Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

ANNO 2021

 

LA MAFIOSITA’

 

SECONDA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

      

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

  

 

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L'alfabeto delle mafie.

In cerca di “Iddu”: “U Siccu”.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il delitto Mattarella.

La Cupola.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Intimidazioni.

Non era Mafia, ma Tangentopoli Siciliana.

La Dia: Il Metodo Falcone.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nulla è come appare: segui i soldi.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato - ‘Ndrangheta.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-Camorra.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il Depistaggio di via D’Amelio.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-Mafia.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il dossier mafia-appalti.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Inchiesta P2 ed i Massoni rinnegati.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Inchiesta P4.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il misterioso “caso Antoci”. (Segue dal 2020)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Cesare Terranova.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Antonino Scopelliti.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Nino Agostino.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro De Mauro.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro Rostagno.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Don Peppe Diana.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La ‘Ndrangheta.

Cosa Nostra. 

Cosa nostra cambia nome: l’Altare Maggiore.

La Mafia romana.

La Camorra. La Mafia Napoletana.

La Mafia Milanese.

La "Quarta mafia" del foggiano.

La Mafia Molisana.

Mala del Brenta: la Mafia Veneta.

La Mafia Nigeriana.

La Macro Mafia.

La Mafia Statunitense. 

La Mafia Cinese.

La Mafia Colombiana.

La Mafia Messicana.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-AntiMafia.

Non era mafia: era politica.

Santi e Demoni.

La Moralità della Mafia.

I Mafiologi.

L'Antimafia delle Star.

Giovanni Brusca ed il collaborazionismo.

Il Pentitismo.

Hanno ucciso Raffaele Cutolo.

Cosa è il 41bis, il carcere duro in vigore da quasi 30 anni.

Il reato che non c’è. Il Concorso Esterno.

Non era Mafia.

Antimafia: A tutela dei denuncianti?

Sergio De Caprio: Capitano Ultimo.

È incandidabile?

Il Business delle le Misure di Prevenzione: Esproprio Proletario.

Il Business del Proibizionismo.

Il Contrabbando.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che …”Viva i Boss”.

La Gogna Parentale e Territoriale.

Il caso di Mesina spiegato bene.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Caporalato a danno delle Toghe Onorarie.

Il Caporalato Parlamentare.

Gli schiavi del volantinaggio.

La Vergogna del Precariato. 

Il caporalato sui rider.

Il Caporalato agricolo.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Colpa delle banche.

Fallimentare…

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…la Lobby.

Una storia di Casta. Csm, il sistema non cambia per nulla.

Lo Scanno del Giudizio: da padre in figlio.

I dipendenti della presidenza del Consiglio.

I Giornalisti Ordinati.

Gli Avvocati.

I Medici di base.

I Commercialisti.

Che fine ha fatto il sindacato?

Le Assicurazioni…

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cosa c’entra la massoneria?

Le inchieste di Cordova e i giudici massoni.

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’abbattimento delle case private. Abusivo: Condonato e distrutto.

L’occupazione delle case.

 

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

SECONDA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Le Intimidazioni.

Quel processo al Dubbio è un processo al giornalismo libero. Il nostro Damiano Aliprandi è alla sbarra per la sua inchiesta antimafia e qualche giudice protesta perché diamo voce all'avvocatura e al diritto di difesa umiliato. Davide Varì su Il Dubbio il 21 dicembre 2021. C’è un pezzo di magistratura – un pezzo minoritario per la verità – che ha ancora qualche problemino con la libertà di stampa, che urla al bavaglio se viene approvata una legge a tutela della presunzione di innocenza degli indagati, ma non si fa scrupoli a portare alla sbarra giornalisti che fanno il proprio dovere: ovvero il pelo e contropelo al potere, a tutto il potere, anche a quello giudiziario. Noi del Dubbio in queste ore siamo finiti al centro delle attenzioni di chi non tollera critiche o un presunto “eccesso di libertà”. Niente di drammatico per la verità: di certo non consideriamo intimidatorio un comunicato di una sezione dell’Anm che si è mobilitata perché la nostra Valentina Stella ha osato dar voce ad avvocati che denunciano “censure” da parte di alcuni giudici; né ci spaventa il processo che sta subendo il nostro Damiano Aliprandi, il quale, in questi anni, ha provato a far luce su uno degli eventi più drammatici della storia del nostro paese: parliamo delle stragi di Capaci e di via d’Amelio, dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E qui occorre la massima chiarezza, perché se è vero che non siamo intimiditi, è altrettanto vero che la questione è terribilmente seria.

Il processo ad Aliprandi, infatti, non riguarda soltanto lui e il nostro giornale: sul banco degli imputati c’è infatti il giornalismo italiano e in gioco c’è la credibilità del nostro sistema giudiziario. Chi legge il Dubbio conoscerà di certo la storia: Aliprandi – forse il più preparato e scrupoloso giornalista antimafia – è stato querelato da due magistrati che si sono sentiti denigrati da una inchiesta a puntate sulla vicenda del dossier “Mafia e appalti”. Cos’è “Mafia e appalti”? Probabilmente è il buco nero dell’antimafia italiana, una vicenda che potrebbe aver giocato un ruolo determinante nelle morti di Falcone e Borsellino. Riassumiamo in due parole: Giovanni Falcone e il colonnello Mario Mori – sì, proprio lui, il servitore dello Stato trattato come un criminale – indagavano da anni sui legami tra Cosa nostra e un pezzo di economia italiana. Il 23 maggio del ‘92 Falcone viene trucidato a Capaci e, poche settimane dopo cominciavano a redigere la richiesta di archiviazione, tanto che l’allora procuratore di Palermo Pietro Giammanco – e parliamo di colui che venne accusato da un magistrato limpido come Caponnetto di aver emarginato, umiliato e isolato Falcone -, ecco quel Giammanco avrebbe avuto uno scontro in procura con lo stesso Borsellino sulla “gestione” di “Mafia e appalti”. E qui abbiamo la testimonianza di Domenico Gozzo, uno dei magistrati presenti a quella riunione, che parla esplicitamente di “contrasto più che latente”. Qualche giorno dopo lo stesso Borsellino strappa la promessa di poter proseguire l’indagine, ma di lì a poco viene trucidato con la sua scorta a via d’Amelio. Quante coincidenze. Solo molti anni dopo la storia viene ripresa da Damiano Aliprandi, il quale, grazie a un lavoro certosino e allo studio incrociato di migliaia e migliaia di atti giudiziari, ne coglie la straordinaria e sinistra importanza. Insomma, capite bene che questa inchiesta non solo fa emergere un filone dimenticato che potrebbe far luce sulle reali ragioni per le quali Falcone e Borsellino vennero uccisi, ma conferma ancora una volta l’inconsistenza del teorema Trattativa Stato-mafia, una indagine che del resto è già stata demolita dalla recente sentenza con cui sono stati assolti Mori, De Donno e Subranni.

Noi del Dubbio siamo certi che il nostro Damiano Aliprandi verrà assolto – troppo evidente la forza della sua inchiesta – eppure non possiamo non constatare il fragoroso silenzio della stampa italiana. Un silenzio assenso che rischia di assecondare un’azione giudiziaria capace – stavolta sì – di “imbavagliare” un’operazione giornalistica che ha l’ambizione di districare quel groviglio opaco di poteri e interessi che si sono mossi dietro la morte di Falcone e Borsellino. Ma quali sono i motivi di tanta inquietudine nei confronti di un lavoro giornalistico così rigoroso e trasparente? Il problema è dato dal fatto che l’inchiesta di Aliprandi riscrive il racconto ufficiale di quella vicenda e chi si discosta e contesta la Bibbia dell’antimafia diventa nemico, addirittura complice. Ed evidentemente non basta che quel “testo sacro” stia crollando anche nelle aule dei tribunali; né bastano gli appelli alla “continenza” da parte di magistrati più illuminati.

Una prova? I nuovi apostoli dell’antimafia di Stato se ne fottono anche di personalità cristalline come il procuratore De Raho che appena qualche giorno fa ha ricordato come sia dannoso per la credibilità della giustizia continuare ad alimentare “il protagonismo di alcuni magistrati attraverso la partecipazione ad alcuni circoli mediatici che tendono alla costruzione di verità alternative mediante la propalazione di elementi non sottoposti a valutazioni”. Più chiaro di così. Ma è evidente che qui la lotta alla mafia c’entra poco: chi difende quel racconto – e non parliamo solo di magistrati – in realtà difende se stesso, la propria immagine pubblica, la propria posizione di potere. Insomma, siamo di fronte a una vicenda incandescente e non vorremmo che fossimo gli unici a dover ricordare, soprattutto all’ordine dei giornalisti, che in ballo non c’è solo il Dubbio ma l’articolo 21 della nostra Costituzione: “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Avete presente?

Dagospia il 25 novembre 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Non possiamo tacere sul fango che sta circolando sul programma a cui collaboriamo da anni, alcune e alcuni di noi da decenni. Consideriamo ridicole e offensive le parole riportate in pubblico tratte da una lettera anonima che mettono in discussione la professionalità di colleghi e colleghe. Ci spiace constatare che queste calunnie abbiano trovato eco all'interno dell'Organo di Vigilanza sul Servizio pubblico radiotelevisivo, in una interrogazione che getta ombre sulla correttezza dell'intero nostro lavoro. Da quando è iniziata la sua storia, quasi 25 anni fa, Report ha sempre avuto una sola linea: trovare e approfondire le notizie, verificarle oltre ogni ragionevole dubbio e renderle pubbliche perché questo è il dovere di ogni giornalista. Ci dispiace ancora di più che le principali vittime di questa vicenda siano le colleghe che lavorano in redazione e realizzano le inchieste, con grande professionalità, passione per il lavoro giornalistico e serietà indiscussa. E ci colpisce che se ne parli solo ora, per stessa ammissione di alcuni membri della Commissione, diversi mesi dopo la circolazione del testo anonimo e non quando a suo tempo ricevuto, questo proprio a ridosso della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. A respingere al mittente le accuse di inchieste pretestuose basta la storia degli attacchi giudiziari ricevuti da Report, che ha sempre dimostrato l'inattaccabilità dei suoi servizi e delle sue croniste e cronisti. Ci sembra di assistere a un copione troppo spesso, in passato, già letto e subìto da colleghe e colleghi che davano fastidio. Quando il lavoro d'inchiesta è inattaccabile, si tenta di colpire sul personale. Evidentemente il lavoro dell'intera redazione dà  fastidio a troppi. 

Report, una lettera anonima accusa Ranucci di abusi in redazione. Lui: «Fango e falsità». Silvia Morosi su Il Corriere della Sera il 26 Novembre 2021. Una lettera anonima accuserebbe Sigfrido Ranucci di condurre la sua trasmissione, Report, in maniera non professionale: dal mobbing sugli altri giornalisti ai servizi montati ad arte, fino alle avances sessuali verso alcune colleghe. Una missiva nota da mesi, tornata al centro del dibattito dopo che mercoledì scorso, durante l'audizione in Vigilanza Rai, Davide Faraone (Italia Viva) e Andrea Ruggieri (Forza Italia) avrebbero chiesto spiegazioni all'ad Carlo Fuortes. A raccontare la vicenda, dall'inizio, è il conduttore di Report, in un lungo post su Facebook. «Altro fango su Report da Italia Viva e Forza Italia che riciclano lettere anonime. Dopo i falsi dossier su fonti pagate, le false mail tra me e Casalino, le false accuse di essere no vax, ora arrivano le lettere anonime con le accuse di “bullismo sessuale in redazione e di servizi preconfezionati”», scrive Ranucci. A «mettere il fango nel ventilatore» — prosegue il post — « sono stati ieri (mercoledì, ndr) in commissione di vigilanza parlamentare gli “onorevoli” Davide Faraone di Italia Viva e Andrea Ruggeri di Forza Italia. I due hanno chiesto chiarezza sulla lettera anonima. Vorrei rassicurarli. Prima di loro è stato il sottoscritto a chiederla». Si tratta di «un altro dossier basato su falsità. E ho già presentato una denuncia il 5 agosto», ha aggiunto poi il conduttore parlando all’AdnKronos, riferendosi ai comportamenti impropri di cui è accusato. In merito alla lettera anonima che riguarda Ranucci, «devo dire che è la prima volta che sento una cosa del genere. Evidentemente alla responsabile dell'Audit non è arrivato nulla perché lei sa che mi deve avvertire quando ci sono cose importanti. Cercheremo di capire di cosa si parla. Io agli atti non ho nessun tipo di denuncia formale o informale», ha replicato Fuortes.

Felice Manti per "il Giornale" il 25 novembre 2021. C'è una lettera anonima che sta togliendo il sonno a Sigfrido Ranucci, conduttore di Report. Un elenco di accuse pesanti: servizi confezionati ad arte, mobbing tra le scrivanie, relazioni sessuali con colleghe. Un caso di #metoo e di scarsa deontologia nel sedicente tempio del giornalismo d'inchiesta? Sarebbe un paradosso. A far scoppiare la bomba in commissione di Vigilanza Rai è stato Davide Faraone di Italia viva. Tra l'imbarazzato e lo stupito l'ad Carlo Fuortes: «È la prima volta che sento una cosa del genere. Evidentemente alla responsabile dell'Audit non è arrivato nulla perché lei sa che mi deve avvertire quando ci sono cose importanti. Cercheremo di capire di cosa si parla. Io agli atti non ho nessun tipo di denuncia formale o informale», ha detto. «Non si può dare credito a una lettera anonima, ma se ci sono delle denunce bisogna indagare comunque», ha fatto capire Andrea Ruggieri, deputato di Forza Italia e membro della commissione di Palazzo San Macuto: «Cosa ha fatto o farà Rai per chiarire se il conduttore di Report è vittima di una calunnia, o se ci sono donne vittime di prevaricazione?». Già, perché nella missiva - che circolerebbe da mesi- si farebbe riferimento ad alcune colleghe che sarebbero state pesantemente dileggiate sul posto di lavoro. Il dossier sarebbe datato fine 2017 e poi sarebbe stato «allargato» ad altre vicende. Una prima versione sarebbe stata mandata via mail attraverso il servizio protonmail, che serve a proteggere l'identità del mittente. Le tre colleghe coinvolte, contattate dal Giornale, non commentano. Una serie di copie dattiloscritte a mano sarebbero state inviate per lettera sia ai vertici Rai sia al capo del personale. Circostanza confermata dalla denuncia ai carabinieri presentata da Sigfrido Ranucci il 5 agosto scorso, nella quale però si chiamerebbe in causa l'allora direttore di rete Franco Di Mare, che avrebbe convocato Ranucci per discuterne. Ma perché Fuortes non ne sapeva nulla? Perché è stata insabbiata? «A differenza di Report non amo né do credito a comunicazioni o interviste anonime, ma delle due l'una- dice Ruggeri al Giornale- Se Ranucci è vittima di calunnia è doveroso tutelare un protagonista del servizio pubblico; diversamente, la Rai non potrebbe tollerare atteggiamenti di bullismo professionale o sentimentale in seno a una redazione». Michele Anzaldi del Pd dice di averla ricevuta da tempo ma che il contenuto non lo ha mai convinto. Certo, le accuse sono gravissime, Ranucci si difende e fa sapere che denuncerà chiunque darà credito a questo falso dossier. Tra le illazioni pesantissime ci sarebbe anche quella di aver manipolato la verità. Un servizio assegnato a una giornalista sul ruolo di un grande gruppo sanitario lombardo durante la pandemia sarebbe sparito, senza mai andare in onda, perché «troppo equilibrato», lo stesso servizio sarebbe stato assegnato a un altro collega, con gli esiti sperati. Ne sarebbe nata persino una querelle con l'importante gruppo sanitario ma mai sfociata in uno scontro di carte bollate, come confermerebbe un carteggio intercorso al suo tempo tra il gruppo e Viale Mazzini. Adesso la palla passa all'Audit Rai. Peccato che Report non possa farci una puntata...

Negli altri Paesi non è permesso, non so in Italia...Woodcock mi vuole mandare in prigione, può fare il Pm in un processo contro l’editore del giornale che ha querelato? Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Ottobre 2021. Scusate se ogni tanto parlo di cose nostre. In evidente conflitto di interessi. È solo che proprio in questi giorni mi sono occupato di un processo, anzi due, che il mio editore, Alfredo Romeo, sta affrontando a Napoli. Non da solo, insieme ad altre 50 persone. Diciamo pure una robusta associazione a delinquere. I processi sono due perché sono stati divisi dalla Procura. Uno è solo per Romeo e per l’architetto Russo, l’altro per Romeo, l’architetto e altri 50. Il primo è con giudizio immediato, il secondo con rito tradizionale. Il reato è esattamente lo stesso: tangenti. Le stesse identiche e ipotetiche tangenti. Gli imputati hanno proposto di unificare, perché a loro sembrava logico, ma il tribunale ha detto di no. Da quando ‘sta cosa è iniziata sono stati cambiati già 14 giudici. Gran giostra. Decine e decine di magistrati impegnati. Del resto – dicono- la partita è grossa. La parte principale del reato è il regalo di un myrtillocactus (non sapete cos’è? Ve lo dico io: una pianta, francamente bruttina, tutta attorcigliata, che vale dai 50 ai 100 euro); e poi c’è uno sconto consistente sul biglietto di ingresso a un centro benessere. e altre mandrakate simili. La somma di tutte le tangenti pagate da questa banda di 50 farabutti raggiungerebbe quasi i 1000 euro (800 per la precisione: circa 17 euro per imputato); i vantaggi ottenuti pare però che siano inesistenti. Gli imputati si difendono. Alcuni, compreso Romeo, dicono di non saperne niente. Altri sostengono che non credevano che regalando a una signora un myrtillocactus si commettessero – tutti insieme – i reati di truffa, associazione a delinquere, abuso d’ufficio, traffico di influenze, corruzione, peculato, violenza privata e così via. Riflettevo su tutto questo leggendo sui giornali che pare che siano state pagate tangenti significative anche per l’acquisto da parte del governo italiano di alcuni milioni di mascherine anti covid. Ci sono due tronconi di questa inchiesta. In uno dei due tronconi è coinvolto l’ex commissario anticovid Domenico Arcuri, nominato dall’allora premier Giuseppe Conte. Nell’altro Troncone è coinvolto invece l’ormai celebre Luca Di Donna, avvocato compagno di ufficio di Giuseppe Conte. Nel primo caso sarebbe stata pagata una commissione di circa 72 milioni di euro per queste mascherine. Che però erano mascherine fasulle. Non funzionavano e spargevano il contagio. Il governo le ha comprate lo stesso, e qualcuno ha messo a posto i conti di famiglia, credo, con questi 72 milioni (sai quanti mirtilli cactus si possono comprare con 72 milioni? Circa 900 mila. Il problema è che poi non sai dove metterli 900 mila mirtilli cactus…). Nel secondo caso sembra che agli imprenditori che fornivano le mascherine sia stata chiesta una commissione dell’8 per cento. E più o meno questa tangente avrebbe fruttato sempre una settantina di milioni. L’imprenditore rifiutò e l’affare saltò. Io sono sicuro che Romeo è innocente. Tendo a pensare che anche per i due casi Arcuri sia ingiusto condannare e mettere alla gogna prima che esca fuori qualcosa di concreto. Per ora c’è solo la certezza che le mascherine acquistate erano farlocche, e che un imprenditore umbro denuncia che a lui è stata chiesta una commissione dell’8 per cento. Tutto qui, eh. Non voglio trarre nessuna conclusione, per carità. Solo che mi veniva in mente questo paragone tra 800 euro e 72 milioni di euro. Siccome i giornali spesso hanno fatto molto chiasso sugli 800 euro. Prendete Il Fatto: oh, quanti articoli su Romeo! Su Arcuri- Di Donna-Conte un po’ meno. Vabbé, ognuno poi fa come gli pare. Oltretutto penso che sia molto difficile indagare su Conte se è vero quello che io vado dicendo da molto tempo, e cioè che Conte non esiste. C’è comunque l’assoluzione con la formula: l’imputato non sussiste. P.S. Magari avrò scritto anche perché ho il dente avvelenato. Il deus ex machina del processo per il myrtillocactus è il celebre Pm John Henry Woodcock. Il quale, ho saputo l’altro giorno, mi ha querelato e vuole mandarmi in prigione per diffamazione. Perché? Il solito: l’ho criticato. E Woodcock ha fatto causa al Riformista. Ai magistrati non piace mai essere criticati. Piuttosto, una domanda: ma visto che il Riformista appartiene a Romeo, può Woodcock fare il Pm in un processo nel quale l’imputato è il proprietario del giornale che lui querela? Negli Stati Uniti, in Francia, in Germania, in Spagna, in Bulgaria e in diversi paesi asiatici e africani questo non è permesso. Non so in Italia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

«Se soffiate sul fuoco vi scottate pure voi», polemica per la frase del pm Salvati dopo il tweet garantista di Costa. Il magistrato ha chiarito che si trattava di una metafora, ma il deputato di Azione non è del tutto convinto. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 16 agosto 2021. Tutto è partito da un tweet di Enrico Costa, deputato di Azione, sulla vicenda di Marco Sorbara, ex consigliere regionale della Valle d’Aosta assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa perché il fatto non sussiste, dopo essere stato per oltre 900 giorni in custodia cautelare. «Sono andati a prenderlo di notte alle 3.15, 45 giorni in isolamento, per 33 non ha visto nessuno. Fiumi di pagine sull’inchiesta. Poche righe dopo l’assoluzione», ha scritto Costa. Nemmeno il tempo di inviare il cinguettio garantista, che arriva una pioggia di commenti a favore e contro Costa, tra i quali tuttavia spicca quello di Antonio Salvati, giudice del lavoro presso il Tribunale di Reggio Calabria, che dopo una discussione con altri utenti scrive: «Io continuo a dirglielo, caro Costa: se soffiate sul fuoco vi scottate pure voi». Ma Costa rincara la dose, chiedendo se è normale che un magistrato, proprio sotto al post garantista in difesa di Sorbara, utilizzi espressioni del genere. Salvati non fa in tempo a rispondere che della sua frase chiede conto anche Carlo Calenda, leader di Azione e candidato sindaco a Roma. Gentile dottor Salvati, in che modo dovremmo “scottarci pure noi” – scrive Calenda – Enrico Costa è un parlamentare che ha commentato un caso di malagiustizia. Mi può spiegare meglio? Perché a una prima occhiata quanto da lei scritto assomiglia a una minaccia. Immagino sia un errore…». E la spiegazione di Salvati, nemmeno a dirlo, non si fa attendere. «Lo spiego in poche parole, e sono certo, stimandola, che sarà tutto chiarito – commenta il magistrato – Io credo che in questo momento, nella nostra comunità Italia, uno dei problemi maggiori sia la totale sfiducia verso le istituzioni e i corpi intermedi: politici, magistrati, giornalisti, avvocati, carabinieri, polizia, insegnanti, professori, persino Chiesa e ONG. Tutti corrotti o corruttibili. A me non piace questo modo di pensare. Non sopporto frasi come “i politici sono tutti corrotti”. Ecco perché mi spiace vedere un parlamentare che si limita, di sicuro in buona fede e con riferimento a un caso gravissimo, ad alimentare sfiducia e malcontento. Il tutto, con ricadute negative che riguardano tutte le istituzioni, parlamento e parlamentari». Un tentativo maldestro di rifugiarsi in calcio d’angolo, con il risultato che, almeno agli occhi di Costa, la toppa è peggiore del buco. «Alimentare sfiducia e malcontento? – chiede il deputato – Si informi sui temi che affronto (con qualche risultato): spese legali assolti, presunzione innocenza, diritto all’oblio, regolamentazione conferenze stampa, ingiusta detenzione, prescrizione, intercettazioni, abuso custodia cautelare». Un botta e risposta alimentato certamente dalla disintermediazione dei social ma che, secondo l’esponente di Azione, denota un certo modo di pensare di alcuni magistrati. «Finché si tratta di opinioni ci intendiamo, se si lanciano slogan come quelli contenuti nelle parole di Salvati allora è tutto più difficile – racconta Costa al Dubbio – I magistrati dispongono di armi non convenzionali, ricordo quando ci furono frasi di un presidente dell’Anm che invitò addirittura alla mobilitazione. Forse bisognerebbe rimanere nell’ambito della critica, che è sempre costruttiva». Nel corso della giornata il magistrato ha poi chiarito la posizione, dando la colpa alla «troppa sintesi», alle «troppe certezze» e alle «troppe idee preconcette» dei social. Ha spiegato di essere garantista «fino alla radice dei capelli» e ritenendo che il concetto di bruciare le istituzioni a forza di soffiare sul fuoco del malcontento civile fosse in realtà una metafora. Parole che, a fine giornata, convincono Costa solo a metà. «Prendo atto dei chiarimenti ma non è accettabile è che si faccia passare la battaglia garantista che conduco assieme a tanti altri esponenti come qualcosa che possa alimentare il malcontento». Alla prossima puntata.

Il giudice Salvati: «Non ho minacciato il deputato Enrico Costa». Dopo la polemica con Enrico Costa, il giudice Salvati dice: «C’è un problema di narrazione, la giustizia è complessa ma la società va sempre più veloce». Giacomo Puletti su Il Dubbio il 22 agosto 2021. Antonio Salvati, giudice del lavoro a Reggio Calabria, si era reso protagonista di un battibecco social con Enrico Costa, deputato di Azione, dopo il caso di Marco Sorbara, ex consigliere regione della Val d’Aosta rimasto in carcere 900 giorni da innocente. «Io continuo a dirglielo, caro Costa: se soffiate sul fuoco vi scottate pure voi», aveva scritto Salvati sotto al post garantista di Costa. Ora, a polemica rientrata, parla della comunicazione sempre più complessa tra politica e magistratura.

Dottor Salvati, polemica rientrata?

La polemica è rientrata, ma penso che ci sia un problema di narrazione. L’opinione pubblica è convinta che la magistratura sia un corpo così coeso che un piccolo giudice del lavoro di Reggio Calabria possa minacciare un parlamentare addirittura a livello fisico e verbale e questo non riesco proprio a spiegarmelo.

Agli occhi degli utenti, e inizialmente anche dello stesso Costa, è apparso com il solito magistrato forcaiolo che minaccia la politica…

Organizzo a Palmi da otto anni il festival nazionale di diritto e letteratura e l’associazione è composta in larga parte da avvocati. La seconda edizione fu dedicata interamente all’errore giudiziario e fu seguita da Radio Radicale. Alla base del mio ragionamento, al di la del singolo caso concreto visto che non conosco nulla del caso Sorbara, volevo dire che se ci sono criticità, e sicuramente ci sono nel rapporto di garanzie difensive nel momento delle indagini preliminari, bisogna rappresentare la realtà per quella che è, cioè molto complessa, e non ci si può limitare a dire che è colpa della magistratura, che pure ha i suoi difetti. La mia critica è che se un rappresentante politico vede una cosa così complessa da un punto di vista così unilaterale e polarizzato allora questa narrazione è diversa dal modo in cui io vedo il mondo.

Quando è arrivato il chiarimento con Costa?

Costa non ha mai detto di essere stato minacciato da me, si è detto scioccato e ha chiesto spiegazioni che poi lo hanno convinto, almeno in parte. Stessa cosa ha fatto Calenda, che ha chiuso la questione in maniera molto corretta. Il problema è la reazione del popolo, che non è assolutamente secondaria. Per versanti diversi, sia Parlamento che magistratura sono espressione della volontà popolare e quindi il problema è che la gente pensa che davvero un magistrato possa arrivare a minacciare un politico ma non avrei mai nemmeno potuto pensare di fare una cosa del genere.

Dunque la sua esternazione è stata travisata?

I problemi della giustizia sono molto complessi, soprattutto quando si parla di ingiusta detenzione, e non si possono ridurre a trovare una soluzione che vale per tutti, rappresentando la Magistratura come un corpo privo di controlli e di responsabilità. Non si può rispondere con slogan. È stata travisata perché viviamo in un mondo sempre più veloce.

Ha parlato della complessità della giustizia. Pensa che la riforma Cartabia e i referendum possano migliorare le cose?

Prima di essere un magistrato sono un cittadino. Spero che le cose migliorino ed è ovvio che quali che siano le riforme che verranno approvate è compito della magistratura applicare le leggi. Ma ho l’impressione che siamo malati di velocità e non penso sia solo colpa dei social. Ma se non sui social mi chiedo dove ci si possa incontrare con i cittadini e spiegare queste problematiche.

Crede che Costa abbia fatto di tutta l’erba un fascio?

A me basterebbe soltanto che si sapesse che il problema degli squilibri narrativi e tecnici, come nel caso del diritto di difesa e del diritto all’oblio, è assai discusso in magistratura. Ormai anche a livello di media il vero processo è quello che c’è in fase di indagini preliminari e non quello che avviene nel dibattimento, ma se si pensa che la magistratura fa quello che vuole, manda tutti in galera e butta la chiave si dà una rappresentazione distorta della realtà.

Se pensiamo allo scandalo legato al Csm la magistratura non sta dando una grande prova di sé.

È ovvio che il problema c’è, ma non riesco a ragionare in termini di magistratura e politica. Si tratta di singole persone, politici e magistrati, che sbagliano come qualsiasi altra categoria professionale e se lo fanno per gravi responsabilità è giusto che vadano incontro a sanzioni. Alla notizia di una condanna definitiva di un politico io non penso che tutta la politica sia marcia e corrotta, così come credo che i politici non debbano pensarlo per la magistratura. È necessario trovare un terreno comune di toni bassi per ispirare nuova fiducia nei cittadini. Se invece picconiamo, rimangono solo macerie.

Parla il responsabile del dipartimento Giustizia di Azione. Costa difende l’innocente Sorbara perseguitato dai magistrati e viene intimidito dal pm: “Proteggiamo i poveri Cristi”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 18 Agosto 2021. Enrico Costa, responsabile del dipartimento Giustizia di Azione – partito di cui compone il tridente di punta insieme a Carlo Calenda e Matteo Richetti – non perde occasione per manifestare il suo pensiero. L’altro giorno ha dedicato un tweet a Marco Sorbara, il consigliere della Val d’Aosta che dopo 900 giorni di custodia cautelare in carcere, di cui 45 in isolamento, è stato rimandato a casa assolto da ogni accusa. Un tweet asciutto, di racconto della vicenda in cui il parlamentare si indirizzava alla stampa: “Solo poche righe dopo l’assoluzione”. Ed ecco che un magistrato, Antonio Salvati, gli risponde piccato: “Complimenti per la competenza e la completezza. Io continuo a dirglielo, caro Costa: se soffiate sul fuoco vi scottate pure voi…”

Al telefono, Costa si dice scioccato. Anche Calenda ci vede l’ombra di una intimidazione.

Quello che è successo a me con quella risposta ci fa capire una cosa. Io ho gli strumenti e la serenità d’animo per interloquire con il magistrato. Ma uno dei tanti poveri Cristi che finiscono impigliati in una vicenda di mala giustizia e vogliono evidenziare la loro situazione, davanti a reazioni di questo tipo, come trovano la forza di reagire? È capitato più volte di parlare con le vittime della mala giustizia, uscite da vicende dolorose, da ingiuste detenzioni. Quando chiedo se vogliono intentare causa per il risarcimento cui avrebbero diritto, molti si tirano indietro: non vogliono più avere a che fare con la giustizia, neanche per tutelarsi.

Che cosa servirebbe, dunque?

Qualcuno capace di far sentire in modo autorevole la voce dei Presunti innocenti. Un garante della presunta innocenza. Lo avevo proposto con un emendamento alla riforma del processo penale, e lo riprenderò nell’ambito del recepimento sulla direttiva sulla presunzione di innocenza il cui decreto legislativo è stato predisposto dal governo. Se noi ci aspettiamo che lo Stato metta in piedi un meccanismo di tutela di questo genere, aspetteremo a lungo. Inizio ad essere sfiduciato. Ho fatto proposte di legge decine di volte per chiedere che tutte le ordinanze di ingiusta detenzione, che sanciscono in maniera riconosciuta l’errore dello Stato, vadano al titolare dell’azione disciplinare. Gli finiscano per lo meno sulla scrivania.

Oggi come funziona?

Coloro che a distanza di anni dopo aver comminato condanne detentive vengono smentiti dai gradi successivi della giustizia non lo vengono a sapere. Nel frattempo sono cresciuti, hanno fatto carriera o sono andati in pensione. E lo Stato riconosce i suoi torti ma non li notifica a chi li ha compiuti, con questo impedendone una lettura analitica complessiva e la capacità di correzione del sistema.

Una incongruenza, a dire poco. Da chi dipende?

Dall’ufficio legislativo del Ministero, dove ci sono praticamente solo magistrati, trovo ostilità su questa proposta. E tra l’altro andrebbe fatta una riflessione sul perché al Ministero della Giustizia dirigono tutto i magistrati. Si rende conto? Ho presentato un emendamento alla legge di bilancio (che va votata entro dicembre, ndr) sul rimborso dovuto da parte dello Stato delle spese legali degli assolti. Il governo doveva fare il decreto ministeriale attuativo entro sessanta giorni, siamo ad agosto e non lo ha ancora fatto.

Chi è che frena?

Glielo dico chiaramente. L’ufficio legislativo del Ministero rema contro. Il sottosegretario Sisto – che è un amico e un sincero garantista – è venuto in aula a dare una risposta preparatagli dagli uffici di Via Arenula dove si argomenta in modo funambolico che ci sarebbe una scarsa dotazione da dividere tra troppi aventi diritto. Io a Sisto glielo ho detto in faccia, così state facendo la campagna del referendum, perché se non riusciamo a risolvere la questione con la politica, la gente andrà a firmare e poi a votare quel referendum sulla responsabilità diretta dei magistrati.

Lei però non li ha firmati.

Proprio perché voglio dare una opportunità, un senso al nostro agire politico, all’azione parlamentare. Il tema della responsabilità diretta va accompagnato da una serie di adeguamenti normativi; va tolta quella norma che dice che la “valutazione del fatto e della prova, e la loro interpretazione, non sono sanzionabili”. Ma non escludo che a settembre sui referendum ci sarà una posizione diversa del mio partito, Azione.

La riforma Cartabia è un compromesso al ribasso?

Era partita con il grande coraggio della ministra Cartabia. Dopodiché ha dovuto subire la pressione di certi partiti.

Teme qualche agguato in Senato?

Ho visto che Letta e Conte hanno preannunciato di voler riaprire il tavolo a Palazzo Madama. Benissimo, li aspettiamo: vogliamo cambiarla anche noi ma in modo opposto. E al Senato ci sono i numeri per cambiarla in modo garantista.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

«Perché lo Stato vuole censurare il libro di Palamara sulle toghe?». L’interrogazione di 14 europarlamentari italiani: «La libertà di stampa e di espressione sono contrastate da un organo statale, a rischio i diritti di tutti». Simona Musco su Il Dubbio il 14 agosto 2021. «Un attacco alla libertà di espressione». E, di conseguenza, allo Stato di diritto. Rappresenterebbe questo, secondo 14 europarlamentari italiani, la richiesta di risarcimento di un milione di euro avanzata dall’Avvocatura dello Stato a carico di Luca Palamara, ex presidente dell’Anm. Una richiesta formalizzata nel corso dell’udienza preliminare conclusasi nelle scorse settimane con il rinvio a giudizio dell’ex pm romano, durante la quale l’Avvocato dello Stato ha sottolineato il «danno per le Istituzioni» legato al libro scritto dall’ex magistrato e dal giornalista Alessandro Sallusti, dal titolo “Il Sistema”, «presentato anche sulle spiagge». Un libro che, di fatto, racconta una realtà ancora incontestata, spiegando il meccanismo delle correnti e la gestione delle nomine nelle procure più importanti d’Italia, un vero e proprio scandalo che l’indagine su Palamara aveva soltanto lasciato intravedere. La richiesta dell’Avvocatura era arrivata un anno dopo la pubblicazione di quel libro, ormai campione di vendite e conosciuto a menadito dagli addetti ai lavori. Una sorta di “manuale” che lo Stato non ha però gradito, puntando sulla censura per far recuperare credibilità alla magistratura. La scelta non è però piaciuta agli europarlamentari Sabrina Pignedoli (Ni), Antonio Tajani (Ppe), Salvatore De Meo (Ppe), Chiara Gemma (Ni), Carlo Fidanza (Ecr), Nicola Procaccini (Ecr), Raffaele Fitto (Ecr), Giuliano Pisapia (S& D), Dino Giarrusso (Ni), Alessandro Panza (Id), Raffaele Stancanelli (Ecr), Nicola Danti (Renew), Sergio Berlato (Ecr) e Massimiliano Salini (Ppe), che hanno presentato un’interrogazione bipartisan alla Commissione con richiesta di risposta scritta, partendo dalla risoluzione del Parlamento europeo del 25 novembre 2020 sul rafforzamento della libertà dei media. I parlamentari hanno dunque evidenziato come «questo Parlamento ha condannato “l’uso delle azioni legali strategiche tese a bloccare la partecipazione pubblica al fine di mettere a tacere o intimidire i giornalisti e i mezzi di informazione e di creare un clima di paura in merito alle notizie riguardanti determinati temi”», sottolineando anche come «i problemi della magistratura italiana sono molto sentiti dall’opinione pubblica e che per la prima volta l’Avvocatura dello Stato agisce contro la pubblicazione di un libro». Da qui la richiesta di chiarire se la Commissione «non ritiene che l’azione dell’Avvocatura dello Stato si possa configurare come una azione temeraria “utilizzata per spaventare i giornalisti affinché interrompano le indagini sulla corruzione e su altre questioni di interesse pubblico”, come afferma la risoluzione del Parlamento» e se «la libertà di stampa e di espressione in Italia siano contrastate da un organo dello Stato, che dovrebbe tutelare questi diritti, configurandosi come un rischio per lo Stato di diritto». «È inaccettabile creare un clima di paura intorno a notizie che riguardano certi temi – ha commentato Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia e vicepresidente del Partito Popolare -. Ci auguriamo che l’Avvocatura dello Stato ripensi alle sue azioni contro la pubblicazione di un libro che rivela informazioni sulla magistratura e quindi sulla giustizia. Temi molto cari a tutti i cittadini. La storia e i valori di Forza Italia ci impongono di sostenere a pieno questa battaglia in favore della verità». La notizia era stata accolta con non poco stupore dai due autori. Per Sallusti si tratterebbe di «un tentativo di estorsione dello Stato nei miei confronti e di Palamara», mentre l’ex consigliere del Csm si è detto «turbato dalla richiesta di censura del libro da parte dei rappresentanti dell’Avvocatura dello stato: vogliono forse silenziarmi?». Contro la richiesta dell’Avvocatura – che ha anche invocato il sequestro del libro – si è ribellato anche il Codacons. «Si tratta di un gravissimo attentato alla libertà di espressione e di una azione del tutto paradossale – aveva evidenziato in una nota -. Il libro riporta infatti gli scandali del sistema giudiziario italiano che lo Stato non ha saputo impedire, e porta i cittadini a conoscere cosa accade nel settore della giustizia attraverso un lavoro di ricostruzione dei fatti. Se è vero che lo Stato chiede soldi a due scrittori liberi di esprimersi, gli stessi Sallusti e Palamara devono ora agire contro lo Stato in via riconvenzionale chiedendo 10 milioni di euro di danni per non aver saputo prevenire ed impedire la guerra tra bande nella magistratura italiana – proseguiva l’associazione -. In tal senso il Codacons offre il proprio staff legale per sostenere i due autori del libro contestato e difenderli in questo vergognoso giudizio».

Follia anti Palamara: è un danno presentare il libro nelle spiagge. Lodovica Bulian il 14 Agosto 2021 su Il Giornale. La teoria dell'avvocatura dello Stato nella richiesta di mixa-risarcimento da un milione. Con il libro intervista Il Sistema di Alessandro Sallusti, e con la sua presentazione in giro per l'Italia, l'ex pm Luca Palamara lederebbe ulteriormente l'immagine della magistratura e dunque del ministero della Giustizia: «Un libro a carattere denigratorio di tutto l'ordinamento giudiziario, che viene presentato in tutti i luoghi di villeggiatura e che continua a presentare una immagine distorta, viziata e di enorme discredito». Parlava così uno dei due legali dell'avvocatura dello Stato - come si legge oggi dalle trascrizioni - lo scorso 16 luglio, in una delle ultime udienze preliminari nel procedimento a carico di Palamara, prima del suo rinvio a giudizio con l'accusa di corruzione per l'esercizio della funzione. Il libro, che nulla ha a che fare con il processo e con quel capo d'imputazione, è stato invece citato dall'avvocatura - che rappresenta le parti civili della presidenza del consiglio dei ministri e del ministero della Giustizia - come un ulteriore danno all'immagine delle istituzioni: «Se l'evento offensivo è cessato non è cessato di sicuro il danno che viene richiamato, riprodotto costantemente da questi interventi mediatici che ne amplificano gli effetti in maniera esponenziale», continuano i legali. Che chiedono un risarcimento del danno da un milione di euro perché le condotte di Palamara sarebbero state «lesive degli stessi valori costituzionali di imparzialità e indipendenza della funzione giudiziaria», e soprattutto «della percezione che la collettività» ha dell'ordinamento giudiziario. Era stato l'allora ministro della giustizia Alfonso Bonafede, all'indomani dello scandalo che nel maggio 2019 ha travolto il Csm, a volere che il ministero si costituisse parte civile nel processo, così come la presidenza del Consiglio di Giuseppe Conte. Che ha autorizzato il mandato all'Avvocatura dello Stato. Il trojan inoculato nel cellulare dell'ex consigliere del Csm che veniva intercettato per corruzione, aveva svelato anche le nomine pilotate negli uffici giudiziari. Uno scandalo che ha gettato «discredito sull'apparato» e provocato la «lesione dell'interesse alla imparziale e efficace organizzazione della giustizia», si legge nella costituzione di parte civile. Così come il danno provocato a Palazzo Chigi con la «lesione dei valori di imparzialità e indipendenza della funzione giudiziaria».

Il libro poi, che svela altri retroscena sulla storia della magistratura degli ultimi vent'anni, con la sua grancassa mediatica non avrebbe fatto altro che aggravare il danno. Ma se Palamara ha subito gridato alla censura da parte delle istituzioni, fonti del ministero della giustizia ricordano che la decisione di costituirsi parte civile risale a novembre 2020 ed e è precedente alla pubblicazione del libro. La scelta di tirarlo in ballo in Aula farebbe parte della strategia processuale degli avvocati a cui il ministero è «del tutto estraneo». E nulla cambia per i legali dello Stato neanche la riformulazione del capo d'accusa da parte dei pm perugini, che contestano non più la corruzione in atti giudiziari ma quella per l'esercizio della funzione: «L'imputazione di corruzione per l'esercizio della funzione non è di sicuro un'ipotesi inferiore, anzi - dicono in aula - attesa l'ampia lesività e il costante comportamento di mercificazione contestato all'imputato. E soprattutto non modifica la posizione delle due parti civili che hanno chiesto il risarcimento di un danno non patrimoniale come danno esistenziale e di un danno patrimoniale per quanto riguarda il ministero della Giustizia». Lodovica Bulian

Annullata la sentenza del Consiglio di Stato. “Il sistema non si tocca!” l’avvertimento del Csm a Viola. Sabrina Pignedoli su Il Riformista il 18 Luglio 2021. Quando ieri ho letto l’articolo del Riformista Il Csm straccia la sentenza “La giustizia è cosa nostra”, sono scoppiata a ridere: ma come può un Csm che è stato dimezzato dalle dimissioni a seguito degli scandali sulle nomine intervenire contro il Consiglio di Stato che metteva in rilievo quello che dovrebbe essere considerato l’ennesima irregolarità in una nomina? Lo dice sia il Tar, sia il Consiglio di Stato: la nomina uscita dal Csm di Michele Prestipino a procuratore di Roma non è corretta dal momento che vi era un altro pretendente, Marcello Viola, che aveva più titoli, più esperienza e più anzianità di servizio e pertanto era più meritevole di occupare quell’importante poltrona. Il “radicamento” territoriale – valutato dal Csm per Prestipino – non è un parametro tra quelli da prendere in considerazione per le nomine. Dopo il pronunciamento del Consiglio di Stato mi sarei aspettata che il Csm se ne stesse silente, con la coda tra le gambe e magari riflettesse seriamente sul perché è scaturita la nomina di Prestipino, da sempre molto vicino a Pignatone, al posto di quella di Viola, anche alla luce delle captazioni avvenute tramite il trojan del telefono di Luca Palamara. Parlando con Legnini, Palamara spiega perché Pignatone è interessato alla sua successione alla poltrona di procuratore capo di Roma. “Perché hanno paura che se va un altro mette le mani nelle carte, Giovà, e vede qualcosa che non va non c’è altra spiegazione come tipico di Pignatone questo è il discorso, è successo con me, è successo con Cisterna che devo dì che Pignatone mi ha chiesto tutte le cose parliamo di interferenze tutte le cose di Roma. Eh io l’ho fatto queste io le devo di ste cose o no. Dico io ho avuto sempre un ottimo rapporto, ogni cosa che mi chiedeva era funzionale all’ufficio”. Una frase che acquista senso anche alla luce della recente audizione di Luca Palamara alla Commissione parlamentare antimafia, quando ha spiegato che, per la sua successione a Reggio Calabria, Pignatone avrebbe voluto Prestipino perché vi erano vicende delicate che era meglio gestire con una certa "continuità", come quelle del magistrato Alberto Cisterna, del pentito Nino Lo Giudice, del ritrovamento del bazooka e del disciplinare a un altro magistrato del suo team, Beatrice Ronchi. Bene, alla luce anche di tutto questo, il Csm, anziché tentare di dimostrarsi minimamente credibile, lasciando che la questione se la risolvano i due magistrati che si contendono il posto, ha deciso di intervenire. E qui ho smesso di ridere. Perché se sono intervenuti con una delibera ‘adesiva’ al ricorso per Cassazione di Prestipino, significa che le “carte da gestire” sono molto, molto interessanti, che ci sono poteri in gioco ancora da difendere a spada tratta e che c’è tutto un sistema che non ha nessuna intenzione di cambiare, arroccato nella propria autodifesa e nell’avvertimento decisamente esplicito dato a chi non si piega alle decisioni del Sistema e presenta ricorso. Sabrina Pignedoli

Si faccia chiarezza con un’interrogazione. Vogliono zittire Palamara perché ha raccontato il marcio della magistratura: chiesto il sequestro del libro e 1 milione di euro. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 20 Luglio 2021. Giuro che quando ho letto la notizia sono caduto dalla sedia. Ho pensato ad uno scherzo. Tanto che ho cercato conferme perché non avevo trovato – con l’evidenza che meriterebbe – la notizia sui quotidiani. A che cosa mi riferisco? L’Avvocatura dello Stato ha chiesto il sequestro del saggio Il Sistema di Luca Palamara ed Alessandro Sallusti e il risarcimento di un milione di euro per il danno di immagine dello Stato. L’Avvocatura non agisce motu proprio; non ha l’obbligo di esercitare l’azione difensiva. Quindi da chi ha avuto l’incarico? Presumibilmente dal governo. Che ruolo hanno avuto Draghi e Cartabia? Qualche parlamentare di buona volontà dovrebbe presentare al più presto un’interrogazione, perché non è consentito che finisca sotto silenzio un fatto tanto grave, una vera e propria intimidazione. Magari per persuadere con le cattive Luca Palamara a non cimentarsi con una seconda puntata. Nel libro un ex magistrato racconta la sua esperienza ai vertici del sistema delle correnti, cita episodi (che dichiara di poter documentare se necessario) e denuncia la gestione – nell’ambito dell’autonomia del Csm – delle nomine mediante una accurata lottizzazione che è sotto gli occhi di tutti, tanto che, anche a causa di queste pratiche, è aperto il problema di come riformare l’organo di Palazzo dei Marescialli proprio per eliminare quei vizi che Luca Palamara ha rivelato. Un ex magistrato che ha fatto e disfatto carriere ai vertici dell’associazionismo giudiziario meriterà pure per le ammissioni e testimonianze un po’ di quel credito che viene riconosciuto, d’acchito, ai pentiti di mafia! Chiedere il sequestro di un libro – senza indicare questioni specifiche e senza dimostrare la falsità di certe ricostruzioni che vi sono contenute – ha un solo significato: è proibito scrivere sulla magistratura; guai a parlare male del nostro Garibaldi collettivo. Ma l’aspetto più farisaico e disonesto sta nelle motivazioni della richiesta del sequestro e del risarcimento del danno: la tutela dell’immagine dello Stato. In sostanza, non si deve far sapere in giro che nell’ordine giudiziario si combinano giochi di potere e si fa politica attraverso le sentenze. Ma – mi chiedo – non è il Parlamento la più importante istituzione democratica della Repubblica, che viene al primo posto nella stessa Costituzione? Insultare, dileggiare, additare al pubblico ludibrio i parlamentari è divenuto – da La casta in poi – persino un genere letterario nel quale si sono cimentate le grandi (e piccole) firme del giornalismo, sfornando best seller che suonavano offesa già nel titolo. E la gogna non aveva per oggetto malversazioni, corruttele o violazioni di legge. No. Si sono prese di mira le indennità, i vitalizi, i prezzi delle buvette e tutto quanto potesse incrementare l’invidia sociale e rappresentare gli eletti del popolo come una massa di scrocconi propensi a condurre “la bella vita” piuttosto che occuparsi monasticamente della cosa pubblica. Poi è stata la volta delle “spese pazze” dei consiglieri regionali, con veline trasmesse dalle procure ai loro pennivendoli dove si raccontava di scontrini della toilette, acquisto di mutande verdi, residenze truffaldine, uso di denaro pubblico per partecipare ad iniziative di partito, feste di carnevale e quant’altro. E quando si è raccontato al mondo che Roma, la città eterna, era inquinata dalla Mafia? Quale discredito ricade sull’immagine di una Stato da un’inchiesta denominata “Mafia Capitale”? Anche a costo di ingigantire i reati e i protagonisti di quelle vicende, elevando (“il mondo di mezzo”) una congrega di mazzettari e di rubagalline a grandi capi di Cosa nostra. Su “Mafia Capitale” quando ormai era stato chiarito, a livello giudiziario, che la mafia non c’entrava nulla, è stato prodotto persino uno sceneggiato televisivo che nessuno chiese di sequestrare. E non si è prodotto – dopo il processo a Giulio Andreotti – un danno all’immagine dello Stato grazie alla montatura della “trattativa” con la mafia? Ricordiamocelo: è stato chiamato come testimone dell’inchiesta persino un presidente della Repubblica, mentre un valoroso servitore dello Stato, come il generale Mario Mori, è ancora alle prese col suo calvario giudiziario. Non parliamo poi del tafazzismo italiota in economia, chiarendo bene un punto in premessa: chi scrive non sostiene – al pari dell’Avvocatura a proposito del libro Il Sistema – che vi sia una “ragion di Stato” che induca a chiudere gli occhi davanti alle malefatte e agli intrighi dei cosiddetti poteri forti, perché – come si diceva un tempo – è bene lavare i panni sporchi in famiglia. Un’inchiesta giudiziaria o giornalistica che scopre un affare losco e lo denuncia è il sale della democrazia. Ma quando si arriva a falsificare la realtà, a non tener conto delle prove, a costruire dei teoremi al solo scopo di creare un “caso”, si producono davvero e apposta dei danni all’immagine del Paese. Si pensi all’ex Ilva. Non esprime una bella immagine di sé un sistema Italia che dichiara guerra alla più grande acciaieria d’Europa (le accuse della magistratura tarantina sono state smentite da sentenze del Tribunale di Milano per quanto riguarda sia il reato di bancarotta dei fratelli Riva, sia l’attinenza dello stabilimento agli standard vigenti in materia ambientale). E che spettacolo fornisce un combinato mediatico-giudiziario che ha perseguitato una delle più importanti multinazionali dell’energia – l’Eni – accusando, in pratica senza prove né indizi, i suoi amministratori di corruzione a fini petroliferi delle autorità dei Paesi produttori? Abbiamo visto troppi film americani nei quali un pugno di volenterosi vincono la loro battaglia contro la multinazionale di turno, per non apprezzare una giustizia che non guarda in faccia a nessuno. Ma quando in un Paese, non protesta, come a Cuba, un popolo affamato e in balia del contagio, ma scendono in piazza i sindaci chiedendo alle procure di lasciarli lavorare, viene da chiedersi che cosa pensano di noi all’estero. Certo, sarebbe singolare se il saggio Il Sistema venisse condannato al rogo come accadde al film Ultimo tango a Parigi. Oggi viene proiettato persino nella sale parrocchiali. Giuliano Cazzola

Sallusti e Palamara, Bonafede e Conte hanno ordinato di fermare l'ex magistrato. Libero Quotidiano il 20 luglio 2021. Il presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi e la Guardasigilli Marta Cartabia sono a conoscenza dell'iniziativa dell'Avvocatura dello Stato di chiedere un risarcimento da un milione di euro per «danno d'immagine» a Luca Palamara? Sarebbe interessante saperlo. La decisione di costituirsi come parte civile nel processo a Perugia nei confronti dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati venne presa quando a Palazzo Chigi c'era Giuseppe Conte e a via Arenula Alfonso Bonafede. Una decisione, va detto, obbligata quando l'imputato è un dipendente pubblico e, a maggior ragione, come nel caso di Palamara, un magistrato peraltro accusato di corruzione. Nessuno, tuttavia, obbligava il governo ad arrivare a chiedere un milione di euro. L'aspetto sorprendente di questa vicenda è che la numero uno dell'Avvocatura dello Stato di Perugia, l'avvocata Francesca Morici, coadiuvata dall'avvocata Maria Assunta Mercati, ha tirato fuori dal cilindro, per supportare la maxi richiesta, il libro "Il Sistema" scritto da Palamara con il direttore di Libero Alessandro Sallusti. In pratica, in un processo per corruzione, il danno d'immagine non sarebbe stato causato dalle condotte penalmente rilevanti eventualmente poste in essere da Palamara, quindi aver incassato favori e prebende varie dal faccendiere Fabrizio Centofanti, ma dall'avere raccontato cosa è successo nei tribunali italiani negli ultimi anni: dalle nomine pilotate, ai processi aggiustati, ai fascicoli scomodi lasciati prescrivere. 

CAIAZZA: «ASSURDO» - «È una cosa talmente assurda che dubito sia vera: ho un po' di riserve, dovrei leggere l'atto, perché mi sembra una cosa fuori da ogni logica», ha commentato il presidente delle Camere Penali Gian Domenico Caiazza. «L'idea che l'Avvocatura, quindi che lo Stato chieda a Palamara un risarcimento non per ciò che ha fatto insieme a tutta la magistratura associata per dieci anni, ma per ciò che ha raccontato di aver fatto è una cosa incredibile», ha aggiunto Caiazza. Per il capo dei penalisti, «l'Avvocatura può lamentarsi solo se Palamara ha scritto delle falsità», ma il racconto «è quasi tutto fondato su whatsapp che sono stati acquisiti in un processo penale». «Il danno d'immagine- ha quindi concluso Caiazza - lo avrà portato la magistratura nell'aver agito in quel modo, non certo Palamara nel raccontarlo». A tal proposito va ricordato che la ministra Cartabia, alla quale la Costituzione assegna la facoltà di esercitare l'azione disciplinare nei confronti dei magistrati, non risulta abbia ancora esercitato i suoi poteri: nessuna toga citata nel libro da Palamara è stata nemmeno lontanamente destinataria di un avviso di apertura di un procedimento. E nessuna Procura, sempre da quanto risulta, sta indagando su quanto raccontato nel libro. 

UN MILIONE DI EURO - In compenso, però, l'Avvocatura dello Stato ha chiesto un milione di euro di danni a Palamara. Dietro questa richiesta è difficile non vedere una manovra per mettere pressione e costringere al silenzio l'ex presidente dell'Anm. L'Avvocatura dello Stato, in altre parole, verrebbe usata come "testa d'ariete" da parte di chi non vuole che Palamara continui a raccontare le nefandezze del sistema giudiziario italiano. Dopo averlo "affamato" sospendendolo dalle funzioni e dallo stipendio, arriva ora la mazzata finale. «Solo un regime cerca di fermare la presentazione di un libro: i magistrati puliti che sono la maggior parte in Italia non si facciano intimidire dal sistema correntizio e facciano sentire la propria voce libera», ha dichiarato l'attore Edoardo Sylos Labini, fondatore del movimento CulturaIdentità. Oggi, comunque, a Perugia è attesa la "deposizione spontanea" di Palamara prima del rinvio a giudizio. Non si escludono rivelazioni eclatanti. C'è solo da augurarsi che non venga interrotto dal procuratore Raffaele Cantone e dal giudice Piercarlo Frabotta.

L’Avvocatura dello Stato: «Censurate il libro di Luca Palamara». A Perugia durante l'udienza preliminare nei confronti di Luca Palamara. L'Avvocatura dello Stato ha chiesto la censura del libro "Il Sistema". Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 18 luglio 2021. Ancora colpi di scena a Perugia durante l’udienza preliminare nei confronti di Luca Palamara. L’Avvocatura dello Stato ha chiesto ieri la censura del libro ‘ Il Sistema’ scritto dall’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati insieme al direttore di Libero Alessandro Sallusti. «La richiesta dei pm di Perugia conferma che non ho mai commesso un atto contrario ai doveri di ufficio e che l’originaria accusa di aver preso 40.000 euro per la Procura di Gela è caduta. Sono certo di chiarire già alla prossima udienza del 19 luglio i residui fatti che mi vengono contestati, dimostrando di non aver ricevuto pagamenti e utilità. Sono turbato dalla richiesta di censura del libro da parte dei rappresentanti dell’avvocatura dello Stato: vogliono forse silenziarmi?», ha commentato a margine l’ex presidente dell’Anm. Il procuratore Raffaele Cantone ha chiesto la condanna ad otto mesi per l’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, accusato di rivelazione del segreto, che aveva optato per l’abbreviato, ed il rinvio a giudizio per Palamara e per l’amica Adele Attisani. La decisione è attesa entro la fine del mese. Le accuse nei confronti di Palamara hanno subito nel tempo diverse modifiche. Cinque per la precisione. Quando l’indagine esplose, a maggio del 2019, a Palamara venne contestata la “corruzione propria per atto contrario”, articolo 319 codice penale, per avere ricevuto 40mila euro per la nomina del pm Giancarlo Longo a procuratore di Gela, e la ‘ corruzione in atti giudiziari’, articolo 319 ter codice penale, per avere ricevuto dal faccendiere Fabrizio Centofanti e dagli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore un anello del valore di 2mila euro, viaggi e vacanze. La Procura generale della Cassazione, il ministro della Giustizia ed Consiglio superiore della magistratura fecero proprie le accuse dei pm di Perugia, contestando a Palamara gli stessi fatti e sospendendolo dalle funzioni e dallo stipendio nel giro di un mese. Nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, ad aprile 2020 e nella richiesta di rinvio a giudizio, si cambiò registro. Scomparve il 319 e pure il 319 ter e compare il 318 del codice penale, "corruzione per l’esercizio della funzione". Sparirono anche i 40mila euro per la nomina di Longo e l’anello. Nel senso letterale del termine, perché non risulta alcuna richiesta di archiviazione per questi fatti che avevano suscitato clamore mediatico nel cautelare disciplinare. A Palamara si contestarono viaggi e vacanze e lavori edili mai pagati eseguiti non a casa sua, ma a casa dell’amica Attisani. Queste utilità Palamara le avrebbe ricevute “per l’esercizio delle funzioni svolte”, da Centofanti. Sparirono, infatti, anche Amara e Calafiore i quali, a maggio 2019, erano il motore della corruzione, essendo Centofanti solo un intermediario. Alla prima udienza preliminare, a novembre 2020, si cambiò ancora. Rimase la corruzione per l’esercizio della funzione, ma si specificò che le utilità Palamara le avrebbe ricevute quale “membro” del Csm “per l’esercizio delle funzioni svolte all’interno di tale organo quali, fra le altre, nomine di dirigenti degli uffici e procedimenti disciplinari”. Lo scorso febbraio si cambiò per tornare al passato. Vennero contestati insieme, per non sbagliare ancora e per non farsi mancare nulla, gli articoli 318, 319 e 319 ter. Le utilità rimasero viaggi e vacanze e ristrutturazioni ( non si riesumano i 40mila euro della nomina di Longo e l’anello da 2mila euro), ricevute da Palamara “prima quale sostituto della Procura di Roma ed esponente di spicco dell’Anm fino al settembre 2014, successivamente quale componente del Csm” per una congerie di “attività” che vanno dall’acquisizione di “informazioni riservate”, non meglio indicate, sui “procedimenti in corso” a Roma e a Messina su Centofanti ma anche su Amara e Calafiore ( che però non sono imputati) e per la disponibilità ad influenzare le nomine del Csm ( ritorna il nome di Longo ma non i 40mila euro) e i procedimenti disciplinari ( ritorna quello del pm Marco Bisogni citato nel decreto di perquisizione del maggio 2019 anche se non nei capi di imputazione). Con atto fuori udienza della scorsa settimana, e si arriva all’ultima modifica, i pm umbri “viste le dichiarazioni di Centofanti” che evidentemente ritengono “prevalenti” su quelle fatte da Amara nel febbraio 2021 e che avevano determinato la quarta modifica, modificano dunque per la quinta volta le imputazioni, ritornando all’ipotesi meno lieve della corruzione per l’esercizio della funzione. In particolare, l’esercizio della funzione sarebbe stato posto in essere consentendo a Centofanti di “partecipare ad incontri pubblici e riservati cui presenziavano magistrati e consiglieri del Csm… nei quali si pianificavano nomine” .. manifestando Palamara disponibilità ad acquisire “informazioni anche riservate sui procedimenti in corso a Roma e Messina che coinvolgevano Centofanti, Amara e Calafiore” ed infine “per la disponibilità del Palamara di accogliere richieste del Centofanti finalizzate ad influenzare … nomine del Csm e decisioni della sezione disciplinare”. 

Alessandro Sallusti contro la magistratura: "Un milione di euro, tentativo di estorsione nei miei confronti". Libero Quotidiano il 18 luglio 2021. L'Avvocatura generale dello Stato ha chiesto un milione di risarcimento per i "danni d'immagine" che il libro Il Sistema avrebbe procurato alla magistratura e al paese. Non so se il presidente Mario Draghi - pur con una sua autonomia l'Avvocatura dipende da Palazzo Chigi- sia stato consultato e abbia dato il suo assenso a una simile iniziativa senza precedenti in Italia (nessuno fino ad ora aveva messo sotto accusa un libro). Me lo chiedo perché gli avvocati dello Stato stanno mettendo in discussione in un colpo solo la libertà di espressione, quella di informazione e quella di stampa. Il libro Il Sistema infatti è la ricostruzione meticolosa e documentata di che cosa è avvenuto dentro la magistratura dal 2008 ai giorni nostri e di come questa "cosa" si sia incrociata con il mondo della politica e dell'informazione interferendo sul libero corso della democrazia. Il libro in questione è in libreria da sette mesi, da sette mesi è in testa alle classifiche di vendita, i suoi contenuti sono stati sviscerati in numerose trasmissioni televisive, animano molti dibattiti dell'estate italiana e lo Stato, sotto la guida di un liberale come Mario Draghi sostenuto da partiti altrettanto liberali a partire da Forza Italia, che fa? Chiede i danni, non ai magistrati come avrebbe avuto senso fare alla luce del discredito che hanno causato all'Italia, ma agli autori del libro, cioè a chi attraverso un lavoro serio e certificato ha permesso agli italiani di conoscere i misteri (e le nefandezze) del sistema giudiziario italiano. Tutto ciò dimostra come il libro Il Sistema abbia colto nel segno e quanto il sistema sia ben più ampio e ancora oggi radicato di quanto svelato da Palamara. Questo è un tentativo di estorsione dello Stato nei miei confronti e di Palamara: colpirne due per educarne cento e scongiurare altre confessioni imbarazzanti. A me l'Avvocatura dello Stato non fa alcuna paura, neppure quando come in questo caso punta la pistola alla tempia di cittadini inermi in combutta con i magistrati colpiti e affondati da un ex, Palamara, sul quale pensavano di scaricare tutte le colpe e farla così franca. Cari avvocatucoli, per questa storia vale la famosa battuta rivolta da Humphrey Bogart - giornalista nel film L'ultima minaccia - al potente di turno che tentava di fermare una notizia scomoda: «Senta il rumore delle rotative che girano. È la stampa, bellezza, e voi non potete farci più nulla».

