 rapine a mano armata e 4 sequestri in un anno. "È stato un periodo terribile per noi della squadra mobile perché c'era in corso una guerra sanguinaria tra la banda di Francis Turatello, il figlioccio di 'Frank tre dita,' e quella della Comasina di Vallanzasca - spiega Serra - Le due compagini criminali si contendevano l'egemonia del territorio e quindi si scontravano continuamente con sparatorie a cielo aperto per le vie di Milano. Alla guerra sanguinaria tra i due clan si aggiunsero poi i sequestri di persona. Ricordo di averne trattati personalmente almeno un centinaio, tra Milano e l'hinterland, verso la fine degli anni '70. Furono tempi difficili anche per noi della polizia che non sapevano davvero come risanare questa nuova piaga sociale. Vi riuscimmo organizzando un super pool composto da polizia, carabinieri e guardia di finanza. Ma, ripeto, furono anni difficilissimi". In totale saranno circa una trentina i membri della banda che si avvicenderanno nel corso degli anni ma lo zoccolo duro della "batteria" resterà invariato. Tra i nomi degli irriducibili che passeranno alla memoria della cronaca nera vi sono: Antonio Colia detto "Il Pinella" e la sua donna di allora Pina Usuelli, poi Rossano Cochis, Vito Pesce, Angela Corradi, Claudio Gatti, Mario Carluccio e Antonio Furiato, questi ultimi due morti in scontri a fuoco con le forze dell'ordine rispettivamente in piazza Vetra a Milano, durante un sopralluogo per una rapina e al casello autostradale di Dalmine. "La banda della Comasina per me non aveva segreti - racconta ancora Achille Serra - Li conoscevo tutti: Vito Pesce, Osvaldo Monopoli, Rossi, Merlo fino al giovanissimo Massimo Loi. Vallanzasca è stato il boss ma il cervello della banda, quello che pianificava e progettava le attività criminali, era Antonio Colia. Peraltro lui fu quello che tentò di ricostituire la cricca negli anni '90, quando ormai si era già sciolta, ma ricevette delle porte in faccia dai suoi ex soci. Diedero tutti gran filo da torcere a noi della polizia, ma alla fine riuscimmo a catturarli uno a uno".

I sequestri e gli omicidi. Le attività principali della banda consistono in rapine, traffico d'armi e sequestri di persona, oltre al controllo di bische e night club del capoluogo lombardo. Singolare, a tal riguardo, è il sequestro di Emanuela Trapani, la figlia 16enne di un facoltoso imprenditore milanese che Vallanzasca tiene in ostaggio per circa un mese e mezzo, tra il dicembre del '76 e il gennaio del'77. "Renato Vallanzasca era un sequestratore atipico – prosegue il racconto dell'ex capo della Mobile – non maltrattava gli ostaggi. Anzi serbava loro un trattamento ospitale, quasi fossero dei privilegiati. A lui in realtà non interessavano né i soldi né le vittime: lo faceva solo il gusto della sfida. Tant'è che diede fuoco ai soldi del riscatto della Trapani – circa un miliardo di vecchie lire – quando la liberò". A quest'episodio criminoso, il 6 febbraio 1977, fa subito seguito l'uccisione di due uomini della polizia stradale che, a un posto di blocco presso il casello autostradale di Dalmine, fermano per un controllo la macchina su cui Vallanzasca viaggia insieme a Michele Giglio e Antonio Furiato. Ne segue uno scontro a fuoco in cui perdono la vita sia Antonio Furiato che gli agenti Luigi D'Andrea e Renato Barborini. Ferito e braccato, Vallanzasca cerca rifugio a Roma, ma dopo pochi giorni il 15 febbraio 1977 viene rintracciato e catturato. Tutto ciò quando ancora non ha compiuto 27 anni. Una volta tornato in carcere, decide di sposarsi il 14 luglio del 1979 con Giuliana Brusa, una delle tante ammiratrici che gli scrivono. Come suo testimone di nozze, durante il matrimonio, decide di avere il criminale del clan dei Marsigliesi Albert Bergamelli e come "compare di anelli" l'ex rivale in affari Francis Turatello, a suggello di una nuova amicizia.

L'assassinio di Massimo Loi. Dopo un altro tentativo di evasione da San Vittore, agli inizi degli anni '80, Vallanzasca viene trasferito nel carcere di Novara. È il 1981 quando, insieme ad altri detenuti, fomenta l'ennesima rivolta sanguinaria. Tra le vittime dell'agguato vi è il giovane Massimo Loi, ex componente della banda della Comasina, ucciso durante gli scontri proprio dal bandito Renato. "Loi aveva tradito la sua amicizia - ricorda Achille Serra - perché aveva fatto da autista a due malviventi che erano entrati a casa dei genitori di Vallanzasca per impossessarsi di 100 milioni di vecchie lire. La rapina trascese al punto tale che i banditi presero a calci Osvaldo Pistoia, il papà di Renato. Questo episodio Vallanzasca se lo legò al dito e quando ebbe a tiro Loi vendicò il torto subito. Lo uccise con 4 coltellate di cui una fatale che gli recise la giugulare. Successivamente, si raccontò che Renato avesse infierito sul cadavere dopo il decesso ma il criminale Vincenzo Andraous si assunse le responsabilità del fatto". Per decenni Vallanzasca nega di aver ucciso Massimo Loi fino a quando, nel 2010, confessa il delitto tra le pagine della sua biografia. "Vallanzasca tira fuori dalla tasca due coltelli, uno lo allunga a Massimo. Loi rifiuta di prenderlo. Non sa che fare. Non cerca neanche di scappare. Resta inchiodato al pavimento, lasciando cadere il coltello che Renato gli ha lasciato in mano. 'Cornuto, difenditi perché ti sto ammazzando!' grida Renato che lo piglia a schiaffi. 'Hai ragione (...) sono stato una merda... perdonami'. Renato invece continua a mollargli schiaffoni su schiaffoni (...) Loi commette l'errore fatale. Con la forza della disperazione, reagisce... Afferra il coltello caduto per terra, lo ficca nella coscia destra di Renato. È la sua condanna a morte. 'Era questo che aspettavo!' Vallanzasca vibra quattro coltellate: due raggiungono Massimo al petto, una allo stomaco, l'ultima alla gola, uno squarcio che gli recide la giugulare. Il corpo si accascia". (Leonardo Coen-Renato Vallanzasca, L'ultima Fuga, 2010, B.C.D. Dalai Editore)

La fuga dall'oblò di una motonave. Dopo la rivolta del 1981, Vallanzasca viene condannato al regime di carcere duro. Riesce però a evadere nuovamente, il 18 luglio 1987, scappando attraverso un oblò di una motonave che da Genova avrebbe dovuto condurlo al carcere di Nuoro, in Sardegna. L'episodio, unico nel suo genere, passerà alla storia come una delle evasioni più rocambolesche di tutti i tempi. A raccontarlo è proprio l'ex boss della Comasina nella biografia: "Gli sbarbati in divisa da carabiniere mi avevano assegnato per sbaglio alla cabina che di solito era riservata alle guardie – racconta Vallanzasca – Aveva un letto a castello e un oblò. L'oblò era coperto da una tendina e quando un agente perquisì la cabina, la scostò per verificare l'eventuale possibilità che il diametro del pertugio fosse sufficiente a far passare un uomo. Guardò e riguardò, poi scosse la testa. Se ne andò e mi lasciò dentro la cabina. Appena chiuse la porta cominciai a svitare i bulloni (...) Io già avevo aperto l'oblò mi stavo infilando a fatica, muovendo le spalle come un contorsionista, da piccolo ne avevo visto uno all'opera mentre si esibiva in piazza del Duomo, e avevo capito che il trucco stava tutto lì, nell'alzare le braccia dritte sulla testa, stringendo le spalle e ruotandole leggermente per favorire il passaggio. Il resto lo garantisce la dieta del carcere. (...) Uscii senza dare nell'occhio. Me la filai così, alla chetichella, senza farmi notare". È l'ultima fuga di Vallanzasca. Ricercato e senza fonti di reddito, l'8 agosto 1987 viene fermato a un posto di blocco a Grado mentre cerca di raggiungere Trieste. "Quando evase dalla nave, Vallanzasca tornò subito a Milano dove, da latitante, rilasciò un'intervista a Umberto Gai di Radio Popolare lanciando un nuovo guanto di sfida alla polizia. Ma ormai era al tramonto della sua carriera criminale - spiega ancora l'ex capo della Mobile - Fu arrestato da una pattuglia dei carabinieri mentre tentava di raggiungere la frontiera. Quella è stata l'ultima volta che l'ho visto. Anni dopo mi scrisse una lettera in cui mi chiese di aiutare la mamma che era anziana e non poteva andare a trovarlo in carcere a Bollate. Riuscii a farlo trasferire a Milano e lui, per Natale, mi inviò un calendario per ringraziarmi del favore. Da quel giorno non l'ho mai più sentito".

Renato Vallanzasca oggi. Nel corso della sua carriera criminale, Vallanzasca è stato confinato in 36 penitenziari, progettando o tentando - talvolta riuscendovi - la fuga da quasi ogni carcere in cui fosse recluso. Per i reati commessi (rapina a mano armata, traffico di armi, omicidi e sequestri di persona) è stato condannato, in totale, a 4 ergastoli e 295 anni di prigionia. Nel 2010 gli è stato concesso di uscire dal carcere, dalle 7 del mattino alle 19.30, per lavorare. Ha prestato servizio in una pelletteria del milanese e successivamente come aiutante in un negozio di abbigliamento a Sarnico, in provincia di Bergamo. Il 30 maggio 2011 il Tribunale di Milano ha sospeso Vallanzasca dal beneficio del lavoro esterno perché l'ex bandito avrebbe violato le regole di utilizzo del beneficio, pare per incontrarsi segretamente con una donna. Il 13 giugno 2014, intorno alle ore 20, durante il regime di semilibertà concessogli dal carcere di Bollate, ha tentato di taccheggiare un supermercato di Milano. Per questo episodio è stato condannato a 10 mesi di reclusione più 330 euro di multa. Il 18 aprile 2018 il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha respinto le richieste di liberazione condizionale e di semilibertà dell'ormai ex boss della Comasina nonostante una relazione redatta dal una equipe del carcere di Bollate sottolineasse il "cambiamento profondo, intellettuale ed emotivo" dell'ormai ex boss della Comasina. La richiesta è stata riformulata nel 2020 dall'avvocato Davide Steccanella, legale di Vallanzasca dal 2015 fino alla scorsa primavera. "Era stato fatto un lungo percorso in accordo con tutti gli operatori del carcere di Bollate - spiega l'avvocato Steccanella - Era stato dimostrato un notevole recupero della persona 'al di là di ogni previsione', c'è scritto chiaramente nella relazione. Ma il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha respinto la richiesta di liberazione condizionale solo perché non erano maturati i termini per la semilibertà rispetto all'ultimo tentato furto (mesi addietro era stato sorpreso mentre tentava di rubare un paio di mutande da un supermercato). L'anno dopo abbiamo ripresentato la richiesta e, per la seconda volta, ci è stata rigettata perché il magistrato di turno – a ogni udienza ve ne era uno diverso – ha deciso che occorreva "un percorso di recupero graduale" del detenuto: un paradosso dopo quasi 50 anni di carcere. C'è un report degli operatori del carcere di Bollate, esperti che sono a stretto contatto con Vallanzasca, in cui si è evidenzia il cambiamento profondo 'emotivo e intellettuale' del detenuto. Renato non è più l'ex boss della Comasina, 46 anni anni di carcere lo hanno profondamente cambiato. Il bel Renè dagli occhi di ghiaccio non esiste più, è un'altra persona oggi". Dopo l'ennesimo rigetto della richiesta del Tribunale di Sorveglianza di Milano, l'avvocato Steccanella ha deciso di lasciare la difesa di Vallanzasca, a oggi affidata al legale Paolo Antonio Muzzi . "Non mi era mai successo prima di abbandonare la difesa di un mio assistito - continua il legale – ma non potevo essere complice di quella che ritengo una tremenda ingiustizia nei confronti di Vallanzasca. Il Tribunale di Sorveglianza di Milano si è dimostrato fortemente inadeguato nella valutazione della richiesta di semilibertà. Non vi è alcun motivo per cui Renato non possa trascorrere gli ultimi suoi anni fuori dalle mura del carcere. Tutti quelli della banda sono liberi. Perché lui no? Se si è deciso che Vallanzasca rappresenta il prototipo del bandito che deve marcire in galera, lo si dica chiaramente. Sono sicuro che se gli avessero dato la possibilità di vivere gli ultimi giorni della sua vita in una casa propria, nessuno avrebbe avuto nulla da dire. Renato Vallanzasca, per l'uomo che è oggi, merita una chance. Lo dico e lo sottoscrivo".

Quel che resta di una vita da bandito. "In sette mesi e venti giorni ho bruciato la mia vita: dal luglio del 1976 al febbraio del 1977. Questo è quello che vorrei che capissero i ragazzini, soprattutto i più 'montati': sette mesi da presunto leone e trentanove anni di un'esistenza scontata dietro le sbarre. È in quei sette mesi e venti giorni che è nato il mio mito, di cui sono stato a lungo, anche troppo a lungo, orgoglioso. C'è chi pensa che io abbia voluto lasciare un segno nella storia della malavita italiana, e anche della storia del costume di questo Paese. Solo oggi, invece, aspiro a lasciare una traccia della mia vita, del mio passaggio sulla terra, rielaborando il mio passato come un lutto che ha coinvolto molte famiglie ma anche me stesso". (Renato Vallanzasca, tratto dalla prefazione al libro L'ultima fuga).

·        La "Quarta mafia" del foggiano.

La "Quarta mafia" del foggiano: ultima arrivata e sempre più letale. Piernicola Silvis su L'Espresso il 15 novembre 2021. La nascita per volontà di Cutolo. L’espansione tra estorsione, rapine e droga. E le strategie per sconfiggerla. Un magistrato racconta la criminalità organizzata intorno al Gargano.Dal nuovo blog de L’Espresso su mafia, antimafia e dintorni. Antonio Laronga, "Quarta mafia. La criminalità organizzata foggiana nel racconto di un magistrato", PaperFIRST editore, pp. 280, euro 14. “Quarta Mafia” di Antonio Laronga è il passaggio definitivo che, come e più di molte commissioni parlamentari antimafia, era necessario per sdoganare, finalmente, le organizzazioni criminali di stampo mafioso della provincia di Foggia. Tre mafie di cui per decenni non ha parlato nessuno e che invece nel libro di Laronga emergono per quello che sono, cioè pericolosissime associazioni criminali mafiose che vanno fermate al più presto. L’autore, procuratore aggiunto della Repubblica di Foggia, conosce perfettamente l’argomento perché lo combatte da anni dal suo ufficio della procura dauna, ma anche perché, oltre che essere un magistrato, è un intellettuale che è nato e vive dove lavora, quindi ogni giorno respira l’aria di quella violenza che poi combatte. La storia che ci racconta "Quarta mafia" è quella di una provincia in cui dagli anni settanta sono stati commessi centinaia di omicidi e lupare bianche, oltre che decine di attentati con bombe e atti incendiari. È una storia che fino a non molto tempo fa pochi italiani conoscevano e che ancora sfugge a molti. Mentre in importanti format televisivi vanno in onda special su Matteo Messina Denaro, ci dimentichiamo che negli anni ‘90 la mafia foggiana ha ucciso Nicola Ciuffreda, Giovanni Panunzio e Francesco Marcone, uomini retti colpevoli solo di aver denunciato i propri estorsori o di aver fatto il proprio dovere. Laronga esamina tutto, della criminalità foggiana. Dopo la prefazione di don Luigi Ciotti, l’autore ci porta nel cuore di questa forma di malavita, la esamina con fare chirurgico e ne individua gli snodi fondamentali. Il testo inizia trattando della Società foggiana, cioè l’associazione criminale della città capoluogo, il cui stampo mafioso è stato riconosciuto da pronunce giudiziarie. Della Società Laronga ci dice tutto. Da come è nata grazie a Raffaele Cutolo, che voleva espandere in Puglia la sua Nuova Camorra Organizzata, a come i foggiani si sono poi sbarazzati immediatamente sia di Cutolo sia della Sacra Corona Unita leccese, che aveva cercato di entrare nell’importante territorio dauno, le cui coste garganiche rappresentavano un ghiotto terreno di conquista per il contrabbando con l’altra sponda dell’Adriatico. Il libro ci svela i boss che ne sono stati e sono i capi attuali, le guerre, le centinaia di omicidi, le operazioni di polizia e i processi che hanno giudicato e condannato questa neomafia. Laronga analizza l’anima della Società foggiana, ancora dedita alle estorsioni (non c’è negoziante che a Foggia e San Severo non paghi il pizzo), ma non ancora al traffico di stupefacenti. L’autore però sembra dirci “attenzione, tempo al tempo: se non la si ferma, alla droga ci arriverà e allora saranno guai per tutti”. Ma ci avverte anche che la Società sta entrando nella politica e nelle istituzioni, seguendo la scia di Cosa nostra e, soprattutto, della ‘Ndrangheta, organizzazioni che in questo campo sono maestre. Laronga passa a esaminare la mafia garganica, ce ne racconta la storia, una vicenda che si srotola nei decenni, dalle faide fra pastori alle estorsioni fino al traffico di stupefacenti. Ci narra della guerra fra i montanari Li Bergolis e i manfredoniani Romito, che ha lasciato sul selciato molte vittime, al sopravvento del boss viestano Angelo Notarangelo, ucciso poi in un agguato a colpi di Ak47 in una strada interna del Gargano nel gennaio del 2015. Ci rivela come il suo posto sia stato preso dal boss emergente Marco Raduano, giovane ma crudele capobastone che ha scatenato una vera guerra alla famiglia residua del boss assassinato, con omicidi e sparizioni di ragazzi mai più tornati a casa. E non è finita, perché Laronga non solo paventa una pericolosissima unione militare di foggiani e garganici, la cui mafiosità è sancita da specifiche sentenze, ma ci porta anche nel cuore della terza organizzazione mafiosa della Capitanata, cioè la cosiddetta mafia cerignolana, il cui core business è da sempre il traffico di stupefacenti. È una mafia i cui capi sono a Milano, ma che rifornisce di droga tutto il basso Tavoliere. L’autore esamina con profonde valutazioni come le eclatanti rapine, per cui la malavita cerignolana è famosa, siano altro rispetto alla mafia locale. I mafiosi del basso tavoliere non sono interessati alle rapine, sono attratti solo dagli enormi ricavi che consentono i traffici di droga. D’altronde, nella provincia di Foggia sono stati recentemente sciolti per infiltrazioni mafiose i comuni più importanti, quali Manfredonia, Cerignola, Mattinata e Monte Sant’Angelo, e in ultimo (ma l’autore ancora non ne era al corrente quando il libro è stato pubblicato), il comune capoluogo, Foggia, in cui sono stati arrestati anche il sindaco e altri politici interni al Comune. Questa è la dimostrazione evidente di quanto grave sia la situazione di quella provincia, dove in pratica sopravvivono non sciolti per mafia solo i comuni di San Severo e Vieste. È un quadro desolante che l’autore disegna con una precisione notarile e circa quaranta pagine di note, perché, da buon magistrato, sa che l’accuratezza e la documentazione sono le premesse essenziali per respingere al mittente ogni possibile attacco alle pagine che ha scritto. Però non solo l’autore ci mostra lo sfascio di un grande e bellissimo territorio del Paese, perché ci dà anche gli input giusti per sapere cosa e come fare per superare il gap di una malavita che tiene in scacco la seconda provincia italiana per estensione, laddove il solo Gargano ha quasi la stessa ampiezza dell’intero Salento. La narrazione di Laronga è diretta, semplice, affascinante e avvincente come la scrittura di un ottimo autore di fiction, con la differenza che la Quarta mafia non è fiction, ma una devastante realtà. Ha una gran penna, questo coraggioso e cortese magistrato che, al netto degli scempi del caso Palamara, potrebbe essere il modello di come si esercita la funzione giudiziaria con cautela, onestà, semplicità. Eleganza. Accingendomi a chiudere queste righe sul bel testo di Laronga, mi piace finire con una chicca. Per uno di quegli strani casi della vita, nel febbraio del 2020 Antonio Laronga, Donatella Curtotti, preside della Facoltà di Giurisprudenza di Foggia, e il sottoscritto fummo invitati a tenere una conferenza sulla criminalità mafiosa della provincia. Il convegno si teneva a Torremaggiore, all’estremo nord della provincia. C’eravamo messi d’accordo, nel senso che Laronga avrebbe parlato della mafia del capoluogo, io di quella garganica e Curtotti avrebbe fatto il punto della situazione.

Andò che io e Donatella parlammo a braccio, come di solito si fa nei convegni, e quando toccò a Laronga, lui estrasse dalla borsa un documento che iniziò a leggere. Di solito quando un conferenziere legge, l’uditorio si stanca e si annoia, ma in quell’occasione avvenne un miracolo. Laronga lesse con pacatezza, con intonazione, con emozione, eliminando del tutto la parte fredda di quando si comunica leggendo e facendovi invece penetrare la parte emotiva e commotiva. Fu un successo, e quando uscimmo gli dissi: «Antonio, sei stato eccezionale. Posso darti un suggerimento? Amplia questo scritto e fanne un libro, vedrai che sarà pubblicato». Da quell’uomo modesto che è, Laronga si schermì e disse che non aveva tempo, che sarebbe stato un lavoraccio e via dicendo, insomma disse le solite cose che si dicono quando si è umili. Ma dopo aver ascoltato le mie parole, anche Donatella Curtotti si unì al coro e gli suggerì di ampliare il testo e provare a pubblicarlo. Lui disse che ci avrebbe pensato e ci salutammo. Un anno dopo PaperFIRST dava alle stampe “Quarta mafia”. E questo è quanto. Piernicola Silvis (1954), foggiano, laureato in Giurisprudenza, è stato dirigente della Polizia di Stato dal 1981 al 2017, quando – dopo numerosi incarichi investigativi ricoperti in varie città del Paese - è andato in quiescenza con l’incarico di Questore della provincia di Foggia. Ha ricevuto un Encomio Solenne per la cattura, nel settembre del 1992, del latitante di Cosa nostra Giuseppe “Piddu” Madonia, oltre che sei encomi e dieci lodi per altre operazioni di servizio. Ha scritto otto romanzi pubblicati da Fazi, Cairo, Mondadori e SEM, e fra i riconoscimenti letterari ricevuti c’è il premio Selezione Bancarella vinto con “Gli illegali” (2019). Nominato Cavaliere della Repubblica (2021), è docente di “Criminalità organizzata” al Master in Criminologia della Facoltà di Giurisprudenza dell’’Università di Teramo.

·        La Mafia Molisana.

"Molise criminale", storie di mafia nella regione che non ti aspetti. Dallo scandalo petroli degli anni '70 al maggiordomo del Papa di Vatileaks un libro racconta l'altro volto dell'isola felice. Grazia Maria Coletti su Il Tempo il 25 novembre 2021. “Molise criminale”, storie di mafia nella regione che non ti aspetti, “quello che gli italiani non sanno su un crocevia di affari, omicidi, armi, droga, terroristi e latitanti”.  E' il titolo del libro di  Giovanni Mancinone, (da giornalista della carta stampata a vice capo redattore Rai), che racconta l'altro volto dell'isola felice di questa piccola regione dell’Italia di mezzo che “nasconde storie poco edificanti” (189 pagine, Rubbettino editore). Dalle inchieste della Squadra Mobile e le Procure di Campobasso e Reggio Calabria sulle tracce dei boss del narcotraffico in Colombia, ai borghi molisani pieni di ospiti senza un nome certo, terroristi, latitanti e in soggiorno obbligato. O eroine come Lea Garofalo, la testimone di giustizia contro la 'ndrangheta che doveva essere protetta ma non fu così. Il delitto Pecorelli, Angelo Izzo il nome più noto del massacro del Circeo. "Affari e rifiuti", "il ministro in carcere" e "le fabbriche svuotate". Tutto riporta in Molise.  Persino negli scandali vaticani: dal maggiordomo del Papa del caso Vatileaks di Bagnoli del Trigno, all’intermediario per l’acquisto dell’immobile di lusso a Londra, molisano pure lui. Tutto sotto soglia. Anche se da anni magistrati, investigatori e associazionismo antimafia lanciano l’allarme criminalità organizzata che però sembra non preoccupi poi tanto.  “Diffuso negazionismo o più subdolo minimalismo” il dilemma nella prefazione di Salvatore Calleri presidente della Fondazione Antonino Caponnetto. E questo in un territorio di “neve bianca e mare cristallino”, “boschi rigogliosi e uliveti antichi”, “che potrebbe somigliare in piccolo alla Svizzera” lo paragona l’autore con l’orgoglio del molisano doc ma che “dopo qualche anno in purgatorio, cooptato nella lista delle regioni in crescita economica, è stato invece retrocesso nelle zone dell’inferno del Sud sempre più povero e isolato”. Nell’ultima grande inchiesta, la polizia da Campobasso è arrivata sino ai boss mafiosi in Colombia, a Bogotà, eppure l’impressione è che il male sfugga all’evidenza dell’opinione pubblica. Insomma, in regione a “coprire” la mafia sarebbe un atavico velo di buonafede. Ora, in 189 pagine il libro Molise criminale del giornalista Giovanni Mancinone prova a sollevarlo mostrando che anche questo piccolo paradiso del centro Italia ha il suo inferno. Il viaggio dell’autore è tra le ombre di ieri e di oggi. Si parte dagli anni Settanta: in Italia scoppia l’inchiesta Loocked, il “caso petroli”. Si pensa sia solo una storiaccia romana però travolge pure un illustre molisano. È il ministro della Difesa di allora, Mario Tanassi, di Ururi, in Molise. Il Molise riappare anche nella Loggia P2. A Roma – si legge nel testo - la sera del 20 marzo 1979 un giornalista viene ucciso in strada. È il direttore del settimanale Op. Si dice che il delitto sarebbe solo un filo della trama più estesa e fitta dei grandi misteri italiani e non coinvolgerebbe la regione-confetto. E invece la vittima ha sangue molisano: è Mino Pecorelli, di Sessano nel Molise, in provincia di Isernia. L’altro inaspettato sottosuolo è la criminalità organizzata. Nell’85 – continua Mancinone – i magistrati spediscono lontano dalla sua Sicilia un personaggio rimasto impigliato in inchieste di mafia: è l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. Viene mandato in soggiorno obbligato a Rotello, in Molise. Come e dopo di lui cognomi di camorra, ‘ndrangheta e mafia pugliese (Sacra corona unita) diventano “ospiti molisani” ingombranti. In regione l’inevitabile aumento di violenza, sia mafiosa sia senza padrini. Novembre 2004, uno dei tre condannati della strage del Circeo, Angelo Izzo - si rievoca nel libro - dal carcere di Palermo viene trasferito in semilibertà a Campobasso. Un anno dopo, in una villetta nel capoluogo molisano Izzo uccide madre e figlia quattordicenne. Ancora, inizi di maggio 2009. C’è una donna che sfida la ‘ndrangheta. Racconta ai pm di omicidi e vendette tra cosche del Crotonese, in Calabria. Lei è Lea Garofalo, 35 anni. Con sua figlia prova a rifarsi una vita ricominciando da Campobasso. Però la ‘ndrangheta non dimentica. Nel 2005, nel nascondiglio molisano Lea riesce a difendersi da un tentativo di sequestro in casa. Ma quattro anni dopo, a Milano, viene rapita, strangolata e il suo corpo bruciato in un magazzino di Monza. Il 2012 è l’anno di “Vatileaks”, lo scandalo vaticano. Il giornalista lo ripercorre. Dall’appartamento di Benedetto XVI escono lettere riservate. Chi è il “corvo”? Viene arrestato nel maggio di quell’anno. Si chiama Paolo Gabriele, è il maggiordomo del Papa e – guarda il caso - è molisano di Bagnoli del Trigno. Pochi anni dopo un altro corregionale fa parlare di sé per un’ennesima vicenda legata alla Santa Sede. È il finanziere Gianluigi Torzi, “indicato – scrive Mancinone - come intermediario per l’acquisto di un immobile di lusso a Londra”. In Molise il fiume nero esonda. Fioccano inchieste su traffico di rifiuti, impianti eolici, pizzo e tanta droga da portare gli investigatori in Sudamerica. Nel 2017, parlando di cyberbullismo in una scuola di Campobasso l’ex capo della Polizia, Franco Gabrielli, ha avvertito: “Il Molise non è più una regione esente ma non è neanche Sodoma e Gomorra". Tre anni più tardi il rapporto "La tempesta perfetta" di Libera Associazioni e Lavialibera accende l’allarme rosso: l’impennata delle interdittive antimafia emesse dalle Prefetture molisane: “Dalle sei interdittive del 2019 – è scritto – si è passati alle 28 del 2020 (+366 per cento)”. E, infine, nel settembre scorso, la Direzione distrettuale antimafia descrive lo scenario criminale in Molise. “Non trascurabile - è scritto nella seconda relazione Dia al Parlamento - il grado di penetrazione criminale nel tessuto sociale ed economico molisano proprio da parte di soggetti riconducibili a clan campani e pugliesi con pregiudicati locali anche stranieri ovvero con rom stanziali”. “Questo libro – spiega nella prefazione il presidente della fondazione ‘Antonino Caponnetto’, Salvatore Calleri – ci conduce per mano nel Molise, specchio dell’anima dell’intero Paese”. Però, sottolinea il presidente, “è da registrare un diffuso negazionismo: ma davvero in Molise c’è mafia?”. “In regione la mafia non uccide – conclude Giovanni Mancinone - ma c’è”.

·        Mala del Brenta: la Mafia Veneta.

L'eterna Mala del Brenta e il piano segreto: "Maniero deve morire". Nino Materi l'1 Dicembre 2021 su Il Giornale. "Faccia d'angelo" si salvò grazie all'arresto nel 2019 per maltrattamenti sulla moglie. Divorato dalle sue stesse «creature». È una sorta di nemesi criminale quella che i carabinieri dei Ros ha scoperto nel corso dell'operazione che ha disarticolato, grazie a 39 arresti (eseguiti in Veneto su richiesta della Dia di Venezia), la struttura della nuova Mala del Brenta, cioè gli eredi di quella banda che Felice Maniero (nella foto) mise su negli anni '70 per poi contribuire a smantellarla grazie al suo pentimento nella metà degli anni '90. Uno sgarro che in tutti questi anni non è mai stato perdonato a «faccia d'angelo», per un ventennio leader di un'organizzazione specializzata in rapine, assalti a portavalori, colpi in banche, uffici postali e accusato di omicidi, traffico di armi, droga e associazione mafiosa. Area di influenza: il Nord-Est, ma non solo. Tutti gli uomini finiti ieri in manette devono rispondere di associazione per delinquere, detenzione e porto di armi da fuoco, spaccio di stupefacenti, estorsione, rapina, usura e altri delitti, alcuni dei quali aggravati dal reato di associazione mafiosa. L'indagine ha accertato, tra l'altro, l'esistenza di un «piano segreto» per eliminare il «traditore» Maniero. Un «progetto di morte» che sarebbe servito a «cementare il nuovo sodalizio» sviluppatasi a partire dal 2015, a seguito della liberazione, dopo anni di detenzione, di esponenti di spicco della frangia dei «mestrini», braccio armato della ex Mala che aveva in «Felicetto» il suo boss-simbolo. Un attentato al quale Maniero sarebbe scampato nel 2019 solo per un caso «fortuito»: l'arresto per maltrattamenti nei confronti della compagna. E così, tornato in carcere «faccia d'angelo», saltò anche l'agguato contro di lui. La new generation della Mala del Brenta aveva i propri punti di forza in cinque personaggi-chiave: Loris Trabujo; Gilberto Boatto; Paolo Pattarello; Gino Causin e Antonio Pandolfo. Secondo i Ros, il nuovo gruppo «voleva eliminare Maniero, tanto da aver preso dei contatti con malavitosi di Brescia, dove l'ex boss vive da anni sotto un nuovo nome». Nel mirino degli eredi della vecchia Mala del Brenta c'era anche Paolo Tenderini, ex «mestrino» del gruppo storico. Nel caso di Tenderini, la sua salvezza è legata al fatto che l'esplosivo con cui era in programma di farlo saltare, venne intercettato e sequestrato appena prima dell'attentato.

Ma «Felicetto» come ha preso la notizia del progetto di omicidio ai suoi danni?

Per lui ha parlato con l'Adnkronos l'avvocato Rolando Iorio: «Non solo Maniero prende le distanze dalla ricostituita Mala del Brenta ma anzi la disconosce, essendosi lui stesso, il boss, pentito. Maniero non ha paura non solo per il carattere guascone che lo contraddistingue, ma soprattutto perché non si ritiene responsabile degli anni di carcere che sono stati inflitti ai membri della banda dopo le sue dichiarazioni confessorie». «A riprova del fatto che non teme per la sua incolumità - aggiunge il legale - c'è che, prima dell'ultimo arresto, è stato per anni libero. Sarebbe potuto andare in qualsiasi parte del mondo, ricostruirsi una nuova vita, avendo pure un'altra identità. Invece è rimasto in Italia». In una lettera scritta all'Adnkronos lo stesso Felice Maniero, che oggi ha 67 anni, aveva infatti invitato le nuove generazioni a «non imboccare la scorciatoia della criminalità in cerca di facili guadagni, ma di seguire la via della legalità, a lungo termine più remunerativa in termini di libertà e qualità della vita». Nino Materi

Andrea Priante per il "Corriere della Sera" il 2 dicembre 2021. «È oro mia figlia... è bravissima, si sta dando da fare per tenere in mano tutto, sai... Io le ho detto: amore, tu devi essere pronta per tenere in mano tutto tu...». Così parlava il veneziano Loris Trabujo, braccio destro del boss Gilberto «Lolli» Boatto, ottantenne ex luogotenente di Felice Maniero che, condannato all'ergastolo, aveva sfruttato la libertà condizionata per dare vita alla nuova mala del Brenta. La banda univa la vecchia generazione - un manipolo di ultrasettantenni dell'organizzazione mafiosa che fino agli anni Novanta dominò il Nordest - con la nuova, fatta di criminali più giovani e altrettanto spregiudicati. Ma se in origine la mafia veneta era tutta declinata al maschile (a eccezione della madre di Felice Maniero, che però fu solo sfiorata dalle inchieste), qui le donne avevano assunto ruoli importanti. Segno dei tempi. Sono dieci quelle indagate, tra le sessanta persone finite nell'inchiesta del Ros di Padova che martedì ha portato a 39 arresti per reati (aggravati dal metodo mafioso) che vanno dallo spaccio, alle estorsioni, fino alle rapine. C'è Pamela Trabujo, finita ai domiciliari e che papà Loris aveva nominato sua «legittima erede» intestandole le licenze e, soprattutto, i preziosi motoscafi che trasportano i turisti a Venezia. Un mercato che genera una quantità enorme di denaro: per questo la nuova mala del Brenta sognava di controllarlo, come faceva in passato. «Pamela - scrive il giudice - offre il suo apporto consapevole al mantenimento di uno degli strumenti economici principali che consentono all'associazione criminale di gestire i proventi». Indagata anche l'avvocatessa padovana Evita Dalla Riccia, difensore di Boatto, che dice: «Sono innocente, mi difenderò in tribunale». Ma per il gip era «sostanzialmente messa a disposizione dell'associazione, piegando la funzione di legale e la connaturata insospettabilità dovuta al suo ruolo, al servizio delle esigenze criminali dei suoi clienti». Faceva in modo che il boss incontrasse un altro degli ex della Mala finiti in carcere, il 73enne Paolo Pattarello. E poi consegnava a Trabujo le «ambasciate» di Boatto. In prigione si trova Anna Pegoraro, sposata con un altro degli arrestati, Roberto Sorato. «A lei è spettato il compito di mantenere le comunicazioni tra Pattarello e gli altri sodali». Non solo. In alcuni casi passava all'azione, come autista durante le azioni della banda. Stessi ruoli affidati alla padovana Flora Stecca. La giovane compagna di Trabujo, Sara Battagliarin (ora ai domiciliari), gestiva invece i soldi delle estorsioni che finivano nell'azienda di famiglia, oltre ai molti telefonini utilizzati per organizzare le attività. Nell'ordinanza viene definita «strumento consapevole nelle mani del marito»: assunta come dipendente dal coniuge, si poteva «sostanzialmente permettere di non lavorare e di godere ugualmente della vita agiata che Trabujo, con i suoi proventi illeciti, le consentiva». E il veneziano aveva coinvolto perfino la madre Lucia Marazzi, 77 anni, con compiti di custode di soldi e armi. «Tu vai là, mia mamma sa già tutto», diceva al boss Boatto. Che intanto, non sapeva più dove mettere il denaro. 

·        La Mafia Nigeriana.

Alberto Simoni per "la Stampa" il 14 dicembre 2021. L'Fbi ha sentito odore di maxi frode nel lontano 2010. Le unità specializzate nel rintracciare i crimini finanziari hanno iniziato a setacciare il Web e le chat nascoste nei forum, quindi hanno ricostruito il passaggio di denaro e rivelato email e Ip da dove i truffatori gestivano i contatti con i malcapitati. Dal 2019 al 2021 gli agenti del Bureau hanno messo sotto accusa 35 persone responsabili di frodi multi-milionarie in California. In queste settimane intelligence Usa e Interpol sono sulle tracce di nove criminali nascosti in Sud Africa. Ma è solo una parte del lavoro che Procure e intelligence di molti Paesi stanno conducendo sotto copertura. Le vittime - che nelle chat sequestrate sono definite come «mugu» o «maye», idioti - venivano adescate con trucchi sul Web; veniva fatto loro credere che depositando i loro soldi su una banca, generalmente svizzera, avrebbero fruttato interessi favolosi. Fra le mail recuperate dagli agenti del Bureau ce ne è una in cui un signore californiano chatta con i suoi truffatori e a un certo punto, come d'incanto, scopre l'inganno: «La banca cui mi dite di appoggiarmi non esiste». Nel frattempo, 3 milioni di dollari erano già in fumo. Se la storia finisse qui ci troveremmo davanti a un ennesimo caso di truffa - pur se di proporzioni ingenti - su scale globale. A far fare un salto alla vicenda è l'identità dei truffatori: la mafia nigeriana, Black Axe. Di questo gruppo anche l'Italia ha fatto di recente una conoscenza ravvicinata. Il 30 aprile scorso trenta persone sono state arrestate in 14 province con l'accusa di sfruttamento della prostituzione, traffico di esseri umani, truffa informatica e riciclaggio. Il tutto aggravato dall'associazione di stampo mafioso. La mente del gruppo che dirigeva il ramo italiano è un 35enne nigeriano che aveva issato a L'Aquila il suo quartier generale e che in due anni aveva messo insieme frodi per circa un milione di euro. L'uomo era partito nel 2014 dalla Nigeria, si era fermato in Libia e da lì con un barcone era sbarcato a Pozzallo finendo poi nel centro di prima accoglienza del capoluogo abruzzese dove viveva in un appartamento regolarmente affittato e pagato. La sua storia ci porta direttamente al luogo da dove i tentacoli di questo network criminale si diramano, ovvero Benin City, capitale dello stato nigeriano dell'Edo. È qui che 40 anni fa Black Axe è nata. All'inizio è una gang locale spregiudicata e votata alla violenza. I riti di iniziazione sono brutali, frustate sulle gambe, nudi con il viso nel fango a subire botte e insulti. Chi sopravvive diventa un Black Axe e si garantisce protezione eterna dal gruppo. Negli anni il gruppo si è evoluto in una struttura criminale di proporzioni globali, trova coperture politiche e si infila nei gangli del potere nigeriano. Il disegno strategico va oltre esecuzioni e lotte per il controllo di un territorio o del mercato locale. Le autorità canadesi nel 2017 hanno smascherato uno schema di riciclaggio di denaro collegato a questa mafia del valore di 5 miliardi di dollari. Le persone coinvolte risiedevano in Nigeria, nel Regno Unito, in Malaysia, negli Stati del Golfo e in un'altra decina di Stati. A gettare ulteriore luce sui movimenti e gli affari sporchi di Black Axe sono stati alcuni pentiti rintracciati dalla Bbc a Benin City in un lavoro investigativo durato quasi due anni. Uche Tobias - nome di copertura - è uno dei custodi degli archivi digitali del gruppo di cui ha fatto parte. I membri «sparsi in ogni angolo del mondo sono circa 30mila», ha detto. «Si dividono le zone e ognuna di esse ha un riferimento che esige una tassa di appartenenza annuale ai suoi seguaci». I proventi delle truffe finiscono poi a Benin City dai leader della mafia. Che assolda manodopera locale - principalmente ragazzi fra i 16 e i 23 anni - per i suoi traffici. Secondo i dati del 2020 dell'Unhcr il 70% dei nigeriani che imbocca la via della Libia per entrare in Europa proviene dall'Edo. E la regia di questo traffico come per le truffe bancarie ha un nome preciso: Black Axe. 

Black Mafia, il primo documentario sul fenomeno della mafia nigeriana in Italia. Il Fatto Quotidiano l'8/12/2021. In onda in prima serata venerdì 10 dicembre su Rai Tre, Black mafia è tratto dal libro Mafia nigeriana del giornalista Sergio Nazzaro, con la regia di Romano Montesarchio. Una squadra di agenti della polizia locale di Torino raccoglie la denuncia di una ragazza nigeriana contro la sua madam. Sembra una storia comune, una vicenda di sfruttamento della prostituzione. E invece si trasforma in un mega-inchiesta della magistratura. Si chiama Athenaeum e tra il dicembre del 2012 e il settembre del 2016 documenta l’esistenza delle più violente tra le organizzazioni criminali di tutto il mondo: la mafia nigeriana. Un clan che agisce non solo con la violenza fisica, ma con un’arma che nessun’altra mafia possiede: i riti voodoo. In Italia, patria delle mafie “classiche”, esiste una nuova organizzazione criminale: minaccia, sfrutta e talvolta uccide, con legami internazionali in Canada, Regno Unito, Olanda, Germania, Malesia e Ghana. Quella di Torino è una delle prime indagini sulla mafia nigeriana in Italia. L’inchiesta viene ricostruita nei dettagli in Black Mafia, il primo documentario sulla mafia nigeriana della serie Crime Doc targata Rai Documentari. In onda in prima serata venerdì 10 dicembre su Rai Tre, Black mafia è tratto dal libro Mafia nigeriana del giornalista Sergio Nazzaro, con la regia di Romano Montesarchio, da un’idea di Andrea Di Consoli e scritto da Romano Montesarchio, Sergio Nazzaro e Stefano Russo. Attraverso le interviste ai protagonisti, ricostruzioni cinematografiche, l’uso di intercettazioni originali, immagini di repertorio e documenti esclusivi, il documentario ricostruisce gli affari della mafia nigeriana nel nostro Paese. Dopo la procura di Torino, negli anni successivi gli uffici giudiziari di ogni parte d’Italia si sono occupati di mafia nigeriana. Al fianco di Cosa nostra, della ‘ndrangheta e della camorra c’è una nuova organizzazione criminale che fa affari, intimidisce e gestisce le piazze di spaccio. L’ultimo report del Servizio analisi criminale del Viminale spiega che nel 2019, ultimo anno prima della pandemia, c’è stata una “forte crescita” dei cittadini nigeriani segnalati nel nostro Paese per associazione mafiosa (passati dai 28 del 2018 a 154). L’ufficio diretto da Stefano Delfini, che fa parte della Direzione centrale della Polizia criminale, mette quindi in guardia nei confronti di un’organizzazione “con solide basi nel Paese di origine da dove, attraverso diverse propaggini opera su scala internazionale in vari continenti e in diverse nazioni tanto da dover essere considerata una seria minaccia a livello globale”.