Tre ore di interrogatorio a Padova. Raffica di querele, Palamara indagato per il libro “Il Sistema”: denunciano Ielo ed Esposito. Antonio Lamorte su Il Riformista il 20 Maggio 2021. Raffica di querele per Luca Palamara, lo “zar delle nomine”, l’uomo del terremoto nella magistratura, l’ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) ed ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm) rimosso dall’ordine per il caso sulle nomine pilotate ai vertici delle Procure. Questa volta, per tre ore di interrogatorio, è stato ascoltato dai pm di Padova che stanno indagando sulle querele arrivate nei suoi confronti da magistrati citati in Il Sistema, il libro intervista di Alessandro Sallusti, ex direttore de quotidiano Il Giornale e attuale direttore di Libero, a Palamara. Un vero e proprio caso editoriale. Alla settimana scorsa erano oltre 300mila le copie vendute. Diversi magistrati si sono però sentiti diffamati dalle rivelazioni di Palamara. Si tratta di Paolo Ielo, Procuratore Aggiunto di Roma; Piergiorgio Morosini, ex gip del processo Stato-mafia e giudice del Csm; Giuseppe Cascini, membro togato del Csm ed esponente di punta della corrente di sinistra; Antonio e Ferdinando Esposito, padre e figlio, il primo ex presidente di sezione della Cassazione in pensione e il secondo ex pm di Milano ed ex giudice di Torino, radiato lo scorso anno dalla magistratura. Il Procuratore di Padova – l’inchiesta è stata assegnata lì perché il libro, edito da Rizzoli, è stato stampato in una tipografia della provincia veneta – Antonio Cappelleri ha assegnato i fascicoli ai suoi Sostituti, Valeria Spinosa, Marco Peraro e Andrea Zito. Il Procuratore Aggiunto di Roma Ielo si è sentito diffamato dal racconto di una cena organizzata nel 2014 a casa sua, alla quale era presente anche l’allora Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone. Cena probabilmente per siglare, a quanto raccontato da Palamara, un patto e creare “un canale tra la procura di Roma e il Csm: in buona sostanza io mi farò carico di essere, dentro il Consiglio superiore, la sponda delle istanze di Pignatone…”. La querela di Antonio Esposito fa invece riferimento alla sentenza della Cassazione che nel 2013 condannò in via definitiva l’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a quattro anni, di cui tre indultati, per frode fiscale. Il caso ruota intorno ad Amedeo Franco e alle sue “preoccupazioni per il modo anomalo in cui si era formato il collegio giudicante sia per le pressioni che si si stavano concentrando affinché l’esito fosse di un certo tipo, in altre parole di condanna”. L’azione di Ferdinando Esposito si riferisce invece a rivelazioni con frequentazioni con “un’indagata, Nicole Minetti” e “per un certo periodo, proprio quello antecedente la sentenza di suo padre, di Arcore, il quartier generale di Berlusconi, il quale con la procura di Milano qualche conto aperto lo aveva”. Aperte tre diverse inchieste, indagini penali. “Considerato che su queste vicende ci sono molti riflettori puntati, ho deciso di optare per la casualità dell’assegnazione dei fascicoli. A mano a mano che arrivano vengono così smistati sulla base del turno automatico, in modo da non concentrare tutto su un unico magistrato e preservare le indagini da strumentalizzazioni esterne”, ha spiegato al Corriere della Sera Cappelleri. Le querele degli Esposito fanno parte dello stesso fascicolo. Le altre sono fascicoli autonomi. È già polemica sulla vicenda: molti si chiedono a quali correnti appartengono i pm che stanno indagando.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Il caso. È avvocato del boss, per i magistrati è mafiosa: ad Annamaria Marin 8 mesi e contestato il 416bis. Angela Stella su Il Riformista il 15 Aprile 2021. Sempre più spesso nell’immaginario collettivo, ma soprattutto in quello della magistratura requirente, l’avvocato viene percepito e perseguito perché si sostiene che la sua funzione di difensore si trasformi in quella di fiancheggiatore dell’assistito. Da qui spesso anche un uso illegittimo delle intercettazioni tra legale e cliente. Se per l’opinione pubblica il difensore è molto spesso rappresentato come un azzeccagarbugli che vuole farla fare franca al colpevole, per alcune procure diviene il sodale dell’organizzazione criminale. Ogni caso è a sé stante ma esiste comunque un problema culturale nella giurisdizione su tale fenomeno. Oggi vi parliamo della vicenda dell’avvocata Annamaria Marin, condannata in primo grado nell’ambito dell’inchiesta contro il clan dei casalesi di Eraclea che, secondo la Procura di Venezia, avrebbe spadroneggiato per un ventennio nel Veneto orientale. I pm le avevano contestato il favoreggiamento personale con l’aggravante mafiosa per aver aiutato tre membri dell’organizzazione criminale, tra cui il boss Luciano Donadio che ha scelto il rito ordinario, «ad eludere le investigazioni dell’Autorità nei loro confronti fornendogli indebitamente informazioni acquisite in virtù del mandato difensivo esercitato in favore di altri ovvero di informazioni acquisite illegalmente ovvero divulgando informazioni che debbono rimanere riservate» e per aver agevolato l’attività di una associazione mafiosa. Accuse pesantissime per l’avvocata – professionista molto nota ed ex presidente della Camera penale di Venezia – soprattutto per la contestazione del 416bis. Il gup l’ha condannata a 8 mesi, rispetto ai due anni richiesti dell’accusa, per uno solo dei cinque episodi contestati (uno è andato in prescrizione, per gli altri tre è stata assolta perché il fatto non sussiste). Il gip già nel 2009 aveva respinto la richiesta dei pm di sospenderla dalla professione, così come ha fatto il collegio di disciplina del Consiglio dell’Ordine degli avvocati. Per il suo legale, l’avvocato Tommaso Bortoluzzi, la vicenda «mostra il pregiudizio secondo cui il difensore viene assimilato al suo cliente, sovrapponendosi ad esso ed evidenzia una grave lesione del diritto di difesa». Infatti «leggendo le motivazioni della sentenza ci accorgiamo che in nessun passaggio viene presa in considerazione la documentazione da noi prodotta a difesa della collega Marin che andava perfettamente ad incidere sui profili di responsabilità. Metà delle prove da noi prodotte riguardavano proprio il reato per il quale è stata condannata. Ma dalla sentenza sembrerebbe che io non abbia mai partecipato a questo processo perché quello da me detto e allegato non è stato minimamente affrontato». Al contrario, «il gup riprende tutte le argomentazioni del pubblico ministero, anche extra probatorie». L’avvocato Bortoluzzi fa riferimento al fatto che addirittura «il capo di imputazione conteneva anche un episodio verificatosi nell’anno 2002, che, pur se prescritto, è stato inserito a presunta dimostrazione della serialità dei comportamenti illeciti della mia assistita. L’episodio medesimo, peraltro, è riportato nella richiesta di emissione dell’ordinanza cautelare, nell’ordinanza di rigetto della richiesta stessa, nell’invito a rendere interrogatorio e, da ultimo, nella richiesta di rinvio a giudizio». Nello specifico la Marin è stata condannata per aver rivelato a Donadio che avrebbero fatto una perizia sulle armi sequestrate al suo sodale Furnari. «L’aspetto folle è che qualche ora prima di questa comunicazione era stato pubblicato un articolo su uno dei giornali locali più letti in cui un dirigente della squadra mobile diceva la stessa cosa. Pertanto la notizia era pubblica e la mia assistita non stava comunicando illegalmente nessuna informazione che avrebbe potuto alterare le indagini ancora in corso. Se l’avvocato Marin ha commesso favoreggiamento, allora anche il dirigente della Mobile deve essere accusato dello stesso reato». Inoltre l’hanno accusata di aver ricevuto il mandato a difendere Furnari da Donadio al di fuori delle norme di legge. «Peccato – dice l’avvocato – che io abbia prodotto il fax ricevuto dalla Procura in cui era il fratello del Furnari a nominare la Marin. Ma anche questo elemento è come se non fosse mai stato prodotto». Per quanto concerne l’annosa questione delle intercettazioni tra avvocato e cliente, che per legge sono – anzi sarebbero vietate – nel caso dell’avvocato Marin «lei è stata indirettamente intercettata perché erano sotto controllo alcuni dei suoi interlocutori: nella sentenza c’è scritto che siccome formalmente non erano suoi clienti le intercettazioni sono state ritenute legittime. Il gup, per far emergere l’associazione mafiosa, in sentenza ha scritto che Donadio, il boss, si preoccupava di trovare l’avvocato per tutti i sodali, ossia la Marin, per avere un controllo totale sulle investigazioni e tenere a bada i complici. Ma il nostro codice deontologico, prevedendo che la parcella dell’assistito possa essere pagata da un’altra persona, consente a quella stessa persona di conoscere gli sviluppi della causa: in questo caso Donadio era cliente pagante per altri, ma la sentenza non ha messo in luce questo elemento che è importante perché avrebbe potuto avere anche dei risvolti sull’utilizzabilità delle intercettazioni». In conclusione l’avvocato Bortoluzzi rileva che «sicuramente esiste il problema dell’utilizzo delle intercettazioni tra legale e assistito: cercare in tutti i modi qualche scappatoia per consentirle, dando ad esempio una diversa qualità al difensore, ha alla base una distorsione culturale del ruolo dell’avvocato. I pubblici ministeri primi e i giudici poi dovrebbero rispettare di più la nostra funzione. Probabilmente inserire l’avvocato in Costituzione potrebbe essere un segno importante». Angela Stella

Dopo il caso Sansonetti. Napoli, boom di querele e minacce contro giornalisti: a rischio la libertà di stampa. Viviana Lanza su Il Riformista il 22 Aprile 2021. Quando non è la minaccia, che da queste parti proviene quasi sempre da personaggi legati alla camorra, sono le querele temerarie, quelle dei politici o di altri centri di potere, a porre ostacoli al lavoro dei giornalisti, al diritto di cronaca e di critica. Negli ultimi sei anni il fenomeno è enormemente cresciuto. Basti pensare che la spesa affrontata dallo sportello antiquerele del Sindacato unitario giornalisti della Campania, nato a metà del 2015, è aumentata del 900%. «Nel 2016 la spesa sostenuta per dare sostegno ai colleghi querelati o minacciati ammontava a 2mila euro – spiega Claudio Silvestri, segretario del Sugc – Nel 2017 era già schizzata a circa 10mila euro e oggi rappresenta quasi il 10% del nostro bilancio, circa 20mila euro, una cifra altissima». Il 2020, l’anno del lockdown, è stato paradossalmente l’anno del boom delle minacce ai giornalisti: il dato è emerso nel corso del più recente incontro con il prefetto di Napoli Marco Valentini. Attualmente il sindacato sta dando sostegno a venti giornalisti vittime di querele temerarie e in dieci processi è parte civile al fianco di cronisti minacciati e costretti a vivere sono scorta o sotto tutela. Le venti querele che, in meno di un anno, alcuni magistrati hanno presentato contro il nostro direttore Piero Sansonetti per gli articoli di critica nei confronti di una parte della magistratura italiana pubblicati su Il Riformista, oltre quella che nei giorni scorsi il presidente della Regione Vincenzo De Luca ha presentato contro il quotidiano la Repubblica per gli articoli di inchiesta sull’affidamento del servizio tamponi durante la prima fase dell’emergenza Covid, sono soltanto gli ultimi episodi in ordine di tempo. Le statistiche evidenziano quanto, in questo periodo storico, l’indipendenza e l’autonomia dei giornalisti siano minacciate e ostacolate. «In Campania le querele arrivano soprattutto da politici – spiega il segretario del Sindacato unitario dei giornalisti – Nella quasi totalità dei casi si tratta di querele temerarie, che non si basano su nulla e servono solo a fermare i giornalisti per fare in modo che abbandonino il loro lavoro di inchiesta. La querela – aggiunge Silvestri – è uno strumento semplicissimo da utilizzare e un bavaglio a costo zero: chi denuncia non rischia niente e non spende niente, mentre chi viene denunciato è costretto ad affrontare una serie di spese per difendersi da accuse destinate a essere archiviate oppure a finire al centro di processi che durano anni e anni e sono come una spada di Damocle. Purtroppo questa delle querele temerarie non è l’eccezione, ma la prassi. E le vittime sono spesso i colleghi più fragili, quelli che lavorano sui territori, i corrispondenti dai piccoli Comuni. L’effetto è devastante perché rischia di ledere il diritto di cronaca del giornalista e il diritto del cittadino di essere informato». Sul piano normativo la situazione è arenata. «Tutti i progetti di legge per limitare le querele temerarie sono finiti in un cassetto e quelli che vengono discussi non arrivano in Parlamento, non vengono messi ai voti, perché c’è una volontà della politica di non occuparsi della questione», afferma Silvestri che con il sindaco ha più volte sollecitato una legge contro le querele temerarie. «Ma le iniziative vanno a cadere. – aggiunge il segretario del Sugc – Quando si tratta di apparire sui giornali, il politico di turno è sempre pronto a sostenerci, ma quando si tratta di votare e portare una legge al completamento dell’iter per essere votata in Parlamento, tutto diventa complicato». Dalla querela al carcere il passo per i giornalisti può non essere tanto lungo. Il Sindacato unitario della Campania è stato il primo a sollevare una questione di incostituzionalità della norma che prevede il carcere per il giornalista condannato e l’ha fatto in un processo per diffamazione a Salerno. Quell’iniziativa ha poi stimolato altri ricorsi, ma anche in questo caso una modifica alla legge sulla stampa non è arrivata. A giugno dello scorso anno la Corte Costituzionale, presieduta proprio dall’attuale ministro Marta Cartabia, aveva rilevato profili di illegittimità della norma rimandando al Parlamento un’iniziativa legislativa. Il termine scade tra due mesi. «Il paradosso – conclude Silvestri – è che le proposte alternative che stanno circolando in Parlamento sono altrettanto rischiose per i giornalisti perché prevedono maxi-risarcimenti con cifre che non stanno né in cielo né in terra».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

L'assalto giudiziario. Giudici e Pm non possono essere criticati: la casta degli intoccabili che intimidisce il Riformista. Guido Neppi Modona su Il Riformista il 21 Aprile 2021. Caro Direttore, ho letto nei giorni scorsi che negli ultimi dodici mesi sei stato raggiunto nella tua qualità di direttore de Il Riformista da oltre venti querele per diffamazione a mezzo stampa. La cosa in sé non mi ha impressionato, chi fa bene il mestiere di giornalista, verificando e poi raccontando la verità su fatti e persone, quali ne siano il loro ruolo e l’importanza, è inevitabilmente esposto al rischio di essere querelato, non fosse altro che a titolo intimidatorio. Ciò che mi ha stupito e inquietato è che le querele siano state presentate da altrettanti magistrati, cioè soggetti che svolgono il ruolo istituzionale di tutori della legge, in primo luogo dei diritti costituzionali di libertà, tra cui il diritto di informare e di essere informati. Come a dire che quel diritto non trova applicazione nei confronti di una casta privilegiata formata da giudici e pubblici ministeri che si ritengono intoccabili e per i quali non opera il diritto di cronaca e di critica. Sono certo che questa concezione di casta è estranea alla stragrande maggioranza dei magistrati, ma resta il fatto oggettivo di quelle venti e più querele che ti hanno raggiunto e che verranno giudicate da colleghi dei querelanti. Ho iniziato la collaborazione con Il Riformista da poche settimane, ne sono pienamente soddisfatto e vorrei continuare a lungo, sono certo che non ti farai intimidire da un gruppetto di magistrati presuntuosi. Guido Neppi Modona

Scarpinato: “La politica mette museruola ai Pm”. Ma intanto lui prova a metterla ai giornalisti…Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Agosto 2020. Commemorando Rocco Chinnici – valoroso magistrato palermitano ucciso dalla mafia 37 anni fa, alla fine di luglio – il Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, ha polemizzato, come ogni tanto gli succede, contro la politica che cerca sempre, secondo lui, di mettere la museruola ai magistrati. Ricopio alcune delle frasi che ha pronunciato Scarpinato, riprese dalle agenzie di stampa: «Un mondo politico che da tempo ha interessi a mettere la museruola alla magistratura (…) a subordinare la magistratura al potere esecutivo». «Il vero cambiamento nella magistratura avverrà all’interno della magistratura o non avverrà (…) occorre una autoriforma». Mi ha colpito questo discorso di Scarpinato, per due ragioni. Innanzitutto perché trovo improprio paragonare questi tempi a quelli (anche se non sono sicurissimo dell’intenzione di Scarpinato, che è vecchio quanto me, di paragonare oggi e ieri). Comunque lo si fa spessissimo, nella corrente polemica politica italiana. Basta pensare a un magistrato al quale sono particolarmente legato, come Nicola Gratteri, che ama accostare la sua figura a quella di Falcone. È un errore, perché in questo modo si violenta la storia. E ai giovani si consegna una idea paludata e distorta di quella che fu la battaglia contro la mafia negli anni di Chinnici e Falcone. Combattere la mafia, o più semplicemente indagare sulla mafia, trenta o quarant’anni fa era un’impresa temeraria. Ci si lasciava la pelle. Oggi ti applaudono: i giornali, i politici, ti chiamano in Tv, ti onorano. In quegli anni di fuoco ti tiravano tutti addosso, ti lasciavano solo, ti mettevano il silenziatore, ti esponevano a tutte le vendette. I magistrati, e anche i politici impegnati, e anche i giornalisti, cadevano come mosche. Chinnici, Costa, Terranova, e poi Dalla Chiesa, che era un carabiniere, De Mauro, che era un giornalista, e tanti leader della Dc e del Pci, sindacalisti, preti. I giornalisti che si occupavano di mafia erano pochi ed emarginati. Quelli de l’Unità, di Paese Sera, de l’Ora di Palermo. Pochi altri. I grandi giornali dubitavano persino che la mafia esistesse. Oggi le cose sono cambiate abbastanza; un giornalista che vuole un po’ di spazio sul palcoscenico ha bisogno della patente antimafia, e per ottenerla deve convincere un magistrato a concedergliela, o una delle tante associazioni ufficiali, o i 5 Stelle, o la Bindi. Gli stessi Pm fanno a gara per ottenere il timbro di antimafia sulle loro inchieste, sennò le inchieste valgono poco ed è anche più difficile portarle a termine, perché non si può ricorrere a tutti quegli strumenti che rendono le indagini più facili (trojan, intercettazioni, carcere duro, pentiti eccetera).  Pensate a “mafia capitale”, un giro di tangenti spacciato per il regno di Luciano Liggio. Conviene fare così: poi in Cassazione te lo smontano, ma intanto è andata. È una cosa molto scorretta, dal punto di vista politico e storico, accostare l’antimafia da operetta di oggi a quella feroce ed eroica dei primi quattro decenni del dopoguerra. La seconda ragione per la quale mi ha colpito questo intervento di Scarpinato è la parola «museruola». Mi sono chiesto: cosa intende per museruola Scarpinato? Qualcuno può citarmi delle inchieste avviate dalla magistratura e bloccate dalla politica? Può anche darsi che ci siano, ma io non le conosco. I principali partiti di governo di questi ultimi 25 anni, eccetto i 5 Stelle, sono stati tartassati dalle inchieste giudiziarie. Decine di esponenti politici sono stati azzerati e poi magari risultati innocenti. Alcuni partiti sono stati dimezzati. Silvio Berlusconi è stato messo sotto inchiesta quasi cento volte. Dov’era la museruola? E con che mezzo veniva applicata? L’ultima inchiesta su mafia e intrecci con il potere politico ed economico che io ricordi, e che è stata archiviata, è quella su mafia e appalti, avviata da Falcone e Borsellino, condotta dal generale Mori e poi archiviata dalla Procura di Palermo. Siamo all’inizio degli anni Novanta. Falcone e Borsellino finirono uccisi, il generale Mori è vivo ma lo hanno messo quattro volte sotto processo, tre volte è stato assolto, la quarta è ancora in corso. Ha ragione Scarpinato, forse, in questo caso – ma è un caso di molti anni fa – può darsi che in quella occasione la politica premette per mettere la museruola. Io non posso saperlo.  Scarpinato invece può saperlo, perché fu lui a firmare la richiesta di archiviazione di quella inchiesta, appena pochissimi giorni prima della morte di Borsellino, che invece chiedeva che quella inchiesta gli fosse assegnata. Se in quel caso ci sono state pressioni, allora Scarpinato dovrebbe denunciarle. Dire: questi esponenti politici, questi partiti, questi imprenditori ci hanno chiesto di farla finita. Altrimenti non capisco a quale altra inchiesta possa riferirsi. Comunque la questione della museruola mi lascia molto perplesso anche per un’altra ragione. Insieme al mio amico Damiano Aliprandi, quando lavoravamo per il quotidiano Il Dubbio, scrivemmo alcuni articoli proprio sull’inchiesta mafia e appalti. Argomento interessantissimo. Specialmente in relazione alla morte di Borsellino. Perché nel processo in corso a Palermo, contro il generale Mori, si sostiene che Borsellino fu ucciso per dare spazio alla trattativa Stato-Mafia. L’impressione mia e di Damiano era invece che il motivo fosse l’altro: bloccare il dossier mafia e appalti.  Non so chi abbia ragione. So che in quegli articoli domandammo proprio a Scarpinato di spiegare il perché della decisione di chiedere l’archiviazione (concessa poi, molto rapidamente, alla vigilia di Ferragosto di quello stesso anno: stiamo parlando del 1992). Scarpinato però non ci rispose, anzi ci querelò. Cioè chiese ai suoi colleghi giudici di processarci e di condannarci. Siamo stati rinviati a giudizio. Il processo è in corso, la pena massima prevista con tutte le aggravanti (se critichi un magistrato la pena aumenta di un terzo) può arrivare a sette anni. Ed essendo io un anziano signore di quasi settant’anni, vi dirò che mi secca parecchio l’idea di dover restare in prigione fino alla vigilia degli ottant’anni per aver fatto una domanda al dottor Scarpinato. (Per Damiano è diverso: lui ha poco più di trent’anni e a quaranta sarà fuori e potrà rifarsi una vita. Magari diventerà cancelliere…). E allora qui mi torna nelle orecchie quella parolina: museruola, museruola. Sapete, io colleziono querele di magistrati. Qualche nome? Scarpinato, appunto, Lo Forte, Gratteri, Di Matteo, Davigo (due volte), un altro membro del Csm che si chiama Marra, e poi naturalmente l’ex giudice Antonio Esposito e qualcun altro che adesso non ricordo. Voi sapete che se ti querela un politico puoi stare tranquillo, perché al 90 per cento vinci. Se ti querela un imprenditore vinci uguale. Se ti querela un magistrato le possibilità di non perdere sono tra l’1 e il 2 per cento. Più probabile l’1. A prescindere da quello che hai detto o scritto. Perché i magistrati querelano chi li critica? Non è difficile da capire: per intimidire. Peraltro ci riescono facilmente. L’idea è che la magistratura, per svolgere serenamente il proprio lavoro, per non dover sottostare alle pastoie dell’eccessivo garantismo, deve essere protetta dalle critiche. Capisco persino qual è il senso di questa idea (e capisco che possa essere ispirata da un modo un po’ contorto di coltivare il proprio senso del dovere). Su una cosa però non ho dubbi: nulla lede la libertà di stampa più di questa continua, incessante, opprimente attività intimidatoria e vessatoria di alcuni magistrati. Contro la quale non ci sono difese. O accetti la museruola, guaisci un po’ e poi ti inchini, o loro non ti mollano più.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

"Venti querele dai pm, rischiamo di chiudere". Sabrina Cottone il 16 Aprile 2021 su Il Giornale. Il direttore Sansonetti: "E quando un giudice deve decidere su un collega...." Non si sa se è un record. «Siamo arrivati a venti querele tutte di magistrati» racconta Piero Sansonetti, direttore de Il Riformista. In prima pagina ha titolato: «Vogliono farci chiudere?». Lo crede davvero? «No, ma rimani solo, perché l'Ordine e i sindacati dei giornalisti si muovono subito se ad attaccare sono i politici ma con i magistrati sono molto, molto più cauti (è un eufemismo, ndr). Sono anche stato censurato». Carlo Verna, presidente dell'Ordine, dice che «il complottismo di Sansonetti sfida il ridicolo». Il giornalista replica: «Mi insulta, farò un esposto contro di lui». La vicenda più attuale riguarda le ultime due querele, legate alle stragi di mafia del 1992, alla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma soprattutto al misterioso dossier mafia-appalti. Sono arrivate dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato e da Guido Lo Forte e sono un doppione: è la seconda volta che i due magistrati querelano Sansonetti per la medesima questione. Oggi come allora, il giornalista aveva chiesto loro perché nel 1992 archiviarono il dossier mafia-appalti, sul quale Falcone lavorò e continuò a vigilare anche dopo il suo trasferimento a Roma al ministero della Giustizia. «Ho usato "insabbiato" al posto di "archiviato"» ammette Sansonetti, ma «è gergo giornalistico» e «chiunque sa che una querela di un magistrato ha tra le 95 e le 100 possibilità su cento di essere accolta, il valore di intimidazione è evidentissimo». Ma che cos'è esattamente il dossier mafia-appalti? «È il dossier avviato da Falcone che ricostruisce i rapporti tra alcune grandi aziende italiane e aziende economiche di mafiosi siciliani. I Ros guidati dall'allora colonnello Mario Mori, uomo di fiducia di Dalla Chiesa che lo portò in Sicilia dove lavorò con Falcone, avevano trovato molte relazioni tra aziende del Nord e la mafia. Quando Falcone andò a Roma, Mori continuò a lavorare e lo consegnò alla Procura di Palermo». Il susseguirsi degli eventi, per chi non lo ricorda, è incalzante: «Il 13 luglio del 1992 (la strage di Capaci è del 23 maggio, ndr) Scarpinato e Lo Forte redigono la richiesta di archiviazione del dossier. Il 14 il procuratore Giammanco convoca una riunione di sostituti e aggiunti, alla quale Scarpinato non partecipa, durante la quale Borsellino mostra grande interesse per il dossier e chiede di convocare una riunione per decidere come far proseguire le indagini. Il 19 mattina, secondo la testimonianza della moglie Agnese, Borsellino viene informato da Giammanco, allora procuratore capo a Palermo, che gli avrebbe affidato il dossier. Dopo pranzo è ucciso con la scorta in via D'Amelio. La richiesta di archiviazione viene poi depositata ufficialmente il 22 luglio». Perché? «Scarpinato sostiene che non sapeva alcune cose di questo dossier, le più importanti, perché i pentiti non avevano informato direttamente lui, ma il pm che indagava con lui». Oltre alla querela, resta la domanda: perché un dossier tanto caro a Falcone e Borsellino è stato archiviato ufficialmente due mesi dopo la morte di Falcone e tre giorni dopo la morte di Borsellino?

L'assalto giudiziario. Vogliono chiudere il Riformista, offensiva intimidatoria dei Pm contro il nostro giornale. Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Aprile 2021. Ieri mattina, verso le 9, ha suonato alla mia porta un vigile urbano gentilissimo. Mi ha consegnato una busta verde. Era una notifica, veniva dalla procura di Lodi. L’ho aperta. Era un avviso di chiusura indagini su di me, sollecitate da una querela del procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato. Mi sono un po’ innervosito. Cinque minuti dopo hanno suonato di nuovo. Di nuovo il vigile, di nuovo gentilissimo, di nuovo una busta verde. Era l’ avviso di chiusura indagini su di me, sollecitate da una querela dell’ex Pm palermitano Guido Lo Forte. Ho detto: vabbè. Dopo mezz’ora il postino mi ha portato due raccomandate. Venivano dall’Ordine dei giornalisti. Riguardavano dei provvedimenti disciplinari dell’Ordine contro di me. Il primo era – per mia fortuna – di archiviazione. Il secondo di censura. Il primo, da quello che ho capito, era stato sollecitato da un giornalista del Corriere della Sera (Bianconi, suppongo), il secondo dall’ex giudice di Cassazione Antonio Esposito. Bianconi si lamentava per un articolo del Riformista nel quale si riferiva di una sua telefonata nella quale il giornalista avvertiva Luca Palamara che erano state aperte delle indagini su di lui, quando queste indagini erano ancora segrete. Il Consiglio di disciplina dell’ordine ha accertato che il fatto è vero, ci sono i file audio sequestrati a Palamara, e dunque ha dovuto archiviare. Anche perché Bianconi è un semplice giornalista, non è un magistrato (spesso i giornalisti confondono le due funzioni, ma i privilegi sono riservati solo ai magistrati effettivi) e dunque non ha diritto a trattamenti di favore. Il secondo esposto invece è stato in larga parte accolto ed è stata decisa a mio carico una censura, che è una misura grave, specialmente per un direttore di giornale. L’episodio al quale ci si riferisce è abbastanza famoso: Il Riformista, l’estate scorsa, pubblicò il ricorso in sede europea (alla Cedu) degli avvocati di Berlusconi contro la sentenza che lo condannava a quattro anni di detenzione per evasione fiscale. Gli avvocati di Berlusconi in quel ricorso riferivano di un colloquio (registrato) con il giudice relatore in Cassazione (il giudice Franco), il quale spiegava che quella sentenza fu “una porcata” decisa da “un plotone di esecuzione”. E poi esponevano i risultati di un processo civile nel quale era coinvolto Berlusconi (processo Mediatrade) , la cui sentenza era inconciliabile con la sentenza della Cassazione, emessa dalla sezione feriale presieduta dal dottor Antonio Esposito (autore dell’esposto oggi in pensione ed editorialista del Fatto Quotidiano). Il Consiglio di disciplina dell’Ordine dei giornalisti ha stabilito – anticipando la sentenza che sarà emessa dalla Corte Europea – che la sentenza civile alla quale si riferiscono gli avvocati di Berlusconi non ha niente a che vedere con il processo sull’evasione fiscale e che io avrei dovuto dirlo, cioè che avevo il dovere di contestare il ricorso di Berlusconi e non potevo limitarmi a riferire. Il giornalista, secondo questa interpretazione, prima di raccontare deve giudicare, prima di fare il cronista deve fare il giudice. L’idea del giornalista giudice non è nuovissima, inizia però a strutturarsi. Ora sospendo il ragionamento sulla censura ricevuta dall’Ordine dei giornalisti (lo riprendo alla fine di questo articolo) per spiegare le querele di Scarpinato e Lo Forte. La questione è molto semplice. In varie occasioni io, su questo giornale e precedentemente sul Dubbio, ho sollevato la questione dell’archiviazione del dossier mafia-appalti (che adesso vi spiego cos’è) avvenuta a Palermo subito dopo l’assassinio di Paolo Borsellino e lo sterminio della sua scorta nel 1992. Il dossier era il risultato di una indagine importantissima, avviata da Giovanni Falcone e realizzata dal Ros dei carabinieri guidato dal generale Mario Mori. Gettava luce sui rapporti tra mafia (non solo quella corleonese), imprese e grande finanza del Nord e rappresentava una vera bomba atomica nella storia delle indagini antimafia (in quegli anni l’antimafia era ancora una cosa seria, e anche molto costosa e dolorosa, perché chi la praticava spesso pagava molto caro il suo sforzo, talvolta anche con la vita). Quel dossier doveva finire nelle mani di Paolo Borsellino, che più volte aveva chiesto di potersene occupare e ne aveva parlato con diversi suoi colleghi, tra i quali Antonio Di Pietro. Forse quel dossier era stata una delle ragioni per le quali la mafia aveva condannato a morte Giovanni Falcone. Forse anche uno dei moventi della strage di via D’Amelio nella quale perse la vita Borsellino. Il dossier mafia-appalti invece fu archiviato. La richiesta di archiviazione viene redatta il 13 luglio del 1992 da Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte. Il giorno successivo il Procuratore di Palermo Giammanco convoca una riunione con tutti i sostituti e gli aggiunti, tra i quali Borsellino, e in quella sede, secondo le testimonianze rese al Csm da diversi magistrati che erano alla riunione, Borsellino mostrò interesse per il dossier, chiese che si convocasse una riunione apposita nei giorni successivi per discutere come far procedere le indagini, ma nessuno gli disse che il dossier era sul punto di essere archiviato. Il 19 luglio – questa non è una cosa certa ma ci sono varie testimonianze che lo sostengono – di prima mattina Giammanco informò Borsellino che gli sarebbe stato assegnato il dossier. Ma alle due del pomeriggio Borsellino viene ucciso. Il 23 luglio viene depositata la richiesta di archiviazione del dossier del Ros. Il 14 agosto, alla vigilia di Ferragosto, in grandissima fretta, il dossier è archiviato dal Gip. Ho chiesto varie volte il perché di questa archiviazione, che probabilmente ha compromesso il buon esito delle indagini antimafia e ha vanificato il lavoro, soprattutto, del generale Mori. La stessa richiesta che ho fatto io è stata in più occasioni ripetuta dalla signora Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo Borsellino. Non mi è stato risposto. Mai. Neanche alla signora Borsellino è stato risposto. La quale recentemente ha dichiarato: «Ci sono magistrati che continuano a negare l’interessamento di mio padre per il dossier mafia-appalti che invece era il pallino di mio padre. Persone come Scarpinato, che continua a dire che mio padre non era interessato». Invece, dice la signora Borsellino, suo padre era massimamente interessato e forse ha pagato anche per questo con la vita. Quale è stata la risposta di Scarpinato e Lo Forte alle mie domande? Mi hanno querelato. Mi hanno portato a processo davanti al tribunale di Avezzano. Il processo è in corso. E ora, mentre il processo è in corso, mi hanno querelato di nuovo e la Procura di Lodi mi informa che le indagini sono chiuse. Probabilmente dovrò rispondere in ben tre processi di avere chiesto a due magistrati perché hanno archiviato le indagini sulla mafia che Paolo Borsellino voleva condurre. Mi sarei accontentato di una risposta semplice. Potevano dirmi: “Perché quel dossier non valeva nulla e Falcone e Borsellino avevano preso un abbaglio”. Può anche darsi che sia così. Nessuno è infallibile. Ma allora perché non dirlo e chiedere invece che sia chiusa la bocca a un giornalista (anzi a due, perché insieme a me è a processo anche il bravissimo Damiano Aliprandi, giornalista del Dubbio). Ora, il problema che vi pongo è questo. Da quando dirigo il Riformista ho ricevuto più di venti tra querele e azioni civili contro di me e contro il giornale. Tutte da magistrati. Soprattutto da magistrati o ex magistrati importanti. Ne cito solo qualcuno: Scarpinato, Lo Forte, Gratteri, Caselli, Esposito, Davigo, Di Matteo (Di Matteo però per una cosa precedente) Sturzo e vari altri. Venti procedimenti giudiziari, dei quali almeno un terzo penali e dunque con la possibilità di essere ripetutamente condannato al carcere, sono tanti. Specialmente per la circostanza, nota, che è difficilissimo che un magistrato perda un processo. Se ti querela un politico, stai tranquillo: perderà e dovrà anche risarcire. Se ti querela un magistrato hai già perso. Mi chiedo: questo accerchiamento è un tentativo di chiudere il Riformista? Di metterlo in condizioni di dover tacere? Il Riformista, lo sa chiunque ormai, è quasi l’unico giornale che da un anno e mezzo combatte senza riguardi una lotta a viso aperto contro le sopraffazioni della magistratura, contro le illegalità, contro l’orgia del potere dei Pm. E denuncia l’esistenza del partito dei Pm, quello descritto piuttosto bene nel libro di Luca Palamara che, in passato, ne è stato uno dei capi. Devo pensare che il partito dei Pm, stressato dal caso Palamara (praticamente ignorato dalla grande stampa) si sente in pericolo solo per la voce flebile di questo piccolo quotidiano? Pensa di non potersi permettere che esista un giornale che continua a protestare, e intende adoperarsi per farlo chiudere? Quel che mi colpisce è che di fronte a questa ipotesi non succede quello che si potrebbe immaginare: che l’Ordine dei giornalisti, o il sindacato, intervenga a difesa della libertà di stampa. Succede il contrario: l’Ordine dei giornalisti dichiara in modo esplicito che sta dalla parte dei magistrati. Come nelle peggiori favole dei fratelli Grimm. Riusciranno a farci tacere? Non credo. Intanto andiamo a fare questi tre processi con Scarpinato e Lo Forte.

Piero Sansonetti

Verna si schiera con i magistrati, giornalismo sottomesso alle Procure. Atto intimidatorio e minaccia dell’Ordine dei giornalisti contro il Riformista: i Pm non si toccano. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Aprile 2021. Dopo la nostra denuncia dell’aggressione che stiamo subendo dal partito dei Pm (più di 20 querele di magistrati in un anno) abbiamo ricevuto moltissime dichiarazioni di solidarietà. Ci è mancata la solidarietà dell’Ordine dei giornalisti che invece, con una dichiarazione del suo presidente, che si chiama Carlo Verna, si è schierato decisamente dalla parte dei magistrati. Ha detto che se uno fa cattivo giornalismo le querele se le merita. Ha detto che se un giornalista riferisce di un ricorso di Berlusconi contro un magistrato si merita di ricevere la censura dell’Ordine. Ha anche detto, di me, che sfido il ridicolo, usando un linguaggio che fin qui raramente avevo visto nelle esternazioni dei presidenti degli ordini professionali. Diciamo che Verna ha lanciato un avvertimento: state un po’ zitti, smettetela di criticare la magistratura, e vedrete che non succede niente. Se invece volete fare i pierini, sarete bastonati. Ricevuto. In parte lo immaginavo. Non è da oggi che denuncio la sottomissione del giornalismo italiano alle Procure. Non presenterò un esposto all’Ordine contro Verna per il modo maleducato con il quale si è espresso nei miei confronti. Mi piacerebbe invece sapere se negli organismi dirigenti dell’Ordine esiste unanimità intorno all’atteggiamento del Presidente. Per il resto prendo atto del nuovo atto intimidatorio e dell’evidente minaccia che viene mossa nei miei confronti. Vi dico subito: ho 70 anni, faccio il giornalista di opposizione da 45. Mica mi intimidiscono tanto facilmente.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Informazione e regime. Il Riformista è sotto attacco, “Noi lo difendiamo”. Ondata di solidarietà a Sansonetti. Francesca Sabella su Il Riformista il 16 Aprile 2021. Il Riformista è sotto attacco. Non si tratta di gridare al complotto né tantomeno di lanciare un allarme ingiustificato: il direttore Piero Sansonetti ha ricevuto due querele, una dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, l’altra da un ex magistrato celebre come Guido Lo Forte. Il numero delle querele arriva così a 20. Eppure «la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure», recita l’articolo 21 della Costituzione. E forse proprio di questo articolo si è dimenticato l’Ordine dei giornalisti del Lazio che ha fatto pervenire a Sansonetti un provvedimento di censura. Come se non bastasse, a rincarare la dose è stato il presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, Carlo Verna, che giudicato la questione sollevata dal direttore del Riformista come «un ragionamento di complottismo che sfida il ridicolo». «Chi ha sbagliato deve pagare – ha aggiunto Verna – Io posso intervenire solo in un caso clamoroso, ma non per ogni querela normale dove uno si ritiene diffamato. Resto basito dal pezzo di Sansonetti». Basiti, però, sono rimasti anche alcuni colleghi giornalisti che, seppur con idee diverse da quelle del direttore di questo giornale, restano convinti della necessità di tutelare la libertà di stampa. 

Mario Giordano si è schierato apertamente: «Credo che quella delle querele intimidatorie sia una questione serissima in questo momento. Piero Sansonetti ha ragione, ormai è diffuso l’uso della querela a scopo intimidatorio, solidarietà totale a lui perché il suo è un giornale che ha delle idee, fa delle domande, solleva delle questioni importanti che aiutano tutti. Anche quelli che non la pensano come lui, come me, che non sono quasi mai d’accordo con lui».

Anche Nicola Porro, ha sottolineato la gravità del querelare giornalisti come se fosse normale: «Lo strumento delle querele è mostruoso perché anche se si ha la certezza di perdere la causa, si utilizzano a scopo intimidatorio. Se poi – sottolinea – uno dei presunti offesi è un magistrato o una persona molto importante il rischio di dover pagare è maggiore. E questo è un grandissimo freno ai nostri tasti». Infine, anche Sigfrido Ranucci ha voluto sottolineare la condizione del giornalismo italiano di oggi: «Finché c’è un sistema che consente di non pagare nulla a chi fa esposti o denunce ai giornalisti, io credo che la democrazia avrà un bavaglio per sempre. Si è cominciato da un po’ di tempo a colpire quei giornali non omologati, le voci che non sono nel coro». Perché si sa, una voce fuori dal coro infastidisce chi vorrebbe cantare indisturbato, distruggendo allegramente la democrazia e la libertà di stampa.

Lina Lucci (Ex segretario generale della Cisl Campania) – «Una richiesta al direttore: renda pubbliche nel dettaglio le imputazioni che gli vengono mosse per togliere l’alibi a chiunque di svilire quello che sta avvenendo. Serve chiarezza sull’operato della magistratura: un ruolo così determinante, in grado di modificare la vita di una persona, non può essere esercitato se non con la massima trasparenza. Vale Soprattutto se in discussione c’è la libertà di stampa. Per quel che attiene alla censura dell’Ordine, è grave se riferita al fatto che un giornalista debba giudicare anziché riportare i fatti fedelmente per quelli che sono. La libertà di stampa è parte integrante del processo democratico».

Raffaele Marino (Sostituto procuratore generale di Napoli) – «Dovrei conoscere il merito dei fatti con più precisione ma venti querele sono tante. Questa situazione mi ricorda quella di Tangentopoli quando i giornalisti che scrivevano del caso furono subissati di denunce e i magistrati che si occupavano di quei processi sottoposti a procedimenti disciplinari. È la vecchia storia del potere che si difende: tanto più il potere è autoreferenziale, tanto più forte sarà la reazione. L’indipendenza della magistratura, come concepita dal legislatore costituente, era un fiore all’occhiello dell’Italia ma scambiare l’indipendenza con un privilegio a tutela del proprio potere è veramente triste e pericoloso».

Antonio Tafuri (Presidente dell’Ordine degli avvocati di Napoli) – «Mi sembra grave che si sia censurata la voce di un direttore di giornale che si schiera con coraggio in favore del rispetto delle regole. Perché veramente Sansonetti rappresenta anche questo per noi avvocati, è una voce fuori dal coro e in quanto tale va tutelato e non censurato. È grave il tentativo di intimidazione dei magistrati che dietro le loro guarentigie censurano con le querele un giornalista, forse sarebbe stato il caso da parte dell’Ordine dei giornalisti di avere un po’ più di attenzione per il loro iscritto. I pm stanno mettendo in atto comportamenti prevaricatori nei confronti di avvocati e giornalisti. Sono due cose altrettanto gravi».

Paolo Macry (Storico, professore emerito Università Federico II) – «È una rete che strangola la politica, minaccia l’incolumità degli individui. E uccide la morale pubblica, lo stesso senso comune. Un giorno toccherà agli storici ricostruire i danni che la magistratura ha fatto a questo Paese. Perché la vicenda è lunga ormai di decenni. La persecuzione del Riformista costituisce soltanto l’ultimo tassello di una ghigliottina che ha tagliato a fette la fisiologia dello Stato di diritto e della lotta politica. Un caso unico, nell’Europa occidentale. Bisogna andare dalle parti di Visegrad o nella Turchia di Erdogan o nella democrazia fasulla di Putin per trovare un simile spregio delle garanzie».

Federica Brancaccio (Presidente dell’Acen – Associazione costruttori Napoli) – «Ho letto con il consueto interesse con cui, ogni mattina, leggo i quotidiani e, tra questi, anche Il Riformista diretto da Piero Sansonetti. Non avendo potuto consultare i documenti e i dossier a cui fa riferimento nell’editoriale il direttore, nutrendo stima per il suo operato professionale e riponendo – al tempo stesso – fiducia nell’operato dei magistrati e nell’oculatezza delle scelte dell’Ordine e del Sindacato dei giornalisti, non dubito nel buon esito dei giudizi in corso. In questo senso, mi torna alla mente una frase del compianto Aldo Moro: “Quando si dice la verità non bisogna dolersi. La verità è sempre illuminante”».

Fausto Bertinotti (Ex presidente della Camera) – «In una condizione ordinaria, sarebbe banale dover affermare la libertà di stampa, oggi dobbiamo gridarla perché minacciata, e questo vuol dire che è minacciata la democrazia. È curioso che vengano esaltati i meriti dei giornalisti che denunciano, ma quando poi toccano un potere, si pretende di zittirli. In questo caso c’è un ulteriore pericolo, perché chi interviene interdicendo l’esercizio libero della critica è la magistratura: istituzione che non ha contro poteri manifesti. E in quanto potere “eccezionale”, la magistratura dovrebbe almeno accettare la critica. Grave è anche la presa di posizione dell’Ordine dei giornalisti che avrebbe dovuto essere solidale con il collega».

Rita Bernardini (Già deputata dei Radicali – presidente Nessuno Tocchi Caino) – «A Piero Sansonetti e al suo giornale gliela vogliono far pagare perché l’involuzione del sistema informativo italiano è giunto a livelli ormai inauditi. Il Riformista paga perché non si piega ai desiderata di alcuni potenti pm che non ammettono né la critica né la cronaca. Che questo accada nell’anno del loro massimo sputtanamento (caso Palamara), lascia increduli. Non stupisce invece la pavidità dell’ordine dei giornalisti che continua a fare il mestierante di sempre, a danno del diritto all’informazione. Da parte mia massima solidarietà a Sansonetti e agli immondi tentativi di mettere il bavaglio a lui e al giornale che dirige».

Alessandro Barbano (Giornalista, scrittore, docente vicedirettore Corriere dello Sport) – «Auguro al direttore Sansonetti di continuare a essere paladino della libertà e della dialettica democratica con il suo bellissimo Riformista, di cui c’è tanto bisogno nella notte buia di questo Paese. La mancata difesa dell’Ordine dei giornalisti racconta lo smarrimento cosmico di questa professione, che è causa di regressione della nostra democrazia. Purtroppo la difesa dello stato di diritto e delle garanzie processuali, che il miglior giornalismo incarna, è una sfida impari in una stagione in cui il giustizialismo si è impossessato delle menti e attraversa la magistratura, la politica e la comunicazione come un veleno pericolosissimo».

Enza Bruno Bossio (Deputata del Pd – Direzione nazionale) – «L’editoriale a firma di Piero Sansonetti pone questioni assai rilevanti per lo svolgimento della vita democratica. Di fronte a fatti o sospetti inediti, uno Stato che si rispetti non si attarda in processi per ipotesi diffamatorie a carico dell’autore di tali denunce ma si pone il problema di come fare piena luce su quelle ombre inquietanti e accertare la verità dei fatti per come accaduti. Stupisce la censura dell’Ordine dei giornalisti. Certamente una rara eccezione, che lascia quantomeno molti dubbi. Piena solidarietà, dunque, a Piero e al giornale: è un dovere da parte di chi intende battersi a sostegno della difesa dei diritti di giustizia e libertà».

Roberto Giachetti (Deputato di Italia Viva e del Partito radicale) – «Sono contrario alle querele in generale: nel caso di querele a opera di pm credo che la questione sia ancora più grave: un conto è ricevere una querela da parte di un politico o di un cittadino, un altro è quando arriva da un magistrato. In questo caso c’è “un conflitto di interesse” e, nel migliore dei casi, il pm sarà particolarmente sensibile rispetto alla categoria. Credo quindi che questa azione da parte di magistrati sia una chiara forma intimidatoria nei confronti del Riformista. Per quanto riguarda la censura dell’Ordine dei giornalisti, conferma ciò che già pensavo: serve a poco e a volte fa scelte gravi. Prima lo si abolisce e meglio è».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

La solidarietà alla testata e al direttore. Assalto giudiziario al Riformista e a Sansonetti, il web insorge: “Andate avanti, unica voce libera”. Vito Califano su Il Riformista il 16 Aprile 2021. C’è chi propone una raccolta fondi, chi chiede di continuare, chi per cominciare ha sottoscritto un abbonamento. Ha generato un’eco traversale e una solidarietà bipartisan l’editoriale del direttore de Il Riformista Piero Sansonetti. L’articolo ha reso noto un attacco senza precedenti contro la testata. Sansonetti ha fatto sapere di essere oggetto di una ventina di procedimenti civili e penali avviati negli ultimi dodici mesi. Altre due querele sono arrivate dal Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, e dall’ex magistrato Guido Lo Forte per gli articoli sul dossier Mafia-appalti. L’Ordine dei Giornalisti ha invece censurato Sansonetti per un articolo sul ricorso degli avvocati del fondatore e leader di Forza Italia Silvio Berlusconi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo per “la porcata” decisa da “un plotone di esecuzione”, come definita dal giudice relatore in Cassazione Franco, della condanna a quattro anni per evasione fiscale. Il Riformista e il suo direttore hanno ricevuto solidarietà bipartisan per l’attacco ricevuto. Sia da politici che da giornalisti. Tra questi Fausto Bertinotti, già segretario di Rifondazione Comunista e presidente della Camera dei Deputati; Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva e membro dei Radicali; il direttore editoriale di Libero, Vittorio Feltri. Personalità e personaggi lontanissimi tra loro eppure sulla stessa lunghezza d’onda nell’affaire Riformista. E poi Nicola Porro, Mario Giordano, Alessandro Barbano, Rita Bernardini e Paolo Macry tra gli altri. La solidarietà più libera e spontanea è arrivata però da parte dei lettori, molti dei quali si sono proposti per sostenere le spese legali. Migliaia gli attestati di stima ricevuti nelle ultime ore. Qualcuno propone addirittura una raccolta fondi, come Antonella che ci ha scritto: “Sansonetti lancia una raccolta fondi per le spese processuali … sei un grande e non devi mollare”. E ancora Fausto scrive: “Tieni duro caro Sansonetti, se molli tu siamo fregati … cerco di sostenerti il più possibile e come posso … (compro due copie del Riformista, una la lascio su un tavolo del bar)”; Diego aggiunge: “Non potendo più attaccare il tuo editore attaccano le sue imprese, giornale compreso”; Daniele: “Ha tutta la mia solidarietà per le sue battaglie. Non molli, noi italiani onesti siamo tutti con lei. Vada avanti e guai fermarsi”; “La mia solidarietà in seguito al violento attacco che sta subendo da parte della Magistratura deviata. Non demorda, vada avanti a denunciare”; “Io oltre a comprarlo spesso, dopo questo ho deciso di abbonarmi”; Maurizio: “Se vi fanno chiudere, fuori l’IBAN per riaprire tutto”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

L'assalto giudiziario. Feltri difende Sansonetti: “Fior di giornalista, chiudete l’Ordine non il Riformista”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Aprile 2021. Vittorio Feltri, fondatore e direttore editoriale del quotidiano Libero, si aggiunge alle voci in difesa de Il Riformista e del direttore Piero Sansonetti. Il direttore di questo giornale, con un editoriale, ieri ha fatto sapere di essere oggetto di una ventina di procedimenti civili o penali avviati negli ultimi dodici mesi per i suoi articoli. Altre due querele sono arrivate dal Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, e dall’ex magistrato Guido Lo Forte, per gli articoli sul dossier mafia-appalti. Il consiglio di disciplina dell’Ordine dei Giornalisti ha intanto censurato Sansonetti per un articolo sul ricorso degli avvocati del fondatore e leader di Forza Italia Silvio Berlusconi alla Cedu per “la porcata” decisa da “un plotone di esecuzione”, come definita dal giudice relatore in Cassazione Franco, della condanna a quattro anni per evasione fiscale. Il direttore editoriale di Libero ha dedicato al caso un editoriale in prima pagina. Ha paragonato l’Ordine dei Giornalisti all’Unione degli Scrittori dell’Unione Sovietica. “Non è soltanto inutile ma dannoso”, ha aggiunto. Feltri si è dimesso dall’Ordine dei Giornalisti dopo 50 anni nella categoria lo scorso giugno 2020. Da allora è direttore editoriale di Libero, che ha fondato nel 2000. “Non possedendo la pazienza di aspettare analogo cataclisma, avendo l’età del dattero, me ne sono uscito dalla sopravvissuta sezione italiana, con mio parziale sollievo. E se dico parziale è perché non sono indifferente ad una questione che dovrebbe premere a tutti: tengo alla libertà di parola e di pensiero, che la Congrega cerca in ogni modo di comprimere, punendone uno per educarne maosticamente cento”. E il caso è quello de Il Riformista, e del suo direttore Piero Sansonetti, “un fior di giornalista nonché personaggio televisivo dalle argomentazioni chiare e distinte, una specie di pecora matta della sinistra di cui ripudia il giustizialismo”. La censura, dice Feltri, è “una forma di avvertimento, specie quando si combina, com’è nel suo caso, a una ventina di processi aperti da pm e giudici contro di lui, suscettibili di trasformarsi ognuno in azione disciplinare”. Una minaccia all’articolo 21 della Costituzione che recita che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” e che “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Il Presidente dell’Ordine Carlo Verna ha osservato che “il complottismo di Sansonetti sfida il ridicolo”.

IL GIORNALE: “IL CASO RIFORMISTA” – Anche il quotidiano Il Giornale con un articolo ha dedicato spazio alla vicenda. Sabrina Cottone ha ricostruito il caso del dossier mafia-appalti, dal quale scaturiscono le querele di Scarpinato e Lo Forte, e si chiede se, queste venti querele, tutte da magistrati, siano un record o meno nella storia dei giornali e dei giornalisti. “Ho 70 anni, faccio il giornalista di opposizione da 45 – ha fatto sapere comunque Sansonetti – mica mi intimidiscono tanto facilmente“.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 16 aprile 2021. Ho scritto circa mille anni or sono che l' Ordine dei giornalisti non è solo un ente inutile ma dannoso. È l' apparato italico che non ha paragoni nel mondo, salvo a suo tempo l' Unione degli Scrittori dell' Unione Sovietica che, a giornalisti e letterati conformi al regime, garantiva vacanze di lusso ai viventi e funerali di prima classe agli estinti; per i dissidenti vivi e morti a essere estinto era il diritto di vedersi stampati articoli e libri. Per chiudere questa fabbrica di privilegi e di leccaculo il popolo ha dovuto sopprimere l' Urss. Non possedendo la pazienza di aspettare analogo cataclisma, avendo l' età del dattero, me ne sono uscito dalla sopravvissuta sezione italiana, con mio parziale sollievo. E se dico parziale è perché non sono indifferente ad una questione che dovrebbe premere a tutti: tengo alla libertà di parola e di pensiero, che la Congrega cerca in ogni modo di comprimere, punendone uno per educarne maoisticamente cento. Ad esempio, il caso di Piero Sansonetti. Qui il sangue gocciola ancora fresco dalle orecchio mozzate di questo collega che conto di alcuni elementi incontestabili. Nelle classifiche internazionali riguardanti la libertà di stampa, che non è secondaria ai fini di valutare il livello di democraticità di una Nazione, l'Italia figura negli ultimi posti per motivi concreti. Intanto la stampa di casa nostra è quasi interamente di proprietà di imprenditori che, per quanto liberali, antepongono la propria tasca a quella dei lettori. Idem le radio e le televisioni, di sicuro non asettiche. La Rai non è privata e teoricamente non dovrebbe essere asservita a interessi personalistici, in realtà è un feudo della politica, dominio dei partiti di maggioranza. Quindi, quando si parla di autonomia dei giornalisti, si scherza ben sapendo di scherzare: la categoria a cui non appartengo da un po' è la più incline ad attaccare l'asino dove vuole il datore di lavoro. L'indipendenza, come si evince soffermandosi su ciò che ci circonda, è un mito, una illusione che tutti seduce e che nessuno è in grado di volgere in pratica. Se aggiungiamo che noialtri siamo i soli al mondo a disporre di un ordine dei giornalisti, di ispirazione fascista e deputato a sanzionare i soggetti più indomabili, il panorama si completa. Forse non siamo schiavi, ma camerieri sì. Pertanto il governo di Roma non è abilitato ad assegnare patenti di autocrate a nessuno se non a se stesso. Pure perché perfino le parole che usano i cronisti ormai sono soggette a censura. Se dai del frocio a un omosessuale vai all'inferno. Inoltre l'invidia sociale influenza la mentalità progressista: chi ha guadagnato quattro soldi è giudicato un evasore fiscale, come minimo. Il guaio non è Erdogan, bensì siamo proprio noi, perdio.

Informazione e regime. “Noi difendiamo il Riformista”, migliaia di messaggi di amicizia dopo l’attacco di Pm e Ordine dei giornalisti. Redazione su Il Riformista il 17 Aprile 2021. Abbiamo ricevuto in questi due giorni migliaia di messaggi di solidarietà. Di persone note, di intellettuali, di giornalisti, di avvocati, di magistrati, di cittadini. Non ci sentiamo soli. Abbiamo la netta sensazione di poter continuare tranquilli la nostra battaglia contro le degenerazioni e le sopraffazioni di una parte della magistratura italiana, e in particolare del partito dei Pm. Pensiamo di poter resistere anche al fuoco amico, un po’ vile, che viene dall’ordine dei giornalisti, e cioè da quella parte della nostra categoria più sottomessa alla forza e all’egemonia culturale delle Procure. Abbiamo subìto intimidazioni pesanti, sia attraverso le querele dei Pm sia con le censure e gli avvertimenti minacciosi dell’ordine dei giornalisti. Ma non sempre le intimidazioni vanno a segno. Abbiamo capito proprio in queste ore che il Riformista è più radicato di quanto potessimo pensare. Siamo contenti e continuiamo la nostra battaglia. Senza farci spaventare dalla gigantesca potenza di fuoco di chi vuole annientarci. La nostra potenza di fuoco è piccola piccola. Però noi abbiamo idee e ragione, loro, purtroppo, no. Qui di seguito pubblichiamo una parte minuscola dei messaggi che abbiamo ricevuto ieri sulla mail e su WhatsApp.

Col Riformista mi sento più libero. Renato Brunetta

Esprimo tutta la mia solidarietà, la mia stima e il mio affetto al direttore Piero Sansonetti per la raffica di querele e azioni civili che sta subendo. L’opera del Riformista a guida Sansonetti è stata determinante in questi anni per mettere al centro del dibattito pubblico la questione giustizia e per sfidare il pensiero unico sul tema. Io con il Riformista in edicola tutti i giorni e con gli editoriali di Sansonetti mi sento più libero.

Scarpinato? Spiegategli bene il golpe in Cile…Giancarlo Lehner

Caro Direttore, mi sono a lungo occupato dei nostri magistrati di lotta e di governo, pagandone, fra l’altro, le conseguenze, avendo trascorso decenni nei tribunali di tutta la Penisola. Riguardo alle preoccupazioni per la sopravvivenza del tuo quotidiano, l’unico foglio con merito in prima linea per la giustizia giusta e il ripristino della lettera della Costituzione, fossi in te mi guarderei soprattutto dal procuratore Roberto Scarpinato, che passerà alla Historia per la micidiale supponenza non sempre sorretta da sicure basi culturali. Ricordo, così, soltanto per spaventarti un po’, il suo leggendario saggio apparso su MicroMega, dove Scarpinato, ignorando le date della storia, scrisse: «Chi conosce la storia occulta dell’Italia e la potenza delle grandi strutture criminali, sa che non è azzardato, né frutto di un cupo pessimismo antropologico, ritenere che la situazione attuale ricorda… quella che venne a crearsi in Cile negli anni Ottanta [sic!] conclusasi tragicamente con la fine del presidente Allende». Ci si può fidare della scientificità di chi fissa la fine del povero Allende negli «anni Ottanta»? Magari si dirà che sono prevenuto, data la mia origine israelita, ma mi parve un tantino antisemita il saggio col titolo (Dio dei mafiosi) e un sottotitolo (Per una ‘teologia’ di Cosa Nostra. L’etica adattata alla logica di una sola grande ‘famiglia’, dove si può uccidere perché si obbedisce a ordini superiori. Una piramide che vede nel Dio del Vecchio Testamento l’ultimo – e il più terribile – dei padrini), nel quale, appunto, il dottor Scarpinato inviò un avviso di garanzia al Creatore non per concorso esterno e neppure per associazione mafiosa, ma per essere indubitabilmente il Capo dei Capi della mafia. Quindi, tanto per non fare sconti ai cattolici, rinviò a giudizio anche Sancta romana Ecclesia: «Riprendendo il tema della cultura mafiosa, non è forse azzardato ipotizzare che l’interiorizzazione del valore dell’autorità e dell’obbedienza proprie di certa cultura cattolica abbia potuto costituire una precondizione perché su questo humus si innestasse, senza traumi e senza fratture, mediante un’inconscia sinergia ibridante, la “sacramentalizzazione” dei valori dell’obbedienza cieca e della gerarchia da parte del popolo di Cosa Nostra…». Data codesta terrificante Weltanschauung, credo sarebbe giusto preoccuparsi se Scarpinato dovesse partire lancia in resta contro Il Riformista.

Dobbiamo scendere in piazza. Amedeo Laboccetta

L’attacco a colpi di querele nei confronti del Riformista, e del suo Direttore in particolare, il coraggioso e bravo Piero Sansonetti, deve assolutamente spingere gli uomini liberi in Italia a prendere posizione. Quando si crede veramente in una battaglia di libertà e di vera giustizia, la solidarietà si pratica e non si predica. Qualcuno, anzi che dico, più di qualcuno, vorrebbe mettere a tacere questa voce coraggiosa e libera. Che da sempre va controcorrente. Tutto questo è inaccettabile. Non lasciamo soli Sansonetti e tutti i giornalisti del Riformista. Bisogna prendere posizione e manifestare pubblicamente. Ci si veda in tanti a Roma per bloccare il progetto di tappar la bocca a Sansonetti. Per fortuna di uomini liberi e giornalisti coraggiosi l’Italia è piena. Basta saperli organizzare per promuovere la resistenza della libertà di stampa.

Ma quelli che dirigono l’Odg si vergognano almeno un po’? Fabrizio Cicchitto

Ha detto giustamente Luciano Violante che il primo sdoppiamento delle carriere dovrebbe avvenire fra quelle dei pm e quelle dei cronisti giudiziari. Nel caso del Riformista siamo di fronte a due scandali fra loro intrecciati: i pm che fanno querele in modo sistematico, seguendo il principio che da un lato cane non morde cane e anzi dall’altro lato si unisce al compagno di cordata per aggredire e stendere il disturbatore. Poi c’è lo scandalo costituito dall’ordine dei giornalisti, uno scandalo istituzionale perché la sua ispirazione originaria è quella di un corporativismo di ispirazione fascista (il direttore responsabile deve appartenere per forza all’ordine). Poi da molto tempo la gestione dell’ordine è in mano ai portavoce dei potentissimi cronisti giudiziari, a cui fanno da sponda (i cronisti giudiziari contano nell’ordine dei giornalisti come i pm nell’Anm e nel Csm). Poi esistono le colpe individuali: il Riformista ha un gravissimo difetto che si traduce in una colpa da perseguire possibilmente non con una pena transitoria ma con il recupero di una condanna che purtroppo non sta nell’ordinamento giuridico italiano: vale a dire la pena di morte da raggiungersi attraverso strangolamento finanziario. La colpa del Riformista è gravissima. Pubblica notizie che non si leggono sul Corriere della Sera, su la Repubblica, su la Stampa perché lì i cronisti giudiziari fanno buona guardia. Così l’altro ieri il Riformista ha pubblicato una assai imbarazzante numero di file in cui forse è contenuta l’intercettazione del trojan sulla cena Palamara-Pignatone. La notizia è uscita solo sul Riformista e lì è rimasta. Ma comunque è sempre fastidiosa. E il dottor Cantone deve comunque misurarsi con essa. È chiaro che una voce di questo tipo va silenziata a ogni costo anche perché essa svolge un ruolo essenziale per garantire la libertà di informazione, una missione davvero impossibile. Ma coloro che dirigono l’ordine dei giornalisti non si vergognano almeno un po’? Non a caso Vittorio Feltri si è dimesso da esso.

Solidarietà al Riformista, voce di coraggio. Federico Mollicone

Esprimiamo la nostra solidarietà alla testata il Riformista, voce di coraggio su molti temi delicati. Uno di questi è certamente la vicenda del sistema Palamara che sembra tuttora persistere all’interno della magistratura offuscando il valido e coraggioso lavoro di molti magistrati onesti ed equilibrati. A Piero Sansonetti e al giornale che dirige rivolgiamo la nostra vicinanza. Spiace invece l’atteggiamento del presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna, che ha rivolto toni denigratori verso un direttore e una redazione che per istituto dovrebbe difendere da eventuali aggressioni esterne. Proprio Verna lo avevamo apprezzato nella difesa del giornalista Silvio Leoni – ingiustamente rinviato a giudizio e poi archiviato – con l’unica colpa di aver intervistato il presidente di un Tribunale: per questo Leoni subì perquisizioni e il sequestro del telefono personale e sulla vicenda abbiamo già annunciato un question time al ministro Cartabia per chiedere che invii gli ispettori alla procura di Ancona.

Giornale e direttore sotto attacco. Giù le mani dal Riformista e dalla libertà di stampa: la solidarietà di Bassolino, Nappi, d’Alessandro e Di Donato. Francesca Sabella su Il Riformista il 17 Aprile 2021. Le intimidazioni rivolte dalla magistratura al direttore Piero Sansonetti hanno compattato il fronte di chi crede che le toghe dovrebbero tutelare la libertà di stampa, pilastro della democrazia, e non lavorare per demolirla. Ne era convinto un giurista del calibro di Benedetto Conforti, ma la sua posizione è condivisa oggi da tanti intellettuali e politici napoletani che non hanno esitato a schierarsi a difesa del Riformista.

Antonio Bassolino – «Nel pieno rispetto del lavoro e del ruolo costituzionale della magistratura, non vanno dimenticati il ruolo e la libertà della stampa, anch’essi tutelati dalla Costituzione. Venti querele, quante sono quelle ricevute dal direttore Piero Sansonetti,  sono davvero tante, ma che l’Ordine dei giornalisti censuri preventivamente il lavoro di un giornalista, come avvenuto con lo stesso Sansonetti, è un atto inedito che può essere foriero di lesioni al lavoro di cronisti, opinionisti e della stampa in genere. Non esistono censura e autocensura di fronte alla ricerca della verità. La magistratura faccia il proprio lavoro e la stampa il suo, nel rispetto della legge. Conosco Sansonetti da sempre, da quando era un giovane giornalista dell’Unità e io un dirigente del Pci. Da sempre conosco il suo spirito critico e la sua autonomia. Quindi piena solidarietà a lui e un invito a una più approfondita riflessione all’Ordine dei giornalisti per la tutela di un diritto fondamentale della democrazia».

Giulio Di Donato – «Il Riformista è l’unico a trattare temi scottanti che gli altri giornali evitano completamente. Questa storia della giustizia, caratterizzata da una forte connotazione politica, viene sistematicamente esclusa dal dibattito. Se non ci fossero stati Il Riformista e il suo direttore Piero Sansonetti, capace di fare battaglie coraggiose e delicate, avremmo avuto un deficit democratico che ancora c’è. Le minacce dei magistrati che utilizzano le querele per intimidire sono inaccettabili in un Paese civile, perché il diritto di cronaca e la possibilità di fare giornalismo non devono essere inficiati da un’aggressività di carattere giudiziario. Dal canto suo, l’Ordine dei giornalisti ha dimostrato tutta la sua inutilità: avrebbe dovuto difendere con determinazione una voce così libera come quella di Sansonetti. Sono pronto ad aderire a qualsiasi iniziativa che Il Riformista vorrà lanciare a difesa di democrazia e libertà di stampa».

Severino Nappi – «Non sempre condivido le campagne lanciate dal Riformista, ma credo fermamente, per la mia cultura intrinsecamente liberale, nel principio della libertà di stampa, da difendere sempre anche quando attacca la nostra parte politica. Sul tema della giustizia, Il Riformista rappresenta con coraggio una voce fuori dal coro, tesa a ripristinare le possibili storture di un sistema giudiziario che da 30 anni necessita di un’adeguata riforma. La sensazione è che il giornale sia vittima di un cortocircuito tra magistratura, politica e mondo dell’informazione alimentato da una certa magistratura politicizzata a sinistra. Non dovrebbe esistere una caratterizzazione della magistratura, spesso invece soggetta a giochi di corrente, mentre probabilmente si gioverebbe di una separazione di carriera tra il ruolo di pm e di giudice. E le querele temerarie rappresentano soltanto una minaccia alla libera espressione».

Lucio D’Alessandro – «Sono impressionato e preoccupato. Quando è nato Il Riformista, e Il Riformista Napoli in particolare, lo abbiamo accompagnato con grande attenzione, con grande piacere e con l’idea che stesse nascendo qualcosa di nuovo, di importante e di libero. Tutti quelli che pensano alla democrazia pensano che la chiave della democrazia sia la possibilità di informare l’opinione pubblica. Jeremy Bentham diceva che il tribunale più importante di tutti è il tribunale dell’opinione pubblica e questo tribunale dev’essere informato. Non credo al complotto, non ci credo in generale e per principio, ma il ripetersi di alcune azioni può essere pericoloso. In particolare mi preoccupa il fatto in sé, che alla fine una voce libera si possa chiudere. Bisogna quindi stare vicino al Riformista e vicino ai giornalisti in generale perché la voce della stampa è una voce importante: è uno dei pilastri della democrazia».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Solidarietà al Riformista. Contro Sansonetti troppe querele di una magistratura tronfia. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 23 Aprile 2021. Caro direttore, non conosco il merito delle querele che hai ricevuto, ma già il fatto che ammontino a tante, e che provengano perlopiù se non esclusivamente da magistrati, dice che in questione non è il tentativo di punizione di un comportamento vietato, ma la pretesa di vietare il comportamento. Non è un gioco di parole. Un giornale può sbagliare, può pubblicare cose false e offensive, e deve risponderne, ma qui la sensazione è che non si tratti di isolate lamentazioni per precise vicende diffamatorie, bensì di iniziative che magari non intenzionalmente, ma negli effetti senz’altro, vanno a fare concerto in una chiara volontà di censura. Bisogna diffidare del giornalista che fa retorica sull’attentato alla libertà d’opinione solo perché ha ingiustamente sputtanato qualcuno che giustamente gli fa causa: ma come lo strumento giudiziario diventa a volte un mezzo di competizione tra imprese che si fanno la guerra sui mercati, così la querela può smettere di funzionare come la richiesta di riparazione di un diritto leso per trasformarsi in una inibitoria indiscriminata. Non la bacchettata sulla mano di chi ha scritto qualcosa impropriamente, ma il colpo di mazza che gliela maciulla e la rende inservibile a scrivere qualsiasi cosa. Non si può pretendere che i magistrati restino inerti davanti allo scritto che racconta su di loro cose non vere e insultanti, ma l’impressione è che ciò di cui in profundo essi si lagnano sia la contestazione del ruolo che hanno usurpato, il loro presunto diritto di annunciare rivoluzioni ai margini dei rastrellamenti e di far dottrina in tv sull’appello da abolire perché è l’inaccettabile lasciapassare compilato dagli avvocati complici di corrotti e mafiosi. Il sospetto è che la querela sia il rimedio indispettito verso un atteggiamento più grave, per loro, della diffamazione, e cioè appunto l’atteggiamento dei pochi, tra cui in prima posizione questo giornale, che vorrebbero il magistrato timoroso nell’uso del proprio potere anziché tronfio nel farne sfoggio. Iuri Maria Prado

"Lunga vita al Riformista". Il Riformista non si piega ai Pm, l’attacco a Sansonetti testimonia fastidio magistratura. Biagio Marzo su Il Riformista il 23 Aprile 2021. Lunga vita al Riformista. Se non ci fosse bisognerebbe inventarlo, altrimenti saremmo privi di un quotidiano ch’è una delle pochissime voci veramente libere dell’informazione scritta e parlata. Le battaglie che sta conducendo sono sacrosante a favore dello Stato di diritto, a difesa del detenuto che vive in penitenziari super affollati, contro le ingiustizie sociali. E, comunque, non sarà mai dalla parte della lex est araneae tela. Non sono da tutti queste battaglie, in questi anni di populismo giudiziario, in cui si è visto di tutto e di più. Da un lato, i giornalisti che stanno in ginocchio e fanno interviste, baciando la pantofola ai magistrati. Dall’altro, la corporazione togata, con un corpo malato, alle prese con nomine, spartizioni, accordi segreti fra le correnti il cui potere è tale che quelle partitiche sono quisquilie. C’è di più. Fatti e misfatti di cui solo a raccontarli si resta increduli. Il posto in cui c’è una sorta di “lavanderia”, dove tutto si lava e si asciuga, è il Csm, l’organo di autogoverno della magistratura. Al riguardo, Stefano Zurlo in Il Libro Nero Della Magistratura è riuscito a mettere insieme “i peccati inconfessati” dei magistrati italiani. Sansonetti non si piega al potere come, invece, fanno tanti suoi colleghi, ragion per cui, ha accumulato un sacco e una sporta di querele da alcuni Pm, per essersi battuto contro la “macelleria giudiziaria all’ingrosso”. A questo punto, siamo noi che ci facciamo carico di esprimergli solidarietà e affetto e lo preghiamo di continuare la lotta per la libertà di cronaca e di critica. E, naturalmente, noi siamo al suo fianco per la giustizia giusta. Il caso Tortora è l’esempio lampante passato alla storia come “giustizia spettacolo” in cui operò, per la prima volta, il “Circo mediatico – giudiziario”, dal titolo del best seller di Daniel Soulez Lariviere. Il popolare presentatore di Portobello fu arrestato dai Carabinieri all’alba, mentre dormiva all’Hotel Plaza di Roma, alla presenza di cronisti, fotografi e cameramen, per l’accusa di spaccio di droga e associazione di stampo camorristico. Un innocente fu arrestato e condannato, costretto a una tragica via crucis giudiziaria che, alla fine, lo portò alla morte. La premiata ditta magistrati&giornalisti lo sottopose a un processo e a una gogna mediatica malevola, i cui benefici furono tutti a favore dei magistrati che fecero, d’allora in poi, ottima carriera, e dei pentiti, anzi dei falsi pentiti che si garantirono una comoda vecchiaia. Insomma, nessuno pagò per quel grossolano errore giudiziario. Grazie a Marco Pannella e ai suoi compagni di partito, che lo portarono come effigie della giustizia ingiusta, fu candidato nelle liste radicali ed eletto al Parlamento europeo. Per non incorrere in casi come quello di Tortora, i radicali di Pannella e i socialisti di Craxi indissero il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, l’8 novembre 1987. La vittoria referendaria radical-socialista non sortì alcun effetto, vuoi perché la Dc si mise di traverso vuoi anche per il fatto che le forze politiche non ebbero il coraggio di portare in porto una riforma che rafforzasse lo Stato di diritto ed evitasse che la giustizia fosse usata per scopi politici e per le carriere dei togati, senza che questi pagassero mai alcun pegno. Come dire, il referendum fu furia francese e ritirata spagnola. Al dunque, diciamo che tutto restò allo status quo ante. Da quella sconfitta prese l’abbrivio l’egemonia delle Procure sulla politica, con l’appoggio dei mezzi di informazione. Difatti, ai tempi del pool di Mani pulite, entrò in azione il combinato disposto del partito dei Pm e dei mezzi di informazione, con a capo la Procura di Milano e le corazzate Corriere della Sera, Repubblica, Stampa, l’Unità e, in più, le reti televisive di Mediaset con le dirette di Brosio sotto il Palazzo di giustizia di Milano. La Rai, per non essere da meno, si adeguò. Si mossero in sincronia con la forza di uno schiacciasassi. La magistratura ha tutt’oggi un soverchiante potere, ha messo in crisi il sistema politico che è organizzato secondo il principio di separazione dei poteri, quello legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario. È sopportabile una situazione del genere in cui, peraltro, la giustizia è la mano punitiva dello Stato e, per di più, vive come Sistema, ossia come potere per il potere, al servizio di qualsiasi fine? Altro che Palamara. Preoccupati per la tenuta della democrazia, per il restringimento delle libertà e per il sorgere di uno Stato etico, occorre una riforma della giustizia. Alla luce dell’esperienze passate, si andrà incontro come sempre alla tacitiana corruptissima republica plurimae leges e al passo del Digesto: error communis ius facit. Il tentativo di mettere la mordacchia a Sansonetti – e a tanti giornalisti con le sue medesime idee garantiste, per esempio, evidenziamo il caso Salvaggiulo de La Stampa – per poi far chiudere il Riformista, non è per nulla una idea campata in aria. Per questa ragione, attorno al direttore Sansonetti bisogna raccogliere le forze che si battono per lo Stato di diritto, per indire un referendum sulla giustizia. Resta la sola e unica via praticabile. Biagio Marzo

Informazione e regime. Il Riformista è voce di libertà, Sansonetti non si lasci prostrare. Eduardo Savarese su Il Riformista il  18 Aprile 2021. Ho avuto la fortuna di svolgere un dottorato di ricerca in Diritto internazionale alla Federico II di Napoli negli anni in cui il professor Benedetto Conforti era rientrato in città, avendo concluso il mandato di giudice presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, e ho avuto il privilegio di essere uno dei suoi ultimi allievi. Dopo la pensione, cominciò a dismettere la sua biblioteca giuridica, conservando soltanto i libri sui diritti dell’uomo. Poco prima che lasciasse Strasburgo, la Corte europea decise il ricorso promosso dal giornalista Giancarlo Perna per violazione dei diritti al giusto processo e alla libera espressione del pensiero, per averlo l’Italia, attraverso i suoi giudici, condannato per diffamazione del magistrato Giancarlo Caselli. La Grande Camera diede ragione all’Italia, non ravvisando le violazioni lamentate dal giornalista. Un’opinione dissidente si levò: quella di Conforti. Il professore metteva in evidenza come, nel processo per diffamazione intentato da Caselli contro Perna, il giudizio, nei tre gradi, si fosse chiuso in tempi record. Quella velocità suonava sospetta in un Paese che accumulava condanne per ritardi nelle decisioni giudiziarie. Non solo, quella velocità si era consumata attraverso una compressione frettolosa del diritto alla prova del giornalista. L’opinione afferma (traduco liberamente dal testo originale in inglese): «Nel processo a carico di un giornalista per diffamazione di un organo giudiziario inquirente, la condotta dei tribunali interni, intenzionale o meno, dà la chiara impressione di un’intimidazione che non può essere tollerata alla luce della giurisprudenza della Corte sulle restrizioni alla libertà di stampa». E ancora: «È sorprendente quante azioni siano intentate da magistrati contro giornalisti in Italia e quanto congrui siano gli importi liquidati dai tribunali italiani per danni». Infine: «Poiché la libertà di stampa è la mia sola preoccupazione, mi duole avere espresso la mia opinione in questo caso che riguarda un magistrato per il quale ogni cittadino italiano deve provare ammirazione per aver rischiato la propria vita nella lotta alla mafia». Nella sua brevità e chiarezza, Conforti dà a tutti noi, soprattutto ai giuristi e ai tantissimi magistrati che hanno studiato sul suo manuale di diritto internazionale, una lezione esemplare: un rischio effettivo e grave di compressione della libertà di stampa discende dalle azioni per diffamazione intentate da magistrati contro giornalisti. Mi si obietterà: e allora i magistrati non possono difendere più la loro immagine, se diffamati? Certamente, possono e devono. Ma è necessaria una misura rigorosissima nell’esercizio della facoltà di sporgere denunce per diffamazione, sia perché la magistratura deve sapere affrontare le domande che le si rivolgono sul proprio operato, sia perché essa – e questo è un altro insegnamento di Conforti – è, o dovrebbe essere, il vero baluardo per la difesa dei diritti dell’individuo in uno Stato di diritto. Ciò detto, qualche notazione personale. Non conosco Piero Sansonetti, direttore de Il Riformista, se non da quanto scrive e dice in televisione. Quello che so è che Il Riformista, e Il Riformista Napoli sul quale scrivo da gennaio 2020, è una voce di libertà. A volte reputo eccessiva – e controproducente – la sua foga contro la magistratura italiana. Mi piacerebbe che prendesse – che so – di mira anche i poteri immensi (e molto più nascosti) di tanti anfratti delle pubbliche amministrazioni e delle società collegate al settore pubblico (i cui funzionari spesso ricevono compensi assai più lauti del magistrato). Ma è una voce di libertà e sa articolarsi in una complessità di linee anche molto diverse: ho scritto un articolo sulla omogenitorialità che nessun’altra testata oggi avrebbe pubblicato. Mi sono dimesso dall’Associazione nazionale magistrati e ho potuto ricevere un’intervista seria e rigorosa, senza inutili strumentalizzazioni. E poi, quel che mi preme di più: continua a mettere il dito nella piaga. La piaga purulenta e vergognosa dello stato delle carceri italiane. La piaga – strutturale e che pesa come colpa collettiva sulla struttura giudiziaria nel suo complesso – della giustizia civile lenta, ma soprattutto della giustizia penale che arriva troppo tardi ad assolvere persone duramente colpite da indagini e misure cautelari (che in sé non possono non avere un fisiologico margine di errore, ma il punto non è questo). La piaga della crisi che il caso Palamara ha aperto nella magistratura: solo leggendo Il Riformista, e poco altro su carta stampata, da magistrato che vorrebbe capire di più, riesco ad appurare certe informazioni (spetta a me, lettore, elaborarle e criticarle) sull’uso del trojan nell’indagine a carico di Palamara. Il mio augurio è che Il Riformista abbia ancora lunga vita, che il direttore Sansonetti non si lasci prostrare e che la magistratura, tra i tanti bagni di verità che è chiamata improrogabilmente a praticare, riesca anche ad affrontare il tema querela di magistrati/libertà di stampa secondo le linee magistralmente delineate da Benedetto Conforti. Con lui ribadisco che «freedom of the press is my only concern».  Eduardo Savarese.

Si allunga l'elenco. Il Gip Sturzo ci ha fatto causa. Redazione su Il Riformista il 7 Ottobre 2020. Si allunga l’elenco dei magistrati che hanno fatto causa al Riformista. Ci è giunta la notizia che anche il Gip Gaspare Sturzo ha avviato la richiesta di risarcimento danni nei nostri confronti perché si sente diffamato – se abbiamo capito bene – dalla pubblicazione sul Riformista di alcune intercettazioni dell’affare Palamara nelle quali lui sembrava chiedere un aiuto dell’ex capo dell’Anm per lo sviluppo della sua carriera. Gaspare Sturzo ha citato in giudizio l’editore Alfredo Romeo e il direttore Piero Sansonetti. Chi è Sturzo? È il Gip che nel 2017 ordinò l’arresto di Alfredo Romeo (poi cancellato dalla Cassazione) e successivamente, nella vicenda delle indagini su Consip, ha respinto la richiesta di archiviazione del procedimento, sempre contro Romeo (e altri), che era stata avanzata dalla Procura, e in particolare da Pignatone, Ielo e Palazzi.

Sansonetti: “Caselli mi ha querelato, i magistrati lo fanno per intimidazione”. Redazione su Il Riformista l'8 Gennaio 2021. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti annuncia in un video editoriale di aver ricevuto una “Querela da parte di Giancarlo Caselli per un articolo dell’aprile scorso. Io scrissi un articolo in cui polemizzavo con Caselli. Ma purtroppo c’è questa idea che si può polemizzare sui giornali, in tv. Con chiunque. Ma non si può polemizzare con i magistrati“. Secondo Sansonetti “I magistrati sono intoccabili, al di sopra della legge, sono intoccabili. Non accettano critiche e sanno che in caso di querela vincono poiché i magistrati che giudicano li guardano di buon occhio“. Il direttore poi elenca “Ho querele solo di magistrati: di Gratteri, Di Matteo, Scarpianto, Leonforte, Esposito padre e figlio, Davigo e ora Caselli che è in pensione ma è uno dei capi del partito dei Pm. Spesso vincono ma non sempre“. Infine Sansonetti sottolinea che “Lo spirito di queste querele è l’intimidazione. Le querele creano una grande difficoltà nei giornalisti e arrivano solo nei confronti di chi critica i magistrati. In Italia siamo non più di 5 ed è facile l’attacco da parte del partito dei Pm. Non c’è alcuna difesa, il sindacato dei giornalisti e l’ordine si inchinano e non intervengono“. Sansonetti conclude: “La querela di Caselli non ci spaventa, c’è l’effetto intimidazione ma noi andiamo avanti e continueremo a criticare nella maniera più rigorosa tutti i magistrati. Tra l’altro – svela Sansonetti – con Caselli mi legava un legame di stima e amicizia. Se scrivo qualcosa di male su un politico, cose che ho fatto tante volte, non mi querelano, invece i magistrati lo fanno per tenerti per il collo, ma tranquilli andiamo avanti“.