Da agi.it il 24 novembre 2021. Le ragazze nigeriane reclutate e introdotte in Italia venivano vessate, sottomesse e poste in uno stato di vulnerabilità psicologica, determinato anche dalla celebrazione di macabri riti "voodoo" a garanzia del debito contratto per arrivare nel nostro Paese. E' quanto accertato dalla Guardia di Finanza, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia e dalla procura di Cagliari su una associazione a delinquere di matrice nigeriana finalizzata al riciclaggio internazionale di capitali illeciti dedita anche al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. L'inchiesta ha portato a 40 arresti. Sono complessivamente 122 le persone coinvolte nel procedimento che ha riguardato il gruppo criminale dell'Eiye "Supreme Confraternity of Air Lords". Un primo filone investigativo è originato dall'acquisizione di informazioni - spiega una nota della Guardia di Finanza - successivamente corroborate con l'acquisizione di una denuncia di una donna introdotta clandestinamente in Italia, concernenti l'esistenza di un'estesa rete di persone, operanti tra la Nigeria e l'Italia" che ha costretto "giovani donne nigeriane, a fronte delle promesse di opportunità lavorative nel nostro Paese, ad assumersi ciascuna debiti, anche di 25, 50 mila euro, compreso le spese del viaggio verso l'Italia". Debiti che le vittime avrebbero dovuto saldare per ottenere "in cambio la libertà ed evitare conseguenze lesive per loro stesse e i propri familiari in Nigeria". Il provvedimento dell'Autorità giudiziaria di Cagliari, che ha consentito di liberare le giovani vittime dal vincolo di coazione fisico-psicologico cui erano costrette.

Dove operavano i gruppi criminali

Le indagini hanno portato alla luce "una struttura reticolare suddivisa su tre gruppi criminali radicati, rispettivamente, in Sardegna (nel cagliaritano), in Piemonte (nel torinese), in Emilia Romagna (nel ravennate), ma con operatività estesa in altre aree italiane e transnazionale (in Nigeria, Libia e Germania), dediti alla commissione dei reati innanzi indicati, ma anche di identificare le vittime, 50 donne nigeriane, reclutate e condotte da propri connazionali dalla Nigeria". In totale sono state 41 le ragazze destinate alla prostituzione, mentre 9 quelle costrette all'accattonaggio in aree cittadine ove gli indagati avevano ubicato "postazioni di lavoro" sottoposte alla loro influenza e gestite da soggetti ("madame" o "sister/brother") dediti allo sfruttamento delle connazionali e/o addetti al controllo sul regolare svolgimento delle attività da parte delle vittime e alla riscossione del pagamento coattivo di un canone mensile di 150 euro per l'affitto di dette "postazioni". Il denaro, secondo quanto spiega la Gdf, veniva riciclato prevalentemente con investimenti immobiliari da realizzare in Nigeria mediante l'utilizzo di corrieri "portavaligie", l'effettuazione di ricariche su carte prepagate, attraverso canali di money-transfer.

Undici squadre di corrieri

Gli indagati operavano tramite 11 squadre "di corrieri, costituite da un'estesissima rete di collaboratori scelti per affidabilità ed efficienza, in Sardegna, Piemonte, Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna. Nove indagati operavano dall'estero (Libia, Nigeria e Germania) e avevano il compito di trasferire i fondi illeciti diversificando sia le modalità di occultamento del denaro, sia i corrieri incaricati, sia ancora gli scali di partenza onde eludere i controlli e diminuire i rischi di sequestri e sanzioni". Sono stati individuati 7 centri hawala e ricostruiti trasferimenti di valuta per oltre 11 milioni di euro effettuati dal territorio nazionale alla Nigeria attraverso ricariche su carte PostePay e Vaglia On Line. L'attivazione del dispositivo di contrasto valutario dei Reparti del Corpo ha, altresì, permesso di controllare 44 corrieri partenti da scali aeroportuali italiani in 86 diverse occasioni, e di monitorare il "passaggio" di 1.852.698,83 euro, con conseguente sequestro di somme per 712.099,32 euro e applicazione di sanzioni amministrative per 510.244,32 euro. 

·        La Macro Mafia.

I padrini della Macro Mafia, la super cupola che controlla la droga in Europa. Floriana Bulfon su l’Espresso il 6 ottobre 2021. A Dubai il vertice dei capi dei cartelli che governano il traffico di stupefacenti nel Vecchio Continente. E che vengono da Italia, Olanda, Cile, Bosnia: vi raccontiamo chi sono. C’erano un irlandese, un bosniaco, un cileno, un olandese e un napoletano a un matrimonio a Dubai. Non è una barzelletta ma la fotografia di una Macro Mafia innovativa che ha trovato tra i grattacieli scintillanti degli Emirati un porto franco da cui trafficare tonnellate di cocaina, riciclare denaro sporco e all’occorrenza ordinare omicidi comodamente via chat. Una rete fluida che coopera oltre i confini nazionali ed etnici, usa comunicazioni hi-tech e strumenti finanziari d’avanguardia, continuando però a cementare le alleanze nei banchetti nuziali come la vecchia Cosa nostra. Un passato che serve a costruire la criminalità del futuro, proiettata in una scala globale mai vista prima. Quando nel maggio 2017 il rampollo del clan irlandese dei Kinahan decide di convolare a nozze, non ha dubbi sulla location: sceglie la più esclusiva, l’hotel Burj al Arab di Dubai. E gli invitati non devono essere da meno. Fa il suo ingresso Raffaele Imperiale, il manager di camorra che ha inventato una rete triangolare delle importazioni di cocaina: dall’Olanda alla Colombia, passando per la Spagna. Lui quel resort a forma di vela, con suite che costano anche 30mila dollari a notte, lo conosce bene: ci ha abitato con tutta la famiglia. Poi ecco Edin Gačanin, il capo della gang bosniaca Tito i Dino. Ha lasciato Sarajevo durante la guerra civile ed è cresciuto nel Brabante settentrionale, ma oramai anche lui si è trasferito negli Emirati da dove controlla le rotte del narcotraffico peruviane. I carichi li fa arrivare nei porti di Rotterdam e Anversa: quelli dove comandano il signore della droga olandese Ridouan Taghi e il suo socio Richard Riquelme Vega, per gli amici El Rico, considerato a Santiago «il cileno più pericoloso al mondo». Un nuovo gotha del crimine: un super cartello riunito per il rito nuziale. Che non è sfuggito agli agenti della Dea, la Us Drug enforcement administration, pronti a trasformarlo in un atto d’accusa: quel ricevimento non è solo la prova che si conoscono e amano il lusso. «Questo possiamo farlo fuori, paghiamo subito», con tanto di spedizione a Dubai per istruire il killer. O ancora: «Facciamo dormire questo cancro di Plooij» (ndr, il procuratore olandese Koos Plooij). Quando gli investigatori sequestrano il telefono di El Rico e riescono a leggere i milioni di messaggi scambiati sulle chat criptate, ecco emergere il sistema: ordinano omicidi e spedizioni di coca milionarie standosene nelle suite emiratine. Al centro ci sono i porti dei Paesi Bassi dove solo nel 2020 le forze dell’ordine hanno scovato oltre 100 tonnellate di polvere bianca. Per i narcos, i sequestri della polizia sono un rischio calcolato: lì viene controllato meno del 2 per cento dei container. L’Olanda è una terra promessa: ha anche il primato nella produzione di droghe sintetiche, con una filiera di laboratori clandestini diffusi sul territorio. La narco-industria è un business redditizio e fa gola a molti, tutti messi alle corde da Ridouan Taghi. È l’esponente più noto della “Mocro maffia”, la nuova generazione di criminali che dagli anni Duemila ha scalato il potere a colpi di kalashnikov. Mocro è il modo in cui i giovani marocchini si chiamano nello slang di strada, ma a farne parte ci sono ragazzi di ogni etnia uniti dal desiderio di fare soldi facili. A qualunque costo. Taghi è accusato di essere il mandante di parecchi omicidi della guerra che sta trasformando l’idilliaca Olanda in una macelleria messicana: regolamenti di conti nelle strade; sedi dei giornali prese di mira lanciandogli contro furgoni-ariete; container trasformati in camera di tortura. Il padrino di sangue maghrebino aveva trovato il suo buen retiro a Dubai, ma nel dicembre 2019 è stato estradato e ora è protagonista del più grande processo alle organizzazioni criminali nella storia olandese. Il testimone chiave è il collaboratore di giustizia Nabil Bakkali: Taghi, come emerge dai messaggi decriptati, aveva intenzione di «far dormire» tutti quelli che erano legati a Nabil, ordinando una vendetta trasversale come quella scatenata a suo tempo a Palermo contro Tommaso Buscetta. Hanno ucciso suo fratello, poi il suo avvocato Derk Wiersum, quindi Peter R. de Vries, il reporter con una fama insuperabile nell’indagare sui casi criminali che seguiva la sua vicenda. «I messaggi intercettati sulle piattaforme Encro chat e Sky hanno evidenziato in maniera chiara il ruolo dei criminali olandesi nel traffico internazionale di cocaina. In ballo ci sono enormi quantità di denaro, una posta in gioco alta che fa aumentare il grado di violenza», spiega Sven Brinkhoff, professore di diritto penale alla Open University dei Paesi Bassi: «Per combatterla è necessario agire su più livelli: formazione della polizia, cooperazione internazionale e soprattutto puntare sulla prevenzione. Bisogna far sì che i giovani non siano così attratti dalle mafie». Ragazzini pronti a uccidere per poche migliaia di euro e sicari come Naoufal Fassih, detto Noffel the Belly, finito all’ergastolo per l’omicidio dell’iraniano Ali Motamed. Forse il delitto più inquietante, che trasforma questa storia di coca e pistoleri in un intrigo di spie. Motamed faceva l’elettricista e viveva in una villetta a schiera ad Almere, un sobborgo di Amsterdam. Il suo vero nome però era Mohammad Reza Kolahi Samad, ed era un membro del movimento Mujahedeen-Khalq, i più agguerriti oppositori degli ayatollah di Teheran. Era scomparso dai radar nel 1981, quando venne accusato dell’attentato terroristico contro gli uffici del Partito della Repubblica Islamica: morirono 73 persone, tra cui quattro ministri e Mohammad Beheshti, allora considerato il vice di Khomeini. Adesso i detective olandesi ritengono che l’esecuzione di Motamed-Samad sia stata ordinata da Teheran e nelle ultime settimane anche gli avvocati di Fassih hanno chiesto di aprire un’inchiesta sui veri mandanti dell’omicidio. A dimostrazione dell’efficacia del super cartello, quando Fassih è fuggito dall’Olanda ha trovato rifugio a Dublino, proprio nel quartier generale del clan Kinahan. La dinastia dei Kinahan nasce agli inizi degli anni Ottanta. Christy è uno dei primi a vendere eroina nel Paese e in breve tempo diventa tanto potente da creare la sua gang. Non si perde d’animo neppure quando lo arrestano. Sconta la pena, si laurea in lingue e una volta scarcerato viaggia in Asia e Sudamerica, Messico e Colombia in particolare. Poi si trasferisce con i tre figli in una villa con piscine e guardie del corpo in Costa del Sol, proprio come avevano fatto Imperiale ed El Rico, e lì Daniel, il primogenito, impara presto il mestiere tanto che gli investigatori lo individuano già nel 2010 come «il detentore del controllo generale della gestione quotidiana del cartello». Un documento statunitense lo descrive come «un uomo d’affari irlandese coinvolto nel narcotraffico in tutta Europa» che «potrebbe essere interessato ad espandere la sua rete in Africa occidentale». Ha solo 33 anni e dal padre eredita anche la passione per il pugilato. Fonda la Mgm ed è un successo. Il barone della droga sale sul ring della boxe mondiale. La mala però non dimentica. Nel febbraio 2016 al Regency Hotel di Whitehall è tutto pronto per il torneo Clash of the Clans, ma invece dei pugni arrivano le pallottole. Un commando avanza sparando tra la folla. Non sono terroristi dell’Ira né dello Stato Islamico. Sono killer al soldo di una banda rivale e hanno un bersaglio: Daniel Kinahan. Lui riesce a cavarsela scappando da una finestra, ma la sparatoria segna uno spartiacque nella guerra tra i Kinahan e gli eterni nemici, gli Hutch. Daniel preferisce farsi da parte: si dimette dalla Mgm che si trasforma in Mtk Global con sede questa volta nell’amata Dubai. In realtà, però, come documenta un’inchiesta della Bbc, non l’abbandona. Dispensa consigli e soldi. I suoi avvocati fanno sapere che sono «accuse infondate»; di certo rimane il post su Instagram del pugile Tyson Fury che lo ringrazia alla vigilia di uno degli incontri più importanti con un valore stimato pari a oltre 200 milioni di euro. E dalla boxe, stando al The Sun, sarebbe passato alla Premier League. Alcuni calciatori dopo essere stati truffati da un commerciante di orologi si rivolgono proprio a Daniel. Lui gli fa recuperare i soldi e diventano subito amici, con tanto di vacanza in compagnia sotto il sole emiratino. Adesso c’è chi sostiene che il padrino abbia ordinato di far tacere le armi e imposto la pace a Dublino, in modo da evitare ripercussioni su suoi affari intercontinentali, più ricchi di qualsiasi regolamento di conti irlandese. Proprio come Raffaele Imperiale, capace di passare con successo dalla distribuzione delle acque minerali a quella della droga. Originario di Castellamare di Stabia, inizia la sua ascesa quando arriva ad Amsterdam alla fine degli anni Novanta per gestire un coffee shop e poi un ristorante italiano che si aggiudica un bel 9 dall’allora critico culinario Johannes van Dam. Lelluccio stringe legami con i trafficanti olandesi e inizia a scaricare sulle piazze di Napoli centinaia di migliaia di pasticche di ecstasy. Poi si allarga anche ai narcos sudamericani e passa al grande affare: la polvere bianca. A sostenerlo c’è il clan Amato-Pagano: gli Scissionisti che hanno dato il via alla faida di Scampia e Secondigliano contro il clan Di Lauro. Architetto di una rete globale capace di importare tonnellate di cocaina in Europa, dopo aver investito in Spagna e Regno Unito presentandosi come uno dalle «eccellenti referenze bancarie in tutto il mondo», si trasferisce negli Emirati, dove continua a mantenere i rapporti con il fulcro della sua rete olandese. Nelle comunicazioni criptate con Taghi ed El Rico, stando alle accuse, emergerebbero non solo accordi sugli affari di droga, ma persino discussioni su come eliminare rivali scomodi. Con il suo nickname Pulsar978 parla anche dei due capolavori di Van Gogh rubati ad Amsterdam che poi saranno ritrovati nella cucina di un suo casale vesuviano in cambio di uno sconto di pena. A Dubai vive una latitanza da sceicco e tutto sembra a prova di arresto, ma a inizio agosto è arrivato il colpo di scena. Imperiale è stato catturato e per un paio di settimane è stato mantenuto il segreto. Un silenzio deciso dalla procura di Napoli per evitare il rischio di manovre parallele. Un anno fa gli Emirati comunicarono la cattura di uno dei suoi luogotenenti, Bruno Carbone. L’avevano identificato tramite le impronte digitali; ma quando gli investigatori italiani sono arrivati a Dubai si sono trovati davanti una persona con impronte differenti. Un mistero, che pare indicare protezioni eccellenti. Nella sua attività planetaria lo scaltro boss campano avrebbe costruito relazioni profonde anche con apparati di intelligence d’ogni Paese, capaci di tutelarlo in cambio di informazioni e, salvo nuove accuse, in Italia non lo aspetta che una breve parentesi in carcere. «L’arresto di Imperiale e di altri esponenti di rilievo è un segnale preciso, stiamo cambiando passo nel contrasto ai fondi illeciti», spiega Hamid Saif Al Zaabi, responsabile del nuovo ufficio antiriciclaggio e contrasto al finanziamento del terrorismo. Un cambio di passo che potrebbe innervosire Kinahan e Gačanin. Di certo il super cartello che hanno formato dimostra la facilità dei padrini di costruire reti del crimine transnazionali. «Le organizzazioni criminali, pur mantenendo forti legami con i territori di origine, tendono sempre ad insediarsi in territori in cui la minore copertura di accordi di estradizione o una minore consapevolezza della pericolosità possono assicurare tranquillità operativa», sottolinea Nicola Russo, nuovo capo del Dipartimento affari di giustizia del ministero di via Arenula: «Vanno illustrati i pericoli per l’equilibrio dei mercati nazionali causati dall’azione intrusiva delle mafie silenti, cioè dall’inserimento di queste organizzazioni nelle attività commerciali e finanziarie e le ricadute che possono esserci su un sistema di lecita concorrenza. Tutt’oggi si teme e si conosce solo la mafia violenta, quella delle azioni armate, e si sottovaluta, se non addirittura si avalla, la mafia imprenditrice perché pecunia non olet». Per Russo la strategia vincente è quella della «diplomazia giuridica», che mette a sistema le iniziative diplomatiche con la sensibilizzazione sulla pericolosità dei clan e la condivisione di tecniche investigative o profili d’analisi. Un campo in cui il nostro Paese ha una leadership mondiale, come ricorda Russo: «Spesso viene evocato, fino ai limiti dell’abuso, ma ancora una volta non è possibile non ricordare il richiamo che Falcone in sede Onu a Vienna, un mese prima della sua morte, fece ai rappresentanti nazionali sull’importanza di un’azione coordinata e globale nei confronti della criminalità organizzata. l’Italia nel settore della cooperazione in materia di giustizia e sicurezza è una vera super potenza con competenze riconosciute in tutto il mondo». Ma i padrini sanno quando è il momento di cambiare aria. Se gli Emirati proseguiranno negli arresti, cercheranno una nuova oasi dove portare soldi e trame. Chissà se la terra promessa non possa diventare l’Inghilterra: «A marzo, il governo di Boris Johnson ha istituito nuove aree offshore, dove le merci possono transitare senza troppi controlli, dove si può costruire, produrre e riesportare con un regime fiscale di favore e senza oneri doganali. L’ha fatto in alcune località dove la criminalità organizzata inglese è fortemente radicata. Stupisce che non abbia fatto un controllo preventivo sui rischi criminali», avverte Federico Varese professore di Criminologia all’università di Oxford. I signori della Macro Mafia sono cittadini del mondo, qualsiasi posto gli va bene, purché garantisca lusso e traffici.

·        La Mafia Statunitense. 

Chi è Frank Lucas: l’uomo della “Blu Magic” negli Stati Uniti. Sofia Dinolfo su Inside Over il 28 giugno 2021. Rimasto nella storia per la capacità di corrompere numerosi militari nella sua attività criminale, Frank Lucas è un narcotrafficante statunitense che inizia la sua “carriera” da giovanissimo. Con la complicità degli uomini in divisa riesce ad importare eroina dalla Thailandia con un metodo “originale”. Utilizza infatti come contenitori le bare dei soldati americani caduti nella guerra in Vietnam che vengono trasferiti in patria. Una volta finito dietro alle sbarre, collabora con la giustizia tornando in libertà alcuni anni dopo. Pentito del suo passato, Frank Lucas si dedicherà alla beneficienza e morirà il 30 maggio del 2019 per cause naturali.

L'inizio della carriera criminale. Nato il 9 settembre del 1930 a La Grange, negli Usa, all’età di 16 anni si trasferisce ad Harlem ed entra a far parte della criminalità organizzata. Diviene l’autista personale di Ellsworth Johnson, conosciuto come “Bumpy”, un noto gangster del luogo per il quale svolge anche la funzione di guardia del corpo. Bumpy gestisce un grosso traffico di eroina e quando nel 1968 muore, Frank prende il suo posto. Il giovane criminale pensa di procurarsi la droga dal Vietnam senza avvalersi dell’aiuto di intermediari. In questo modo riesce a vendere l’eroina, da lui definita “Blu Magic”, garantendo un ottimo rapporto tra prezzo e qualità e spiazzando quindi la concorrenza. Con oltre un milione di dollari di incasso quotidiano, Frank diventa uno dei narcotrafficanti più ricchi a livello internazionale.

Il periodo di massima espansione. Le organizzazioni malavitose di origine italiana presenti a New York e fondate sulla parentela, insegnano a Frank Lucas l’importanza di poter contare su una fidata rete di collaboratori. Per questo motivo il criminale si avvale del contributo lavorativo della propria famiglia ricorrendo ai suoi fratelli e cugini. “The Country Boys” è il nome dato alla sua squadra di collaboratori. “Cadaver Connection” è invece il nome dell’operazione con la quale la polizia scopre la sua modalità operativa dai tratti agghiaccianti. Lucas riesce a corrompere numerosi militari per importare ingenti quantitativi di eroina purissima dalla Thailandia e, per riuscirvi, utilizza come contenitori le bare dei soldati americani caduti nella guerra in Vietnam che vengono trasferiti in America. Con la complicità degli uomini in divisa la sua losca attività andrà avanti per molto tempo.

Dall’arresto al pentimento. Una carriera che non conosce ostacoli quella di Lucas fino a quando verrà intercettato dall’ispettore capo Richard Roberts che porrà fine a tutto. Il narcotrafficante viene arrestato e condannato a 70 anni di carcere. Subito dopo però decide di collaborare con la giustizia facendo i nomi delle autorità corrotte. Molti di loro appartengono all’unità speciale SIU (Special Investigations Unit of New York Police Department). Fra 70 appartenenti al corpo, 52 vengono arrestati. La sua collaborazione gli garantisce lo sconto della pena che viene ridotta a 5 anni. Tornato in libertà Lucas ritorna però alla sua attività di sempre: viene arrestato nuovamente e condannato a 7 anni di reclusione. Nel 1991 esce dal carcere è sarà proprio Richard Roberts, nel frattempo divenuto il suo avvocato, ad aiutarlo. Non è tutto. Roberts in quegli anni diventa anche il padrino del figlio di Lucas e provvede alle spese per i suoi studi scolastici. Una volta libero, Lucas dichiara di essere pentito del suo passato e trascorre la sua vita nel New Jersey su una sedia a rotelle. Sostiene un’organizzazione fondata dalla figlia per aiutare i figli di genitori finiti in carcere e muore per cause naturali all’età di 88 anni il 30 maggio del 2019.