Cantone vuole censurare il Riformista: “La libertà di stampa ha un limite”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 14 Gennaio 2021. Foto LaPresse – Mourad Balti Touati 08/10/2018 Milano (Ita) – Corso di porta vittoria – Tribunale Cronaca Presso il Tribunale il Presidente dell’ Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone partecipa al convegno sulla responsabilità penale e contabile nelle professioni sanitarie Nella foto: Raffaele Cantone, Presidente Anac. Il Procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, ha chiesto al Csm di aprire una “pratica a tutela” dei magistrati della sua città. Perché e contro di chi? Contro il Riformista che nei giorni scorsi ha riferito, sul celebre Palamaragate, notizie che non piacciono a Cantone. E cioè ha raccontato come le chat estratte dal telefono di Luca Palamara ai primi di giugno del 2019 furono mandate al Csm con 11 mesi di ritardo. Solo dopo che il Csm, senza conoscere le chat e i nomi dei magistrati implicati, aveva deciso un bel giro di nuove nomine nelle Procure e nei tribunali. E poi il Riformista ha anche spiegato come e perché fu silenziato il trojan di Palamara in occasione della cena che lui ebbe con l’ex procuratore di Roma Pignatone e con altri alti magistrati, cena il cui piatto forte, molto probabilmente, fu la nomina del nuovo procuratore di Roma. (Il trojan è quel marchingegno che permette di trasformare un cellulare in un telefono spia che trasmette tutto ciò che avviene attorno a lui). E infine il Riformista ha chiesto conto anche degli Sms che stavano nel telefono di Palamara (e anche quelli furono estratti dal Gico della Guardia di Finanza) e che pare non siano stati inseriti nel fascicolo a carico di Palamara. Cantone sostiene invece che gli Sms furono tutti consegnati e inseriti, però non ci ha detto (ne lo ha detto a Palamara) dove siano. Siccome noi abbiamo scritto queste notizie, e siccome non risulta che su questi fatti sia stata aperta nessuna inchiesta giudiziaria, Cantone ha chiesto al Csm questa famosa pratica a tutela. Cosa sia una pratica a tutela non si sa bene. Potrebbe essere una semplice dichiarazione di “intoccabilità” che vada ad arricchire il curriculum dei magistrati ritenuti responsabili delle mancanze investigative che noi abbiamo segnalato, oppure forse di qualche iniziativa più forte che possa ottenere il risultato di silenziare i giornali indisciplinati, cioè il Riformista. Naturalmente si tratta di un attacco violento e diretto alla libertà di stampa, e dunque anche alla Costituzione, che non credo abbia molti precedenti. E io immagino che l’Ordine dei Giornalisti vorrà intervenire a difesa del principio costituzionale e a difesa del diritto ad informare nostro o di altri giornali ai quali venisse voglia di ficcare il naso sul Palamaragate (senza scottarsi). Se passasse l’idea che in Italia è persino formalmente proibito ai giornali di criticare la magistratura, e addirittura è vietato dare notizie relative al lavoro dei Pm, diventerebbe molto difficile parlare del nostro paese come di un grande paese a democrazia liberale. Capisco l’obiezione: in realtà è già così. Si contano sulla punta di una mano i giornali che si sono occupati del “palamaragate”, dal momento in cui si è capito che era uno scandalo che coinvolge centinaia, o forse anche migliaia di magistrati, e che getta un’ombra di fango molto larga sull’istituzione magistratura. Ma questa non è un’obiezione seria. Il fatto che in Italia quasi tutti i giornali abbiano accettato una sudditanza e giurato obbedienza alle Procure (non alla magistratura: alle Procure) non ci autorizza ad accettare che il divieto di critica alle Procure diventi un divieto formale sancito dalla giurisprudenza. In Italia, nell’ultimo secolo e mezzo, almeno, solo il fascismo ha imposto la censura ai giornali, cioè quella che viene chiesta oggi nei nostri confronti. Nei giorni scorsi vi ho elencato i nomi dei magistrati o ex magistrati, che mi hanno querelato, o hanno querelato il mio editore, perché innervositi dalle critiche ricevute. Tutti nomi altisonanti: l’ultimo è stato Gian Carlo Caselli (col quale, oltretutto, avevo avuto in passato un rapporto quasi di amicizia) prima di lui Di Matteo, Scarpinato, Lo Forte, Gratteri, Davigo, Esposito (2: padre e figlio) e qualcun altro che ora non mi viene in mente (e mi scuso per l’eventuale omissione). Adesso si aggiunge Cantone. Dei nomi di grido mi mancano – a occhio – solo Ingroia, Greco, Prestipino e Melillo. Credo che l’iniziativa di Cantone vada interpretata nello stesso modo nel quale ho interpretato le querele: un sistema per intimidire il giornalista, metterlo in guardia, spingerlo a mollare la presa. Il problema per me è complicato: personalmente sono molto favorevole all’idea di lasciarmi intimidire e mollare la presa. Sempre. Io tendo a privilegiare il primum vivere a valori francamente molto vaghi ed effimeri, e inutili forse, come il coraggio. Il coraggio a me pare estetica. Il problema è che essendo il Riformista l’unico quotidiano cartaceo (radio radicale è una radio) che si occupa costantemente e criticamente delle vicende della magistratura, e che non concede mai nessuno sconto al partito dei Pm ( e alla loro rappresentanza parlamentare, che in questa fase è il dominus del governo) non possiamo permetterci il lusso di lasciarci intimidire. Se sparissimo anche noi, cosa resterebbe della libertà di stampa? Per finire vorrei fare due domande a Cantone e ai suoi colleghi. Noi abbiamo denunciato dei fatti gravi. Compreso il silenziamento intenzionale del trojan di Luca Palamara (un atto evidente di intralcio alle indagini). Quantomeno su questo fatto e sul ritardo nella consegna degli whatsapp di Palamara non abbiamo ricevuto nessuna smentita. Qualcuno, nelle Procure, ha aperto un’inchiesta, magari piccola piccola, magari ben strutturata allo scopo di farsi archiviare al più presto, ma almeno una inchiestuccia? A me non risulta. E invece risulta che nel corpo della magistratura ci sono molti malumori. Migliaia di magistrati, che lavorano sodo e correttamente, sono un po’ indignati per il modo nel quale il Palamaragate viene messo sotto il tappeto. Qualche giorno fa una cinquantina di magistrati hanno scritto a Palamara per chiedergli di renderli noti lui gli Sms, visto che la magistratura non li rende noti. E’ abbastanza grave, no? Gli stessi magistrati non si fidano più della magistratura e cercano le verità per vie private. Gli piace questa cosa a Raffaele Cantone? Seconda domanda, questa rivolta alla procura di Firenze, che è quella designata a indagare sulla procura di Perugia. Capisco che il vostro organico, al momento, è impegnato nella caccia a Renzi e che è una caccia difficilissima perché non si trova uno straccio di indizio per nessun reato. E oltretutto Renzi rema contro. Però almeno un sostituto – magari il più giovane – non potrebbe essere distaccato, anche solo per una settimana, per cercare di capire che è successo a Perugia nell’estate del 2019?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Fabrizio Boschi per “il Giornale” il 10 aprile 2021. Da Mani pulite in poi il sistema della custodia preventiva in carcere ha assunto toni sempre più barbari, tanto che ha lasciato dietro di sé una lunga scia di morti. La triste storia di Sabatino Trotta (nel tondo), dirigente del dipartimento di salute mentale della Asl di Pescara, arrestato mercoledì scorso per corruzione nell' ambito di un' inchiesta su presunti appalti truccati, che a poche ore dalla sua detenzione si è suicidato in carcere, fa riflettere. Aveva 55 anni, tre figli e una vita fino a quel momento esemplare. Vox populi parla di un uomo buono, che spesso prestava gratuitamente la sua attività di medico chirurgo (specialista in psichiatria e abilitato nella psicoterapia), un atteggiamento rigoroso e un comportamento onesto, fondatore della onlus Cosma. Il presidente della Regione Abruzzo, Marco Marsilio, Fratelli d' Italia, stesso partito del medico che si era candidato alle Regionali 2019, è «shoccato»: «Una persona di assoluto valore, etico e civile». Eppure, il medico è stato trascinato in questa brutta indagine avviata nell' estate 2020 e arrestato, portato in carcere: secondo l' accusa avrebbe beneficiato di viaggi, gioielli e Rolex, al fine di pilotare una gara d' appalto, indetta nel gennaio 2020, per la gestione di residenze psichiatriche extra ospedaliere. Una gara da 11,3 milioni di euro che lo psichiatra avrebbe fatto vincere alla cooperativa «La Rondine» scegliendo lui stesso, in quanto pubblico ufficiale, gli esperti della commissione giudicatrice. Finiti agli arresti anche due dirigenti della cooperativa. Un blitz in piena regola, disposto dal gip Nicola Colantonio, che ha impiegato 70 agenti della Finanza per arrestare tre incensurati. Trotta alle 16 è stato trasferito nel carcere di Vasto e posto in isolamento (non sottoposto a sorveglianza a vista) per via delle norme anti-Covid. Sottoposto a visita psicologica l'equipe del carcere ha scritto solo che «se avesse proseguito la carcerazione avrebbe avuto bisogno di un colloquio psicologico». La sera, dopo aver visto il Tg3 regionale e sentito il suo nome accostato ad una accusa così infamante, non ha retto il colpo e verso le 23,30 si è tolto la vita impiccandosi con il laccio della sua tuta alla finestra della cella. Forse una leggerezza commessa dalla polizia penitenziaria che lamenta carenza di organico: «Non era possibile prevedere il gesto terribile, auspichiamo non vengano immaginate responsabilità da parte degli insufficienti poliziotti in servizio». Anche la direttrice dell' istituto Giuseppina Ruggero cerca giustificazioni: «Da psichiatra ha mostrato una tranquillità terribile e purtroppo ci sono caduta. Ripenso a tutte le parole che mi ha detto e voglio capire dove mi ha ingannata». Trotta alla fine del colloquio avrebbe detto sardonicamente: «Direttrice, mica penserà che io mi voglia suicidare? Io c' ho tre splendidi figli». Dopo cena ha fatto richieste «tranquillizzanti»: una bottiglia d' acqua e batterie per il telecomando. Ha lasciato poi un biglietto alla moglie e ai tre figli. La Procura di Vasto ha aperto un fascicolo contro ignoti. In molti si chiedono come mai non si sia ricorso agli arresti domiciliari per un incensurato che mai ha avuto problemi con la legge. Spesso per i pm non è tanto il pericolo di fuga o l' inquinamento delle prove la ragione per la quale ordinano il carcere preventivo, quanto la volontà di spaventare l' indagato e costringerlo a confessare. A volte anche cose che non sa. Spesso questi arresti si basano su intercettazioni decontestualizzate che possono dare adito a fraintendimenti. In questo caso il contenuto di una delle intercettazioni chiave che hanno portato all' arresto è stato: «Tutto pilotato. È tutto pilotato perché deve essere così». Il legale della famiglia Trotta, Antonio Di Giandomenico commenta: «C' è stato un accanimento prematuro ed eccessivo».

La delibera di assunzione è anomala. Il Comune di Milano oscura i titoli del capo dei vigili, Ciacci aveva i requisiti? Paolo Comi su Il Riformista il 21 Aprile 2021. Il gabinetto del sindaco di Milano ha chiesto che venga presentata una querela – a tutela dell’Amministrazione – nei confronti degli organi di informazione, fra cui Il Riformista, che nei giorni scorsi, dopo il servizio televisivo delle Iene, si sono occupati della nomina del comandante della Polizia locale del capoluogo lombardo. Ad assistere Beppe Sala, come si legge nella delibera di giunta, gli avvocati della civica Avvocatura. Le spese di lite, prosegue la delibera, sono al momento “indeterminabili”. Nell’attesa che i magistrati decidano se nei vari articoli sono stati posti in essere “fatti lesivi” per l’immagine del comune di Milano e di Sala, sarebbe interessante sapere se Marco Ciacci aveva i titoli per ricoprire l’incarico di comandante della polizia locale di Milano. Nella delibera di assunzione, firmata da Sala, i titoli posseduti da Ciacci risulterebbero essere stati “omissati”. L’ex responsabile della sezione di polizia giudiziaria della polizia di Stato presso il Palazzo di giustizia di Milano venne scelto da Sala, a settembre del 2017, per sostituire l’allora comandante Antonio Barbato, dimessosi dall’incarico per circostanze mai del tutto chiarite. I titoli “omissati” sono una singolarità, trattandosi di un incarico pubblico. La nomina di Ciacci, che in passato aveva coadiuvato le indagini di Ilda Boccassini nei confronti di Silvio Berlusconi nel procedimento Ruby e che, divenuto comandante della polizia locale, era intervenuto in un sinistro stradale mortale, dove non vennero fatti accertamenti tecnici, causato proprio dalla figlia della pm antimafia, non era stata effettuata ai sensi dell’articolo 110 del Testo unico degli enti locali del 2000. La procedura utilizzata era stata quella del “comando”. La differenza non è di poco conto. I Comuni possono conferire, fornendone esplicita motivazione, incarichi dirigenziali in dotazione organica a soggetti esterni con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, in possesso di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nell’Amministrazione. Queste persone devono aver svolto attività in “organismi ed enti pubblici o privati o aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali”, o “aver conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e/o scientifica desumibile dalla formazione universitaria e post-universitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete e qualificate esperienze di lavoro, maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza, o provenienti dalle aree della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato”. La ratio della norma è chiara: si possono assumere, a tempo determinato, professionalità che non sono in quel momento reperibili all’interno dell’Amministrazione. Ed infatti, il regolamento del Comune di Milano prevede che un incarico dirigenziale apicale, come quello di comandante della polizia locale, possa essere affidato a un soggetto esterno all’ente soltanto dopo avere esperito una ricognizione interna, volta ad accertare la mancanza di figure qualificate e idonee ad occuparlo. Nel caso del comandante della polizia municipale sarebbe stato difficile assumere un “esterno” essendo presenti all’interno del Comune di Milano diversi dirigenti in possesso di tutti i requisiti previsti. Dunque, nessuna ricognizione e assunzione tramite l’istituto del comando, con richiesta all’allora capo della polizia Franco Gabrielli di “prestare” Ciacci. Il “comando”, però, è per un periodo limitato di tre anni, durante il quale l’amministrazione provvede a “rimborsare” i costi sostenuti per lo stipendio al “datore di lavoro” originario. In questo caso il Ministero dell’Interno. Il paletto dei tre anni è stato “by passato” da Sala lo scorso anno, disponendo per Ciacci una proroga di un altro anno, fino al prossimo mese di settembre. Se l’assunzione fosse stata effettuata con l’articolo 110, invece, poteva durare per l’intero mandato del sindaco, senza bisogno di proroghe. Il Comune di Milano ha diramato una nota sul disinteresse di Ciacci per la polizia locale di Milano. “Ciacci era già dirigente della polizia di Stato e responsabile della Sezione di polizia giudiziaria, per cui il comando come dirigente della polizia locale non ha certo rappresentato per lui un avanzamento di carriera.” I maligni fanno presente, però, che Ciacci prima di diventare comandante della polizia locale guadagnava circa 70.000 euro l’anno, che ora sono diventati 140.000. Un sacrificio sopportabile. Paolo Comi

Il cambio al vertice dei vigili urbani. Ci fu accordo tra Sala e la Procura? Il sindaco deve fare chiarezza. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Aprile 2021. Questa volta non c’è moratoria per Beppe Sala, e non c’è un presidente del consiglio che venga a Milano per porgere i propri complimenti alla Procura della repubblica. La tegola c’è ed è pesante. Certo, è solo giornalistica, e oltre a tutto di un giornalismo di nicchia, come è quello delle Iene. Ma molto popolare. Tanto che se ne sta parlando parecchio a Milano, pur se non sui “grandi” giornali, che mantengono un atteggiamento ancora piuttosto british, con la deferenza dovuta al primo cittadino. In fondo non è neanche indagato, questa volta. Ma la tegola c’è. È la storia di quel licenziamento del capo dei vigili urbani Antonio Barbato nell’estate del 2017 e del velocissimo rimpiazzo del medesimo con il capo degli agenti del Palazzo di giustizia Marco Ciacci, braccio destro di Ilda Boccassini. C’è qualcosa di opaco in quella vicenda, protestano le opposizioni in consiglio comunale, e chiedono al sindaco di dare spiegazioni pubbliche. Che lui non dà, per non concedere palcoscenici agli oppositori politici, ma anche perché la situazione è molto imbarazzante, come lui stesso ha dimostrato sfuggendo nervosissimo davanti al giornalista delle Iene che lo aveva braccato con una certa insistenza, come è nello stile (un po’ scortese) della trasmissione. Certo, siamo in campagna elettorale, e il sindaco ha già messo su addirittura otto squadre per giocare al raddoppio. Non ha proprio bisogno di avere casini di questo tipo tra i piedi. Gli è già andata bene una volta, ed era molto più pesante, perché la tegola era giudiziaria, e riguardava il suo ruolo e alcuni suoi comportamenti nella veste di commissario di Expo. Una vicenda che va raccontata tutta, anche perché, dalla lunga “Nota dell’amministrazione comunale” diffusa alla stampa domenica pomeriggio traspare una certa astuzia non degna degli uffici del primo cittadino. Per replicare ai sospetti avanzati dall’ex comandante dei vigili Antonio Barbato, il quale ha esplicitamente denunciato un accordo tra il Comune e la procura della repubblica per far entrare al suo posto Marco Ciacci, la nota sostiene che «la procura di Milano ha chiesto l’archiviazione per tutti i fatti connessi alla gestione dell’Expo nel gennaio 2016, oltre un anno e mezzo prima che scoppiasse il caso Barbato». In cosa consiste l’astuzia? Nel fatto che in quella richiesta di archiviazione non c’era affatto il nome di Sala, ma altri cinque indagati. E lasciamo perdere quel che è successo in quel periodo al palazzo di giustizia, con il conflitto Bruti Liberati-Robledo, proprio intorno ai fatti di Expo, quelli per cui il presidente del consiglio ha ringraziato per due volte il procuratore della repubblica. Rimane il fatto che, se è vero quel che dice Barbato, e che gli avrebbe riferito l’ex assessore alla sicurezza Carmela Rozza, sulla preoccupazione di Sala per l’inchiesta giudiziaria, tale da non poter rifiutare una richiesta della procura su Marco Ciacci, è perché era nel frattempo intervenuta la procura generale a sanare una grave ingiustizia. E cioè il fatto che si fosse consentito a un candidato alle elezioni comunali di avere una lunga moratoria, con le indagini messe su un binario morto fino a che lui non era stato eletto. Fino a che, non necessariamente “allo scopo di” farlo eleggere. Ma come si fa a non chiedere chiarezza? E siamo sicuri che, con il moralismo imperante anche nella laicissima Milano medaglia d’oro della resistenza, Beppe Sala sarebbe stato eletto sindaco, se si fosse saputo che era indagato per aver falsificato un atto pubblico? Perché del fatto che ci fosse un’inchiesta che lo riguardava tutti noi comuni mortali l’abbiamo saputo solo il 15 dicembre 2016, sei mesi dopo il suo ingresso a Palazzo Marino, quando la procura generale, che nel frattempo aveva avocato a sé l’inchiesta, evidentemente mostrando agli occhi di Matteo Renzi meno “sensibilità istituzionale”, aveva chiesto una proroga alle indagini. Ma l’estensore della “Nota” non demorde. Solo che trae dal ragionamento una conclusione sballata. Soprattutto perché pare ignorare il pesantissimo conflitto che proprio sulla vicenda giudiziaria di Beppe Sala ci fu tra procura della repubblica e procura generale. Semplificando rozzamente, l’una innocentista, l’altra colpevolista. E, se Barbato ha ragione, visto che non abbiamo mai visto una smentita dall’ex assessore Rozza, se amorosi sensi ci sono stati, non fu certo tra il sindaco e chi l’aveva indagato e aveva sostenuto l’accusa nei suoi confronti fino alla condanna (e in seguito la prescrizione). Per dovere di cronaca, ecco le conclusioni su questo punto della Nota: «Dunque è del tutto evidente che, poiché la procura di Milano ha chiesto l’archiviazione molto prima che Sala diventasse sindaco e la procura generale ha invece portato avanti il rinvio a giudizio nei suoi confronti, la tesi dello “scambio di favori” risulta totalmente fantasiosa, infondata e a dir poco pretestuosa, quindi diffamatoria. E verrà perseguita in sede legale». Finale non molto elegante, pensare di chiedere a un giudice se è vero che un suo collega si è messo d’accordo con un sindaco per imbrogliare un vigile urbano. Ma sono tanti gli elementi di questa storia che non convincono. Anche perché gli interessati non rispondono, né in sede giornalistica né in quella politica. Ci hanno già provato a palazzo Marino nel passato e stanno insistendo in questi giorni. Il capogruppo in consiglio di Forza Italia Fabrizio De Pasquale, che vorrebbe vedere in volto (o in collegamento) il sindaco per chiarire come mai alle dimissioni di Barbato del 10 agosto sia seguita l’11 agosto la fulminea richiesta del Comune al questore per avere l’autorizzazione al comando di Marco Ciacci senza fare un bando. Analoghe richieste della presenza in aula del primo cittadino sono avanzate da Andrea Mascaretti, capogruppo di Fratelli d’Italia e il consigliere della Lega Max Bastoni. Sono tante le spiegazioni che la città si aspetta. Per esempio, se Antonio Barbato, per esser finito nelle intercettazioni di un’inchiesta di mafia in cui sarà sentito dalla pm Boccassini solo come persona informata sui fatti, non era più adatto a dirigere la polizia municipale, perché dopo le dimissioni è stato spostato in una società partecipata del Comune con lo stesso ruolo e le stesse mansioni? Insomma, era degno o indegno? E siamo così sicuri che il suo successore Marco Ciacci non abbia tratto, come dice la Nota, nessun vantaggio nel passare dalla polizia di Stato a quella locale? Neanche il vantaggio economico di veder triplicare la propria retribuzione? E siamo sicuri che questo passaggio così vantaggioso non sia stato anche un premio per il passato e anche in vista del futuro?

La storia dell'ex capo dei vigili di Milano Barbato. Le Iene News il 02 aprile 2021. Nel 2017 l’allora capo della polizia municipale di Milano, Antonio Barbato, si dimette dopo esser stato travolto mediatamente da uno scandalo. Al suo posto il Comune nomina Marco Ciacci, fino ad allora in servizio presso la Procura. Ce ne parla Fabio Agnello. “Ho vissuto una storia molto brutta, che nessuno dovrebbe vivere in un paese come l’Italia”. A parlare con il nostro Fabio Agnello è Antonio Barbato, che fino al 2017 era il comandante della polizia municipale di Milano. In quell’anno però si dimette, dopo esser stato travolto mediatamente da uno scandalo. Uno scandalo che ipotizzava un presunto coinvolgimento perfino delle cosche della criminalità organizzata: Barbato viene accusato di aver incontrato dei mafiosi al fine di far pedinare un vigile sotto il suo comando. Una notizia che ha fatto discutere molto in quei giorni e che è finita al centro della cronaca cittadina. “Io sono stato sentito in qualità di testimone”, ci racconta Barbato. In quell’inchiesta infatti l’ex comandante dei vigili non venne indagato, ma sentito come persona informata sui fatti. Ma sulla stampa le cose vengono presentate in modo molto diverso. “Questa è una cosa che mi fa impazzire e non mi fa dormire la notte, sapendo quello che c’è dietro a questa storia”, ci dice Barbato: “Cioè la sostituzione del comandante Barbato con l’attuale comandante Marco Ciacci”. Al posto di Antonio Barbato il Comune, guidato dal sindaco Beppe Sala, nomina Marco Ciacci, che fino a quel giorno era a capo della polizia giudiziaria della procura di Milano. Possibile che ci sia qualcosa che non torna in questo cambio alla guida della Polizia locale della città? La Iena ce ne parla nel servizio in testa a questo articolo.

Il patto tra Procura e sindaco. Scandalo Expo, così il sindaco Sala si è piegato alla Procura (e fu salvato…). Frank Cimini su Il Riformista il 7 Aprile 2021. Stop and go. Il bastone e la carota. La magistratura da tempo è consapevole di poter aumentare il potere della categoria e anche quello del singolo magistrato sia facendo le indagini che non facendole. A seconda delle convenienze e delle opportunità con tanti saluti al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale tanto celebrato nei convegni e nei comunicati stampa. Bisogna raccontare di nuovo la storia di Expo, della moratoria sulle indagini per approdare a uno “strano” incidente stradale con un morto e senza alcol test e test antidroga, una storia da nomenklatura moscovita sulla quale i giornaloni oni-oni scelsero di autocensurarsi. Beppe Sala il sindaco di Milano, pronto a ricandidarsi e a essere confermato come primo cittadino per mancanza di avversari decenti al di là dell’alleanza con i Verdi europei che in Italia e in città non esistono, fu uno dei principali beneficiari della moratoria decisa dalla mitica procura che fu di Mani pulite per salvare l’evento. Senza fare gara pubblica, Sala deus ex machina di Expo affidò la ristorazione di due padiglioni a Eatitaly di Oscar Farinetti senza che in un primo momento nessuno dicesse niente. Poi l’anomalia chiamiamola così fu segnalata dall’Anac all’epoca diretta da Raffaele Cantone. Sala venne indagato per abuso d’ufficio e non fu mai interrogato fino alla richiesta di archiviazione. Così ebbe modo di candidarsi a sindaco e di essere eletto nonostante il gigantesco conflitto di interessi tra amministratore di Expo e Comune di Milano che qualcosa da spartire con l’evento l’aveva. La procura nella richiesta di archiviazione ammetteva che di fatto Sala aveva favorito Farinetti ma senza averne l’intenzione. Insomma una sorta di “a sua insaputa” di scajolana memoria. L’accusa di abuso d’ufficio venne archiviata dal gip. Il giudice che firmò il provvedimento era stato tra i vertici del Tribunale che sui fondi di Expo giustizia avevano deciso di non fare gare pubbliche per l’affidamento dei fondi, ricorrendo ad aziende «in rapporti di consuetudine con la pubblica amministrazione». Una di queste aziende aveva sede nel paradiso fiscale del Delaware e ancora oggi non sappiamo a chi appartenesse. Ma possiamo affermare tranquillamente che la società non era di Silvio Berlusconi. Insomma Sala fu salvato anche perché aveva assunto la stessa iniziativa dei giudici, oltre che per non far saltare del tutto l’evento. Sui fondi di Expo giustizia nacque un fascicolo di indagine che per il sospetto fossero coinvolti dei giudici in servizio a Milano fece il giro di diverse procure, Brescia, Venezia, Trento. E qui venne tutto archiviato senza neanche iscrizioni al registro degli indagati e interrogatori perché cane non mangia cane. Qui tornano in mente le parole dell’allora premier Matteo Renzi che per ben due volte ringraziò la procura che aveva dimostrato senso di responsabilità istituzionale. Per aver falsificato la data della sostituzione di due componenti di una commissione aggiudicatrice Sala venne indagato solo perché era intervenuta la procura generale della Repubblica avocando l’inchiesta. La procura aveva fatto finta di niente. Alla fine il sindaco è stato condannato sia in primo grado sia in appello a sei mesi mutuati in una sanzione pecuniaria. Nel frattempo scattava la prescrizione alla quale il primo cittadino non ha legittimamente rinunciato. A nessun imputato si può chiedere né tantomeno imporre di farlo. È un principio di civiltà. In tutta questa storia non possiamo non ricordare che la giunta Sala designò a capo dei vigili urbani Marco Ciacci fino ad allora capo della polizia giudiziaria. Ciacci una sera dell’ottobre di tre anni fa piomba letteralmente sul luogo di un incidente stradale dove era stato investito, morendo, un medico. Responsabile dell’investimento con il proprio ciclomotore era stata Alice Nobili figlia dei due procuratori aggiunti Ilda Boccassini e Alberto Nobili. Come detto all’inizio niente alcol test né test antidroga. Risarcendo il danno (la somma sicuramente congrua è coperta legittimamente da clausola di riservatezza) la ragazza è stata condannata tramite patteggiamento a nove mesi per omicidio colposo. I giornali e le agenzie di stampa non diedero neanche la notizia della condanna. Pensate a cosa avrebbero e non avrebbero scritto nel caso in cui Piersilvio Berlusconi avesse tirato sotto un pedone. Ci pensò un povero blog, poi qualche quotidiano minore tornò sulla vicenda. Adesso grazie alla trasmissione delle Iene si ritorna a parlare della nomina di Ciacci. Sarebbe cosa buona e giusta che si riparlasse pure di Expo, celebrato come una sorta di miracolo economico ma di cui non conosciamo ancora i conti. Nonostante ciò i giudici per la storia del falso hanno riconosciuto a Sala l’attenuante di aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale. Quel falso materiale e ideologico nella vicenda intricata e coperta da moratoria di Expo sarà sicuramente una quisquilia ma siamo sicuri spetti ai giudici affermare che l’evento fu un fatto tutto sommato positivo? Forse sì forse no. Aspettiamo i conti, la pipì fuori dal vaso non va bene mai soprattutto se fatta dai giudici chiamati a condannare o assolvere. E basta.

Lo scoop delle Iene sul caso Barbato. La Procura di Milano ha commissariato Sala: capo dei vigili cacciato e sostituito dall’uomo di fiducia della Boccassini. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Aprile 2021. È vero che nel 2017 nella città di Milano ci fu un accordo sotterraneo tra il sindaco, il procuratore della repubblica e un ex leader di Mani Pulite, per far fuori il comandante dei vigili urbani e sostituirlo con un agente di polizia giudiziaria, uomo di fiducia di Ilda Boccassini? E per quale motivo il Comune di Milano avrebbe dovuto essere tenuto a balia dalla polizia di Stato, o addirittura dall’antimafia? È la vittima in persona, quell’Antonio Barbato che fu braccato dai giornalisti e spintonato dal sindaco e dall’assessore finché stremato non accettò di lasciare il suo posto di capo della polizia urbana alla persona segnalata dalla procura, a raccontarlo. Alla fine, anche con un nodo in gola, al ricordo di quel che gli capitò. Una bomba di ventisette minuti, lanciata il venerdì di Pasqua dal programma delle Iene su una Milano già deserta alla vigilia dei tre giorni di zona rossa, destinata a un potente scoppio, anche se ritardato dai giorni di festa. Se scoppio ci sarà, visto il timore reverenziale (chiamiamolo così) che ormai pervade le redazioni al solo sentire i nomi di alcuni protagonisti. Di sicuro ci saranno le reazioni politiche da parte delle opposizioni a Palazzo Marino, già preannunciate da diversi consiglieri. Se fossimo in un’aula giudiziaria, e se ragionassimo con il metro di certi pubblici ministeri, alla sbarra ci sarebbero: Il sindaco di Milano Beppe Sala, il procuratore Francesco Greco, il presidente della “Commissione legalità” del Comune, Gherardo Colombo, ex divo di mani Pulite, l’ex assessore alla sicurezza Carmela Rozza. E se quanto raccontato nel super-documentato servizio delle Iene fosse anche solo rilanciato da una bella campagna stampa in stile Repubblica (le dieci domande) – Il Fatto (corsivo travagliesco) – Domani (imitazione degli altri due), un bel reato associativo agli imputati non lo leverebbe nessuno. Lasciamo parlare i fatti, un po’ come se nel processo italiano ci fosse davvero il rito accusatorio e la prova si formasse nel dibattimento. Il giornalista delle Iene Fabio Agnello ci ha lavorato per mesi, lo si capisce, e non ha tralasciato alcun indizio, né dimenticato di sentire alcun testimone. La parte lesa in primis, Antonio Barbato. Il quale racconta che, quando nel 2016 vinse il concorso e diventò comandante della polizia municipale milanese, l’assessore alla sicurezza Carmela Rozza (oggi consigliera regionale del pd) gli disse che era stato molto fortunato. Perché? Perché c’era stata una pressione da parte della Procura della repubblica perché a quel ruolo fosse nominato un altro, ma che il sindaco Sala non aveva potuto far niente perché ormai il posto era già stato assegnato a lui. L’ “altro”, quello segnalato dalla procura, si chiamava Marco Ciacci, era un agente di polizia giudiziaria assegnato al procuratore aggiunto Ilda Boccassini, allora capo del dipartimento antimafia (andrà in pensione nel 2019). A pensarci questo aspetto della vicenda è un po’ inquietante. All’interno del corpo dei vigili urbani milanesi esistevano all’epoca, a quanto documentato anche in una relazione dell’Anci, l’associazione dei Comuni Italiani, diverse posizioni adatte a quel ruolo, tredici per la precisione. E non va dimenticato che in passato Letizia Moratti e tutti gli assessori della sua giunta furono condannati dalla Corte dei Conti proprio per non aver eseguito una ricognizione interna al Comune prima di nominare dirigenti esterni. Può anche essere una regola sbagliata, ma esiste. In ogni caso, per poter collocare a quel posto dirigenziale l’appartenente a un’altra amministrazione (come la polizia di Stato), il sindaco Sala avrebbe dovuto procedere a indire un altro bando. E forse chi in procura gli aveva chiesto quel favore avrebbe dovuto saperlo. In ogni caso in quel 2016 non successe niente e Ciacci rimase al proprio posto. Comunque sarà il caso, un anno dopo, a far virare il vento. E il caso porterà il comandante Barbato proprio a testimoniare, come persona informata dei fatti, davanti alla pm Boccassini. Certo, lui avrebbe preferito essere convocato per altri motivi, per un suo esposto. Perché, da bravo capo, si era allarmato sui comportamenti di un suo sottoposto, un sindacalista della Cisl di nome Mauro Cobelli, che esagerava nella richiesta di permessi , che capitavano quasi sempre di sabato e domenica piuttosto che in feste come quella del 2 giugno o dell’8 dicembre. Cobelli finirà in seguito rinviato a giudizio in un’inchiesta giudiziaria di nome “multopoli”, perché sospettato di far annullare le contravvenzioni agli amici. E ora, intervistato dalle Iene, prende tempo nel dare le risposte, senza trovare il modo di spiegare il perché di tutti quei permessi. Comunque il comandante Barbato aveva presentato il suo bell’esposto alla procura della repubblica di Milano che, al contrario di quanto accaduto in altre città dove le inchieste sui “furbetti del cartellino” spopolavano (a volte a sproposito) con arresti e licenziamenti, non aveva preso alcuna iniziativa. Fu a quel punto che la buona sorte del comandante Barbato cominciò a girare storta. Pensò infatti il tapino di chiedere consiglio a un altro sindacalista, Domenico Palmieri, un leader della Cisl molto conosciuto che lavorava in Provincia. I due si videro e si telefonarono. Palmieri la buttò lì: perché non lo fai pedinare da un investigatore privato? E lo sventurato rispose: meriterebbe questo e altro! Fu la fine. Palmieri era intercettato in un’inchiesta milanese chiamata “mafia appalti” (come quella siciliana che potrebbe aver segnato la fine di Paolo Borsellino), condotta da Ilda Boccassini, la quale sentì subito Antonio Barbato come persona informata sui fatti (una mezzoretta in tutto, ricorda lui), e la cosa pareva finita lì. Invece no, perché aleggiava sempre qualcosa di strano nell’aria. E perché qualcuno soffiò ai giornali la storia del (mancato) pedinamento. Parte da subito Repubblica, “Intercettati dall’antimafia, Barbato nei guai”, e poi “Milano, vigile pedinato dagli uomini del clan”, eccetera. L’assessore Rozza comincia a fare pressioni perché il comandante si dimetta. Lui non capisce: ma che cosa ho fatto? Non ho neanche poi raccolto quel consiglio sul pedinamento. Ed ecco che la stessa assessore –è il racconto di Barbato già reso pubblico in altre occasioni e mai smentito- gli dice chiaramente che il sindaco Sala sta passando un brutto momento perché indagato per reati connessi all’Expo e quindi non ci si può permettere di fare uno sgarbo alla Procura della repubblica. In poche parole: devi lasciare il posto a Ciacci. Questo è quanto lui intuisce, e la storia gli darà ragione. La situazione è molto delicata e Sala è in una posizione quanto meno imbarazzante. Perché la Procura di Francesco Greco vuol lasciar cadere le accuse nei confronti del sindaco e questo determinerà un clima conflittuale con la procura generale (proprio come nei giorni scorsi per il processo Eni), che avocherà a sé l’inchiesta fino a che il sindaco di Milano sarà condannato per falso ideologico e materiale e infine godrà di una prescrizione cui non rinuncerà. Ma cui aveva diritto, anche se la cosa non era piaciuta a Marco Travaglio, che da allora lo dardeggia ogni volta in cui è possibile. Ma sulla vicenda Barbato non fa certo una bella figura. Anche perché le parti più brutte di tutta la storia sono quelle che arrivano dopo. Il sindaco è in difficoltà, perché Barbato ha vinto il concorso, e nello stesso tempo, come si fa a dire di no a una richiesta della procura? Così passa la patata bollente a qualcuno che il Palazzo di giustizia lo conosce bene, Gherardo Colombo. L’ex pm di Mani Pulite è infatti il presidente di una Commissione legalità del Comune, di cui, se mi si consente, non si capisce perché debba esistere, quasi ci fosse il bisogno di controllare, in aiuto alla magistratura, se Palazzo Marino commette reati. Così Gherardo Colombo e la sua commissione, in nome della legalità, mostrano il pollice verso che porterà infine il povero Barbato alle dimissioni. Ma non dimentichiamo che quello delle Iene è un programma satirico. E come tale non può non notare il linguaggio usato nella condanna a morte. Un linguaggio quanto meno ipocrita. Ecco il motivo della sentenza della Commissione legalità: “il solo ipotizzare di poter accettare l’ipotesi di farlo seguire… è il contrario della correttezza”. Cioè Barbato, nella telefonata con il sindacalista Barbieri, di cui ignorava (come tutti) la vicinanza a una cosca, avrebbe ipotizzato di poter accettare un’ipotesi. Naturalmente, inseguito dal giornalista delle Iene, Colombo non dà oggi nessuna spiegazione per quella decisione, così come Sala, nervosissimo. Viene anche rimandata l’immagine dei quei giorni, quando lui diceva che Barbato l’aveva fatta grossa, mentre alle sue spalle il vigile Cobelli rideva. Tutti oggi paiono voler dimenticare. Tranne la vittima. Che ricorda. Volete sapere come finisce la storia? Attenzione alle date. Barbato si dimette il 10 agosto. Il giorno dopo, 11 agosto, Franco Ciacci ha già ottenuto il nulla osta del questore ed è il nuovo comandante dei vigili di Milano. Senza ricognizione interna al Comune e senza bando di gara. Mai successo. Barbato aspetta giustizia. “Si erano messi tutti d’accordo”, dice con la voce rotta dal pianto. Aspetta giustizia. Non l’ha avuta dal sindaco Sala, non l’ha avuta dal procuratore Greco, non l’ha avuta dal presidente della legalità Colombo. Ha inviato tutta la sua documentazione all’Anac, che ha inviato una relazione alla procura di Brescia. Chissà. Non avendo molta fiducia in una nuova campagna di stampa che vada in direzione contraria alla gogna che aveva subito quattro anni fa, spera che tutti i consiglieri di opposizione di Palazzo Marino, che ci avevano già provato invano allora, si facciano sentire oggi. In una situazione particolare, con il procuratore Greco che sta per andare in pensione e il sindaco Sala ricandidato alle prossime elezioni. Ma, chiunque sarà il prossimo sindaco di Milano e chiunque sarà il prossimo procuratore capo, non sarebbe ora di separare le loro carriere?

Giorgio Gandola per "La Verità" il 13 aprile 2021. C'è posta per la Procura di Brescia. Fra i documenti e gli esposti di routine, è arrivata dall'Anac (l'Agenzia nazionale anticorruzione) la segnalazione relativa a una vicenda che sta facendo rumore a Milano. Titolo del dossier: «Nomina illegittima del comandante del corpo di polizia municipale, senza selezione pubblica, senza titolo e con stipendio maggiorato». È il caso sollevato dall'ex comandante dei ghisa Antonio Barbato e da un'inchiesta del programma Le Iene. La storia riguarda anche il successore Marco Ciacci, agita i sonni del sindaco Giuseppe Sala e potrebbe avvelenargli la campagna elettorale. Barbato fu costretto alle dimissioni nel 2017 dopo una campagna mediatica micidiale. Fu accusato sui giornali (ma mai indagato) perché in un colloquio telefonico l'ex sindacalista Domenico Palmieri gli consigliò di far pedinare un vigile che faceva parte dei cosiddetti «furbetti del cartellino» (aveva utilizzato 60 permessi sindacali in modo irregolare, anche il 2 giugno e l'8 dicembre). Barbato rispose: «Meriterebbe questo e altro». Non fece pedinare nessuno ma la frase gli è costata la carriera; il dialogo era intercettato nell'ambito di un'inchiesta sulle infiltrazioni delle cosche mafiose nella metropoli, Palmieri sarebbe stato arrestato. L'ex comandante dei vigili non era coinvolto, passava di lì, ma pagò con la defenestrazione. Allora la pietra tombale sui suoi tentativi di difesa venne posta dal Comitato per la legalità e la trasparenza presieduto dall'eroe di Mani pulite, Gherardo Colombo, che sentenziò: «Il solo ipotizzare di poter accettare l'ipotesi di far pedinare un collega depone in senso avverso alla correttezza che un comandante deve avere». Il sindaco Sala sembrava non aspettare altro: parere negativo il 10 agosto, cambio al vertice l'11 agosto con la nomina di Ciacci. Tutto in una notte senza ricognizione interna per verificare l'esistenza di analoghe professionalità (secondo l'Anci c'erano 13 posizioni adatte al ruolo) e senza concorso. È facoltà del sindaco non fare il bando, ma in passato Letizia Moratti e gli assessori della sua giunta furono condannati dalla Corte dei conti per non aver eseguito «la ricognizione interna» prima di nominare dirigenti esterni. Il nuovo numero uno dei vigili era un esterno di prestigio, ex responsabile della polizia giudiziaria in procura, collaboratore di Ilda Boccassini, paracadutato con un blitz a Ferragosto. Al di là delle modalità, è l'accusa di Barbato a fare rumore: «La mia sostituzione era per far sì che Sala esaudisse un desiderio della Procura, considerando anche le inchieste giudiziarie a cui era stato sottoposto il sindaco. La gogna mediatica nei miei confronti serviva a velocizzare l'operazione di nomina di Ciacci. Si erano messi d'accordo per mandarmi via». Nel programma Le Iene, Barbato aggiunge che l'allora assessore alla Sicurezza, Carmela Rozza, gli disse: «Bisogna mettere Ciacci perché lei sa in che posizione giudiziaria è il sindaco, non possiamo permetterci di non esaudire la richiesta della Procura». Nel periodo di Expo, il deus ex machina Sala fu indagato per abuso d'ufficio (aveva affidato due padiglioni della ristorazione direttamente a Oscar Farinetti) e archiviato. Poi fu condannato a sei mesi con prescrizione per un appalto. Il dirottamento delle inchieste a Francesco Greco e Boccassini portò allo scontro fra il procuratore Edmondo Bruti Liberati e Alfredo Robledo, conclusosi con l'allontanamento di quest'ultimo. Ricordando quel braccio di ferro scrive Luca Palamara: «Se cade Bruti, cade il Sistema». Nel periodo dell'Expo per due volte il premier Matteo Renzi rese pubblico tributo alla Procura di Milano per «sensibilità istituzionale». La storia è intricata, le opposizioni chiedono a Sala di spiegare in consiglio comunale ma lui non è ancora uscito allo scoperto. Max Bastoni (Lega): «Sala deve fugare ogni sospetto di scambio di favori». Fabrizio De Pasquale (Forza Italia): «Perché non ha voluto valutare più figure? Il sindaco abbia il coraggio di affrontare un dibattito democratico». Ciacci è un funzionario noto: indagò sulle cene eleganti ed è stato teste d'accusa nel processo Ruby contro Silvio Berlusconi. Da capo dei ghisa, nel 2018 si è occupato personalmente di un incidente stradale in cui un medico fu investito da una ragazza in motorino e morì. La responsabile dello scontro, condannata per omicidio colposo, era Alice Nobili, figlia di Boccassini e dell'ex marito pm, Alberto Nobili. Mai sottoposta ad alcoltest e a test antidroga. Ora saranno i pm bresciani a valutare se dentro il caso sollevato da Barbato ci sono irregolarità. Rimane una perplessità rispetto a quel «solo ipotizzare di poter accettare l'ipotesi» scandito dall'ex pm Colombo nel suo pronunciamento. Un anno lo stesso Comitato legalità e trasparenza non ha avuto niente da dire a Sala per la nomina di Renato Mazzoncini ad amministratore delegato di A2A, multiutility strategica con 12.000 dipendenti e un fatturato da 7 miliardi. Mazzoncini non aveva «ipotesi» pendenti, ma due inchieste a carico.

Lo scandalo. Marco Ciacci, il fedelissimo della Boccassini: teste contro Berlusconi, promosso senza concorso. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Aprile 2021. Lui c’era. Non appena è partita in quarta Ilda Boccassini, pubblico ministero antimafia distolta improvvisamente da indagini complesse sulla criminalità organizzata al nord per occuparsi dei peccati di Silvio Berlusconi, lui c’era. E fu un importante testimone dell’accusa al processo Ruby, il vicequestore Marco Ciacci, responsabile della polizia giudiziaria al Palazzo di giustizia di Milano, oggi comandante dei vigili urbani. Bisognerebbe chiedergli se quel salto di carriera, un distacco avvenuto senza bando dopo molte pressioni da parte di ambienti della procura sul sindaco Sala, sia stato per lui un premio. Certo non è routine, che un vicequestore di polizia diventi comandante dei vigili, improvvisamente uomo di potere in una città come Milano. Ma premio per che cosa? Per capacità, per lealtà? Nelle indagini sul presidente del Consiglio si era dato molto da fare, in quei mesi del 2010: intercettazioni, controlli e pedinamenti su chiunque entrasse nella villa di Silvio Berlusconi in occasione di una serie di cene, diciassette per la precisione. Marco Ciacci era stato l’uomo-macchina di Ilda Boccassini e responsabile della polizia giudiziaria. E forse sei anni dopo, quando per la prima volta si ipotizzò un suo passaggio dal palazzo del Piacentini di corso di Porta Vittoria alla piazzetta Beccaria (proprio quella dove tanto tempo fa Pietro Valpreda era stato sospettato di aver preso un taxi per percorrere venti metri fino a piazza Fontana per mettere la bomba) dove è la sede della vigilanza urbana, un premio lo meritava proprio. Certo, quando il vicequestore Marco Ciacci arriva davanti alle tre giudici della settima sezione del tribunale di Milano, quelle che Berlusconi definiva “comuniste e femministe”, e non era un complimento, parte nel racconto dal 3 settembre 2010, quando l’aggiustamento delle date è già stato fatto. Con tradizionale sistema ambrosiano, che poi è parte di quello nazionale così ben descritto da Sallusti e Palamara nel famoso libro. Se l’ex leader del sindacato delle toghe da Roma si è fatto cecchino, imbracciando il fucile nei confronti del presidente del Consiglio, a Milano ci fu un intero plotone di esecuzione in quei giorni del 2010. Lo stile ambrosiano aveva già regalato alla storia, dai tempi di Mani Pulite, ma ancor prima negli anni del terrorismo, una certa disinvoltura nell’applicazione delle regole. Competenza territoriale, diritti dell’indagato, obbligatorietà dell’azione penale, uso corretto della custodia cautelare: parole, parole, soltanto parole. Perché al sistema ambrosiano tutto era concesso. Lui era lì. Lo rivediamo impassibile nell’aula, bel ragazzo con il pizzetto alla moda, mentre snocciola l’elenco delle intercettazioni e parla di prostituzione, prostituzione, prostituzione. Silvio Berlusconi è rinviato a giudizio per concussione, prima di tutto, accusato di aver costretto un pubblico ufficiale che in realtà non si è mai sentito obbligato, a fare qualcosa contro i suoi compiti, cioè affidare la giovane Ruby a Nicole Minetti. Ma nel pentolone processuale pornografico dove si mescolano reati e peccati, parlare di sesso a pagamento è obbligatorio, se non si vuol far crollare l’interno impianto dell’accusa. Il vicequestore Marco Ciacci si presta. Viene trovata nella casa di una ragazza una lettera anonima scritta da un mascalzone che si riteneva in diritto di avvertire la madre sulla presunta professione della figlia? Ecco la prova che la ragazza sia una puttana. Certo, forse a quella ragazza sarebbe piaciuto ricevere dal vicequestore la stessa attenzione che lui dedicherà, qualche anno dopo, quando sarà già stato premiato con la nomina a comandante della polizia urbana di Milano, a un’incauta ragazza che di notte aveva investito e ucciso un pedone con il suo scooter. Era accorso subito sull’incidente, quella sera, il dottor Ciacci perché, aveva detto mentre un sindacato dei vigili protestava per quell’attenzione particolare, stava cenando in un ristorante vicino al luogo dell’incidente. Lodevole solerzia, la sua. Anche se poi nessuno aveva sottoposto la ragazza all’alcol-test, né l’aveva arrestata per omicidio stradale (reato che comunque noi consideriamo assurdo e sbagliato), come spesso succede se la persona investita decede. Lui c’era, al processo. E dichiarava di aver iniziato le investigazioni dal 3 settembre 2010, quando aveva ereditato generiche indagini su un giro di prostituzione di cui faceva parte anche Ruby. Resta il fatto che, nel frattempo, molti danni erano stati fatti. E neanche un bambino potrebbe credere a certe favolette. Perché da quella famosa sera di maggio in cui Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio in carica, aveva telefonato alla questura di Milano, ritenendo che fosse stata fermata la nipote del presidente Mubarak, era diventato lui il pesce grosso da prendere all’amo e poi giustiziare da parte dei famosi “cecchini” di cui parla Luca Palamara. Il plotone era pronto da tempo, si aspettava solo l’occasione. E quella fu ghiotta. Altro che generiche inchieste su giri di prostituzione! Non dimentichiamo che, per indagare su Berlusconi (e non su qualche Belle de jour), il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati aveva anche sottratto le competenze al pm competente per materia, ingaggiando un robusto braccio di ferro con il suo aggiunto Alfredo Robledo, poi ghigliottinato dal Csm con l’aiuto addirittura del presidente della Repubblica. Fatto sta che le indagini, ci fosse o no il vicequestore Ciacci a condurle dall’inizio, presero origine fin da allora. E Ruby fu interrogata due volte nei primi giorni di luglio, e per mesi e mesi fu stesa la tela del ragno nei confronti di Silvio Berlusconi. Ma il leader di Forza Italia sarà iscritto nel registro degli indagati solo il 21 dicembre, e in seguito raggiunto da un invito a comparire il 14 gennaio 2011. Sistema ambrosiano, ovvio. Nel frattempo è già accaduto tutto, il controllo ogni sera, per diciassette volte, nella casa del peccato, neanche si stessero spiando boss mafiosi di Cosa Nostra, per «ricostruire lo svolgimento delle cene e chi fossero i partecipanti». Si spiava il presidente del Consiglio per frugare tra le sue pietanze e le sue lenzuola. Per mesi e mesi, senza mai informarlo, come sarebbe stato suo diritto e come prevede la legge. Anche se lui, e anche le ragazze che frequentavano le sue cene, non avevano mai ucciso nessuno. Sono state solo trattate come puttane, nel processo pornografico che non finisce mai. E nessuna di loro ha mai avuto la fortuna di trovare un buon samaritano in divisa che corresse a dar loro conforto qualora una sera si fossero trovate in difficoltà. Loro.

Silvio Berlusconi, "quando disse no": Amadeo Laboccetta, in un libro tutta la verità sul golpe giudiziario. Amedeo Laboccetta su Libero Quotidiano il 06 aprile 2021. Un giorno di qualche anno fa, l'allora direttore del Tempo, Gianmarco Chiocci, mi fece intervistare per farmi raccontare quel mare di vicende opache che avevano visti protagonisti l'ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il vero autore del colpo di Stato contro Berlusconi, ed il ruolo del suo killer, Gianfranco Fini. Quell'intervista colpì molto il Cavaliere, tant' è che ricevetti nei giorni successivi una sua cordialissima telefonata. Mi invitò a raggiungerlo a Palazzo Grazioli, dove ci intrattenemmo per oltre tre ore. Fu in quella occasione che mi invitò a scrivere un libro per raccontare tutta la verità su quel che avevo visto e sentito in quei tormentati anni che portarono al colpo di Stato in Italia. Ero titubante. Non ero uno scrittore. Ma lui insistette vigorosamente. Telefonò durante un successivo incontro a sua figlia Marina, per chiedere una edizione speciale della Mondadori. Mi lasciai convincere. Cominciai a scrivere. Incontrai ex colleghi e tanti amici che avevano con me condiviso quei complessi momenti. Raccolsi prove inconfutabili e precise testimonianze. Fu un lavoro massacrante. Ma lo svolsi con puntualità e precisione. Direi un lavoro scientifico. Quando il libro era giunto quasi alla conclusione Berlusconi volle onorarlo con una sua bellissima prefazione. Che conservo gelosamente. Ricordo che volevo intitolare il mio libro "Intrigo a Palazzo". Ma il Cavaliere preferiva "Una storia Italiana". Vinse lui. Oramai era fatta. Il decollo era vicino. Me lo comunicò un entusiasta Cavaliere, sempre nel suo studio di Grazioli, davanti ad un fantastico gelato artigianale. Berlusconi ne è ghiotto. Ricordo che giunsero per salutarlo in quel che per me era uno storico giorno, Fedele Confalonieri, Niccolò Ghedini ed il mio amico Maurizio Gasparri, che da me era stato sempre informato, insieme al compianto Matteoli, su tutti i passaggi di quel mio nuovo impegno. Eravamo nel luglio del 2014. Ma il mio entusiasmo era destinato a durare poco. Dopo circa un mese, Berlusconi mi pregò di raggiungerlo urgentemente a Roma. Mi disse con tono cupo che lui era seriamente preoccupato per me. Che quel libro coraggioso poteva espormi ad enormi rischi, e mi chiedeva di riporlo in un cassetto. Ovviamente la presi molto male. Provai al tempo stesso rabbia e delusione. Ma lui fu fermo anche se lo fece con garbo e stile. Per me non era stato facile raccontare una valanga di episodi, ricostruire giorno dopo giorno quei terribili momenti. Compresa la famosa, agghiacciante telefonata, ascoltata in viva voce, tra Fini e Napolitano. Avevo scritto quel libro non solo per far conoscere la verità rispetto al golpe che ha cambiato la storia della nostra nazione, ma anche per liberarmi di un peso che non potevo più tenermi dentro. Quel libro non è stato mai smentito. Nessuno mai mi ha querelato. Ma non è stato mai pubblicato dalla Mondadori. Me ne tornai a Napoli con un profondo magone. Chiesi consiglio a molti. Tutti mi invitarono a lanciare il cuore oltre l'ostacolo. A provare con un'altra casa editrice. Portai in visione il libro a Marcello Veneziani nella sua magica casetta di Talamone. Il mio fraterno amico me lo restituì dopo solo 24 ore con una stupenda prefazione. La piccola ma combattiva Controcorrente del compianto Pietro Golia cominciò a studiare il libro. Nel dicembre 2015 con il titolo "Almirante Berlusconi Fini Tremonti Napolitano", e con sotto titolo "La vita è un incontro", andammo in stampa. La mia creatura fu presentata pochi giorni prima di quel Natale 2015 nei saloni dell'hotel Parker di Napoli, con Golia e Veneziani. Fu una serata magica. Le prime mille copie presero il volo. Il primo quotidiano che dette notizia del mio libro fu Libero con un pezzo che partiva dalla prima pagina a firma di Pierangelo Maurizio. Poi a seguire arrivarono il Tempo, il Giornale, il Mattino, il Roma... I giornaloni nazionali se ne guardarono bene dall'affrontare il tema.E le tv, salvo alcune, non furono da meno. All'epoca Giorgio Napolitano era ancora nel pieno della sua potenza. Tanto che fu riconfermato Presidente. Meglio non rischiare. Dopo quella serata a Napoli ricevetti telefonate da amici da tutta Italia per organizzare altre presentazioni. Da Berlusconi il più assoluto silenzio. Ma dopo pochi mesi si fece risentire. Nei primi di giugno del 2016 venne a Napoli per una manifestazione al Teatro Politeama. I suoi referenti mi chiesero di esser presente in sala. Il Cavaliere esordì con un ringraziamento nei miei confronti. Mi ringraziò pubblicamente per il mio coraggio e per aver voluto portare avanti una grande battaglia per la verità. Il giorno dopo ripeté la scena in un comizio ad Aversa. Nei giorni a seguire, ospite da Barbara D'urso, tornò sul mio libro. Lo fece anche a Porta a Porta. Ma il destino cinico era in agguato. Dopo qualche settimana da quella sua missione partenopea, il Cavalier Berlusconi fu colpito da gravissimi problemi al cuore. A questo punto penso proprio che dovrò scriverne un altro. 

Silvio Berlusconi contro la magistratura: "In 27 anni 86 processi, infiltrazioni ideologiche e opacità del sistema di potere". Libero Quotidiano il 27 marzo 2021. "In questi 27 anni, dieci dei quali al lavoro come presidente del Consiglio, ho subito ben 86 processi, per un totale di 3672 udienze": Silvio Berlusconi racconta le ingiustizie subite nel corso degli anni in un'intervista al Giornale e invoca la separazione dei poteri su cui si fonda ogni società liberale. A tal proposito aggiunge: "Da molti anni ho subito e denunciato le infiltrazioni ideologiche e le opacità del sistema di potere che caratterizzano una parte della magistratura, alcune procure e i vertici delle correnti organizzate". Il leader di Forza Italia, comunque, non se la prende con tutti i magistrati. Anzi crede che si debba fare una distinzione: "Tutto questo non riguarda i tanti magistrati che subiscono questo sistema e ne sono vittime, anzi getta un immeritato discredito anche sul lavoro di giudici integerrimi e coraggiosi". Secondo Berlusconi, quello che gli è accaduto non solo ha rovinato la sua vita per oltre 20 anni, ma ha anche "arrecato pena e danni ai miei familiari, ai miei amici, alle aziende che ho fondato", continua nell'intervista. E non è tutto. Perché secondo l'ex premier le ingiustizie subite hanno finito per danneggiare anche "i cittadini italiani, gli elettori di tutti gli schieramenti politici, perché ha alterato la rappresentanza democratica". Parlando dei numerosi processi subiti, poi, il leader azzurro spiega: "Mettendoli tutti in fila, si avrebbe un processo infinito, con udienze tutti i giorni, per dieci anni. Neanche Kafka avrebbe immaginato un incubo come questo. Credo siano un record assoluto, certamente in Italia e probabilmente nel mondo". Insomma, Berlusconi al fianco di Marta Cartabia per una immediata e profonda riforma del sistema giudiziario.

«Quegli 86 processi e il mio incubo kafkiano. A Cartabia chiedo di cambiare passo». Silvio Berlusconi: «Da un ministro competente come la professoressa Cartabia mi aspetto scelte semplicemente in linea con il principio costituzionale del giusto processo». Il Dubbio il 28 marzo 2021. «Ho subìto ben 86 processi, per un totale di 3672 udienze. Mettendole tutte in fila, si avrebbe un processo infinito, con udienze tutti i giorni, per dieci anni, senza soste neppure a Natale. Si rende conto di cosa significano queste cifre? Neanche Kafka avrebbe immaginato un incubo come questo. Credo siano un record assoluto, certamente in Italia e probabilmente nel mondo». Silvio Berlusconi si racconta in un’intervista al Giornale e si rivolge alla guardasigilli Marta Cartabia per invocare un cambio di passo netto sulla Giustizia. «Siamo consapevoli – spiega il Cav – che in materia di giustizia ci sono sensibilità diverse fra forze politiche che oggi collaborano ma che in circostanze normali sarebbero certamente avversarie. Io credo però che proprio da questa situazione anomala possano nascere le condizioni – se tutti agiranno con senso di responsabilità – per gettarci alle spalle alcuni dei veleni che hanno caratterizzato gli ultimi 30 anni della vita pubblica italiana. Da un ministro competente come la professoressa Cartabia mi aspetto scelte semplicemente in linea con il principio costituzionale del giusto processo».

"È una giustizia malata: fermiamo questi veleni". Il Cavaliere: "Da anni denuncio le infiltrazioni ideologiche tra le toghe e le opacità del sistema di potere che caratterizzano parte delle magistratura". Alessandro Sallusti - Sab, 27/03/2021 - su Il Giornale.

Presidente Berlusconi, Il libro Il Sistema racconta un'Italia sconosciuta al grande pubblico. A lei che effetto ha fatto leggerlo, immaginava che la rete da lei stesso più volte denunciata fosse così estesa e profonda?

«Non mi ha stupito, proprio perché da molti anni ho subíto e denunciato le infiltrazioni ideologiche e le opacità del sistema di potere che caratterizzano una parte della magistratura, alcune procure e i vertici delle correnti organizzate. Però fa molta impressione leggere queste stesse cose denunciate da chi ne è stato protagonista. L'ottimo libro-intervista che Lei, direttore, ha scritto con il giudice Palamara mette in luce un sistema che contraddice i cardini stessi dello stato di diritto, la terzietà della magistratura e la separazione dei poteri su cui si fondano le società liberali. Tutto questo non riguarda i tanti magistrati - sono una larga maggioranza - che subiscono questo sistema e ne sono vittime, anzi getta un immeritato discredito anche sul lavoro di giudici integerrimi e coraggiosi. Per questo credo sia un dovere morale e civile fare chiarezza in tutte le sedi competenti. Quello che mi è accaduto non ha rovinato la vita per oltre vent'anni solo a me ma ha arrecato pena e danni ai miei familiari, ai miei amici, alle aziende che ho fondato. Soprattutto ha danneggiato i cittadini italiani, gli elettori di tutti gli schieramenti politici, perché ha alterato la rappresentanza democratica».

Secondo Palamara lei era nell'obiettivo della magistratura quasi a prescindere: «Se torna Berlusconi - dice ricordando la vigilia delle elezioni politiche del 2008 stravinte dal Centrodestra - dobbiamo tornare tutti in campo per fermarlo». Per capire meglio di che cosa stiamo parlando può ricordarci i numeri e i costi dell'offensiva che ha subito?

«Caro direttore, come direbbe Dante Tu vuo' ch'io rinovelli disperato dolor che 'l cor mi preme, già pur pensando, pria ch'io ne favelli. Mi fa male solo a pensarci. In questi 27 anni, dieci dei quali al lavoro come presidente del Consiglio a tutt'oggi sono l'ultimo premier arrivato a Palazzo Chigi come leader eletto dalla maggioranza che aveva vinto le elezioni ho subìto ben 86 processi, per un totale di 3672 udienze. Mettendole tutte in fila, si avrebbe un processo infinito, con udienze tutti i giorni, per dieci anni, senza soste neppure a Natale. Si rende conto di cosa significano queste cifre? Neanche Kafka avrebbe immaginato un incubo come questo. Credo siano un record assoluto, certamente in Italia e probabilmente nel mondo. Ogni udienza poi ha significato per me diverse ore, normalmente un intero pomeriggio, impegnate con i miei avvocati per prepararla. Non oso dirle quanto mi è costato tutto questo, e a quanto sono ammontate le parcelle dei 105 avvocati e dei 30 consulenti di parte che ho dovuto impiegare. Farebbe troppa impressione. A questi costi si devono aggiungere i 550 milioni che sono stato costretto a versare a De Benedetti a seguito di un processo sulla Mondadori (di cui il 53% detenuto dalla mia famiglia ha un valore in borsa di poco più di 200 milioni!), processo che continuo a ritenere ingiusto».

Offensiva che nonostante gli onori postumi che sta ricevendo dai suoi avversari politici non accenna a placarsi, vedi i processi in corso sul caso Ruby nati da un processo - il caso Ruby - in cui lei è stato assolto in via definitiva per non aver commesso il fatto.

«In effetti su questa vicenda ci sono ancora dei processi aperti. Si vorrebbe dimostrare che io abbia corrotto dei testimoni per indurli a nascondere la verità su quello che sarebbe accaduto nelle famose cene a casa mia. È una costola del cosiddetto caso Ruby, che come lei ha ricordato si è concluso con la mia piena assoluzione. È una storia che forse merita di essere raccontata».

Come si svolgevano queste serate? Sono circolate descrizioni quasi morbose, si è parlato del famoso bunga-bunga.

«Come sa benissimo chiunque mi conosca, ho sempre amato la compagnia, mi piace ricevere ospiti nelle mie case e farli stare bene. In quelle serate si cenava, si faceva musica, si parlava di tutto, i più giovani qualche volta ballavano. (Io no, perché per un antico fioretto sono impegnato a non ballare!) Tutto qui. Queste sono le famose serate sulle quali si è favoleggiato. E il bunga-bunga era semplicemente una storiella che mi aveva raccontato Gheddafi in occasione della sua festa del Re dei Re sul destino speciale capitato a suoi collaboratori rapiti dall'unica tribù che non gli era sottomessa. Solo questo, ma molto divertente».

Eppure proprio gli ospiti di queste serate sarebbero stati corrotti per mantenere il silenzio.

«Fra i partecipanti a queste serate naturalmente c'erano miei amici. Per esempio, per accompagnare le cene con un po' di musica il mio amico Danilo Mariani, pianista, e il mio amico Mariano Apicella, ottimo cantante e fantastico musicista con il quale ho composto addirittura 130 canzoni. Entrambi venivano da me gratificati con 3.000 euro al mese prima di questi fatti (da 10 anni il primo, da 15 anni il secondo) ed hanno continuato ad esserlo sino ad ora con gli stessi 3.000 euro ogni mese. Denari su cui hanno ovviamente pagato le tasse ed erano quindi alla luce del sole. Avrei dovuto non incontrarli più? Perché mai? E poi, avrei avuto bisogno di pagare degli amici per ottenere un loro favore? Eppure secondo l'accusa queste gratificazioni sarebbero la prova di una corruzione per farli mentire in tribunale. Lo stesso vale per diverse ragazze, che coinvolte nello scandalo mediatico-giudiziario su queste cene si erano viste abbandonate dal fidanzato, si erano viste venir meno la possibilità di trovare un lavoro e quella di ottenere una casa in affitto. Mi sono sentito in dovere di aiutarle, perché la loro reputazione era risultata gravemente danneggiata per il solo fatto di essere state ospiti del Presidente del Consiglio. Sono state fatte oggetto delle insinuazioni più volgari e contro di loro è stato eretto un vero e proprio cordone sanitario nel mondo della moda, dello spettacolo e della televisione. Qualcuna di loro si rivolse a me talmente disperata da minacciare il suicidio. Questa è l'Italia, questo è quello che intendo quando parlo di persecuzione. E io ho ritenuto mio dovere dare una mano anche a loro».

Alcuni magistrati sostengono però che proprio qui sta la corruzione... chi ha beneficiato di queste «gratificazioni» e di questi aiuti le avrebbe garantito in cambio il silenzio su quanto avveniva davvero in quelle serate.

«Ma le pare possibile? Tutti i versamenti sono stati fatti in forma esplicita, senza mai nasconderlo. Vi sono molteplici bonifici bancari perfettamente tracciabili. Lei crede che se avessi mai voluto corrompere qualcuno lo avrei fatto in questo modo? Così, pubblicamente, in modo scoperto? Chi dice questo oltraggia non soltanto la mia onorabilità, ma anche la mia intelligenza. Non sarei un criminale, sarei un pazzo incosciente se avessi agito così, se mi fossi reso colpevole di un reato grave, il reato di corruzione semplicemente per evitare dei racconti su miei comportamenti magari criticabili ma certamente non classificabili come reati. Il fatto che qualche Pm si ostini a sostenere questa tesi è davvero assurdo e incomprensibile».

Palamara svela che il partito delle toghe aveva arruolato in segreto Gianfranco Fini per mettere in difficoltà il suo governo. Possibile che non se ne fosse accorto?

«Guardi, io sono una persona leale, e per natura credo nella buona fede e nella lealtà delle persone. Per me anche in politica la parola data ha un grande valore, così come la coerenza con la propria storia e con le proprie idee. Forse è un approccio ingenuo, non da politico esperto, ma non intendo cambiarlo. Gianfranco Fini si considerava un professionista della politica a differenza di me - e purtroppo ha dimostrato di esserlo. Su di lui non voglio aggiungere altro, è già stato giudicato dagli elettori e dalla storia».

Nel libro si parla più volte della condivisione - quasi una copertura - del Quirinale guidato da Giorgio Napolitano della politica giudiziaria messa in campo dal Sistema che manovrava contro di lei. Eppure Forza Italia votò per la sua rielezione a capo dello Stato....

«Vede, direttore, io ho anche quello che è un altro difetto, in politica. Quello di agire sempre in buona fede. Quella volta il Parlamento era paralizzato e l'elezione del capo dello Stato sembrava impossibile. Il candidato concordato con noi dell'opposizione, quel grande galantuomo recentemente scomparso che era Franco Marini, fu battuto dai franchi tiratori, che poi impallinarono anche il candidato proposto dalla sinistra, Romano Prodi. Di fronte alla paralisi, mancando la possibilità di raggiungere un accordo su altre figure che avessero la statura, il prestigio e l'autorevolezza per salire al Quirinale, accettammo la proposta del Pd di un secondo mandato al presidente Napolitano. Da lui mi dividevano non soltanto la storia e la cultura politica, opposte alla mia, ma anche una serie di vicende negli anni dei miei governi. Tutto questo però rientrava nel dissenso politico: non conoscevo e mai avrei potuto immaginare il ruolo attivo di Napolitano contro di me in una serie di manovre giudiziarie per danneggiare il presidente del Consiglio e il leader politico che aveva vinto le elezioni. Il mio profondo rispetto istituzionale per il Capo dello Stato mi impediva anche solo di prendere in considerazione quelle che consideravo dicerie. Negli anni purtroppo sono giunte invece autorevoli conferme, l'ultima delle quali nelle affermazioni di Palamara. Sono stato ingenuo? Forse sì. Ma sono fiero di credere nelle istituzioni anche quando questa può apparire un'ingenuità».

L'unica sentenza di condanna da lei subita, Presidente, quella dell'agosto 2013 per frode fiscale, è ancora avvolta nel mistero. Lei ha capito che cosa intendeva uno dei giudici, il dottor Ercole Aprile, quando si lasciò scappare che in «camera di consiglio ho visto cose che voi umani non potete immaginare»?

«Non so esattamente cosa intendesse il dottor Aprile, ma so che quella sentenza, l'unica condanna su 86 processi, è viziata da tante e tali anomalie che persino il Giudice relatore l'ha sconfessata. Confido che la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo farà finalmente giustizia su questa vicenda. In sintesi, sono stato accusato di una frode fiscale che non è mai avvenuta, ma che comunque non avrei potuto commettere io, visto che nel 1994 all'atto della mia discesa in campo avevo abbandonato tutte le cariche imprenditoriali e dirigenziali e non mi occupavo più in alcun modo delle aziende che avevo fondato. A riprova dell'inconsistenza di tutta la faccenda basti considerare che tutti i dirigenti del gruppo Fininvest che avevano i poteri loro sì - per commettere materialmente il reato sono stati giustamente assolti».

Le cito un passaggio del racconto di Palamara sulla sentenza Lodo Mondadori che le impose di versare 750 milioni a Carlo De Benedetti: Quella cifra apparve anche a noi oggettivamente esagerata ma dovevamo stare uniti attorno al giudice Mesiano... si stava dissanguando Berlusconi per di più a vantaggio dell'icona della sinistra Carlo De Benedetti.... Che effetto le fa?

«Il senso di chi ha dovuto arrendersi ad una profonda, totale ingiustizia, che ha danneggiato non solo me e la mia famiglia, ma anche una grande azienda patrimonio del Paese. Ho sempre considerato questa sentenza come qualcosa di infondato nel merito e illogico nell'entità. Per la verità, in sede di appello la somma che siamo stati condannati a pagare è stata ridotta a soli 550 milioni, una cifra comunque assurda, persino se avessimo avuto torto. La mia famiglia possedeva (e ancora possiede) il 53% della Mondadori, stimato in borsa poco più di 200 milioni. Meno della metà dell'indebito indennizzo che siamo stati costretti a versare a De Benedetti!».

Perché in tanti anni di governo il centrodestra non è riuscito a riformare il sistema giustizia?

«Alcuni nostri alleati lo hanno reso impossibile. Mi dissero chiaramente che avrebbero fatto cadere il governo se avessimo varato una riforma della giustizia sgradita all'Associazione nazionale magistrati. Quella di cui è stato a lungo Presidente proprio il dottor Palamara. Il Sistema che lui ha descritto ha condizionato la politica italiana, compresi certi nostri alleati, per tutti gli anni della Seconda repubblica».

Crede che la riforma potrà venire dal Governo Draghi?

«Questo è un governo di emergenza nato da una situazione di emergenza. Si basa sulla collaborazione fra forze politiche molto diverse tra loro come condizione per prendere decisioni rapide al fine di uscire dall'emergenza sanitaria ed economica legata alla pandemia. Noi intendiamo collaborare lealmente perché crediamo in questo governo e sappiamo che non ha alternative praticabili. Siamo consapevoli che in materia di giustizia ci sono sensibilità diverse fra forze politiche che oggi collaborano ma che in circostanze normali sarebbero certamente avversarie. Io credo però che proprio da questa situazione anomala possano nascere le condizioni se tutti agiranno con senso di responsabilità per gettarci alle spalle alcuni dei veleni che hanno caratterizzato gli ultimi 30 anni della vita pubblica italiana. Da un ministro competente come la professoressa Cartabia mi aspetto scelte semplicemente in linea con il principio costituzionale del giusto processo».

Alessandro Sallusti, il giudice Esposito e il rinvio a giudizio "a tempo di record" per Feltri e Porro: "Ho una risposta, brutta aria". Libero Quotidiano il 26 marzo 2021. La giustizia è mal ridotta, secondo Alessandro Sallusti e per capirlo basta vedere "tre recenti casi di cronaca che coinvolgono alcune delle star della magistratura. Il primo riguarda Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, già ministro della Giustizia in pectore del governo Renzi, famoso per le sue retate antimafia dagli incerti esiti processuali, che ha scritto la prefazione a un libro sul Covid di Pasquale Bacco e Angelo Giorgianni", scrive nel suo editoriale su Il Giornale. "I due autori il primo medico (?), il secondo magistrato presidente di commissione tributaria sostengono apertamente tesi complottiste e negazioniste". Insomma, per loro i vaccini sono "acqua di fogna e trasformeranno gli uomini in Ogm". Il secondo magistrato vip, continua Sallusti, "è Raffaele Cantone, procuratore di Perugia con giurisdizione sui reati commessi dai colleghi romani. Interrogato dal Csm sul caso Palamara, Cantone ha sostenuto che la famigerata microspia inserita nel telefonino di Palamara non era stata attivata negli incontri con il potente e intoccabile allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone perché «essendo presenti le mogli, era da escludere che i due parlassero di cose d'ufficio»". Una tesi quantomento "strampalata". Infine c'è il caso di "Antonio Esposito, il giudice della discussa sentenza che nel 2013 ha condannato in via definitiva Silvio Berlusconi per evasione fiscale. Sentenza «discussa» anche da Amedeo Franco, uno dei giudici che parteciparono alla camera di consiglio, che in un audio reso noto nel giugno 2020 ha parlato di «forti pressioni per condannare Berlusconi» e della corte come di «un plotone di esecuzione»". Bene, conclude Sallusti, "l'attuale procuratore di Roma, Michele Prestipino (di cui racconta Palamara nel libro Il Sistema e la cui nomina è ancora oggi contestata dal Tar), si è mosso in prima persona, cosa assai rara, e a tempo record (soli sei mesi, funzionasse sempre così la giustizia) ha chiesto il rinvio a giudizio per quindici tra giornalisti (me compreso, e poi Feltri e Porro), deputati e senatori (tra cui la capogruppo di Forza Italia Anna Maria Bernini e il sottosegretario Giorgio Mulè) che hanno osato commentare le inquietanti rivelazioni di Franco sulla trasparenza di quella sentenza". Insomma c'è un filo che lega Gratteri, Cantone e Prestipino. "Il senso di giustizia? Io una risposta l'avrei, ma con l'aria che tira la tengo per me. Meglio Pasqua a piede libero", chiosa lapidario Sallusti.