·        La Mafia Cinese.

Guido Santevecchi per "corriere.it" il 24 gennaio 2021. La caccia è finita a Schiphol, l’aeroporto di Amsterdam. Alla fine ha commesso un errore anche lui, Tse Li Chop, il criminale più ricercato dell’Asia, un cinese che muoveva droga per miliardi di dollari attraverso il Pacifico ma non ostentava la sua ricchezza. La polizia olandese lo ha individuato mentre aspettava di imbarcarsi su un aereo per il Canada e lo ha bloccato. Tse Li Chop, 57 anni, cantonese con passaporto canadese, comandava un «cartello» di narcotrafficanti legato a cinque Triadi, che domina un business da 70 miliardi di dollari. Secondo stime dell’Unodoc, l’agenzia Onu che si occupa di droga e crimine, la sua quota personale nel giro valeva tra gli 8 e i 17 miliardi all’anno. «Tse Chi Lop è la versione asiatica del messicano El Chapo e del colombiano Pablo Escobar», ha detto Jeremy Douglas, direttore Unodoc per la regione asiatica. Negli ultimi anni era stato segnalato a Bangkok, dove sarebbe stato protetto da una squadra di kickboxer thailandesi; a Macao, dove in una notte aveva perso 66 milioni di dollari al casinò; a Taiwan e Hong Kong. Tse era abituato a volare su un jet privato, ma questa volta aveva cambiato piano e non è sfuggito all’archivio digitalizzato della polizia di frontiera olandese. O forse è stato tradito, perché una caccia del genere si avvale anche di fonti di intelligence. La caccia per più di dieci anni è stata guidata dalla polizia australiana, in collaborazione con investigatori di altri venti Paesi. «The Company», L’«Azienda», come la chiamano gli adepti, è specializzata in metamfetamine, eroina e ketamina, spedite a tonnellate in una dozzina di Paesi, dal Giappone alla Nuova Zelanda. La polizia taiwanese descrive Tse come «amministratore delegato di una multinazionale»: il capo lascia ai suoi luogotenenti il lavoro più sporco, lo smercio della droga, i regolamenti di conti, lui si dedica al riciclaggio degli utili, attraverso i casinò, gli alberghi e le società immobiliari nella regione del Mekong, il grande fiume che scorre nel Sudest asiatico. Secondo gli investigatori internazionali la triade del Chapo asiatico è riuscita anche a stringere rapporti con funzionari governativi dei Paesi attraversati dal Mekong, dalla Thailandia al Laos, alla Cambogia. Nella regione la Cina ha promesso di costruire una rete di infrastrutture, autostrade, ferrovie e centrali energetiche e i «ragionieri» del narcotraffico stanno cercando di ripulire il loro denaro in quei progetti. Un socio di Tse, il boss «Dente rotto» Wan Kuok Koi, secondo il Dipartimento della Giustizia di Washington sarebbe particolarmente attivo in questo campo. Alla rete del «most wanted» Tse la polizia ha dato il nome «Sam Gor», che in dialetto cantonese significa «Fratello numero tre» ed è anche uno degli alias di Tse. E nella regione di Canton comincia la storia del narcotrafficante: dopo la Rivoluzione culturale maoista che gettò nel caos la Cina tra il 1966 e il 1976, un gruppo di Guardie Rosse rimaste senza una causa per cui combattere aveva costituito una banda criminale chiamata «Grande Cerchio», simile a una triade. Il giovane Tse aderì e come altri banditi si trasferì a Hong Kong, dedicandosi al contrabbando. Quando la polizia dell’allora colonia britannica si mise sulle sue tracce, Tse si rifugiò in Canada, nel 1988. Era diventato un trafficante di eroina di medio livello. Gli archivi criminali registrano il suo nome di nuovo nel 1998, questa volta a New York. Sfuggì all’ergastolo sostenendo di avere i genitori in fin di vita in Cina, bisognosi di cure continue, disse di aver lasciato a Canton un figlio, anche lui malato e solo. La storia lacrimevole fu creduta e la corte americana gli diede solo nove anni. Scontata la pena, nel 2006 tornò in Canada e scoprì le metamfetamine. Dice ancora il dossier della polizia australiana: diversamente da El Chapo e Pablo Escobar, che conducevano vite esagerate, il cinese si mimetizza e soprattutto ha dato al suo «cartello» una struttura di regole che ne fanno un’organizzazione estremamente disciplinata, degna di un’agenzia di intelligence. Niente sparatorie e rese dei conti spettacolari, come in Messico e Colombia. L’Asia è molto più sofisticata, anche nel delitto.

·        La Mafia Colombiana.

Colombia, catturato il narcotrafficante Otoniel. Il presidente Duque: "Paragonabile solo all'arresto di Escobar". La Repubblica il 24 ottobre 2021.  "Colpo del secolo al narcotraffico". Dario Antonio Usuga, 50 anni, era il più ricercato del Paese. Gli Usa avevano offerto una taglia di 5 milioni di dollari per le informazioni utili a scovarlo. Il trafficante di droga più ricercato della Colombia, Dairo Antonio Usuga, noto anche come 'Otoniel', è stato arrestato. La sua cattura segna una grande vittoria per il governo conservatore del presidente Ivan Duque, considerando che il Paese è il primo esportatore di cocaina al mondo. "Questo è il colpo più duro che il narcotraffico ha subito in questo secolo nel nostro Paese ed è paragonabile solo alla caduta di Pablo Escobar", ha dichiarato il presidente confermando l'arresto del leader del 'Clan del Golfo', il gruppo criminale più potente tra i narcotrafficanti colombiani. Duque ha aggiunto che Otoniel "è il narcotrafficante più temuto al mondo, assassino di poliziotti, soldati, leader sociali ed è accusato anche di abusi sessuali su minori". Otoniel, 50 anni, è stato catturato durante l'operazione Osiris in una zona rurale della regione colombiana di Uraba, nella provincia di Antioquia, che ha impegnato, secondo il ministro della Dfesa Diego Molano, più di 500 membri delle forze speciali colombiane e 22 elicotteri. Un agente di polizia è morto durante l'operazione. Le immagini diffuse dal governo colombiano mostrano Otoniel, stranamente curiosamente, vestito di nero, ammanettato e circondato da militari colombiani armati. Lo ritraggono anche in posa per un selfie con gli stessi militari in elicottero. Il trafficante è stato catturato a Necocli, nel nord-ovest del paese, vicino al confine con Panama. E' stata "la più importante spedizione nella giungla mai vista nella storia militare del nostro paese", ha detto Duque. Gli Stati Uniti hanno chiesto l'estradizione, "lavoreremo con le autorità per raggiungere anche questo obiettivo". Il direttore della polizia, il generale Jorge Vargas, in conferenza stampa, ha parlato di "un'importante operazione satellitare con le agenzie degli Stati Uniti e del Regno Unito". Otoniel è stato trasportato in aereo sabato tardi a Bogotà, dove è stato portato al quartier generale della polizia sotto pesante scorta. Il Clan del Golfo è la più potente banda di droga della Colombia e l'arresto del suo leader rappresenta il più grande colpo che il governo colombiano ha inferto al crimine organizzato nel paese. Gli Stati Uniti avevano offerto una taglia di 5 milioni di dollari per informazioni che portassero all'arresto del narcotrafficante. Otoniel ha assunto la guida del Clan del Golfo, precedentemente noto come Clan Usuga - formato da ex membri di gruppi paramilitari che fino agli anni 2010 hanno condotto una feroce lotta contro la guerriglia di sinistra - da suo fratello Juan de Dios, ucciso dalla polizia nel 2012. I due avevano messo in piedi una rete criminale attiva in quasi 300 dei 1.102 comuni della Colombia, principalmente sulla costa del Pacifico, da dove partono la maggior parte delle spedizioni di droga, principalmente verso gli Usa. A marzo, la polizia colombiana e la Drug Enforcement Agency degli Stati Uniti avevano catturato la sorella di Otoniel, Nini Johana Usuga, estradata negli Stati Uniti con l'accusa di traffico di droga e riciclaggio di denaro. L'organizzazione è stata colpita negli ultimi tempi da diverse operazioni mirate contro i suoi esponenti: i pochi rimasti in libertà, secondo le forze di polizia, sono stati costretti a nascondersi nella giungla senza telefoni. Ma a detta degli esperti "Otoniel è destinato a essere presto sostituito".

Catturato Dairo Antonio Usuga, era il narcotrafficante più ricercato della Colombia. Il Corriere della Sera  il 24 ottobre 2021. Latitante da sei anni, sulla sua testa pendeva una taglia di 5 milioni di dollari. Maxi operazione congiunta con le forze americane e britanniche. Il presidente colombiano Duque: «Paragonabile solo alla caduta di Escobar». Il trafficante di droga più ricercato della Colombia, Dairo Antonio Usuga, noto come «Otoniel», è stato catturato. Lo ha reso noto il governo colombiano. L’arresto di Usuga, capo del clan del Golfo, «è il colpo più duro che è stato inferto al traffico di droga in questo secolo nel nostro Paese, un successo paragonabile solo alla caduta di Pablo Escobar», ha dichiarato il presidente colombiano Ivan Duque su Twitter, rivelando anche alcuni dettagli sulla sua cattura. Il narcotrafficante è stato catturato a Necocli, nel nord-ovest del Paese, vicino al confine con Panama. È stata «la più grande spedizione nella giungla mai realizzata nella storia militare del nostro Paese», ha spiegato Duque, realizzata con l’aiuto di mezzi e intelligence Usa e britanniche. Secondo alcune informazioni un agente di polizia è rimasto ucciso durante l’operazione. Sulla testa di Usuga pendeva una taglia fino a cinque milioni di dollari posta dal governo degli Stati Uniti. Ricercato da almeno sei anni, il boss, che ha 49 anni, deve rispondere in 120 processi dei più diversi reati, fra cui omicidi plurimi e l’esportazione verso il Centro America, gli Stati Uniti e l’Europa di molte tonnellate di cocaina proveniente dalla regione di Uraba del dipartimento di Antioquia. «Un ringraziamento speciale alle forze di sicurezza (...) per la cattura (...) di Dairo Antonio Usuga, alias “Otoniel”, alto leader del Clan del Golfo», ha aggiunto su Twitter Emilio Archila, consigliere del presidente Ivan Duque. Il Clan del Golfo è la banda di narcotrafficanti più potente della Colombia. L’operazione, durante la quale è morto un agente di polizia, ha mobilitato circa 500 membri delle forze di sicurezza, supportati da 22 elicotteri. «Otoniel» è stato poi trasferito, sabato serata a Bogotà in aereo, dove è stato condotto a una stazione di polizia sotto una stretta scorta. Incriminato dalla giustizia americana nel 2009, Usuga è al centro di una procedura di estradizione presso il tribunale del distretto meridionale di New York. «Ci sono ordini di estradizione per questo criminale e lavoreremo con le autorità per raggiungere anche questo obiettivo», ha commentato il presidente Duque a questo proposito. Il Clan del Golfo, capeggiato dal narcotrafficante, era formato da ex membri di gruppi paramilitari che fino agli anni 2010 hanno condotto una feroce lotta contro la guerriglia di sinistra. Il governo colombiano accusa il Clan del Golfo di essere uno dei responsabili della peggiore ondata di violenza che scuote il Paese dalla firma dell’accordo di pace nel 2016 con i guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc). Nel 2017, Otoniel ha annunciato la sua intenzione di raggiungere un accordo per andare davanti alla giustizia. Il governo ha risposto schierando 1.000 soldati per dargli la caccia. Secondo la polizia, il narcotrafficante si nascondeva nella giungla, nella regione di Uraba, dove è nato, e non usava il telefono, affidandosi ai corrieri per comunicare. Era diventato il leader del Clan del Golfo dopo la morte del fratello Juan de Dios, detto «Giovanni», durante gli scontri con la polizia nel 2012. Imbracciate le armi all’età di 18 anni come guerrigliero nell’Esercito Popolare di Liberazione (Epl), gruppo marxista smobilitato nel 1991, aveva deposto le armi, per poi tornare a combattere nei gruppi paramilitari di estrema destra.

 Pierangelo Sapegno per “La Stampa” il 25 ottobre 2021. Ci sono voluti più di 500 soldati delle forze speciali e 22 elicotteri. Fra le maglie dell'Operazione Osiris, in una zona rurale della regione colombiana di Uraba, nella provincia di Antioquia, è finito anche Dairo Antonio Usuga, conosciuto come Otoniel, capo del cartello del Golfo e ultimo erede di Pablo Escobar. Secondo il presidente del governo conservatore Ivan Duque, «il primo esportatore di cocaina nel mondo». Per questo ha convocato subito i giornalisti per annunciare «il colpo più duro che il narcotraffico ha subito in questo secolo», spiegando di aver consegnato alla giustizia uno spietato «assassino di poliziotti, soldati, leader sociali, accusato pure di abusi sessuali su minori». Otoniel, 50 anni, aveva organizzato con il fratello Juan De Dios un clan formato da ex membri paramilitari che negli anni 2000 avevano condotto una feroce lotta contro i guerriglieri di sinistra. D'altro canto, nei cartelli della droga, le commistioni con la politica sono praticamente all'ordine del giorno. Il caso più famoso è proprio quello di Pablo Escobar, il Re della cocaina, figlio di un agricoltore e di una maestra di scuola elementare, che cominciò la sua carriera a 13 anni in un movimento di cultura giovanile noto come Nadaismo (una sorta di dadaismo in versione colombiana) che incoraggiava i giovani a sfidare l'ordine stabilito. Cresciuto tra furti d'auto e piccole truffe, il salto di qualità come spesso capita lo fece in carcere. Quando ne uscì si buttò a capo fitto nel nascente business della cocaina, diventandone in poco tempo il boss dei boss, applicando una strategia tanto semplice quanto brutale: «argento o piombo». O ti comprava o ti uccideva. Arrivò a possedere flotte di aerei, navi, ricche proprietà e immensi terreni. Secondo "Forbes" divenne il settimo uomo più ricco al mondo. Per gli abitanti di Medellin un Robin Hood. Fece costruire ospedali e scuole. Distribuiva denaro ai poveri, e si candidò nella lista del Movimento Rivoluzionario Liberale, che prometteva 500 case ai miserabili che affollavano le baraccopoli. Quando però la Camera lo privò dell'immunità parlamentare per i suoi trascorsi di narcotrafficante, pensò bene di vendicarsi. Pure il ministro della Giustizia, Rodrigo Lara Bonilla, fu assassinato dai sicari. Lui emigrò in Nicaragua e poi, costretto a scappare pure da lì, si rivolse a Cuba. Il suo regno finì nel 1993, in uno scontro a fuoco con la polizia a Medellin, mentre tentava di fuggire attraverso i tetti. Con la sua morte non finì certo il business del narcotraffico. Il nuovo Re era un messicano, Joaquin Guzman, chiamato El Chapo, perché piccolo e tozzo. Ma feroce. Suo padre era un allevatore di bestiame che coltivava papavero da oppio e buttava tutti i suoi soldi in donne e alcol. E appena poteva picchiava quel figlio brutto e basso. Fino a cacciarlo di casa. Joaquin fece carriera come autista di Felix Gallardo e quando il capo venne arrestato, aveva imparato così bene la lezione e collezionato così tanti contatti da fondare il suo cartello. Confezionava cocaina in lattine di peperoncino e la spediva negli Stati Uniti attraverso dei tunnel. Anche lui usava il metodo Escobar: argento o piombo. L'argento serviva per corrompere la polizia. Il piombo lo riservava a tutti i rivali. Fu arrestato nel 1993. Grazie ai soldi trasformò il carcere in un covo di lusso, servito e riverito dalle guardie. Nel 2001 decise che doveva andarsene e semplicemente gli aprirono i cancelli della prigione. Fuori c'era la guerra fra i clan e si sospetta che abbia collaborato con la Dea per eliminare i nemici. Tornò in carcere nel 2014 e scappò l'anno dopo utilizzando una sua specialità: il tunnel. Dopo aver ricevuto Sean Penn e i giornalisti nel suo rifugio fu di nuovo arrestato. È ancora dentro, e ancora vivo. A differenza di Griselda Blanco, la Madrina della coca. Madre alcolizzata e padre inesistente. La vita vissuta come una guerra dove sono tutti nemici. A 11 anni rapì con degli amichetti un bambino di ricca famiglia, chiedendo un esoso riscatto. Siccome i genitori non pagavano, lei gli sparò. Aveva 10 anni, quel bimbo. Da adolescente Griselda si prostituì. Poi sposò un falsario che le fece documenti falsi per andare negli Usa. Quando si stancò di lui gli sparò, dopo una lite per soldi. Il secondo marito, Alberto Bravo, era un narcotrafficante che la introdusse nel giro. Andò a New York con una lista di stelle di Hollywood e atleti famosi, da farne dei clienti. Organizzò pattuglie di killer in moto e scalò le gerarchie. Lei diventò ricchissima, il marito un cadavere. S' era innamorata di un altro, Carlos Sepulveda, con cui fece il quarto figlio chiamandolo Michael Corleone, in onore del Padrino. Ormai per tutti era la Vedova Nera. Anche per Griselda arrivò il carcere. Ma lì dentro cambiò la sua vita. La spietata assassina, la Vedova Nera che cambiava mariti senza pietà, raccontò di aver conosciuto Dio e di essersi convertita. Quando lasciò la prigione, le uccisero i figli. E un giorno mentre usciva da un locale, arrivarono i sicari anche per lei. Erano in moto, come le sue squadre di killer. 

Catturato dopo un'operazione di quasi 3 giorni: ucciso un poliziotto. Chi è Dairo Antonio Úsuga, il boss del clan del Golfo che mangiava animali nella giungla. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 25 Ottobre 2021. Viveva nella giungla, non tornava mai a casa, dormiva in condizioni difficili e mangiava un animale tipico della selva colombiana. Non usava il telefono e si affidava ai corrieri per comunicare. Dairo Antonio Úsuga David, 50 anni compiuti il 15 settembre scorso, meglio conosciuto con l’alias Otoniel (ma anche ‘Mauricio’), capo indiscusso del clan del Golfo, è stato catturato in Colombia al termine dell’operazione Osiris che ha visto impegnate tutte le forze di polizia del Paese sudamericano, per un totale di oltre 500 poliziotti e 22 elicotteri. Un’operazione durata giorni perché non è stato facile avanzare nella giungla a Necocli, nel dipartimento di Antioquia (nord-ovest del Paese). Otoniel era protetto da otto anelli di sicurezza situati nel raggio di tre chilometri dal suo nascondiglio: una baracca. Un’operazione nel corso della quale è stato inevitabile lo spargimento di sangue. Oltre all’uccisione degli uomini che difendevano il nascondiglio di Otoniel (il cui bilancio non è ancora noto), a perdere la vita un sottufficiale dei carabinieri della Colombia, raggiunto da un proiettile al collo e da un altro al petto mentre conduceva le operazione di avanzamento del suo gruppo.

Edwin Guillermo Blanco Báez, il carabiniere ucciso durante l’avanzamento nella giungla

Si chiamava Edwin Guillermo Blanco Báez, aveva 34 anni ed è stato ucciso nella giornata di sabato 23 ottobre, a poche ore dalla cattura del pericoloso latitante. Alla sorella Sandra, che l’aveva invitato al battesimo della figlia, aveva detto nei giorni scorsi di partire per una missione importante. Circondato dagli agenti, Usuga ha mostrato un sorriso a fotografi e cameramen durante il trasferimento in manette nella base militare di Carepa, dove è stato poi imbarcato su un aereo della polizia nazionale colombiana, arrivato in nottata a Bogotà. Indossava pantaloni e maglietta nera e gli stivali di gomma preferiti dai contadini rurali. Ricercato con insistenza dal 2015 e con la successiva operazione Agamennone nel 2016, che lo ha di fatto costretto alla latitanza, ora dovrà rispondere di accuse terribili: oltre al traffico di droga che dal Sud America raggiungeva gli Stati Uniti e l’Europa fino alla Russia (grazie anche al contributo della ‘ndrangheta), Otoniel è accusato anche dell’uccisione di numerosi agenti di polizia e del reclutamento di tanti minori per le sue attività criminali.  Nei suoi confronti ci sono 128 mandati di cattura, otto misure di garanzia e sette condanne in contumacia per un gran numero di reati, fra cui terrorismo, omicidio, traffico di droga, massacri, violenze sessuali, partecipazione a gruppi armati e crimini contro l’umanità. All’operazione hanno contribuito anche le forze di intelligence di Usa (era nella lista dei latitanti più ricercati della Drug Enforcement Administratione, la Dea) e Gran Bretagna. Adesso gli Stati Uniti, che da tempo avevano istituito una ricompensa di 5 milioni di dollari per informazioni decisive alla sua cattura, chiederanno l’estradizione per processarlo nel loro Paese. L’auspicio è che arrivi nel giro di un mese. Il presidente colombiano, Ivan Duque, ha paragonato l’arresto alla cattura e all’uccisione di Pablo Escobar, avvenuta nel dicembre del 1993. “È il colpo più duro che inferto al narcotraffico nel Paese, paragonabile solo alla cattura di Pablo Escobar”, ha detto. Il capo del cartello del Golfo, che ha preso la leadership del traffico mondiale di cocaina dopo l’egemonia prima del cartello di Medellín , poi di quello di Cali, è “uno spregiudicato assassino di agenti di polizia, soldati, leader sociali, nonché un reclutatore di minori che obbligava a lavorare per la sua organizzazione criminale” ha ricordato il presidente Duque. Usuga è stato incriminato per la prima volta nel 2009, nel tribunale federale di Manhattan, con l’accusa di droga e di aver fornito assistenza a un gruppo paramilitare di estrema destra designato come organizzazione terroristica dal governo degli Stati Uniti. Incriminazioni successive nei tribunali federali di Brooklyn e Miami lo hanno accusato di aver importato negli Stati Uniti almeno 73 tonnellate di cocaina tra il 2003 e il 2014 attraverso Paesi come Venezuela, Guatemala, Messico, Panama e Honduras.