La giustizia mette il turbo solo con i nemici. Indagini sul caso Esposito chiuse in meno di 8 mesi. La media è 404 giorni. Massimo Malpica - Sab, 27/03/2021 - su Il Giornale. La lentezza della giustizia è questione di punti di vista. Chiedere al pm romano Roberto Felici, che dopo aver ricevuto l'esposto del giudice Antonio Esposito quello della condanna al Cav del 2013 a proposito di una presunta campagna denigratoria ai suoi danni, ordina da giornali, politici e talk show, si è messo a indagare e non ha perso tempo. Il 7 marzo scorso, ecco arrivare i primi avvisi di conclusione delle indagini. E considerando che tutta la «campagna» sarebbe nata intorno alla registrazione audio di Amedeo Franco, giudice a latere nel processo che vide la condanna di Berlusconi, e che quell'audio è stato mandato in onda per la prima volta da Nicola Porro su Quarta Repubblica la sera del 29 giugno 2020, si capisce quanto veloci possono essere le indagini. Da quel giorno di fine giugno quelle parole in cui Franco si dissociava dalla sentenza definendola «guidata dall'alto» e «una grave ingiustizia», sono finite al centro di una serie di articoli su diversi giornali, dal Riformista al Giornale, fino a Libero, come d'altra parte accade di norma per le notizie. Esposito denuncia la «campagna diffamatoria». E otto mesi dopo, ecco l'avviso di conclusione indagini. Un caso di giustizia lampo. Soprattutto se confrontato con la durata media delle indagini preliminari, che per i dati del 2017 parlano di 404 giorni in media, 13 mesi e mezzo, contro i 240 giorni della denuncia del giudice Esposito. Inoltre, spesso il tempo necessario all'atto di conclusione delle indagini è ben più lungo: a Brescia, nel 2017, la durata media delle indagini era pari a 829 giorni, e a livello nazionale il 20 per cento dei fascicoli erano ancora nella fase delle indagini dopo due anni. Che non sempre le cose procedano spedite come per il «complotto» denunciato dal giudice Esposito lo dimostra la recente condanna dell'Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell'uomo: esaminando proprio la durata delle indagini preliminari per una denuncia per diffamazione (non di un giudice, ma dell'ex patron della Casertana, Vincenzo Petrella), la Corte ha condannato il nostro Paese per aver fatto prescrivere il reato nel corso di indagini andate avanti per cinque anni e due mesi. Violando così non solo la ragionevole durata, ma anche il diritto di accesso a un tribunale e il diritto a un ricorso effettivo.

Da ilfattoquotidiano.it l'11 marzo 2021. “Penso che sia uno scandalo non riuscire a varare una norma che contrasti le querele temerarie: noi abbiamo fortemente appoggiato la proposta Di Nicola“. Il presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna, commenta così l’assenza nell’ordinamento italiano di una legge che contrasti l’abuso delle querele per diffamazione ai giornalisti. Un tema tornato di attualità dopo che Matteo Renzi ha annunciato proprio nuove querele nei confronti delle testate, La Stampa e The Post Internazionale, che hanno riportato la notizia della sua visita a Dubai. “Non conosco la vicenda specifica”, ha detto Verna, sottolineando però che “quando qualcuno contesta in una sede giudiziale quella che un giornalista ritiene sia una verità, se poi la notizia si rivela fondata non può finire con la semplice condanna alle spese, occorre un risarcimento per chi temerariamente è stato tratto in giudizio”. Una legge per il contrasto alle querele temerarie era già pronta a maggio 2019 e porta la firma del senatore Primo Di Nicola. Un solo articolo: è previsto che in caso di temerarietà della lite, riconosciuta dal giudice, questi può condannare il querelante a pagare una cifra pari ad almeno il 50% della pretesa. La norma però è rimasta in un cassetto, come ricorda il deputato M5s Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia della Camera: “Credo che abbia pienamente ragione il presidente dell’OdG Carlo Verna: il ritardo sul contrasto alle querele temerarie è inaccettabile. Il senatore Primo Di Nicola ha indicato una strada condivisibile con la sua proposta di legge ma ciò non ha avuto seguito, purtroppo. Intanto, questa prassi velatamente antidemocratica prosegue. Spero quindi che l’iter del provvedimento si sblocchi quanto prima”.

I magistrati sono al di sopra della legge. Sansonetti: “Caselli mi ha querelato, i magistrati lo fanno per intimidazione”. Redazione su Il Riformista l'8 Gennaio 2021. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti annuncia in un video editoriale di aver ricevuto una “Querela da parte di Giancarlo Caselli per un articolo dell’aprile scorso. Io scrissi un articolo in cui polemizzavo con Caselli. Ma purtroppo c’è questa idea che si può polemizzare sui giornali, in tv. Con chiunque. Ma non si può polemizzare con i magistrati“. Secondo Sansonetti “I magistrati sono intoccabili, al di sopra della legge, sono intoccabili. Non accettano critiche e sanno che in caso di querela vincono poiché i magistrati che giudicano li guardano di buon occhio“. Il direttore poi elenca “Ho querele solo di magistrati: di Gratteri, Di Matteo, Scarpianto, Leonforte, Esposito padre e figlio, Davigo e ora Caselli che è in pensione ma è uno dei capi del partito dei Pm. Spesso vincono ma non sempre“. Infine Sansonetti sottolinea che “Lo spirito di queste querele è l’intimidazione. Le querele creano una grande difficoltà nei giornalisti e arrivano solo nei confronti di chi critica i magistrati. In Italia siamo non più di 5 ed è facile l’attacco da parte del partito dei Pm. Non c’è alcuna difesa, il sindacato dei giornalisti e l’ordine si inchinano e non intervengono“. Sansonetti conclude: “La querela di Caselli non ci spaventa, c’è l’effetto intimidazione ma noi andiamo avanti e continueremo a criticare nella maniera più rigorosa tutti i magistrati. Tra l’altro – svela Sansonetti – con Caselli mi legava un legame di stima e amicizia. Se scrivo qualcosa di male su un politico, cose che ho fatto tante volte, non mi querelano, invece i magistrati lo fanno per tenerti per il collo, ma tranquilli andiamo avanti“.

La vicenda. Cantone vuole il bavaglio per il Riformista: “La magistratura è intoccabile”. Redazione su Il Riformista il 13 Gennaio 2021. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti ha pubblicato un video editoriale in cui racconta che “Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone ha chiesto al Csm di aprire una pratica a tutela dei magistrati della sua città. Questo si fa quando un magistrato è sotto tiro da parte di qualcuno e bisogna proteggerlo. In genere è una procedura di vantaggio per la carriera del magistrato poiché va a fare curriculum. Cantone l’ha aperta contro il Riformista, perché con gli articoli di Paolo Comi abbiamo riferito di alcune cose che non funzionano nel Palamaragate“. Secondo Sansonetti i motivi sono tre: “Primo: tutti i Whatsapp sono arrivato al Csm con un anno di ritardo, e nel frattempo erano state fatte molte nomine e questi nomi non sono arrivati al Csm. Secondo: a noi risulta che nel fascicolo a carico di Palamara non ci siano gli sms. Cantone contesta questo. Noi sappiamo che gli sms non sono stati scaricati nel fascicolo, e anche Palamara non ha notizia in merito a questo aspetto. Cantone ci dovrà dire dove li hanno messi visto che nel fascicolo non ci sono. Terzo: abbiamo scoperto che il trojan nel cellulare di Palamara che funzionava tutte le sere dalle 19 in poi, una sola sera non ha funzionato quando Palamara è stato a cena con Pignatone e altri magistrati importanti per discutere della nomina a nuovo procuratore di Roma. Da chi fu spento e come? Noi abbiamo detto da chi fu spento e come fu spento e provato che fu spento intenzionalmente intralciando le indagini“. “Invece di aprire una inchiesta sulla nostra denuncia – sottolinea Sansonetti – Cantone ha chiesto che intervenga il Csm per censurare il Riformista. Sono ormai gli stessi magistrati a ribellarsi. Recentemente oltre 50 magistrati hanno chiesto a Palamara di rendere noti i messaggi visto che la procura non lo fa. C’è una sfiducia addirittura degli stessi magistrati, figuriamoci dei cittadini nei confronti della magistratura che viene ritenuta non credibile, non attendibile“. “Cantone ha preso questa iniziativa di chiedere che si attacchi il Riformista, cioè che si affermi il principio che la libertà di stampa deve avere un limite: si possono criticare tutti ma non i magistrati. Si possono dare notizie di ogni genere ma non sulla magistratura. Questo è il principio che vorrebbe affermare Cantone, probabilmente anche con una riforma costituzionale. Mi aspetto che l’Ordine dei Giornalisti – conclude Sansonetti – intervenga visto questo attacco violentissimo alla libertà di stampa, credo con pochissimi precedenti forse negli anni ’80. Quale è lo scopo di questa iniziativa? L’unico mi sembra quello di intimidirci, così come viene fatto attraverso le querele. Voglio dire a Cantone che io per carattere tenderei a farmi intimidiere, non ho mai pensato che la grande dote sia il coraggio, non tendo più a don Abbondio. Ma in Italia c’è un solo quotidiano che critica la magistratura quindi non posso permettermi il lusso di farmi intimidire se no si crea una situazione di regime, una cosa simile a quanto successo durante il fascismo“.

La critica al Procuratore. Gratteri mi ha minacciato di querela, non è la prima volta che un Pm mi intimidisce. Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Aprile 2020. Gratteri (Procuratore di Catanzaro) , mi pare, conferma tutto. I commissari prefettizi hanno ceduto a lui (al canone di 8 euro e mezzo al mese per dieci anni) un terreno di quattromila metri quadrati (però nella delibera c’è scritto ottomila: qualcuno non dice la verità) che appartiene a un ospedale costruito e mai inaugurato, e sul quale si era pensato un tempo di realizzare ricoveri per anziani, e che poi era stato richiesto dal Comune di Gerace. Del resto ci aveva confermato tutto già per telefono il giorno prima. Nel corso di un paio di chiamate un po’ burrascose: poi ne parliamo meglio. Solo qualche piccola differenza. Ieri ci aveva detto che lui non aveva firmato niente. Sembrava di capire che la richiesta di assegnargli il terreno non fosse venuta da lui ma da prefetto, questore e altri. Ora corregge, e spiega che prefetto, questore e altri lo hanno indotto a chiedere quel terreno. Quindi la richiesta l’ha fatta lui. Va bene, piccole imprecisioni. Un po’ di imbarazzo, si capisce. La ragione della richiesta? Difendersi da possibili attentati. Questo lo abbiamo già scritto. Anche perché noi siamo abituati, quando riceviamo una notizia che non fa fare un gran figura a una persona, ad ascoltare la persona (pratica abbastanza inusuale nel giornalismo che piace a Gratteri…). In quel terreno – dice Gratteri- poteva introdursi qualche mafioso e spararmi, perché da quel terreno si vedono le finestre di casa mia.  E quindi, se capisco bene, si è pensato che la cosa migliore per evitare che questo accada, non è mettere delle guardie, ma concedere il terreno a Gratteri in modo da rendere illegale, per eventuali attentatori, l’accesso. Un’idea – diciamo la verità – un po’ stile pantera rosa: ma comunque un’idea. Benissimo. Sicuramente tutto vero. Del resto già ieri abbiamo scritto che nella decisione della commissione prefettizia di sottrarre una proprietà a un ospedale, di non concederla al Comune o a un ente pubblico, ma di assegnarla un privato cittadino, non c’era niente di illegale. Citando Travaglio potrei dire: questione, magari, di opportunità…. I problemi sono tre. Primo: possiamo credere che lo Stato, di fronte a un pericolo per la vita di un magistrato, gli dice: difenditi da solo, noi ti diamo un terreno e poi pensaci tu? Speriamo che non sia vero. Anche perché francamente Gratteri che può fare con quel terreno per difendersi? Proprio niente. Se qualcuno ha pensato a una soluzione così scombiccherata c’è da preoccuparsi molto. E anche se un Procuratore l’ha ritenuta adeguata. Secondo problema. Cosa sarebbe successo se un terreno di un ospedale fosse stato assegnato a Oliverio, per esempio, l’ex presidente della Regione? Ditemi, sinceramente, cosa pensate che sarebbe successo ad Oliverio. Nessuno avrebbe immaginato che Oliverio aveva ottenuto quel terreno grazie al suo potere? Gratteri avrebbe lasciato correre o avrebbe indagato? Vabbé. Terza questione. L’altro giorno Gratteri ci ha minacciato di querelarci in due distinte telefonate, pur sapendo che stavamo scrivendo il vero e senza, peraltro, aver letto cosa avremmo scritto. Se un politico si fosse comportato così, cosa si sarebbe detto? Intimidazione. Giusto? Se lo fa un magistrato invece? A me non è la prima volta che capita di essere intimidito da un magistrato. Anche perché i magistrati – lo sapete tutti – sono abituati a non essere mai infastiditi dalla stampa. E quando succede a loro pare un sacrilegio. Pensano che se critichi un magistrato antimafia, o sei pazzo o sei mafioso. Bisogna dire che Gratteri, fin qui, è stato l’unico magistrato (tra quelli celebri) che non mi ha mai querelato e non ha mai querelato nessuno. Stavolta ha minacciato di abbandonare il suo stile e di procedere. Vedremo. Tanto, statene sicuri, del grandioso potere che hanno i magistrati sui giornalisti importa niente a nessuno.

"Diffamò l'ex pm Nino Di Matteo". Sansonetti condannato a risarcirlo. Il pm Nino Di Matteo, con i colleghi Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia, al processo Trattativa. La sentenza emessa dal tribunale civile di Caltanissetta: "Ha utilizzato espressioni immotivatamente denigratorie". La Repubblica il 21 ottobre 2020. Il giudice civile del Tribunale di Caltanissetta, Alex Costanza, ha condannato il giornalista Piero Sansonetti a risarcire con 50.000 euro il magistrato Nino Di Matteo, oggi consigliere del Csm, che aveva presentato denuncia per diffamazione per un articolo pubblicato il 28 settembre 2014 dal quotidiano "Cronache del garantista". L'ex pm del processo trattativa Stato-mafia aveva presentato querela per l'articolo dal titolo "La rozza aggressione del Pm contro De Mita" in cui si raccontava l'interrogatorio del 25 settembre 2014 dell'onorevole Ciriaco De Mita nel corso del processo "Stato-mafia". Sansonetti scriveva tra le altre cose: "Il procuratore Di Matteo a un certo momento ha iniziato a rimproverarlo, in modo minaccioso e intimidatorio"; e ancora: "Gridava come uno sbirro asburgico". Nell'articolo il giornalista definitiva Di Matteo "il giovanotto al quale è stata assegnata la procura di Palermo", e accusava il magistrato di  avere "una così grande rozzezza" e "strabordante arroganza". Concludeva: "Ma cosa ha insegnato al piccolo Di Matteo la sua mamma?" Nella sentenza il giudice afferma che "sia dalla trascrizione di udienza, che in misura maggiore e dirimente, dall'ascolto dell'audio dell'esame del teste, ci si avvede invece che i toni utilizzati dal procuratore Di Matteo rimangono pacati e non trascendono per tutto l'espletamento della prova". "Alcune espressioni adoperate dal giornalista - scrive ancora il giudice nella sentenza emessa nei giorni scorsi - sono immotivatamente denigratorie, sia se isolatamente considerate che in rapporto all'intero contesto argomentativo". In particolare, il riferimento e l'accostamento dei comportamenti del pm a quelli di "uno sbirro asburgico e di un questurino ai tempi del fascismo...sono del tutto esorbitanti dalla forma civile della critica" e l'allusione sulle capacità educative della madre di Di Matteo "è diretta a mettere in dubbio non solo le qualità personali del pm ma anche di uno dei suoi affetti più cari".

I giornalisti Sansonetti e Aliprandi a processo ad Avezzano per diffamazione, denunciati dal procuratore generale Scarpinato.  Articoli su inchiesta “Mafia e appalti”, indagine di cui fu titolare Borsellino. Redazione su abruzzolive.it l'8 Luglio, 2019. Avezzano. Piero Sansonetti che ha diretto il quotidiano il Dubbio fino a inizio aprile, e Damiano Aliprandi, che continua a esserne una colonna, sono sotto procedimento penale  davanti al tribunale di Avezzano per una querela presentata dal procuratore generale Roberto Scarpinato e dall’ex aggiunto della procura di Palermo Guido Lo Forte. I due magistrati ritengono diffamatori alcuni articoli sull’inchiesta “Mafia e appalti”, firmati appunto da Sansonetti e Alipandi sul giornale “il Dubbio”. Di quell’indagine, Paolo Borsellino non fu titolare fino alla fine dei suoi giorni. Sarà un gup di Avezzano a dover decidere, nell’udienza di martedì prossimo, se per quegli scritti i due giornalisti dovranno essere processati per diffamazione. Un procedimento difficile, per i nostri colleghi ma anche per la magistratura dell’ufficio abruzzese, competente perché è in un comune di quel circondario, Carsoli, che fino a pochi mesi fa veniva stampato il Dubbio (ora le tipografie si trovano in provincia di Roma e a Milano). Le difficoltà, secondo quanto riportato dallo stesso quotidiano il Dubbio, sono legate anche all’astensione a cui, a inizio marzo, si è vista costretta Maria Proia, gup inizialmente titolare del fascicolo. La magistrata ha rinunciato per le sue precedenti funzioni presso la Procura di Palermo nella sezione coordinata a suo tempo proprio da Lo Forte. Nell’atto con cui ha comunicato di doversi astenere, la giudice Proia ha voluto ricordare di aver «sempre intrattenuto ottimi rapporti» con il collega, del quale, ha aggiunto, «conserva profonda stima». Altro passaggio che ha finora segnato l’iter è l’istanza con cui il difensore di Scarpinato ha chiesto e ottenuto di anticipare la data dell’udienza preliminare, inizialmente fissata a settembre. Il legale ha sostenuto che le «medesime tesi» da cui i querelanti si ritengono diffamati «sono state ribadite sulla stampa nazionale», e che «la delicatezza dell’incarico ricoperto dal dottor Scarpinato, procuratore generale a Palermo, rende opportuno un pronto accertamento dei fatti». Il professionista cita anche un altro articolo del Dubbio, sempre «a firma di Sansonetti» successivo a quello oggetto di querela. Certo non capita tutti i giorni che un Tribunale efficiente ma dal piccolo circondario come quello abruzzese si trovi a giudicare una causa relativa a dirigenti di uffici giudiziario di tale peso. Ma al di là dei corollari, adesso si entrerà nel vivo delle questioni contestate, le sole che contino davvero.

Lucio Musolino (19 ottobre 2010).  Cara MicroMega - Lettere alla redazione. Io, giornalista anti'ndrangheta, licenziato da Sansonetti. Dal 2006 sono redattore di “Calabria Ora” e, dallo scorso gennaio, collaboro con il “Fatto quotidiano”. Da anni ormai mi occupo di nera e giudiziaria e ho scritto di inchieste delicate sulla ‘ndrangheta e, soprattutto sui rapporti tra le cosche e la politica. Per anni, con i miei colleghi, abbiamo sempre riportato i fatti. E sono quelli a fare paura in questa città e in questa regione dove non tutto è nero o bianco. Dove abbiamo una folta zona grigia che è oggetto di delicatissime inchieste delle Direzioni distrettuali antimafia di Reggio e di Milano. Negli ultimi mesi, non ho fatto altro che pubblicare gli atti contenuti nei fascicoli delle inchieste “Meta”, “Crimine” ed “Epilogo”.

L’intimidazione. La notte del primo agosto, rientro a casa alle 4 e, sul tavolo della veranda, trovo una bottiglia di benzina con un biglietto di minacce con cui qualcuno mi invita a “smetterla con la ‘ndrangheta” e a seguire il mio ex direttore Paolo Pollichieni che si era dimesso assieme ad altri 8 colleghi. La benzina sarebbe stata per me e non per la mia auto. Sono entrati, quindi, nel mio cortile di notte, mentre la mia famiglia era in casa, e hanno lanciato un messaggio mafioso a una settimana da una precedente lettera anonima recapitata in redazione con cui si invitava “chi ha tenuto la mano a Pollichieni in questi anni” ad andarsene. Io non so chi, materialmente, è responsabile dell’intimidazione. So invece cosa ho scritto nelle settimane precedenti al gesto. Ho pubblicato il contenuto di un’informativa del Ros dalla quale è emerso che Scopelliti, con la scorta pagata dai contribuenti, ha partecipato assieme a molti consiglieri comunali a una pranzo invitato dall’imprenditore arrestato Domenico Barbieri. Lo stesso pranzo a cui ha partecipato il boss Cosimo Alvaro, oggi latitante. Incontro al quale lo stesso Scopelliti ha confermato di aver preso parte ai microfoni del “Fatto Quotidiano”. Proprio con Alvaro aveva rapporti un consigliere comunale del Pdl, Michele Marcianò, I due sono stati intercettati mentre discutevano di tessere di Forza Italia e di posti di lavoro. E sempre di posti lavoro discutevano il consigliere comunale del Pdl Manlio Flesca con l’imprenditore Barbieri. Al centro dell’intercettazione un pacchetto di 200 voti in cambio di un dell’assunzione in una società mista della moglie dell’indagato per associazione mafiosa. Cosa che è realmente avvenuta stando a quanto accertato dal Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri. Ho scritto anche dell’ex consigliere regionale Alberto Sarra che aveva rapporti con la famiglia Lampada (imprenditori legati ai Condello) a Milano, come è emerso da un’inchiesta della Procura lombarda dove è finita anche un’informativa in cui si descrivono incontri tra il governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti e Paolo Martino, condannato per mafia e ritenuto il punto di riferimento della cosca De Stefano nel nord Italia. Proprio in questi giorni, infine, dall’inchiesta “Epilogo”, coordinata dal sostituto procuratore Giuseppe Lombardo, è emerso che il consigliere comunale di maggioranza Tonino Serranò è stato filmato da una telecamera dei carabinieri mentre maneggia una pistola con un indagato ritenuto vicino alla cosca Serraino. La stessa cosca sospettata di aver organizzato l’attentato del 3 gennaio alla Procura generale. Un attacco allo Stato senza precedenti che ha dato il via a una strategia della tensioni in cui la ‘ndrangheta è solo uno degli attori della “tragedia”. Non è solo ‘ndrangheta. L’ex sostituto della Dna Enzo Macrì parla di “poteri occulti”. Io dico che la Procura di Reggio Calabria, guidata da Pignatone, sta andando in quella direzione e presto mi auguro che farà luce sulla “zona grigia” di questa città e di questa Regione. Questi sono i fatti. Non si tratta di attacchi politici ma di documenti, di stralci di informative scritte dagli inquirenti. Non spetta a noi stabilire se il comportamento di alcuni politici e del governatore della Calabria Scopelliti sia condannabile dal punto di vista penale. Lo stabilirà l’autorità giudiziaria. È sicuramente censurabile dal punto di vista morale e politico.

Il cambio di direttore. Dopo le dimissioni di Pollichieni, io sono rimasto a lavorare a “Calabria Ora”. Ho continuato a scrivere allo stesso modo. Ma il giornale è cambiato radicalmente da subito nonostante le garanzie degli editori i quali mi avevano garantito che la linea editoriale non sarebbe mutata con l’arrivo del nuovo direttore Piero Sansonetti. Non è stato così. Dopo l’intimidazione sono andato in ferie. Al mio rientro ho ripreso a scrivere riprendendo gli stessi argomenti di cui mi sono sempre occupato: la ‘ndrangheta e i rapporti tra quest’ultima e la politica. Sono iniziate le censure di pezzi in cui compariva il nome del governatore della Calabria. Pezzi che la redazione centrale mi aveva chiesto e che non ha pubblicato senza motivazione. E quando la giustificazione c’era era sempre la stessa: “E’ un attacco violento a Scopelliti. Il direttore mi ha detto che il pezzo non passa. Lo stabilisce lui quando attaccare il governatore” mi veniva risposto dai colleghi. A volte, inoltre, i pezzi venivano modificati senza preavviso e, soprattutto, senza che nessuno abbia avuto l’accortezza di ritirare la mia firma. Le richieste di spiegazioni formulate al direttore sono rimaste inevase. Solo al primo incontro con lui sono riuscito a chiedere il motivo delle censure che Sansonetti ha giustificato in nome di un garantismo più simile al “bavaglio” che a un modo di pensare. A fine agosto, gli editori e il direttore avevano contattato più di un collega di un altro quotidiano confessando espressamente a quest’ultimo l’intenzione di sostituirmi perché “legato al vecchio direttore”. Il tentativo fallì per il rifiuto del collega, così come fallì il tentativo mio di essere sentito dal Comitato di redazione. Dall’8 settembre ancora aspetto che il Cdr mi convochi. Nel frattempo sono stato licenziato.

Il trasferimento e il licenziamento. Ma andiamo con ordine: gli editori e Sansonetti non abbandonarono l’obiettivo di allontanarmi da Reggio. Sempre a settembre ricevetti una telefonata dal direttore che mi ha comunicato la sua proposta di andare a lavorare a Lamezia Terme. Una proposta che puntava “anche” a rafforzare la redazione di “Reggio” dove non ci sarebbe stato più nessuno che avrebbe ficcato il naso nei fascicoli delle inchieste della Dda. Naturalmente rifiutai sostenendo “che era la stessa proposta della ‘ndrangheta”. La risposta provocò la reazione di Sansonetti che mi chiuse il telefono in faccia senza darmi la possibilità di spiegare il motivo. Nessun contatto per una settimana a parte un’ammonizione formale in cui il direttore mi ha accusato di non essermi recato a lavoro un “famoso” martedì pomeriggio, poche ore dopo una retata dei carabinieri che avevano arrestato un imprenditore, accusato del rinvenimento di armi avvenuto il giorno della visita del presidente Napolitano. Dopo aver chiesto l’autorizzazione a uno dei coordinatori della redazione centrale, ero rimasto a casa per studiarmi l’ordinanza di custodia cautelare e scrivere una pagina e mezzo sull’inchiesta. Risposi, a tono, alla contestazione e dopo mezz’ora, Sansonetti replicò con la comunicazione che da lì a qualche giorno avrebbe disposto il mio trasferimento nonostante il parere negativo (e vincolante) mio e del Cdr. Pochi giorni ancora e sono riuscito a incontrare Sansonetti a Reggio. Un incontro breve durante il quale ho avuto modo di spiegare il mio rifiuto al trasferimento che consideravo punitivo e che, dopo il colloquio, ritornava ad essere solo un’ipotesi che, se si fosse concretizzata, avrei ostacolato con il sindacato e con gli avvocati impugnando il trasferimento davanti ai giudici del lavoro. Dopo qualche giorno, ho pubblicato lo scoop di un nuovo pentito nella ‘ndrangheta reggina. La notizia, in esclusiva, ha spinto uno degli editori a telefonarmi per i complimenti e a farmi capire che sarei rimasto a lavorare a Reggio. Lo stesso, tramite un collega, mi è stato riferito da Sansonetti e dalla “squadra centrale”. Ma quando non si è parlato più di trasferimento, dalle colonne di Calabria Ora il governatore Scopelliti mi ha tacciato come “giustizialista” sostenendo «ci sono molte persone che conoscono mafiosi e non per questo sono mafiosi». Secondo lui «anche qualche giornalista di Calabria Ora…». Effettivamente, molti mafiosi li conosco. Perché scrivo di loro e perché vengono fuori casa a minacciarmi. Non perché sono alla ricerca di voti o per fare affari. Lo stesso giorno della pubblicazione di quell’intervista sono stato invitato ad “Anno zero”, nel corso di un collegamento in diretta da Reggio. Ho parlato del mio lavoro, delle inchieste che ho seguito e dei rapporti tra la ‘ndrangheta e la politica. Tutti argomenti già trattati, assieme a pochi altri colleghi, in articoli vecchi di mesi scorsi. Questa volta, però, il presidente della Regione ed ex sindaco di Reggio Scopelliti reagisce comunicando all’Ansa di aver dato mandato ai suoi avvocati di querelarmi. Nel frattempo, all’indomani dall’annuncio maldestro del governatore di adire alle vie legali, un editoriale del mio nuovo direttore Piero Sansonetti mi ha affibbiato l’appellativo di “forcaiolo”. Una campagna “pro-garantismo” con cui il mio giornale si è schierato dalla parte di Scopelliti isolando me senza, naturalmente, alcuna telefonata. A ventiquatt’ore dalla puntata di “Anno zero” viene diffusa la nuova piattaforma della redazione con cui Sansonetti è ritornato ha disposto il mio trasferimento. Questa volta, però, alla redazione di Catanzaro. La notizia trapela a causa della solidarietà del segretario cittadino del Pdci Ivan Tripodi. Io la confermo all’Ansa e Sansonetti mi querela. Decido di andare in ferie e arriva il licenziamento immediato. Non prima che qualcuno, senza alcuna autorizzazione, dal server centrale di “Calabria Ora”, si introducesse ,sabato mattina, nella mia casella e-mail personale, cambiando la password ed impedendomi tutt’ora l’accesso. Il tecnico responsabile del sito mi ha candidamente riferito che l’editore avrebbe disposto di cancellare il contenuto della mia posta e di impedirmene l’accesso. Inutile sottolineare che si tratta di un fatto gravissimo e penalmente rilevante ed è per questo che su tale ultimo episodio indagano i carabinieri di Reggio ai quali, ancor prima di apprendere del mio maldestro “licenziamento” (via fax), ho presentato regolare querela e dai quali sono stato già lungamente sentito come parte offesa". Lucio Musolino (19 ottobre 2010)

·        Non era Mafia, ma Tangentopoli Siciliana.

Il libro nero della Repubblica italiana. “Mario Mori finì nella gogna complottista perché indagò su mafia e appalti”, parla Giovanni Fasanella. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 11 Dicembre 2021. Incontriamo Giovanni Fasanella, tra i più noti speleologi delle cavità nascoste della storia italiana, all’indomani dell’uscita del suo Libro nero della Repubblica italiana, edito da Chiarelettere. Lo storico e giornalista lo firma insieme con Mario José Cereghino e ne anticipa per noi gli argomenti chiave.

Come nasce il “Libro nero della Repubblica italiana”?

È un unico contenitore per i quattro libri pubblicati da Chiarelettere nell’arco di un decennio, dal 2010 al 2020: Intrigo internazionale, Il golpe inglese, Il puzzle Moro e Le menti del Doppio Stato. Un lavoro basato su un metodo investigativo che interfaccia fonti diverse ma che, alla fine, sottopone le informazioni alla prova documentale attraverso la ricerca d’archivio e fa emergere i contesti in cui maturarono la strategia della tensione, il terrorismo di matrice politica e mafiosa. C’è un filo rosso che lega le varie fasi del “ventennio” di sangue che va dalla strage di Piazza Fontana del 1969 alle stragi del 1992-’93.

La desecretazione del 2014 ha permesso di scoprire carte significative per le sue inchieste?

In realtà, a mio avviso, la desecretazione del 2014 ha dato ben poche novità. Le poche cose interessanti emerse dai documenti declassificati sono quelle che confermano l’influenza del contesto mediterraneo, cioè la guerra segreta per il petrolio, sulle nostre vicende interne, anche quelle più sanguinose. Il resto è paccottiglia.

E gli archivi inglesi appena svelati?

Molto più interessanti. Dagli archivi inglesi e americani emergono prove inconfutabili sul nesso, quasi sempre negato, tra contesti politico-sociali interni e contesti geopolitici internazionali. Sin dalla nascita come Stato unitario, l’Italia non è mai stata un’entità staccata da tutto quello che c’era ai suoi confini.

Andreotti diceva: «Ogni paese ha i suoi vicini. A noi sono capitati i peggiori».

E aveva ragione. Voleva dire che, per trovare risposte ai cosiddetti “misteri”, bisognava approfondire i conflitti lungo i confini più caldi del Novecento: Est-Ovest (comunismo-anticomunismo) e Nord-Sud (guerra petrolifera). E l’Italia, per la sua posizione geografica, era proprio lungo quei confini, e al centro di quei conflitti.

Cosa scopriremo dai fondi britannici, in particolare?

C’è più storia italiana negli archivi britannici, americani e francesi di quanta ce ne sia nel nostro Paese. Per la semplice ragione che Gran Bretagna, Francia e Usa hanno avuto un ruolo enorme, con poteri di condizionamento, nelle varie fasi della nostra vicenda unitaria. Gli interrogativi riguardano piuttosto la nostra capacità di elaborazione delle esperienze traumatiche temporalmente più vicine a noi.

Non siamo disposti ad accettare il nesso profondo, inscindibile tra l’Italia e il quadro internazionale?

Ci sono molte sacche di resistenza di varia natura. Ma sono ottimista: qualcosa finalmente si muove. Le cosiddette “primavere arabe”, per esempio, hanno cambiato nella nostra opinione pubblica la percezione dell’importanza del contesto mediterraneo. E certe verità che emergono dagli archivi stranieri cominciano ad essere viste con meno diffidenza.

“Il Riformista” ha rivelato come il Sisde, nel 1982, avesse riferito dei preparativi dell’attentato alla Sinagoga di Roma, con una informativa rimasta lettera morta. Se ne è occupato?

Non ho elementi per esprimere un giudizio fondato. A occhio mi sembra poco credibile che il governo, non gli apparati, pur sapendo dei preparativi in corso, non avesse avvertito gli interessati e non impedito l’attentato. C’è stato un filtro, secondo i documenti pubblicati dal Riformista, è evidente: possiamo pensare che una filiera dei servizi italiani fosse interessata a creare un casus belli. Mi risulta, quanto al lodo Moro, che esisteva un accordo anche sul fronte israeliano.

C’è un segreto intangibile, tra i tanti?

C’è un “indicibile” dell’esperienza italiana. Indicibile, non invisibile. Ma per rispondere alla sua domanda, sa qual è il nostro “segreto” tuttora intangibile? È l’articolo 16 del Trattato di pace del 1946-’47, imposto dalle nazioni vincitrici della seconda guerra alla nazione sconfitta: quello che impone alle autorità italiane la garanzia dell’impunità per molti nostri cittadini che collaborarono con la causa alleata tra il 1940 e il 1947, cioè il periodo che va dall’anno dell’entrata in guerra dell’Italia a quello dell’entrata in vigore del Trattato. Tra gli altri, c’erano anche molti boss mafiosi ed ex republichini passati sotto altre bandiere e utilizzati nel dopoguerra in altre operazioni. Il testo del Trattato si può trovare negli archivi parlamentari e persino su internet. Ma provi a domandare in giro quanti lo conoscono. Eppure, se studiassimo la genesi e gli effetti di quel Trattato, capiremmo le ragioni di tanti depistaggi e deviazioni.

Su Enrico Mattei ha scritto che l’aereo venne manomesso, si è trattato di un omicidio. Perché nessuna Procura riapre il caso?

L’ultima indagine del magistrato Vincenzo Calia ha stabilito che si trattò di un sabotaggio, quindi di un attentato. Un gran risultato. Ma Calia ha dovuto ammettere, con grande onestà intellettuale, di non essere riuscito a trovare le prove per inchiodare esecutori e mandanti. In un recente dibattito con lui all’Università della Calabria mi sono permesso di integrare la sua ammissione aggiungendo che la ragione di quei buchi è che si è trovato contro un articolo di un Trattato di pace. Calia ha annuito. Veda, negli archivi internazionali, e in particolare in quelli britannici, c’è una documentazione sterminata sull’ostilità, per usare una parola leggera, di interessi stranieri nei confronti di Mattei. Ma la magistratura avrebbe potuto scrivere nel registro degli indagati, per esempio, premier e ministri dell’energia dei vari governi inglesi o francesi?

L’Italia ha vissuto ingerenze internazionali anche derivanti dalla condizione di paese sconfitto dalla guerra: come hanno inciso?

In modo profondo sul nostro sistema politico interno e sulla nostra politica estera, in particolare nell’area mediterranea. Avevamo vincoli internazionali molto rigidi e alcuni anche umilianti. Le nostre classi dirigenti del dopoguerra ne erano consapevoli. E tutte le volte che hanno tentato di aggirarli “furbescamente” o di superarli attraverso processi politici, sono sorti problemi molto seri, diciamo così. Forse Mussolini non avrebbe dovuto dichiarare guerra a mezzo mondo, sarebbe stato più saggio. Le classi dirigenti antifasciste hanno pagato per colpe di altri.

In quel ‘difetto di sovranità’ si può leggere in nuce la necessità adottiva, il confronto tra un fronte filo Usa e uno filo Urss che ha tenuto bloccata la democrazia italiana?

Senza alcun dubbio. Se l’Italia non avesse avuto un partito comunista con una forte componente filosovietica al proprio interno e una forte influenza sull’opinione pubblica italiana, se avessimo avuto una sinistra socialista, socialdemocratica o laburista egemone, gli Usa avrebbero favorito la nascita di un sistema democratico basato sull’alternanza alla guida del Paese tra uno schieramento conservatore e uno progressista. Ma questo vale per gli americani. Per francesi e inglesi, il “problema italiano” non era tanto il Pci, ma l’Italia: la sua posizione geografica nel cuore del Mediterraneo, e quindi la sua potenziale minaccia agli interessi petroliferi di Londra e Parigi.

Chi ha permesso alle Br di sequestrare e uccidere Aldo Moro?

A molti, in Italia e all’estero, faceva comodo che le Br esistessero, crescessero ed entro certi limiti potessero fare quello che avevano in mente di fare. Volevano sequestrare Moro, cioè lo stratega, per un lungo periodo, della politica interna ed estera dell’Italia, il “levantino” democristiano che voleva aggirare i vincoli internazionali? Prego, fate pure, ci aiutate a risolvere un problema.

Nelle sue ricostruzioni emerge qualche distrazione di troppo…

Settori degli apparati di sicurezza, della politica, dell’economia e dell’alta burocrazia dello Stato collegati con interessi stranieri “lasciarono fare”. Benché intercettato con largo anticipo dagli apparati di sicurezza italiana e da almeno sette intelligence di rango internazionale, come ha riferito il giudice Rosario Priore, non solo il sequestro non venne sventato, ma non si riuscì a trovare la prigione e a impedire che il leader democristiano fosse assassinato.

Mani Pulite è il momento in cui i magistrati, rottamando la politica, provarono a sostituirla. Si è indagato poco su quel periodo.

Penso che la storia di quel periodo debba essere ancora scritta. Ci sto lavorando con Mario Josè Cereghino e quello che sta emergendo dalle nostre ricerche conferma l’’idea di un attacco in grande stile alle classi dirigenti della Prima Repubblica e alle culture politiche popolari del Novecento. Sia chiaro, quel ceto politico offrì la testa al cappio perché fu incapace di autoriformare il sistema modellato durante la guerra fredda. Ma sul fatto che l’obiettivo della “rivoluzione” fosse la grande industria pubblica che nel secondo dopoguerra aveva contribuito a fare dell’Italia una delle potenze economiche mondiali, non c’è alcun dubbio. E non mi riferisco ai magistrati, che nella maggior parte dei casi facevano il loro mestiere, ma agli interessi interni e internazionali che misero il vento nelle vele di “Mani pulite”.

Otto anni fa aveva dichiarato, a proposito dell’insussistenza della Trattativa Stato-Mafia, che “Il generale Mori è stato neutralizzato perché indagava su Mafia-Appalti”. I fatti si sono incaricati di darle ragione. Perché certe teorie del complotto hanno così ampio successo?

Un ex direttore del Corriere della Sera propose alla Mondadori di pubblicare un libro sul punto di vista del generale Mori, criminalizzato dalla stampa per via delle inchieste in corso a Palermo, mentre il figlio di Vito Ciancimino furoreggiava con un suo volume in tutti i programmi di “approfondimento” televisivo. Chiesero a me e accettai subito: non solo perché ritenevo che fosse giusto concedere anche a Mori la possibilità di dire la sua, ma soprattutto perché ero curioso di conoscere la sua storia: la storia di un servitore dello Stato che per qualche misteriosa ragione era finito in un vero e proprio tritacarne. Avevo già delle idee che mi ero fatto all’inizio dei Novanta, quando ero cronista parlamentare e quirinalista di Panorama, negli anni delle stragi mafiose, della rivoluzione di Mani pulite e del crollo della Prima Repubblica. Poi avevo avuto modo di approfondirle attraverso le conversazioni con Giovanni Pellegrino, il giudice Rosario Priore e molti altri depositari di conoscenze sul “doppiofondo melmoso” della Prima Repubblica, come lo definì Luciano Violante. Cioè, l’apparato del potere occulto costruito in Italia nell’immediato dopoguerra dai servizi americani, inglesi e francesi, di cui la mafia e la Sicilia erano dei pilastri.

Fino a un certo tornante della storia…

Dopo la caduta del Muro, finita la guerra fredda, quell’apparato non si sentiva più protetto. E quando conobbi il generale Mori, leggendo le carte, ormai di dominio pubblico su “mafia e appalti”, raccolte dai suoi uomini per Giovanni Falcone, mi convinsi che quella zona grigia del potere doveva sentirsi minacciata dalle indagini dei Carabinieri. Non so dire se Mori e i suoi uomini ne fossero consapevoli sino in fondo, ma confrontando il loro lavoro con le informazioni che avevo pubblicato in libri precedenti o su Panorama, mi resi conto che con “mafia e appalti” probabilmente erano stati toccati fili sensibilissimi.

E perché le teorie complottiste trovano così largo successo?

Nascono e si affermano per i motivi più svariati. Per una scarsa conoscenza della storia, per esempio. Ma anche, il più delle volte, come reazione all’incapacità (impossibilità) della magistratura e della storiografia di fornire ricostruzioni attendibili e, per quanto è possibile, complete dei fatti, con la loro contestualizzazione e la loro interpretazione.

La magistratura potrebbe aiutare la ricerca storica nella ricostruzione delle verità nascoste, ad esempio rendendo consultabili tutti gli atti di inchiesta dopo la conclusione dell’ultimo grado di giudizio?

Certamente, le inchieste giunte all’ultimo grado del giudizio possono aiutare la ricostruzione storica. Ma sono solo una fonte, non la storia, che deve avvalersi invece di tutte le fonti disponibili. In Italia, purtroppo, spesso si tende a trasformare in storia definitiva addirittura un’indagine preliminare.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

A chi serve il mito della mafia invincibile? La lotta alla mafia è una cosa seria e immiserendola con l'allarmismo e la propaganda non si rende onore e servigio a quanti hanno sempre ritenuto che fosse un nemico da poter sconfiggere; descrivendola come invincibile, in fondo, ci si iscrive al partito dei conniventi, ossia di quanti la vogliono in esistenza per motivi che troppo hanno a che fare con le proprie fortune. Alberto Cisterna su Il Dubbio il 26 novembre 2021. Esiste oggi un’emergenza mafia? La risposta tra quanti conoscono a fondo la reale condizione delle organizzazioni malavitose del paese è tutt’altro che scontata. Diradato il fumo della propaganda, messi da parte gli interessi carrieristici ed economici di quanti hanno fatto della “lotta alla mafia” un mestiere senza il quale non saprebbero come sbarcare il lunario, andare in tv, rilasciare interviste, percepire sovvenzioni pubbliche e prebende varie; messo da parte tutto questo, a dire il vero ci sarebbe da discutere a lungo del tema.

Non è controversa la buona fede di coloro i quali – pochini sia chiaro – sono davvero convinti che le piovre abbiano conquistato il paese e che, come nel Benito Cereno di Melville, i poteri legali siano solo il simulacro, l’ombra ingannevole di un centro occulto che muove pedine e burattini e conduce da sempre la nave Italia per rotte illegali. Molti di costoro non possono dimostrare le proprie tesi se non per suggestioni, accostamenti, giustapposizioni e tante supposizioni in cui manca, spesso, ogni prova di un legame certo o anche solo probabile tra i fatti. Decine di libri, di reportage, di dichiarazioni supportano questo credo cui occorre portare rispetto, mi pare evidente. Ci si muove nell’ambito appunto di un credo che – tornando all’illuminante articolo di Aldo Varano di un paio di giorni or sono – tiene insieme, in un fatidico 1969, un summit in Aspromonte dell’Onorata società, il golpe Borghese e, visto che ci siamo, anche lo sbarco sulla luna che, già da solo, costituisce uno dei luoghi privilegiati in cui si esercitano le teorie complottiste. A chi potrebbe replicare, infastidito o irritato, che lo sbarco sulla luna non c’entra nulla con la ndrangheta e con il colpo di stato ideato del 1969, si potrebbe comodamente rispondere che non sarebbe del tutto impossibile trovare qualche accattone di pentito disponibile a dichiarare che la Cia abbia simulato il primo passo di Neil Armstrong sulle sabbie lunari per consentire alle coppole calabresi e ai generali di valersi della possente copertura americana, potenza capace di conquistare lo spazio. Provocazioni, certo, solo provocazioni. Ma senza prove lo sono anche tutte le altre tesi, compresa quella di un mondo governato dalla Spectre mafiosa italiana. I fatti dicono altro. Sequestri e confische antimafia portano a galla marginalità finanziarie e patrimoniali rispetto all’immaginifico mondo dorato descritto da alcuni centri studi e trasferito in report che confezionano stime plurimiliardarie delle ricchezze mafiose tratte da fonti imprecisate, approssimative, suggestive, mai verificate o verificabili. Due dati: basterebbe leggere l’elenco dei beni gestiti dall’Agenzia nazionale per rendersi conto di come non esista alcuna corrispondenza tra quelle stime allarmistiche e ciò che la pur brillante e incessante attività investigativa porta in evidenza ogni anno; secondariamente occorrerebbe banalmente chiarire perché decine di mafiosi, camorristi e ndranghetisti si siano affannati per percepire il reddito di cittadinanza se – suddividendo le stime astronomiche per il numero presunto degli affiliati – ciascun malavitoso dovrebbe avere a disposizione alcuni milioni di euro di profitti illeciti e ogni anno, si badi bene. Da ultimo l’allerta antimafia segnala il tentativo di aggredire il sistema delle misure antimafia e di mettere mano all’ergastolo ostativo, sostenendo che così verrebbero meno due pilastri insostituibili dell’azione di contrasto alla piovra. Bene, chi scrive condivide l’idea che la prevenzione antimafia abbia una propria ragione d’esistere e che, gestita con prudenza e capacità, sia un connotato indefettibile dell’azione di contenimento alle cosche. E’ proprio chi sposa la tesi dei miliardi di euro occultati ogni anno e mai scoperti, chi sostiene che l’economia mondiale sia inquinata in profondità dai patrimoni mafiosi, chi denuncia che le criptovalute siano il campo libero del riciclaggio dei clan, chi lancia allarmi persino sui contatti tra ndrangheta e Isis che dovrebbe invocare a viva voce che un sistema del genere, così incapace di far fronte a questa asserita devastazione economica, sia messo da parte. Invece si lanciano allarmi contro il rischio di una dismissione o di una riduzione del sistema di prevenzione, non rendendosi conto – facendo finta di non  rendersi conto – che coerenza pretenderebbe che non si difenda l’inefficienza e non si conservi lo status quo. Ma quello della coerenza è un altro discorso. In modo simmetrico, si dice che l’ergastolo ostativo – quello che non consente ai mafiosi di accedere ai benefici carcerari senza una collaborazione di giustizia – sia uno strumento indispensabile e irrinunciabile per la lotta alle mafie. Bisogna intendersi. La Corte costituzionale ha detto altro, ma passi; toccherà (forse) al legislatore mettere mano alla questione. Se si intende dire che occorre far morire i mafiosi in carcere, la tesi ha, come dire, una propria ragionevolezza punitiva. Se ergastolo è che ergastolo sia. Peccato che la Costituzione dica altro e che dozzine di sentenze della Consulta ricordino che l’ergastolo è compatibile con la funzione rieducativa della pena alla sola condizione che preveda un’emenda in corso di esecuzione e, quindi, un’attenuazione. C’è, però, chi abbraccia la tesi di una mera funzione distributiva della pena e, quindi, repressiva. Secondo questa traiettoria, insomma, che muoiano in carcere; punto e basta. Il pendolo del diritto è molto chiaro e corre in direzione opposta, ma ogni opinione è lecita. Se solo si avesse il coraggio di esprimerla in questi termini. Ma, si sa, non è politicamente corretto spingersi in avanti con chiarezza su questo punto e allora si aggira il problema dicendo che, con l’abolizione dell’ergastolo ostativo, si prosciugherebbe il fiume delle collaborazioni di giustizia, strumento parimenti prezioso dell’arsenale antimafia. Anche questa volta, però, i fatti dicono altro. Messa da parte la collaborazione di Gaspare Spatuzza, iniziata da oltre un decennio, il fiume è un rigagnolo, se non un acquitrino, e nessun rilevante pentimento di mafia si è avuto da moltissimo tempo a questa parte. I boss non cedono, non intendono collaborare e le aule di giustizia sono affollate di seconde e terze linee che o non hanno nulla di particolarmente rilevante da dichiarare oppure si inseriscono a mano libera nelle varie main stream più o meno complottiste (golpe, raduni, logge, miliardi e via seguitando) per accreditarsi presso qualche inquirente compiacente o sprovveduto. Insomma la lotta alla mafia è una cosa seria e immiserendola con l’allarmismo e la propaganda non si rende onore e servigio a quanti hanno sempre ritenuto che fosse un nemico da poter sconfiggere ; descrivendola come invincibile, in fondo, ci si iscrive al partito dei conniventi, ossia di quanti la vogliono in esistenza per motivi che troppo hanno a che fare con le proprie fortune.

Il memoriale di Mario Mori. Mario Mori ci racconta come solo il Ros rimase a combattere la mafia, il memoriale del generale in quattro puntate. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Ottobre 2021. Iniziamo oggi a pubblicare il memoriale inedito scritto dal generale Mario Mori nel quale si raccontano le vicende della lotta alla mafia all’inizio degli anni novanta. Mori, insieme al nucleo dei Ros (carabinieri) dei quali faceva parte, ebbe un ruolo decisivo in quella battaglia. L’aveva iniziata al fianco di Giovanni Falcone alla fine degli anni ottanta, la proseguì fino al clamoroso successo della cattura del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. In quegli anni realizzò indagini di straordinaria importanza, alcune delle quali, purtroppo, andarono poi disperse per via delle decisioni della Procura di Palermo. La più nota è quella che va sotto il nome di “mafia-appalti”, che Borsellino cercò di avere assegnata senza successo, e che poi fu archiviata dopo l’uccisione di Borsellino. Mori, come sapete, è stato negli ultimi anni trascinato più volte in tribunale (i tribunali della Repubblica e quelli della Tv, compresa la Rai) e ne è sempre uscito clamorosamente assolto (non dalla Rai che ancora non ha chiesto scusa). Noi crediamo che sia stato vittima di una vera e seria congiura della quale, purtroppo, molto probabilmente nessuno mai renderà conto. Era il nemico numero 1 della mafia e poi – chissà perché, ma forse non è difficile immaginarlo – diventò il nemico della cosiddetta “antimafia professionale”. Questa testimonianza che ha messo per iscritto a noi sembra di grandissima importanza per cercare di intravvedere almeno alcune verità. La pubblichiamo da oggi, tutti i giorni, in quattro puntate.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Tutti fanno finta di non sapere. La vera storia del covo di Totò Riina e il falso mito della perquisizione mancata – Il memoriale di Mario Mori. Mario Mori su Il Riformista il 26 Ottobre 2021. Nelle interminabili discussioni originate dall’attività operativa del Ros dei Carabinieri nel contrasto alla mafia, il punto di partenza è sempre costituito dalla mancata perquisizione del “covo” di Salvatore Riina. Quale protagonista di quei fatti espongo in merito la mia versione. Subito dopo la cattura del capo di “cosa nostra”, nella riunione tra magistrati e investigatori che ne seguì, fu naturalmente considerata l’ipotesi dell’immediata perquisizione della sua abitazione, ubicata a Palermo in via Bernini 54, ma al momento non individuata precisamente, perché inserita in un comprensorio – delimitato da un alto muro di recinzione – costituito da una serie di villette indipendenti. Prospettata dal cap. Sergio De Caprio, e da me sostenuta, prevalse la decisione di non effettuare la perquisizione. La proposta derivava della considerazione che il Riina era stato appositamente arrestato lontano dal luogo di residenza della famiglia – un suo “covo” non è mai stato trovato – e teneva conto della prassi mafiosa di non custodire, nelle proprie abitazioni, elementi che potessero compromettere i parenti stretti. Questa soluzione avrebbe dovuto permetterci lo sviluppo di indagini coperte sui soggetti che gli assicuravano protezione, senza che fosse nota la nostra conoscenza della sua abitazione. L’improvvida indicazione dell’indirizzo ad opera di un ufficiale dell’Arma territoriale di Palermo, che consentì alla stampa, dopo circa ventiquattro ore dalla cattura, di presentarsi con le telecamere davanti all’ingresso di via Bernini, “bruciò” l’obiettivo, e i conseguenti servizi di osservazione del cancello di accesso al comprensorio furono sospesi per il serio pericolo di lasciare dei militari dentro un furgone isolato, esposto a qualsiasi tipo di offesa. A questo punto anche le indagini che ci eravamo prefissi di svolgere in copertura divennero molto più difficili, stante l’eco addirittura internazionale della vicenda. Malgrado queste difficoltà, la cattura del Riina non rimase un fatto episodico, perché attraverso alcuni “pizzini” trovatigli addosso, fu possibile risalire alla cerchia stretta dei suoi favoreggiatori, procedendo in successione di tempo al loro arresto. La perquisizione della villetta abitata dai Riina venne eseguita solo dopo alcuni giorni su iniziativa della Procura della Repubblica di Palermo, in un quadro di scollamento tra le attività della magistratura e della polizia giudiziaria. Noi eravamo convinti di potere sempre agire nell’ambito delle iniziative preliminarmente concordate, mentre la Procura era sicura del mantenimento del controllo sull’obiettivo. L’equivoco diede luogo all’apertura di un procedimento giudiziario che i sostituti procuratori incaricati, Antonio Ingroia e Michele Prestipino, proposero per due volte di archiviare, ma il Gip, attraverso un’ordinanza di imputazione coatta, decise per l’apertura del processo, con l’ipotesi, a carico mio e del cap. Sergio De Caprio, di favoreggiamento di elementi di “cosa nostra”. La vicenda penale si concluse con la nostra piena assoluzione, perché “il fatto non costituisce reato”. Nella motivazione, la 3° Sezione penale del Tribunale di Palermo, sulla decisione volta a dilazionare la perquisizione, sosteneva testualmente: «… Questa opzione investigativa comportava evidentemente un rischio che l’Autorità Giudiziaria scelse di correre, condividendo le valutazioni espresse dagli organi di Polizia Giudiziaria direttamente operativi sul campo, sulla rilevante possibilità di ottenere maggiori risultati omettendo di eseguire la perquisizione. Nella decisione di rinviarla appare, difatti logicamente, insita l’accettazione del pericolo della dispersione di materiale investigativo eventualmente presente nell’abitazione, che non era stata ancora individuata dalle forze dell’ordine, dal momento che nulla avrebbe potuto impedire a “Ninetta” Bagarella (moglie del Riina, ndr) che vi dimorava, o ai Sansone, che dimoravano in altre ville ma nello stesso comprensorio, di distruggere o occultare la documentazione eventualmente conservata dal Riina – cosa che avrebbero potuto fare nello stesso pomeriggio del 15 gennaio, dopo la diffusione della notizia dell’arresto in conferenza stampa, quando cioè il servizio di osservazione era ancora attivo – od anche terzi che, se sconosciuti alle forze dell’ordine, avrebbero potuto recarsi al complesso ed asportarla senza destare sospetti. L’osservazione visiva del complesso, in quanto inerente al cancello di ingresso dell’intero comprensorio, certamente non poteva essere diretta ad impedire tali esiti, prestandosi solo ad individuare eventuali latitanti che vi avessero fatto accesso ed a filmare l’allontanamento della Bagarella, che non era comunque indagata e le frequentazioni del sito». Sull’ipotesi, emersa già anche in quel processo, di una trattativa condotta dal Ros con uomini di “cosa nostra”, il Tribunale la escludeva con queste considerazioni: «… La consegna del boss corleonese nella quale avrebbe dovuto consistere la prestazione della mafia è circostanza rimasta smentita dagli elementi fattuali acquisiti nel presente giudizio». A conferma dell’approccio sempre manifestato, fondato cioè sulla convinzione della nostra non colpevolezza, la Procura di Palermo non interpose appello. Malgrado l’esito processuale, che non avrebbe dovuto concedere ulteriori margini di discussione, “la mancata perquisizione del covo di Riina” rimane tuttora un postulato per coloro che sostengono il teorema delle mie responsabilità penali nell’azione di contrasto a “cosa nostra”. In particolare viene sempre citata l’esistenza di una cassaforte – contenente chissà quali segreti – che sarebbe stata smurata ed asportata dall’abitazione del boss e a nulla vale presentare la fotografia, scattata anni dopo e agli atti dei procedimenti giudiziari, che ritrae il mio avvocato, il senatore Pietro Milio, a fianco della cassaforte ancora ben infissa nel muro. Nell’ipotesi peggiore, l’attività investigativa mia e dei militari che comandavo è considerata sostanzialmente criminale. Bene che vada, la tecnica operativa attuata dal Ros, mutuata dal Nucleo Speciale Antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, è definita come autoreferenziale, quindi non perfettamente in linea con i canoni stabiliti dalle norme procedurali. Di fronte a queste accuse che considero ingiuste, ritengo di dovere fare alcune considerazioni. Le critiche che mi vengono rivolte, relative alle indagini svolte dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, sono sostenute per lo più da persone che, all’epoca, in quella primavera/estate del 1992, se non erano minorenni, certamente non hanno avuto nessuna partecipazione e conoscenza vissuta degli eventi, per cui esprimono giudizi senza avere presente la realtà di quei drammatici mesi. La società nazionale ed in particolare i siciliani, già profondamente colpiti dal tragico attentato di Capaci, accolsero attoniti la nuova strage di via D’Amelio. Chi si trovava allora a Palermo poteva constatare l’angoscia e la paura diffuse, non solo tra i cittadini comuni, ma anche in coloro che per gli incarichi ricoperti avevano il dovere di contrastare con ogni mezzo “cosa nostra”. Ricordo in particolare come alcuni magistrati sostenessero che era finita la lotta alla mafia e parlassero di resa; ho ancora ben presenti tutti quei politici, giornalisti ed esperti che esprimevano il loro sconfortato pessimismo, valutando senza possibilità di successo il futuro del contrasto al fenomeno. Anche molti colleghi, tra le forze di polizia, avevano iniziato a privilegiare il più prudente e coperto lavoro d’ufficio rispetto alle attività su strada. Nessuno, comunque, a livello di magistratura ma anche da parte degli organi politici competenti, ovvero delle scale gerarchiche delle forze di polizia, ritenne, in quei giorni, d’impartire direttive o delineare linee d’azione investigative aggiornate per contrastare più efficacemente l’azione criminale di “cosa nostra”. Le istituzioni sembravano dichiararsi impotenti contro l’attacco mafioso. In particolare erano scomparsi dalla scena i protagonisti dell’antimafia militante. In questo sfacelo generale alcuni, e tra questi i Carabinieri del Ros, ritennero invece un dovere, prima morale e poi professionale, incrementare l’attività investigativa, nel rispetto della propria funzione e per onorare la memoria dei morti nelle due stragi. Decisi così d’iniziativa, ma nella mia competenza di responsabile di un reparto operativo dell’Arma, di attualizzare e rendere più incisiva l’attività d’indagine, costituendo un nucleo, comandato dal cap. Sergio De Caprio, destinato esclusivamente alla cattura di Riina ed autorizzai il cap. Giuseppe De Donno a perseguire la sua idea di contattare Vito Ciancimino, personalità politica notoriamente prossima alla “famiglia” corleonese, nel tentativo di ottenere una collaborazione che consentisse di acquisire notizie concrete sugli ambienti mafiosi, così da giungere alla cattura di latitanti di spicco. Si tenga conto che il cap. De Donno, negli anni precedenti, aveva arrestato Vito Ciancimino per vicende connesse ad appalti indetti dal Comune di Palermo, ma se si voleva ottenere qualche risultato concreto, non si poteva ricercare notizie valide tra i soliti informatori più o meno attendibili, ma avvicinare chi con la mafia aveva sicure relazioni. A proposito del contatto con Vito Ciancimino non posso essere criticato per un’attività riservata nella ricerca di notizie e di latitanti; infatti le norme procedurali consentono all’ufficiale di polizia di ricercare e tenere rapporti con quelli che ritiene in grado di fornirgli informazioni. Ciancimino quindi, libero cittadino in attesa di giudizio, era una potenziale fonte informativa e per questo avvicinabile in tutta riservatezza dalla polizia giudiziaria, così come previsto dall’art. 203 del nostro codice di procedura penale. Mario Mori

Seconda puntata degli scritti del Generale del Ros. La verità sul dossier mafia-appalti – Il memoriale di Mario Mori. Mario Mori su Il Riformista il 27 Ottobre 2021. Molti mi imputano il fatto di non avere avvertito l’autorità giudiziaria competente del tentativo di convincere l’ex sindaco di Palermo alla collaborazione. Del tentativo ritenni di dovere rendere edotte alcune cariche istituzionali. La dott. Liliana Ferraro, stretta collaboratrice di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia, ne fu informata nel corso del mese di giugno 1992, sino dai primi approcci tentati dal cap. De Donno col figlio del Ciancimino; il magistrato ne parlò a sua volta col ministro Claudio Martelli e con il dott. Borsellino. Nel luglio 1992 avvisai personalmente il segretario generale di palazzo Chigi, l’avv. Fernanda Contri, che comunicò la notizia al presidente del Consiglio dei Ministri, Giuliano Amato. Nell’ottobre successivo ne parlai ripetutamente all’on. Luciano Violante, nella sua qualità di presidente della Commissione Parlamentare Antimafia. Tutti questi contatti hanno avuto conferme da parte degli interessati nei dibattimenti processuali che mi hanno riguardato. Le personalità qui citate rivestivano cariche istituzionali e avevano funzioni che mi consentivano di riferire loro notizie riservate sulle indagini che stavo svolgendo. Se qualcuno di costoro, peraltro, avesse ravvisato qualche comportamento illecito nel mio comportamento, avrebbe avuto l’autorità, anzi l’obbligo, di denunciarlo immediatamente ai miei superiori, ovvero alle autorità politiche da cui dipendeva la mia scala gerarchica, ma questo non avvenne. La mia scala gerarchica, per suo conto, sulle indagini svolte, così come previsto, eseguì successivamente un’indagine amministrativa che si concluse senza rilevare elementi censurabili nella mia condotta. Rimane però il fatto di non avere informato la Procura della Repubblica di Palermo per un tentativo certamente non di routine che prevedeva, per me e De Donno, e questo deve essere chiaro, anche significativi rischi personali, visto che ci eravamo presentati con i nostri nomi e le nostre funzioni ad una persona legata strettamente ai “corleonesi”, avendogli precisato, dopo i primi approcci, che il nostro intento finale era quello di ottenere la cattura dei latitanti mafiosi di spicco. Sarò esplicito sul punto: decisi di non avvisare la Procura di Palermo, in attesa della sostituzione prevista di lì a qualche mese del suo responsabile, dott. Pietro Giammanco, perché non mi fidavo della sua linearità di comportamento e ne spiego qui di seguito i motivi. Quando fui nominato, nel settembre 1986, comandante del Gruppo CC. di Palermo, provenivo dall’esperienza della lotta al terrorismo condotta dal Nucleo Speciale di PG del gen. Dalla Chiesa, dove si era capito che nelle indagini contro le maggiori espressioni di criminalità – terrorismo ma anche delinquenza organizzata di tipo mafioso – si doveva agire considerando il fenomeno nel suo complesso e non per singoli aspetti. Mi resi conto che a Palermo le Forze di Polizia operavano di norma per eventi specifici – solo con Giovanni Falcone ed il pool antimafia si era cominciato ad affrontare analiticamente il fenomeno mafioso – ottenendo risultati complessivamente inadeguati. Mancava la cultura dell’indagine di lungo respiro, preferendo il più facile risultato immediato ma senza prospettive, a un’azione che, portata in profondità, consentisse alla fine di raggiungere risultati realmente consistenti. Questo concetto d’azione, cioè il differimento della perquisizione dell’abitazione, sarà alla base dell’indirizzo d’indagine prospettato ai magistrati subito dopo la cattura di Salvatore Riina. Per tornare al mio arrivo a Palermo, mi parve presto chiaro che “cosa nostra” non si preoccupava tanto della cattura di qualche suo elemento, perché sempre sostituibile, ma temeva gli attacchi alle sue attività in campo economico, quelle cioè che le consentivano di sostenersi ed ampliare il proprio potere. Individuai non nelle estorsioni, il così detto pizzo, ma nella gestione e nel condizionamento degli appalti pubblici, il canale di finanziamento più importante dell’organizzazione. Dalle prime indagini, da me assegnate al cap. Giuseppe De Donno, si evidenziò la figura di Angelo Siino quale uomo di “cosa nostra” incaricato di gestire i rapporti con gli altri protagonisti dell’affare appalti. Per la prima volta, con il sostegno convinto e fattivo di Giovanni Falcone, si sviluppò un’indagine specifica relativa alle turbative realizzate nelle gare degli appalti pubblici, partendo dagli interessi mafiosi. Emerse allora il fatto che dei tre protagonisti cointeressati (mafia, imprenditoria e politica) imprenditoria e politica, come sino ad allora ritenuto, non erano affatto vittime, ma partecipi dell’attività criminosa, concorrendo alla spartizione dei proventi illeciti. Si arrivò così a risultati concreti addirittura prima, come sostenuto dallo stesso dott. Antonio di Pietro in dichiarazioni processuali, che l’inchiesta milanese “Mani pulite” prendesse corpo e producesse i suoi effetti pratici. Infatti, all’inizio di febbraio 1991, il dottor Falcone, nel lasciare il Tribunale di Palermo per il ministero della Giustizia, chiese di depositare l’informativa riassuntiva sull’indagine che era già stata preceduta da una serie di notazioni preliminari, redatte dal cap. De Donno su aspetti particolari dell’inchiesta, tra cui quelli relativi alle attività di politici apparsi nel corso degli accertamenti. Giovanni Falcone spiegò che la consegna formale fatta nelle sue mani ci avrebbe in parte protetti dalle polemiche che l’indagine avrebbe sicuramente creato. Appena ricevuta l’informativa, il dottor Falcone la portò al procuratore capo Pietro Giammanco. Da quel 17 febbraio 1991, per mesi, malgrado le insistenze del cap. De Donno e mie, non si seppe più nulla dell’inchiesta, e questo anche se, il 15 marzo 1991, in un convegno tenutosi al castello Utveggio di Palermo, a proposito della nostra indagine, Giovanni Falcone avesse affermato: « … Si potrebbe dire che abbiamo fatto dei tipi di indagine a campione, da cui si può dedurre con attendibilità un certo tipo di condizionamento, ma l’indagine di cui mi sono occupato a Palermo, mi induce a ritenere che la situazione sia molto più grave di quello che appare all’esterno …»; e proseguendo: «Io credo che la materia dei pubblici appalti è la più importante perché è quella che consente di fare emergere come una vera e propria cartina di tornasole quel connubio, quell’ibrido intreccio tra mafia, imprenditoria e politica …». Il 2 luglio 1991, infine, furono emesse cinque ordinanze di custodia cautelare per quattro imprenditori siciliani più Angelo Siino. Dopo pochi giorni tutti, a cominciare da “cosa nostra”, seppero i risultati raggiunti dall’inchiesta e soprattutto dove questa poteva portare, perché alla scontata richiesta degli avvocati difensori di conoscere gli elementi di accusa relativi ai propri patrocinati, invece di stralciare e consegnare esclusivamente gli aspetti documentali relativi ai singoli inquisiti, così come previsto dalla norma, venne consegnata l’intera informativa: 878 pagine più gli allegati. Il procuratore Giammanco, addirittura, ritenne d’inviare l’informativa al ministro della Giustizia Claudio Martelli, iniziativa presa nell’agosto del 1991, provocando la reazione del ministro che, consigliato da Giovanni Falcone, la rispedì al mittente, rilevando e sottolineando l’irritualità della trasmissione di un atto di indagine che, in quanto tale, non poteva essere di competenza dell’autorità politica. Iniziò in quel periodo la crisi nei rapporti tra la Procura Palermo e il Ros. Nel marzo 1992 rientrò a Palermo, proveniente dalla Procura della Repubblica di Marsala, Paolo Borsellino, assumendo le funzioni di procuratore aggiunto. Tra lo stupore generale, il procuratore Giammanco, non gli delegò la competenza delle indagini antimafia su Palermo e provincia. A riguardo appare oltremodo significativa l’affermazione, riportata nella recente sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta (Borsellino quater), attribuita a Giuseppe “Pino” Lipari che, alla notizia del rientro del magistrato a Palermo, aveva sostenuto come il fatto avrebbe portato problemi a “quel santo cristiano di Giammanco ”. Il Lipari era un geometra palermitano che curava gli affari della “famiglia” corleonese. In quei primi mesi Paolo Borsellino divenne rapidamente il punto di riferimento di magistrati e investigatori impiegati nel contrasto alla mafia e continuò a mantenere costanti rapporti personali e professionali con Giovanni Falcone che il 23 maggio 1992, a Capaci, venne ucciso da una bomba che provocò anche la morte della moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e di tre addetti alla sua scorta. Da quel momento l’attività di Paolo Borsellino assunse un ritmo quasi frenetico e continuò sino alla sua fine, avvenuta il successivo 19 luglio 1992. Mario Mori

L'informativa dei Ros chiave segreta, ma fu cestinata...La rivelazione di Borsellino: “Ecco perché Falcone è stato ammazzato” – Il memoriale di Mario Mori. Mario Mori su Il Riformista il 28 Ottobre 2021. Nel periodo compreso tra l’uccisione di Falcone e quella di Borsellino (e lo sterminio delle loro scorte) si sviluppò una significativa serie di vicende riguardanti le indagini del Ros, e precisamente:

19 giugno 1992, due ufficiali del Ros, i capitani Umberto Sinico e Giovanni Baudo, informano direttamente il dott. Borsellino di avere ricevuto notizie confidenziali circa la preparazione di un attentato nei suoi confronti, precisando e che in merito erano stati formalmente allertati gli organi istituzionali competenti per la sua sicurezza;

25 giugno 1992, Paolo Borsellino mi chiede un incontro riservato che si svolge a Palermo nella caserma Carini, presente anche il cap. De Donno. Il magistrato, che già aveva ottenuto dal Ros il rapporto “mafia e appalti” quando era a Marsala – in merito ci sono le dichiarazioni processuali a conferma da parte dei magistrati Alessandra Camassa, Massimo Russo e Antonio Ingroia, oltre a quelle dell’allora maresciallo Carmelo Canale – sostiene di volere proseguire le indagini già coordinate da Giovanni Falcone che gliene aveva parlato ripetutamente e sollecita, ottenendola, la disponibilità operativa del Cap. De Donno e degli altri militari che avevano condotto l’inchiesta;

Mario Mori ci racconta come solo il Ros rimase a combattere la mafia, il memoriale del generale in quattro puntate

12 luglio 1992, la Procura di Palermo, con lettera di trasmissione a firma Giammanco, invia quasi per intero l’informativa Ros sugli appalti ad altri uffici giudiziari siciliani “per conoscenza e per le opportune determinazioni di competenza”. Per un’indagine basata sull’ipotesi di associazione per delinquere di tipo mafioso (416 bis c.p.) la procedura adottata implica, da parte della Procura mandante, il sostanziale cessato interesse per gran parte dell’indagine, infliggendole un colpo praticamente mortale;

13 luglio 1992, i sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato chiedono l’archiviazione dell’inchiesta mafia e appalti;

14 luglio 1992, in una riunione dei magistrati della Procura di Palermo, Paolo Borsellino chiede notizie sull’inchiesta e afferma che i Carabinieri sono delusi della sua gestione. Dalle successive dichiarazioni al Csm da parte dei presenti a quella riunione, emerge che nessuno gli dice che ne è già stata proposta l’archiviazione (Guido Lo Forte era tra i presenti);

16 luglio 1992, si tiene a Roma una cena tra Paolo Borsellino, l’on. Carlo Vizzini, e i magistrati palermitani Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli. Nel corso dell’incontro, a riguardo c’è la testimonianza processuale di Carlo Vizzini, il dott. Borsellino parla diffusamente dell’indagine mafia e appalti individuandola come una delle possibili cause della morte di Giovanni Falcone. Il dott. Lo Forte non informa il collega che due giorni prima, insieme al dott. Roberto Scarpinato, ne aveva chiesto l’archiviazione. Anche il giornalista Luca Rossi testimonierà in dibattimento di avere avuto, in quei giorni, un incontro con Palo Borsellino che gli parlò dell’inchiesta mafia e appalti. Vale la pena altresì ricordare, come risulta dalle plurime testimonianze dei suoi colleghi, tra cui Vittorio Aliquò, Leonardo Guarnotta, e Alberto Di Pisa, che il dott. Borsellino ritenesse come l’interesse mostrato dall’amico Giovanni Falcone per l’indagine fosse una delle possibili cause della morte di quest’ultimo;

19 luglio 1992, al primo mattino, il dott. Borsellino riceve la telefonata del procuratore Giammanco che gli conferisce la delega ad occuparsi delle indagini relative alla città di Palermo e alla sua provincia. Nel pomeriggio il magistrato viene ucciso da un’autobomba unitamente ai cinque agenti della sua scorta;

22 luglio 1992, tra giorni dopo la morte di Paolo Borsellino, il procuratore Giammanco inoltra al Gip del Tribunale di Palermo la richiesta di archiviazione per mafie e appalti;

14 agosto 1992, il Gip del Tribunale di Palermo, dott. Sergio La Commare, firma l’archiviazione dell’inchiesta. La decisione passa inosservata nella completa distrazione propria del periodo ferragostano.