Chi è Dairo Antonio Úsuga

Gli inizi a 16 anni nell’Esercito popolare di liberazione (Epl), poi una breve parentesi nelle Farc, la principale organizzazione di guerriglia (negli ultimi anni entrata in Parlamento grazie a nomine ottenute con liste bloccate) che ha provocato oltre 200mila morti, gran parte innocenti, nel corso della sua lunga guerra contro contro latifondisti e militari che vessavano i campesinos (agricoltori, ndr). Otoniel si è consacrato quando è entrato a far parte delle organizzazioni paramilitari di destra.

Divenne il capo assoluto del ‘Clan del Golfo’, noto in precedenza come il ‘Clan Usuga’, dopo che il precedente leader, suo fratello Juan de Dios Úsuga, alias “Giovanny”, venne ucciso in un raid della polizia la notte di Capodanno del 2010. Per le autorità colombiane, il Clan del Golfo era divenuta la più potente organizzazione criminale del Paese, capace di operare in molte province e con un’estesa rete di rapporti internazionali. Le attività principali sono il traffico di droga e di esseri umani, le estorsioni e l’estrazione mineraria illegale di oro. Dal 2015 però la pressione del governo colombiano ha fortemente indebolito l’organizzazione che inizialmente vantava oltre 3mila affiliati, scesi poi a 1800 grazie a numerosi arresti effettuati nel corso degli ultimi anni. Dal cugino Alexánder Montoya Úsuga, noto come ‘El Flaco Montoya’ (arrestato nel 2012), ad altri leader come “Gavilán“, “El Indio“, “Inglaterra”, “Culo de Toro”, “Pablito”, “Ramiro Bigotes”, “Guagua” , ‘Cobra 5’, ‘Pueblo’ e ‘Marihuano’, quest’ultimo secondo leader del gruppo criminale, ucciso lo scorso febbraio. Catturati di recente anche parenti e stretti collaboratori. Dalla fidanzata ‘La Flaca’, incaricata di sostenere una rete di riciclaggio di denaro e prestanome, al nipote ‘Orejas’, responsabile del traffico di droga da Chocoano Urabá al Centro America. In manette anche i suoi fratelli ‘Chengo’ e ‘La Negra’, sua cognata ‘La Jefa’ e i suoi cugini ’07’ e ‘La Zarca’, tra gli altri, tutti legati al clan. Suo cugino Alexánder Montoya Úsuga è stato poi estradato lo scorso agosto negli Stati Uniti.

La resa-fake annunciata in concomitanza con l’arrivo di Papa Francesco

Nel 2017, in concomitanza con la visita in Colombia di Papa Francesco per celebrare gli accordi siglati dal Governo con le Farc, Otoniel aveva annunciato la sua intenzione di raggiungere un accordo per andare davanti alla giustizia. Il governo ha risposto schierando un migliaio soldati per dargli la caccia.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Chi era Pablo Escobar: il “re” della cocaina. Sofia Dinolfo su Inside Over il 28 giugno 2021. Conosciuto come uno dei narcotrafficanti più ricchi al mondo, il colombiano Pablo Escobar era anche un noto assassino. Chiunque ostacolasse i suoi piani andava eliminato: negli anni gli vennero attribuiti circa 10mila gli omicidi. In  17 anni di “impero” nella gestione del traffico di cocaina e marijuana Escobar riesce a guadagnare circa un milione di dollari al giorno. Nella vita del criminale non manca nemmeno l’esperienza politica all’interno della Camera dei Rappresentanti, durata poco a causa dei suoi problemi con la legge. Visto dai più poveri come un “Robin Hood”, dopo la fuga dalla prigione trascorre gli ultimi momenti della sua vita da latitante prima di essere scoperto in un quartiere borghese di Medellín, in Colombia. Qui viene ucciso dagli uomini dell’intelligence americana il 2 dicembre del 1993.

La gioventù e l’ascesa criminale. Nato a Rionegro nel dicembre del 1949 da un agricoltore e un’insegnate di scuola elementare, Pablo Escobar è il terzo di sette figli. Sin da piccolo, si confronta con una vita economicamente modesta e piena di sacrifici. Per questo motivo sta spesso in strada a commettere furti nelle vie di Meddelin. A 13 anni entra a far parte di un movimento rivoluzionario, il Nadaismo, che incitava i giovani a disobbedire i genitori e a fare uso di droghe. Sono questi gli anni che formano il ragazzo nella sua futura carriera da criminale. Nel 1974 viene arrestato per la prima volta per furto d’auto e, durante la sua prigionia a Ladera, incontra un noto trafficante del luogo, Alberto Prieto. Una volta scarcerato Escobar lavora al servizio di Prieto nel contrabbando di cocaina. Questa esperienza gli permette di farsi strada nel settore del narcotraffico fino a quando con l’uccisione (si dice a sua opera) del noto criminale Fabio Restrepo, prende il suo posto e si impone nel settore. Da lì in poi la sua carriera non conoscerà più ostacoli. Circondato da guardie del corpo, Pablo Escobar non esita a uccidere poliziotti, civili e appartenenti al mondo della politica. Chi incrocia il suo cammino ha solo due possibilità: “argento o piombo”, ovvero o farsi corrompere o morire. Controllando circa l’80% di cocaina mondiale e il 20% di armi da contrabbando, con un patrimonio di circa 25 miliardi di dollari, Escobar per svolgere la sua attività si avvale di flotte di aerei, navi e veicoli costosi. Negli Stati Uniti arriva anche a trasferire circa 15 tonnellate di cocaina al giorno. Per riuscirvi, si avvale anche di sottomarini controllati da un telecomando. Una vita di sfarzi e lusso con ricchi appartamenti e vasti appezzamenti di terreno dove tiene anche animali selvaggi fatti arrivare dall’Africa. Soltanto dopo la sua morte si scoprirà casualmente che il criminale nasconde il denaro sottoterra all’interno di contenitori. Circa 600 milioni di dollari in ogni cassetta. Secondo la Cia ci sarebbero altri contenitori pieni di soldi non ancora trovati.

L'esperienza politica. Per portare avanti il traffico di droga e armi, Pablo Escobar sa benissimo che ha bisogno di complici. Proprio per questo motivo cerca di apparire amico degli abitanti di Medellin: regala loro denaro, li aiuta in situazioni difficili, costruisce stadi, luoghi di aggregazione, ospedali e scuole. Una sorta di Robin Hood dei tempi moderni che fa di lui, agli occhi dei suoi concittadini, una persona degna di rispetto e protezione al punto da essere coperto quando viene cercato dalla polizia. Nonostante sia l’autore di numerosi omicidi, ottiene il rispetto di molte persone che si trasformano in suoi complici. E così, grazie al sostegno del popolo entra in politica. Inizia con quella locale, come consigliere comunale di Envigado. La consacrazione al livello nazionale avviene il 14 marzo del 1982 con l’elezione alla Camera dei Rappresentanti. Da qui in poi arriveranno però i problemi che mineranno il suo cammino: il 25 agosto di quello stesso anno il quotidiano El Espectador pubblica la notizia dell’arresto nel ’76 per possesso di un carico di cocaina. E così ad ottobre la Camera priva il criminale dell’immunità parlamentare. Lui si dimetterà due anni dopo. Un fallimento quello in politica che per il narcotrafficante merita vendetta nei confronti dei responsabili. Così Escobar fa uccidere il ministro della Giustizia Rodrigo Lara Bonilla, che alla Camera aveva denunciato tutte le sue attività illecite.

Il declino e la morte. Nell’estate del 1984 Pablo Escobar si trasferisce con la famiglia nel Nicaragua per ricominciare da capo e lontano da indiscrezioni. Al suo seguito, anche il socio d’affari José Gonzalo Rodriguez Gacha, col quale escogita un piano per il trasferimento della cocaina dalla nuova postazione verso gli Stati Uniti. In questo contesto il criminale viene a contatto col pilota americano Barry Seal il quale in realtà è un informatore a servizio delle agenzie americane. Durante la spedizione di un carico di droga, l’agente riesce a scattare delle fotografie a Escobar e al suo complice. Da quelle foto emerge la prova tangibile dell’attività criminosa. Barry Seal pagherà con la morte, mentre Pablo Escobar finito su tutti i giornali, fa ritorno in Colombia. In quegli anni il narcotrafficante uccide chiunque si occupi del suo caso e dei suoi crimini: dai giornalisti agli avvocati fino ai magistrati. Fa saltare il Palazzo di Giustizia, sede della Corte Suprema per far perdere tutti i fascicoli relativi alle indagini a suo carico. Il suo obiettivo è quello di eliminare ogni traccia che possa incriminarlo e ogni persona che ritiene una minaccia per la sua libertà. Il governo colombiano di fronte a questi gravi fatti inizia a dargli la caccia in modo serrato: arresta ed estrada negli Usa tutti i soggetti sospettati di essere trafficanti di droga. Escobar diventa così un latitante, fugge da un luogo ad un altro, fino a quando si stanca e nel 1991 si consegna spontaneamente alle autorità colombiane. In questo modo pensa di evitare l’estradizione negli Usa e ci riesce. Ma Escobar non è un criminale qualsiasi, lui, anche da detenuto, gode di innumerevoli privilegi. Viene rinchiuso in una prigione privata, La Catedral, che si trasformerà presto in un luogo di lusso. Qui, il criminale conduce una vita che dà dello scandalo: entra ed esce quando lo ritiene necessario, va alle partite di calcio, a fare compere a Medelline e partecipa a feste. Invita anche la nazionale di calcio colombiana a giocare nel campetto vicino la sua prigione. Le condizioni di agiatezza finiranno quando la stampa locale pubblicherà le foto della lussuosa cella rivelando anche gli omicidi li dentro consumati nei confronti dei soci andati a trovare il criminale. Il governo decide così di trasferire Escobar in un luogo più convenzionale ma il narcotrafficante gioca d’anticipo e scappa. Da questo momento il criminale diventa un latitante e il reparto speciale dell’esercito statunitense Delta Force, lavora per la sua cattura. Il 2 dicembre del 1993, una squadra colombiana di sorveglianza elettronica chiamata Bloque de Busqueda attraverso uno strumento per la triangolazione radio fornito dagli Usa, lo localizza in un quartiere di Medellin. Escobar e un suo uomo sono circondati: tentano la fuga e vengono uccisi con diversi colpi d’arma da fuoco. I parenti del narcotrafficante tenteranno più volte di smentire questa versione dei fatti parlando di suicidio.

La leggendaria residenza del Patrón. Pablo Escobar e il legame con Napoli: perché la sua tenuta si chiamava “Hacienda los Nápoles”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 3 Giugno 2021. Non c’è stato un telespettatore italiano che guardando le prime stagioni della serie Narcos, prodotta da Netflix, uscita per la prima volta nel 2015, e dedicate a Pablo Escobar, non abbia notato quel particolare. Ovvero, il nome della tenuta del signore del narcotraffico e della criminalità colombiano; uno dei più potenti e spietati e noti al mondo. Si chiamava “Hacienda los Nápoles”, grande circa 3mila ettari, soprannominata anche come “La Mayoría”, e trasformata in un parco tematico dopo la fine del dominio del Cartello di Medellín. Decine di stanze, edifici, strade, sei piscine, 27 laghi artificiali, un distributore di benzina, una pista di atterraggio per aerei, eliporti, hangar, un giardino esotico, stalle. E ancora: un’arena per tori, macchine da corsa, moto d’acqua e motociclette. Le attrazioni: uno zoo con elefanti, cammelli, ippopotami, zebre, giraffe, gru, impala e migliaia di altri altri animali esotici. La tenuta fu acquistata nel 1978 da Pablo Escobar e dai cugini Jhonny Bedoya Escoba e Luis Bedoya Escobar per circa 70 milioni di dollari. Si trova a circa 130 chilometri da Medellín. All’ingresso la riproduzione di un aeroplano, come quello che Escobar utilizzò per trasportare il primo carico di cocaina dalla Colombia agli Stati Uniti. E la scritta azzurra: Hacienda Los Nápoles. All’inaugurazione fu invitata anche una troupe televisiva. Il narcotrafficante la valutò 4.500 milioni di pesos colombiani. Fu un luogo di ritrovo e di divertimento per familiari, amici conoscenti, criminali e cartelli. Ma perché questa leggendaria e famigerata tenuta venne chiamata così? L’ultima verità è stata raccontata da Nicolas Escobar, figlio di Roberto, fratello del Patrón, in un’intervista a 7, il settimanale de ll Corriere della Sera. Nicolas Escobar gestisce due musei dedicati allo zio, uno a MedellÍn e l’altro a Guatapé. Sostiene che a vendere lo zio alla Dia americana nel dicembre 1993 Hermilda Gaviria, la madre del Patrón. Il figlio del boss incolpò invece suo padre, Roberto. Pare che fu comunque per volere di Roberto, padre di Nicolas, che per la tenuta non vennero mai acquistati animali feroci, predatori o serpenti. E sembra che la tenuta, negli anni del potere assoluto e sanguinario di Escobar, ospitasse fino a 1.500 specie animali. Ancora oggi la colonia di ippopotami è la più grande al mondo, se si escludono quelle del continente africano. “Aveva preso il nome proprio dalla vostra città – ha detto nell’intervista – a Napoli, lo zio aveva collocato un’importante succursale del traffico di droga. I soldi realizzati dalla vendita dello stupefacente in Campania vennero investiti nella creazione della ‘Hacienda’”. Nunzio Perrella, del clan omonimo del Rione Traiano a Napoli, tra i primi collaboratori di Giustizia della Camorra, ha raccontato in un’intervista di aver incontrato Escobar alla fine degli anni ’80, in Colombia. Un’altra versione, qualche tempo fa, l’aveva fornita l’avvocato Alexandro Maria Tirelli, nato a Castellammare di Stabia, provincia di Napoli, amico del sicario Popeye, consigliere giuridico e amico dei fratelli Escobar, a Fanpage: “Avete presente la loro famosa Hacienda Napoles? Mi aveva raccontato di averla chiamata così in onore delle origini di Al Capone“. La famiglia del gangster italo-americano era originaria di Castellammare di Stabia: “Per Escobar non c’era differenza tra Castellammare e Napoli”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Da rainews.it il 26 ottobre 2021. I discendenti degli ippopotami appartenuti un tempo al re della droga Pablo Escobar, e per questo soprannominati "cocaine hippos" (ippopotami della cocaina), sono da considerarsi legalmente "persone" con propri diritti negli Stati Uniti. È quanto emerge dall'ordinanza di un tribunale federale Usa. Il caso riguarda una causa contro il governo colombiano circa l'opportunità di abbattere o sterilizzare gli ippopotami il cui numero sta rapidamente crescendo e rappresenta una minaccia alla biodiversità. Gli animalisti esultano e considerano la decisione come una vittoria fondamentale nella lunga battaglia affinché il sistema giudiziario degli Stati Uniti conceda agli animali questo status. L'ordinanza tuttavia non avrà alcun peso in Colombia, dove gli ippopotami vivono. Gli "ippopotami della cocaina" sono i discendenti degli animali che Escobar importò illegalmente da un giardino zoologico americano nel suo ranch colombiano negli anni '80, quando controllava il traffico di droga del Paese. Erano tre ippopotami femmina e un maschio che, a quanto pare, si ambientarono molto rapidamente nella sua tenuta di oltre 2 mila ettari, la Hacienda Na'poles a Doradal nel dipartimento di Antioquia. Dopo la sua morte nel 1993, gli ippopotami furono abbandonati nella tenuta e, in assenza di predatori naturali, il loro numero è aumentato negli ultimi otto anni da 35 a un numero imprecisato tra i 65 e gli 80 esemplari. Quelli che un tempo erano il fiore all'occhiello dello zoo del boss ora prosperano nelle zone umide dentro e intorno al palazzo nascosti tra le catene montuose e da tempo trasformato in parco tematico e attrazione turistica e si allargano nella campagna tropicale circostante minacciando l'ecosistema. Questo è almeno il parere di un gruppo di scienziati secondo cui gli ippopotami fuori controllo rappresentano un grave rischio per la biodiversità della zona e costituiscono anche un pericolo per la popolazione del luogo perché la loro proliferazione potrebbe portare a incontri accidentali con gli esseri umani. Il loro numero, avvertono, potrebbe raggiungere i 1.500 entro il 2035 se non si corre ai ripari e propongono il loro abbattimento prima che spazzino via la flora e la fauna locale. Un'agenzia governativa ha iniziato sterilizzare alcuni ippopotami, e si è aperto il dibattito sulla sorte degli animali. La questione è arrivata davanti al giudice degli Stati Uniti, il Paese d'origine della stirpe. Nella causa, gli avvocati dell'Animal Legal Defense Fund hanno chiesto al tribunale federale di Cincinnati di dare lo status legale di "persone portatrici di interessi" agli ippopotami in modo che due esperti di sterilizzazione della fauna selvatica dell'Ohio potessero deporre nel caso. La giudice federale Karen Litkovitz di Cincinnati ha concesso lo status. Secondo l'associazione animalista è la prima volta che animali vengono dichiarati persone giuridiche negli Stati Uniti. Gli avvocati dell'associazione hanno sostenuto che, poiché gli animalisti possono intentare cause per proteggere gli interessi degli ippopotami in Colombia, questi animali dovevano essere considerate "persone" dal punto di vista giuridico secondo la legge degli Stati Uniti. 

«Gli ippopotami di Escobar sono persone»: la sentenza di un giudice. Michele Farina su Il Corriere della Sera il 27 ottobre 2021. C’è un giudice a Cincinnati, nell’Ohio, che ha stabilito che gli ippopotami di Pablo Escobar hanno lo status di «persone» e che quindi, prima di essere castrati o uccisi come vorrebbe il governo colombiano, devono essere trattati con il rispetto che il signore dei narcos non ha mai usato per gli esseri umani. Karen Litkovitz ha dato ragione al Fondo per la difesa dei diritti legali degli animali, un gruppo di San Francisco che saluta la decisione della giudice federale come una pietra militare nella storia Usa, da esportare anche all’estero. Nel caso specifico in Colombia, dove però gli esperti di diritto penale ribattono che la sentenza non ha valore a Bogotà.

Dall’Africa al Sudamerica

In questo pantano legale, oltre che nelle acque del fiume Magdalena, sguazzano beati gli almeno 80 pachidermi che in quell’angolo di America Latina hanno trovato un ambiente perfetto per moltiplicarsi. Non ci sono le siccità e le antipatie che i loro fratelli affrontano nella natia Africa, dove fanno fuori 500 persone all’anno. In Colombia la maggioranza della popolazione vede invece con favore la loro presenza che risale agli anni Ottanta, quando il boss della coca si fece portare un paio di bestioni nel suo ranch a 160 chilometri dalla città di Medellin insieme con leoni e giraffe. Alla sua morte nel 1993 gli altri animali furono piazzati in vari centri zoologici.

Minaccia alla biodiversità

Tutti tranne gli ippopotami, che con le loro 5 tonnellate di pancia e nervi non sono facili né da convincere né da catturare. Negli acquitrini della Hacienda Na’ Poles quei maialoni d’acqua dolce si sono moltiplicati: da 35 sono diventati 80, forse cento. Sono usciti dai recinti, seguendo i corsi d’acqua. Gli scienziati ritengono ormai che «gli ippopotami della coca», come sono stati battezzati, siano una seria minaccia per la biodiversità della Colombia (e che potrebbero diventare 1.500 entro il 2035 se non si correrà ai ripari). Studi hanno dimostrato che la loro cacca può addirittura modificare il livello di ossigeno presente nell’acqua, mettendo in pericolo i pesci ed altre forme di vita.

La castrazione, che impresa

Se si usassero i metodi di carneficina adottati dal loro defunto padrone, non ci sarebbe storia. Le autorità colombiane però stanno cercando di perseguire una strada meno cruenta ma pur sempre «invasiva», quella della sterilizzazione degli animali. Finora ci sono riusciti con 24 esemplari, tra non poche difficoltà. Non è facile beccarli allo stato brado, e renderli inoffensivi con squadre di uomini e di gru per poi somministrare loro farmaci adeguati. Il tutto al costo di 50 mila dollari cada ippo.

Il destino

Ora, non è chiaro come la sentenza storica della giudice federale Litkovitz possa modificare il destino degli «ippopotami della coca». Se fossero considerati alla stregua di «persone» anche dalla giustizia colombiana, il processo di sterilizzazione potrebbe farsi ancora più complicato. Castrare i pachidermi di Escobar sarebbe illegale? Verranno estradati negli Stati Uniti? Espulsi verso l’Africa?