Sulla base di questa sequenza di fatti e alla luce dei successivi sviluppi investigativi, si dovrebbe chiedere ai magistrati della Direzione Distrettuale di Palermo perché, il 14 luglio 1992, nella loro riunione, non fu detto a Paolo Borsellino che c’era già una richiesta di archiviazione per mafia e appalti e per quali motivi si voleva chiudere l’indagine, e inoltre perché il procuratore Giammanco non sia stato mai formalmente sentito su queste vicende. In particolare, poi, al dott. Giammanco, vissuto sino al 2 dicembre 2018, viste le polemiche nel frattempo insorte e protratte nel tempo, si sarebbe dovuto chiedere di:

… spiegare il motivo per cui solo il 19 luglio (giorno dell’attentato di via D’Amelio), previa una telefonata di primo mattino, concesse a Paolo Borsellino la delega ad investigare anche sui fatti palermitani;

… commentare l’affermazione fatta da Giovanni Falcone alla giornalista Liana Milella, quando, riferendosi alle determinazioni assunte dalla Procura della Repubblica di Palermo sull’inchiesta mafie e appalti le definì: “Una decisione riduttiva per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”;

… chiarire i termini dell’appunto rinvenuto nell’agenda elettronica di Giovanni Falcone nella quale si evidenziavano le pressioni del dott. Giammanco sul cap. De Donno al fine di chiudere l’inchiesta mafia e appalti, giustificate dal procuratore come richieste pervenute dal mondo politico siciliano che altrimenti non avrebbe più ottenuto i fondi statali per gli appalti;

… smentire eventualmente le dichiarazioni di Angelo Siino che, nel corso della sua collaborazione, sempre ritenuta fondamentale dalla Procura della Repubblica di Palermo, affermò di avere avuto l’informativa mafia e appalti pochi giorni dopo il suo deposito e che il documento gli era pervenuto, attraverso l’on. Salvo Lima, dal dott. Giammanco.

Infine mi piacerebbe conoscere perché le dichiarazioni di alcuni magistrati della Direzione Distrettuale di Palermo che il 29 luglio 1992 e nei giorni a seguire, sentiti dal Consiglio Superiore della Magistratura, avevano riferito della riunione della Dda di Palermo, tenutasi il 14 luglio 1992, e nella quale Paolo Borsellino aveva chiesto notizie sull’indagine mafia e appalti, non sono state oggetto di nessun accertamento.

Si tenga poi conto che queste dichiarazioni si sono conosciute solo a distanza di molti anni ed esclusivamente per l’iniziativa dell’avv. Basilio Milio, mio difensore, che, dopo avere collezionato negli anni vari dinieghi, qualche mese orsono ha finalmente avuto accesso a un fascicolo processuale che ha trovato presso la Procura della Repubblica di Caltanissetta e qui le ha rintracciate. Così le ha potute presentare nel corso del recente dibattimento davanti alla Corte di Assise di Appello di Palermo relativo alla presunta trattativa Stato/mafia, rendendole finalmente pubbliche. Per concludere questo argomento sottolineo che le perplessità nei confronti di alcuni indirizzi assunti dal dott. Giammanco nella gestione della Procura di Palermo, non costituivano solo una convinzione mia e di qualche altro ufficiale del Ros, ma erano radicate anche in una parte dei magistrati appartenenti al suo ufficio, che diedero anche vita a significative e pubbliche azioni di contestazione, senza che però in prospettiva, anche dopo l’arrivo del nuovo procuratore capo, il dott. Giancarlo Caselli, qualcuno ritenesse di svolgere accertamenti su quanto in quell’estate del 1992 era successo.

Dopo pochi mesi, uno dei cinque arrestati nell’inchiesta mafia e appalti, il geometra Giuseppe Li Pera, dal carcere e tramite i suoi avvocati, manifestò la volontà di collaborare, ma visti respinti i suoi tentativi di essere ascoltato dalla Procura della Repubblica di Palermo, riferì i fatti da lui conosciuti al cap. Giuseppe De Donno e al sostituto procuratore Felice Lima della Procura della Repubblica di Catania. Quest’ultimo, al termine degli accertamenti conseguenti alle dichiarazioni del collaborante, inoltrò al Gip del Tribunale di Catania la richiesta di ventitré ordinanze di custodia cautelare in carcere per associazione per delinquere di tipo mafioso ed altro, ma venne fermato dal proprio procuratore capo, il dott. Gabriele Alicata, che si rifiutò di firmare il provvedimento e decise, anche qui, di frazionare l’inchiesta in tre distinti segmenti:

-a Catania, rimase la parte riguardante un ospedale cittadino che portò all’arresto di Carmelo Costanzo, il Cavaliere del lavoro che, insieme ai colleghi Francesco Finocchiaro, Gaetano Graci e Mario Rendo, costituiva il gruppo dei cosiddetti “quattro cavalieri dell’apocalisse” e delle cui attività si era a suo tempo interessato anche il generale Dalla Chiesa. Oltre al Costanzo furono arrestati un ex presidente della Provincia e alcuni membri di una Usl locale;

-a Caltanissetta, venne avviata la parte che riguardava le accuse di Li Pera a quattro magistrati della Procura della Repubblica di Palermo, i sostituti procuratori Giuseppe Pignatone, Guido Lo Forte, Ignazio De Francisci e il procuratore capo Pietro Giammanco. L’inchiesta si concluse con l’esclusione di ogni responsabilità a carico degli indagati. Anche l’addebito, rivolto al Giammanco, di avere ricevuto denaro per ammorbidire gli esiti di mafia e appalti fu archiviato;

-a Palermo, toccò specificatamente la parte relativa a “cosa nostra”, che portò alla successiva emissione di un’ordinanza di custodia cautelare intestata a Salvatore Riina più ventiquattro, in pratica il gotha mafioso palermitano, escludendo quindi ogni responsabilità della componente politica.

In nessuno di questi tre filoni operativi fu richiesta la partecipazione dei militari del Ros che pure avevano svolto, in esclusiva, tutte le precedenti indagini. Il conflitto interno alla Procura di Catania si concluse con la richiesta da parte del dott. Lima del trasferimento al Tribunale Civile. Il comportamento del cap. De Donno, ritenuto scorretto dalla Procura della Repubblica di Palermo, fu segnalato alla Procura Generale presso la Corte di Cassazione che definì la pratica senza riscontrare alcun comportamento irregolare da parte dell’ufficiale. Sulla propaggine catanese di mafia e appalti, meglio su tutta la vicenda, mi sembra appropriato concludere citando le parole dette dal dott. Felice Lima, il 4 maggio 2021, davanti alla Commissione d’inchiesta dell’Assemblea Regionale Siciliana: «… Io avevo le stesse carte dei colleghi palermitani, ma mentre sul mio tavolo queste carte portarono i frutti contenuti in quelle duecentotrenta, non mi ricordo, pagine di richiesta, a Palermo non era praticamente successo niente, anzi c’era stata una dolorosa, dal mio punto di vista, richiesta di archiviazione». Mario Mori

Ultima puntata degli scritti del generale del Ros. Tangentopoli era in Sicilia, ma fu fatta sparire – Il memoriale di Mario Mori. Mario Mori su Il Riformista il 29 Ottobre 2021. Per completare la narrazione sulle indagini da me coordinate nel settore degli appalti pubblici, c’è da aggiungere che, vista l’impossibilità di proseguire questa tipologia di inchieste in Sicilia, sempre nel corso del 1992, spostai il reparto del cap. De Donno a Napoli, dove fu riproposta la stessa ipotesi investigativa, questa volta applicata alla camorra. Lo spunto ci proveniva dalla segnalazione di minacce e intimidazioni con danneggiamenti, di chiara origine camorristica, rivolte a tecnici e cantieri della Impregilo, società impegnata nella costruzione della linea ad alta velocità Roma-Napoli (Tav). Da una serie di riscontri ottenuti, si constatò che, anche qui, l’interesse verso gli appalti pubblici da parte di appartenenti alla camorra era prioritario. Concordammo con due magistrati illuminati, il procuratore della Repubblica di Napoli, Agostino Cordova e il responsabile di quella Direzione Distrettuale Antimafia, Paolo Mancuso, una linea di lavoro che prevedeva l’inserimento fittizio di un nostro uomo nel contesto operativo dei lavori della Tav, con la funzione di eventuale catalizzatore degli interessi illeciti, presentandolo come rappresentante dell’Associazione Temporanea d’Imprese (Ati) aggiudicataria del complesso dei lavori. In breve, il nostro uomo, il sedicente ing. Varricchio, in realtà il tenente colonnello Vincenzo Paticchio del Ros, fu contattato da elementi del clan camorristico degli Zagaria, egemone nella zona di Casal di Principe, e si dichiarò disposto ad accettare un confronto che consentisse un “sereno” svolgimento delle attività. La richiesta dei criminali prevedeva la dazione del tre per cento dell’importo dei lavori. Vi erano inoltre altre percentuali da prevedere per la componente politica e per il mondo imprenditoriale. Varricchio accettò, ma pretese che tutte le richieste fossero in qualche modo formalizzate. Alcune di queste vennero ufficializzate nel corso di riunioni, tenutesi presso l’hotel Vesuvio di Napoli e coordinate dal geometra Del Vecchio, che prese fedelmente nota dei nominativi delle imprese segnalate, delle loro richieste e da chi venivano sponsorizzate. Il geometra Del Vecchio era in effetti un abilissimo maresciallo del Ros. Tutte le operazioni furono registrate in audio e video e l’indagine si concluse con il rinvio a giudizio di camorristi, imprenditori e politici, tra cui anche il vice presidente della Regione Campania. Nel processo vennero condannati gli imprenditori e i camorristi, mentre i politici risultarono assolti in quanto “vittime di un’attività di provocazione”. Ancora mi domando che differenza effettiva ci fosse tra politici, camorristi e imprenditori, visto che analogo era stato il loro comportamento. Lo svolgimento dell’indagine condotta d’intesa con la Procura della Repubblica di Napoli dimostrò comunque che un’inchiesta nel settore degli appalti, anche con la normativa degli anni Novanta, poteva essere portata avanti se c’era coordinamento e unità d’intenti tra magistrati requirenti e investigatori. All’Università Federico II di Napoli, nella facoltà di Economia e Commercio, si tennero per anni lezioni su quella nostra indagine.

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Nel lungo tempo trascorso da quell’anno 1992, ho avuto più volte la possibilità di parlare con gli ufficiali che svilupparono con me quelle indagini sugli appalti. Il confronto ci ha portati a una serie di conclusioni:

– Il business nazionale della criminalità organizzata mafiosa era costituito dal condizionamento degli appalti che si affiancava, a livello internazionale, con quello costituito dal traffico delle sostanze stupefacenti;

-Il condizionamento degli appalti pubblici non costituiva solo l’obiettivo principale dei gruppi mafiosi, ma era fonte di guadagno illecito anche per molti imprenditori e politici, da considerare quindi non vittime ma partecipi dell’attività criminale;

– Stroncare l’inchiesta mafia e appalti, sorta ancora prima di “mani pulite”, evitava di collegare i due procedimenti giudiziari che in effetti sono stati condotti in maniera separata. Solo anni dopo, Antonio Di Pietro ha riferito dell’intenzione di Paolo Borsellino di unificare gli sforzi per gestire le rispettive inchieste, ravvisandovi una strategia unica. Lo stesso dott. Di Pietro ha ricordato di avere ricevuto dal cap. De Donno la sollecitazione ad interessarsi dell’inchiesta siciliana a fronte dell’inerzia di quella magistratura;

– L’inchiesta sviluppata dal Ros a partire dal 1990, coordinata e sostenuta da Giovanni Falcone, si è integrata senza soluzione di continuità con quella di Catania diretta dal dott. Felice Lima, e seppure stroncata con la stessa tecnica usata a Palermo, ha consentito di evidenziare anche nella parte orientale dell’isola la presenza al tavolo degli appalti pubblici degli stessi attori: mafiosi, imprenditori e politici;

– Le inchieste sugli appalti, demolite in Sicilia, hanno invece avuto più ampi sviluppi in altre zone del paese;

– Alcuni esponenti della magistratura siciliana hanno consentito, con le loro decisioni, che le inchieste sul condizionamento degli appalti pubblici abortissero nella loro fase iniziale. Prima che tutti i protagonisti di queste vicende siano scomparsi, saremmo ancora in tempo per analizzare e valutare le ragioni delle loro decisioni;

– Io e Giuseppe De Donno siamo vivi perché la morte di Paolo Borsellino ha praticamente reso inutile la nostra soppressione. Eliminato il magistrato, è stato facile neutralizzare tecnicamente l’indagine che stavamo sviluppando, senza provocare altri omicidi che avrebbero potuto indirizzare in maniera più precisa le indagini sui fatti di sangue di quell’anno: omicidio di Salvo Lima, strage di Capaci, strage di via D’Amelio e omicidio di Ignazio Salvo. Tutto ciò premesso, appare assolutamente necessario che su quanto esposto vi sia un chiarimento, insistentemente richiesto anche da altre parti coinvolte. Il lungo tempo trascorso potrà contribuire a più distaccate e serene valutazioni che, però, appaiono tuttora necessarie, perché troppe morti le hanno segnate indelebilmente.

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A conclusione di queste brevi note voglio esprimere una considerazione di carattere personale. Il Ros, costituito il 3 dicembre 1990, è un reparto investigativo a competenza nazionale che si interessa dei fenomeni di grande criminalità. Negli anni in cui era da me diretto, come peraltro avviene tuttora, conduceva indagini rapportandosi con le Procure della Repubblica più importanti del paese, tutte coordinate da magistrati di grande qualificazione professionale. Ebbene, nelle numerose attività sviluppate, solo in Sicilia, si sono verificati fatti che hanno dato origine a polemiche e inchieste di rilevanza penale, protrattesi addirittura per oltre un ventennio. Ora se è nella forza delle cose che per attività così delicate si possano verificare singoli episodi di contrasto frutto di incomprensioni e anche di errori umani tra i responsabili delle operazioni, l’ampiezza temporale delle tre inchieste, svolte in successione nei confronti miei e di alcuni ufficiali da me dipendenti, appare oltremodo indicativa, e tale da presentarsi non come il riflesso di convincimenti supportati da documenti e riscontri maturati nel tempo, ma piuttosto come l’attuazione, da parte di alcuni magistrati, di un predeterminato disegno di politica giudiziaria.

I tre procedimenti, sempre derivati dallo stesso contesto investigativo, per cui più di un giurista di fama ha parlato di “bis in idem”, volendo così indicare la riproposizione, esclusa dal nostro codice, degli stessi fatti in procedimenti diversi, sono sfociati in processi che si sono sin qui conclusi con l’identico risultato: assoluzione perché il fatto non costituisce reato. All’esito di questi ripetuti e conformi esiti processuali o siamo di fronte a un caso di clamorosa insufficienza professionale da parte di chi li ha aperti e sviluppati, ovvero le inchieste sono state condotte interpretando illogicamente o sovradimensionando gli esiti investigativi acquisiti che, infatti, non sono stati condivisi dalla magistratura giudicante. Ritengo che non si possa assolutamente parlare di mancanza di professionalità, ma invece la spiegazione vada ricercata in un approccio dei magistrati requirenti basato sulla volontà di intervenire processualmente in un campo, quello politico, che non compete al loro ordine, ma è esclusivo ambito del potere legislativo ed esecutivo.

Il magistrato, nel nostro ordinamento, deve valutare e giudicare i fatti accertati, così come afferma specificatamente l’art. 1 del nostro Codice Penale. A lui non compete in alcun modo tentare ricostruzioni più o meno avventurose in base a proprie convinzioni ideologiche che, in definitiva, portano solo a sovvertire l’equilibrata ripartizione dei poteri su cui si regge ogni democrazia compiuta. Mario Mori

Gli scritti del Generale del Ros. Il dossier di Mario Mori svela complicità tra mafia e Procura, qualcuno indagherà? Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Ottobre 2021. Nel corso della settimana che si conclude abbiamo pubblicato, in quattro puntate, il memoriale scritto dal generale Mario Mori. Si tratta di un documento eccezionale perché racconta come, nel corso del 1992, prima la mafia e poi lo Stato posero fine a quella stagione eroica – stavolta l’uso di questo aggettivo non è rito – durante la quale pochi uomini e donne coraggiosi fecero guerra a Cosa Nostra mettendola con le spalle al muro. Parecchi di loro ci rimisero la vita. Terranova, Costa, Chinnici, Falcone, Morvillo, Borsellino, Giuliano, Dalla Chiesa, Cassarà, Montana… Ho scritto solo i nomi di alcuni tra i magistrati e i poliziotti che si impegnarono e lottarono al fronte. Il memoriale del generale Mori è molto circostanziato. Nessuna delle sue affermazioni, mi pare, è priva di riscontri. Questo documento suona come un atto di accusa feroce verso una parte della magistratura italiana e – seppure non esplicitamente – verso la politica e il giornalismo che non sono riusciti a capire niente della mafia e hanno inseguito senza ragionare, e senza sapere, tesi infondate, dilettantistiche, politicamente orientate dalle ideologie o dal tifo, non dai fatti. In estrema sintesi, Mori descrive questa vicenda di inizio anni 90. Il gruppo di investigatori che sta intorno a Giovanni Falcone si rende conto che l’interesse grosso di Cosa Nostra è sugli appalti. E si inizia a indagare. Si raccolgono indizi, prove, si scoprono nuove piste, si ipotizzano collaborazioni. Borsellino è pronto a proseguire l’inchiesta, raccogliendo il testimone da Falcone. Ma a questo punto irrompono, seppure in modo evidentemente non collegato, da una parte la mafia, che uccide Borsellino, dall’altra parte un pezzo di magistratura, che seppellisce le inchieste e chiude, di colpo, le indagini sugli appalti, le connivenze, i rapporti tra Cosa Nostra, politica e imprese del Nord. Scrive, testualmente, il generale Mori: «Alcuni esponenti della magistratura siciliana hanno consentito, con le loro decisioni, che le inchieste sul condizionamento degli appalti pubblici abortissero nella loro fase iniziale. Prima che tutti i protagonisti di queste vicende siano scomparsi saremmo ancora in tempo per analizzare e valutare le ragioni delle loro decisioni». Mi sembra che sia una sfida aperta. Qualcuno vorrà raccoglierla? Pensate che ci sono Procure che oggi indagano sulla base di vaghissime e inconcludenti frasi di Graviano (ex boss della mafia non corleonese) su Berlusconi e Dell’Utri, accogliendo tesi strampalatissime e che non si reggono in piedi (come ha spiegato bene ieri Damiano Aliprandi sul Dubbio) a proposito delle stragi del 1993. Hanno addirittura ordinato delle perquisizioni a casa di parenti di Graviano. Benissimo, proviamo a prendere sul serio queste indagini (per la verità un po’ comiche): perché allora non si indaga sui fatti denunciati in maniera non vaga, ma molto precisa, non da un ex boss ma da un generale dei carabinieri, e più precisamente dall’uomo che arrestando Totò Riina inflisse alla mafia il colpo più duro dopo il maxiprocesso? Mori, nel suo memoriale, ha descritto svariate possibili ipotesi di reato. State tranquilli: saranno ignorate. Perché, per non ignorarle, bisognerebbe mettere in discussione troppi equilibri che ancora oggi governano il vertice della magistratura italiana. L’altro ieri sera il mio amico Giuliano Cazzola, collaboratore di questo giornale, ex sindacalista di vaglia, ex dirigente socialista, mi ha chiesto: ma come mai nessuno parla di questo clamoroso memoriale di Mori? Gli ho risposto nel modo più semplice. Perché il memoriale di Mori è un nuovo attacco al potere mafioso, e in Italia – escluso quel decennio degli eroi del quale ho appena parlato – non è mai esistito uno schieramento antimafia. Prima di Terranova e Chinnici, la tesi prevalente era che la mafia non esistesse. Gli intellettuali, salvo pochissimi, i giornali, salvo pochissimi, si adeguavano. Non volevano sapere, non cercavano, non capivano. Dal 1992 in poi si è ricreata esattamente la situazione precedente. Con la morte di Paolo Borsellino è iniziata la restaurazione. per qualche anno, credo, Mario Mori e il capitano De Donno e pochi altri avventurosi combattenti, hanno provato a proseguire la battaglia. Poi sono stati messi all’angolo, e successivamente ripetutamente processati con la precisa accusa di essersi impegnati nello scontro con la mafia senza rispettare le gerarchie della magistratura. L’unica vera accusa a Mori è stata questa: hai agito contro la mafia senza avvertire il procuratore Giammanco. Mori ha risposto senza giri di parole: non mi fidavo di Giammanco e avevo perfettamente ragione. Dopo tutto questo sono tornati gli anni Cinquanta. Nessuno più combatte la mafia. Nessuno, neppure la conosce. Nessuno la considera un problema. È nata però, dopo il 1992, una nuova forma di antimafia. È una organizzazione fatta di retorica spinta all’ennesima potenza, di frasi fatte, che non ha mai neppure scalfito con un temperino la potenza mafiosa, ma ha prodotto infinite attività collaterali, spesso folcloristiche, spesso lucrose, spesso produttrici di nuove professioni, di successi, di prebende, di onori, e comunque di moltissimo potere ( e di parecchie scorte). Ho risposto così a Cazzola: se nessuno si interessa del memoriale Mori è perché in Italia esiste la mafia e l’antimafia professionale, ma non esistono i nemici della mafia. Quelli che la combattono. Restano pochissimi individui, pochissimi intellettuali, pochissimi giornali, come era negli anni Cinquanta, che denunciano, raccontano, indicano le malefatte non solo della malavita ma anche dello Stato, dell’establishment, dell’editoria. Pensate al processo “trattativa”, coccolato da quasi tutta la stampa italiana. È stato dichiarato formalmente dalla Corte d’appello che era una bufala. Ma è una bufala che ha sviato, che ha rovesciato la realtà, che ha processato gli innocenti e taciuto sui colpevoli. Capisco che è un’espressione molto forte, ma oggettivamente – al di là della sicuramente ottima fede di alcuni magistrati che hanno preso un abbaglio – è stato un clamoroso depistaggio. La mafia ha brindato. Dieci anni di idee farlocche, di inchieste bloccate, di indizi che svanivano. E su questo depistaggio è stata costruita una letteratura che resterà lì, negli archivi, indelebile. Soprattutto la letteratura televisiva. Pensate che mentre era in corso il processo di appello la Rai ha messo in onda una trasmissione colpevolista da fare accapponare la pelle. Nessuno ha chiesto scusa dopo la sentenza, nessuno ha pensato a riparare, neppure Fuortes, mi pare. Come mai? Te lo dico un’altra volta, caro Cazzola: della mafia, in Italia, non frega niente a nessuno.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Adesso è chiaro: Borsellino è morto per “mafia-appalti”. Con la clamorosa sconfessione del teorema Stato-mafia, cade anche la tesi del nesso fra presunta Trattativa e via D'Amelio. Sarebbe ora di scavare in un'altra direzione.  Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 23 settembre 2021. «Alla luce della sentenza della Corte di assise di appello riteniamo avvalorata la nostra tesi di una causale dell’accelerazione legata alla particolare attenzione mostrata da Paolo Borsellino verso il dossier “mafia e appalti”. Dovremo leggere le motivazioni, ma troppe anomalie sono state scoperte in questi anni circa il clima terribile creato in Procura attorno al procuratore Borsellino. Non sappiamo se sarà possibile visto il tempo trascorso, ma noi non smetteremo mai di cercare di capire le ragioni del perché il procuratore Borsellino ebbe a definire il suo ufficio un nido di vipere». Sono le parole che l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, raggiunto dal Dubbio, ha voluto gentilmente rilasciare subito dopo la notizia della sentenza di secondo grado sulla “trattativa”. Parole che in realtà trovano riscontro nella pronuncia d’appello del Borsellino quater.

Borsellino quater, le motivazioni della sentenza d’appello

Quelle motivazioni lo dicevano chiaro e tondo: Paolo Borsellino non fu ucciso per la presunta trattativa Stato-mafia, che ora viene sconfessata dalla sentenza d’appello, ma dalla mafia «per vendetta e cautela preventiva». La vendetta è relativa all’esito del maxiprocesso, mentre la “cautela preventiva” è relativa alle sue indagini, in particolare quelle su “mafia e appalti”. Quest’ultima ipotesi, come ha scritto la Corte d’assise di appello di Caltanissetta nelle motivazioni del “Borsellino quater”, «doveva, peraltro, essere anche collegata alla circostanza riferita dal collaboratore Antonino Giuffrè sui “sondaggi” con “personaggi importanti” effettuati da Cosa Nostra prima di decidere sull’eliminazione dei giudici Falcone e Borsellino oltre che sui sospetti per i quali lo stesso Borsellino, il giorno prima dell’attentato, aveva confidato alla moglie “che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo , ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò accadesse”». Sempre nella sentenza nissena viene citato il fatto che l’arrivo di Borsellino nel nuovo ufficio della Procura di Palermo «era stato percepito con preoccupazione da Cosa Nostra, al punto che Pino Lipari (vicino ai vertici dell’organizzazione mafiosa) aveva commentato il fatto dicendo che avrebbe creato delle difficoltà a “quel santo cristiano di Giammanco”».

Mafia-appalti e il legame con la strage di via D’Amelio

La Corte d’assise di appello di Caltanissetta si è molto soffermata sull’indagine “mafia e appalti” come concausa della strage di via D’Amelio. Lo rimarca osservando che Borsellino aveva mostrato particolare attenzione alle «inchieste riguardanti il coinvolgimento di “Cosa Nostra” nel settore degli appalti pubblici, avendo intuito l’interesse strategico che tale settore rivestiva per l’organizzazione criminale». Viene riportato ciò che il collaboratore Giuffrè aveva riferito, in sede di incidente probatorio, all’udienza del 5 giugno 2012. Ovvero che le ragioni dell’anticipata uccisione del giudice Borsellino erano «anche da ricondurre al timore di Cosa Nostra che quest’ultimo potesse divenire il nuovo capo della Direzione Nazionale Antimafia nonché al timore delle indagini che il medesimo magistrato avrebbe potuto compiere in materia di mafia e appalti, con specifico riferimento al rapporto presentato dal Ros dei Carabinieri alla Procura di Palermo, su input del giudice Giovanni Falcone, nel quale erano stati evidenziati appunto i rapporti fra Cosa nostra, politica e imprese aggiudicatarie.

Con particolare riferimento alle interferenze dei boss in un rapporto triangolare fondato sulla condivisione di illecite cointeressenze economiche che coinvolgeva, mettendoli ad un medesimo tavolo, il mondo imprenditoriale, politico e quello mafioso». Troppi anni si sono persi alla ricerca di entità e terzi livelli, mentre la verità è sotto gli occhi di tutti. Il Dubbio è riuscito a trovare nuovi documenti.

I verbali del Csm

Dai verbali del Csm in cui sono riportate le testimonianze dei magistrati nel 1992, al documento da cui si evince come Falcone e Borsellino ritenessero che l’omicidio di Salvo Lima e del carabiniere Guazzelli fosse legato al fatto che si erano rifiutati di intervenire per insabbiare il procedimento “mafia-appalti”. Ciò significherebbe che la stagione stragista si sarebbe avviata proprio per la questione dell’indagine sugli appalti. Sarebbe ora che la Procura di Caltanissetta prenda spunto dalla sentenza del Borsellino quater stesso. Magari acquisendo i documenti nuovi portati avanti dalla difesa degli ex Ros. Paolo Borsellino cosa avrebbe voluto denunciare alla Procura nissena? Gli indizi li la lasciati lui stesso, dai convegni pubblici alle chiacchierate con persone ancora viventi. Magari si potrebbe iniziare da quella Procura che Borsellino definì «di vipere».

Inchieste. TRATTATIVA STATO-MAFIA. OTTIMA E ABBONDANTE PER INSABBIARE LA “PISTA APPALTI”. Andrea Cinquegrani La Voce delle Voci il 24 Settembre 2021. Nella bolgia di colossali stupidaggini dette e scritte dopo la sentenza d’appello che assesta un colpo mortale al teorema della Trattativa Stato-Mafia, ribaltando il verdetto di primo grado, le uniche parole lucide e assennate sono quelle di Fiammetta Borsellino, la figlia di Paolo, trucidato con la sua scorta nella strage di via D’Amelio. Sono concetti che Fiammetta ha già più volte espresso, voce letteralmente solitaria. E per questo ancor più validi oggi. Ecco i passaggi salienti dell’intervista rilasciata all’ADN Kronos. 

IL FUOCO DI FIAMMETTA 

“Io non li ho mai assolti gli ufficiali dei Carabinieri (Mario Mori e Giuseppe De Donno, ndr), ma ho sempre avuto molti dubbi, dubbi che oggi sono stati confermati dalla giustizia con la sentenza di appello. E poi ho ritenuto scorretto pompare mediaticamente un processo da parte di chi è titolare, prima ancora che questo processo avesse concluso le fasi di giudizio, un comportamento scorretto che mio padre non avrebbe mai approvato. Si è assistito a un lancio mediatico del processo sulla trattativa fin dal suo inizio, quando veniva addirittura pubblicizzato con i libri. Quando non era concluso neppure il primo grado. Altro punto di critica enorme, insieme agli altri”. “Ripeto, purtroppo io i miei dubbi su questa operazione li avevo espressi fin dall’inizio. La grande amarezza è che queste energie investigative dedicate al processo trattativa potevano essere indirizzate verso delle piste che, secondo me, volutamente non si sono percorse. Ancora una volta, siamo di fronte al fatto che si sono seguite piste inesistenti, quando da sempre abbiamo ribadito che bisognava approfondire quel clima che mio padre viveva dentro la procura di Palermo”. E sottolinea, Fiammetta: “Si doveva approfondire il filone dei dubbi e del senso di tradimento che mio padre manifestò parlando a mia madre dei colleghi, il perché non si è voluto indagare sul Procuratore Pietro Giammanco. Secondo noi erano queste le piste su cui si doveva indagare, non altre…”. Eccoci al punto centrale del suo j’accuse: “Per noi l’accelerazione della morte di nostro padre è stata data dal dossier Mafia-Appalti, ma non lo dice la mia famiglia, lo dice il processo Borsellino ter che l’elemento acceleratore è stato il dossier mafia e appalti che è stato archiviato il 15 luglio, cioè pochi giorni prima della strage. Nonostante mio padre il 14 luglio avesse chiesto conto e ragione del perché a quel dossier non venisse dato ampio respiro. Un dossier dei generali Mori e De Donno. Per questo non mi ha mai convinto questa tesi. E i dubbi li ho sempre espressi. Bisogna farsele delle domande. Ho sempre avuto tanti dubbi”. Parole chiare. Che pesano come macigni. 

QUELL’ESPLOSIVO DOSSIER MAFIA-APPALTI

Parole molto simili sono state scritte, oltre vent’anni fa, da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato, in un forte e documentato j’accuse che la Voce ha tante volte ricordato. Si tratta del libro ‘Corruzione ad Alta Velocità’, uscito nel 1998, che non solo ripercorre le tappe di uno dei più colossali scandali della nostra storia, ma apre uno squarcio sui veri motivi alla base della strage di via D’Amelio: proprio quel dossier Mafia-Appalti   elaborato dal ROS dei carabinieri e finito sulla scrivania di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a febbraio 1991, quindi un anno e mezzo prima delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Un dossier-bomba, perché conteneva già all’epoca tutti gli elementi di una super Tangentopoli ante litteram, anzi la vera Tangentopoli e non quella partorita in seguito dalla procura di Milano, orchestrata da un Antonio Di Pietro eterodiretto dalla CIA, come dimostrano i frequenti incontri tra il pm e il console americano a Milano prima dello scoppio di Mani Pulite (incontri rammentati in un’inchiesta di Molinari, allora redattore de la Stampa, e ora direttore di Repubblica). Ma cosa conteneva di tanto esplosivo quel dossier? Veniva ricostruita, in modo minuzioso, la fitta ragnatela di rapporti e connection tra le grandi imprese del nord e quello mafiose del Sud, in particolare siciliane ma non solo. Venivano fatti dei nomi precisi, indicate delle società di grosso calibro, ricostruiti i rapporti d’affari, indicati i prestanome. Ecco subito due esempi, tanto per scendere in qualche dettaglio. Si parlava della "Calcestruzzi", uno dei gioielli di casa Ferruzzi: e venivano fatti i nomi degli uomini di riferimento in Sicilia, ovviamente appartenenti ai clan più in vista. Quando Falcone lesse il nome della Calcestruzzi nel dossier del Ros, ebbe la conferma di sospetti che già nutriva da tempo. Fin dal 1989, quando, riferendosi proprio al gruppo Ferruzzi, disse: “La Mafia è entrata in Borsa!”. Eccoci ad un altro caso. La napoletana ‘Icla-Fondedile’, uno dei pezzi da novanta non solo nel ricco dopo terremoto e nelle opere per la ricostruzione, ma su tutto il vasto fronte dei lavori pubblici, a cominciare dall’Alta Velocità. Nella relazione di minoranza alla Commissione Antimafia del 1996, firmata proprio da Ferdinando Imposimato, vengono dettagliati i rapporti di Icla-Fondedile con i clan della camorra. Il dossier del Ros corroborava quindi quelle piste investigative già aperte e però battute con scarsa convinzione dagli inquirenti. I quali, ad esempio, erano già stati allertati dalla corposa documentazione raccolta dalla ‘Commissione Scalfaro’ sugli affari del post sisma, dove l’Icla, impresa molto cara a ‘O Ministro Paolo Cirino Pomicino, la faceva da padrona. 

A TUTTA ALTA VELOCITA’

Il maxi business Alta Velocità, del resto, è uno dei punti focali del dossier coordinato da Mario Mori e finito sulla scrivania di Falcone e Borsellino. I quali, di tutta evidenza, proprio sul filone TAV si sono rimboccati le maniche nell’ultimo infuocato anno e mezzo di indagini portate avanti prima di essere trucidati. Motivo ottimo e abbondante, avrebbe detto un pm, per il tritolo di quelle due stragi: leggere e decodificare ‘in tempo reale’ il maxi business dell’  Alta velocità che ha ingrassato intere classi politiche, cosche mafiose, imprese di riferimento, faccendieri e lacchè d’ogni risma, infatti, avrebbe rappresentato il colpo investigativo del secolo. Altro che Trattativa! Ma quell’inchiesta non si doveva fare. E i due magistrati coraggio dovevano morire. Ovvio lo sdegno di Fiammetta Borsellino, che ricorda tutto l’impegno del padre perché la pista Mafia-Appalti venisse battuta, mai persa di vista. Quando invece i ‘colleghi’ di Paolo tramavano nell’ombra, ma non poi tanto. E tanto da avere la sfrontatezza di archiviare il tutto in fretta e furia, appena sepolto il cadavere di Borsellino. Vergogna! Sorge spontanea la domanda: perché nessuno ha mai aperto un’inchiesta sui motivi che condussero a quella rapida e immotivata archiviazione? C’è solo da augurarsi che adesso, anche alla luce dell’archiviazione della falsa pista-trattativa, possa essere ripreso quel filo interrotto, quella pista investigativa basilare fondata, appunto, sul rapporto del Ros. E ora, a questo punto, perché non mettere sotto inchiesta quei magistrati che hanno archiviato quella pista, calpestando la memoria e il corpo, ancora caldo, di Paolo? 

LE NON INCHIESTE GRIFFATE DI PIETRO

Ma sapete quale inquirente avrebbe potuto, già in quegli anni bollenti, tirare il bandolo della matassa e individuare i pupari del maxi affare dell’Alta Velocità, il cuore, come detto, del rapporto Mafia-Appalti? Il pm senza macchia e senza paura, al secolo Antonio Di Pietro, il protagonista della Mani pulite meneghina, solito frequentare all’epoca, come abbiamo visto, il consolato americano all’ombra della Madunina. Don Tonino, infatti, prima di abbandonare la toga è stato protagonista di due fondamentali inchieste. Partiamo dalla prima, di cui scrivono a lungo Imposimato e Provvisionato nel loro libro bomba. E siamo al filone investigativo sulla TAV avviato proprio alla procura di Milano e condotto in prima battuta dal procuratore capo, Francesco Saverio Borrelli, il quale pensa bene di affidare il delicato fascicolo al fidatissimo Di Pietro. Il quale mette subito a segno un colpo da maestro: riesce infatti ad ottenere rapidamente l’avocazione del filone d’inchiesta partito alla procura di Roma e riguardante soprattutto i profili amministrativi dell’affaire, mentre Milano doveva vedersela con gli imprenditori coinvolti. Detto fatto, quindi, Tonino il prestigiatore ha in mano la ponderosa inchiesta nella sua globalità. E – magia della sorte – può contare su un   inquisito eccellente che tutto sa su tutto: non solo sulla madre di tutte le tangenti, Enimont, ma anche sui misteri dell’Alta Velocità. E’ ‘l’Uomo a un passo da Dio’, come subito lo etichetta, in modo efficacissimo, il suo inquirente, ossia Di Pietro. Si tratta di Pierfrancesco Pacini Battaglia, soprannominato Chicchi, simpatie per il garofano martellian-craxiano, interessi soprattutto in Svizzera, dove possiede addirittura una banca privata. Nella sua lunga   carriera, il toscanaccio Chicchi ha anche avuto modo di occuparsi dei fondali di Ustica dopo la tragedia dell’Itavia, dando vita ad una società di rilevamenti marittimi in compagnia dell’allora re dei trasporti (acquisì dal crac la mitica ‘Flotta Lauro’) il mattonaro partenopeo Eugenio Buontempo, a lungo imprenditore di riferimento della ‘sinistra ferroviaria’ capitanata da Claudio Signorile. Ma torniamo a bomba, ovvero all’inchiesta milanese sull’Alta Velocità. Sapete mai a chi si affida, come legale, il potentissimo Pacini Battaglia, che avrebbe potuto tranquillamente scegliere un principe del foro meneghino? Ad un signor nessuno, un avvocaticchio di provincia, appena arrivato dal Sud con la valigia legata con lo spago, o quasi. Si tratta di Giuseppe Lucibello: il quale, però, sulla piazza meneghina può contare su un’amicizia da novanta, quella – nientemeno – che con don Tonino Di Pietro. Il cerchio è presto chiuso. Il rituale pugno di ferro mostrato dal pm con tutti i suoi inquisiti, improvvisamente, si scioglie come neve al sole: tanto che l’imputato numero uno, l’Uomo a un passo da Dio, non trascorre neanche una notte in gattabuia, ma torna libero come un fringuello, pur senza raccontare neanche un centesimo di quel che sa! Ai confini della realtà. Si confiderà poi per telefono: “Sono stato sbancato”, con evidente riferimento al salasso economico che il poveretto avrà dovuto fronteggiare. Ma il tutto si scolorirà presto in un “sono stato sbiancato”, assai poco comprensibile, ma ‘ottimo e abbondante’ per don Tonino, il quale viene assolto dal tribunale di Brescia per i suoi comportamenti ritenuti non deontologici, non professionali, non morali, quindi ampiamente censurabili sotto tutti i profili nel corso delle sue inchieste: ma non penalmente rilevanti! 

DA GARDINI A LI PERA

Eccoci al secondo episodio clou. La gestione dipietresca di un altro inquisito eccellente, Raul Gardini, il gran capo di casa Ferruzzi. Siamo ad un altro pezzo da novanta che sa tutto su Mafia-Appalti, perché la sua Calcestruzzi è pesantemente coinvolta nella connection, come già raccontato. Ma cosa succede? L’indagato Gardini ha un appuntamento in procura con il suo grande accusatore, al quale avrebbe promesso di raccontare tutto, di ‘vuotare il sacco’. Di Pietro lo aspetta in procura, si sono dati appuntamento. Non ci arriverà mai, Gardini, a palazzo di giustizia, perché si spara un colpo alla testa. La fa finita. Come era successo, in carcere, per l’allora numero uno dell’Eni, Gabriele Cagliari, finito con un sacchetto di plastica intorno alla testa. E c’è un terzo buco nero nella story. L’interrogatorio che si svolge nel carcere di Rebibbia, a Roma, tra l’intemerato pm e una super gola profonda sempre sul fronte Mafia-Appalti. Ossia l’uomo che ha fornito agli inquirenti siciliani una mole di elementi molto utili per ricostruire quelle esplosive connection: si chiama Giuseppe Li Pera, professione geometra, per anni al servizio della ‘Rizzani De Eccher’, un’impresa trentina di costruzioni il cui nome – guarda caso – fa capolino nel dossier del Ros. Come mai Di Pietro corre a Roma per interrogarlo? E come mai cava poco o niente da quella verbalizzazione? Eppure, Li Pera è un altro uomo che ‘sa tutto’ sui rapporti Politica-Mafia-Imprese. E sa molto sulle stragi, in particolare quella di Capaci. Altri interrogativi d’obbligo. Come mai nessuno ha voluto capirci qualcosa in quel clamoroso insabbiamento della pista Tav-Pacini Battaglia? Perché, soprattutto, non è mai nata una vera inchiesta sulle ‘non inchieste’ firmate Di Pietro?        

Mafia: Mori, "scoprimmo per primi rapporti boss e appalti, ma a Borsellino fu vietato occuparsene".  27 Settembre 2021. News Adnkronos il 27 settembre 2021. “La mafia viene colpita non tanto con la cattura dei latitanti, ma soprattutto nel sostentamento economico e che non si otteneva tanto con il pizzo quanto con il condizionamento degli appalti. Io presi un ufficiale brillante, il capitano Giuseppe De Donno e lo misi a fare ricerche solo sugli appalti. Ne parlai con Giovanni Falcone che rimase un po’ perplesso, non riusciva a capire come. Per Falcone De Donno era come un figlio, lo chiamava ‘Peppe’ e progressivamente si individuò il rappresentante di Cosa nostra delegato a trattare gli appalti, questa fu la prima scoperta”. Sono le parole del generale Mario Mori intervistato da ‘Quarta Repubblica’. “La seconda scoperta fu devastante – aggiunge Mori – nelle indagini sugli appalti si pensava che le vittime fossero i politici e gli imprenditori, invece concorrevano nel reato con i mafiosi. Questa era la verità che noi scoprimmo”. Poi Falcone fu trasferito a Roma, nel 1991, e mi disse: “consegnami il rapporto su mafia e appalti, io feci resistenza e gli dissi che non era completo. E lui lo volle entro l’indomani e mi disse ‘E’ meglio che lo riceva io, perché sai quanti guai avrete con questo rapporto…”. “E poi lo portò a Giammanco che era il capo della Procura di Palermo”, aggiunge. “Io mi resi conto in pochi giorni che non se ne parlava più di questo rapporto, mi arrabbiai molto e rappresentai la situazione, ma senza risultati, finché a luglio del 1991 la Procura emise degli arresti tra cui Angelo Siino e degli imprenditori. I legali chiesero gli atti relativi. Invece fu preso tutto il malloppo e fu dato a tutti e cinque gli avvocati, dopo mezz’ora la mafia sapeva tutto, fin dove potevamo arrivare. Lì ci fu un po’ di tensione”. “All’epoca pensai che sbagliarono tecnicamente – aggiunge Mori – invece dopo sono successi altri fatti. All’inizio del 1992 Paolo Borsellino lascia Marsala e torna a Palermo. Giammanco non gli delega le inchieste su Palermo ma di altre province, quindi non può interessarsi formalmente a mafia e appalti. Mentre era a Marsala chiese a noi copia del dossier mafia e appalti”, dice ancora Mario Mori. “Il 25 giugno del 1992 Borsellino mi telefona per chiederci di vederci riservatamente dai carabinieri, non in Procura, Intanto non voleva farlo sapere e formalmente non poteva interessarsene”, dice. “Subito dopo la morte di Falcone, la procura spezzetta l’indagine e divide l’inchiesta in vari tribunali sparsi per la Sicilia – prosegue Mori – Se la spezzetti la distruggi”. “Il 4 luglio ci fu una riunione e Borsellino disse che i carabinieri erano delusi, ma nessuno gli disse che questa indagine era stata spezzettata”.

Mafia: Mori, 'dossier appalti concausa uccisione Borsellino'. Adnkronos il 27 settembre 2021. "Io ritengo che il dossier mafia e appalti fu una concausa dell'uccisione di Paolo Borsellino". Ne è convinto il generale Mario Mori che lo ha detto intervistato da 'Quarta Repubblica' in onda stasera. "Ma non è finita qui", aggiunge Mori. "Quella era l'inizio dell'indagine - aggiunge - c'era un gruppo di potere fatto da imprenditori, politici e mafiosi che decidevano gli appalti e si spartivano i proventi". "Quando andammo a Napoli - dice- facemmo la stesa cosa di Palermo con il procuratore Cordova, con una variante: ci abbiamo messo un uomo che doveva prendere contatti con i camorristi. Abbiamo preso un ufficiale del Ros che come rappresentante delle imprese che realizzava l'alta velocità Roma-Napoli si inserì in questo mondo e dopo un po' venne contattato da imprenditori vicini alla Camorra, dal clan dei Casalesi che voleva il 3 per cento degli importi totali". E poi dice: "Il Nucleo investigativo dei Carabinieri fu una mia creazione".

Fu la mafia degli appalti a volere l’omicidio di Borsellino. Le parole del giudice Alberto Di Pisa. Nicola Salvetti su destra.it il 27 Settembre 2021. La sentenza del processo sulla trattativa tra Stato e mafia continua ad alimentare dibattiti e interpretazioni. In un’intervista rilasciata alla giornalista dell’agenzia di stampa AdnKronos, Elvira Terranova, l’ex procuratore capo di Marsala Alberto Di Pisa ricostruisce alcuni importanti  passaggi storici. “Ricordo che il giorno in cui fu esposta la bara di Giovanni Falcone nell’atrio del Palazzo di giustizia di Palermo, chiesi a Paolo Borsellino se secondo lui la strage di Capaci avesse una finalità destabilizzante. E lui mi guardò negli occhi e mi rispose: ‘No, non è così. Anzi. Direi che l’intento è quello di avere un effetto ‘stabilizzante’. E aggiunse: ‘Ora intendo riprendere al più presto in mano l’indagine su mafia e appalti”. Di Pisa è stato per molti anni al fianco di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Fu anche uno dei giudici che istruirono il primo maxiprocesso a Cosa nostra. In passato si è occupato di inchieste come l’omicidio del sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, ma anche del processo a Vito Ciancimino. Un effetto “stabilizzante” perché? “Perché mirava a mantenere il sistema di potere di quel momento”, dice il magistrato. “Io ho sempre pensato che la trattativa Stato-mafia non c’entri niente con la strage di Via D’Amelio – afferma -. Come tutti i delitti eccellenti. Dietro un omicidio ci sono quasi sempre gli appalti, quello è l’interesse economico di Cosa nostra”. E ricorda: “Poco prima di essere ucciso, Paolo Borsellino, ebbe una riunione con i carabinieri del Ros, con Mori e Subranni, proprio sul problema degli appalti, un tema che intendeva riprendere e che riteneva fondamentale per la lotta alla mafia, mentre la Procura lo aveva trascurato”. L’indagine su mafia e appalti fu archiviato il giorno prima di ferragosto del 1992, cioè nemmeno un mese dopo la strage di via D’Amelio, dopo la richiesta avanzata, pochi giorni dopo la morte di Borsellino, il 22 luglio 1992, dall’allora pm Guido Lo Forte, con l’avallo dell’allora procuratore Pietro Giammanco. “Certo, un’archiviazione che arrivò poco dopo la strage – dice oggi Di Pisa -. Il fatto temporale dà da pensare…”. E poi ricorda anche la telefonata arrivata la mattina, quasi all’alba, del 19 luglio 1992, il giorno della strage di via D’Amelio al giudice Borsellino da parte del Procuratore Giammanco: “Gli disse che gli avrebbe affidato le indagini su Palermo, sulla mafia di Palermo e quindi, probabilmente, anche il dossier mafia e appalti. Certo, una telefonata arrivata alle sette di mattino, nel giorno della strage fa riflettere. Come se non potesse più aspettare fino all’indomani…”. Quello stesso giorno Paolo Borsellino aveva cercato Alberto Di Pisa, in una casa al mare da parenti, a Marina Longa. “Voleva parlarmi con urgenza, ma purtroppo non c’ero”. Di Pisa ha sempre criticato il processo sulla trattativa Stato-Mafia, e sulla sentenza di appello, che ha ribaltato il verdetto di primo grado, assolvendo tutti gli ufficiali dei carabinieri e Marcello Dell’Utri, dice: “Ho sempre detto che era un fatto mediatico, un teorema politico e mediatico. Dal punto di vista giuridico, questo processo non stava in piedi. Ora bisogna aspettare le motivazioni. Perché ‘il fatto non costituisce reato’ può voler dire due cose: o che l trattativa c’è stata ma non costituisce reato, oppure che c’è stata ma manca l’elemento psicologico del reato, il dolo. Bisogna vedere cosa intendono fare i giudici”. E aggiunge: “D’altra parte anche il caso Moro, il governo trattò con le Brigate rosse ma nessuno aprì un procedimento. Un fatto che è sempre avvenuto, cioè che lo Stato tratta con i criminali per salvare delle vite umane”. (Fonte AdnKronos)

Il generale Mori: “Borsellino voleva occuparsi del dossier mafia appalti. Fu ucciso anche per questo”. Giovanni Pasero lunedì 27 Settembre 2021 su Il Secolo d'Italia. «Rifarei tutto, la soddisfazione e la gioia di avere incontrato personaggi unici come Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, Cossiga, non ha eguali». Così il generale Mario Mori, intervistato da Quarta Repubblica, assolto nel processo Stato-Mafia, dopo un calvario giudiziario durato 14 anni. Intervistato da Nicola Porro, il generale Mori si è detto convinto che la morte di Borsellino ha avuto una origine precisa. «Io ritengo che il dossier mafia e appalti fu una concausa dell’uccisione di Paolo Borsellino».  «Ma non è finita qu»”, aggiunge Mori. «Quella era l’inizio dell’indagine – aggiunge – c’era un gruppo di potere fatto da imprenditori, politici e mafiosi che decidevano gli appalti e si spartivano i proventi». «La mafia viene colpita non tanto con la cattura dei latitanti. Ma soprattutto nel sostentamento economico e che non si otteneva tanto con il pizzo quanto con il condizionamento degli appalti. Io presi un ufficiale brillante, il capitano Giuseppe De Donno e lo misi a fare ricerche solo sugli appalti. Ne parlai con Giovanni Falcone che rimase un po’ perplesso, non riusciva a capire come. Per Falcone De Donno era come un figlio, lo chiamava ‘Peppe‘ e progressivamente si individuò il rappresentante di Cosa nostra delegato a trattare gli appalti, questa fu la prima scoperta». “La seconda scoperta fu devastante – aggiunge Mori – nelle indagini sugli appalti si pensava che le vittime fossero i politici e gli imprenditori, invece concorrevano nel reato con i mafiosi. Questa era la verità che noi scoprimmo”. Poi Falcone fu trasferito a Roma, nel 1991, e mi disse: “Consegnami il rapporto su mafia e appalti, io feci resistenza e gli dissi che non era completo. E lui lo volle entro l’indomani e mi disse: “È meglio che lo riceva io, perché sai quanti guai avrete con questo rapporto…”. “E poi lo portò a Giammanco che era il capo della Procura di Palermo”, aggiunge. “Io mi resi conto in pochi giorni che non se ne parlava più di questo rapporto, mi arrabbiai molto e rappresentai la situazione, ma senza risultati, finché a luglio del 1991 la Procura emise degli arresti tra cui Angelo Siino e degli imprenditori. I legali chiesero gli atti relativi. Invece fu preso tutto il malloppo e fu dato a tutti e cinque gli avvocati. Dopo mezz’ora la mafia sapeva tutto, fin dove potevamo arrivare. Lì ci fu un po’ di tensione”. «All’epoca pensai che sbagliarono tecnicamente – aggiunge Mori – invece dopo sono successi altri fatti. All’inizio del 1992 Paolo Borsellino lascia Marsala e torna a Palermo. Giammanco non gli delega le inchieste su Palermo ma di altre province, quindi non può interessarsi formalmente a mafia e appalti. Mentre era a Marsala chiese a noi copia del dossier mafia e appalti, dice ancora Mario Mori. «Il 25 giugno del 1992 Borsellino mi telefona per chiederci di vederci riservatamente dai carabinieri, non in Procura. Intanto non voleva farlo sapere e formalmente non poteva interessarsene», dice. «Subito dopo la morte di Falcone, la procura spezzetta l’indagine e divide l’inchiesta in vari tribunali sparsi per la Sicilia – prosegue Mori – Se la spezzetti la distruggi». «Il 4 luglio ci fu una riunione e Borsellino disse che i carabinieri erano delusi, ma nessuno gli disse che questa indagine era stata spezzettata». 

“Sciascia, nient’altro che la verità”. Il forum de l’Arsenale delle idee. Manuela Lamberti il 10 Febbraio 2021 su destra.it. Il forum de l’Arsenale delle idee di venerdì 12 febbraio alle ore 18,30  presenta un libro che affronta con  sguardo acuto e disincantato uno scrittore e personaggio del Novecento che, come pochi, ha descritto le caratteristiche di un mondo fatto di uomini che “non contraddicevano e non si contraddicevano”  e che ha raccontato  la sua Sicilia e l’ Italia, contraddicendo. Andando contro. Il libro di Pierfranco Bruni e Mauro Mazza, non è solo un tributo alla grandezza dello scrittore, ma anche un’ indagine disincantata sulle luci e le ombre del percorso di un intellettuale che ha difeso Sofri, che si pose contro le posizioni sulla mafia di Falcone e Borsellino, ma che comunque denunciò in modo coraggioso e lucido i mali della giustizia italiana. Una ricognizione a tutto tondo che affronta i modi in cui si sono concretizzati nell’ autore cultura e impegno civile. Sciascia ha avuto il merito di sollevare il velo che copriva tante ipocrisie, affrontando il mostro della guerra ideologica degli anni di piombo. Un’icona ” Todo modo”, un film ispirato all’ omonimo romanzo, nascosto per anni anche alla visione privata , di cui sono girate solo poche copie pirata, oggi  fruibile in un’ edizione restaurata, che rappresenta il paradigma di un’ epoca pesante, in cui la verità del Gattopardo è stata amministrata da maschere pirandelliane. Merito agli autori di restituirci Sciascia, di farci venire voglia di tornare a leggerlo, per riscoprire dove trovano radice i mali che non hanno mai lasciato la nostra Italia.

La mafia, Falcone, Sciascia. L'Italia di Marcelle Padovani: "Siete un grande laboratorio e non lo sapete". Concetto Vecchio su La Repubblica il 14 agosto 2021. Marcelle Padovani, 75 anni, ha scritto "Cose di cosa nostra" con Giovanni Falcone e "La Sicilia come metafora" con Leonardo Sciascia. Trastevere e Trentin, il Pci e l'amore per la Sicilia. La giornalista francese racconta il rapporto lungo quasi 50 anni con il nostro Paese: "Draghi deve restare a palazzo Chigi".

Marcelle Padovani, cosa ricorda del suo impatto con Roma?

“Erano i primi anni Settanta ma il modo di vivere era, per molti versi, ancora simile a quello di fine Ottocento: nelle sere d’estate gli abitanti di Trastevere piazzavano i tavolini davanti agli usci per cenare al fresco”.

E l'Italia, che impressione le fece?

“Presi il treno per raggiungere la sede del mio primo servizio e mi ritrovai a viaggiare con un gruppo di operai che andavano a Taranto a non so più quale manifestazione. Discutevano della loro condizione con coscienza di classe: sapevano tutto di salari, produzione, sistemi industriali. "Uao, che Paese!", pensai”.

Quale fu il primo servizio?

“Intervistare il leader sindacale Bruno Trentin”.

L’uomo che sarebbe diventato suo marito?

“E’ la vita”

Quanti anni aveva?

“Ventotto”.

E lui?

“Quarantaquattro. Andammo a cena e rimasi ipnotizzata dal suo sguardo”

Era sposato?

“Separato. Lasciò la sua compagna di allora. Ci sposammo nel 1975”.

Perché scelse di fare la corrispondente di Nouvel Observateur proprio in Italia?

“Sono corsa e l’italiano ce lo insegnavano sin dalle elementari. Quando mi sono iscritta alla Sorbona per studiare scienze politiche ho continuato a studiare la vostra lingua. Mi sono laureata con una tesi sulle sinistre francesi e italiane negli anni 1944-47. Poi per il giornale ho cominciato a seguire Mitterrand. Il Pci rappresentava un mondo che interessava i lettori francesi. Fu naturale occuparsene”.

Quando iniziò come corrispondente?

“Nel 1974. Volevo vivere con Bruno e chiesi di essere trasferita a Roma. Il giornale non era interessato. Solo dopo le mie insistenze mi accontentò riducendomi però lo stipendio a 50mila lire al mese: era un ventesimo della mia retribuzione di allora. Accettai. Lavorai instancabilmente e soltanto l'anno dopo tornai al mio stipendio originario”.

Dove andaste a vivere?

"A Trastevere. E qui accadde un episodio incredibile. Un giorno, dopo pranzo, Bruno uscì per andare in ufficio e subito rientrò: "Mi hanno rubato il borsello dalla macchina!". Mentre stavamo cercando di capire cosa esattamente gli avevano portato via squillò il telefono: era il segretario della sezione del Pci di vicolo del Cinque. "Compagno Trentin, i ladri si scusano per averti sottratto il portafogli. Le pipe però le hanno già vendute".

Cosa rivela questo episodio?

"Che il Pci era un partito votato da più di un terzo degli italiani, vicino al popolo, finanche al popolino dei furtarelli".

Cosa l'affascinava dell’Italia degli anni Settanta?

“Il fatto che fosse un laboratorio. Nel senso che qui le cose avvenivano prima che nel resto d’Europa, dal terrorismo alla mafia. Lo Stato era alle prese con fenomeni senza eguali e doveva capire come venirne a capo. Tutto questo era terribile, ma anche affascinante per un giornalista. Gli italiani dimenticano troppo in fretta questa loro natura di laboratorio: un luogo cioè dove si mescolano elementi raffinati e complessi che esigono risposte altrettanto raffinate e complesse. Nella lotta contro la mafia e il terrorismo lo Stato alla fine ha vinto nella sorpresa generale. Lo stesso sta avvenendo col populismo”.

Il populismo è sconfitto?

“Lo sarà. Per populismo mi riferisco a quello dei Cinquestelle, perché Matteo Salvini è un soltanto demagogo opportunista che ricorre al populismo quando gli serve".

Che populismo è quello del M5S?

"Originale e creativo, che una volta al governo è stato capace di evolversi, di affrancarsi dalla demagogia, perché al potere la demagogia rende impotenti. In Francia è accaduto esattamente il contrario: il populismo ha finito per pervadere i partiti al governo, con istinti diversissimi tra loro, che arrivano fino ai no vax e all'antisemitismo".

I no vax sono rumorosi pure in Italia.

"Sì, ma nel complesso gli italiani si sono vaccinati con più disciplina. In Francia ai vaccinati hanno dato un braccialetto rosso per renderli subito riconoscibili nei locali pubblici. Può essere una buona idea, ma è anche la riprova che lo Stato deve controllare di più".

Come nacque "La Sicilia come metafora", il libro intervista di Leonardo Sciascia?

"In Francia i suoi libri suscitavano sempre un grande interesse e lo intervistai lungamente per il giornale. Un editore mi propose di farne un libro. Fino a quel momento Sciascia aveva detto di no a tutti".

Che tipo era Sciascia?

"Piccolo di statura, aveva un'espressione scettica e ironica che affascinava. Andai a trovarlo Racalmuto e sua moglie Maria ci preparò la pasta con le sarde. Sciascia parlava della Sicilia, di Parigi, della mafia e di Racalmuto. Non parlava mai dell'Italia. Una cosa che mi colpì moltissimo".

Come lo spiega?

"Non gli interessava. Lo avvertiva come un mondo ostile. Alla fine di ogni estate andava a Parigi in treno, alloggiando sempre nello stesso albergo, l'Hotel du Pont Royal in rue de Montalembert: faceva tappa a Roma, scendeva dal treno, dormiva una notte in albergo e ripartiva subito".

Cosa l'affascina della Sicilia?

"L'essere un'isola. Ha una sua aspirazione all'illuminismo, come metodo e meta per rispondere al disordine. E' un mondo complesso. Sciascia mi spiegò subito che il vero siciliano non ama il mare, perché dal mare, da sempre, sono giunti gli invasori. E infatti, in molti paesi siciliani, le case danno le spalle al mare. In Corsica è lo stesso".

Quando ha conosciuto Giovanni Falcone?

"Nell'autunno del 1983 si cominciò a parlare di un capomafia, che detenuto in Brasile aveva deciso di collaborare con Falcone. Il suo numero me lo diede Luciano Violante. Era novembre e volai a Palermo. Le sette di sera. Buio pesto, poca gente per le strade. La Procura deserta. Salii al secondo piano, e superai due porte blindate, davanti alla seconda Falcone aveva fatto piazzare una telecamera. Entrai e mi gelò: "Il nostro incontro salta, devo correre con urgenza all'Ucciardone". "Possiamo cenare insieme?", obiettai. "Non mi sembra molto igienico", rispose".

E lei?

"Bel cafone", pensai. Disse: "Domani mattina alle sette vado a Roma, si faccia trovare a Punta Raisi, così viaggiamo insieme e facciamo l'intervista in volo". Trovai in fretta e furia un biglietto e mi presentai in aeroporto. Sull'aereo ci misero accanto, ma sfortuna volle che vicino a noi era seduto anche Marco Pannella, che, mi disse Falcone, era venuto a consegnare la tessera radicale al boss Michele Greco. "Non mi sembra il caso di farla qui", taglio cortò Falcone".

Rido.

"Arrivati a Roma Falcone mi disse: "Vada a casa, che all'ora di pranzo la mando a prendere". Ero definitivamente furibonda. Intorno alle tredici arrivò davvero un ufficiale della Guardia di Finanza, che mi condusse in una caserma di periferia. Entrai e trovai la tavola imbandita e il fuoco del camino acceso. Parlammo per due ore. L'intervista uscì il 30 dicembre col titolo: "Il piccolo giudice e la mafia".

Che uomo era Falcone?

"Parlava solo di mafia. Non mostrò mai il minimo interesse per la mia vita. Non mi chiese mai da dove venissi, che studi avessi fatto, niente di niente. Era monotematico, da cui è derivata la sua proverbiale efficienza, il suo professionismo. Come tutti i siciliani colti aveva il gusto per il racconto, era pieno di dettagli, ma inseriti dentro concetti più vasti. Per scrivere Cose di cosa nostra ci vedevamo in un ristorante a Roma, lui mangiava con gusto e io prendevo appunti, perché mi chiese di non registrare. Alla fine ero distrutta, e Falcone ordinava, anche col caldo, una vodka".

Che anno era?

"La primavera del 1991. Quando terminai di scriverlo, a luglio, gli telefonai da San Candido dove mi trovavo in ferie con Bruno, per chiedergli come procedere. "Vengo io", disse. Arrivò all'indomani a Sesto di Pusteria, ritirò il dattiloscritto in francese, lingua che Falcone padroneggiava perfettamente, e me lo restituì con pochissime correzioni".

E ripartì subito?

"Bruno mi disse: "Invitiamo Giovanni a cena, dobbiamo festeggiare". Accettò. Parlammo dell'attualità politica, dell'irredentismo altoatesino, di Mahler che aveva avuto lì una casa, e la figura di Giovanni si rimpiccioliva nella sedia: si annoiava. A un certo punto feci riferimento a una notizia di cronaca che riguardava il figlio di Stefano Bontate e in quel momento si ridestò di colpo, raddrizzandosi sulla sedia".

Era già al ministero, e la sinistra lo criticava per la sua collaborazione con il ministro Martelli. E' stato un grave errore contestarlo?

"L'errore è doppio. Nel non avere capito l'importanza decisiva del suo codice antimafia e nel non avere mai fatto autocritica. Falcone viene incensato, senza essere studiato. Chiunque parli di mafia lo cita, spesso a sproposito. Da vivo fu molto solo, si contavano sulle dite di una mano i magistrati che lo sostenevano, i più lo criticavano per il suo presunto protagonismo mediatico".

Non era vero?

"Per niente. Falcone non amava i giornalisti. In vita sua rilasciò pochissime interviste".

Cosa pensa del sottosegretario Durigon che ha chiesto di intitolare al fratello di Mussolini invece che a Falcone e Borsellino il parco di Latina?

"E' la conferma che i cattivi a volte riposano, gli imbecilli no".

Perché sostiene che la mafia è stata sconfitta?

"L'Europa dovrebbe prendere esempio dall'Italia per come ha saputo reprimere Cosa nostra, che ormai da vent'anni non riesce a eleggere un nuovo capo, e che si è tramutata in una mafia economica che ha deciso di partecipare al capitalismo. E' la conferma che la criminalità organizzata non è retrograda, ma un'avanguardia, purtroppo".

E non è una minaccia altrettanto grave per una società?

“Oggi l’impresa mafiosa, come la non mafiosa, finiscono col praticare gli stessi metodi di sviluppo, che vanno dall’evasione fiscale all’offerta di servizi illegali, dalla proposta di costi di produzione astutamente ridotti alle scorciatoie amministrative a colpi di tangenti. Bisognerebbe rivedere tutti i meccanismi di finanziamento dell’impresa così come gli articoli del codice penale destinati a combattere i metodi illegali”.

La destra vincerà le prossime elezioni?

"La trovo grottesca e pericolosa allo stesso tempo. Cosa vogliono veramente? Quali sono i programmi? Il populismo l'ha svuotata e intrisa di demagogia. Infatti la più popolare è Giorgia Meloni, anche perché serba un minimo ricordo di ideologia".

Il suo libro, La lunga marcia del Pci, uscito nel 1979, si apre con un capitolo sulla scuola delle Frattocchie, frequentata da giovani operai. Oggi cos'è diventata la sinistra italiana?

"La sinistra come bisogno, e come scelta di campo, esiste ancora. Ma i partiti esistenti non sono all'altezza né delle tradizioni né del bisogno di eguaglianza e giustizia sociale. Però sono ottimista, a lungo andare, il laboratorio italiano riuscirà ad esprimere una forza che sappia parlare di nuovo alle masse".

Draghi l'ha convinta?

"In Italia lo considerate un grande tecnico. Invece è un grande politico. E' riuscito a tenere tutti buoni facendo passare provvedimenti anche drastici. E' il prossimo leader dell'Europa, e come tale è visto dalle cancellerie".

Deve restare a palazzo Chigi o farsi eleggere al Quirinale?

“Non ho dubbi: rimanere a Palazzo Chigi. Perché essendo il più competente in materia economico-finanziaria deve gestire lui i soldi del Recovery Fund. Ne va della credibilità dell’Italia a livello europeo. Sarebbe auspicabile che Mattarella accettasse un secondo mandato.”

Cosa ha capito di noi italiani?

"Siete un popolo che si sottovaluta, al contrario di noi francesi che ci sopravvalutiamo. L'Italia è un Paese di enorme interesse e vitalità. Anche se a volte sorrido della vostra capacità di autoesaltazione. Alle Olimpiadi avete conquistato dieci medaglie d'oro, come Germania, Francia, Olanda, arrivando decimi nel medagliere, ma avete esultato come se foste arrivati primi".

Lavora ancora?

“Continuo a scrivere per Nouvel Observateur, purtroppo più per il web che per il magazine. E cerco anche di mettere in piedi un libro: il mio decimo dedicato all’Italia”.

Si sente ormai italiana?

"Né italiana, né francese. Sono una corso-trasteverina".

Borsellino, Sciascia e i professionisti dell'Antimafia. Storia di una polemica ancora aperta. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 19 luglio 2021. “I professionisti dell’antimafia” è termine ancora molto attuale nella pubblicistica nazionale. Nasce da un indovinato e fortunato titolo, dato da Riccardo Chiaberge, ad un articolo in Terza pagina del Corriere della Sera, che Sciascia firma partendo da una recensione di un saggio di Rubbettino sulla mafia ai tempi del fascismo collegandola a coeve vicende siciliane che riguardavano Leoluca Orlando e Paolo Borsellino (che Sciascia non conosceva). Quest’ultimo era stato promosso dal Csm Procuratore a Marsala per i suoi meriti di magistrato antimafia senza considerare il principio (conservatore) dell’anzianità. Ne nasce una polemica furibonda che giunge ai giorni nostri. Cosa era accaduto? Sciascia, molto malato, aveva raccolto una soffiata in ambienti socialisti e radicali all’epoca impegnati nella campagna sulla Giustizia giusta. Sciascia garantista autentico e disinteressato si era lasciato coinvolgere da suggeritori interessati. Infatti lo scrittore fa autocritica sul punto e in un’intervista al “Segno” corregge la rotta per poi incontrare Borsellino e chiedere scusa. Sciascia aveva avuto come bersaglio la direttiva del Csm e la retorica dell’antimafia. Lo scrittore, che anche per Borsellino era stato un punto di riferimento, inconsapevolmente, con quell’articolo ha procurato un vestito nobile a politici collusi e giornalisti di parte che da anni si fanno scudo del celebre titolo. Gianni Barbacetto sostiene che “A un congresso della Dc siciliana, accusata di connivenze con la mafia, il pubblico grida all’oratore: «Cita Sciascia, cita Sciascia!»”. Bella la difesa di Ostellino, direttore del Corriere, che decise di pubblicare l’articolo “perché in modo intelligente e su un delicato argomento come la lotta alla mafia, metteva in risalto i pericoli del pensiero unico”. Spieghiamo meglio i fatti di quell’epoca lontana per comprendere il presente. Per meglio dispiegare in tutta l’isola la strategia nata con il pool guidato da Caponnetto, Borsellino chiede il trasferimento alla procura della Repubblica presso il tribunale di Marsala per ricoprire l’incarico di procuratore capo. Il Csm con una decisione storica accoglie l’istanza riconoscendo i meriti professionali e l’esperienza acquisita negando per la prima volta validità assoluta al criterio dell’anzianità. Borsellino il 19 dicembre 1986 prende servizio a Marsala. Il successivo 10 gennaio, sulla terza pagina del Corriere della Sera, Leonardo Sciascia commenta con la solita verve letteraria l’uscita di un saggio di un ricercatore inglese sulla mafia ai tempi del fascismo mettendolo in relazione alle vicende siciliane del periodo. Pur senza citarlo Sciascia mette alla berlina Leoluca Orlando (“sindaco che per sentimento o per calcolo comincia ad esibirsi- in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei- come antimafioso”). Lo scrittore lancia una previsione: chi si opporrà a lui in consiglio comunale o nel partito sarà giudicato un mafioso. Se sul sindaco l’esempio è considerato ipotetico, sulla magistratura Sciascia si poggia su un dato che considera “attuale ed effettuale”. La parte finale del lungo articolo si conclude con la pubblicazione di uno stralcio del Notiziario straordinario del Csm che in burocratese stretto comunica l’esito dell’assegnazione del posto di procuratore capo a Paolo Borsellino alla luce “della particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare”. L’illuminista Sciascia fa a pezzi la prosa ministeriale giudiziaria dell’intero passo e non si accorge di essere finito tra i conservatori difendendo il concetto di anzianità per la nomina. Scrive Sciascia: “I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. Un indovinato e fortunato titolo “I professionisti dell’Antimafia” dato allo scritto da Riccardo Chiaberge apre una polemica furibonda e strutturale che giunge ai giorni nostri e assegna una notorietà negativa ad un serio magistrato come Paolo Borsellino che certamente non meritava una gogna mediatica di questo tipo. Per giunta firmata dall’intellettuale che con i suoi romanzi fino a quel momento aveva meglio svelato storia e natura psicologica della mafia. Un opinion leader che spesso al Paese aveva dato quella morale che la politica non aveva saputo dare. Borsellino si sentì molto ferito da quell’articolo che aprì una serrata discussione. Anche per il magistrato il maestro di Racalmuto era stato un padre intellettuale. Sciascia, garantista autentico e disinteressato, evidentemente si era lasciato coinvolgere da suggeritori interessati. Lo comprenderà lo scrittore e in un’intervista alla rivista “Segno” correggerà la rotta nei confronti del magistrato. I due s’incontreranno per un chiarimento. Sciascia dirà personalmente a Borsellino, nel corso di un colloquio molto cordiale, che era stato ingiusto personalizzare sulla sua nomina e chiede scusa dell’accaduto. Borsellino in quei giorni dirà alla sorella Rita: “Non posso prendermela con Sciascia, è troppo grande. Sono cresciuto con i suoi libri. È stato malconsigliato e manovrato”. Ayala ancora oggi sostiene che quell’articolo era giusto nei contenuti ma l’esempio su Borsellino profondamente sbagliato. Una tesi su cui concorda il giornalista e scrittore Alexander Stille: ”Non era giusto mettere sullo stesso piano due figure diverse come Orlando e Borsellino”. Un conto era la retorica della politica, un altro l’impegno giudiziario nella trincea infuocata della procura di Palermo. Tra l’altro Borsellino abbandonava la sua città per andare a lavorare in un difficile posto di provincia. Aumentava le sue spese personali visto che era costretto a prendere in fitto un piccolo appartamento vicino il commissariato di Marsala recandosi a Palermo dalla famiglia solo nel fine settimana. Quindi il successo alla fine comportava per lui anche sacrifici economici e personali. Il vero successo è determinato dalla polemica che si apre sui giornali anche con grandi confusioni. Borsellino assunse un tono nobile ma fermo nei toni. In un’intervista rilasciata a Felice Cavallaro del Corriere della Sera, il neoprocuratore di Marsala che conquista in maniera non voluta la scena nazionale, afferma: “Nutro preoccupazione per i segni di cedimento che avvertiamo in Sicilia. E’ pernicioso che si allenti, adesso, la tensione, in qualsiasi modo e da qualsiasi parte. Non si è ancora capito che questo è un momento delicatissimo della lotta alla mafia”. In molti infatti cominciavano a cambiare atteggiamento. Anche a Palermo il cardinale Pappalardo, il prelato delle omelie segnanti ai grandi funerali di Stato, aveva messo in guardia sulla spettacolarizzazione del maxiprocesso e aveva fatto riflessione sul fatto che l’aborto ammazza più innocenti della mafia. Nella stessa intervista Borsellino approfittava per informare gli italiani del suo curriculum di magistrato: “Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno”. In quei giorni la polemica dimentica infatti che Terranova, Costa, Chinnici, Ciaccio Montalto erano stati magistrati che avevano dato la loro vita nella lotta senza mediazioni contro la mafia. Il direttore del Corriere della Sera, il liberale Piero Ostellino, scrisse e sostenne: “L’antimafia rischia di trasformarsi in una sorta di mafia, sia pure di segno contrario”. Poco prima di morire la moglie del giudice ucciso, Agnese, sempre poco prodiga di parole e sempre misurate ad Attilio Bolzoni ha dichiarato: “Leonardo Sciascia vent’anni fa aveva capito tutto prima di altri”. La figlia di Sciascia, Anna Maria, riflette nello stesso articolo di Bolzoni: “Il suo era solo un richiamo alle regole, ce l’aveva con quella direttiva del Csm e con una certa retorica dell’antimafia […] Fu isolato solo perché aveva lanciato una riflessione sull’arbitrio, sul rischio che si creassero centri di potere, sull’intoccabilità dell’antimafia.” Borsellino andrà con la memoria a quella lontana polemica durante i 57 giorni che separano il botto di Capaci da quello di via D’Amelio. Ventitre giorni prima di morire in un dibattito pubblico, Borsellino ragiona sul fatto che Falcone aveva cominciato a morire quando “Sciascia sul Corriere bollò me e l’amico Leoluca Orlando come professionisti dell’antimafia”. Nello stesso intervento Borsellino rifletteva che poi a Falcone gli fu negata la guida dell’ufficio istruzione. Di questo ridimensionamento tornava a dare la responsabilità alla stessa magistratura. Anche quella volta Borsellino era sceso in campo con la sua determinata volontà e netta coscienza morale. I professionisti dell’antimafia sono invece ancora tra noi.