Paolo Manzo per “il Giornale” il 22 gennaio 2021. Io sto con gli ippopotami è il titolo di un film cult di Bud Spencer e Terence Hill del 1979, ma adesso è diventato uno slogan scandito a gran voce dagli animalisti della Colombia dove c' è chi vuole fare fuori una cinquantina di queste simpatiche bestiole, adducendo motivi scientifici. La «soluzione finale» per gli ippopotami colombiani è stata infatti proposta da un gruppo di ricercatori universitari messicani e colombiani, che l' hanno pubblicata sul numero di gennaio della rivista scientifica Biological Conservation. Il problema nasce nel 1984 quando Pablo Escobar, settimo uomo più ricco al mondo e fondatore del cartello di Medellín, decise di costruirsi uno zoo privato importando dall' Africa quattro ippopotami e decine di giraffe, leoni, tigri ed elefanti nel suo ranch, la Hacienda Napoles. Il suo sogno era fare politica riuscì a farsi eleggere senatore per poi diventare presidente. Gli andò male ma, anche se già latitante, per farsi pubblicità con el pueblo «Don Pablo» continuò almeno sino al 1986 ad invitare scolaresche da tutta la Colombia nel suo ranch - che dista 320 Km dalla capitale Bogotà - per ammirare quella che all' epoca era la più grande riserva di animali esotici del paese. Un vero Parco safari narcos, all' interno del quale il boss aveva messo vicino agli ippopotami statue enormi di dinosauri e, sopra l' arco d' ingresso, una copia del suo primo aereo monomotore con cui inondò di coca gli USA. Dopo la morte del boss, nel 1993, le autorità confiscarono Hacienda Napoles e regalarono la maggior parte degli animali esotici ad altri zoo ed istituzioni legali. Tutti meno gli ippopotami che essendo pacifici, «non rappresentano un problema». Mai previsione fu più sbagliata perché complice il clima tropicale e una quantità d' acqua e vegetazione ottima per la loro riproduzione, le tre femmine e l' unico maschio d' ippopotamo importati dal boss da allora si sono moltiplicati a ritmi di gran lunga superiori rispetto a quelli africani. Inoltre, da buoni erbivori, «gli ippopotami di Escobar» consumano ogni anno tonnellate di coltivazioni dei fazenderos locali che, logicamente, vedono in loro più un nemico da abbattere che un simpatico animale tropicale. Già nel 2009, quando il problema della loro presenza sempre più massiccia nelle campagne attorno alla Napoles venne alla luce, era scoppiata una lunga diatriba tra autorità locali e animalisti dopo che un ippopotamo era stato ammazzato a colpi di fucile e un altro con un' iniezione letale. Nel 2014 le autorità colombiane avevano tentato una castrazione forzata degli ippopotami e, per sterilizzarli, avevano usato i fondi recuperati ai cartelli dei narcos. Il problema è che con queste «placide bestiole» la castrazione non ha funzionato: nonostante le loro dimensioni gli «ippopotami di Escobar» si sanno infatti nascondere molto bene, proprio come il loro defunto padrone. Anche perché si sono oramai spostati molto da Napoles, a circa 150 Km a est della città di Medellin, nel dipartimento di Antioquia, disperdendosi intorno al bacino del fiume Magdalena. I ricercatori «killer» sostengono che oggi ci sono almeno 80 ippopotami nell' area, rispetto ai 35 del 2012, e temono che se non si farà nulla gli animali continueranno a diffondersi in tutta la Colombia. Troppi anche perché gli effetti negativi dello sterco di ippopotamo sui livelli di ossigeno nei corsi idrici costituisce, a detta loro, un danno che può colpire i pesci e, indirettamente, anche gli esseri umani. Inoltre, sollevano preoccupazioni sulla possibile trasmissione di malattie dagli ippopotami all' uomo. Infine, mangiano e danneggiano i raccolti e possono essere aggressivi con gli esseri umani. A supporto della loro teoria che consiglia l' abbattimento di almeno una cinquantina di ippopotami, i ricercatori citano alcuni episodi tra cui un attacco di ippopotami nel maggio 2020 contro un uomo di 45 anni che è rimasto gravemente ferito.

Dagospia il 25 dicembre 2020. Da sport.sky.it. Era nelle mire del Milan di Capello Andrès Escobar, il calciatore colombiano passato tristemente alla storia per essere stato ucciso a causa di un autogol provocato alla sua nazionale di calcio. Lo racconta Federico Buffa nel suo commento al film "The Two Escobars (Andrés e Pablo: i due Escobar)", che rievoca una delle più incredibili vicende sportive mai scritte dalla Storia. Lo hanno diretto i registi Jeff e Michael Zimbalist, con un accuratissimo lavoro di documentazione sulla Colombia degli anni '90, ovvero uno stato trasformato in far west dalla criminalità organizzata del cartello di Medellin, che ne aveva preso il totale controllo. Il patron di quella gang criminale era un omonimo del calciatore ucciso, anche lui tristemente famoso: Pablo Escobar. Al tempo dei fatti è già stato eliminato (si dice dalla CIA), ma la sua famiglia controlla ancora tutto, compreso il calcio colombiano, una delle grandi industrie del Paese. Il suo omonimo Andrès Escobar è il capitano di quella nazionale (forse la più forte di sempre), un difensore di grande talento, spinto da passione e patriottismo, ma con la sfortuna di vedersi rimbalzare sulla gamba un pallone che finisce nella rete del suo portiere. Quell'autogol contro gli Stati Uniti nel Mondiale americano, l'unico nella carriera di Escobar, sarà fatale per le speranze della sua squadra. In Colombia tutto ha un prezzo, anche la vita. Nel calcio vale tutto, tranne una cosa: la morte. Due leggi opposte che si specchiano nella storia dei due Escobar, il cognome più tipico del Paese. Il coraggioso Docufilm americano indaga sugli intrecci tra il crimine e lo sport ai tempi dei cartelli del narcotraffico. La sorella di Andrès ne racconta l’infanzia difficile e il carattere forte, la lotta per farcela nel calcio. L'ex allenatore Maturana spiega le doti del giovane calciatore: elegante e altruista, lo definiscono "il gentiluomo del calcio". Lo ricordano i suoi ex compagni di squadra rivelando anche la loro paura di entrare in campo. Eppure la nazionale colombiana è forte, vince molte partite internazionali, vediamo le più belle azioni di gioco commentate dalle tipiche telecronache sudamericane, riviviamo le qualificazioni ai mondiali con le azioni vincenti e la esaltante vittoria sull'Argentina. I ragazzi di Maturama diventano un dream-team, bandiera di un Paese poco amato nel mondo. Il presidente colombiano telefona loro, uno ad uno, per motivarli prima delle partite importanti. I colombiani si identificano sempre di più con la loro Nazionale. La squadra ne è orgogliosa anche se avverte l'ostilità internazionale che la identifica con il narcotraffico. L'obiettivo dei giocatori è quello di cambiare l'immagine della Colombia. Alla vigilia della Coppa del Mondo degli Stati Uniti nel 1994, un personaggio come Pelé dichiarava che la Colombia per lui era la squadra favorita per la vittoria. Ma dietro la partecipazione della selecciòn cafetera si dipanano retroscena inimmaginabili, che il documentario ricostruisce puntualmente. Trame politiche ed efferatezze criminali che alla fine conducono ad una unica tragedia simbolica, quella di un bravo giocatore di calcio che perde la vita per un banale errore in campo. La maglia numero 2 di Andrès Escobar, ricorda Buffa nel suo commento, sarà poi indossata anche dal futuro interista Ivan Ramiro Cordoba, forse rivolgendo uno sguardo al cielo dove, si pensa in Colombia, brilli una stella per ogni defunto, soprattutto se ucciso per un autogol.

Paolo Camedda per goal.com il 25 dicembre 2020. Era il capitano dell'Atletico Nacionál e della Colombia di Maturana, e avrebbe potuto indossare la maglia del Milan: ma fu assassinato dopo USA '94. "La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda, e come la si ricorda per raccontarla". Le parole di un celebre aforisma di Gabriel García Marquez, scrittore e Premio Nobel colombiano, si adattano perfettamente alla vicenda umana e calcistica di Andrés Escobar, lo sfortunato difensore colombiano ucciso a 27 anni dal narcotraffico per aver determinato, con un autogoal, l'eliminazione ai Mondiali del 1994 dei Cafeteros, sui quali erano cofluite ingenti somme di denaro nel giro delle scommesse clandestine. Nonostante un'esistenza troppo breve, interrotta in modo terribile con un atto vile e violento, che troverà giustizia soltanto nel 2018, l'insegnamento e i valori che Andrés ha trasmesso a tutti, familiari, compagni, amici, e al calcio e allo sport colombiano, sono più che mai vivi e attuali anche 26 anni dopo la tragica morte. Questa è la sua storia, una storia di amore per il calcio e per la vita, che si lega tuttavia inevitabilmente a quella del Paese colombiano. Come un viaggio a ritroso, il racconto della vicenda di Andrés parte necessariamente dal suo epilogo, ovvero i Mondiali USA '94 e quanto accade subito dopo. È il 22 giugno e al 'Rose Bowl' di Los Angeles, lo stesso stadio dove Roberto Baggio qualche settimana più tardi avrebbe tirato alto il rigore decisivo nella finalissima contro il Brasile, ombre oscure incombono sulla Nazionale del Ct. Francisco Maturana. La Colombia, intesa come Stato, nel 1994 era una polveriera pronta ad esplodere. L'assassinio di "El Patrón", Pablo Escobar Gaviria, il re incontrastato del narcotraffico, il 2 dicembre 1993, aveva di fatto scatenato la lotta per la supremazia nel mercato della cocaina, provocando nel Paese sudamericano un'ondata di sangue e terrore. Nei mesi immediatamente precedenti al Mondiale americano si era registrata l'ascesa dei Los Pepes, acronimo spagnolo per 'Perseguidos por Pablo Escobar', letteralmente "Perseguitati da Pablo Escobar". Questo era il nome di un'organizzazione paramilitare, avente legami con la DEA e la CIA, che, da sempre impegnata in una sanguinosa lotta contro il Cartello di Medellin, era salita alla ribalta per una serie di efferati delitti ai danni dei parenti e degli alleati del boss, e, dopo la morte di quest'ultimo, sotto l'egida dei Fratelli Castaño cercava di portare avanti la lotta armata contro gli altri gruppi di guerriglieri presenti nel Paese. Della collaborazione dei Los Pepes si serve in maniera sempre più consistente il Cartello di Cali, che in pochi mesi riesce ad assumere il dominio del narcotraffico colombiano. Il clima di terrore che ne consegue non risparmia nessuno, nemmeno la Nazionale di calcio, che invece andava negli States con l'obiettivo di riscattare l'immagine negativa del proprio Paese a livello internazionale. Per quanto possa sembrare incredibile, a distanza di breve tempo, la Colombia non è più la squadra che aveva incantato il Mondo abbattendo l'Argentina in casa propria, tanto da far dire a Pelé: "La Colombia è la mia favorita per diventare campione del Mondo". Se Pablo Escobar fosse stato ancora vivo, forse, per quanto paradossale, le cose in quel Mondiale sarebbero potute andare diversamente. Il Patrón era infatti il finanziatore dell'Atletico Naciónal, e si era rivelato abile nel costruire una squadra in grado di vincere in Sudamerica e nel Mondo, tanto da contendere al Milan di Sacchi, nel 1989, la Coppa Intercontinentale dopo aver trionfato nella Libertadores. Il signore della droga amava i calciatori, tanto da invitarli spesso nel suo super ranch per festeggiare le vittorie, e da riuscire a organizzare una partita con i Cafeteros nel campo de 'La Catedral', il carcere fortezza di Medellin, nel quale Pablo era detenuto. E i calciatori gli erano grati, chi più chi meno, per quanto faceva per il club. Ma il signore del narcotraffico era stato assassinato, e da allora le cose era cambiate radicalmente. Il calcio permetteva del resto al narcotraffico di ripulire i soldi sporchi della vendita della cocaina e regalava ai signori della droga grande popolarità. Accerrima rivale dell'Atletico Nacionál era l'America di Cali di Miguel Rodríguez, uno dei fondatori assieme al fratello, del Cartello della città omonima. C'era poi "Il Mexicano", José Gonzalo Rodríguez Gacha, boss e braccio armato del Cartello di Medellin, con i Millonarios di Bogotà. La Colombia che si presenta ai Mondiali del 1994, inoltre, è orfana di René Higuita. L'iconico portiere, che, nonostante lo sberleffo di Milla a Italia '90 era perfetto per il gioco di Maturana per la sua abilità a destreggiarsi con il pallone fra i piedi, deve scontare nel 1993 un periodo detentivo di 7 mesi di carcere per aver fatto da intermediario in un sequestro di persona. Sembra però che l'estremo difensore paghi in realtà l'aver reso pubblica una visita in carcere a Pablo Escobar. Sta di fatto che René negli Stati Uniti non c'è e al suo posto gioca Oscar Cordoba dell'America di Cali, che aveva fatto bene nelle Qualificazioni e negli anni si dimostrerà un buon portiere. I suoi Mondiali saranno però disastrosi. Succedono poi fatti inquietanti. Luis Fernando Herrera, difensore dell'Atletico Nacionál, 3 mesi prima dei Mondiali subisce il sequestro del figlio di 3 anni. La richiesta di riscatto è enorme, e il calciatore deve lanciare anche uno straziante appello in tv prima che avvenga la liberazione. I Cafeteros, favoriti alla vigilia del torneo per il calcio espresso nelle Qualificazioni, nelle quali hanno dominato il Gruppo A sudamericano, strapazzando per 5-0 l'Argentina al Monumental di Buenos Aires, arrivano all'appuntamento con pressioni fortissime. Maturana si affida in difesa ad Andrés Escobar, capitano e giocatore simbolo dell'Atletico Nacionál. Il leader silenzioso e carismatico della Colombia per i suoi valori calcistici e morali, rientra dopo esser stato costretto a un lungo stop dalla rottura del crociato. Escobar e compagni steccano clamorosamente la gara d'esordio con la Romania, perdendo 3-1 sotto i colpi di Hagi e Raducioiu, e devono giocarsi tutto contro i padroni di casa degli Stati Uniti. Ma quella partita non è come tutte le altre, perché nel ritiro della Nazionale sudamericana accadono fatti che destabilizzano ulteriormente la tranquillità del gruppo. Il fratello di Luis Fernando Herrera, ancora lui, è addirittura assassinato. Non solo: si dice che dopo la partita con la Romania, sui televisori a circuito chiuso presenti nell’albergo che ospita i colombiani, compaiano esplicite immagini di minaccia. Ad un altro calciatore del Nacionál, il centrocampista Gabriel Jaime Gomez, cui la critica aveva attribuito le principali responsabilità del k.o. contro la Romania, e allo stesso Ct. Maturana, vengono recapitate minacce di morte. "Se gioca Gomez - scrivono in un fax fatto recapitare ai Cafeteros - facciamo saltare la sua casa e quella del Ct. Maturana". Commissario tecnico e giocatore, che è fratello del vice di Maturana, e per questo è considerato "un raccomandato", d'intesa con il resto del gruppo, decidono che non è il caso di rischiare. Gomez si fa da parte e chiude anzitempo l'avventura ai Mondiali. La Colombia scende in campo al Rose Bowl letteralmente avvolta dalla paura e dalle pressioni esterne. Andrés è scuro in volto e sembra aver perso la sua proverbiale serenità. Quando poi la partita inizia se ne ha la conferma. I Cafeteros, quarti nel ranking FIFA per gli straordinari risultati degli ultimi 2 anni, attaccano a testa bassa gli Stati Uniti, squadra che diverse volte avevano superato in amichevole. Ma chiunque si accorge che c'è qualcosa di anomalo. "Ci sovrastava come un'enorme mano oscura", diranno in seguito i giocatori. Sulla vittoria della Colombia i narcotrafficanti del Cartello di Cali puntano pesanti somme di denaro. Maturana manda in campo: Cordoba, Perea, Herrera, Escobar, Perez, Rincon, Gaviria, Valderrama (che porta la fascia di capitano), Alvarez, De Avila, Asprilla. La Colombia attacca a testa bassa, ma si scontra anche con la sfortuna: Gaviria colpisce il palo da distanza ravvicinata, sulla ribattuta del legno De Avila calcia a botta sicura, trovando però il disperato salvataggio di Balboa sulla riga. Dall'altra parte invece succede l'imponderabile. Al 35' un errore del centrocampo colombiano libera Harkes sulla sinistra. Il giocatore statunitense crossa basso e teso, e Andrés si trova nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Cerca un salvataggio in spaccata, ma, anziché uscire sul fondo o allontanarsi dall'area, la palla rimbalza sul piede destro e, con Cordoba completamente a farfalle, si insacca lenta e beffarda nella porta sbagliata. Il difensore resta a lungo a terra, portandosi le mani sul viso per l'amarezza. Di certo non può immaginare cosa gli succederà appena qualche giorno dopo. Decisiva, a vedere le immagini, l'incomprensione con il portiere. Con Higuita, forse, non sarebbe successo. Al 52' Stewart raddoppia, e il goal della bandiera di Valencia nel finale non rende meno dolorosa la sconfitta. La Colombia della 'Generazione d'Oro', inserita dai bookmakers fra le possibili vincitrici, era praticamente già fuori dai Mondiali. Serve un miracolo, e non basta il successo per 2-0 sulla Svizzera. La Romania vince contro gli Stati Uniti e si qualifica come prima, mentre USA e Svizzera con quattro punti passano entrambe il turno. La Colombia, quarta, torna a casa. I Cafeteros sono sorprendentemente fuori dal Mondiale. Quello contro gli Stati Uniti è stato l'unico autogoal di tutta la carriera di Escobar, soprannominato "El Caballero de la cancha", ovvero "Il Gentiluomo del calcio". Nato il 13 marzo 1967 e cresciuto nel quartiere di Calasanz a Medellin, Andrés si distingue sia sul campo di calcio, sia sui banchi di scuola come studente modello. La mamma gli impartisce anche un'educazione religiosa. La sua morte all'età di 52 anni per un tumore segnerà però per il futuro calciatore un trauma doloroso, che ne forgerà il carattere e il coraggio. A un certo punto, però, Andrés decide comunque di inseguire il suo sogno calcistico. Fisico asciutto, veloce e forte di testa, ma, soprattutto, dotato di grande personalità e coraggio, quando Maturana lo lancia da titolare nell'Atletico Nacionál a 20 anni nel 1987, non perde più il posto e diventa uno degli interpreti più importanti dell'epopea de Los Verdolagas, la squadra che nel giro di pochi anni, anche grazie ai soldi dell'altro Escobar, diventa una potenza calcistica mondiale. Inizia a giocare anche in Nazionale, e nel 1988 segna in amichevole uno storico goal a Wembley per i Cafeteros. L'anno d'oro è però il 1989, in cui vince la Coppa Interamericana e la Copa Libertadores, quest'ultima battendo 5-4 ai rigori i paraguayani dell'Olimpia Asunción. Andrés trasforma con freddezza il primo penalty dei suoi. Nella finale di Coppa Intercontinentale contro il Milan, poi, limita Van Basten, che contrariamente al suo solito, non riesce a fare la differenza in quella partita. Da sempre sensibile verso i più poveri e i bisognosi, non concepisce che ci siano bambini poveri che non possaro studiare, così finanzia la sua ex scuola per istituire delle borse di studio. Nel 1989/90, prima dei Mondiali italiani, che gioca con i Cafeteros, fa una breve esperienza in Svizzera con lo Young Boys ma poi torna in patria. I Mondiali 1994 avrebbero dovuto consacrarlo nel panorama internazionale, invece segneranno la sua assurda condanna a morte. Dopo l'eliminazione nella fase a gironi, Escobar fa ritorno in Colombia il 29 giugno con i suoi compagni di squadra. Con la raccomandazione di non lasciare le proprie abitazioni per un po' di tempo, vista la situazione di caos e terrore che regna nel Paese. Andrés progetta allora il suo futuro assieme alla sua fidanzata Pamela Cascardo, che di lavoro fa la dentista. Nei piani c'è il matrimonio e poi l'arrivo in Italia: gli è arrivata infatti un'offerta del Milan. Baresi è vicino al ritiro, si cerca un suo erede. La sera del 1° luglio però il difensore decide di uscire di casa nonostante i compagni di squadra cerchino di farlo desistere: "Qui i conflitti non si risolvono con una scazzottata. Andrés, stai a casa, che è meglio". Lo implora anche Maturana. Ma il difensore non ne vuole sapere: "Voglio mostrare la mia faccia alla mia gente”. Escobar dopo aver girato un paio di bar assieme ad alcuni amici di infanzia con cui si trattiene a lungo, dà appuntamento a tutti alla discoteca Padova. Passa quindi a prendere Pamela, ma lei è molto stanca per la giornata di lavoro e preferisce stare a casa a riposare. Escobar arriva alla discoteca alle 10 e mezzo di sera. Dopo aver fatto una cena leggera con i suoi amici, e ritrovato il sorriso con i tifosi che gli vogliono bene, a un certo punto resta solo nel locale. Sono da poco passate le 3.30 del mattino del 2 luglio e la cosa certa è che ha una discussione verbale con dei soggetti poco raccomandabili. Sono i fratelli Gallón Henao, narcotrafficanti originariamente amici di Escobar, ma che dopo la sua morte diventarono finanziatori dei Los Pepes dei fratelli Castaño, l'organizzazione paramilitare alleatasi con il Cartello di Cali. Lo deridono e lo scherniscono per l'autogoal con gli Stati Uniti. Gli danno del "Frocio", del venduto e gli ricordano che con quel suo dannato autogoal ha fatto perdere parecchi soldi a tutta la Colombia, ma soprattutto a loro. Andrés, che ha anche bevuto un po', non ci sta e, come ha sempre fatto, li affronta con coraggio e chiede rispetto. Capisce però che è il caso di rientrare e si reca nel parcheggio dove ha lasciato l'auto. Ma in qualche modo la discussione riprende. Andrés è disarmato. Mentre sale sulla sua auto, qualcuno da un'altra vettura, che si scoprirà essere una Toyota Land Cruiser nera, gli grida: "Complimenti per l'autogoal!". Partono 6 colpi di mitragliatrice, che ne provocano la morte, prendendolo alle spalle, nonostante venga trasportato in ospedale. Indossa dei jeans blu, una camicia rosa che si tinge di sangue e ha le mani che gli coprono il viso. Pamela, la sua fidanzata, rivela di essersi svegliata di soprassalto quella notte: sente che è accaduto qualcosa di brutto. Poco dopo le arriva la telefonata: il suo Andrés non c'è più. L'omicidio di Escobar suscita grande commozione a Medellin e in tutta la Colombia. Al funerale due giorni dopo partecipa una folla di 150 mila persone, fra cui tutti i tifosi dell'Atletico Nacionál, che lo amano, e il presidente della Colombia César Gaviria Trujillo. "Andrés Escobar rimane sempre nei nostri cuori come un esempio di integrità morale, come un padre di famiglia, e come un colombiano esemplare", dichiara nel suo toccante messaggio. Ma i responsabili dell'omicidio non si trovano. Nel 1995 Humberto Munoz Castro, ex guardia giurata, si autoaccusa del delitto. Viene condannato a 43 anni di carcere, ne sconterà soltanto 11 per buona condotta, uscendo nel 2005. Apparentemente non ci sono legami con il narcotraffico, ma la verità emergerà soltanto 24 anni dopo. Nel 2018 la polizia arresta Juan Santiago Gallón Henao con l'accusa di traffico internazionale di cocaina. Si scopre che è il proprietario dell'auto su cui sono fuggiti gli assassini di Andrés, che era stato lui ad ordinarne l'uccisione perché con quell'autogoal il Cartello di Cali aveva perso ingenti somme di denaro con le scommesse clandestine. Vengono fuori i collegamenti con Los Pepes e il Cartello di Cali. 'Popeye', il sicario di Pablo Escobar, rivelerà inoltre al 'Guardian' che i fratelli Pedro e Santiago Gallón Henao erano riusciti a distogliere le indagini su di loro corrompendo con 3 milioni di dollari un procuratore. Il cerchio si chiude. Giustizia è finalmente fatta, e anche se nessuno ridarà mai Andrés ai suoi cari, il suo insegnamento e il suo esempio restano un segno ancora oggi. "Lotto perché si mantenga il rispetto. Un abbraccio forte a tutti. Ci vediamo presto perché la vita non finisce qui", aveva scritto appena qualche giorno prima di morire nella sua lettera-testamento dagli States al quotidiano "El Tiempo". E aveva ragione lui. I cartelli del narcotraffico oggi non ci sono più, i gruppi paramilitari sono stati smobilitati e la Colombia, sebbene non manchino nuovi problemi, ha cambiato il suo volto e non è più quella sanguinaria dei primi anni '90. Nel 2019 ad Andrés Escobar è stata intitolata la Cittadella sportiva di Belén a Medellin e il calciatore è raffigurato in una statua al suo interno realizzata dallo scultore Alejandro Hernández. Il suo sacrificio non è stato vano: il difensore è diventato un idolo e un esempio per quei bambini che lui tanto amava e che sognano un giorno di emularne le gesta in campo.