Strage di Via D’Amelio, Borsellino voleva denunciare i fatti interni alla Procura di Palermo: ecco le prove. Le conferme in due verbali “nascosti” per decenni, nelle intercettazioni di Totò Riina sul contenuto dell’agenda rossa e in un discorso pubblico del magistrato. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 19 luglio 2021. Ci sono un discorso pubblico, due verbali “nascosti” per decenni e un passaggio delle intercettazioni di Totò Riina sul contenuto dell’”agenda rossa”, che svelano cosa avrebbe voluto denunciare Paolo Borsellino alla procura di Caltanissetta in merito alla morte di Giovanni Falcone, senza averne avuto la possibilità: fu fatto saltare in aria prima, insieme alla sua scorta, con il tritolo in Via D’Amelio, 29 anni fa.

Le questioni “terribili” della Procura di Palermo. Un dato è sotto gli occhi di tutti. Paolo Borsellino ha pubblicamente evidenziato un dettaglio, collegandolo all’attentato di Capaci. Un dettaglio passato del tutto inosservato fin da subito e completamente svaporato tra le tesi della trattativa e altre piste inconcludenti. Tutte piste che omettono le questioni “terribili”, una definizione coniata da Borsellino durante una confidenza fatta alla sorella di Falcone, che riguardano la Procura diretta all’epoca da Pietro Giammanco. Tutto nero su bianco nel verbale tenuto nei cassetti per quasi 30 anni. «Falcone approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, di non poter più continuare ad operare al meglio». Questo è il passaggio del famoso intervento pubblico di Borsellino fatto alla biblioteca comunale di Casa Professa. Non c’è altra interpretazione.

Per Borsellino i diari di Falcone sono veri. Borsellino ha esordito con una premessa: deluderà i presenti, ma le motivazioni dell’omicidio del suo collega e fraterno amico Falcone le riserverà alla procura di Caltanissetta. Ma man mano che parla, qualcosa lascia intravvedere. Prima premette che i diari di Falcone (tutte annotazioni critiche nei confronti di alcuni suoi colleghi e della gestione delle indagini) pubblicato dalla giornalista Liana Milella sono veri. Sottolinea la loro genuinità, perché li «aveva letti in vita». Borsellino, più avanti, dice chiaramente che avrebbe rivelato il motivo per cui Falcone ha abbandonato la Procura di Palermo, quella dei “veleni”. Definizione, quest’ultima, di Borsellino stesso come hanno testimoniato alcuni suoi colleghi di Marsala, ovvero Massimo Russo e Alessandra Camassa. Lo avrebbe prima detto alla procura competente e poi, nel caso, pubblicamente.

Voleva denunciare ai giudici di Caltanissetta i malesseri della procura palermitana. Dal verbale dell’audizione al Csm del magistrato Antonella Consiglio si evince una testimonianza che svela il fatto che Borsellino avrebbe denunciato innanzi ai giudici nisseni tutti i malesseri interni alla Procura. Riportiamo il passaggio del verbale al Csm del 30 luglio 1992. È la dottoressa Consiglio che parla. Il riferimento sono i diari di Falcone: «Lo stesso Antonio (Ingroia, ndr), parlando mi disse che era tutto vero, ma sul punto non c’erano dubbi e che proprio Paolo cercava di studiare insomma il modo, come dire, o comunque il momento per poter introdurre il problema nelle sedi istituzionalmente competenti, perché dopo la morte di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino ha subito un grosso trauma emotivo ed era determinato nel far luce sui fatti anche della procura, e comunque, diciamo, era una cosa che lui stava sicuramente preparando, a cui pensava».

Ingroia disse alla Consiglio che Borsellino era determinato a tirar fuori i malesseri della procura. La dottoressa Consiglio, aggiunge che Ingroia le disse che Borsellino era «determinato in questa sua intenzione di tirar fuori, in qualche modo non so come, i malesseri di quella procura ed ero completamente allo scuro di tutti i fatti che poi ho sentito e tutto sommato cercava, appunto, il momento opportuno, poi.. è finita». Ma poi, appunto, è finita quel maledetto 19 luglio 1992. Borsellino che quasi ogni domenica mattina andava a trovare la madre, quel giorno ci andò di pomeriggio perché doveva accompagnarla dal cardiologo. Una visita programmata per sabato, ma poi spostata a domenica dal medico stesso.

Il giorno prima della strage alla madre avrebbe detto: «…poi potrò smettere di fare il magistrato». Il giorno prima della strage, e questo lo sappiamo dalla testimonianza del fratello Salvatore resa il 5 aprile 1995 al processo Borsellino, il giudice ucciso dal tritolo era euforico e avrebbe detto alla madre testuali parole: «Sono contento di questo che sto facendo perché sono riuscito ad andare in fondo e poi potrò smettere di fare il magistrato». Ebbene sì. Borsellino avrebbe lasciato la magistratura una volta denunciato la verità sulla strage di Capaci. La sorella di Falcone, come si legge nel verbale tenuto nascosto per quasi 30 anni, dirà al Csm: «Io per due mesi sono stata zitta, perché Paolo Borsellino così mi aveva consigliato, o ci aveva consigliato, perché Paolo era un caro amico di Giovanni».

Consigliò alla sorella di Falcone di stare ferma, perché stava scoprendo «delle cose terribili». Che cosa le aveva consigliato? Lei voleva parlare subito dei motivi per cui Falcone ha lasciato la Procura. Borsellino però le disse di stare ferma, perché stava scoprendo «delle cose terribili, che avrebbero fatto saltare parecchie cose». Veniamo all’agenda rossa scomparsa. Si sono fatte diverse ipotesi sul contenuto. Nessuno ne è testimone, ma addirittura c’è chi specula dando per certo che avrebbe scritto cose riguardanti entità o spectre come se annotasse un romanzo alla Dan Brown.

Annotava pensieri sull’agenda rossa come faceva Falcone su un diario. Sappiamo, grazie alla testimonianza di Ingroia resa alla commissione antimafia siciliana, che Borsellino ha cominciato ad annotare pensieri sull’agenda rossa una volta che ha scoperto che anche Falcone annotava tutto su un diario. Il contenuto delle annotazioni pubblicate è tutto volto alla questione interna alla Procura di Palermo. Sappiamo che Falcone cominciò ad annotare sul diario su consiglio del giudice Rocco Chinnici. Anche quest’ultimo, ricordiamo, teneva un diario personale. Dopo la morte di Chinnici, in audizione avanti al Csm del 6 settembre 1983 sul punto Falcone commenterà: «Il collega Chinnici prendeva appunti su tutti gli episodi che gli apparivano inconsueti e questo perché temeva che le persone che potessero volere la sua morte avrebbero potuto annidarsi anche all’interno del palazzo di giustizia. Egli mi sollecitava a fare altrettanto, dicendomi che in caso di una mia morte violenta gli appunti avrebbero potuto costituire una traccia per risalire agli assassini». È stato di parola. Falcone ha annotato tutti i problemi interni al palazzo di giustizia. A questo punto è logico supporre che Borsellino abbia voluto seguire lo stesso esempio. Pubblicamente o tramite confidenze ora svelate dai verbali, Borsellino ha detto di non fidarsi di alcuni suoi colleghi e che avrebbe denunciato tutto a Caltanissetta.

Riina parlava dei contenuti dell’agenda rossa. Lo sapeva anche Totò Riina? Nelle trascrizioni delle intercettazioni del 29 agosto 2013, parla dell’agenda rossa e dei documenti che qualcuno fece sparire anche al generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Si chiede come mai accadono queste sparizioni. Ad un certo punto, subito dopo aver nominato il fatto di dalla Chiesa, dice: «Perché, anche questa agenda rossa, cioè, le rilevazioni che aveva fatto questo… questo per quello… gli faccio io… perché c’è… c’è… non può essere perché sono presenti i Magistrati?». Finché non si farà chiarezza su questo punto, la verità è sempre più lontana. Siamo un Paese particolare, la Sicilia lo è ancor di più. Ci vorrebbero magistrati che abbiano il coraggio di calpestare i piedi anche ai loro colleghi potenti. Un potere abnorme che invade i mass media e gli organismi politici. Cosa aveva scoperto di così terribile Paolo Borsellino tanto da annotarlo sull’agenda e pronto a rivelarlo alla procura Nissena? «Borsellino – si legge nell’articolo del Corriere della Sera a firma di Luca Rossi apparso il giorno dopo l’attentato – pensava che potesse esistere una connessione tra l’omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone, e che il trait d’union fosse una questione d’appalti, in cui Lima era stato in qualche modo coinvolto e che Falcone stava studiando». E poi sempre Borsellino dice: «Se me ne vado da qui, da Palermo, non ho più nessuno che mi faccia da sponda. Qui non è rimasto nessuno. Non ci sono più inchieste, non c’è un lavoro organico: che cosa posso coordinare da Roma se nessuno fa indagini in Sicilia?».

Il dossier dimenticato nei cassetti di quattro procure. "Dietro le stragi del 1992 massoni e alta finanza".  Salvo Palazzolo su La Repubblica il 18 luglio 2021. La commissione regionale antimafia scopre le 70 pagine che nel marzo 1994 erano state inviate dalla Dia alla magistratura. C’erano riferimenti precisi a personaggi poi effettivamente coinvolti nei misteri delle bombe: l’artificiere Rampulla e il “mediatore” Bellini. Ma resta il giallo: quali fonti avevano fatto queste rivelazioni agli investigatori? Ventinove anni dopo, spuntano ancora tracce rimaste nei cassetti. Le stragi Falcone e Borsellino, e poi quelle di Roma, Milano e Firenze, restano il grande buco nero della giustizia italiana. Per tutte le indagini che non furono fatte. Nel marzo 1994, la Dia spedì a quattro procure - Palermo, Roma, Milano e Firenze - un rapporto "strettamente riservato" in cui si rappresentavano alcune "certezze": le stragi Falcone e Borsellino sono state "richieste" a Salvatore Riina da "personaggi importanti", in cambio della promessa di una revisione del maxiprocesso.

Il procuratore Lo Voi: "Borsellino, non solo mafia. La lotta è ancora lunga, alti rischi di infiltrazione".  Carmelo Lopapa su La Repubblica il 18 luglio 2021. L'intervista. "Sentii Paolo pochi giorni prima della strage, era turbato. Mi disse: Comprati una pistola". L'eccidio era annunciato: "Lo Stato non fece abbastanza per difenderlo". I mafiosi preferiscono avvicinare i funzionari pubblici più che i politici per ottenere appalti. Indispensabile la legislazione sui pentiti. La cattura di Messina Denaro? "Non ne parlo". La strage Borsellino fu eccidio di mafia. Ma non solo di mafia. Di certo, la più annunciata delle stragi. E lo Stato non fece tutto ciò che avrebbe potuto per proteggere il giudice e la sua scorta, trucidati il 19 luglio di 29 anni fa. Di tempo ne è passato, ma ancora tutto o quasi viene delegato alle capacità repressive della magistratura e delle forze dell'ordine.

Falcone e Borsellino, le stragi si sarebbero potute evitare con il Bomb Jammer? Le Iene News l'11 maggio 2021. Se il Bomb Jammer fosse stato messo sulle auto di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si sarebbero potute evitare le stragi del 1992? Alessandro Politi ci parla di questa apparecchiatura di sicurezza che blocca l’azione dei telecomandi a distanza per gli esplosivi e che sarebbe stato già in uso in Italia in quegli anni e installata anche sulla macchina di Antonio Di Pietro? I magistrati antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli uomini delle loro scorte, uccisi nel 1992 in due attentati, si sarebbero potuti salvare? In particolare, entrambe le bombe sono state innescate con dei comandi a distanza: c’era uno strumento per evitare le stragi di Capaci e di via D’Amelio? Se lo chiede Alessandro Politi. Ci concentriamo su un’apparecchiatura, il Bomb Jammer, che può disturbare le frequenze radio bloccando così anche i comandi a distanza degli ordigni. Ce ne parla un uomo che ha collaborato come consulente per le più importanti procure, proprio usando il Jammer per proteggere i magistrati. In Italia questa apparecchiatura è arrivata negli anni ’80: lui l’avrebbe avuta per protezione l’auto del pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro. Per quelle di Falcone e Borsellino il consulente sarebbe stato bloccato dalla burocrazia. Ne parliamo anche con Alfonso Sabella, che è stato sostituto procuratore a Palermo con Giancarlo Caselli e assessore alla legalità a Roma ai tempi di “Mafia Capitale”. Ai tempi di Falcone e Borsellino sapeva, dice, che c’era questa tecnologia, non che fosse disponibile: “Mi fa inc… moltissimo che non sia stata usata per Falcone e Borsellino, se c’era una macchina su cui quell’apparecchio andava montata era quella di Falcone e Borsellino”. “Nel 1992 feci un intervento chiedendo, urlando, perché non era stato fatto”, senza sapere ancora che quella tecnologia non solo esisteva, ma era disponibile. “È gravissimo, è sconvolgente”. Gli diciamo chi è il consulente che ci ha parlato del Jammer: secondo Sabella, che ci ha lavorato, è assolutamente affidabile. Antonio Di Pietro invece preferisce non parlare dell’argomento al telefono. Riproviamo di persona, non la prende benissimo.

Via D’Amelio: una partita truccata contro la verità tra bugie e depistaggi. Il 19 luglio del 1992 l’eccidio di Paolo Borsellino e dei cinque agenti di scorta. Ventinove anni di omissioni, indagini parziali e reticenze di Stato. L’inchiesta della commissione antimafia siciliana. Enrico Bellavia su L'Espresso il 15 luglio 2021. Coppole e toghe. Tritolo e divise. Barbe finte e boia. Una lunga partita a scacchi contro la verità. A ventinove anni dall’inferno di via D’Amelio molti degli interrogativi del 1992 rimangono intatti, nonostante 14 processi e la condanna del gotha di Cosa nostra. Perché in questo lungo lasso di tempo si è consumato, dentro e fuori le aule di giustizia, quel “furto di verità”, come lo chiama il presidente della commissione regionale antimafia siciliana, Claudio Fava, reso possibile dal depistaggio permanente che precede e segue la strage in cui morirono Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. Un depistaggio ancora “attuale”, avverte il sostituto procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato. La menzogna delle menzogne ruota intorno al falso pentito Vincenzo Scarantino, imbeccato dal gruppo stragi guidato dall’ex capo della Mobile e questore di Palermo, Arnaldo La Barbera che ne fece il “pupo vestito” per chiudere in fretta, già nel 1994, il capitolo sulla morte del procuratore aggiunto di Palermo, avvenuta 57 giorni dopo l’eccidio di Capaci e la fine riservata a Giovanni Falcone, alla moglie e ai tre agenti della scorta. Ma l’impostura ha dei protagonisti, non tutti noti, e dei comprimari, silenti e acquiescenti nel perpetuare l’inganno: il procuratore di Caltanissetta dell’epoca, Giovanni Tinebra, morto come La Barbera, ma anche il nugolo di aggiunti e sostituti che hanno sorvolato su quel raggiro alla giustizia che non si è arrestato con il disvelamento dell’inganno. Incarnato nel malavitoso analfabeta della Guadagna, dato in pasto ai giudici come l’autore del furto della 126 utilizzata per la strage. E poi smentito nel merito del furto e delle fantasiose ricostruzioni sull’organizzazione dell’attentato da Gaspare Spatuzza, ma solo nel 2008. La più aggiornata fotografia di cosa sia stata questa partita truccata l’ha fornita nei giorni scorsi proprio la commissione regionale antimafia siciliana con una relazione, la seconda dopo quella del 19 dicembre 2018, che già conteneva una significativa sintesi delle occasioni mancate sia per evitare la strage sia per scoprirne poi i veri responsabili. Partiamo dalla fine provvisoria. Proprio mentre ci si affanna a capire chi, insieme con Cosa nostra abbia impresso al disegno stragista deliberato nel 1991 da Riina e soci l’impellenza di uccidere Borsellino proprio in quel 19 luglio del 1992, l’ex collaboratore di giustizia catanese Maurizio Avola si piazza al centro della scena dell’agguato e con una tardiva rivelazione si dice sicuro che dietro la mafia non ci fosse nessun altro. Comodo, rassicurante e utile. Ma anche incredibile. Al punto che, come ha ipotizzato Scarpinato, il movente delle parole di Avola possa essere duplice: depistare ancora e annullare l’effetto delle proprie precedenti dichiarazioni sugli artificieri dell’attentato di Capaci che sembravano poter dare un input per interessanti approfondimenti su quel versante. Resta la domanda su chi lo abbia imbeccato. L’ennesima ombra che va ad ingrossare le fila dei fantasmi che affollano questa storia senza indagini. Non ce ne sono mai state del resto sulla mancata predisposizione di un apparato di sicurezza adeguato in via D’Amelio che avrebbe evitato la strage. Niente personale esperto sui movimenti di Borsellino, niente bonifica preventiva alla ricerca di auto sospette nel perimetro della strage, niente impiego di dispositivi elettronici di rilevamento degli esplosivi. E questo nonostante il magistrato fosse accreditato come il prossimo bersaglio perfino nelle chiacchiere da bar, oltre che in una nota dei servizi segreti e ci fossero delle precise minacce giunte in procura di cui fu tenuto all’oscuro. Nessuna indagine neppure su Pietro Giammanco, il procuratore capo di Palermo che solo la mattina del 19 luglio con una strana telefonata domenicale all’alba concesse a un Borsellino attonito l’agognata delega ad occuparsi delle indagini antimafia su Palermo. Giammanco non fu mai sentito a Caltanissetta. Nè fu mai chiesto conto a Tinebra sul perché avesse delegato al Sisde indagini sulle stragi, affidandole proprio a Bruno Contrada, pur sapendolo chiamato in causa dal pentito Gaspare Mutolo come colluso con la mafia. Un’accusa che proprio Borsellino aveva raccolto dopo essere riuscito a strappare a Giammanco il via libera all’interrogatorio. Gli eredi del vecchio Sisde, oggi Aisi, non alcuna voglia di rispondere per allora. Sta di fatto che uomini del Sisde si sono ritrovati a occuparsi della strage Borsellino insieme con La Barbera che dal Sisde era a sua volta stipendiato e che dava la caccia a una 126 ben prima che se ne ritrovasse il blocco motore con i numeri di matricola. Nulla si sa dell’agenda rossa di Borsellino, scomparsa dal luogo dell’eccidio mentre la macchina della vittima fumava ancora. Sparì nelle mani di quegli uomini in giacca e cravatta piombati tra le lamiere roventi chissà da dove e avvistati con certezza da almeno due dei poliziotti intervenuti. Uno di questi mostrò un tesserino: era un uomo dei servizi. Ma il Sisde, ufficialmente, intervenne in via D’Amelio almeno cinque ore dopo l’attentato. Il resto della borsa di Borsellino finì sul divano della stanza di La Barbera alla Mobile per essere repertato e controllato molti mesi dopo. Atto inutile, dal momento che ciò che conteneva di prezioso era già sparito. La Barbera, del resto, aveva già pronto Scarantino, pentito costruito in laboratorio, già provato per depistare il delitto del poliziotto Nino Agostino e sottoposto in foto al padre nel tentativo di farglielo riconoscere come esecutore del delitto già nel 1989. Il picciotto della Guadagna rispunta come strumento nelle mani di La Barbera dopo via D’Amelio. Gli affiancano un detenuto provocatore, poi lo portano nel lager di Pianosa e lì dopo una valanga di incontri investigativi, tutti autorizzati tra mille non ricordo dai magistrati del tempo si pente salvo poi ritrattare. A nulla valgono i confronti che lo smentiscono con collaboratori di ben altro peso che non verranno mai prodotti in dibattimento fino a quando la difesa di alcuni degli imputati costringerà l’accusa a esibirli. A nulla valgono neppure le dichiarazioni di Giovanni Brusca che bolla come inattendibile Scarantino ben prima di Spatuzza. E neppure l’avviso non verbalizzato dello stesso Spatuzza che già nel 1998 alla Dna dice che quell’altro mente spudoratamente. Bisognerà aspettare i verbali ufficiali di Spatuzza per avviare l’iter che porterà alla liberazione, dopo 18 anni degli 11 accusati ingiustamente da Scarantino. Buio ancora anche sul movente. Sposando la comoda tesi che accompagna sempre i delitti di mafia si evoca la vendetta. Con una torsione del capo all’indietro si guarda a quel che la vittima aveva fatto e non a quello che poteva fare. E Borsellino prometteva due cose: scoprire tutto sulla fine di Falcone, ma Caltanissetta non lo ascoltò mai, e riprendersi in mano il dossier mafia e appalti, un’indagine dei Ros, depotenziata da Giammanco. Lì c’erano spunti investigativi che portavano al Nord, ai colossi imprenditoriali sporcatisi e tanto con la mafia siciliana. Attingendo a piene mani alla liquidità enorme dei picciotti, consentendole quella finanziarizzazione da mafia in borsa evocata da Falcone prima di essere ucciso. E su tutto ci sono loro: i Graviano, Giuseppe e Filippo, i fratelli che dosano con strategie diverse dal 41 bis, parole e messaggi in codice sperando un giorno di tornare liberi. Rimasti nell’ombra, anche loro sono stati condannati per le stragi in quanto capi del mandamento di Brancaccio. Ma all’epoca delle prime indagini su via D’Amelio, tutto sembrava volerli relegare sullo sfondo, riparati da ogni coinvolgimento. La Guadagna di Scarantino portava lontano da loro e dai loro interessi economici. Che riconducono ancora al Nord, a partire da una colletta tra mafiosi avviata dal padre per finanziare l’ascesa imprenditoriale di quel che sarebbe stato l’impero di Silvio Berlusconi. Abbastanza per dirsi che quello che ancora non sappiamo è una ipoteca sufficiente a tenere sotto scacco i sopravvissuti di quella stagione.  

La mega rapina degli uomini di Totò Riina: dopo 30 anni il bottino ricompare a Trastevere. La pista seguita dai Ros dopo un sequestro di beni a una famiglia vicina ai componenti del commando che nel ‘91 eseguì il colpo sensazionale al Monte dei Pegni di Palermo. Una perizia conferma: i gioielli sequestrati sono tutti antecedenti agli anni Novanta. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 22 giugno 2021. Un filo che lega trent’anni di storia della mafia. Un filo saltato fuori in un magazzino di Roma qualche mese fa e che, seguendolo, porta indietro nel tempo, agli anni della Palermo insanguinata dai mafiosi. Una pista suggestiva e per certi versi incredibile, quella che i carabinieri del Ros della Capitale stanno seguendo e che troverebbe conferma in una perizia appena acquisita. Una pista che da alcuni investimenti della mafia in bar ed esercizi commerciali oggi a Roma porta dritta al tesoro della Cosa Nostra di Salvatore Riina e a un colpo che fece scalpore: la grande rapina al Monte dei Pegni della Sicilcassa avvenuta nel 1991 a Palermo.  Un colpo che allora fruttò a Cosa Nostra oltre 40 miliardi di lire tra contanti, quadri, gioielli e pietre preziose. Un bottino che serviva ai corleonesi anche per pagare le parcelle degli avvocati che avevano seguito per i boss il maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone. Un tesoro che Riina volle in parte trasformare in lingotti d’oro poi distribuiti ai capi mandamento e che trent’anni dopo è stato trovato in un magazzino della Capitale: anzi, molto probabilmente una parte era stata appena venduta per riciclare soldi in un bar a Trastevere. Il resto invece era lì: quadri di fine Ottocento, collane di perle, bracciali Bulgari, orecchini di alto valore. Una perizia, chiesta dai carabinieri del Ros di Roma, conferma la pista suggestiva: questo tesoro è tutto datato prima del 1990 e l’uomo per il quale è stato conservato fu uno degli autori di quella storica rapina a Palermo. L’uomo del ritorno al futuro, il volto che collega passato e presente della Cosa Nostra potente dei corleonesi, si chiama Francesco Paolo Maniscalco: figlio di Totuccio Maniscalco e nipote di Cesare Giuseppe Zaccheroni, uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova e pupillo di Salvatore Cangemi, l’ex boss che ha fatto parte del gruppo di fuoco che uccise Salvo Lima e che ha partecipato alle stragi di Capaci e via D’Amelio. Cangemi si pente nel 1993 ed è il primo collaboratore di giustizia a fare il nome di Silvio Berlusconi e dell’arrivo a Milano del suo stalliere, Stefano Mangano.  Morto Zaccheroni, in un incidente in moto nel 1982 mentre stava correndo verso Altavilla Milicia per comunicare ad alcuni mafiosi una imminente retata delle forze dell’ordine, Cangemi mette sotto la sua ala protettiva il giovane Maniscalco, allora poco più che ventenne. Il ragazzo è sveglio ed è lui che coordina sul campo la grande rapina del 13 agosto 1991 al Monte dei Pegni della Sicilcassa in via Calvi: in sette quel giorno entrarono nella banca e rubarono preziosi e quadri per un valore di 25,9 miliardi di lire e contanti per altri 17,5 miliardi. Il bottino venne messo in sacchi della spazzatura e borsoni e tenuto per tutta la giornata da Maniscalco, che solo la sera di quel giorno consegnerà in un capannone a Brancaccio i soldi e i preziosi a Cangemi. Trent’anni dopo siamo a Roma, quartiere Trastevere. I carabinieri del Ros stanno intercettando alcuni componenti della famiglia Rubino, sospettati di essere prestanome di Maniscalco e delle famiglie di Porta Nuova e Corso dei Mille. I Rubino, palermitani trapiantati a Roma da molti anni e imparentati sia con Maniscalco sia con Zaccheroni, stanno investendo in nuove attività commerciali. I carabinieri in particolare accendono i riflettori sul bar di viale Trastevere “Sicilia è Duci” e su un’altra società appena creata dai Rubino per aprire un secondo locale sempre nello stesso quartiere, dopo che la Dia di Palermo aveva sequestrato delle quote della vecchia società appartenenti proprio a Maniscalco. Per fare dei lavori urgenti di ristrutturazione del nuovo bar la famiglia Rubino ha bisogno di soldi. E parlano quindi di alcuni beni da vendere.  In una intercettazione si fa riferimento a un noto esperto d’arte romano, Gianluca Berardi. Intercettati, Benedetto Rubino e la moglie Antonina Puleo parlano dell’imminente arrivo del gallerista per valutare dei quadri, ma emerge il timore che proprio Berardi potesse scoprire che quei quadri erano stati rubati: «Guarda che questo lo scopre che sono stati rubati 28 anni fa», dice la moglie. Poco dopo scatta un blitz dei carabinieri, che in un magazzino non molto distante dall’abitazione dei Rubino trovano ventiquattro tele e trenta pietre preziose. Tra questi un “Ritratto di bimba” di Luigi Di Giovanni, datato 1909, una “Donna nel bosco” del pittore Giuseppe Puricelli Guerra del 1869 e una “Donna con fanciullo” di Giovan Battista Cambon datato fine Ottocento. Dalla vendita di questi beni e di una pietra preziosa i Rubino ricaveranno 70 mila euro. I carabinieri del Ros hanno esaminato nel dettaglio questi beni per verificare se davvero potessero risalire alla rapina al Monte dei Pegni del 1991, come sembra dalle intercettazioni e da quella frase («rubati 28 anni fa») detta in un colloquio del maggio 2019. E una perizia, appena arrivata sul tavolo dei Ros e dei pm romani che indagano confermerebbe questa tesi suggestiva perché tutti i beni sequestrati, compresi bracciali Bulgari e anelli di valore, sono tutti antecedenti al 1991. Di certo c’è che al Monte dei Pegni non c’era un catalogo dettagliato dei beni rubati in quella rapina e del bottino si erano perse le tracce subito. Soltanto un gioielliere di Castelvetrano, dopo molti anni, parlerà di un incontro con Riina e Messina Denaro e della consegna di alcuni preziosi che dovevano essere valutati e che provenivano da quella rapina. Adesso, dopo trent’anni, una parte di quel tesoro sarebbe saltata fuori in un magazzino di Roma per riciclare soldi della vecchia mafia. Almeno questa è la pista seguita dagli investigatori. 

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 4 giugno 2021. «Giovanni se ne è andato da Palermo perché non poteva più lavorare, perché il procuratore Giammanco non gli permetteva più di svolgere il suo lavoro come avrebbe voluto farlo». A dirlo, il 30 luglio del 1992 al Csm, è la sorella Maria Falcone. Il Csm, dopo la strage di via d'Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e dopo la diffusione di un documento firmato da otto pm contro Giammanco, decise di procedere a delle audizioni per capire cosa stava succedendo alla Procura di Palermo. «Non è compito mio indagare sul perché Giammanco ha operato questa strategia di non farlo lavorare. Io vi posso dire soltanto cosa Giovanni diceva in famiglia», aveva sottolineato la sorella in una deposizione rimasta per un quarto secolo secretata. Il perché Pietro Giammanco ostacolasse Falcone non lo sapremo mai. Il magistrato è morto nel 2018 senza che nessuno glielo abbia mai chiesto. Falcone si era sempre lamentato di subire umiliazioni e di non essere messo in condizioni di lavorare. La testimonianza della sorella di Falcone stride con le dichiarazioni dei colleghi del magistrato ucciso a Capaci e che in questi giorni lo ricordano come un grande investigatore e un precursore dei tempi per aver voluto la legge sui pentiti che permise di sferrare un colpo micidiale a Cosa nostra. Fra gli ex colleghi intervenuti nel dibattito c'è Giuseppe Pignatone che ha scritto un articolo per Repubblica dal titolo "La legge e il valore dei pentiti", commentando la liberazione di Giovanni Brusca, il killer che premette il pulsante che innescò l'esplosivo. Nel pezzo l'ex procuratore della Repubblica di Roma esprime parole di apprezzamento per la legislazione premiale in materia di collaboratori di giustizia «ispirata e fortemente voluta» da Falcone «sulla base delle esperienze palermitane».

Ecco, però, che cosa scriveva di Pignatone Falcone nei suoi diari.

18 dicembre 1990: «Dopo che ieri pomeriggio si è deciso di riunire i processi Reina (Michele, segretario della Dc, ndr), Mattarella (Piersanti, presidente della Regione) e La Torre (Pio, segretario del Pci, ndr), stamattina gli (a Giammanco, ndr) ho ricordato che vi è l'istanza della parte civile nel processo La Torre di svolgere indagini sulla Gladio (organizzazione promossa dalla Cia, ndr). Ho suggerito, quindi, di richiedere al giudice istruttore di compiere noi le indagini in questione. Invece sia egli sia Pignatone insistono per richiedere al giudice soltanto la riunione riservandosi di adottare una decisione soltanto in sede di requisitoria finale. Un modo come un altro per prendere tempo».

10 gennaio 1991: «I quotidiani riportano la notizia del proscioglimento da parte del giudice Grillo dei giornalisti Bolzoni e Lodato, arrestati per ordine di Curti Giardina (Salvatore, procuratore di Palermo prima di Giammanco, ndr) tre anni addietro con imputazione di peculato (per la pubblicazione dei verbali del pentito Antonio Calderone, ndr). Il giudice ha rivelato che poteva trattarsi soltanto di rivelazione di segreti di ufficio e che l'imputazione di peculato era cervellotica. Pignatone aveva sostenuto invece che l'accusa in origine era fondata ma che le modificazioni del codice penale rendevano il reato di peculato non più configurabile. Trattasi di altra manifestazione di "furbizia" di certuni che, senza averne informato il pool, hanno creduto, con una "ardita" ricostruzione giuridica, di sottrarsi a censura per un'iniziativa assurda e faziosa di cui non può non esser ritenuto responsabile certamente il solo Curti Giardina».

26 gennaio 1991: «Apprendo oggi da Pignatone, alla presenza del capo, che egli e Lo Forte (Guido, ndr) si erano recati dal cardinale Pappalardo per sentirlo in ordine a quanto riferito, nel processo Mattarella, da Lazzarini Nara (segretaria di Licio Gelli, ndr). Protesto per non essere stato previamente informato sia con Pignatone sia con il capo (...)». A conferma della "effettiva" posizione di Pignatone all'interno della Procura di Palermo, prima, in contemporanea e dopo l'uccisione di Falcone, ci sono le sue dichiarazioni, secretate per anni, al Csm. «Per quanto riguarda quella parte del documento che sembra contenere una critica nei confronti del procuratore sono totalmente dissenziente (...) io esprimo un giudizio positivo sull'operato del procuratore», disse Pignatone. Ignazio De Francisci, altro pm palermitano ascoltato all'epoca dal Csm, raccontò che Giammanco si fidava solo di tre magistrati in Procura, uno era Pignatone. A trent' anni dalla morte di Falcone e Borsellino sarebbe l'ora, almeno, di una verità "storica" sulle stragi di mafia. La verità processuale, nel caso di Borsellino siamo al "quater", è lontana. 

IN RICORDO DI GIOVANNI FALCONE DI FRANCESCA MORVILLO E DELLA LORO SCORTA. Antonello De Gennaro il Il Corriere del Giorno il 23 Maggio 2021. Quel 23 maggio e 19 luglio sono le pagine più buie e dolorose della storia di Palermo, che però allo stesso tempo hanno generato finalmente la reazione ed il risveglio della società civile che davanti a tanta barbarie inizia ad alzare la testa. Il 23 maggio è ormai da anni diventata la data simbolo della lotta alla mafia, del “NO” al malaffare. Il sacrificio di Falcone e Borsellino e delle loro scorte con il passare diventa sempre più solido ed indimenticato nelle anime e memorie degli italiani onesti, ed il loro ricordo sarà indelebile. Perchè loro vivono ancora e sempre dentro di noi. Oggi è il 29mo anniversario della strage di Capaci del 23 maggio 1992, nella quale morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli uomini della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani. Fu l’inizio della stagione stragista di “Cosa nostra”. Falcone assieme al collega ed amico fraterno Paolo Borsellino, aveva individuato e fatto condannare con lo storico “maxiprocesso” i vertici della mafia siciliana. Quello che sembrava un normalissimo pomeriggio palermitano di quasi estate, ha cambiato la storia di Palermo, della Sicilia, dell’ Italia intera. La potente carica di esplosivo sventrava l’autostrada Palermo-Mazara all’altezza di Capaci: con un inferno di fiamme e fumo, lamiere e asfalto la mafia aveva compiuto la propria vendetta contro il giudice Giovanni Falcone. Appena due mesi dopo, il 19 luglio di quello stesso anno arrivò una nuova sentenza di morte da “Cosa Nostra” , questa volta per Paolo Borsellino. In via D’Amelio, assieme a lui c’erano i suoi angeli custodi della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi la prima donna a far parte di una scorta e purtroppo anche la prima donna della Polizia a cadere in servizio, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Quel 23 maggio e 19 luglio sono le pagine più buie e dolorose della storia di Palermo, che però allo stesso tempo hanno generato finalmente la reazione ed il risveglio della società civile che davanti a tanta barbarie inizia ad alzare la testa. Il 23 maggio è ormai da anni diventata la data simbolo della lotta alla mafia, del “NO” al malaffare. E ogni anno, grazie anche all’impegno della Fondazione Falcone creata da Maria la sorella del giudice, il Paese intero si mobilita con l’iniziativa “Palermo chiama Italia” per ricordare e rinnovare l’impegno per la legalità. “Di cosa siamo Capaci” è una frase semplice, immediata che punta a valorizzare storie positive, esempi di coraggio e altruismo in momenti bui del Paese, testimonianze di resilienza non necessariamente collegate alle mafie – sottolinea Maria Falcone – Vogliamo insomma narrare di cosa siamo Capaci come cittadini, come singoli individui, come comunità. Abbiamo pensato a modi diversi per coinvolgere i ragazzi e i cittadini – spiega la sorella di Giovanni Falcone – È nato così ‘Spazi Capaci’, un progetto di memoria 4.0 che ci consente di riappropriarci attraverso l’arte dei luoghi che la pandemia ci ha sottratto e che potrebbero essere di nuovo ‘occupati’ dalla criminalità organizzata. Abbiamo chiesto ad alcuni tra i maggiori artisti italiani di contribuire alla realizzazione di un programma speciale di interventi urbani, nei luoghi simbolo del riscatto civile contro le cosche. La bellezza e la cultura sono armi importanti contro la paura e l’omertà”. Giovanni Falcone era un magistrato preparatissimo, che aveva ben capito la complessità e la vastità di “cosa nostra”. Ed aveva intuito come per contrastarla fosse necessario un lavoro di squadra svolto in modo molto accurato e minuzioso. Dove ogni piccolo dettaglio era un piccola tessera di quel puzzle maledetto che è la mafia. Lo conferma un episodio inedito, relativo all’omicidio del giudice Rosario Livatino il 21 settembre 1990, giovane magistrato che conosceva bene Falcone e Borsellino, con i quali avevano più volte collaborato, scambiandosi documenti e analisi. Così quel 21 settembre di 31 anni fa, entrambi corsero ad Agrigento e Falcone addirittura collaborò, con indicazioni e consigli preziosissimi , all’interrogatorio di Pietro Nava, il coraggioso e fondamentale testimone dell’agguato a Livatino. Lo ricorda Sebastiano Mignemi, a quel tempo appena trentenne pubblico ministero della Procura di Caltanissetta che insieme al collega Ottavio Sferlazza fu titolare della prima inchiesta sull’omicidio di Livatino. Oggi Mignemi è presidente del Tribunale del riesame di Catania, ed ha raccontato per la prima volta quell’importante episodio riportato nel libro “Rosario Livatino. Il giudice giusto” (Edizioni San Paolo) scritto da Antonio Maria Mira, appena uscito in libreria. “Un’altra cosa che mi colpì moltissimo fu la discrezione con la quale intervennero da Palermo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. In particolare ricordo bene come Falcone, che nel 1990 era già molto noto, si approcciò a me giovanissimo magistrato per capire“. Mignemi racconta anche i preziosi consigli ricevuti da Falcone. “Aveva un grande fiuto investigativo e capì che quella testimonianza sarebbe stata il perno di tutti i processi che sarebbero svolti. E mi disse una cosa fondamentale. Di stare attento a ogni minimo particolare del racconto. Quando il testimone diceva la parola “pistola” non mi doveva bastare, ma dovevo chiedere come fosse, argentata o nera, un revolver. E vedendomi perplesso mi spiegò: “Può darsi che domani un giornale scriva pistola, ma se lui ha detto pistola nera, o era un fucile a canne mozzate, non potranno averlo letto da nessuna parte. Hai capito? Più si è meticolosi in alcuni aspetti nell’immediatezza e si ricevono informazioni e più avremo risultati processuali”. Quel giovane magistrato di Caltanissetta capì che i consigli di Falcone erano “una lezione a livello investigativo fondamentale. Entrava molto nel dettaglio. Capiva benissimo che un’indicazione generica che poi può essere ripresa dopo qualche giorno da qualche articolo, se viene poi raccontata in dibattimento da una fonte probatoria, ha la valenza 131 che ha, se invece quell’indicazione è talmente specifica che non può essere stata letta da nessuna parte, avrà molta più forza. Questa lezione mi rimase impressa moltissimo”. Ma perché Falcone era interessato all’omicidio ? “Perché evidentemente nell’immediatezza si poteva anche pensare che era un gesto di mafia più legato a vicende palermitane, un segno di potenza militare in tutto il territorio della Sicilia occidentale. Inoltre lo conosceva bene, avevano collaborato. Giovanni Falcone capiva che se si era potuto commettere un omicidio di un magistrato in quel modo, in quel territorio, evidentemente ci doveva essere stato perlomeno il benestare del gotha mafioso della zona che lui già allora sapeva essere molto vicino ai vertici di “Cosa Nostra”. Ancora prima che inizino le manifestazioni ufficiali per ricordare le vittime della strage di Capaci, è Manfredi Borsellino, il figlio del giudice Paolo, a esprimere tutto il dolore per una ferita che resta aperta. “Le istituzioni non fecero tutto quello che c’era da fare per salvare uno dei suoi figli migliori”, ha detto in diretta tv a Uno Mattina. E’ la prima volta che Manfredi Borsellino parla in Tv di suo padre e di quei giorni. Indossa la divisa di commissario di Polizia, e dice: “Mi onoro di portare questa divisa, sono grato a tutti gli agenti che in quelle settimane drammatiche accettarono, volontari, di scortare mio padre. Sapevano a cosa andava incontro dopo l’attentato di Capaci”. Manfredi Borsellino fa una pausa e prosegue, pesando le parole, che tornano ad essere pietre: “Questa uniforme che indosso non l’hanno invece onorata alcuni vertici della polizia in quegli anni, prima e dopo la morte di mio padre”. Oggi in tutt’ Italia si svolgono le commemorazioni organizzate dalla Polizia di Stato a partire da Palermo alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e del capo della Polizia, il prefetto Lamberto Giannini, con la deposizione di una corona d’alloro nell’Ufficio scorte della caserma Lungaro, presso la lapide che ricorda i Caduti degli attentati di Capaci e via D’Amelio. Subito dopo avrà luogo la cerimonia di disvelamento della teca contenente i resti della Fiat Croma, ormai conosciuta come “Quarto Savona 15”, dal nome della sigla radio attribuita agli uomini della scorta di Giovanni Falcone. Ma il sacrificio di Falcone e Borsellino e delle loro scorte con il passare diventa sempre più solido ed indimenticato nelle anime e memorie degli italiani onesti, ed il loro ricordo sarà indelebile. Perchè Giovanni e Paolo vivono ancora, e sono sempre dentro i nostri pensieri. Non li dimenticheremo mai.

Ora capire a chi giovò la morte di Falcone. Evitando il rischio di inciampare nel complottismo e nell’illazione dobbiamo volgere lo sguardo anche dentro la cittadella delle toghe. Alberto Cisterna su Il Dubbio il 24 maggio 2021. Siamo entrati nel trentesimo anno, un tempo oggettivamente enorme. Benché la memoria non si rassegni all’ingiustizia di quel 23 maggio, in un paese normale, sarebbe giunta l’ora di cedere il passo alla storia e, soprattutto, alla politica che ne dovrebbe precedere e, quando può, orientare il corso. In Italia storici e politici restano, invece, in silenzio; avvolti nella retorica dei luoghi comuni e prigionieri di un’enfasi a tratti stucchevole; paralizzati dall’attesa che qualche magistrato, qualche pentito, qualcuno insomma dischiuda una verità processuale da poter analizzare e – come successo troppe volte – accettare supinamente, magari confezionando un libro o cimentandosi in qualche convegno. Nessuno può stabilire se, a distanza di tre decenni da Capaci, ci sia davvero la possibilità di giungere a una verità che superi il vaglio dei tre gradi di giudizio e porti a una nuova, non importa se in tutto o solo in parte diversa, narrazione di quell’evento. Sia chiaro è del tutto legittimo che si sia ipotizzato per decenni che alcuni sanguinari “viddani”, scesi da Corleone con le scarpe imbrattate di terra, non avrebbero potuto concepire un attentato di quelle proporzioni e, successivamente, attuare una stagione di stragi senza un’ispirazione altrui, senza che una mente superiore ne abbia ispirato le gesta. E’ legittimo, ma a oggi non ha trovato alcuna dimostrazione né alcun riscontro attendibile e convincente. E’ un’ipotesi, suggestiva, doverosa, ma resta una mera ipotesi, più volte sperimentata e più volte messa da parte; utile solo per alimentare teorie complottistiche e dietrologiche avvincenti, ma indimostrate. E’ vero che Riina fosse un sorta di campagnolo perfido e di profonda malvagità e questo dovrebbe dirlo soprattutto chi ha avuto la possibilità di confrontarsi con lui faccia e faccia in aula e non al riparo di fredde e asettiche videoconferenze. Ma, a ben guardare, si devono pur porre alcune domande: c’è qualcosa che distingueva in modo apprezzabile il Capo dei capi da quel Bin Laden che, con il suo Ak-47 tra le montagne afgane, è stato capace di mettere in ginocchio gli Stati Uniti con un attacco terroristico che, tuttora, impressiona gli analisti e resta un modello di irraggiungibile preparazione tecnica. O cosa segnava la differenza tra zio Totò e al-Baghdādī che, con il suo pastrano nero, ha messo in piedi una nazione autoproclamandosi a suon di massacri il califfo dello Stato islamico? E se i capi delle Br vantavano qualche studio scolastico in più e qualche lettura meno arrangiata dei corleonesi, resta lecito chiedersi cosa distingueva profondamente Riina dal Moretti dell’attacco al cuore dello Stato di via Fani con la sua “geometrica potenza”? Certo anche per Aldo Moro e per decenni si è cercato un “grande vecchio” un ispiratore, un suggeritore, un pianificatore, fino a che tutto si è estinto in un oblio, a questo punto, tanto inevitabile quanto imbarazzato. In tutti questi casi è la perfetta esecuzione del male che lascia sbigottiti e increduli. La convinzione – molto italica, ma non solo – che dietro ogni atto di violenza inaspettato ed eclatante ci debba essere altro, qualcosa di superiore che spieghi la nostra incredulità e ci assolva dalla nostra incapacità di prevedere, di anticipare, di prevenire. Ci deve per forza essere uno stratega lucido che muove esecutori e burattini, altrimenti perché ci ha colti di sorpresa. Senza scomodare per l’ennesima volta “la banalità del male”, tuttavia ci si dovrebbe rendere conto – con un certo realismo – che ogni cosa si rende possibile nella mente e nelle mani di chi abbia strumenti idonei per realizzarla, persino un genocidio affidato a modesti contabili di morte. Tutto indicava che Cosa nostra avrebbe messo mano alla vita dei magistrati, rei di averne smascherato la fragilità, anche umana. Ci sono mille ragioni per cui quelle morti erano prevedibili e le precauzioni non erano mancate, ma erano forse anche inevitabili alla luce delle enormi disponibilità militari dei corleonesi a quel tempo. Attentati come quello di Capaci sono avvenuti, a centinaia, nel mondo, eseguiti da gruppi paramilitari, fanatici islamisti, separatisti di ogni genere, trafficanti di droga, mafiosi di ogni risma semplicemente perché è stato possibile eseguirli e perché si è ritenuto fosse utile portarli a compimento con modalità così eclatanti, terroristiche appunto. Il 20 dicembre 1973 il presidente del governo franchista, Carrero Blanco, e la sua scorta vennero uccisi con una carica di esplosivo posta sotto il piano stradale che lanciò la sua macchina in aria a un’altezza di oltre 30 metri facendola atterrare sulla terrazza di un palazzo. Venti anni prima di Capaci, i separatisti baschi dell’Eta avevano consumato un attentato che tanto somiglia, per la sua eclatante violenza, alla strage di Giovanni Falcone. Un attentato tra le dozzine che potrebbero contarsi in una lunga scia di morte. Occorre ammettere le proprie fragilità e la propria impotenza di fronte a un male incontenibile e senza farsi scudo di livelli di potere inesplorati e, al momento, risultati inesistenti. La storia e la politica, si diceva. Entrambe chiamate al compito più importante, dopo tanto tempo, ossia quello di accertare quale sia stato il contesto politico e istituzionale che ha reso possibile l’azione stragista di Cosa nostra. Stabilire con precisione quali siano state le fratture che – soprattutto all’interno della magistratura – hanno segnato l’irreversibile isolamento di Falcone. Verificare quale sia stato l’effettivo contenuto e l’effettiva matrice delle prese di posizione che furono alla base della sua bocciatura come consigliere istruttore a Palermo, della sua mancata elezione al Csm, della sua certa soccombenza nella corsa alla Superprocura antimafia, destinata a vedere vincitore, in quel 1992, un uomo di assoluto valore come Agostino Cordova, un magistrato che aveva fatto dell’attacco alla massoneria deviata e ai connessi gangli illegali la cifra del proprio impegno investigativo. Spiegare se sia vero che proprio l’omicidio di Giovanni Falcone sbarrò la strada – per un inevitabile contrappasso politico – al procuratore Cordova verso i vertici dell’antimafia italiana, capovolgendone le sorti. Se sia possibile che, con una sola azione, interessi diversi, operanti per ragioni diverse e mossi da intenti diversi abbiano saputo profittare di un contesto per liberarsi di toghe scomode, massimamente invise ai propri stessi colleghi. Ci sono questioni, com’é evidente, che vanno oltre la pur indefettibile individuazione in sede giudiziaria dei responsabili della strage; c’è la necessità di mappare il clima politico e istituzionale dentro e intorno la magistratura italiana in quel periodo (e che ha ben descritto Maria Antonietta Calabrò sull’ Huffington Post del 23 scorso).Un contesto che, tra la Tangentopoli milanese e lo stragismo palermitano, ha profondamente modificato il ruolo della magistratura italiana nel rapporto con gli altri poteri dello Stato e all’interno della collettività nazionale. Una società, in cui lo sdegno e la rabbia per le stragi del 1992, hanno alimentato e sorretto in modo decisivo l’azione di contrasto alla corruzione. Senza Capaci, probabilmente, l’azione della magistratura milanese nel 1992 non avrebbe avuto il sostegno, in certi casi la tolleranza e comunque la condivisione di strati maggioritari della società italiana e dei mass media nazionali e un ceto politico, probabilmente, sarebbe sopravvissuto al crollo. Non sembrano in grado oggi le aule di giustizia di dare una risposta a questi interrogativi perché è sempre in agguato il rischio di mettere da parte le prove e di inciampare nelle illazioni e nelle supposizioni. E’ indispensabile un approccio laico, freddo, oggettivo che possa volgere lo sguardo anche entro le mura della cittadella delle toghe italiane di quel tempo e degli anni a venire e scrutarne le liaison politiche rese manifeste poi da incarichi e nomine di ogni tipo. Per stabilire quali gruppi e quali ceti abbiano tratto veramente vantaggio dalla decapitazione per mano mafiosa, posto che i Corleonesi hanno perso, sono morti e moriranno ancora in cella

Le rivelazioni dell'ex pm. L’accusa di Ingroia: “Per Borsellino "Pignatone o Lo Forte non dicevano verità" e temeva per il dossier mafia-appalti”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Maggio 2021. «Borsellino aveva l’impressione che alla Procura di Palermo stessero insabbiando il dossier mafia-appalti». È una accusa molto grave, evidentemente. Anche se su questo giornale abbiamo in varie occasioni prospettato proprio questa ipotesi. E tra qualche riga proveremo a spiegarvi perché si tratta di un’ipotesi che ha molte conseguenze e può essere utilissima per capire che cosa successe davvero nel biennio del sangue ‘92-’93 in Sicilia e in Italia, e su come si mosse la mafia, e su quali fossero le sue relazioni esterne. Ma la cosa più importante è l’identità di chi ieri ha lanciato questa accusa. È stato Antonio Ingroia, l’ex Pm che avviò il processo Stato-mafia e che, da giovane, fu vicinissimo a Paolo Borsellino. Certamente, tra tutti i magistrati e gli avvocati palermitani, Antonio Ingroia è stato quello più vicino a Paolo Borsellino e quello che aveva maggiore confidenza con lui. Borsellino lo considerava il suo figlioccio. Si frequentarono in particolare nel 1991, quando Borsellino stava a Marsala e Ingroia anche. Avevano i loro appartamenti sullo stesso pianerottolo. Borsellino era molto famoso, perché era stato insieme a Falcone protagonista del maxiprocesso alla mafia. Ingroia era poco più che un ragazzetto, aveva 31 anni e stava imparando il mestiere. Quando l’anno dopo Borsellino tornò a Palermo, Ingroia lo seguì. Ieri Ingroia è stato ascoltato dalla commissione regionale Antimafia, presieduta da Claudio Fava. Ha fatto tre affermazioni nette che assomigliano a tre bombe atomiche. La prima è quella che abbiamo scritto all’inizio di questo pezzo, e cioè la paura di Borsellino che “Palermo volesse insabbiare il dossier”. La seconda, forse ancora più inquietante, è che Borsellino, quando a Palermo si discusse di lotta alla mafia in un vertice convocato dal procuratore Giammanco nel luglio del 1992, e quando – nel corso della discussione – sollevò la questione del dossier mafia-appalti, non era stato informato che i Pm Scarpinato e Lo Forte avevano già firmato la richiesta informale di archiviazione del dossier. La terza affermazione inaspettata riguarda la palese sfiducia di Borsellino verso la Procura di Palermo (altre testimonianze sostengono che la definì “nido di vipere”) tanto che confidò a Ingroia che “i Pm di Palermo, non ricordo se Lo Forte o Pignatone, non gli raccontavano la verità”. Ingroia è stato interrogato dall’antimafia a proposito del depistaggio delle indagini sull’omicidio Borsellino. E ha sostenuto che il depistaggio – realizzato con la falsa testimonianza e la falsa autoaccusa del presunto pentito Vincenzo Scarantino, forse “imbeccato” da uomini dello Stato – avvenne per una ragione molto semplice: far risultare che l’uccisione di Borsellino e lo sterminio della sua scorta era dovuto solo alla volontà di vendetta della mafia per il maxiprocesso vinto da Borsellino e Falcone. E invece… Invece non era così, secondo Ingroia. Da qui il discorso si è spostato sul dossier mafia-appalti. E quindi è balenata l’ipotesi che la vera ragione dell’uccisione di Borsellino fosse quella: fermare la sua indagine sul dossier. Cosa c’era in questo dossier, raccolto dai Ros guidati dal colonnello Mario Mori, su input di Giovanni Falcone? C’erano tutti i rapporti tra i corleonesi e alcune imprese del Nord. Falcone teneva molto a questo dossier. E l’aveva anche scritto nel suo diario che questo dossier era importante. Ingroia ha raccontato che Borsellino restò stupefatto quando seppe dei diari di Falcone, perché – disse – Falcone aveva sempre detto che lui non avrebbe mai tenuto un diario. E dunque – disse ancora Borsellino a Ingroia – “se Giovanni ha iniziato a tenere un’agenda vuol dire che doveva scriverci cose gravi”. Da questa osservazione, secondo Ingroia, iniziò l’interesse di Borsellino per l’indagine sviluppata dal colonnello Mori e dal capitano De Donno. E infatti Borsellino volle incontrare Mori, e lo incontrò il 25 giugno del 1992 ma gli chiese di non vedersi in Procura bensì alla caserma dei carabinieri. E così fu. Borsellino spiegò a Mori che non si fidava della Procura di Palermo. Capite bene quale fosse il clima in quegli anni e in quei mesi terribili. Subito dopo ci fu la riunione col Procuratore Giammanco e con tutti i sostituti, che si tenne il 14 luglio, e durante la quale nessuno informò Borsellino che il dossier stava per essere archiviato. Borsellino, ignorando questo “dettaglio”, chiese che sul dossier si tenesse una riunione ad hoc. Gli dissero di sì. Così, pro forma. E ingannandolo. La riunione, ovviamente, non si tenne mai, anche perché cinque giorni dopo, il 19 luglio, Borsellino fu ucciso. E la settimana successiva fu firmata formalmente la richiesta di archiviazione. Che fu accolta in fretta e furia il 14 agosto, cioè il giorno prima di Ferragosto che, per la prima volta in tutta la storia della Procura di Palermo, fu giorno lavorativo. Proprio perché – sembra – c’era l’urgenza di porre la parola fine alla indagine di Mori. Naturalmente questa testimonianza di Ingroia, che viene poche settimane dopo l’audizione di Antonio Di Pietro, cambia un po’ tutto lo scenario. Anche Di Pietro, a quel che si sa, nel corso dell’audizione in antimafia ha raccontato una storia molto simile a quella raccontata da Ingroia. Ha spiegato che lui era molto interessato a quel dossier, perché anche lui, dal versante Nord, stava indagando su mafia e appalti e aveva avuto uno scambio di idee (una convergenza di idee) con Borsellino. Capite bene che a questo punto prende piede l’ipotesi che Borsellino fu ucciso per il dossier Mori. E forse la sua insistenza per potersene occupare personalmente (ribadita alla riunione dei Pm del 14 luglio) affrettò l’esecuzione. Ipotesi che potrebbe essere in contrasto con quella che invece è alla base del processo in corso a Palermo (alla Corte d’appello) sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia, dove si sostiene che Borsellino sia stato ucciso perché ostacolava l’ipotetica trattativa. Le due tesi sono in rotta di collisione soprattutto per un dettaglio: Borsellino voleva lavorare sugli elementi raccolti dal colonnello Mori. Il processo di Palermo, invece, vede sul banco degli accusati proprio il colonnello (oggi generale) Mori. Cioè l’uomo che ha arrestato Salvatore Riina.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Falcone e Borsellino hanno detto: «Salvo Lima è stato ucciso per il dossier mafia-appalti». In un verbale inedito di sommarie informazioni del 7 dicembre 1992, l’allora sostituto procuratore Vittorio Teresi, fino a poco tempo fa pm della cosiddetta Trattativa, ha rivelato il pensiero di Falcone e Borsellino: Lima e il maresciallo Guazzelli sono stati uccisi per aver rifiutato di far attenuare le posizioni degli indagati su mafia-appalti. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 27 maggio 2021. È il 12 marzo del 1992, l’europarlamentare democristiano Salvo Lima, leader della corrente capitanata da Giulio Andreotti, viene ucciso dalla mafia a Mondello, località balneare in prossimità di Palermo. Al momento dell’agguato si trovava in compagnia di altre due persone, il professor Alfredo Li Vecchi e il dottor Leonardo Liggio, a bordo di una Opel Vectra. Subito dopo essere partiti ed aver percorso un breve tragitto, l’autovettura viene affiancata da una moto di grossa cilindrata con due persone a bordo, una delle quali esplode diversi colpi d’arma da fuoco, inducendo Li Vecchi, che si trova alla guida, a bloccare la vettura. Nel contempo Lima gridava “Stanno ritornando “e tutti e tre gli occupanti si precipitavano fuori dall’abitacolo in cerca di scampo, dirigendosi in senso opposto a quello di marcia dell’autovettura, cioè verso l’Addaura. Li Vecchi e Liggio avevano trovato riparo dietro il cassonetto della spazzatura e si erano accorti che Lima era disteso a terra, bocconi e privo di vita.

Un omicidio ordinato da Totò Riina. Parliamo di un omicidio commesso, per ordine di Totò Riina e di altri componenti della Cupola, dai mafiosi poi diventati pentiti, Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante. Un omicidio che, di fatto, ha aperto la stagione stragista. Si è sempre detto, come si legge in sentenza, che la casuale del delitto sarebbe consistita nella delusa aspettativa di un esito favorevole del maxiprocesso da parte della Corte di Cassazione con la sentenza del 30 gennaio ‘92, nonostante l’impegno che avrebbe assunto Salvo Lima per una più favorevole definizione. In realtà c’era chi intravvedeva qualcos’altro. In una vecchia intervista rilasciata al Corriere della sera, l’allora procuratore nazionale antimafia Piero Grasso disse qualcosa di più e che assieme al verbale inedito, che Il Dubbio ha potuto visionare, potrebbe cambiare la versione dei fatti e rafforzare ancora una volta la pista del dossier mafia-appalti: causale di tutta la stagione stragista.

Pietro Grasso: Falcone e Borsellino erano nemici da bloccare. «Certamente Falcone, come Borsellino, erano dei nemici da bloccare per quello che potevano continuare a fare. Ma l’attentato di Capaci, per le modalità non usuali per Cosa Nostra, fu anche un messaggio di tipo terroristico non tanto eversivo quanto conservativo per frenare le spinte che venivano fuori da Tangentopoli contro una politica che era in crisi». Queste sono state le valutazioni dell’allora procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. «Per noi è lacerante intuire ma non potere ancora dimostrare – ha affermato Grasso – che la strategia stragista sia iniziata prima di Capaci e cioè con l’omicidio Lima. È lì che scattò un segnale, per cui lo stesso Falcone mi disse “Adesso può succedere di tutto”».

Falcone e Borsellino avevano capito che l’omicidio di Lima era legato a mafia-appalti. Ma Falcone cosa pensava? Ora sappiamo che sia lui che Borsellino avevano capito che quell’omicidio – e non solo quello – era scaturito dal rifiuto di Lima di intervenire presso la Procura di Palermo, in merito al procedimento nato dal dossier mafia- appalti, che era stato elaborato su impulso di Falcone stesso dai Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno. A rivelarlo è stato l’allora sostituto procuratore Vittorio Teresi, molti anni dopo conosciuto come uno dei pm del processo sulla presunta Trattativa Stato-mafia. Parliamo di un verbale di assunzione di informazione del 7 dicembre 1992, in cui viene sentito dal pubblico ministero Fausto Cardella della procura di Caltanissetta. Il verbale è stato di recente acquisito dalla Corte d’Appello di Palermo per il processo Trattativa oramai alle battute finali.

Anche al maresciallo Guazzelli era stato chiesto di attenuare le indagini. «Insieme a Paolo Borsellino, seguivo le indagini relative all’omicidio del Maresciallo Guazzelli – racconta Teresi innanzi al Pm di Caltanissetta-; a questo proposito riferisco di quanto ho appreso da Paolo Borsellino: il maresciallo Guazzelli sarebbe stato il referente dei Ros e in particolare del generale Subranni nella provincia di Agrigento. Per questa sua qualità il maresciallo sarebbe stato un giorno avvicinato da Siino Angelo e da Cascio Rosario, nei confronti dei quali il Ros stava sviluppando un’indagine, al fine di indurlo ad attenuare la loro posizione nell’inchiesta». Teresi prosegue: «Il maresciallo Guazzelli non solo avrebbe rifiutato di interporre suoi buoni uffici presso il Ros, ma addirittura avrebbe trattato in così malo modo il Siino e il Cascio, che il primo, uscito dalla casa del Guazzelli, si sarebbe sentito male». Ed ecco che Teresi spiega cosa gli raccontò Borsellino, ovvero che «andato a vuoto questo primo tentativo, il Siino si sarebbe rivolto all’onorevole Lima affinché questi intervenisse sul Procuratore Giammanco tramite l’onorevole D’Acquisto al medesimo fine». Non solo. «Borsellino – continua Teresi – però aggiunse di aver commentato queste notizie con Giovanni Falcone e che anche lui riteneva possibile che potessero avere una rilevanza, non solo ai fini della spiegazione dell’omicidio Guazzelli ma anche di quello dell’onorevole Lima». Sintetizza Teresi innanzi al Pm di Caltanissetta il 7 dicembre 1992: «In sostanza secondo l’opinione concorde di Paolo e Giovanni, l’onorevole Lima non sarebbe stato in grado o, peggio, non avrebbe voluto influire sulla Procura di Palermo per alleggerire la posizione di Siino (tant’è che questi fu arrestato)».

L’informativa mafia-appalti fu illecitamente divulgata. Come ha scritto l’allora gip Gilda Loforti nella sua ordinanza di archiviazione del 2000, «risulta assolutamente certo che l’informativa del febbraio del 1991, denominata “mafia-appalti”, fu illecitamente divulgata prima della emissione dei provvedimenti restrittivi». Dopodiché inizia a scorrere il sangue. Il primo a morire – e ora sappiamo che secondo Falcone e Borsellino sarebbe stato ucciso da Cosa Nostra per la questione del procedimento mafia-appalti – fu l’andreottiano Salvo Lima, il 12 marzo 1992. Poi, il 4 aprile successivo, toccò al maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso perché – su esplicita richiesta – rifiutò di stemperare le accuse contro Angelo Siino, ritenuto dai Ros uno degli anelli di congiunzione tra mafia e imprenditoria. Quindi, come noto, seguirono le stragi di Capaci e di Via D’Amelio.

Riina intercettato al 41 bis: «Ho ucciso Falcone anche per questo». Come sappiamo, Falcone esplicitò l’importanza del dossier mafia-appalti sul coinvolgimento delle imprese dell’Italia del Nord. Anticipò tangentopoli, ma con la terza gamba mafiosa, durante il convegno del 15 marzo 1991, provocando la reazione dei fratelli Buscemi che dissero «questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare»: parliamo degli imprenditori mafiosi, prestanomi di Totò Riina che volevano impossessarsi delle imprese nazionali. Totò Riina lo dice chiaramente nelle famose intercettazioni del 2013 di quando era al 41 bis. Ne parla con il suo compagno d’ora d’aria Lorusso. Si riferisce a Falcone e del perché aveva ordinato l’attentato. È un passaggio della trascrizione “colloquio area passeggio” del 28 settembre 2013. «Fu un colpo veramente che … Minchia Salvatore te l’ha combinata …. Salvatore …», e poi aggiunge: «Salvatore … il piccolo cosi…si è messo a fare… ride … Minchia si è messo a fare … se sapevo fare il costruttore (imprenditore, ndr). Ti chiudo là dentro … anche per questo è successo, è successo … è successo». Totò Riina, per dire che è accaduto perché Falcone lo ha definito un imprenditore, l’ha ripetuto per ben tre volte. Per quello è successo, è successo, è successo.

Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 23 maggio 2021. In un armadio blindato del palazzo di giustizia ci sono 164 Dvd che custodiscono una voce cavernosa, ottusa, minacciosa. Una voce che racconta di omicidi e stragi che hanno insanguinato la Sicilia negli anni Ottanta e Novanta. Ma questa non è solo una storia siciliana. La voce registrata in quei file parla dei segreti e delle complicità della mafia nel cuore dello Stato. E di talpe che avrebbero favorito le stragi Falcone e Borsellino. Parla anche dei rapporti di alcuni mafiosi con uomini dei Servizi. Quella voce sussurra soprattutto un movente segreto per la strage Falcone. Ventinove anni dopo l'attentato di Capaci, abbiamo ripercorso i 164 file. Non contengono le parole di un pentito, ma quelle di un irriducibile: Salvatore Riina, il contadino semianalfabeta di Corleone che negli anni Ottanta divenne il capo di una delle più potenti organizzazioni criminali del mondo, Cosa nostra. È morto la notte del 17 novembre 2017, nel reparto detenuti dell'ospedale di Parma: aveva 87 anni, era in carcere dal 15 gennaio 1993, ma non aveva mai smesso di essere il capo dei capi. Anche se non aveva più eserciti di killer a disposizione. Il potere di Salvatore Riina detto u curtu è rimasto nei segreti inconfessabili che custodiva: negli ultimi anni lanciava messaggi sibillini. In ogni occasione che poteva. Cercava di ricattare ancora. Un giorno, mentre lo stavano portando al processo "Trattativa" disse a due agenti: «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me». "Loro", gli uomini dello Stato. Eppure, in aula non aveva mai voluto dire una sola parola. Quella strana voglia di esternazioni incuriosì i pm Di Matteo, Tartaglia, Del Bene e Teresi, che decisero di intercettarlo durante gli incontri con il compagno dell'ora d'aria, Alberto Lorusso, boss della Sacra Corona Unita. Parlavano tanto nel carcere milanese di Opera. Così sono nati i Riina file: sono le intercettazioni, anche video, fatte dalla Dia di Palermo fra il 4 agosto e il 18 novembre 2013. Le trascrizioni di quei dialoghi sono in 1350 pagine. Le abbiamo ripercorse una per una. E sono riemersi alcuni spunti interessanti. Il 6 agosto, Riina parla dell'attentato a Falcone. Si vanta: «Abbiamo incominciato a sorvegliare, andare e venire da lì, aeroporto, cose abbiamo provato a tinghitè (in abbondanza - ndr ), siamo andati a Roma, non ci andava nessuno. Non è a Palermo fammi sapere quando arriva in questi giorni qua». L'intercettazione è disturbata, alcune parole non si riescono a comprendere. «Andammo a tentoni - prosegue il padrino - fammi sapere quando prende l'aereo». Chi fece sapere al commando di Riina quando Falcone avrebbe preso all'aeroporto romano di Ciampino il volo di Stato per Palermo? Nessun pentito ha saputo dirlo. A sentire il capo dei capi all'ora d'aria, i mafiosi avrebbero potuto contare anche su un'altra talpa eccellente, per l'attentato a Borsellino. «Poi subito pronti, all'erta per la seconda 57 giorni dopo, la notizia l'hanno trovata là dentro, domenica deve andare da sua madre». Dove l'avevano "trovata" la notizia? Riina ribadisce di non essere stato il pupo di nessuno. «Io ho fatto sempre l'uomo d'onore, la persona seria» (4 settembre). Lo sottolinea soprattutto per l'esecuzione della strage Borsellino. Rivendica l'attentato, ma prende le distanze da quello che accadde poco dopo. «I servizi segreti gliel'hanno presa l'agenda rossa» (4 ottobre). L'agenda dove Borsellino avrebbe forse annotato le sue scoperte sulla trattativa fra pezzi dello Stato e i vertici della mafia. Riina prende le distanze, ma poi getta un'ombra sui suoi più stretti collaboratori, i Madonia: «Erano confidenti dei servizi segreti Non è che erano spioni, erano in contatto con uno dei servizi». Il 6 agosto dice: «C'è stata guerra e pace Salvatore Riina l'autore». Poi, all'improvviso, cita una frase di Salvatore Cancemi, un tempo componente della Cupola: «Dice: "Che dobbiamo inventare che la morte di Falcone." Gli ho detto: "Che ci devi inventare?". Lui ha detto: "Se lo sanno, la cosa è finita, non dobbiamo discutere, non c'è niente da discutere" ». Quale segreto sul movente della strage Falcone doveva essere nascosto? Cancemi è stato un collaboratore di giustizia, ma non ne ha mai parlato. A cosa si riferiva Riina? Quelle intercettazioni vanno riascoltate ancora. 

I CORVI CON LE TOGHE PROTETTE DALL’ANONIMATO. Claudio Martelli, ex ministro di Giustizia, su Il Corriere del Giorno il 23 Maggio 2021. “I corvi con le toghe gli rovesciarono addosso calunnie infamanti protetti dall’anonimato. L’ANM lo aveva bocciato quando si candidò per il CSM. Il suo capo, Gianmanco, gli sottraeva le inchieste più importanti. L’allora – e tuttora – sindaco di Palermo giunse a denunciarlo al CSM perché “tiene nascosti nei cassetti della Procura i nomi dei mandanti politici dei più gravi delitti di mafia”. Adesso è facile celebrare Falcone. Invece non era affatto facile essergli amici quando nel 1991 lo invitai a venire a Roma a lavorare con me al Ministero della Giustizia. Gli offrii l’incarico più importante perché ne avevo grande stima e sapevo che in Sicilia non poteva più lavorare. Molti colleghi, prima di destra poi di sinistra, si dedicavano a denigrarlo, chi per invidia chi per loschi traffici. I giornalisti più accecati dalla faziosità rincaravano e dilatavano i sospetti. Cosa Nostra con la complicità di poliziotti e agenti dei servizi gli organizzò un attentato in casa e colleghi e giornalisti insinuarono che se l’era preparato da solo per farsi pubblicità. I corvi con le toghe gli rovesciarono addosso calunnie infamanti protetti dall’anonimato. Il CSM aveva respinto tutte le sue aspirazioni: ad assumere la guida dell’Ufficio Istruzione e poi della Procura di Palermo. La Suprema Corte di Cassazione aveva bocciato l’assunto fondamentale dei suoi processi e cioè che la mafia avesse una struttura unitaria e gerarchica, insomma una “cupola” di comando. L’ANM lo aveva bocciato quando si candidò per il CSM. Il suo capo, Gianmanco, gli sottraeva le inchieste più importanti. L’allora – e tuttora – sindaco di Palermo giunse a denunciarlo al CSM perché “tiene nascosti nei cassetti della Procura i nomi dei mandanti politici dei più gravi delitti di mafia”. E il CSM lo sottopose a un interrogatorio umiliante. Gli attacchi del fuoco amico non cessarono quando divenne Direttore degli Affari Penali, anzi, l’accanimento del PCI contro di lui si fece ancora più aspro, delegittimandolo come “un magistrato che ha perso la sua indipendenza vendendosi ai socialisti e a Martelli”. Ma a Roma almeno poteva lavorare protetto dalla stima del Presidente della Repubblica, del Ministro della Giustizia, e del Ministro degli Interni, Scotti e di tanti collaboratori ed estimatori. Capì che facevo sul serio e che dal Ministero potevamo attuare il disegno che insieme avevamo concepito: trasformare in leggi la sua ineguagliata esperienza di contrasto alla mafia. Così varammo norme inedite di cooperazione tra tutti gli organi dello Stato – Governo, magistratura, Forze di polizia – dando vita a norme nuove e a nuovi e più efficaci strumenti di contrasto al crimine organizzato. A cominciare dalla Procura Nazionale Antimafia che doveva coordinare l’impegno delle varie procure distrettuali, supplire alle loro eventuali carenze, dirimere le loro dispute. Quelli che allora lo denigravano oggi gli attribuiscono anche il merito della Super Procura. Un eccesso di lode se non frutto di ignoranza insincero e sospetto. Non fu Falcone a concepirla. Era una vecchia proposta del senatore Valiani che io ripresi dalle sue carte dimenticate, aggiornai e trasformai in legge. Falcone ne fu felice, ancor più sapendo che per quel compito nuovo volevo lui.

Luciano Violante. Ieri Luciano Violante non ha fatto autocritica per l’avversione di trenta anni fa, però l’ha ammessa attribuendola però “a tutta la sinistra”. Prima di tutto questa non sarebbe una scusante, in secondo luogo Violante dimostra ancora una volta di perdere il pelo ma non il vizio: se socialisti, radicali, repubblicani erano d’accordo su Falcone vuol dire che ad essere contraria non era tutta la sinistra, ma i comunisti (e nemmeno tutti basti pensare a Chiaromonte) e in particolare proprio Violante, maestro di ipocrisia e doppie verità.

Ecco il “gioco grande” nel quale era entrato Giovanni Falcone. La Corte di Caltanissetta, nella sentenza Capaci bis, ha individuato una sinergia che «si avvaleva della cooperazione (almeno) colposa di alcuni settori della Magistratura e che agevolava il processo di isolamento intrapreso nei confronti di Giovanni Falcone». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 22 maggio 2021. Giovanni Falcone ha spiegato molto bene perché in Sicilia si viene uccisi dalla mafia. Il riferimento è agli omicidi eccellenti, quelli che definiva di “terzo livello”, ma che non ha nulla a che vedere con la narrazione distorta che gli continuano, senza pudore, ad affibbiare. La mafia corleonese non era quella con la coppola in testa, Totò Riina non era un contadinotto. Non a caso, nel suo ultimo libro, Cose di Cosa Nostra, scritto a quattro mani con Marcelle Padovani, scrive quanto siano «abili, decisi, intelligenti i mafiosi» e, aggiunge, «quanta capacità e professionalità è necessaria per contrastare la violenza mafiosa». Falcone, professionale lo era. Una mente che Totò Riina ha voluto sopprimere con un’azione eclatante e che ha rivendicato in segreto, parlandone a più riprese con il suo compagno d’ora d’aria al chiuso del 41 bis. Ma qual è il “gioco grande” che tanto viene tirato in ballo, travisando il significato molto più profondo che Falcone gli dava? Lui stesso, scrive nero su bianco nel libro Cose di cosa nostra, che gli uomini come Mattarella, Reina e La Torre erano rimasti isolati a causa delle battaglie politiche in cui erano impegnati. «Il condizionamento dell’ambiente siciliano – scrive Falcone -, l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici: certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che la stessa se ne renda nemmeno conto». Più avanti diventa esplicito. Dice che si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un «gioco troppo grande». Quale? Non bisogna andare troppo lontano, ma molto più vicino di quanto uno pensi ed è talmente sconvolgente che mai nessun servizio televisivo ne parla nonostante sia agli atti.