·        La Mafia Messicana.

Dal “Corriere della Sera” il 17 Novembre 2021. È stata arrestata a Zapopan, nello Stato di Jalisco, Rosalinda Gonzalez Valencia, moglie di Nemesio Oseguera Cervantes, alias El Mencho, leader del temibile Cartello Jalisco Nueva Generación. L'operazione, resa nota dal ministero della Difesa, è stata realizzata in collaborazione con la Procura generale ed i servizi di intelligence, «in ottemperanza a un mandato di cattura emesso da un giudice federale, per vari reati commessi nell'esecuzione di operazioni finanziarie con risorse della criminalità organizzata». Secondo le autorità messicane si tratta di «un duro colpo alla struttura finanziaria della criminalità organizzata che opera in quello Stato». Sotto la guida di El Mencho il Cartello di Jalisco Nueva Generación è oggi uno dei Cartelli più pericolosi operanti in Messico. 

Giuseppe Sarcina per il "Corriere della Sera" il 6 agosto 2021. «La violenza in Messico è intimamente collegata alla vendita di armi negli Stati Uniti. I produttori americani facilitano attivamente il traffico di fucili e pistole che finiscono nelle mani dei narcos». Così martedì 3 agosto il ministro degli Esteri messicano Marcelo Ebrard ha spiegato per quale motivo il suo governo abbia fatto causa a 10 costruttori di armi statunitensi. La denuncia è stata deposita nella Corte federale di Boston, nel Massachusetts, lo Stato in cui hanno sede diverse società citate. Nell'elenco figurano, tra le altre, il ramo statunitense dell'italiana Beretta, insieme con Colt's Manufacturing Company, Glock, Sturm, Ruger & Co. Nelle carte si legge che ogni anno circa mezzo milione di armi viene trasportato illegalmente dagli Usa al Messico: 380 mila pezzi sono fabbricati dalle ditte portate in tribunale. Sarebbe questo flusso enorme di pistole, fucili, mitragliette ad alimentare l'ondata di stragi e sparatorie. Il numero di omicidi ha raggiunto livelli record: circa 17 mila all'anno. Non basta. Secondo il Messico la diffusione delle armi avrebbe causato «una contrazione dell'1,7% del prodotto interno lordo». Da qui la richiesta, anche se non ancora ufficializzata dagli avvocati, di «un risarcimento» pari a circa 10 miliardi di dollari. I legali fanno riferimento a un precedente: la Remington Arms versò 33 milioni di dollari ai parenti delle 26 vittime, uccise nella scuola Sandy Hook (Connecticut, 2012). Ma il caso qui è completamente diverso. Lawrence Keane, vice presidente della National Shooting Sports Foundation, respinge le accuse: «Il governo messicano è responsabile della tumultuosa crescita del crimine e della corruzione nel Paese. I cartelli dei narcos gestiscono il contrabbando delle armi, oppure le rubano ai militari o ai poliziotti locali». L'Amministrazione di Washington è stata colta di sorpresa. Nei mesi scorsi Joe Biden ha fatto pressione affinché il Senato approvasse i disegni di legge già varati dalla Camera. In particolare l'8 aprile scorso aveva insistito su un aspetto cruciale: l'abolizione dello scudo giuridico che impedisce ai fabbricanti di armi di essere citati per danni in una causa civile. I repubblicani, però, stanno bloccando tutto, spalleggiati dalla stessa influente lobby di costruttori che ora protesta per la denuncia messicana. Nello stesso tempo la Casa Bianca è in allarme per l'atteggiamento del presidente Andrés Manuel Lopez Obrador. Dopo aver vinto le elezioni, nel 2018, Lopez Obrador ha iniziato a smantellare «L'iniziativa Merida», il piano sulla sicurezza concordato nel 2007 tra l'allora leader messicano Felibe Calderòn e George W.Bush. Proprio pochi giorni fa Lopez Obrador è stato lapidario: «L'Iniziativa Merida è morta». Quel programma, aggiornato anche da Barack Obama, prevede quattro «pilastri» per contrastare lo strapotere dei narcos e «modernizzare» il confine. Ma, come nota Vanda Felbab Brown, esperta analista del Brookings Institute, «la generica legislazione sociale di Lopez Obrador ha lasciato mano libera ai cartelli». Ora le cosche controllano centimetro per centimetro le città, specie quelle al confine con gli Usa, come Tijuana, Ciudad Juarez, Nuova Laredo, Matamoros. Non solo. Gli americani sono preoccupati perché sembra essersi fermata la bonifica delle istituzioni locali, della polizia, profondamente contaminate dalla corruzione. 

El Chapo, la moglie Emma Coronel Aispuro condannata a 3 anni. Silvia Morosi su Il Corriere della Sera il 30 novembre 2021. La donna, arrestata a febbraio, a giugno si era dichiarata colpevole di coinvolgimento negli affari del potente cartello di Sinaloa. Tre anni di prigione, meno i nove mesi già scontati: è la pena inflitta negli Usa a Emma Coronel Aispuro, la moglie del re del narcotraffico «El Chapo», per traffico di droga e riciclaggio. Una condanna inferiore ai quattro anni chiesti dall’accusa. Il giudice federale Rudolph Contreras ha riconosciuto che la ex reginetta di bellezza, ora 32enne, dichiaratasi colpevole dopo il suo arresto lo scorso febbraio, era solo una teenager quando sposò il boss. La consorte di Joaquin «El Chapo» Guzman Loera era stata arrestata lo scorso 22 febbraio all’aeroporto di Dulles, in Virginia, con l’accusa di aver fatto parte di una rete di narcotrafficanti dedita all’esportazione di cocaina, metanfetamina, eroina e marijuana negli Usa. Emma Coronel Aispuro era inoltre accusata di aver aiutato il marito a fuggire dalla prigione messicana di Altiplano nel 2015 e di aver pianificato una nuova evasione nel 2017 quando il capo del potentissimo cartello di Sinaloa, arrestato nuovamente in Messico l’anno precedente, era in procinto di essere estradato negli Stati Uniti, dove sta scontando ora l’ergastolo nella prigione di massima sicurezza di Florence, in Colorado. La donna, in tailleur scuro, il volto in parte nascosto da una mascherina nera, non ha reagito alla pronuncia della sentenza. Lei stessa, a giugno, si era dichiarata colpevole di tre capi d’accusa: concorso in traffico di droga, riciclaggio di denaro sporco e transazioni con un narcotrafficante straniero. Mariel Colon, avvocata della trentaduenne, ha negato che la sua cliente abbia collaborato con i magistrati per ottenere una pena minore e ha smentito che abbia beneficiato dello status di testimone protetto. «Le sue figlie sono in Messico e sappiamo molto bene cosa succede a coloro che collaborano e alle loro famiglie», ha dichiarato la legale alla televisione Univision, paventando una ritorsione dei cartelli. I pubblici ministeri, nel chiedere una pena di quattro anni, hanno sottolineato che la donna non aveva precedenti penali prima del suo arresto e che «ha rapidamente accettato le sue responsabilità». La donna ha anche aiutato El Chapo a pianificare una fuga attraverso un tunnel scavato sotto una prigione in Messico nel 2015 fornendogli un orologio Gps nascosto nel cibo. Gli avvocati della difesa hanno anche sottolineato che la donna aveva 17 anni quando ha incontrato Guzman e lo ha sposato per il suo 18esimo compleanno: «Era una minorenne molto impressionabile, sposata con un uomo potente di più di tre decenni più vecchio», hanno ricordato i legali.

Messico, la lotteria che regala la casa del Chapo (con tunnel per la fuga). Le Iene News il 06 luglio 2021. La Lotteria nazionale in Messico inserisce tra i premi una delle case di Joaquín Guzmán, “El Chapo”, il re dei narcos ora in carcere negli Stati Uniti. Da questa abitazione riuscì a scappare con una delle sue fughe da film. E l’iniziativa scatena polemiche sulla sua leggenda nera. Un biglietto da dieci euro, 250 pesos, per vincere una delle case del Chapo, il signore dei narcos ora in carcere negli Stati Uniti: la Lotteria nazionale messicana l’ha inserita tra i premi in palio il 15 settembre, il Giorno dell’Indipendenza. C’è anche questo nel Messico che vive ancora nelle violenze e nella leggenda nera di Joaquín Guzmán, detto appunto “El Chapo”, “il piccoletto”, dopo il suo arresto nel 2016. Delle violenze senza fine dei cartelli droga che sono seguite e continuate inarrestabili (con episodi proprio in questi giorni particolarmente feroci, tra corpi mutilati abbandonati lungo le strade o legati a delle croci) vi abbiamo parlato nel servizio di Cizco che vedete qui sopra. La leggenda nera è entrata nell’immaginario collettivo anche con il contributo della serie tv Netflix. L’iniziativa della lotteria punta a riutilizzare i beni confiscati ma lascia aperte molte polemiche e perplessità. Tra i premi c’è anche una villa da 3 milioni di euro di un altro signore della droga. La casa del Chapo invece non è la più grande né la più bella del numero 1 del cartello della droga di Sinaloa. Si trova nel quartiere Libertad di Culiacán e vale 120mila euro, poco per un re del narcotraffico. Ma ha “gadget” di alto valore simbolico in una residenza dove riceveva soprattutto le sue numerose amanti. C’è un passaggio sotterraneo segreto che si apre sotto la vasca da bagno e che portava una rete sotterranea di tunnel collegati a otto abitazioni (molte delle sue residenze erano dotate di sistemi del genere). Lui l’ha usato mentre i soldati, arrivati grazie a una “soffiata”, ci mettevano dieci minuti per abbattere la porta d’ingresso che aveva appositamente rafforzato. Così il 16 febbraio del 2014 El Chapo è sriuscito a scappare proprio assieme a un’amante con una delle sue famose fughe spettacolari, da film appunto. Famose come i suoi arresti: verrà fermato sei giorni dopo. Un metro e 67, patrimonio stimato di 14 miliardi di dollari che lo fece inserire da Forbes nel 2016 al 25° posto tra gli uomini più ricchi del mondo, crudeltà infinita, Joaquín Guzmán riuscirà un anno dopo a evadere con la sua fuga forse più spettacolare, attraverso un tunnel di un chilometro e mezzo scavato sotto il carcere, prima di essere catturato ancora per l’ultima volta nel 2016 e trasferito negli Stati Uniti. Di El Chapo e della mattanza dei narcos in particolare ad Acapulco, ci siamo occupati nel 2017 nel servizio che vedete qui sopra di Cizco, regia di Gaston Zama nel 2017. Abbiamo documentato una giornata in questa città, dove gli omicidi e le esecuzioni sono all’ordine del giorno. Secondo un copione di ordinaria barbarie che non accenna a fermarsi in Messico nemmeno oggi.

Guido Olimpio per il "Corriere della Sera" il 6 luglio 2021. Una lotteria con in palio case e proprietà. E i biglietti per vincerle in offerta ad un prezzo relativamente basso, l'equivalente di circa 10 euro. È l'idea lanciata dalle autorità messicane per incassare denaro con beni sequestrati ai grandi capi della droga. Nella lista di 22 siti c'è anche un'abitazione modesta, ma dal grande valore simbolico: quella da dove è scappato El Chapo nel 2014. Fuga incredibile. Da film. Naturalmente attraverso il suo metodo preferito, il tunnel segreto. È la notte del 16 febbraio, grazie ad una soffiata i marines catturano un collaboratore del boss, era uscito per andare a comprare cibo per «el patron», sempre affamato di cibo e di compagnia femminile. Il bandito cede subito e fornisce l'indirizzo del rifugio. È nel quartiere Libertad di Culiacan. I militari circondano il piccolo edificio, martellano la porta di ingresso. Che non cede subito. È stata modificata per tenere il più possibile o quanto basta. Infatti ai soldati servono almeno 10 minuti per abbatterla, un tempo sufficiente per dare modo al grande ricercato di svignarsela. Gli ambienti sono vuoti, il leader di Sinaloa se ne è andato attraverso una galleria nascosta dalla vasca da bagno. Un meccanismo ne permetteva l'apertura, un sistema ingegnoso adottato dai complici di Joaquín Guzmán, uno specialista delle evasioni. In seguito scopriranno che anche altri nascondigli sono stati dotati del passaggio, costruito da uomini di fiducia. Ora la casetta è parte dell'iniziativa studiata dal governo. Non è una reggia da re dei trafficanti, ha un prezzo di mercato di poco superiore ai 120 mila euro, però può avere il suo «fascino nero». E comunque è una buona esca per chi vuole tentare la fortuna. Ben più imponente la grande villa di Amado Carrillos Fuentes, meglio conosciuto come il signore dei cieli. Un soprannome importante dovuto alle sue capacità di imprenditore del crimine. Il boss del cartello di Juarez ha creato un impero e un sistema grazie all'uso massiccio degli aerei. Velivoli carichi di cocaina proveniente dal Sud America, un network sofisticato poi copiato da molte organizzazioni. Secondo il listino la residenza di Tlalpan (zona della capitale) vale 4 milioni di dollari: piscina coperta, jacuzzi, sauna, salone per le feste. Senz'altro più inusuale il palchetto allo stadio Azteca di Città del Messico, anche questo nella ruota della fortuna. È in grado di ospitare 20 persone, ha la cucina e un bagno, più un parcheggio per quattro auto. Un mini-appartamento dal quale godersi le partite di calcio. Le trovate delle autorità attirano, destano curiosità e qualche polemica sull'efficacia. Ma soprattutto non devono distogliere l'attenzione su quanto avviene in numerose parti del Paese, in particolare quelle più vicine al confine con gli Stati Uniti. Nelle ultime settimane si sono susseguiti gli scontri, con corpi mutilati abbandonati lungo le strade, un paio di giovani uccisi e legati ad una croce, show di forza di gruppi di sicari a bordo di veicoli blindati. Particolarmente feroci gli episodi nella regione di Zacatecas, documentati da immagini dure diffuse in rete. Gli osservatori provano ad interpretare, fanno scenari, ma al solito non c'è mai un'unica narrazione. E la nebbia di guerra diventa la migliore alleata di chi spara.

Chi è El Chapo, il narcotrafficante che conquistò il Messico. Mauro Indelicato su Inside Over il 28 giugno 2021. Protagonista di ben due fughe, spesso al centro delle tensioni tra Messico e Stati Uniti, “El Chapo” Guzman è uno di quei criminali del narcotraffico capace di imporre il suo nome non solo nelle cronache ma anche nella politica. Inizia da giovane la sua scalata nei cartelli della droga e da subito ha mostrato quell’ambizione criminale in grado di renderlo spietato per il raggiungimento dei suoi obiettivi. Oggi si trova negli Usa dopo l’estradizione del 2017 e sta scontando l’ergastolo. Familiari e fedelissimi hanno preso il suo posto nel cartello di Sinaloa, da lui comandato per diversi anni. Anche loro, contro rivali e cittadini, stanno applicando metodi spietati per stabilire il controllo del territorio.

L'infanzia e l'ingresso nel narcotraffico. Il vero nome di El Chapo è Joaquín Archivaldo Guzmán Loera. Nato a La Tuna, nello Stato di Sinaloa, il 4 aprile del 1957, il soprannome gli viene affibbiato già in gioventù per via delle caratteristiche fisiche. Suo padre ufficialmente è un allevatore di bestiame, ma in realtà nei suoi terreni coltiva marijuana rivenduta poi ai nascenti gruppi criminali della droga. È quindi in famiglia che El Chapo viene a contatto con il mondo del narcotraffico. Anche perché lui stesso lascia la scuola per aiutare, assieme ai suoi fratelli, il padre nella coltivazione delle sostanze illecite, incluso il papavero da oppio. Con il genitore però il rapporto è pessimo: dedito all’alcool, il padre spesso picchia i suoi figli maschi, compreso il giovane El Chapo. E così lui decide di abbandonare la sua città natale e si trasferisce dallo zio Pedro Perez. Si tratta di uno dei primi in Messico a capire le potenzialità di un nascente mercato verso gli Stati Uniti, quello della cocaina. Inizia così la sua scalata criminale. Lo zio lo introduce nella criminalità organizzata e lui in questo ambiente non perde tempo a farsi conoscere. Diventa uno stratega del passaggio della droga verso gli Usa, ma soprattutto mostra un carattere ambizioso e determinato: anche per rivalsa rispetto a un’infanzia difficile, il suo obiettivo è farsi strada nel mondo appena conosciuto, avanzare come uno dei principali riferimenti del crimine nella sua zona. Viene presentato sul finire degli anni ’80 a Felix Gallardo, uno dei principali boss del Messico. Inizialmente è il suo autista, ma in pochi anni diviene il suo principale braccio destro. Quando nel 1989 Felix viene arrestato, El Chapo ne prende il posto.

Il cartello di Sinaloa. Negli Stati Uniti la droga scorre a fiumi in molte città. La cocaina è ben presente a New York come a Los Angeles, a Chicago come a San Francisco. Viene usata nelle feste, viene comprata da sempre più persone attratte da un vizio divenuto più comune. La merce viene prodotta soprattutto in Colombia, ma i principali corridoi verso il nord America e il Vecchio Continente si trovano oramai in Messico. Per i boss come El Chapo il mercato frutta miliardi. Come successore di Felix, il narcotrafficante emergente impone una riorganizzazione dei cartelli della droga. Assieme ai fedelissimi fonda il cartello di Sinaloa, da subito in contrasto con quello di Tijuana per il controllo dei traffici verso gli Usa. Nella guerra tra i due gruppi perdono la vita migliaia di persone. Esecuzioni, torture, pestaggi, nessuna delle parti in campo è esente da atti efferati pur di predominare. El Chapo in questo contesto appare spietato: traditori, nemici, ma anche comuni cittadini che ostacolano la sua ascesa vengono fatti fuori con crudeltà. Il suo cartello riesce anche a sfuggire ai controlli delle autorità messicane ed americane: al confine tra i due Paesi, il cartello di El Chapo costruisce lunghi tunnel in cui far affluire la droga. Nel 1993 la svolta: a Guadalajara viene ucciso in aeroporto l’arcivescovo Ocampo, da sempre contro i cartelli del narcotraffico. Questo episodio determina le prime vere operazioni anti criminali in Messico ed El Chapo è costretto a nascondersi. Con la sua fidanzata María del Rocío del Villar Becerra, prova a fuggire in Guatemala ma viene arrestato dall’esercito locale il 9 giugno 1993.

Le fughe dal carcere e l'ultima cattura del 2016. La sua prima delle tre catture non scalfisce il suo comando e il suo potere. El Chapo è oramai uno degli uomini più ricchi del Messico e riesce a corrompere tutti: dai secondini del carcere, fino alle autorità giudiziarie. La prigione di Almoloya de Juárez, dove viene portato, diventa il suo quartier generale. Qui riceve i suoi fedelissimi, organizza feste e conosce uno stile di vita definito “opulento” anni dopo dai rapporti delle autorità messicane. È proprio mentre si trova in carcere che El Chapo decide di orientare i suoi interessi anche verso un’altra sostanza sempre più consumata negli Usa, ossia la metanfetamina. Il suo cartello la importa dal sud est asiatico e poi la smercia oltre il confine. Sulla sua testa però pende una richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti. El Chapo in carcere non si sente più al sicuro, teme di essere processato negli Usa. E così il 19 giugno 2001 viene aiutato ad evadere. Da allora è un fantasma: ufficialmente latitante, in realtà il boss vaga per i territori da lui controllati assieme alla famiglia e agli amici senza particolari problemi. Anzi, riesce anche ad arricchire il suo patrimonio: per ben tre anni consecutivi, tra il 2009 e il 2011, la rivista Forbes lo posiziona tra i primi 60 uomini più potenti al mondo. Gli Usa però pressano sul Messico per la sua cattura. E così il 23 febbraio 2014 arriva il suo secondo arresto dopo un blitz della marina messicana. Sembra essere la fine per El Chapo e l’inizio dell’attenuazione delle tensioni tra Città del Messico e Washington, già peraltro molto alte per via della questione migratoria. Così non è: le autorità messicane si oppongono all’estradizione immediata, El Chapo fugge di nuovo dalla prigione e l’episodio stavolta si trasforma in un vero e proprio caso diplomatico. Tuttavia la nuova latitanza non è come la precedente: braccato dall’esercito, ben deciso a rifarsi dallo smacco subito dall’ultima evasione, il boss è arrestato l’8 gennaio 2016. Il governo messicano lo estrada negli Usa l’anno successivo. Qui sta scontando l’ergastolo e dieci condanne a 30 anni di prigione. Il suo cartello tuttavia non è sparito. Il gruppo dei suoi successori è impegnato in una guerra contro i nuovi trafficanti. Un conflitto che nel giugno 2021 ha dato prova della sua crudeltà con il ritrovamento di corpi torturati e impiccati dagli eredi di El Chapo. Qualcosa nell’impero di El Chapo comunque inizia a scricchiolare: la sua seconda moglie, Emma Coronel Aispuro, dopo essere stata arrestata il 21 febbraio 2021, oggi è una delle principali collaboratrici della giustizia statunitense.