La sentenza della sentenza Capaci bis. Ci viene in aiuto la motivazione della sentenza Capaci Bis depositata nel 2017. Il “gioco troppo grande” è stato individuato dalla Corte di Caltanissetta in una sinergia che «si avvaleva della cooperazione (almeno) colposa di alcuni settori della Magistratura e che agevolava il processo di isolamento intrapreso nei confronti di Giovanni Falcone». Ed ecco che si arriva al movente che singolarmente viene continuamente insabbiato da presunte “inchieste” televisive: «Alla base di questa campagna di delegittimazione – scrive la Corte – vi era una precisa consapevolezza del pericolo che l’attività di Giovanni Falcone rappresentava non solo per “Cosa nostra”, ma anche per una molteplicità di ambienti economico-politici abituati a stabilire rapporti di reciproco tornaconto con l’organizzazione criminale, a partire dal settore degli appalti e delle forniture pubbliche».

Ha osservato che le connessioni fra una politica affarista e una criminalità mafiosa. Lo stesso Falcone, sempre tramite i suoi scritti, ha considerato che la ricchezza crescente di Cosa nostra le dava un potere accresciuto, che «l’organizzazione cerca di usare per bloccare le indagini». Ha osservato che le connessioni fra una politica affarista e una criminalità mafiosa sempre più implicata nell’economia, rendono ancora più inestricabili le indagini. Non è un caso che, nelle sentenze, tra i mandanti della strage di Capaci (ma anche di Via D’Amelio) compare anche Salvatore Buscemi. Non è un personaggio secondario, visto che, assieme al fratello Antonino, erano fondamentali all’interno di Cosa nostra visto che ricoprivano un ruolo assolutamente dominante nella cosiddetta imprenditoria mafiosa avvalendosi della compiacente “collaborazione” fornitagli da taluni esponenti delle istituzioni di allora e da enormi settori del mondo dell’imprenditoria e della finanza.

Le dichiarazioni di Angelo Siino e Giovanni Brusca. Ma i Buscemi erano anche coloro che avrebbero avuto rapporti all’interno della magistratura. Ci sono due dichiarazioni dei pentiti Angelo Siino e Giovanni Brusca che sono state riportati nelle motivazioni della sentenza d’appello del Capaci uno. «Sul punto – scrive la Corte d’Appello -, Angelo Siino ha evidenziato di avere appreso che Pino Lipari aveva contattato l’onorevole Mario D’Acquisto affinché intervenisse nei confronti dell’allora Procuratore della Repubblica di Palermo, dottor Giammanco, al fine di neutralizzare le indagini trasfuse nel rapporto “mafia-appalti” ed in quelle che si potevano stimolare in esito a tali risultanze».

I rapporti tra i fratelli Buscemi e il gruppo Ferruzzi-Gardini. C’è anche la dichiarazione di Brusca. «Quanto ai rapporti tra i fratelli Buscemi, il gruppo Ferruzzi-Gardini e l’ingegner Bini – scrive la Corte -, Brusca ha evidenziato di avere appreso da Salvatore Riina che, a seguito della legge Rognoni-La Torre, i Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese al gruppo Ferruzzi; che Antonino Buscemi era rimasto all’interno della struttura societaria come impiegato; che i fratelli Buscemi si “tenevano in mano…… questo gruppo imprenditoriale in maniera molto forte” e potevano contare sulla disponibilità di un magistrato appartenente alla Procura di Palermo, di cui non ha voluto rivelare il nome».

L’importanza degli appalti per la mafia. Falcone, che ha sempre esplicitato quanto sia importante la questione degli appalti riguardanti anche imprese nazionali (convegno del 15 marzo 1991 e che ha provocato la reazione dei Buscemi «questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare»), andava eliminato per un insieme di concause. Dall’esito del maxiprocesso, alle indagini verso anche Cosa nostra americana (da qui anche la loro attenzione per l’attentato, come è emerso dalle dichiarazioni dei pentiti e contatti telefonici con utenze americane) fino ad arrivare alla questione mafia-appalti.

Andava eliminato con un’azione eclatante. Falcone, quindi, andava eliminato attraverso un’azione eclatante. Dagli atti emerge che è stata condotta esclusivamente dalla manovalanza mafiosa. Gioacchino La Barbera, tra coloro che hanno partecipato all’attentato, mai ha parlato di soggetti esterni che hanno partecipato all’azione. Si è ricordato, a distanza di molti anni, di aver visto due soggetti “estranei” per pochi minuti rispettivamente presso la villetta dove era avvenuto il travaso dell’esplosivo e il casolare da ultimo scelto quale base logistica del gruppo: non ha attribuito a questi individui alcuna condotta significativa, tanto che egli ha specificato di avere ritenuto che si trattasse del proprietario dell’immobile o di un giardiniere. Brusca, colui che ha diretto la fase esecutiva e ha poi premuto il telecomando per azionare il tritolo, è stato chiaro sul punto. Alla domanda se nessun estraneo è mai intervenuto nelle operazioni, lui ha risposto: «Assolutamente no».

Falcone andava a ledere i rapporti tra mafia e interessi economici. La mafia aveva chiaramente adoperato in connessione con altri interessi. Il pentito Antonino Giuffrè ha esplicitato che i “motivi più gravi” che determinarono l’isolamento, al quale seguì l’uccisione di Falcone, consistevano nel fatto che quest’ultimo «andava a ledere quelli che erano i rapporti professionali, economici, questo intrigo tra la mafia e organi esterni», facendo riferimento anche ai grandi canali del riciclaggio internazionale. Giuffrè ha poi evidenziato il pericolo rappresentato da Falcone per i “livelli alti” della politica, specificando che «c’era questo intreccio tra Cosa nostra, politica di un certo livello e imprenditoria in modo particolare».

Anche Borsellino aveva individuato il “gioco grande”. Ecco il “gioco grande” che Falcone ben conosceva. Lo sapeva anche il suo collega e fraterno amico Paolo Borsellino che non a caso, ha deciso di approfondire quelle connessioni che lo hanno portato all’isolamento, alla solitudine, alla mancanza di fiducia in alcuni colleghi. Borsellino aveva individuato il “gioco grande”, tanto che Riina ha dovuto accelerare l’esecuzione dell’attentato di Via D’Amelio. Oggi si parla di altro, di “entità”, di trattative, “facce da mostro”, perfino di donne bionde. E forse ancora per tanti altri anni si andrà avanti con l’astratto e l’indefinibile. Ma poi conterà ciò che si tocca con mano. Ci penseranno i posteri, quando non sarà più possibile intossicare, manipolare e prendere in giro gli ignari lettori e spettatori. Accadrà che si potrà serenamente raccontare tutto ciò che è visibile agli occhi. A quel punto si potrà per davvero onorare la memoria di Falcone e Borsellino.

·        La Dia: Il Metodo Falcone.

MEMORIE. L’autista di Falcone: «Palermo omertosa e indifferente, si è svegliata dopo le stragi». Costanza agli studenti di Latina racconta quando Falcone sfilò distrattamente le chiavi dell’auto poco prima dell’esplosione: «Se fossi stato io al volante si sarebbe salvato». Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2021. «A Palermo avvertivo l'omertà, il disinteresse. Dopo quelle stragi il cittadino comune si è svegliato, c'è stata una reazione, ma perché aspettare tanto?». Giuseppe Costanza, autista di Giovanni Falcone, unico sopravvissuto alla strage di Capaci, ha fatto dell'educazione alla legalità una missione. «Il silenzio è mafia, quando vedete qualcosa che non va denunciate. E da grandi mantenetevi persone corrette, non scendete a compromessi», ha detto parlando agli studenti dell'istituto Vittorio Veneto - Salvemini di Latina, dove fa tappa per presentare la mostra «L'eredità di Falcone e Borsellino», realizzata dall'ANSA con la Direzione Generale dello studente e il ministero dell'Istruzione. Costanza quel 23 maggio 1992 era seduto sul sedile posteriore, perché Falcone aveva voglia di guidare. L'ultimo scambio di battute con il magistrato è stato sulle chiavi della macchina: Costanza aveva detto a Falcone di ricordarsi di dargliele una volta arrivati, il magistrato distrattamente le sfilò, facendo rallentare la macchina di qualche secondo, ma non tanto da scampare all'esplosione. «Sono gli ultimi momenti che ho memorizzato, dopo... il buio. Non sapete - ha detto rivolto ai ragazzi - quanto mi hanno fatto pesare il fatto che io fossi seduto dietro, se avessi guidato io, lui si sarebbe salvato. Ne sarei stato felice, avremmo avuto un'Italia diversa, perché lui sapeva dove mettere mano».

A Tg2 Dossier "Dia, Metodo Falcone" di Gabriele Lo Bello. Per ripercorrere i trent'anni di lotta al crimine organizzato. Da rai.it/ufficiostampa il 27 novembre 2021. La Direzione Investigativa Antimafia venne pensata, trent’anni fa, da Giovanni Falcone che la ideò nel 1991 senza, purtroppo, poterla vedere all’opera perché divenne operativa solo dopo l’attentato mafioso di Capaci, il 23 maggio del ’92. Sabato 27 novembre alle 23.30 su Rai2 (e domenica 28 in replica alle 10.15) Tg2 Dossier con "Dia, Metodo Falcone" di Gabriele Lo Bello, ne ripercorrerà la storia attraverso le testimonianze di Claudio Martelli, che da ministro della Giustizia chiamò Falcone a Roma per creare la Dia, ma anche la Procura Nazionale Antimafia e le Direzioni Distrettuali Antimafia, e Pietro Grasso, voluto da Falcone per affrontare insieme una sfida epocale. Trent'anni di antimafia con successi come la cattura del capo militare di cosa nostra Leoluca Bagarella, del capo dei Casalesi Francesco Schiavone, conosciuto come Sandokan. Operazioni come Olimpia contro le 'ndrine calabresi con i primi collaboratori di giustizia. I ricordi e le analisi del Procuratore Nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho, del Direttore della Dia, Maurizio Vallone, di Francesco Lo Voi e Giuseppe Amato, Procuratori Capo di Palermo e Bologna. Il punto sulla caccia a Matteo Messina Denaro. Storie di latitanti che si nascondevano vicino alle abitazioni di magistrati e di latitanti rimasti nei loro paesi, dove incontravano moglie e figli. Il racconto degli agenti entrati nella Dia dopo le stragi di Capaci e via d'Amelio, figli di quel dolore e della successiva rivolta della società civile. Gli stessi agenti che hanno catturato i superlatitanti - con i loro racconti nei luoghi delle operazioni - contribuito ad arrestare quasi 11mila criminali e a sequestrare - secondo il Metodo Falcone - patrimoni mafiosi per oltre 25 miliardi di euro. 

Stasera sabato 27 novembre, a Tg2 Dossier la ricostruzione del Metodo Falcone.  Da corrieredellumbria.corr.it il 27 novembre 2021. Il fenomeno Mafia al centro della puntata di Tg2 Dossier, stasera sabato 27 novembre, su Rai 2 a partire dalle ore 23.30 (in replica domenica 28 alle 10.15). La Direzione Investigativa Antimafia venne pensata, trent’anni fa, da Giovanni Falcone che la ideò nel 1991 senza, purtroppo, poterla vedere all’opera perché divenne operativa solo dopo l’attentato mafioso di Capaci, il 23 maggio del ’92. Tg2 Dossier con "Dia, Metodo Falcone" di Gabriele Lo Bello, ne ripercorre la storia attraverso le testimonianze di Claudio Martelli, che da ministro della Giustizia chiamò Falcone a Roma per creare la Dia, ma anche la Procura Nazionale Antimafia e le Direzioni Distrettuali Antimafia, e Pietro Grasso, voluto da Falcone stesso per affrontare insieme una sfida epocale. Trent'anni di antimafia con successi fondamentali come la cattura del capo militare di cosa nostra Leoluca Bagarella, del capo dei Casalesi Francesco Schiavone, conosciuto come Sandokan. Operazioni come Olimpia contro le 'ndrine calabresi con i primi collaboratori di giustizia. I ricordi e le analisi del procuratore nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho, del direttore della Dia, Maurizio Vallone, di Francesco Lo Voi e Giuseppe Amato, procuratori capo di Palermo e Bologna. Nel corso di Tg2 Dossier, il punto sulla caccia a Matteo Messina Denaro. Storie di latitanti che si nascondevano vicino alle abitazioni di magistrati e di latitanti rimasti nei loro paesi, dove incontravano moglie e figli, senza che nessuno se ne accorgesse. Il racconto degli agenti entrati nella Dia dopo le stragi di Capaci e via d'Amelio, figli di quel dolore e della successiva rivolta della società civile. Gli stessi agenti che hanno catturato i superlatitanti - con i loro racconti nei luoghi delle operazioni - contribuito ad arrestare quasi 11mila criminali e a sequestrare - secondo il Metodo Falcone - patrimoni mafiosi per oltre 25 miliardi di euro. Un dossier che aiuta molto chi non comprendere la portata del fenomeno, quanto è stato fatto e quanto c'è ancora da fare. 

DIA 1991 - Parlare poco Apparire mai, il film sulla nascita e le battaglie dell'antimafia.  Da lastampa.it il 22 ottobre 2021. A trent’anni dalla nascita della DIA – Direzione Investigativa Antimafia – andrà in onda in prima visione assoluta su Rai3 alle ore 21.20 “DIA 1991 – Parlare poco Apparire mai” un film che racconta la storia della lotta alle mafie dal 1991, quando nacque da un’intuizione di Giovanni Falcone, fino alle inchieste più recenti. Il film mostrerà per la prima volta immagini girate pochi minuti dopo l’attentato di Capaci, immagini forti, laceranti, che ancora oggi, a 29 anni dalla strage, ci commuovono e ci turbano. Il 29 ottobre 1991 un decreto legge istituisce la Direzione Investigativa Antimafia, un progetto ispirato dal giudice Giovanni Falcone che unisce le forze di polizia italiane – Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza - nella lotta alla criminalità organizzata, seguendo il modello dell’FBI americana. Il 24 maggio 1992, all’indomani della strage di Capaci, la DIA diventa operativa iniziando ad indagare proprio su quell’evento drammatico che segna una ferita indelebile nel cuore dello Stato. In 30 anni di attività, gli uomini migliori delle forze dell’ordine hanno lavorato nell’ombra e senza clamori per catturare latitanti di mafia, camorra, ‘ndrangheta, anche oltre i confini nazionali; attraverso l’utilizzo di nuovi metodi investigativi sono arrivati alla conclusione di centinaia di arresti, e al sequestro dei grandi patrimoni delle mafie. Il film racconta le operazioni investigative della DIA attraverso la voce dei veri agenti operativi che le hanno realizzate: 4 storie, 10 voci narranti e la memoria di Falcone tenuta in vita da Giuseppe Ayala, il magistrato e amico personale di Falcone che ha condiviso con lui l’ultimo anno e mezzo di vita a Roma. Nel film gli investigatori ritornano nelle città in cui hanno condotto le loro inchieste e iniziano a raccontare com’erano Palermo, Reggio Calabria e Napoli negli anni ’90. Le immagini dei luoghi si mescolano in un passaggio continuo dal presente al passato grazie ad un uso innovativo delle teche RAI. I materiali di archivio RAI diventano il punto di vista degli investigatori: sono i loro occhi che rivedono quelle città negli anni in cui erano operativi. Per la prima volta ascoltiamo le loro voci, i “dietro le quinte” delle maggiori inchieste, il racconto dei metodi investigativi e il sacrificio delle loro vite private, costretti al silenzio e ad agire sempre nell’ombra. Sentiamo le testimonianze di chi quella guerra l’ha combattuta raggiungendo risultati prima impensabili: la cattura di Bagarella, l’inchiesta Olimpia sulla ‘ndrangheta, la cattura del capo della camorra Francesco Schiavone, le indagini sulle infiltrazioni della camorra nel Nord Italia. Dietro quei passamontagna scuri che tante volte abbiamo visto nelle immagini in tv, ci sono donne e uomini che ogni giorno hanno combattuto la criminalità organizzata, pagando spesso un caro prezzo sul fronte della loro vita privata. Ma la contropartita è stata il successo di molte operazioni. Il successo dello Stato, uno Stato finalmente capace di mettere da parte rivalità e divisioni interne per costituire un fronte comune contro le mafie. Sullo sfondo le immagini terribili e crudeli dell’attentato di Capaci, le macerie e la disperazione poco dopo l’esplosione: materiali parzialmente inediti mostrati per la prima volta, immagini viste da una nuova angolazione che ancora una volta ci ricordano che la ferita dell’omicidio di Falcone non si è mai sanata.

I TRENT'ANNI DELLA DIA, LA DIREZIONE INVESTIGATIVA ANTIMAFIA VOLUTA DA FALCONE. Alla storia di questo organismo investigativo interforze che ha scritto trent'anni di storia di contrasto alla criminalità organizzata è dedicato il documentario in onda stasera su Raitre. Elisa Chiari su famigliacristiana.it il 29/10/2021. La Direzione investigativa antimafia, più nota con la sigla Dia, è stata istituita il 29 ottobre del 1991 con un Decreto legge 29 ottobre 1991, n. 345, poi convertito nella legge 410 del 30 dicembre 1991. Si tratta, per dirla con la definizione del Ministero dell’Interno di «un organismo investigativo con competenza monofunzionale, composta da personale specializzato a provenienza interforze (Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza e finché non è stato assorbito dai Carabinieri il Corpo forestale ndr.) con il compito esclusivo di assicurare lo svolgimento, in forma coordinata, delle attività di investigazione preventiva attinenti alla criminalità organizzata, e anche di effettuare indagini di polizia giudiziaria relative esclusivamente a delitti di associazione mafiosa o comunque ricollegabili all’associazione medesima».

COME SI ARTICOLA

Al vertice della Dia c’è un direttore, scelto a rotazione tra i dirigenti della Polizia di Stato e gli ufficiali generali dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza, che abbiano maturato specifica esperienza nel settore della lotta alla criminalità organizzata. Al suo fianco due vice che si occupano rispettivamente delle attività operative e di quelle amministrative. La struttura centrale di supporto è articolata in una divisione di Gabinetto, tre Reparti, rispettivamente deputati alle ”Investigazioni preventive”, ”Investigazioni giudiziarie” e “Relazioni internazionali ai fini investigativi”, e sette uffici. La Dia si avvale anche di un’articolazione periferica, strutturata su dodici Centri operativi e nove Sezioni distaccate che, attraverso una ripartizione definita, hanno competenza sull’intero territorio nazionale. Sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Dia, il ministro dell’Interno riferisce, ogni sei mesi, al Parlamento.

DA UN'INTUIZIONE DI GIOVANNI FALCONE  

La sua origine nasce da un’intuizione di Giovanni Falcone, che nella sua lunga esperienza di indagini antimafia istruite da giudice istruttore prima da pubblico ministero poi, aveva intuito che la dimensione tentacolare di Cosa nostra (ma vale per tutta la criminalità organizzata a maggior ragione per la ‘ndrangheta oggi ramificata in tutto il mondo) non si sarebbe potuta contrastare con la parcellizzazione delle conoscenze e con la dispersione determinata dagli steccati della competenza territoriale. Capì in anticipo sui tempi che nemico unitario, ramificato e capace di grandi interconnessioni, si sarebbe potuto contrastare soltanto attivandosi con una eguale coordinazione e con competenza su tutto il territorio nazionale, anche per evitare la dispersione di informazioni che è invece decisivo mettere in comune, con unità di metodo. Un concetto che si riassume nel motto della Dia, una locuzione latina che recita vis unita fortior, il cui senso è: la forza unita è più forte.

CONTRASTO GLOBALE ANTE LITTERAM

«Con la nascita della Direzione investigativa antimafia», ha spiegato al Quirinale nel corso della cerimonia (foto) per i 30 anni della nascita della Dia, il capo della Polizia di Stato Lamberto Giannini «ha trovato autorevole legittimazione quel moderno metodo d’indagine, che è ancora oggi punto di riferimento dell’azione investigativa nel contrasto al crimine organizzato. Da quell’esperienza, da quella visione, è nato un metodo di lavoro unico, che ha posto la conoscenza dei fenomeni mafiosi come fondamenta su cui costruire l’intera architettura antimafia. Uno sforzo che si declina in un costante e categorico impegno per aggredire la dimensione patrimoniale del crimine organizzato». Si tratta di un metodo che, in effetti, viene studiato nel mondo e capita di frequente che polizie e magistrature straniere alle prese con fenomeni criminali di matrice mafiosa chiedano all’Italia “lezioni di contrasto”. Nell’Accademia dell’Fbi di Quantico non per caso gli allievi vengono accolti da un busto di Giovanni Falcone, in omaggio al suo ruolo di pioniere nella lotta globale al crimine. «Fino ad ora», affermava Giovanni Falcone in un’intervista a Repubblica nel 1991, «a Palermo abbiamo lavorato al massimo per costruire una stanza pulita, per rifinirla al meglio come può fare un muratore di grande capacità. Ma questo non basta, non può bastare. Purtroppo ci siamo accorti che serve poco lavorare alla pulizia di una sola stanza. Il problema non ha confini Che bisogna fare allora? Costruire un palazzo intero? Sì, la lotta alla mafia non può fermarsi ad una sola stanza, la lotta alla mafia deve coinvolgere l'intero palazzo. All' opera del muratore deve affiancarsi quella dell' ingegnere. Se pulisci una stanza non puoi ignorare che altre stanze possono essere sporche, che magari l' ascensore non funziona, che non ci sono le scale...».

DIA, DDA, DNA TRE SIGLE ANTIMAFIA DA NON CONFONDERE  

In questa ottica è nata la Dia e sono nate la direzione nazionale antimafia (Dna, il 20 novembre 1991) e le relative direzioni distrettuali (Dda), con le cui sigle la Dia non va confusa. Se infatti la Dia è una struttura investigativa interforze, Dna e Dda sono articolazioni del potere giudiziario e segnatamente della funzione requirente: le Direzioni distrettuali sono sezioni specializzate della Procura della repubblica presenti in ogni distretto di Corte d’Appello e competenti in via esclusiva per indagini in tema di reati di mafia; la Direzione Nazionale antimafia, presso la Procura generale della Corte di Cassazione, è l’ufficio che a livello nazionale ha funzione di dare impulso al coordinamento alle indagini delle singole Dda con possibilità di applicarvi magistrati in servizio alla Dna. Per quanto riguarda le indagini Dna e Dda dispongono della Dia con il medesimo rapporto di dipendenza funzionale che il Codice di Procedura Penale assegna al Pm nei riguardi della Polizia giudiziaria.  

La Dia ridotta a reception dei pm. La triste parabola della Dia: da eccellenza con Falcone a esercito di Kim. Paolo Comi su Il Riformista il 18 Settembre 2020. Da reparto investigativo di punta a “passacarte” della prefetture. È il triste epilogo della Dia (Direzione investigativa antimafia), il reparto d’eccellenza creato nel 1991 da Giovanni Falcone per contrastare efficacemente il crimine organizzato. La genesi della Dia è nota: l’esperienza del maxi processo di Palermo aveva evidenziato le criticità dei classici metodi d’indagine nella lotta alla mafia. Per condurre le investigazioni più delicate e complesse, la magistratura aveva bisogno di una polizia giudiziaria maggiormente qualificata. La soluzione proposta da Falcone fu, dunque, quella di ottimizzare le esperienze operative delle forze di polizia in un’unica realtà investigativa. Nacque quindi nel 1991 la Dia, con la fusione di carabinieri, polizia e guardia di finanza. A distanza di quasi trent’anni, il reparto ha però assunto le fattezze dell’esercito del Maresciallo Kim, dove i comandanti sono più dei soldati. Una fonte interna ha riferito che il rapporto sarebbe di un funzionario ogni tre agenti. Le pattuglie, ad esempio, sarebbero composte anche da due tenenti colonnelli perché mancherebbero i marescialli. Come mai si è giunti ad uno scenario da Corea del Nord? Secondo la fonte, se i vertici della Dia richiedono ai comandanti delle forze di polizia il personale, il più delle volte non viene autorizzato al transito. Pare che siano rarissimi, se non inesistenti, i trasferimenti di personale già specializzato nel contrasto alle mafie. Ai carabinieri del Ros, ad esempio, è precluso l’accesso alla Dia. La Dia ha sede in ogni distretto di Corte d’Appello. Senza transiti gli organici si stanno riducendo e alcune sedi sono composte adesso di solo venti unità. E ciò soprattutto nelle regioni del centro e del nord dove il pericolo del riciclaggio di denaro è una costante da anni. Ma cosa fa in concreto questo esercito di ufficiali? Molto poco, sempre da quanto risulta al Riformista. Spesso si limita ad evadere le certificazioni antimafia richieste a pacchi dalle prefetture, controllando al massimo i precedenti sulla banca dati delle forze di polizia, perché non vi sono uomini per fare le verifiche sul territorio. “L’ostruzionismo” delle forze di polizia non riguarda solo il personale ma anche l’accesso alle banche dati più qualificate. Pare che ai finanzieri sia precluso l’uso delle banche dati “economiche”, a iniziare dal terribile “Serpico”. Il motivo? Gelosia. Il comando generale della guardia di finanza vede come “competitor” la Dia in materia di contrasto sul piano economico. Lo stesso per i poliziotti. Non hanno nessuna possibilità di accedere alla banca dati degli alloggiati nelle strutture ricettive, banca dati nata nel periodo del terrorismo ma oggi altrettanto importante nel contrasto alla criminalità organizzata. Le Procure della Repubblica, sapendo come si è ridotta la Dia, non delegano più da tempo le importanti indagini antimafia perché consapevoli della scarsità di uomini e mezzi tecnologici a disposizione. Visti i ridottissimi organici alla Dia non riescono nemmeno a fare le indagini penali classiche, quelle sul territorio, quelle con le intercettazioni telefoniche, con i pedinamenti, le osservazioni perché non vi sono uomini per fare i servizi. Poi ci sono gli “scivoloni” della politica. Tralasciando Marco Minniti che da ministro dell’Interno nominò nel 2017 Giuseppe Calderozzi, condannato in via definitiva a tre anni e otto mesi per la vicenda dei pestaggi alla Diaz del G8 di Genova, vice capo operativo, nessuno ha mai preso di punta il problema. Ci vorrebbe coraggio per chiudere la Dia e poi sarebbe una decisione subito strumentalizzata, dove il proponente verrebbe accusato di abbandonare il contrasto alla mafia. Ma nello stesso tempo nessuno vuole mettersi contro i comandi generali delle forze di polizia e il dipartimento della pubblica sicurezza per pretendere che la Dia sia messa nelle condizioni di operare in modo efficace e completo. Alla fine, come nelle migliori tradizioni italiche, si è optato per la scelta di lasciare tutto così com’è. Senza infamia e senza lode. Paolo Comi

I ricordi di Leonardo Guarnotta, magistrato antimafia nel Pool con Falcone e Borsellino. Da Lavocedinewyork.com il 22 Gennaio 2019. Intervista-documento con il collega dei giudici assassinati dalla mafia, per mezzo secolo in magistratura in prima linea contro Cosa Nostra.

"La forza del pool era questa, tutti per uno, uno per tutti... Credo che la guerra contro la mafia sia ancora lontana dall’essere vinta.... Ancora oggi, rimpiango che Paolo mi avesse cercato e non avesse potuto parlare con me... su quel fosco periodo della vita democratica del nostro Paese, a distanza di quasi ventisei anni, la recente sentenza emessa dalla Corte di Assise di Palermo, giudicando soggetti politici, mafiosi e rappresentanti delle istituzione, ha affermato la esistenza di una trattativa tra lo stato e la mafia. Primi barlumi di una verità che fa paura a molti.... Spero che questa intervista sia letta, soprattutto, dai giovani, che sono il nostro futuro, per comprendere quale sia stato l’impegno di tutti noi per consegnare loro un domani migliore, per non dovere chiedere al potente politico o mafioso del momento quello che spetta loro di diritto”.

Leonardo Guarnotta, coetaneo di Paolo Borsellino, è  un magistrato in quiescenza dal 2015: 50 anni, nove mesi e 25 giorni in Magistratura. L’ ultimo incarico che ha ricoperto è quello da Presidente del Tribunale di Palermo. Negli anni 80 fu chiamato all’Ufficio Istruzione dal Dr. Rocco Chinnici e fece parte del pool antimafia insieme ai giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello. Con il presidente Guarnotta avevamo iniziato un’ intervista e ci siamo ritrovati a scrivere un “documento di memoria storica”.

Con lui abbiamo ripercorso la sua carriera professionale, dai primi incarichi alla funzione da Presidente di Tribunale passando attraverso tutti i fatti accaduti in questi ultimi 50 anni di lotta alla criminalità organizzata.

Momenti di commozione, come  quando sentivamo la sua voce incrinarsi nel raccontare i periodi bui delle stragi, e momenti di grandi risate quando citava aneddoti (molti dei quali sconosciuti) che ha vissuto con gli amici “Giovanni e Paolo”.

La situazione storico-giudiziaria prima della Rognoni-La Torre, la nascita del “metodo Falcone”,  il pool di Rocco Chinnici e Antonino Caponnetto,  il bunkerino,  il lavoro di gruppo, i viaggi in America, i  “pentiti”, il blitz di San Michele, la “deportazione all’Asinara”,  i verbali  di interrogatorio di Buscetta, Marino Mannoia  e  Calderone,  la nomina di Antonino Meli e la demolizione del pool, le audizioni al Csm del luglio 1988, la legislazione le 1991/92, Buscetta e la predizione delle stragi del 93, la trattativa e l’opinione di Paolo Borsellino su Capaci…

Questo e molto altro, ma tra i momenti più toccanti  il ricordo dell’incidente con la blindata, che costò la vita a due ragazzi liceali a Palermo, e la visita che Borsellino gli aveva fatto in ufficio il giorno precedente alla strage. Voleva parlargli di qualcosa di importante ma non riuscì a trovarlo…

Del giudice Guarnotta ci ha colpito soprattutto la sua grande umiltà, quella che appartiene solo ai grandi uomini.

D: Perché decise di sostenere il concorso in magistratura?

R: “Fin da piccolo sognavo di fare il magistrato. In famiglia non c’era alcuno che svolgesse questa professione. Mio padre era un tecnico dell’Enel, mio nonno paterno era comandante del reparto autoblindato della Polizia di Stato, mio nonno materno era un proprietario terriero in quel di Bilbao (Spagna) dove era nata mia madre e, pertanto, non avevo esempi a cui ispirarmi in famiglia.

So bene che per qualsiasi persona il proprio lavoro è il più bello del mondo e lo è anche per me, ma il “mestiere” di magistrato è un lavoro particolare, impegnativo per cui è necessario che ogni decisione vada assunta uniformandosi alla legge ed alla propria coscienza”.

Quali sono stati i suoi primi uffici? 

“Sono entrato in magistratura nel ’65, a 25 anni, e sono andato in pensione nel 2015 a 75 anni, mezzo secolo trascorso tra codici e pandette.

Dopo un anno di tirocinio come uditore giudiziario, le mie prime funzioni sono state quelle di giudice istruttore a Milano nel ’66. Poi, su mia domanda, sono stato trasferito alla Pretura di Niscemi, una cittadina in Provincia di Caltanissetta, come ho appreso al momento di fare domanda perché sino ad allora ignoravo dove si trovasse in Sicilia. Così grande era la voglia di tornare il più vicino a Palermo, dove abitavano i miei genitori (io sono figlio unico) e la famiglia di mia moglie, che scelsi quella destinazione, per così dire, al buio ma è stata una esperienza utile sia dal punto di vista professionale che personale.

Successivamente, tre anni e mezzo dopo, ho chiesto ed ottenuto il trasferimento a Termini Imerese e lì, da gennaio 1970 a febbraio 1979, ho ricoperto le funzioni di Pretore Mandamentale prima e di giudice presso il locale Tribunale dopo.

Trasferito a mia domanda al Tribunale di Palermo, dopo una breve permanenza presso la Seconda Sezione Penale, il 2 gennaio 1980 sono approdato all’Ufficio di Istruzione.

Seguiranno poi le funzioni di Presidente della Seconda Sezione Penale e della Quarta Sezione di Corte di Assise sempre a Palermo, di Presidente del Tribunale di Termini Imerese ed infine le funzioni di Presidente del Tribunale di Palermo”.

Quale era il contesto storico-giudiziario prima degli anni 80?

“Il pool anti-mafia nacque in un contesto temporale particolare della nostra vita giudiziaria quando, tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80, anche da parte di rappresentanti delle istituzioni si diceva che la mafia non esistesse, che fosse una invenzione giornalistica per distogliere l’attenzione dei cittadini da chissà quale altro problema.

Eppure c’erano già stati dei segnali premonitori ed inquietanti di una escalation di attentati a rappresentanti delle istituzioni in provincia di Palermo: negli anni ’60 era saltata in aria una  Giulietta a Ciaculli, borgata palermitana, regno del boss Michele Greco detto “il papa”, con sette carabinieri e due civili uccisi dal tritolo; sempre nei primi anni ’60 era scoppiata quella che poi sarebbe stata considerata la prima guerra di mafia, iniziata da Michele Cavataio, uomo d’onore del palermitano; poi erano caduti, in vili agguati mafiosi, il giornalista Mauro De Mauro, il Procuratore della Repubblica Pietro Scaglione, a Ragusa il giornalista Giovanni Spampinato, il  colonnello dei CC Giuseppe Russo, a Cinisi Peppino Impastato, Filadelfio Aparo  vice Brigadiere della squadra mobile di Palermo, un altro  giornalista di inchiesta Mario Francese, Michele Reina  segretario provinciale della DC, il V. Questore Boris Giuliano, il collega Cesare Terranova appena nominato Consigliere di Corte di Appello e il suo autista Lenin Mancuso. Questi crimini, evidentemente sottovalutati dagli inquirenti dell’epoca perché ritenuti fatti episodici, del tutto svincolati l’uno dall’altro, non erano stati colti come segnali della presenza, sempre più invasiva, di quella pericolosissima associazione per delinquere denominata “mafia”, come peraltro non era stata colta l’importanza delle dichiarazioni rese il 30 marzo 1983 da Leonardo Vitale, il cosiddetto “protopentito”. 

Era nipote del capo-mandamento Titta Vitale ed era un giovane aspirante uomo d’onore il quale, in un verbale di dichiarazioni ricevute dall’allora Commissario di Polizia Bruno Contrada descrisse l’organigramma delle famiglie mafiose palermitane, seppure a livello delle sue conoscenze perché non era ancora affiliato, e menzionò tra gli altri anche Vito Ciancimino, che per diversi anni è stato assessore presso il comune di Palermo e, per qualche giorno, anche sindaco del capoluogo.

Ebbene, quasi tutte le persone chiamate in reità e correità da Leonardo Vitale sono state assolte per insufficienza di prove, mentre lui, ritenuto colpevole e seminfermo di mente, venne condannato per i reati dei quali si era auto-accusato e rinchiuso nel manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. Quando il 2 dicembre 1984 fece rientro a Palermo, fu ucciso dalla mafia che in questo modo punì il suo tradimento.

Questo era il contesto storico in cui iniziò a lavorare il pool antimafia.

Approdarono per primi all’Ufficio di Istruzione Rocco Chinnici, Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello seguiti da me il 2 gennaio del 1980″.

Come nacque il “follow the money” di Falcone?

“Giovanni Falcone considerava che se la droga non lascia quasi tracce (se non nella salute di coloro i quali l’assumono, viene da osservare), il denaro ricavato dal suo commercio non può non lasciare dietro di sé tracce, segni, orme del suo percorso, del suo passaggio da chi fornisce la droga a chi l’acquista.

Ed allora era necessario fare un passo in avanti, dare una svolta definitiva alla strategia di attacco alla mafia economica e finanziaria operante anche all’estero, in particolare negli Stati Uniti ed in Canada, intensificando la collaborazione con gli organi investigativi e giudiziari di quelle nazioni.

Vedeva così la luce il “metodo Falcone”, mediaticamente inteso “follow the money”, inseguire il denaro.

Si svolgevano accurate e mirate indagini bancarie, patrimoniali e societarie, in Italia ed  anche all’estero, nei confronti di centinaia di soggetti al fine di rintracciare e portare alla luce, infrangendo il segreto bancario, sino ad allora considerato alla stregua di un totem inviolabile, rapporti di affari, contatti, trasferimenti di somme di denaro da un soggetto all’altro, venivano passate al setaccio migliaia di assegni  e numerosissima altra documentazione bancaria (il tutto compendiato in ben sei dei quaranta volumi della ordinanza-sentenza depositata l’8 novembre 1985) al fine di acquisire la prova inconfutabile, sino ad allora quasi mai raggiunta, di rapporti di conoscenza e di affari illeciti tra mafiosi, trafficanti di denaro sporco e colletti bianchi, ostinatamente negati dagli interessati.

Ma il successo della vincente strategia attuata con il “metodo Falcone” è stato dovuto anche allo straordinario lavoro di squadra posto in essere dal pool antimafia, fortemente voluto, e mirabilmente guidato, dal consigliere Antonino Caponnetto. Il pool era  un organo giudiziario non previsto dall’allora vigente codice di procedura penale, ai cui componenti, in attuazione di un disegno non del tutto innovativo (era stato sperimentato, alcuni anni prima, nella azione di contrasto al terrorismo), vennero affidate le indagini sul fenomeno della criminalità organizzata di tipo mafioso in modo che, lavorando in stretto collegamento fra di loro, fosse possibile un scambio di notizie ed informazioni sui risultati delle indagini espletate da ciascuno di essi ed il patrimonio di notizie così acquisite da ognuno degli inquirenti non fosse disperso ma fosse portato a conoscenza degli altri colleghi.      

Ma alla strategia vincente del pool antimafia  ha contribuito anche la fattiva collaborazione di appartenenti ai reparti investigativi della Polizia, dell’Arma dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, dotati di una elevata professionalità e di un non comune spirito di servizio, divenuti anche essi protagonisti di quel perfetto “gioco di squadra” che ha reso possibile esperire la prima, efficace e vincente azione di contrasto a “cosa nostra”, quella “pericolosissima associazione criminosa che, con l’ intimidazione e la violenza, ha seminato e semina morte e terrore”, come venne definita nell’incipit dell’ordinanza-sentenza depositata l’8 novembre 1985. 

Oggi, a distanza di circa 35 anni, il “metodo Falcone” è comunemente utilizzato, con risultati mai raggiunti prima, in Italia ed all’estero, avendo segnato una svolta epocale, fissato un punto di non ritorno, delineato uno spartiacque definitivo con i precedenti sistemi di indagine utilizzati nella lotta di contrasto a qualsiasi forma di criminalità organizzata”.    

Nell’ottobre 1983 avete appreso la notizia dell’arresto di Tommaso Buscetta, pensavate che un giorno avrebbe collaborato?

“Buscetta aveva chiesto di essere sentito da Giovanni Falcone perché aveva già maturato la decisione di iniziare a collaborare come, in realtà fece, il 16 luglio del 1984, giorno del suo primo interrogatorio cui ne seguirono numerosi altri.

Non ci sembrava quasi vero che, finalmente, grazie alle sue propalazioni, rivelatesi attendibili, saremmo stati in grado di abbattere il muro, squarciare il velo, che sino ad allora aveva nascosto agli inquirenti la struttura di “cosa nostra””.

Gli  interrogatori di Buscetta furono rinviati al 21 luglio e da quel giorno si susseguirono quasi ininterrottamente fino a metà settembre. È vero che Falcone mandava i verbali a Palermo in aereo e il dottor Caponnetto li metteva in cassaforte?

“I verbali delle dichiarazioni rese da Buscetta o li portava con sé Falcone quando rientrava a Palermo o li affidava ai fidati inquirenti che lo collaboravano per essere consegnati al dott. Caponnetto, qualora gli interrogatori fossero dovuti proseguire per diversi giorni”. 

Il settore del palazzo di giustizia dove lavoravate divenne famoso con il nome di “Bunkerino”: come era strutturato?

“Il pool antimafia cominciò a lavorare in locali, posti al primo piano, concessi in prestito dalla locale Corte di Appello di Palermo, per motivi di sicurezza, abbandonando i locali dell’ufficio istruzione del Tribunale, allocati al piano rialzato che dava sulla piazza del vicino mercato rionale, risultando così privi di ogni sicurezza.

A riguardo, ricordo che, quando noi giudici istruttori ancora occupavano quei locali, un giorno, il consigliere Rocco Chinnici, nel corso di una riunione, quasi ad esorcizzare il problema della nostra sicurezza, scherzosamente ci rassicurò affermando tra il serio ed il faceto “Ragazzi, vi ho reso immortali; ho fatto blindare le finestre delle vostre stanze e potete stare tranquilli”.

Falcone, Borsellino e Di Lello, già reclutati da Caponnetto nel neonato pool-antimafia, si trasferirono con armi e bagagli al piano superiore e i primi due occuparono le stanze di quello sarebbe diventato il nostro “bunkerino”.

Era un corridoio di una quindicina di metri, almeno credo, perché non abbiamo mai pensato di misurarlo, cui si accedeva da una porta in ferro con la vernice scrostata perché non era mai stata riverniciata ed all’esterno era installato un monitor che consentiva di vedere chi voleva accedervi.

All’interno, sulla destra, si apriva una prima stanza adibita a segreteria, subito dopo c’era la stanza di Giovanni e poi ancora quella di Paolo. In fondo c’era un’altra stanza, occupata da Giovanni Paparcuri, l’autista sopravvissuto alla strage di Chinnici, il quale aveva ripreso servizio presso il nostro ufficio e, con grande volontà e dedizione, si era riciclato come informatico.

Sul lato sinistro la porta che immetteva all’archivio, nel quale il 5 gennaio 1995, cioè alla fine dell’esperienza del pool antimafia con il deposito del “Maxi-quater”, erano conservate migliaia di faldoni contenenti gli atti raccolti a decorrere dai primissimi anni ’80. Nonostante la mole di carte, tutti noi eravamo capaci di entrare in archivio e individuare a colpo sicuro l’ubicazione del verbale o del documento da consultare.

All’esterno del “bunkerino”, lungo il corridoio, si aprivano le stanze occupate da me e da Giuseppe Di Lello. Quando Paolo Borsellino assunse, nell’agosto del 1986, le funzioni di Procuratore della Repubblica di Marsala, mi sono trasferito nella sua stanza ed è così cominciata la “convivenza” con Giovanni Falcone.

Ricordo che rimanevamo in ufficio anche fino al tardo pomeriggio, a volte fino a sera, e ci mettevamo un po’ in libertà togliendoci la giacca e la cravatta e indossando un maglione: il mio era verde e il suo rosso.

Lavoravamo in silenzio con le porte delle nostre due stanze aperte e più volte è capitato che, a una certa ora, lui mi dicesse: “Leonardo, guarda che si è fatto tardi, leviamo il disturbo allo Stato”. A distanza di anni sembra una frase profetica di quello che sarebbe accaduto dopo, quasi a voler dire che c’era una parte delle istituzioni che seguiva con favore il nostro lavoro mentre un’altra parte rimaneva in attesa di vedere come sarebbe andata a finire la nostra esperienza. Mi riferisco alla decisione del CSM con la quale venne nominato il dottor Antonino Meli al posto di Falcone quale nuovo consigliere istruttore il 19 gennaio 1988.

Quella nomina segnò l’inizio della fine della strategia vincente del pool”.

Come si svolgeva il lavoro all’interno del pool?

“Ci riunivamo ogni lunedì nella stanza di Giovanni Falcone per fare il consuntivo della settimana precedente, relazionando ognuno di noi sull’esito delle indagini effettuate, ma anche per fare il preventivo della settimana che iniziava, decidendo quali accertamenti ognuno di noi avrebbe dovuto espletare. Se occorreva, ci riunivamo anche durante la settimana. Quando ciascuno di noi quattro rientrava da trasferte effettuate per espletare atti istruttori, curava che ne fosse stampata una copia da fare pervenire agli altri colleghi con allegato un post-it, qualcuno l’ho conservato, sul quale era annotato, ad esempio, “A Leonardo, per parlarne”, a testimonianza del motivo per cui era nato il pool antimafia, che non era un organo giudiziario previsto dall’allora vigente codice di procedura penale, ma la cui attuazione era stata resa possibile  dalla facoltà che il consigliere istruttore aveva, ai sensi dell’art. 17 delle disposizioni di attuazione, di delegare a ognuno di noi le stesse indagini.

La strategia che si voleva attuare era infatti quella di un gruppo esiguo di magistrati (quattro più il consigliere) cui erano affidate tutte le indagini sulla criminalità organizzata di tipo mafioso in modo che ogni magistrato facesse le proprie indagini, ma i risultati venivano trasmessi agli altri colleghi affinché quel patrimonio di notizie non andasse disperso e servisse per prendere decisioni congiunte. Ma, attenzione, per sgomberare il campo da equivoci, va rimarcato con forza che la prima, efficace, seria, azione di contrasto a “cosa nostra” fu intrapresa nel pieno rispetto delle norme penal-processuali, senza ricorrere a leggi emergenziali ed è motivo di vanto per tutti noi che fosse solo il codice a guidarci, con l’aiuto della legge Rognoni – La Torre ovviamente. La forza del pool era questa, tutti per uno, uno per tutti”.

Quanto è stato importante il dottore Caponnetto per il pool?

“E’ stato fondamentale. Quando fu ucciso Rocco Chinnici nel luglio del ’83 non sapevamo chi lo avrebbe sostituito, credevamo in una sostituzione interna. Quando abbiamo appreso che era stato designato il dott. Caponnetto, Sostituto Procuratore Generale di Firenze, e lo abbiamo visto in foto, fu naturale in ognuno di noi fare il confronto con Rocco. Vedevamo una persona di una certa età, 63 anni, esile, non molto in salute, e pensando a quello che era stato Rocco Chinnici, una persona aitante, fisicamente imponente, piena di vitalità e molto esperta in materia di criminalità organizzata, ci chiedevamo se il C.S.M. avesse designato il magistrato giusto per sostituire il dott. Chinnici.

Ma ci volle pochissimo per constatare di che pasta e tempra fosse fatto il nostro consigliere, al di là dell’aspetto fisico.

Aveva lasciato la moglie e tre figli in Toscana per condurre a Palermo una vita monastica divisa tra il suo ufficio e, per motivi di sicurezza, una spoglia stanza della caserma Cangelosi della Guardia di Finanza.

Una dedizione al lavoro straordinaria. Stava in ufficio con noi, e più di noi, fino a tarda sera.  Ci aveva perso gli occhi a collazionare quelle circa novemila pagine della prima ordinanza-sentenza depositata l’8 novembre 1985.

All’epoca, succedeva che io andassi a trovare Giovanni o Paolo, i quali già occupavano le stanze all’interno del “bunkerino”,  e constatassi che i colleghi erano costretti a lavorare con la luce artificiale già dal mattino perché le finestre dei due locali davano sull’area interna del palazzo.

Alle mie domande come facessero a lavorare in quelle condizioni, sia l’uno che l’altro rispondevano con un mezzo sorrisetto sotto i baffi ed in dialetto siciliano “Va beh, poi ma sai cuntare” che tradotto significa “poi me la saprai raccontare”.

Mi chiedevo cosa volessero dire. L’ho capito dopo, semplicemente sapevano già l’intenzione di Caponnetto di “ingaggiarmi” nel pool”.

Il suo collega Ayala ha raccontato che molto lavoro su Buscetta fu fatto in una casa a mare di Falcone.

“Sì. Falcone aveva preso in affitto una villa al mare, in località Addaura, dove anch’io mi sono portato per motivi del nostro lavoro, sino a quando, giocando a “calcetto”, non mi sono fatto male ad un ginocchio con conseguente ingessatura.

In quel periodo sarei dovuto andare a Roma con Giovanni per un importante atto istruttorio ma il collega, appreso telefonicamente del mio infortunio che mi impediva di muovermi, contrariato per il “contrattempo” mi rispose: “Io non parlo con gli ingessati!””.

Falcone teneva molto all’applicazione di tutte le misure di sicurezza, era molto rigoroso con la scorta?

“Guardi, ricordo un episodio in cui un giovane Carabiniere, che era assegnato per la prima volta alla sua tutela, gli chiese se poteva aiutarlo a portare la borsa che teneva sempre con sé.

Giovanni gli porse la borsa e aggiunse “E se adesso arriva qualcuno che tenta di aggredirmi, tu che fai? Come fai a proteggermi se tieni la mia borsa in mano? Tu devi avere le mani libere”.

Ma Giovanni non credo avesse bisogno di essere rigoroso con gli uomini della scorta perché quelli assegnatigli hanno sempre svolto il loro lavoro con grande professionalità, competenza e spirito di servizio”.

Per Buscetta si riuscì a mantenere il segreto sugli interrogatori ma ad un certo punto aveste sentore di una fuga di notizie per cui fu anticipata l’operazione che divenne famosa come “Blitz di San Michele”, del 29 settembre 84.  La signora Agnese Borsellino, nel suo libro, ricordava che nel pomeriggio precedente aveva preparato i caffè per lei e Paolo. Che ricordi ha di quel giorno?

“La mattina del 29 settembre 1984, era in corso il saluto di commiato al nostro cancelliere dirigente, andato in pensione, quando Giovanni si avvicinò a me, Paolo e Giuseppe e, quasi sottovoce, ci diede appuntamento alle 15:00 presso i locali del “bunkerino” perché aveva appreso che su di un settimanale, forse Panorama o l’Espresso, sarebbe stata pubblicato lo scoop della collaborazione di Tommaso Buscetta che avrebbe compromesso l’esito delle nostre indagini e, sopratutto avrebbe messo in allarme i sodali di “cosa nostra” nei cui confronti si era divisato di emettere mandato di cattura il 4 ottobre 1984.

Nel primo pomeriggio passai a prendere Paolo che mi attendeva affacciato al balcone della sua abitazione all’ottavo piano e mi faceva ampi segni di salire a casa sua. La cara, dolce, Agnese chiese cosa dovessimo fare e Paolo, di rimando, con tono scherzoso le disse: “Non ti interessare e preparaci il caffè””.

Abbiamo letto che, a causa della grande mole degli atti da scrivere, anche la dottoressa Francesca Morvillo partecipò nella preparazione dei mandati di cattura di quella notte.

“Quando arrivammo in ufficio, nella stanza di Giovanni c’era anche Francesca a dare una mano per aiutarci a riesumare tutti quei procedimenti, chiusi con assoluzioni per insufficienza di prove, a carico di uomini di “cosa nostra” quelli stessi ora chiamati in reità o correità da Tommaso Buscetta.

A tarda notte, firmammo il mandato di cattura n. 323/84 RGUI del 29 settembre 1984 nei confronti di circa 360 imputati.

Ricordo che fungeva da dattilografo un appartenente all’Arma dei Carabinieri che mi impressionò per la sua battuta velocissima e senza errori.

Quella sera Giovanni aveva fatto preparare dei panini con prosciutto o salame accompagnati da birra e frutta, perché pensavamo di restare fino a tardi. La sera, verso le 21, Giuseppe Di Lello decise di andare a cenare. Poi ad un certo punto, visto che si erano fatte le 23, non vedendolo rientrare, lo chiamammo al telefono. Era andato a letto perché aveva pensato che avremmo continuato l’indomani. Il buon Ninni Cassarà mandò qualcuno a prenderlo e per poco, dalla fretta, rischiò di tornare in ufficio in pigiama. Verso le tre di notte firmammo il mandato di cattura che venne eseguito dalle forze dell’ordine nei confronti di quasi tutti gli imputati perché nulla era trapelato dai nostri uffici che potesse mettere sull’avviso gli interessati.

In quella occasione, come del resto in tutto il lavoro svolto dal pool in quegli anni, fummo supportati dalla preziosa collaborazione del personale di cancelleria e da quello addetto ai servizi informatici ai quali va riconosciuto il merito di avere lavorato, spesso in condizioni difficili, senza mai risparmiarsi e supplendo, a costo di sacrifici personali, alle già allora congenite e ben note insufficienze di organici e strumenti di supporto”.

A proposito della possibile fuga di notizie su Buscetta, per un giornalista dove inizia e finisce il dovere di cronaca?

“In ogni democrazia il compito fondamentale della stampa è quello di informare l’opinione pubblica su quello che accade, portare alla luce ciò che è nascosto, cercare e fornire prove, ricercare la verità, trattare in maniera indipendente le principali criticità sociali, economiche, culturali, ambientali e storiche

In questo consiste il dovere di cronaca che fallisce il suo obiettivo quando quelle criticità vengono viste attraverso la lente deformante di una disinformazione che mira a travisare, mistificare, la verità dei fatti o a nascondere inconfessabili interessi di parte”.

Con le indagini del pool iniziarono anche i viaggi intercontinentali verso l’America.

“Andai per la prima volta in America nel 1984 insieme al dott. Giusto Sciacchitano, uno dei P.M. che si occupavano delle nostre stesse indagini, ed al dott. Tonino De Luca, Commissario della Polizia di Stato.

Nel settembre 1982 in Canada era stato ucciso Michael Pozza, soggetto molto vicino a Giuseppe Bono, rappresentante di cosa nostra siciliana negli Stati Uniti. Nel portafoglio di Pozza, la Polizia canadese aveva rinvenuto estratti conto e matrici di assegni riconducibili ai due figli più grandi di Vito Ciancimino, Giovanni e Sergio.

Quei documenti costituivano un importante elemento di prova degli stretti rapporti tra Ciancimino e i sodali di “cosa nostra””.

E nel gennaio 1985 tornò in Canada, questa volta insieme a vari colleghi.

“Sì, insieme a Falcone e a Sciacchitano ci recammo a New York per compiere atti istruttori e poi ci spostammo in Canada, a Montreal per altre attività.

Ricordo bene quel viaggio anche per la temperatura al limite dello zero e per la presenza di un nostro valente collaboratore, l’allora Capitano Angiolo Pellegrini, oggi Generale in pensione, che ho avuto il piacere di incontrare di recente dopo tanti anni.

Mentre eravamo a Montreal, Giovanni decise di acquistare una di quelle borse porta documenti tipiche di quel paese.

C’era la neve alta un metro, e per trovare il negozio dove fare i nostri acquisti facemmo un bel tratto di strada finendo “dove il Signore perse le scarpe”, una frase che noi usiamo per dire che era in capo al mondo, un posto sperduto.

Tra l’altro non eravamo neanche equipaggiati per affrontare quelle intemperie ma fummo capaci di affrontare la neve alta un metro e di raggiungere l’agognata meta con conseguente acquisto delle borse.

In una delle tante fotografie che lo ritraggono c’è Giovanni con in mano quella borsa.

La mia la conservo come un geloso ricordo, tra i tanti, dell’indimenticabile collega che ha lasciato in me un incolmabile vuoto”.

Le innovazioni legislative contro cosa nostra del 1991, sia quelle sui collaboratori che le altre, come il decreto 152/91 o   l’istituzione della DIA, sono dovute a Giovanni Falcone. Il 1991 fu un anno che segnò una svolta. Tutto quello che ha apportato Giovanni Falcone a livello legislativo esiste ancora oggi seppur modificato in alcuni punti, quanto è stato importante quel lavoro?

“Dell’esperienza maturata dal pool antimafia del Tribunale di Palermo ha fatto tesoro il nostro Legislatore il quale, consapevole degli apprezzabili risultati raggiunti dalla tecnica e dai metodi di indagini posti in essere da quell’organo ed, in particolare, da Falcone e Borsellino, ha  costituito presso alcune Procure della Repubblica la Direzione Distrettuale Antimafia (D.D.A), ha istituito la figura del Procuratore Nazionale Antimafia, ha costituito la Direzione Investigativa Antimafia (D.I.A.), ha approvato una legge premiale per i collaboratori di giustizia, i c.d. “pentiti”, ha introdotto nell’ordinamento penitenziario l’art. 41 bis che prevede un durissimo regime carcerario per gli appartenenti a “cosa nostra” condannati alla pena dell’ergastolo o a pesanti pene detentive al fine di impedire loro qualsiasi contatto con l’esterno e trasmettere ordini agli affiliati ancora in libertà.

Questi provvidi provvedimenti, ancora in vigore sia pure con opportuni aggiornamenti, sono frutto del lavoro incessante, dell’intuito giuridico, dell’esperienza maturata da Falcone nel corso degli anni dedicati alla incessante lotta di contrasto a “cosa nostra””. 

I collaboratori furono il mezzo  per scardinare la porta di cosa nostra. Senza di essi quanto sarebbe stata diversa la lotta alla mafia?

“La inattesa collaborazione di Tommaso Buscetta e poi quelle di Salvatore Contorno, Giuseppe Calderone e Francesco Marino Mannoia, per restare a quelle più importanti, tutti sodali di “cosa nostra” passati dalla parte dello Stato, hanno consentito di infrangere il muro dell’omertà che, da sempre, è stato uno dei pilastri su cui si basa “cosa nostra”.

Quasi sicuramente senza la loro collaborazione non sarebbe stato possibile sferrare un attacco senza precedenti a “cosa nostra”, grazie anche ad un metodo investigativo incisivo ed innovativo, e sarebbe continuata la serie di sentenze di assoluzione per insufficienza di prove nei confronti dei sodali di “cosa nostra” come avvenuto, in passato, nei processi di Catanzaro e Bari, celebratosi fuori Palermo per “legittima suspicione”, come prevedeva il codice di rito vigente all’epoca”.

Lei andò ad interrogare Buscetta in Canada nel marzo del 1993 e Don Masino aveva pronosticato le stragi che sarebbero avvenute dopo qualche mese.

“Nel mese di marzo 1993 mi recai in Canada per interrogare Buscetta a conclusione dell’attività istruttoria relativa all’ordinanza-sentenza emessa il 5 gennaio 1995 con la quale ho chiuso l’esperienza del pool anti-mafia.

Al termine dell’interrogatorio, chiesi a Buscetta se, secondo lui, sarebbero stati perpetrati altri omicidi eccellenti e, dopo averci pensato un po’, rispose che la strategia di “cosa nostra” sarebbe cambiata; non più attentati ad uomini dello Stato ma bensì al patrimonio architettonico e artistico italiano.

Puntualmente, dopo qualche mese vennero effettuati gli attentati di Roma, Firenze e Milano.

All’epoca, ritenni che Buscetta avesse espresso soltanto una opinione personale e non una previsione confermata da quanto accaduto qualche mese dopo”.

Ha sentito varie volte Antonino Calderone. Ci sono delle cose che ci hanno colpito leggendo i verbali di interrogatorio. La prima volta che Falcone si presentò a Marsiglia per interrogarlo, insieme ad altri colleghi, fu il 16 aprile del 1987 nell’ambito della rogatoria richiesta dopo l’arresto dello stesso Calderone. Questi, in un primo momento, disse di non voler rispondere alle domande, che erano state predisposte da Falcone, e che gli venivano poste dal Giudice Debacq. Dopo qualche minuto ci ripensò e dichiarò di volersi affidare alla giustizia. Tra i suoi racconti vi è un episodio terribile. Riguarda l’uccisione di 4 ragazzini, voluta da Nitto Santapaola nel 1976. Una descrizione atroce, forse peggiore di quella che fa  Chiodo  sulla morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, se ci può essere un grado di crudeltà…

“Antonio Calderone, deceduto nel 2013, è stato un altro collaboratore attendibilissimo. Era fratello di Giuseppe, rappresentante della commissione per la provincia di Catania, soprannominato “cannarozzu d’argento”, perché utilizzava un apparecchio, in quel metallo, per sostituire la funzione delle corde vocali.   

Penso che un soggetto che ha vissuto in quell’ ambiente per tanti anni, se decide di collaborare, ha pur sempre un comprensibile momento di incertezza, perché sa che dovrà intraprendere una strada senza ritorno e lasciare per sempre quello che era stato il suo mondo.

Personalmente credo che Calderone sia stato l’unico mafioso davvero “pentito”, un po’ come Saulo, diventato poi San Paolo, rimasto folgorato sulla strada per Damasco.

Al termine di un interrogatorio nel carcere di Rieti, domandai a Calderone se fosse in grado di fornire ulteriori elementi (a riguardo aveva già reso dichiarazioni a Giovanni ed altri colleghi) sulle modalità con le quali erano stati uccisi quattro ragazzini, rei di avere borseggiato la madre di Nitto Santapaola, gettati ancora vivi in un pozzo che non era stato possibile localizzare.

Ma Calderone, al ricordo dell’accaduto, scoppiò in un lungo e irrefrenabile pianto che gli impedì di rispondere alla mia domanda ed io, allora, chiusi il verbale dell’interrogatorio senza fare menzione della domanda che gli avevo posto.

Era un racconto raccapricciante che ci aveva indotto a svolgere ulteriori accurate indagini al fine di individuare il luogo dove i quattro ragazzini erano stati uccisi non solo per avere un riscontro alle dichiarazioni di Calderone ma anche per recuperare quei corpi senza vita e restituirli ai loro genitori.

In alcuni di quegli interrogatori, condotti a Rieti, era presente anche Giovanni  che, alla fine di una di quelle pesanti ed impegnative giornate, mi chiese se ero disposto a passare la notte in un locale della struttura carceraria come avrebbe fatto lui stesso per motivi di sicurezza.

Declinai l’insolito invito che, comunque, mi fece comprendere come Giovanni tenesse alla sicurezza di noi tutti”.

Alla fine dell’84 arrivaste a chiedere una maggiore protezione per i pentiti, perché non essendoci nessuna legge in merito era complicato gestirli.

“Buscetta infatti è stato interrogato in un ufficio della questura di Roma. Non c’era nessuna norma che potesse prevedere dove interrogarli. Per farle capire come si procedeva all’epoca posso dire che una volta mi capitò di sentire Marino Mannoia in una chiesa sconsacrata. Mentre l’interrogatorio successivo all’uccisione della madre, della zia e della sorella avvenne presso il Servizio Centrale Operativo della Polizia a  Roma.

Si trattava dell’interrogatorio conclusivo, per confermare tutte le notizie che ci aveva già fornito e raccoglierne, eventualmente, di nuove.

Gli chiesi se volesse rimandare ad altro momento, visto il grave lutto che l’aveva colpito. Mi rispose che era dispiaciuto perché non gli era stato consentito, per motivi di sicurezza, di partecipare al funerale delle parenti  ma che era pronto ad iniziare l’interrogatorio.

Avendo appreso che uno degli assassini dei suoi parenti rispondeva al nome di Nicola Eucaliptus, osservò che, sulle prime, aveva ritenuto fosse un straniero, forse, di origine egiziana”.

Abbiamo letto che quando Falcone interrogava dei collaboratori, poteva capitare che chiamasse operatori di Polizia che conoscevano bene la zona, o la famiglia mafiosa di cui parlava il soggetto, o magari perché era necessario un “traduttore” del dialetto di quella determinata borgata. 

“Si, poteva succedere. Pur essendo nati e cresciuti a Palermo, qualche volta accadeva che non si capissero parole in stretto dialetto palermitano o catanese o messinese o di altre città siciliane, che differiscono tra loro, per cui era necessario ricorrere a “traduttori”.

Al termine di ogni interrogatorio, si incaricavano appartenenti alla Polizia di Stato, all’Arma dei Carabinieri ed alla Guardia di Finanza, tutti conoscitori di ogni angolo di Palermo e Provincia, di effettuare indagini al fine di riscontrare le dichiarazioni rese dai sodali di “cosa nostra” che avevano deciso di collaborare”.

Cosa è cambiato nella società civile da allora?

“Dopo le pesanti condanne irrogate dalla Corte di Assise con la sentenza del 16 dicembre 1987, confermata dalla Corte di Cassazione il 30 gennaio 1992, e, sopratutto, dopo le stragi del ’92, nulla è stato più come prima.

In precedenza, neppure i parenti delle vittime di mafia si costituivano parte civile per paura di ritorsioni ma, dopo il ’92, la parte sana della società civile ha compreso che bisognava dire basta alla violenza ed alla tracotanza della mafia che aveva ferito e violentato questa terra così bella ma così sfortunata.

Credo, tuttavia, che la guerra contro la mafia sia ancora lontana dall’essere vinta.

Si è fatto molto ma c’è ancora molto da fare. Fin quando commercianti ed imprenditori continueranno a pagare il pizzo e si attiveranno per incontrare il boss della loro zona per “mettersi a posto”, non potremo dire di  avere vinto la guerra”.

Ma anche la corruzione, fin quando esisterà non sarà una battaglia persa?

“La corruzione, ben conosciuta dai tempi degli antichi Romani ed anche prima, costituisce, insieme alle mafie, perché facce della stessa medaglia, uno dei problemi endemici del nostro paese in quanto largamente praticata, come dimostrato dalle sempre più numerose indagini della magistratura, sino a assurgere a vero e proprio sistema che ha coinvolto e, tuttora, coinvolge imprenditori, rappresentanti delle istituzioni, burocrati e uomini politici.

Per arginare, prima, e debellare definitivamente, dopo, questa illegale, dilagante “pratica” è necessario l’impegno di tutti affinché la corruzione, che crea ingiustizia ed inquina l’economia del paese, venga combattuta e sconfitta rendendo meno farraginose le procedure della pubblica amministrazione, anteponendo l’interesse comune al proprio tornaconto personale, rendendo la giustizia più celere e più giusta, varando tempestivamente provvide leggi anti-corruzione invece di parcheggiarle in commissioni ed aule parlamentari, punendo severamente gli infedeli rappresentanti delle istituzioni e della pubblica amministrazione, i quali non si siano attenuti all’obbligo, sancito dalla Costituzione, di operare con onore e disciplina.

Contrastare la corruzione si può e si deve ma è necessario che tutti noi, e prima ancora chi ha responsabilità istituzionali, ci si riappropri del rispetto delle regole la cui osservanza è condicio sine qua non di una pacifica convivenza civile che persegua l’interesse generale”.

L’Undercover, o agente sotto copertura, che già esiste già nella nostra legislazione, in determinati casi e con certe procedure, sarà esteso anche per i reati di tipo corruttivo.

“L’estensione della figura dell’agente sotto copertura anche ai reati di corruzione, come previsto dal disegno di legge approvato recentemente dal Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro della Giustizia, costituisce una novità nel nostro ordinamento giuridico che ha riaperto la discussione sui metodi di contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione.

L’agente sotto copertura, nei casi in cui è in atto previsto (indagini anti-mafia), ha il compito di acquisire elementi di prova in ordine a determinati delitti ed è prevista, a tal fine, una speciale causa di non punibilità per gli agenti che operano sotto copertura, i quali, fingendo di partecipare alle attività prodromiche ad un accordo corruttivo, in realtà acquisiranno informazioni sufficienti prima di entrare in azione contro i colpevoli”.   

A volte sembra che la fiducia nella legge stia scemando anche perché spesso si vedono sentenze, magari causate dal rito abbreviato, che sembrano inique di fronte a certi reati. Chi sconosce le dinamiche della giustizia perde fiducia nelle istituzioni perché ci sono reati gravissimi dove le pene sono irrisorie. Ma cosa bisognerebbe fare per aumentare nei cittadini la fiducia nella legge?

“Il codice Vassalli ha introdotto procedimenti speciali, a fini deflattivi, tra i quali il giudizio abbreviato e l’applicazione della pena su richiesta delle parti.

L’intento del legislatore era quello di pervenire al risultato che, ad esempio, su 10 procedimenti, 8 si chiudessero nella fase istruttorie e 2 si rinviassero a dibattimento.

Naturalmente tali procedimenti, al fine di invogliare gli interessati ad accedervi, prevedono sconti di pena, anche consistenti, che possono anche apparire iniqui se concessi per reati anche gravi.

Ma per migliorare la macchina della giustizia e, conseguentemente, aumentare la fiducia dei cittadini in una risposta celere e giusta alla domanda di giustizia, è assolutamente necessario che il legislatore doti la magistratura di quelle risorse umane e materiali che, ancora oggi, sono insufficienti perché gli organici dei tribunali, ancorché completi, sono inadeguati a tener fronte alla sempre più crescente domanda di giustizia”.   

Nella nostra giustizia manca la certezza dell’esecuzione della pena, non tanto la certezza della pena. E’ un problema grave soprattutto per le vittime di reati.

“Se un imputato è condannato anche ad una pena pesante, è certo che, se mantiene una condotta esemplare in carcere, non la sconterà per intero perché potrà godere di benefici che la legge prevede anche per gli ergastolani.

Comprendo l’ indignazione dei parenti delle vittime di gravissimi reati (per i quali si vorrebbe che i colpevoli finissero in carcere e si buttasse a mare la chiave della cella) ma compito dei magistrati è quello di applicare le leggi che vengono approvate dal Parlamento non di discuterle o peggio non applicarle”.

Durante la preparazione dell’istruttoria del maxi, nell’agosto 85, arrivò una notizia sulla possibilità di un attentato a Giovanni Falcone o Paolo Borsellino, e furono “esiliati” all’Asinara. Riuscivate comunque a comunicare?

“No, restammo io e Giuseppe Di Lello “a presidiare il forte” insieme al consigliere Caponnetto. Per ovvi motivi di sicurezza veniva evitata ogni comunicazione con il luogo dove erano stati trasferiti i colleghi con le loro famiglie.

Apprendemmo dal nostro consigliere il motivo dell’allontanamento dei colleghi da Palermo”.

Ma quando il dr Borsellino tornò a Palermo ad accompagnare la figlia Lucia, non venne a prendere dei documenti relativi all’istruzione del processo?

“Quando Paolo tornò a Palermo non ci incontrammo.

E’ possibile che abbia portato con sé alcuni atti tra i più importanti che consentissero loro di poter chiudere quella parte della ordinanza-sentenza che si erano riservata per consentirne il deposito nel mese di novembre del 1985.

Nel frattempo, il consigliere Caponnetto, Giuseppe Di Lello ed io continuavamo a scrivere quelle parti della ordinanza- sentenza che ci eravamo assegnate”.

Il 16 luglio del 1988 il dottor Borsellino fece una pubblica invettiva durante un’intervista. Dichiarò lo stato di cose che c’era in atto nella procura di Palermo e lo smantellamento del pool. L’articolo arrivò al Csm il quale chiese spiegazioni e voi scriveste una nota. Sulla base di quella nota foste chiamati per essere auditi tra il 30 luglio e i primi di agosto.

Il 31  luglio fu sentito  Falcone e disse chiaramente ciò che stava avvenendo  dall’ entrata di Meli come Capo all’ufficio Istruzione: “Si è verificata, purtroppo, una tale situazione per cui noi ci troviamo, quelli che ci occupiamo di queste indagini, in una situazione di stallo, cioè in una situazione che ci sta portando verso quella gestione burocratica, amministrativa dei processi di mafia, che è stata la causa non secondaria dei fallimenti degli anni dei decenni trascorsi.”

E’ vero che qualcuno di voi si voleva trasferire compreso Falcone?

“La nomina del dott. Meli a consigliere istruttore ha segnato l’inizio della fine del pool anti-mafia la cui strategia di contrasto a” cosa nostra” aveva consentito di conseguire importanti risultati, mai raggiunti in precedenza.

L’accertata impossibilità di continuare a lavorare come si era fatto sino ad allora e l’entrata in vigore del nuovo codice di rito, che aveva “abrogato” l’ufficio di istruzione, indusse Di Lello e Conte, dapprima, Natoli e De Francisci, dopo, ed in seguito Falcone a presentare istanze di trasferimento.

Anch’io avevo presentato domanda di trasferimento al posto di Procuratore della Repubblica di Marsala, lasciato da Paolo Borsellino, accolta dalla commissione incarichi direttivi del C.S.M all’unanimità.

Ma poi revocai la domanda perché le sopraggiunte, inattese collaborazioni di Mutolo, Messina e Marchese, sodali di “cosa nostra” e depositari di importanti notizie su fatti e misfatti di quella associazione ancora da accertare compiutamente, mi indussero a restare al mio posto”.

Nelle notizie degli anni 90 che la riguardano si parla di “Giudice Istruttore Guarnotta”, una figura relativa al vecchio codice, come mai lei restò con la funzione di Giudice Istruttore?

“Il codice di rito Vassalli entrato in vigore nel mese di novembre 1988 aveva abolito l’ufficio di istruzione affidando le indagini su fatti accaduti dopo la sua entrata in vigore all’ufficio del Pubblico Ministero

Pertanto, per concludere le indagini, ancora in corso, su fatti accaduti prima dell’entrata in vigore del codice Vassalli, presso ogni ufficio di istruzione venne previsto che relative funzioni venissero svolte da un giudice istruttore, appunto, in proroga.

Mentre gli altri giudici istruttori vennero trasferiti, a loro domanda, ad altre funzioni, da giudice istruttore in proroga ho concluso l’esperienza del pool anti-mafia depositando, in data 5 gennaio 1995, la quarta ordinanza-sentenza nei confronti di Alfano Michelangelo + 183, nonché 650 decreti di archiviazione nei confronti fi altrettanti indiziati”.

Nella testimonianza che ha reso per il processo Borsellino ter ha dichiarato che Borsellino aveva commentato la strage di Capaci dicendo: “Giovanni Falcone è stato ucciso per la sua inchiesta sul rapporto mafia-appalti e sulla massoneria”. 

“Che Giovanni fosse stato “punito” da “cosa nostra” per tutta l’attività svolta in precedenza mi pare che sia stato accertato (lo aveva anticipato Buscetta prima di iniziare a collaborare), tanto più che una volta trasferito a Roma, a sua domanda, da quell’ osservatorio privilegiato poteva essere ancora più pericoloso per l’associazione.

Penso alla ideazione della Procura Nazionale Antimafia, all’approvazione del 41 bis all’entrata in vigore della legge sui collaboratori di giustizia,

Quindi rappresentava, da questo punto di vista, per “cosa nostra” un pericolo ancora maggiore dopo il suo trasferimento al Ministero di Grazia e Giustizia (come si chiamava all’epoca) con le funzioni di responsabile della Direzione Affari Penali”.

Questo non dimostrerebbe che il dottore Borsellino aveva fatto una sua deduzione sulla strage di Capaci?