Usa, arrestata la moglie di «El Chapo», il re del narcotraffico messicano. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 23/2/2021. La moglie del boss messicano della droga Joaquin «El Chapo» Guzman è stata arrestata ieri, lunedì 21 febbraio, in un aeroporto in Virginia con l’accusa di traffico di droga internazionale. A darne notizia è stato il Dipartimento di Giustizia, che ha spiegato in dettaglio come ha contribuito a pianificare l’audace fuga di suo marito da una prigione del Messico. Emma Coronel Aispuro, 31 anni, che ha la doppia cittadinanza degli Stati Uniti e del Messico, è stata arrestata all’aeroporto internazionale di Dulles, Washington, e dovrebbe comparire oggi davanti alla corte federale della capitale Usa. È accusata di far parte di una rete di narcotrafficanti dedita all’esportazione di cocaina, metanfetamina, eroina e marijuana negli Stati Uniti. Il Dipartimento di Giustizia la accusa inoltre di avere aiutato il marito a fuggire da una prigione messicana nel 2015 e di aver partecipato alla pianificazione di una seconda evasione dalla prigione prima che Guzman fosse estradato negli Stati Uniti nel gennaio 2017. Aispuro è stata presa in custodia e al momento non è chiaro se ha un avvocato che possa commentare le accuse che le sono state rivolte. Ex potentissimo capo del cartello messicano di Sinaloa, Guzman è fuggito attraverso un’entrata sotto la doccia nella sua cella in un tunnel illuminato di un migliaio di chilometri (1,6 chilometri) con una motocicletta su rotaie. L’organizzazione della fuga, in cui Aispuro ha giocato un ruolo chiave, era stata pianificata nei minimi dettagli, sostengono i pubblici ministeri. I documenti del tribunale accusano Coronel Aispuro di aver lavorato con i figli di Guzman e un testimone, che ora sta collaborando con il governo degli Stati Uniti, per organizzare la costruzione del tunnel sotterraneo che Guzman usò per fuggire dalla prigione di Altiplano, in Messico, per impedirgli di essere estradato nel USA. Il piano includeva l’acquisto di un appezzamento di terreno vicino alla prigione, armi da fuoco, un camion blindato e un GPS di contrabbando in modo che Aispuro e i suoi complici potessero individuare «l’esatta posizione di “El Chapo” in modo da costruire il tunnel con un punto di ingresso a lui accessibile a lui», riportano i documenti della corte. Guzman è stato condannato all’ergastolo nel 2019. Il cartello di Sinaloa che a lui faceva capo è stato responsabile del contrabbando di enormi quantità di cocaina e altre droghe negli Stati Uniti durante i suoi 25 anni di regno: lo hanno affermato i pubblici ministeri in recenti documenti giudiziari. Hanno anche detto che il suo «esercito di sicari» aveva l’ordine di rapire, torturare e uccidere chiunque si mettesse sulla sua strada. Coronel Aispuro, incoronata reginetta di bellezza nel 2007 grazie all’«influenza» di «El Chapo», ha assistito regolarmente al processo di Guzman, anche quando le testimonianze l’hanno messa in cattiva luce. I due, separati da una differenza di età di 30 anni, stanno insieme almeno dal 2007 e hanno due figlie gemelle, nate nel 2011. Il padre di Aispuro, Ines Coronel Barreras, è stato arrestato nel 2013 con uno dei suoi figli e molti altri uomini in un magazzino con centinaia di chili di marijuana oltre il confine con Douglas, in Arizona. Mesi prima, il Tesoro degli Stati Uniti aveva annunciato sanzioni finanziarie contro Coronel Barreras per il suo presunto traffico di droga. Dopo che Guzman è stato nuovamente arrestato in seguito alla sua fuga, Coronel Aispuro ha fatto pressioni sul governo messicano per migliorare le condizioni carcerarie di suo marito. E dopo che è stato condannato nel 2019, si è trasferita per lanciare una linea di abbigliamento a suo nome.

Arrestata in Usa la moglie di "El Chapo", il signore del narcotraffico messicano. Anna Lombardi su La Repubblica il 23/2/2021. Emma Coronel Aispuro è stata fermata in Virginia con l'accusa di traffico internazionale di stupefacenti. Aiutò due volte a evadere il consorte Guzman. Ora l'accusano di gestire gli affari del marito. (Mal)affari di famiglia. Emma Coronel Aispuro, 31 anni, la moglie del signore della droga messicano Joaquin Guzman Loera detto El Chapo, è stata arrestata all'aeroporto di Dulles, in Virginia, con l'accusa di traffico internazionale di stupefacenti. Lo riferisce, in una nota, il dipartimento di Giustizia americano. Sì, l'ex reginetta di bellezza che il narcotrafficante a capo del cartello di Sinaloa - di 33 anni più grande - sposò quando lei era ancora un'adolescente, nel 2007, dopo averle fatto ottenere con la sua "influenza" la fascia di Miss Durango. Madre delle due gemelle nate nel 2012, Emma, nata a San Francisco, ha la doppia cittadinanza messicana e americana. Secondo l'accusa, avrebbe aiutato a far entrare negli Stati Uniti cocaina, metanfetamine, eroina e marijuana. Non solo: avrebbe organizzato la fuga di Guzman nel luglio 2015 dalla prigione di Altiplano, in Messico. Tentando di organizzarne anche un'altra, prima che le autorità messicane decidessero di estradare il boss in America, nel gennaio 2017, sperando di fare un piacere a Donald Trump e aggirare la questione del muro. D'altronde già durante il processo del Chapo - condannato nel 2019 all'ergastolo proprio per aver portato tonnellate di droga in America - il pentito Dámaso López Nunez, ex luogotenente del boss, svelò che quella donna sempre in aula - Aispuro non perdeva mai un'udienza e vestiva abiti coordinati con le giacche del marito per meglio proclamargli la sua fedeltà assoluta - aveva avuto un ruolo determinante nella rocambolesca fuga del 2015 dal supercarcere di Altiplano, quando Guzmán letteralmente si inabissò passando attraverso un tunnel scavato sotto la doccia della sua cella: "Comunicavamo attraverso di lei. Fu Emma a darci l'ordine di procedere". Ora, a quanto pare, proprio lei, insieme ai due figli di primo letto del marito, Ivan Archivaldo e Alfredo Guzman (37 e 34 anni, insomma più grandi di lei) avrebbe preso in mano i loschi traffici del marito, amministrandone la fortuna valutata 14 miliardi di dollari. 

E la moglie del Chapo abbandonò i narcos: «Sono pentita di tutto». Arrestata negli Stati Uniti, Emma Coronel godrà del programma protezione testimoni. È la prima volta per la compagna di un boss. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 14 marzo 2021. Durante le udienze in tribunale era sempre lì, in prima fila, a pochi metri dal suo compagno: la giacca Louis Vuitton, la camicetta Carolina Herrera, dei grandi occhiali da sole di Gucci dietro i quali ha osservato con devozione tutte le fasi del “processo del secolo”. «È un marito affettuoso e un padre premuroso», diceva di lui ai giornalisti che la assediavano come fosse una rockstar. Lei è Emma Coronel Aispuro, moglie di Joaquin Guzman detto “El Chapo”, il più importante e temibile boss dei narcos messicani, una fama seconda solo a quella del colombiano Pablo Escobar, per un decennio alla guida dello spietato cartello di Sinaloa, oggi a terminare i suoi giorni in un carcere di massima sicurezza del Colorado. Quasi trent’anni in meno del marito, ex reginetta di bellezza dello Stato di Durango, un gusto smisurato per i vestiti firmati, “influencer” di successo con una pagina Instagram da 700mila follower ( in gran parte adolescenti latino- americane), creatrice di una linea di abbigliamento alla moda con le iniziali del marito, per il compleanno delle sue figlie gemelle ha trasformato una sfarzosa villa di campagna nella Sierra ; Madre in un pacchianissimo palazzo di Barbie. Una che non puoi non notare: già nel 2006 quando non ancora 18enne fece perdere letteralmente la testa al Chapo che si presentò da lei con tre file di musicisti e una di uomini armati fino al collo per chiederle la mano. Emma Coronel, nata a Santa Monica in California, metà americana, metà messicana e figlia di un affiliato di medio livello al cartello di Sinaloa, titolare di un diploma di giornalismo, ha sempre amato i soldi e la bella vita. Negli anni ruggenti se ne andava in giro esibendo il tipico stile buchonas, come vengono chiamate nell’ambiente le compagne dei narcotrafficanti mutuando il termine da una marca di whisky: trucco pronunciato, abiti griffati, tacchi vertiginosi. Ma attenzione agli stereotipi, non è la classica decorazione che il capo si porta dietro con prosopopea del playboy. La “pupa” che riempie il guardaroba e trascorre tutto il suo tempo tra estetisti e viaggi di lusso con i proventi delle attività illecite del consorte. Il suo ruolo nell’organizzazione è stato centrale, ha pianificato e coordinato le attività criminali del cartello per anni, ha consigliato e aiutato il marito in centinaia di affari, Come spiega un interessante rapporto del think- tank Usa InSight Crime «le mogli dei narcotrafficanti in America latina esercitano funzioni multiple e sono figure sociologicamente in evoluzione, oscillando dal ruolo di vittime a quello di soggetti attivi delle azioni criminali dei mariti». Emma Coronel rientra senza dubbio nella seconda categoria, meno nutrita ma comunque ricca di figure importanti come ad esempio la celebre Enedina Arellano Félix detta narcomamie che nei primi anni 2000 in seguiti al l’uccisione e all’arresto dei suoi fratelli prese le redini del cartello di Tijuana. Nel 2015 fu Emma a organizzare la clamorosa fuga del Chapo dalla prigione messicana di El Altiplano coordinando tutta l’operazione dall’inizio alla fine; un’evasione rocambolesca che sembra uscita dalla pena di uno sceneggiatore di Hollywood, avvenuta attraverso un tunnel lungo oltre un chilometro che sbucava direttamente nel bagno della sua cella. E negli anni della latitanza del marito letteralemente braccato dalla polizia messicana e dalla Dea fu lei a tenere ufficialmente i contatti con i diversi luogotenenti del cartello, trasmettendo di volta in volta i messaggi ricevuti durante i loro incontri clandestini. Quando nel 2017 El Chapo venne di nuovo arrestato ed estradato definitivamente negli Stati Uniti provò a organizzare una nuova evasione. Stavolta senza successo: le inespugnabili prigioni statunitensi, temute più dell’inferno in terra dai capi dei narcos, erano una prova troppo difficile anche per una donna determinata e intelligente come lei. Che alla fine, dopo anni di indagini non è riuscita a sottrarsi alla rete della giustizia. L’hanno arrestata a fine febbraio nel terminal dell’aeroporto di Dulles, in Virginia, con l’accusa di appartenere a una rete di trafficanti che esportava eroina, cocaina, marijuana e metanfetamina sul territorio degli Stati Uniti. Tra i pezzi da novanta dell’organizzazione ci sarebbero proprio quattro figli del Chapo, attualmente latitanti con i quali non ha mai smesso di avere rapporti di affari. Da donna dura e fedele al cartello quale è sempre stata i magistrati americani non si immaginavano quel che sarebbe accaduto pochi giorni dopo. Emma Coronel ha infatti deciso di collaborare con la giustizia statunitense ed è da pochi giorni ufficialmente una pentita. Godrà del programma protezione testimoni e verrà assegnata assieme alle sue figlie gemelle in una residenza segreta per il resto della sua vita. La sua testimonianza per gli investigatori americani è un tassello cruciale nella lotta ai narcotrafficanti e potrebbe infliggere colpi mortali al potente cartello di Sinaloa. «È la prima volta che la moglie di un boss rompe pubblicamente con un cartello della doga, credo che abbia pensato principalmente al futuro delle due figlie», ha commentato la giornalista messicana Anabel Hernández che ha intervistato Emma Carbonel e con la quale aveva un rapporto personale.

Paolo Mastrolilli per "La Stampa" il 3 marzo 2021. Il sicario urla: «Così vedono come siamo noi Jalisco! Li stermineremo tutti!». Poi infila il coltello nel petto del rivale, taglia un pezzo del suo cuore e lo mangia. I media messicani sono convinti dell'autenticità di questo video, che gira sui social. Serve a dimostrare la ferocia del Cártel de Jalisco Nueva Generación (CJNG), terrorizzare i nemici, e reclutare. Del resto Bill Bodner, capo della Drug Enforcement Administration di Los Angeles che gli dà la caccia, non esita a paragonarlo all'Isis: «Magari - ha detto alla Nbc - non avrà un'ideologia religiosa, ma la violenza è la stessa. CJNG è il nemico numero 1, la nostra priorità». Il loro capo, Nemesio Ruben Oseguera Cervantes detto El Mencho, è il nuovo leader più pericoloso del narcotraffico, ora che il boss del cartello di Sinaloa El Chapo è in prigione, e sua moglie Emma collabora con gli inquirenti americani. La DEA gli ha messo sulla testa una taglia da 10 milioni di dollari, e il governo messicano una da 30 milioni di pesos. Anche noi italiani abbiamo avuto a che fare col CJNG, perché nel suo territorio erano scomparsi nel 2018 Raffaele Russo, suo figlio Antonio, e il nipote Vincenzo Cimmino. El Mencho è nato nel 1966 a Naranjo de Chila, in una famiglia povera che coltivava avocado. A 14 anni già faceva la guardia alle piantagioni di marijuana, e poco dopo era entrato illegalmente negli Usa. A 19 anni era stato arrestato dalla polizia di San Francisco per furto e possesso di armi. Due mesi dopo aveva avuto il primo figlio, che quindi è cittadino americano, ma ora è in prigione in Messico. A 26 anni era stato coinvolto nel traffico dell'eroina, e per salvare il fratello minore Abraham si era dichiarato colpevole, beccando una condanna a 5 anni di carcere in Texas. Però a trent'anni era stato rilasciato e deportato in Messico. Era entrato nel Milenio Cartel, alleato col sottogruppo di Sinaloa guidato da "Nacho" Coronel. Uno alla volta i suoi capi erano caduti nella guerra tra le fazioni, come Los Zetas. Così El Mencho era salito nei ranghi, diventando il boss dei Los Torcidos. Aveva vinto la lotta con i rivali e fondato il CJNG, diventato in fretta il gruppo più famigerato proprio per la violenza: «El Chapo - dicono gli investigatori - era spietato quando serviva per affermare il suo potere. El Mencho ha tendenze di puro sadismo». Più disciplinato del boss di Sinaloa, non beve, non gira con donne, vive un'esistenza molto riservata. Si nasconde tra le montagne di Jalisco e Michoacan, con una sola debolezza: la passione per le lotte tra i galli, che gli ha fatto guadagnare il soprannome di "El Señor de los Gallos". Così dalla piccola regione della capitale Guadalajara, che però si vanta di aver inventato la musica dei mariachi, la tequila e il sombrero, ha preso il controllo di 28 Stati messicani su 32, con basi in sei continenti. Gestisce un patrimonio da 50 miliardi dollari, e quasi tutto il traffico di meth e fentanyl diretto negli Usa: «Se non ci fosse tutta questa domanda americana - si difendono i messicani - non esisterebbe neppure l'offerta dei narcos». La guerra tra i cartelli è stata feroce: 61.000 scomparsi, e 31.000 omicidi solo nel 2019. L'anno prima i Russo e Cimmino avevano avuto la cattiva idea di organizzare un traffico di generatori elettici a Tecalitlán, cuore del territorio del CJNG. Un investigatore messicano ci aveva spiegato che non aveva speranze di ritrovarli vivi, e poi aveva aggiunto: «Non puoi restare là da solo. Ho mandato la polizia federale a prenderti, ti scorteranno all'aeroporto». Pochi giorni dopo il sindaco di Tecalitlán, Victor Diaz Contreras, era stato ammazzato. El Mencho non ha paura di nulla. Ha già dichiarato guerra al governo messicano, e ora è pronto a farla con gli Usa.

Claudio De Carli per il Giornale il 29 dicembre 2020. I detenuti ne parlavano da tempo e la davano per certa, già tutto organizzato. Nei primi giorni di ottobre iniziano ad arrivare sulla scrivania dell' ufficio del direttore del penitenziario messicano di massima sicurezza e reinserimento sociale di Cieneguillas nello Stato di Zacatecas, decine di lettere accorate di famigliari che chiedono il lasciapassare per poter assistere all' evento, una innocua partita di calcio per celebrare l' arrivo dell' anno nuovo, una festa per stare vicino ai cari detenuti e alleviare loro la pena. Una pretesa quasi lodevole in occasione delle feste natalizie gettata lì per spezzare il cuore anche al più duro dei direttori carcerari. A Cieneguillas la situazione è più che delicata, carcere sovraffollato, quindici detenuti per cella con la presenza di numerosi condannati a pene definitive dei due cartelli rivali più potenti del Paese che regolano la quotidianità nel carcere. Da una parte i narcos del Golfo del sanguinario Osiel Cardenas Guillen, cocaina, anfetamine, traffico delle armi verso gli Stati Uniti, dall' altra i Los Zetas, ex membri delle forze armate speciali messicane, narcotici, sicari assoldati per regolare i sospesi con chi alza la cresta. Un'amichevole fra gente di malaffare e il pallone nel percorso di redenzione della malavita organizzata. In altre carceri messicane hanno organizzato partite con la partecipazione di Higuita e Maradona e non è successo niente. Qual è il problema? Il direttore s' informa, la sfida è proprio fra le formazioni dei narcos del Golfo e quelli dei Los Zetas, solo un' opportunità per alleggerire le tensioni nel penitenziario, e prende le sue precauzioni. Chiama il responsabile dell' SSP, il ministero della Pubblica Sicurezza e chiede direttive. Ismael Camberos Hernández risponde che nessuno meglio di lui può gestire un simile evento, conosce le criticità del carcere e i suoi angoli più cimiciosi, è responsabile delle relazioni con l'esterno e con gli operatori preposti, gli raccomanda solo di muoversi nella massima sicurezza e in definitiva se ne lava le mani. La prima mossa è una accurata perquisizione delle celle dove vengono rinvenute pistole, coltelli, droga e cellulari. Poi fissa un numero preciso di famigliari che vi potranno assistere. Sembra tutto in ordine, dispone una quantità massiccia di guardie attorno al campo di calcio, chiede un piccolo contingente di agenti antisommossa che non gli viene assegnato e si prende qualche giorno per riordinare le idee. La data fissata è la vigilia dell' anno nuovo, ci sono le squadre, l' arbitro, le porte, il campo di calcio con le righe tracciate col trabiccolo e la doppia rete che separa i famigliari mischiati ad agenti in borghese pronti a ogni evenienza. E poi dai, è un' amichevole! Il direttore realizza che sarebbe più pericoloso e controproducente negarla, rischia una rivolta con conseguenze inimmaginabili e con mano quasi sconosciuta firma l' autorizzazione. Il mattino della partita iniziano ad arrivare i parenti che si piazzano a ridosso della doppia rete di protezione, nell' altro lato i detenuti che non partecipano alla sfida, una moltitudine rabbrividente. Quanto accade è riportato sui quotidiani de La Jornada, La Republica e El Proceso, ognuno con il proprio inviato a bordo campo in zona protetta. La partita inizia ufficialmente alle due pomeridiane, cielo coperto, ventilazione accettabile, annunciate al megafono le formazioni dei detenuti, vietate le scarpe con i tacchetti per ragioni di comprensibile sicurezza, c' è il pallone. Tensione come in ogni più stracciata partita di calcio, tutto fila liscio fino al quarto d' ora di gioco, più o meno, quando un duro contrasto al limite dell' area di rigore, o forse dentro, scatena una rissa esagerata. Come per magia saltano fuori coltelli e pistole. La rissa si trasforma subito in un conflitto a fuoco, fra urla in campo, dalla zona degli altri detenuti e dal recinto dei famigliari. Tutti sparano e tutti hanno un coltello in mano, un detenuto imbraccia perfino un fucile automatico, leoni e gladiatori dei dilettanti, mai vista una cosa del genere su un campo di calcio, anche se ormai è tutto tranne un campo di calcio. Uno sterminio di due ore e mezza, dalle 14,30 alle 17, non registrato dagli inviati che riparano dietro a protezioni di fortuna per schivare le pallottole, elicotteri della Guardia Nacional che sorvolano la zona e 150 agenti antisommossa sdoganati d' urgenza che manganellano e sparano con un occhio al recinto dei parenti che stanno brigando per far evadere i congiunti. Nessun regolamento di conti, tutto è stato organizzato per un' evasione col sacrificio di ventidue sottoposti vestiti da calciatori destinati a lasciarci la pelle pur di creare il caos necessario per la fuga dei loro boss con la complicità dei parenti. Il pallone solo un pretesto. Vergogna. Scattano le indagini, innanzitutto come siano entrate pistole e coltelli nel penitenziario perquisito solo il giorno prima, il direttore del carcere sospetta la complicità di diverse guardie carcerarie e del personale in servizio, tutti sotto inchiesta. La Voceria de Seguiridad Publica del Gobierno informa che in quel pomeriggio del 31 dicembre del 2019 restano sul campo del penitenziario di Cieneguillas 16 detenuti fra sparati e pugnalati, praticamente una squadra e mezzo, e sei feriti gravi. Il pallone si vendica sempre da chi lo ammorba.