“Certamente, era una sua deduzione perfettamente condivisibile e basata sulla personale interpretazione di alcuni “segnali” percepiti in quei 57 giorni di alacre e febbrile impegno volto a smascherare i mandanti e gli esecutori della strage di Capaci. Nel luglio di quell’anno Borsellino stava sentendo dei collaboratori, uno era Mutolo il quale stava facendo dichiarazioni dirompenti. Rientrato a Palermo, quel sabato mattina era passato dal mio ufficio, certo di trovarmi perché normalmente ero lì anche di sabato. Invece,  quel giorno ero in ferie. Paolo lasciò un appunto alla mia segretaria, e il lunedì trovai quel biglietto. Il fatto che mi cercasse lo raccontò anche ad Agnese quel sabato stesso, quindi devo presumere che fosse una cosa cui dava una notevole importanza altrimenti non lo avrebbe raccontato anche alla moglie che poi, appunto, me lo confermò.

Ancora oggi, rimpiango che Paolo mi avesse cercato e non avesse potuto parlare con me”.

Andreotti, Dell’Utri, Mannino. Tutti politici toccati da processi, tutti con una conclusione diversa. Lei è stato Presidente nel processo Dell’Utri e del processo Mannino, questi fu assolto mentre Dell’Utri condannato, ed è stato uno dei pochi politici condannati per concorso esterno a cosa nostra. Quale fu la differenza tra questi due processi da lei presieduti?

“Nelle sentenze emesse all’esito dei processi a carico dell’ex ministro Calogero Mannino e del senatore Marcello Dell’Utri il Tribunale da me presieduto ha dato contezza dei motivi delle decisioni adottate ritenendo che non fossero emerse prove sufficienti per affermare la responsabilità di Mannino ed, invece, fosse emersa la responsabilità di Dell’Utri in ordine al reato contestatogli.

Entrambe le sentenze hanno superato il vaglio della Corte di Cassazione.

A proposito della sentenza Dell’Utri, ricordo che il sottosegretario Alfredo Mantovano (magistrato in aspettativa), commentando la condanna di Dell’Utri intervenuta il giorno dopo che a Milano Berlusconi era stato “assolto” (per intervenuta prescrizione) in uno dei numerosi processi a suo carico, scrisse che la nostra decisione era stata, nei confronti di Berlusconi, una forma di ritorsione come quella messa in atto dai soldati tedeschi in ritirata durane la seconda guerra mondiale”.

Durante una intervista del 2012 ha fatto una dichiarazione antesignana della sentenza che c’è stata ad aprile scorso nel processo trattativa: “secondo me la trattativa stato-mafia c’è stata e vorrei ricordare che la politica non è stata capace di istituire una commissione di inchiesta ad hoc finendo per delegare alla magistratura l’accertamento di responsabilità politiche che non sono di nostra competenza”. Lei parlò con convinzione della trattativa stato-mafia 6 anni prima che ci fosse la sentenza a Palermo.

“Nelle motivazioni della sentenza del 5 ottobre 2011, con la quale la Corte di Assise di Firenze ha condannato all’ergastolo Francesco Tagliavia, uomo d’onore palermitano, perché ritenuto responsabile anch’egli delle stragi che insanguinarono Roma, Firenze e Milano, si afferma che “una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quanto meno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia”.

L’obiettivo perseguito dagli uomini delle istituzioni, almeno in una prima fase dei contatti fu, a giudizio detta Corte di Assise, quello di “trovare un terreno di intesa con Cosa Nostra per fare cessare la sequela delle stragi”.

Fermamente avversata da Paolo Borsellino, che pagò con la vita la sua scelta di non scendere a patti con la mafia perché avrebbe significato la negazione stessa della battaglia condotta da sempre con Giovanni Falcone nel pool antimafia, la trattativa si arenò ma poi riprese, dopo l’arresto di Salvatore Riina, con le stragi di Roma, Milano e Firenze nelle quali persero la vita dieci persone tra le quali due bambine.

Le indagini svolte al fine di risalire ai responsabili occulti di quegli efferati crimini non hanno dato risultati soddisfacenti perché sono rimasti ancora avvolti nel mistero i mandanti esterni dei delitti e delle stragi politico-mafiosi ed è rimasta su di un piano del tutto teorico, almeno sino ad oggi, fa responsabilità politica cui faceva riferimento la relazione su mafia e politica della Commissione Antimafia approvata a larga maggioranza, nel 1993, sull’onda emozionale suscitata dalle stragi del 1992 e 1993. Ma, adesso, su quel fosco periodo della vita democratica del nostro Paese, a distanza di quasi ventisei anni, la recente sentenza emessa dalla Corte di Assise di Palermo, giudicando soggetti politici, mafiosi e rappresentanti delle istituzione, ha affermato la esistenza di una trattativa tra lo stato e la mafia.

Primi barlumi di una verità che fa paura a molti”.

Come apprese delle stragi?

“Il giorno dell’uccisione di Giovanni, sabato 23 maggio, avevo finito di giocare a calcetto, una delle mie passioni, e qualcuno mi informò che era successo qualcosa di grave, forse un attentato ai danni di un magistrato.

Sapevo che Giovanni sarebbe rientrato a Palermo nel pomeriggio di quel sabato ed il mio pensiero corse subito a lui oltre che a Paolo sperando ardentemente che la notizia non fosse vera o che non si trattasse di un magistrato.

Purtroppo, ebbi la conferma dell’attentato ai danni di Falcone e mi recai subito al Civico, con la morte nel cuore.

Vidi Giovanni steso su di una barella, sembrava che dormisse, aveva soltanto una piccola ferita sulla fronte. Vidi anche Francesca, era ancora in sala operatoria, e Giuseppe Costanza, l’autista sopravvissuto.

Era tutto così terribile, come se il mondo mi fosse crollato addosso all’improvviso.

Di Paolo ho saputo tramite la televisione. Non riuscivo a crederci, non volevo credere che, a distanza di pochi giorni, anche Paolo non c’era più.

Mi sono subito precipitato in Via D’Amelio e mi si presentò una scena da guerra in Libano, fumo altissimo, odore di gomme bruciate, fiamme, l’odore acre di materiale esplosivo.

Era una scena raccapricciante.

Non volli vedere il corpo di Paolo, smembrato dalla esplosione, ho preferito ricordarlo come lo avevo visto l’ultima volta, pochi giorni prima del 19 luglio, in occasione del trigesimo giorno dalla morte di Giovanni.

Paolo era consapevole che dopo sarebbe toccato a lui.

Ricordo che, finita la messa, si avvicinò a me ed a mia moglie che salutò con trasporto, come non aveva mai fatto prima, quasi a significarle “ questa è l’ultima volta che ci vediamo””.

Lei ha condiviso con il giudice Borsellino un episodio terribile: la morte di due ragazzi liceali avvenuta a causa di un’auto della vostra scorta. Era il 25 novembre 1985, morirono due liceali: Biagio Siciliano e Maria Giuditta Milella. Il dottore Borsellino disse alla sorella Rita che aveva pensato di lasciare la Magistratura. Le va di parlarne?

“L’incidente dei due ragazzi è uno di quei fatti che ci addolorò moltissimo e che ha lasciato un segno indelebile in tutti noi. Fu un caso che Paolo fosse con me. La sua vettura di servizio era incidentata e mi chiese un passaggio sino a casa.

All’altezza del semaforo di Piazza Croce, una autovettura di colore bianco impegnò il crocevia senza rispettare il segnale di via libera del semaforo e la prima delle nostre auto di scorta, per evitare l’impatto, fece un’inversione a sinistra per poi rientrare sulla sua direttiva di marcia, all’altezza della fermata dell’autobus dove erano in attesa alcuni giovani studenti appena usciti da una vicina scuola, frequentata anche da mio figlio.

Mentre Paolo, rimasto come impietrito, non ebbe la forza di uscire dall’autovettura, io mi precipitai sul luogo dell’incidente, con la morte nel cuore, perché temevo che anche mio figlio avrebbe potuto trovarsi sul posto.

Fui testimone di una tragedia immane in cui persero la vita due giovani studenti ed altri rimasero feriti.

Tutti noi fummo preda di un grande momento di sconforto, ma poi subentrò la forza di reagire e di colpire ancora di più “cosa nostra” perché quei ragazzi, vittime innocenti, erano vittime indirette della mafia”.

Donne e mafia. Donne vittime di mafia e donne che vivono con uomini mafiosi. Ma qual è il ruolo delle donne nella mafia?

“In una intervista rilasciata al giornalista Mauro De Mauro così affermava, nel 1964, Serafina Battaglia, convivente e madre di mafiosi: “se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare come faccio io, non per odio o per desiderio di vendetta, ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo”. 

Sulla scorta degli elementi acquisiti nel corso delle indagini svolte dagli inquirenti e delle dichiarazioni rese da numerosi mafiosi collaboratori di giustizia è emerso che la presenza femminile in “cosa nostra” è stata sempre caratterizzata da una certa ambiguità che si basa su una esclusione formale ed una partecipazione sostanziale.

In altri termini, le donne, seppure non possono essere ufficialmente  affiliate all’organizzazione mafiosa (ma con qualche eccezione risalente ai primi del novecento), lungi dall’essere sempre destinate ad un ruolo marginale in seno alle attività criminali della organizzazione, in realtà hanno avuto, ed hanno sempre di più un ruolo significativo, importante, talvolta apicale, in seno a “cosa nostra”, non solo come custodi e trasmettitrici della cultura mafiosa ma anche nella gestione delle attività delle cosche.

Si pensi, ad esempio, a Giusy Vitale, esponente dell’omonima “famiglia” operante in quel di Partinico, la quale, dopo l’arresto dei fratelli Vito e Leonardo, ne ereditò la leadership così diventando la prima donna a svolgere le funzioni di capo-mandamento perché era ritenuta brava, fidata e predisposta al comando.

Ma dopo essere stata condannata a pesante pena detentiva dal Tribunale di Palermo da me presieduto e dopo avere trascorso alcuni anni in carcere, Giusy Vitale decise di collaborare con la giustizia anche per consentire ai suoi figli di prendere le distanze da quel mondo dove aveva vissuto al servizio di “cosa nostra” e di cui non condivideva più quei valori in cui aveva creduto.

Questo maggiore inserimento criminale della donna all’interno di “cosa nostra” è dovuto dall’incontro di diversi fattori come i codici culturali, i modelli organizzativi della mafia, costretta ad un riassetto strutturale a causa della repressione statale ed a una drastica riduzione delle affiliazioni a seguito dell’emergenza pentiti, ma anche a fattori esterni  quali i profondi mutamenti sociali che hanno riguardato, ad esempio, la condizione della donna, più istruita, indipendente, maggiormente inserita nelle attività pubbliche.

Tali profondi mutamenti sociali sono riusciti a penetrare persino in un mondo chiuso e separato dalla società civile quale quello mafioso.

Ma, contemporaneamente, nello stesso contesto sociale, sono numerosi gli esempi di donne che, con sprezzo del pericolo, si sono fermamente ribellate alla violenza ed alla ferocia delle regole della associazione ed hanno coraggiosamente denunciato le atrocità subite dalle stesse o dai loro mariti o parenti, pagando talvolta prezzi altissimi per il loro coraggio civico. 

Ma la reazione delle donne di mafia si manifesta anche quando un proprio parente decide di collaborare con la giustizia: o rinnega tale scelta, rimanendo fedele ai “valori” della organizzazione, o la segue tagliando i ponti con il passato.

A riguardo, va osservato che il ruolo delle donne spesso è stato determinante nel supportare, praticamente e psicologicamente, la scelta operata dal collaboratore.

E fu proprio Giovanni Falcone a riconoscere, per primo, il fondamentale ruolo della figura della donna nel difficile percorso collaborativo intrapreso da un parente”.

Dottore Guarnotta, quali sono i ricordi  che conserva di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino?

“Giovanni e Paolo sono i due colleghi con i quali, e grazie ai quali, mi è stato possibile vivere un’esperienza giudiziaria unica e irripetibile che mi ha arricchito, e credo abbia arricchito tutti noi, sul piano professionale e soprattutto mi ha segnato profondamente su quello umano, soprattutto dopo le due stragi. Serbo bellissimi ricordi del tempo, troppo breve, trascorso con loro in un contesto storico-giudiziario difficile che, appunto per questo, fece si che i nostri rapporti personali si saldassero ulteriormente sino a diventare amicali. Giovanni era una persona riservata, dalla grande bontà d’animo, che spesso chiedeva notizie dei nostri genitori e dei nostri figli, sempre pronto a sostenerci nei momenti difficili che ciascuno di noi poteva attraversare. E amava ridere e scherzare.

Mentre una sera eravamo a cena con le nostre mogli, io ed altri commensali avvertimmo qualcosa che ci passava tra i capelli. Pensavamo fosse una mosca o un pezzettino di intonaco del soffitto che si fosse staccato, ma guardandoci in giro, cogliemmo Giovanni nell’atto di levare la mollica dal pane, fare delle piccole palline e lanciarle a tutti quanti noi. Reagimmo a quell’attacco proditorio e ne nacque una battaglia senza esclusione di…molliche, con conseguente vergogna finale quando ci rendemmo conto di aver lasciato…sul campo un tappeto di molliche!  A Giovanni mi univa anche una grande passione per le penne stilografiche. Spesso ci portavamo presso il negozio Bellotti De Magistris, all’epoca quello più fornito, per vedere i nuovi arrivi. Giovanni aveva maggiori disponibilità economiche e mi faceva dispetti quando comprava una penna il cui costo era fuori dalla mia portata…economica. Ricordo che, un giorno mi chiamò nel suo ufficio, facendo finta di scrivere qualcosa con una penna stilografica che compresi subito essere il suo più recente, costoso acquisto. Io capii subito dove voleva andare a parare, mi sedetti di fronte a lui e rimasi muto, fino a quando lui non mi chiese: “Ma tu non mi devi dire niente?”. Io risposi: “Tu mi hai chiamato!”. E lui: “Tu niente vedi? Ho una penna nuova”. E io: “Una penna nuova? Non me n’ero accorto, mi sembrava una di quelle che compriamo assieme”.  Me ne disse di tutti i colori. Portavamo sempre con noi una penna stilografica (a quei tempi si usava) nei nostri viaggi e una volta in aereo, per un problema di pressurizzazione, ci scoppiarono ad entrambi nei taschini delle giacche. Non era possibile cambiarci perché la nostra biancheria era nelle valigie in stiva ma, essendo in inverno, scesi a terra ci imbacuccammo nei cappotti per nascondere il disastro.  Giovanni spesso si divertiva a giocare coi doppi sensi dei cognomi, storpiandoli. Una mattina venne da me e mi disse. “Sai Leonardo, devi interrogare quell’imputato che si chiama Assaggialuva”. Io gli risposi che non ricordavo nessun imputato con quel nome. E lui: “Possibile che non ti ricordi?”. Insomma andammo avanti per un po’ fino a quando non mi disse che si riferiva all’imputato il cui nome era Mangiaracina, che in italiano si tradurrebbe in “assaggia l’uva” perché la “racina” nel nostro dialetto è l’uva…

Al ritorno da una trasferta all’estero mi portò in dono la riproduzione di un monaco tibetano della quale si impossessò subito mio figlio, grande “tifoso” di Giovanni Falcone, ed ora anche lui magistrato. Quando si è trasferito in Procura, mi ha lasciato “in dotazione” il suo ufficio e mi ha  regalato due quadri che conservo gelosamente.  Questo era Giovanni, una persona aperta che dedicava tutto se stesso al lavoro con grande impegno, professionalità e spirito di servizio.

Paolo era invece molto diverso, era estroverso, un po’ come me. Aveva un grande carisma, un’incrollabile fede cristiana, era amante della vita ed aveva una grande sicilianità intesa come espressione della sua appartenenza alla terra che gli aveva dato i natali, per cui si esprimeva spesso e volentieri in dialetto siciliano.

Una volta venne a trovarmi con il figlio Manfredi, all’epoca adolescente, nell’ufficio, “ereditato” da Giovanni, dove avevo esposto, in una bacheca, i trofei vinti giocando a calcio. Restammo a conversare per un po’ e poi Paolo ed il figlio lasciarono l’ufficio. Qualche giorno dopo Paolo venne a trovarmi, bussò forte alla porta e con la sua immancabile sigaretta all’angolo della bocca, mi disse: “A vuo’ sapere ‘na cosa?” Sabato scorso sarei subito tornato indietro e, se non c’era mio figlio, “t’avissi ammazzato”. Sorpreso, gli chiesi cosa mai avessi fatto per meritare quelle sue parole minacciose e Paolo, tra il serio ed il faceto, chiarì “Vuoi sapere cosa ha detto mio figlio Manfredi quando sono uscito dalla tua stanza?” Ha detto: “Papà, hai visto quante coppe e medaglie ha ricevuto il tuo collega? Quello sì che è un giudice, non tu che non ne hai mai vinto”.

Naturalmente ci facemmo su una bella risata”.

Rocco Chinnici fu uno dei primi a comprendere l’importanza della scuola come luogo di “educazione alla legalità”. Quanto è importante oggi la cultura per combattere l’illegalità?

“Rocco Chinnici era consapevole che la sola repressione, compito dei magistrati e delle forze di polizia, non sarebbe stata sufficiente per avere la meglio sulla mafia, ma occorreva anche la prevenzione cioè far conoscere quel gravissimo problema non soltanto agli adulti ma, anche e sopratutto ai giovani andando a parlarne nelle scuole e nelle università.

Perché la mafia, problema endemico della nostra terra, come ogni altro problema, va conosciuto per essere risolto. La conoscenza parte proprio dalla formazione scolastica per far comprendere agli studenti che con il termine “legalità” si intende quel complesso di diritti e doveri, patrimonio inalienabile e non negoziabile di ogni cittadino, cioè di ciascuno di noi, che consenta una vita serena al singolo individuo all’interno della società.

Purtroppo, sempre più spesso gli interessi personali, individuali hanno il sopravvento sui bisogni collettivi e la continua, frenetica, incontenibile corsa ad accumulare denaro e ad acquisire potere offusca le coscienze e induce a condotte illecite o moralmente riprovevole.

Ed allora, si impone una bonifica morale e sociale che non può non essere compito della scuola alla quale, in questa continua ricerca della legalità, spetta il compito importante, essenziale e gravoso, di inculcare negli alunni quei valori, educazione e legalità, che sono gli anticorpi necessari ed indefettibili di tutti quei problemi che minacciano una ordinata vita sociale ed una pacifica convivenza.  

La scuola è quasi un organo istituzionale, come affermava Pietro Calamandrei, perché è anche un organo vitale del nostro meccanismo democratico, qualcosa che consente a chiunque di crescere attraverso la cultura e la competizione fino a far parte della società del domani. Più che la legge è la cultura che rende liberi, è la scuola che forma la coscienza critica di un giovane, è la scuola che deve essere promotrice della rigenerazione della società in cui ciascuno sia padrone e responsabile del suo futuro, non consentendo che altri se ne approprino. Soltanto così i ragazzi potranno avvertire la dignità di essere cittadini e non sudditi, soggetti attivi e non passivi, attori protagonisti del paese in cui vivete, e non saranno costretti a chiedere al potente politico o malavitoso del momento quello che invece spetta loro di diritto. Solo così potranno “sentire il fresco profumo della libertà che rifiuta l’olezzo dell’indifferenza, della contiguità, della connivenza e, quindi, della complicità”.

 Leonardo Guarnotta ci congeda con questa frase…

“Spero che questa intervista sia letta, soprattutto, dai giovani, che sono il nostro futuro, per comprendere quale sia stato l’impegno di tutti noi per consegnare loro un domani migliore, per non dovere chiedere al potente politico o mafioso del momento quello che spetta loro di diritto”.

Giovanni Falcone tra successi e tradimenti. Di franco Nicastro su MeridioNews il 23  maggio 2012. 

«Perseguire qualcuno per un delitto senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza significa fare un pessimo servizio. Il perseguitato verrà rimesso in libertà, la credibilità del magistrato ne uscirà compromessa e quella dello Stato peggio ancora».

Così Giovanni Falcone in 'Cose di Cosa nostra' (1). A scorrere l'ultimo ventennio di storia politico-giudiziaria balza evidente che avere disatteso questo principio è costato lacrime e sangue a un notevole numero di cittadini, mentre Falcone ha pagato un alto costo per la coerenza con cui l'ha perseguito.

Caponnetto e la sua eroica mezza dozzina

Nel novembre 1983 Antonino Caponnetto subentra a Rocco Chinnici nella carica di consigliere istruttore della Procura di Palermo (2). Qui si blinda o, meglio, si seppellisce per quattro anni nella sobria stanzetta di una caserma della Guardia di Finanza che condivide con il suo ufficio a Palazzo di Giustizia. Lo fa non per paura ma a evitare di esporsi per malinteso coraggio. Lo stesso senso di responsabilità lo induce a mantenere un basso profilo e di non personalizzare la battaglia antimafiosa. Principi che ispireranno sempre la condotta di Giovanni Falcone e che costituiranno il suo costante invito ai colleghi magistrati (3).

Caponnetto organizza a Palermo il primo pool antimafia della storia giudiziaria italiana. Il codice prevedeva il giudice monocratico, non il pool. Il che faceva sì che la lotta alla mafia fosse parcellizzata: si perseguivano i singoli delitti e le istruttorie venivano spezzettate. Caponnetto aggira l'ostacolo procedurale assegnando formalmente a sé tutte le pratiche, ma delegando il compimento dei singoli atti sempre allo stesso gruppo di magistrati, che si scambiano le informazioni e danno un senso logico a fatti che altrimenti sarebbero apparsi scollegati. Così la mafia viene affrontata come organizzazione unitaria. La decisione segna una grande svolta nel metodo giudiziario di lotta a 'cosa nostra'. I magistrati di cui si avvale Caponnetto sono Leonardo Guarnotta, il più anziano, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello, Giacomo Conte e Ignazio De Francisci. Con questa mezza dozzina completa il lavoro di indagine avviato da Chinnici e che porta allo spettacolare processo contro 'cosa nostra' siciliana. Inoltre, all'arresto di Vito Ciancimino e dei gabellieri Nino e Ignazio Salvo, avamposti della mafia nella società politica, degli affari e della finanza isolani.

Caponnetto coordina le indagini dei suoi collaboratori con mitezza e decisione tirando fuori da ognuno la parte migliore. Assiste con lucida mente giuridica Falcone e Borsellino nell'istruire la monumentale sentenza ordinanza di 8.607 pagine contro l'organizzazione mafiosa siciliana, i suoi intoccabili capi, gregari e manutengoli di ogni livello. Un fondamentale aiuto all'impostazione del pool lo danno nel 1984 le dichiarazioni del boss Tommaso Buscetta, secondo cui "cosa nostra" era un'organizzazione sostanzialmente unitaria, con una direzione rigidamente verticistica e piramidale, per cui i membri "della cupola" dovevano essere ritenuti i mandanti responsabili di tutti i delitti commessi dall'organizzazione. Alle indagini del pool danno un contributo sostanziale anche altri pentiti di mafia.

La mafia reagisce e fa massacro dei funzionari di polizia che sono i più temuti collaboratori del pool. Avuto sentore di un attentato a Falcone e a Borsellino, Caponnetto manda i due magistrati all'Asinara per completare la stesura del provvedimento che porterà al primo maxiprocesso. Questo inizia il 10 febbraio 1986 nell'aula bunker di Palermo e riguarda 456 imputati. La Corte di assise di Palermo, presieduta da Alfonso Giordano, pronuncia la sentenza il 16 dicembre 1987, dopo ventidue mesi di udienze e trentacinque giorni di camera di consiglio. Accogliendo la richiesta dei pubblici ministeri Giuseppe Ayala e Domenico Signorino, la Corte condanna all'ergastolo tutti i componenti "della cupola" (da Michele Greco a Filippo Marchese, da Salvatore Riina a Bernardo Provenzano e a Pino Greco). Infligge, inoltre, condanne complessive per 2.665 anni di carcere e multe per 11 miliardi e mezzo di lire. Stabilisce anche 114 assoluzioni con varie motivazioni; ne beneficia tra gli altri Luciano Liggio, in carcere dal 1974.

L'atto di accusa del pool supera tutti i gradi di giudizio fino a quello della Cassazione, il 30 gennaio 1992.

Il palazzo dei veleni

Le vicende giudiziarie del periodo hanno ripercussioni all'interno del Palazzo di Giustizia di Palermo anche per il sorgere di una seconda generazione di pentiti che si vogliono manovrati dalla mafia e che hanno un ruolo insidioso nel tentativo di destabilizzare alti personaggi, corpi politici e istituzioni pubbliche. I magistrati si dividono su questioni di principio e di metodo. Le dispute, però, sfociano ben presto in inquietanti aggressioni personali consumate attraverso la diffusione di scritti anonimi che pongono il Palazzo di Giustizia al centro di un'attenzione sempre meno benevola del sistema mediatico e dell’opinione pubblica. I veleni che si sprigionano investono anche i magistrati del pool e hanno un riverbero negativo immediato su Giovanni Falcone, che nel frattempo è divenuto uno degli uomini simbolo della lotta alla mafia.

Nel marzo del 1988, dopo quattro anni, Caponnetto lascia Palermo per tornare a Firenze. Egli parte sicuro che la nidiata del pool sia cresciuta abbastanza per proseguire da sola il lavoro impostato con il maxiprocesso. È convinto, inoltre, che, secondo la sua indicazione, Falcone gli subentri nell'incarico di consigliere istruttore. Invece, il Consiglio superiore della magistratura boccia la candidatura di Falcone e nomina il concorrente Antonino Meli privilegiando il criterio dell'anzianità. Caponnetto manifesta la sua delusione dimettendosi dal Csm.

L'ostilità della sinistra giacobina a Falcone

Contrariamente a quanto si è cercato di accreditare, a bocciare Falcone sono le correnti politiche e giudiziarie della sinistra radicale (Pds, la Rete e Magistratura democratica). Infatti, nel gennaio del 1988 quando al Csm è in discussione la nomina, l’esponente di Magistratura democratica, Elena Paciotti (4), motiva così la scelta a favore del concorrente di Falcone: «Quanto alle attitudini di entrambi i candidati in questione, più che in ogni altro caso, si segnala l'esperienza penalistica e la specifica trattazione di processi penali a carico di imputati di mafia. Se di straordinario valore è esperienza investigativa e la novità di impostazione delle indagini in questa materia del dottor Falcone, non si può ignorare l'accurata istruttoria dibattimentale condotta dal dottor Meli in uno dei più gravi processi di mafia di questi anni che riguardava l'omicidio Rocco Chinnici. E quanto alle capacità organizzative dei vari concorrenti [ ] non può negarsi che sussista anche per il dottor Meli, non tanto per la temporanea direzione da parte sua del tribunale di Caltanissetta in un periodo difficile, quanto per il lungo e lodevole svolgimento di funzioni di presidente di Corte d'Assise di primo e di secondo grado, che attesta capacità di direzione e di coordinamento dell'attività giudiziaria di soggetti diversi. Si addebita al dottor Meli di non aver mai svolto attività di giudice istruttore, ma neanche il dottor Caponnetto credo che avesse mai svolto simili attività».

La verità vera è però che lo schieramento giustizialista non perdonava a Falcone di avere bloccato e messo fuori gioco il pentito Giuseppe Pellegriti, che accusava Salvo Lima e Giulio Andreotti di essere i responsabili della morte di Piersanti Mattarella. Secondo la ricostruzione di Fabrizio Cicchitto e di Lino Jannuzzi - che ormai è diventata una verità incontrastata - la manovra contro l'eurodeputato dc era stata imbastita dietro le sbarre da Angelo Izzo, ex estremista nero, massacratore del Circeo e autore di altri efferati delitti. Izzo aveva detto a un pentito di mafia catanese, Giuseppe Pellegriti, che a commissionare il delitto Mattarella era stato Salvo Lima, consapevole Giulio Andreotti, e che l'esecutore materiale era stato tale Carlo Campanella. Pellegriti, dopo accenni al pm bolognese Libero Mancuso e all'alto commissario antimafia del tempo, Domenico Sica, informa Falcone. Falcone, non si lascia suggestionare dalla clamorosa rivelazione e dopo una rapida indagine scopre che il giorno dell'assassinio di Mattarella Campanella era in carcere. Contesta la circostanza a Pellegriti, il quale in breve cede e rivela che il suo suggeritore era stato Izzo. Dopo qualche altro riscontro, nell'ottobre del 1989 Falcone emette contro l'estremista nero e il mafioso mandati di cattura per calunnia aggravata. Nel marzo del 1991, alla richiesta di rinvio a giudizio per gli omicidi "eccellenti" commessi o commissionati da 'cosa nostra', Falcone e i magistrati del pool aggiungono quella nei confronti di Izzo e Pellegriti definiti «strumenti di un abile depistaggio smascherati da indagini che hanno finalmente rivelato in maniera inequivocabile come sia stato in realtà Angelo Izzo la vera fonte e l’ispiratore delle false rivelazioni di Pellegriti».

In previsione del colpo di scena, il 19 agosto 1989 l'esponente del Pds Luciano Violante (5) aveva scritto sul quotidiano del suo partito l'Unità: «Siamo vicini a una verità pericolosa che può squarciare il sipario che sinora ha nascosto gli assassini di Palermo».

«Falcone - scrive Cicchitto - deluse queste aspettative perché, dopo averlo interrogato, incriminò Pellegriti per calunnia. Le sinistre non hanno mai perdonato a Falcone di aver fatto perdere almeno tre anni di tempo all'attacco giudiziario contro Andreotti e alla criminalizzazione di tutta la Dc. Dieci anni dopo, il pubblico ministero del processo Andreotti, Roberto Scarpinato, parlando nel corso della requisitoria finale di Pellegriti, dice che stava per scattare su Andreotti una trappola infernale: "Una settimana ancora, forse un solo giorno, e Andreotti avrebbe ricevuto a Palazzo Chigi l'avviso di reato per associazione mafiosa e per l'assassinio di Mattarella". Andreotti, secondo Scarpinato, ne era terrorizzato, ci sarebbe stata inevitabilmente la crisi del suo governo e sarebbe comunque finita la sua carriera politica. "L'ha salvato Giovanni Falcone - afferma Scarpinato - che ha disinnescato quel giorno stesso la miccia. È corso a sentire Pellegriti a Bologna, è tornato a Palermo e ha incriminato il pentito per calunnia"».

«Scarpinato - conclude Cicchitto - si duole dunque di non aver potuto, per colpa di Falcone, mettere le mani su Andreotti con tre anni di anticipo, e non è il solo. Luciano Violante accusa Falcone di essere stato, quantomeno, "precipitoso". Leoluca Orlando non si trattiene più e si scatena...».

In Orlando si radica la convinzione che Falcone volesse proteggere Andreotti. E glielo contesta apertamente il 24 maggio 1990, durante una tesa puntata di 'Samarcanda', il programma televisivo condotto da Michele Santoro. «Falcone - dice Orlando - ha una serie di documenti sui delitti eccellenti ma li tiene chiusi nei cassetti, anzi, in otto scatole chiuse in un armadio».

L'accusa verrà ripetuta insistentemente anche da alcuni esponenti del suo movimento la Rete, tra cui Carmine Mancuso, presidente del Coordinamento antimafia di Palermo, e l'avvocato Alfredo Galasso, già deputato regionale del Pci.

Falcone risponde a Orlando su l'Unità invitandolo a fare i nomi e in caso contrario a stare zitto. E continuerà a dire che quelle carte non contenevano nulla di nuovo. Nella sentenza della Cassazione per l'attentato a Falcone del 29 luglio 1989 all’Addaura di Palermo si parla anche di quello che viene definito «l'infame linciaggio» del magistrato.

Falcone era stato sostanzialmente accusato di essersi piazzato la bomba da solo. È il comunista Gerardo Chiaromonte, defunto presidente dell'Antimafia, a scrivere che «i seguaci di Leoluca Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità».

La sentenza istruttoria sui delitti eccellenti

L'ostilità delle sinistre a Giovanni Falcone si trasforma in aperta avversione nel febbraio del 1991 quando, dopo dieci anni di indagine, il pool di magistrati da lui diretto deposita la sentenza istruttoria sui delitti di M Piersanti Mattarella, Michele Reina e Pio La Torre. Secondo il pool, allo stato degli atti risultava che i tre esponenti politici erano stati uccisi per mandato di 'cosa nostra' perché «il loro ruolo aveva creato e poteva creare un'azione di disturbo a una pluralità disomogenea di centri di imputazione di interessi illeciti» (6).

Le successive indagini non hanno modificato il quadro istruttorio delineato nella sentenza. Cade, dunque, l'ipotesi di una saldatura criminale tra mafia e politica, zelata da più parti e in particolare dal Pci-Pds, e di mandanti attribuiti più o meno esplicitamente all'area dc. Questa prospettiva addirittura si ribalta per quanto riguarda la fine di Pio La Torre. Stavolta la posizione del Pci è veramente «diversa», ma nel senso opposto a quello che da sempre i suoi esponenti hanno reclamato. Perché, se si vogliono caricare di responsabilità politica i tre fatti di sangue, l'unico partito chiamato in causa è quello comunista, sia per quanto riguarda il delitto del loro esponente, sia per altri aspetti di malcostume di solito attribuiti alle altre forze politiche. E, come sempre, per sospetti alimentati dall'interno dello stesso Pci. Il risultato di anni di parziale omologazione del Pci al sistema del malaffare negli anni veramente bui della Regione (gli Ottanta) è presentato in forma cruda nella requisitoria, che mette in subbuglio il mondo politico e dell’informazione per l’inedita chiamata in causa dell'ex Pci.

Il professore Elio Rossitto, a lungo esponente del Pci, nelle dichiarazioni rese ai magistrati ipotizza che il movente del delitto di La Torre «potrebbe essere individuato nel fatto che egli avrebbe fatto cessare un'altra "alleanza" tra il Partito comunista siciliano e Ciancimino (nonché i corposi interessi imprenditoriali e speculativi a quest'ultimo collegati) nel più lucroso "affare" del progetto per il risanamento della costa orientale di Palermo».

«Emergono chiaramente dalle risultanze istruttorie - afferma la requisitoria - le difficoltà che La Torre dovette riscontrare, all'interno del partito siciliano, nella sua opera di moralizzazione». Rossitto racconta ancora che nella gara-appalto per la costruzione del palazzo dei Congressi di Palermo un pezzo del partito, assieme a Vito Ciancimino, avrebbe appoggiato l'impresa Tosi - considerata vicina al Pci - in contrapposizione a Lima favorevole al gruppo Costanzo di Catania.

«Sia - dice Rossitto - che La Torre abbia provocato l'intervento all'Ars del Pci per evitare una prevaricazione ai danni di un'impresa estranea a corruttele e irregolarità, sia invece che almeno una parte del Pci fosse d'accordo proprio con Vito Ciancimino per pilotare, in cambio di notevoli somme di denaro, l'aggiudicazione dell'appalto, gli interessi in gioco erano forti». Per quell'affare - secondo Rossitto - al Pci sarebbero andati 480 milioni di vecchie lire.

Quindi è la volta di un altro militante comunista, Paolo Serra. Nell'istruttoria è detto che, subito dopo l'omicidio di La Torre, Serra invia ai magistrati una lettera ove suggerisce di indagare all'interno del Pci. In essa parla di progettazioni affidate dall'Italter a professionisti designati dal Pci, di appalti, di cooperative rosse, del progetto della Sailem sulla costa orientale di Palermo.

«È mia convinzione - dice Serra durante l'interrogatorio - che l'omicidio sia maturato anche all'interno del Pci palermitano». Serra viene subito dopo espulso dal partito. Così come le supposizioni di Rossitto, le accuse di Serra non trovano conferme, solo smentite e versioni contrapposte; ma -conclude la requisitoria - offrono lo spaccato di un partito entro al quale ci sono forti ostilità.

Le conclusioni del pool sono clamorose e suscitano un'ampia eco nel sistema informativo nazionale. Riportiamo, emblematicamente, come il 13 marzo 1991 la vicenda è proposta dal massimo quotidiano del Paese. Il Corriere della Sera annuncia nel titolo 'L'antimafia accusa i comunisti'; quindi riassume il contenuto della requisitoria così: «Molti sospetti senza sbocchi giudiziari dalla monumentale requisitoria dei magistrati palermitani: una rilettura della stagione dei grandi appalti - Una parte del Pci e Ciancimino insieme nel "Comitato d affari" - La tesi di un'opposizione "interna" all'opera moralizzatrice di La Torre - La posizione di Piersanti Mattarella: un alleato dell'andreottiano Lima - Reina, segretario provinciale della Dc, prima di essere ucciso era in guerra con Don Vito - I leader regionali del Pds annunciano querele». Gli ampi servizi dedicati dal Giornale di Sicilia alla vicenda - e in cui è rilevato che i comunisti sono stati colti «con le mani in pasta» - sono accompagnati da un editoriale dal titolo «Il Pci ha perso il pelo» del vicedirettore responsabile Giovanni Pepi.

La reazione pdiessina

La requisitoria scuote il Pds. I commenti dei suoi esponenti sono indignati. Per il segretario nazionale del partito Achille Occhetto la requisitoria è «fuorviante». Luigi Colajanni, che ha guidato per un certo periodo il Pci dell'Isola, la considera frutto di «un'operazione inaudita, con il rovesciamento dei fatti». E, in relazione alla chiamata in causa personale, precisa di avere lasciato «la consulenza Italter per le pressioni politiche». Pietro Folena, il giustiziere della sospetta classe dirigente comunista siciliana, la considera sbagliata, sconcertante e «governativa».

Le recriminazioni sono accompagnate dall'intento di portare la questione in sede giudiziaria. Ma, come è avvenuto in analoghe circostanze, delle querele annunciate nessuna approda nelle aule giudiziarie. In particolare si ricordano le querele annunciate dai dirigenti del Pci quando nel 1975, dopo lo scandalo dei «fondi neri» dell'Ems, l'onorevole Ludovico Corrao, avvocato del presidente dell'Ente Graziano Verzotto, affermò che questi aveva dato soldi anche al Pci, e quando nel 1984, prima di essere arrestato, il gabelliere Nino Salvo dichiarò di avere pagato tutti i partiti compreso il Pci.

L'avvocato Alfredo Galasso, che ha da poco lasciato il Pci, rilancia i sospetti di contiguità tra mafia e settori del partito. «Compagni, quante ombre a Palermo», dichiara al quotidiano milanese Il Giornale di Montanelli. Nelle polemiche si intromette anche Rossitto per precisare che con le sue dichiarazioni non ha voluto attaccare un partito, ma di nutrire dubbi sulle persone. Ed è proprio questa la distinzione che i comunisti non hanno mai voluto accettare, trovando politicamente più producenti le concezioni totalizzanti. Per convenienza o per cecità ideologica, essi non hanno voluto mai intendere che a colludere con la mafia sono gli uomini e non i partiti.

L'attacco del Pds e della Rete a Falcone

La Rete ha da qualche anno rilevato dai comunisti la tendenza a dare centralità politica alla lotta alla mafia e la persegue con una rappresentazione liturgica che aveva indotto Leonardo Sciascia a definire i suoi celebranti 'professionisti dell'antimafia'. Del resto l'insegnamento dell'ascoltato consigliere in clergyman, il gesuita Ennio Pintacuda, che «il sospetto è l'anticamera della verità», non poteva non generare fondamentalismo politico e appendici giudiziarie. Del sanguigno leader del movimento, Leoluca Orlando, non si possono disconoscere l’impegno antimafioso e i rischi personali corsi. Ormai però è divenuto il gran sacerdote della stagione giustizialista e i comunisti suoi ministranti. Egli dunque interviene a modo suo nella vicenda. Ma non per difendere la purezza del Pci-Pds quanto per criticare la sparizione dalla sentenza dei nomi di uomini politici che lui - dice - aveva fatto al magistrato, individuandoli - secondo quanto scrive la Repubblica - in «Ciancimino, Lima, Gunnella» (7). Per Carmine Mancuso, allora militante di prima grandezza della Rete, i giudici, «tacendo sui rapporti tra la mafia e i partiti, hanno perso l’occasione per arrivare alla verità».

Gli uomini della Rete chiedono, quindi, la riapertura dell'inchiesta perché, a loro giudizio, la requisitoria «è la giustizia dimezzata», «c’è stato lo stop anche davanti a Ciancimino e non c'è un solo socialista invischiato». Replica alle critiche il ministro dell'Interno Vincenzo Scotti (dc), invitando Orlando e chiunque abbia delle prove su persone e circostanze di fornirle alla magistratura (onus probandi incumbit ei qui dicit). I magistrati del pool, a loro volta, respingono le critiche sostenendo che questa volta non ci sono stati nemmeno pentiti che sostenessero supposizioni e sospetti.

Il punto più basso della polemica si ha con l'attacco diretto della Rete e del Pds a Falcone. Gli esponenti dei due partiti non esitano a esprimere insinuazioni ingenerose, che non possono trovare giustificazione neppure nel radicalismo che ispira il loro moralismo. La requisitoria, secondo Orlando, segna «la conferma del "teorema Falcone" sull'inesistenza del terzo livello e la testimonianza della normalizzazione del palazzo di giustizia». Il lemma normalizzazione al tempo è comune nel lessico politico. Nella circostanza, per estensione, assume il senso che il potere dominante è riuscito a ridurre a sottomissione e a piegare al proprio volere i giudici che hanno condotto l'inchiesta. Il giudizio di Folena sul carattere «governativo» della sentenza è altrettanto velenoso, poiché introduce il sospetto che essa possa essere collegato alla proposta al governo Andreotti del guardasigilli socialista Claudio Martelli di conferire a Falcone l'incarico di direttore generale degli affari penali del ministero di Grazia e giustizia. Gianni Parisi, al tempo capogruppo del Pds all'Ars, abbassa ulteriormente il livello della critica definendo la requisitoria «andreottianamartelliana».

Nel settembre dello stesso 1991 Orlando, Galasso e Mancuso firmano un dossier nel quale attaccano frontalmente Falcone chiedendogli conto del presunto insabbiamento di molti «casi sospetti»: i rapporti tra Lima e il boss Bontade, l'omicidio Insalaco, la loggia massonica Armando Diaz, il delitto Bonsignore. Il 15 ottobre Falcone è trascinato dinnanzi al Csm perché spieghi i motivi della mancata incriminazione di Lima dopo l'accusa di Pellegriti. È nel corso di una delle sedute del consesso che, richiamando la sura del corano Pintacuda-orlandiano («il sospetto è l'anticamera della verità»), Falcone afferma che il Csm è diventato una struttura da cui il magistrato si deve guardare e che rappresenta solo un luogo di lotta politica. «Quanti danni deve ancora produrre la politicizzazione della magistratura? Non si può investire tutto e tutti nella cultura del sospetto, la cultura del sospetto non è l'anticamera della verità ma l'anticamera del khomeinismo», afferma sgomento.

La Superprocura nazionale antimafia

È allora che Falcone sempre più delegittimato decide di accettare l'incarico del governo. Con la nomina la sequela delle ingiurie e delle accuse al magistrato non poteva che aumentare. E raggiunge l'apice quando Falcone propone l'istituzione della Procura nazionale antimafia (la cosiddetta Superprocura) come cuore del contrattacco alle cosche. Qui si arriva all'ostracismo. Una cordata di magistrati e politici di sinistra vi si oppone, manifestando il proprio dissenso nelle sedi istituzionali, sulla stampa e in pubbliche proteste. Falcone viene accusato di tradimento e megalomania. Sandro Viola su la Repubblica commenta: «Non si capisce come mai Falcone non abbandoni la magistratura. S'avverte l'eruzione di una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste dei guitti televisivi». Raffaele Bertoni, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati (Anm) accusa: «La Superprocura sarà per la magistratura quello che la cupola è per la mafia. Anzi, peggio». Persino Paolo Borsellino è il primo firmatario di un documento contro l'idea di Falcone: «Gli diceva: la superprocura è fatta su misura per te, chiunque altro dovesse prenderla in mano sarebbe un'altra cosa», racconta Rita Borsellino nel volume Falcone e Borsellino scritto da Giammaria Monti. Nel 1991 la «magistratura italiana» sciopera contro la legge istitutiva della Procura nazionale antimafia destinata a Falcone.

Ciononostante, il 26 ottobre 1991 il progetto è approvato. Nasce, così, la Direzione nazionale antimafia (Dna), un organismo diretto da un procuratore nominato dal Csm. A essa si affianca la Direzione investigativa antimafia (Dia) guidata dall'Alto commissario per la lotta alla mafia, che al momento è l'ex prefetto Angelo Finocchiaro.

Perduta la prima battaglia, la coalizione radicale si muove per evitare che la nomina al vertice della Dna vada a Falcone. Le ragioni dell'opposizione sono esposte in un articolo comparso il 12 marzo 1992 sull'organo ufficiale del Pds, l'Unità, a firma di Alessandro Pizzorusso, e così riassunto nel titolo: «Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché. Il principale collaboratore del ministro non dà più garanzie di indipendenza». In esso Pizzorusso afferma che «la collaborazione» fra il magistrato e il ministro socialista della Giustizia Claudio Martelli si è fatta così stretta «che non si sa bene se sia il magistrato che offre la sua penna al ministro, o se sia il ministro che offre la sua copertura politica al magistrato. La prima deduzione è che fra i magistrati è diffusa l’opinione secondo cui Falcone è troppo legato al ministro per poter svolgere con la dovuta indipendenza un ruolo come quello di procuratore nazionale antimafia. [ ] La terza deduzione è che, se i magistrati di Unicost votassero anche in plenaria a favore di Giovanni Falcone (il che è come dire votare a favore di Martelli, protagonista di attacchi al Csm e alla magistratura), essi perderebbero consensi fra i loro colleghi che il 22 marzo debbono eleggere il comitato direttivo centrale dell'Anm». La stessa Unità poco tempo prima aveva titolato così: «Falcone preferì insabbiare tutto».

Il voltafaccia della sinistra addolora ma - è pensabile - non sorprende più di tanto il magistrato. Egli è consapevole di aver deluso lo schieramento giustizialista per avere scoperto il gioco strumentale di Pellegriti. Sa che il voltafaccia non può essere disgiunto dalla requisitoria sui delitti eccellenti, nella quale ha mostrato di non condividere l'idea della giustizia fondata sul sospetto e non sulla prova, secondo il suo credo giuridico. Sa ancora che nel 1987 lo stesso schieramento si era opposto alla sua nomina a successore di Caponnetto alla Procura generale di Palermo, facendola fallire a favore di Meli, che poi la stessa sinistra non aveva mancato di crocifiggere. Ha presenti i tanti attacchi in cui gli si contestava di «tenere nei cassetti le prove dell'asse tra mafia e politica». Come affermare - venne allora rilevato - che in quei cassetti Falcone insabbiava la verità sulla morte di Mattarella, La Torre, Reina, Insalaco, Bonsignore, e così via.

Niente di occasionale o di specifico, dunque, nell'avversione delle sinistre nei suoi confronti. Ma c'è modo e modo di reagire. Il tentativo di sporcarne l'immagine con l'accusa di venduto e insabbiatore di processi non può essere giustificato dal considerare come tradimento che Falcone abbia accettato l'incarico di dirigere l'Ufficio centrale affari penali. Né, tantomeno, l'impegno in un governo presieduto da Giulio Andreotti, per la cui incriminazione al tempo le sinistre si muovevano. Ma fargli il torto di pensare che accettando la nomina egli abbia perduto l'indipendenza dal potere politico è un non volere tenere conto della moralità del magistrato e della sua etica professionale.

Comunque, l'operazione delle sinistre contro la nomina di Falcone a procuratore nazionale antimafia va a buon fine. Nonostante l'appoggio dell'allora capo dello Stato e presidente del Csm Francesco Cossiga, la maggioranza dell'organo boccia Falcone e gli preferisce Antonio Cordova, una scelta peraltro poi risultata ingombrante. Non è esagerato affermare che nella circostanza si consuma la prima «esecuzione» del magistrato, quella morale. La nomina di Cordova non trova il «concerto» del Guardasigilli che assieme al collega dell'Interno, il dc Vincenzo Scotti, pensa a Paolo Borsellino. Nuova reazione. Scendono in campo per Rifondazione comunista Girolamo Tripodi e Lucio Magri accusando Martelli di volere riaprire i termini della corsa alla Superprocura, con «l'intento palese di imporre al Csm un proprio candidato "affidabile", per assicurare al potere politico quel controllo sulle indagini di mafia che sin dall'emanazione del decreto aveva come scopo dichiarato di soggiogare il Pm a una struttura direttamente raccordata al potere politico». L'accusa, già rivolta per Falcone, stavolta colpisce, oltre ogni buona volontà, Paolo Borsellino. Poi gli eccidi di Capaci e via D'Amelio tolgono ogni incombenza agli avversari dei due magistrati. Il 30 ottobre la scelta cade su Bruno Siclari.

Il 17 dicembre 1993 Giancarlo Caselli, di area Pds, è nominato procuratore capo di Palermo. Caselli viene con la voglia di mandare in galera gli uomini pubblici collusi, senza accanirsi contro specifici settori politici. Le carte con le accuse che Falcone avrebbe nascoste non hanno storia. E non certamente per un atto di riguardo ai defunti. Caselli, peraltro, troverà materia di intervento a sinistra e non esiterà a mettere in moto l'inchiesta sulle cooperative rosse che investiranno pesantemente esponenti e settori del Pds. Nel 1999 Caselli lascerà Palermo con il compiacimento di avere mandato in galera 1768 sospetti e il rammarico di avere ottenuto l'ergastolo per 116 mafiosi e nessun politico, pur avendo avuto la possibilità di attingere alle fonti che elaboravano liste di colpevoli in attesa di reato. A testimonianza che altro è accusare, altro fornire prove certe.

Nel 1995, Luciano Violante, pur dichiarando di essere stato favorevole a Falcone, riconferma la validità delle ragioni che hanno spinto il suo partito a opporsi alla sua nomina. Queste ragioni - spiega - risiedono nel fatto che il magistrato «era direttore al Ministero e quindi il passaggio alla Superprocura sembrava un'anomalia, mentre quello da un ufficio giudiziario all'altro, come per il concorrente, era più semplice». Ma il comportamento usato anche nei confronti di Borsellino svuota di ogni ragione «tecnica» le «ragioni» del Pds.

Nel 1999 Emanuele Macaluso, nel saggio 'Mafia senza identità' edito da Marsilio, afferma che i giacobini non possono vincere la mafia e che soltanto con la buona politica si riuscirà a sconfiggere un male storico d'Italia. Nello stesso anno Macaluso accusa i ds di schizofrenia nella lotta alla mafia.

La vendetta della mafia

Agli insulti Falcone risponderà con il martirio. Nel primo pomeriggio del 22 maggio 1992, sull'autostrada che da Punta Raisi doveva portarlo a respirare brevemente gli affetti familiari, la mafia, pur di eliminarlo, compie una strage. Nell'attentato muoiono con il magistrato la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Resta in vita soltanto l'agente Giuseppe Costanza che viaggiava sull'automobile guidata da Falcone. La stessa sorte tocca a Paolo Borsellino che il 19 luglio muore in via D'Amelio a Palermo straziato da un'autobomba fatta esplodere dalla mafia mentre si apprestava a fare una fugace visita alla madre. Con lui periscono anche gli agenti della scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Claudio Traina, Vincenzo Lo Muti e Eddie Walter Cosina.

Dopo l'assassinio di Falcone, tutti a piangere, a recriminare e a esaltare la vittima pura del dovere. In particolare l'atteggiamento dei magistrati provoca sconcerto in quanti sono consapevoli del reale andamento delle cose. Valga per tutte la clamorosa reazione del sostituto procuratore della Repubblica di Milano, Ilda Boccassini, che accusa i colleghi e in particolare Gherardo Colombo: «Anche voi - afferma - avete fatto morire Falcone con la vostra indifferenza, le vostre critiche. Voi che diffidate di lui. Due mesi fa ero a Salerno in assemblea dell'Anm. Non dimenticherò quel giorno. Le parole più gentili erano queste: Falcone si è venduto al potere politico. E tu, Gherardo Colombo, tu che diffidavi di Giovanni che sei andato a fare al suo funerale? L'ultima ingiustizia l'ha subita proprio da voi di Milano, gli avete mandato una rogatoria per la Svizzera senza gli allegati. Mi telefonò quel giorno e mi disse: "Che tristezza, non si fidano del direttore degli Affari penali"».

L'«appropriazione indebita» delle sinistre nel decennale dell'assassinio di Falcone

Subito dopo, le sinistre, e in primo luogo i Ds, fanno di tutto per «appropriarsi» della memoria del magistrato. Nel 2002, decennale della morte, le sinistre, con una delle consuete giravolte comportamentali, celebrano Giovanni Falcone come un eroe. È, in ogni caso, un gesto che va apprezzato, perché testimonia di un radicale cambiamento di giudizio che Falcone merita. E non solo per il suo martirio, ma come riconoscimento del suo modo di amministrare giustizia.

Però, nonostante i trascorsi, anche in questa occasione le sinistre, con in testa il diessino Luciano Violante, ex presidente della Camera, e l'esponente dei Comunisti italiani Oliviero Di Liberto, già Guardasigilli, non rinunciano al gioco politico e pretendono di verificare i titoli a celebrare «Giovanni». Forse per distrarre dall'analisi dei propri. Nel dibattito su questa pretesa, ancora una volta le critiche più aspre alle sinistre provengono dall'interno. Giuseppe Ayala, deputato nazionale d'area, sollecitato dal Corriere della Sera, afferma che con Falcone hanno sbagliato tutti e che qualcuno, come la preferenza a sinistra per il concorrente all'incarico di Superprocuratore, «fu più doloroso degli altri perché proveniente dalla parte da cui meno se l'aspettava».

Su la Repubblica, ancora Ilda Boccassini rileva che in dieci anni nessuno dei colleghi e degli esponenti politici di sinistra ha pronunziato una sola parola di autocritica per i torti arrecati a Falcone. Nella sua «requisitoria» ricorda ancora che la «magistratura italiana» nel 1991 scioperò contro la legge istitutiva della Procura nazionale antimafia destinata a Falcone. E inoltre che per bloccarne la candidatura due togati di sinistra del Csm non esitarono ad accusare Falcone di essere un «venduto».

«Delle due l'una - conclude la Boccassini -. O quelle accuse erano fondate, e allora non si beatifichi come eroe un magistrato che ha fatto commercio della sua indipendenza, o quelle accuse erano, come sono, calunnie, e gli artefici avvertano la necessità di fare pubblica ammenda».

Ma la Boccassini non si ferma qui. Allo stesso quotidiano il magistrato dichiara: «I burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni» orchestrata a suo tempo contro Giovanni Falcone affollano «le cattedrali e i convegni» quando si celebra il magistrato ucciso dieci anni fa. Come se «la sua esistenza fosse stata premiata da pubblici riconoscimenti o apprezzamenti nella sua eccellenza». Mentre non c'è stato un uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità».

Se non fosse banale l'idea che la mafia uccide chi è lasciato solo, qui un richiamo a certe impensabili diaspore sarebbe d'obbligo. E una domanda altrettanto doverosa. Se, come si è visto, le sinistre prima del martirio «hanno lasciato solo» Falcone, a parti invertite, quale sarebbe stata, dopo Capaci, la loro reazione nei confronti degli avversari?

L'uso stucchevole di Giovanni (e Paolo)

Oltre al tentativo di appropriarsi della memoria di Falcone, dopo la strage di Capaci comincia, ed è viva tuttavia, la gara a chi gli era maggiormente amico. Con essa si afferma l'uso stucchevole di «Giovanni» con cui i parenti tendono a rendere familiare il magistrato, e che amici, reali e presunti, assumono a ideale misura della loro prossimità. Una buona intenzione può essere il volere restituire a dimensione umana chi nell'esercizio del mandato ha dovuto agire in termini di codici e di giustizia e ha dovuto rifarsi ai rigori della dura lex. O quella di rendere partecipi tutti del valore del sacrificio e della testimonianza del martire. Ma l'uso insistito, che si trasforma spesso in autoreferenziale abuso, svilisce le migliori intenzioni. Lo stesso è avvenuto per «Paolo» Borsellino.

Che Falcone e Borsellino, dunque, abbiano cominciato a morire con l'attacco di Sciascia ai professionisti dell'antimafia, come a sinistra una certa vulgata ha teso ad accreditare - è una fola. Le difficoltà maggiori e le offese peggiori i due martiri le hanno incontrate nel campo che ritenevano amico.

Il 23 luglio del 2007 Rai Tre ha trasmesso in prima serata un documentario, regista Mario Turco, in cui lo scrittore e giornalista Alexander Stille, esamina il rapporto fra la mafia siciliana e la Prima Repubblica. Il filmato chiude con il seguente ammonimento: «In un altro Paese uomini che hanno fatto queste cose sarebbero stati ritenuti eroi».

Intanto sorge spontaneo sottolineare la inutilità dell'ammonimento in quanto nel nostro Paese pochissimi santi del calendario vengono celebrati alla pari nella ricorrenza della passione di Falcone e Borsellino. Piuttosto si potrebbe dire che in un altro Paese chi consapevolmente tace sull'ostruzionismo delle sinistre radicali a Falcone e Borsellino non avrebbe cittadinanza nel campo della storiografia o del giornalismo d'indagine.

(1) Volume scritto in collaborazione con Marcelle Padovani, Rcs Libri & Grandi Opere S.p.A., Milano

(2) Chinnici era stato ucciso dalla mafia il 29 luglio 1983.

(3) Siciliano di origine, (era nato a Caltanissetta il 5 settembre del 1920), a dieci anni Caponnetto si trasferisce a Firenze, dove passa la prima giovinezza, compie gli studi e si avvia alla carriera nella magistratura, amministrando giustizia soltanto in Toscana. Ottiene il primo incarico nel 1954, come pretore a Pistoia; lavora quindi per tredici anni alla Procura della Repubblica di Firenze; è giudice di sorveglianza ancora a Firenze, e nel 1979 è assegnato alla Procura generale di quella città. Antonino Caponnetto è stato considerato da sempre e da tutti un galantuomo. Credente, è mite, gentile e colto (sul comodino della stanza da letto teneva e meditava sulle Confessioni di Sant Agostino e la Recherche di Marcel Proust). Timido e fragile all’apparenza era interiormente un combattente deciso, coraggioso e saggio. Quando arriva a Palermo, è praticamente sconosciuto nella sua Sicilia.

(4) La Paciotti assumerà successivamente l’incarico di presidente dell’Associazione nazionale magistrati ed in atto è deputato europeo dei Democratici di sinistra.

(5) Magistrato, Luciano Violante è stato deputato del Pci dal 1979, poi del Pds e dei Ds, presidente della Commissione antimafia (1993-1996) e della Camera dei deputati (1996-2001). Dal 2001 al 2006 è stato capogruppo dei Ds.

(6) Come mandanti di tutti e tre gli omicidi, secondo il teorema Buscetta, sono indicati i componenti della Cupola: Salvatore Riina; Michele Greco; Bernardo Provenzano; Pippo Calò; Bernardo Brusca; Francesco Madonia. Come esecutori materiali dei singoli delitti le richieste di rinvio a giudizio riguardano Nenè Geraci (Michele Reina, 9 marzo 1979) e Rosario Riccobono (scomparso); Pino Greco «Scarpuzzedda» (Pio La Torre, 30 aprile 1982); i terroristi neri Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini (Piersanti Mattarella, 6 gennaio 1980).

(7) Cfr. l’edizione del 14 marzo 1991. Aristide Gunnella era il segretario regionale del Pri. A conferma della superiorità con cui Orlando tratta gli stessi comunisti, alle elezioni regionali di qualche mese dopo (giugno 1991), riapre la questione morale a sinistra, e afferma che «se arriva un avviso di garanzia è giusto che Occhetto e D Alema si ritirino. Cfr. Corriere della Sera, Milano 18 marzo 1991.

I diari del giudice Falcone e i buchi neri della magistratura di Palermo. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS su editorialedomani.it il 20 ottobre 2021. Nei suoi appunti Falcone racconta in modo vivido quello che stava accadendo nelle stanze della Procura di Palermo, facendo un continuo riferimento ad “un personaggio inespresso” di manzoniana memoria, il procuratore Pietro Giammanco. Il 25 giugno, Paolo Borsellino confermerà l’autenticità dei diari nel corso del suo intervento alla Biblioteca Comunale di Palermo

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata al depistaggio sulla strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

In quei suoi appunti Falcone racconta in modo vivido quello che stava accadendo nelle stanze della Procura di Palermo, facendo un continuo riferimento ad “un personaggio inespresso” di manzoniana memoria, il procuratore Pietro Giammanco.

Il giorno dopo, il 25 giugno, Paolo Borsellino confermerà l’autenticità dei diari nel corso del suo intervento alla Biblioteca Comunale di Palermo:

“…io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul “Sole 24 Ore” dalla giornalista Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi.”

GLI APPUNTI DI FALCONE

- 1990) _ si è lamentato col maggiore Inzolia di non essere stato avvertito del contrasto fra PS e CC a Corleone su Riina (primi di dicembre 1990);

- ha preteso che Rosario Priore gli telefonasse per incontrarsi con me e gli ha chiesto di venire a Palermo anziché andare io a Roma (7 dicembre 1990);

- si è rifiutato di telefonare a Giudiceandrea (Roma) per la Gladio, prendendo pretesto dal fatto che il procedimento ancora non era stato assegnato ad alcun sostituto (7 dicembre 1990);

- ha sollecitato la definizione di indagini riguardanti la Regione al cap. CC. De Donno (procedimento affidato ad Enza Sabatino), assumendo che altrimenti la Regione avrebbe perso finanziamenti. Ovviamente, qualche uomo politico gli ha fatto questa sollecitazione ed è altrettanto ovvio che egli prevede un'archiviazione e che solleciti l'ufficiale dei CC. in tale previsione (Intorno al 10 dicembre 1990);

- nella riunione di pool per la requisitoria Mattarella, mi invita in maniera inurbana a non interrompere i colleghi infastidito per il fatto che Lo Forte ed io ci eravamo alzati per andare a fumare una sigaretta, rimprovera aspramente il Lo Forte (13 dicembre 1990);

- 18.12.1990 Dopo che, ieri pomeriggio, si è deciso di riunire i processi Reina, Mattarella e La Torre, stamattina gli ho ricordato che vi è l'istanza della parte civile nel processo La Torre (PCI) di svolgere indagini sulla Gladio. Ho suggerito, quindi, di richiedere al G.I. di compiere noi le indagini in questione, incompatibili col vecchio rito, acquisendo copia dell'istanza in questione. Invece, sia egli sia Pignatone insistono per richiedere al GI soltanto la riunione riservandosi di adottare una decisione soltanto in sede di requisitoria finale. Un modo come un altro per prendere tempo;

- 19.12.1990. Altra riunione con lui, con Sciacchitano e con Pignatone. Insistono nella tesi di rinviare tutto alla requisitoria finale e, nonostante io mi opponga, egli sollecita Pignatone a firmare la richiesta di riunione dei processi nei termini di cui sopra;

- 19.12.1990. Non ha più telefonato a Giudiceandrea e così viene meno la possibilità di incontrare i colleghi romani che si occupano della Gladio;

- 19.12.1990. Ho appreso per caso che qualche giorno addietro ha assegnato un anonimo su Partinico, riguardante fra gli altri, l'on. Avellone, a Pignatone, Teresi e Lo Voi, a mia insaputa (gli ultimi due non fanno parte del pool);

-10.1.1991. - I quotidiani riportano la notizia del proscioglimento, da parte del G.I. Grillo, dei giornalisti Bolzoni e Lodato, arrestati per ordine di Curti Giardina tre anni addietro con imputazione di peculato. Il G.I. ha rilevato che poteva trattarsi soltanto di rivelazione di segreti di ufficio e che l'imputazione di peculato era cervellotica. Il PM Pignatone aveva sostenuto invece che l'accusa in origine era fondata ma che le modificazioni del codice penale rendevano il reato di peculato non più configurabile. Trattasi di altra manifestazione della "furbizia" di certuni che, senza averne informato il pool, hanno creduto, con una "ardita" ricostruzione giuridica, di sottrarsi a censura per una iniziativa (arresto dei giornalisti) assurda e faziosa di cui non può essere ritenuto responsabile certamente il solo Curti Giardina, Procuratore Capo dell'epoca;

-16.1.91. Apprendo oggi che, durante la mia assenza, ha telefonato il collega Moscati, sost. Proc. Rep. a Spoleto, che avrebbe voluto parlare con me per una vicenda di traffico di sostanze stupefacenti nella quale era necessario procedere ad indagini collegate; non trovandomi, il collega ha parlato col capo che, naturalmente, ha disposto tutto ed ha proceduto all'assegnazione della pratica alla collega Principato, naturalmente senza dirmi nulla. Ho appreso quanto sopra solo casualmente, avendo telefonato a Moscati;

-17.1.1991. Solo casualmente, avendo assegnato a Scarpinato il fascicolo relativo a Ciccarelli Sabatino, ho appreso che Sciacchitano aveva proceduto alla sua archiviazione senza dirmi nulla. Ho riferito quanto sopra al capo che naturalmente è caduto dalle nuvole. Sul Ciccarelli, uomo d'onore della famiglia di Napoli, il Capo mi ha esternato preoccupazioni derivanti dal fatto che teme di contraddirsi con le precedenti, note, prese di posizione della Procura di Palermo in tema di competenza nei processi riguardanti Cosa Nostra;

- 26.1.1991- Apprendo oggi, arrivato in ufficio, da Pignatone, alla presenza del capo, che egli e Lo Forte, quella stessa mattina si erano recati dal cardinale Pappalardo per sentirlo in ordine a quanto riferito, nel processo Mattarella, da Lazzarini Nara. Protesto per non essere stato previamente informato sia con Pignatone sia col capo, al quale faccio presente che sono prontissimo a qualsiasi diverso mio impiego ma che, se si vuole mantenermi al coordinamento delle indagini antimafia, questo coordinamento deve essere effettivo. Grandi promesse di collaborazione e di lealta' per risposta;

- 6.2.1991. Oggi apprendo che Giammanco segue personalmente un'indagine affidata da lui stesso a Vittoria Randazzo e riguardante dei CC. di Partinico coinvolti in attività illecite. Uno dei CC. è stato arrestato a Trapani e l'indagine sembra abbastanza complessa. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS

 Le faide e i tradimenti per fermare a tutti i costi le indagini di Falcone. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS su editorialedomani.it il 21 ottobre 2021. Per comprendere la profondità di quel conflitto, che emerge pubblicamente per la prima volta in tutta la sua asprezza attraverso le pagine dei diari di Falcone, è utile ricostruirlo attraverso le parole dello stesso Giammanco e quelle di segno opposto degli altri magistrati palermitani ascoltati dal CSM nel luglio del ’92

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata al depistaggio sulla strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

“Per prima cosa ne parlerò all’Autorità Giudiziaria” dice Borsellino, ma l’esplosivo di via D’Amelio compirà il suo lavoro prima che ciò possa avvenire.

Come ci portano i diari di Falcone al depistaggio sulla strage di via D’Amelio? Certamente ci aiutano a definire un contesto ambientale (la procura di Palermo) ed un conflitto professionale (quello che oppone, come detto, il procuratore Giammanco prima a Giovanni Falcone, poi a Paolo Borsellino). Ed entrambi, contesto e conflitto, incideranno sull’isolamento di Borsellino e sul successivo sviamento delle indagini di via D’Amelio.

Per comprendere la profondità di quel conflitto, che emerge pubblicamente per la prima volta in tutta la sua asprezza attraverso le pagine dei diari di Falcone, è utile ricostruirlo attraverso le parole dello stesso Giammanco e quelle – di segno opposto - degli altri magistrati palermitani ascoltati dal CSM nel luglio del ’92 (sulla genesi di quel ciclo di audizioni riferiremo a breve).

In prima battuta è il procuratore generale di Palermo Bruno Siclari a cercare di gettare acqua sul fuoco su alcune delle accuse più dirette rivolte da Giovanni Falcone a Giammanco, come accade ad esempio per il caso “Gladio”, o ancora laddove il giudice Falcone aveva scritto: “…(Giammanco) ha sollecitato la definizione di indagine riguardanti la Regione al Capitano De Donno (procedimento affidato ad Enza Sabatino) assumendo che altrimenti la Regione avrebbe perso finanziamenti, ovviamente qualche uomo politico gli ha fatto questa sollecitazione ed è altrettanto ovvio che egli prevede un archiviazione e che solleciti l'ufficiale dei Carabinieri in tale previsione (intorno al 10 dicembre 1990)”.

Evasivo Giammanco durante la sua testimonianza al CSM:

GIAMMANCO già Procuratore della Repubblica di Palermo. Ho sollecitato perché la collega per più di un anno si è tenuta un fascicoletto di atti relativi, che teneva bloccato un appalto. Si trattata di un appalto già concesso dalla Regione ad una grossa società di progettazione, che avrebbe fatto perdere, credo, 54 o 64 milioni. L’ho sollecitato, certamente non perché mi sia mai stato sollecitato da nessuno…

IL RACCONTO DELLA PM SABATINO

Diversa la versione offerta dalla dottoressa Enza Sabatino che conferma la veridicità dell’annotazione di Giovanni Falcone: era stata la Presidenza della Regione a contattare Giammanco.

SABATINO, sostituto procuratore generale presso la Corte d’ Appello di Palermo. Successe che un giorno il procuratore ha voluto questo fascicolo… Dopo di che mi chiamò dopo un po’ di giorni… mi disse: «se vieni nella mia stanza» e mi ha detto: «ho visto questo fascicolo», io mi meravigliai, «dalla Presidenza della Regione vogliono sapere se si chiude, perché ci sono problemi, praticamente problemi di finanziamenti…» e mi chiese che cosa intendessi fare. Gli dissi che intendevo fare delle indagini… Allora lui: «vedi di fare presto».

Per Giammanco, in ogni caso, quei diari di Falcone non sono un problema: la sua reazione è quella di minimizzarli usando toni sprezzanti.

GIAMMANCO, già Procuratore di Palermo. Quanto al cosiddetto “diario” che è stato pubblicato, le pochissime annotazioni che mi riguardano… sono relative a circostanze assolutamente di basso profilo, veramente banali, appaiono con ogni evidenza quale espressione di reazioni umorali che non potevano che essere passeggere, tra persone che collaboravano, quasi uno sfogo che (Falcone, ndr.) dopo un po' non poteva non dimenticare. È inverosimile, difatti, conoscendo il suo carattere franco e leale, che egli scrivesse o dicesse in giro, qualcosa solo per giustificare con una certa area politica il proprio allontanamento da Palermo.

PER GIAMMANCO NON C’ERANO PROBLEMI

Insomma, quelle di Falcone sarebbero “reazioni umorali passeggere”, propalate solo per giustificare la sua scelta di accettare l’incarico romano. Il clima era invece di “collaborazione”; il rapporto, “franco e leale”.

Falso. Ascoltiamo Roberto Scarpinato, Vittorio Teresi e Teresa Principato.

SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello Palermo. Partirei dall'ultimo giorno in cui Giovanni Falcone sta in procura. C’è una riunione alla quale partecipa il procuratore Giammanco… eravamo in cinque o sei e Falcone dice in tono acceso al Procuratore Giammanco: «io non condivido il tuo modo di gestire l’ufficio». (…) Giovanni Falcone lamentava il fatto di essere, come dire, bypassato, in momenti cruciali o da lui ritenuti cruciali, nella gestione di alcuni processi… I problemi venivano da lui avvertiti quando si passava dalla normale amministrazione, tra virgolette, in materia di mafia, a livelli superiori. E per esempio il caso Gladio…

***

TERESI, già Procuratore aggiunto a Palermo. Ero consapevole, per essere molto vicino a Giovanni e ad altri colleghi che con lui e con me lavoravano, che non c'era proprio un'identità di intenti nella gestione generale e nel coordinamento dei processi di mafia all'interno dell'ufficio.

***

PRINCIPATO, Procuratore aggiunto di Palermo. Io ricordo che Giovanni Falcone, nella sua stanza, mi disse: «Hai visto che cosa succede? Io sono stato totalmente esautorato. Io in questa procura non ho cosa più cosa fare, anzi, io me ne vado e vi raccomando una cosa, andatevene anche voi, perché la vostra presenza qui non fa altro che legittimare questo sistema, di mettere il coperchio a questa situazione, che invece prima o poi dovrà esplodere».

Toccherà alla professoressa Maria Falcone offrire ai consiglieri del CSM spunti di riflessione di straordinaria rilevanza: certifica l’ostruzionismo patito dal fratello e, soprattutto, il fatto che quest’ultimo ritenesse Giammanco politicamente un intoccabile.

MARIA FALCONE. Giovanni diceva spesso questa frase: «io non posso competere con gli appoggi politici di Giammanco, io sono un magistrato soltanto… che vuole fare il suo dovere e che spesso sono stato sconfitto nelle varie contese» COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS

IL DEPISTAGGIO SU VIA D’AMELIO. La rivolta dei pm di Palermo contro il procuratore capo Giammanco. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS su editorialedomani.it il 23 ottobre 2021. Ecco il clima in cui Borsellino trascorre quei due mesi scarsi di vita che gli restano, la fatica di quei giorni, incisa nel ricordo e nelle parole di molti suoi colleghi, raccolte nel ciclo di audizioni che si svolgono dinanzi al CSM dopo la strage di via D’Amelio, tra il 28 e il 31 luglio 1992. Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata al depistaggio sulla strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Ostacolato, isolato, professionalmente emarginato, Falcone sceglie di andare a Roma. Borsellino invece resta a Palermo: dopo la morte dell’amico, sente su di sé la responsabilità di dover far tutto ciò che è nelle sue possibilità per ottenere la verità sulla strage di Capaci. È proprio in quei 57 giorni che il rapporto con il procuratore Giammanco s’incrina sempre di più. Fino all’ultima telefonata, la mattina del 19 luglio, su cui torneremo più avanti. Ci interessa qui ricostruire il clima in cui Borsellino trascorre quei due mesi scarsi di vita che gli restano, la fatica di quei giorni, incisa nel ricordo e nelle parole di molti suoi colleghi, raccolte nel ciclo di audizioni che si svolgono dinanzi al CSM dopo la strage di via D’Amelio, tra il 28 e il 31 luglio 1992.

LA LETTERA DELLA DDA DI PALERMO

Tutto nasce da un documento molto critico che il 23 luglio otto componenti della DDA di Palermo (Ignazio De Francisci, Giovanni Ilarda, Antonio Ingroia, Alfredo Morvillo, Antonio Napoli, Teresa Principato, Roberto Scarpinato e Vittorio Teresi) redigono per mettere nero su bianco le criticità che affliggono la procura retta da Giammanco e le condizioni di assoluta insicurezza in cui si svolge il loro lavoro. Lo fanno mettendo sul banco le proprie dimissioni dall’ufficio, affinchè sia chiara a tutti la gravità delle loro rimostranze e l’urgenza delle preoccupazioni.

SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello Palermo. Dopo la strage di via D’Amelio io prendo l’iniziativa di scrivere un documento, che sono stato costretto a riscrivere quattro volte, perché mi sono fatto il giro di quaranta stanze di sostituti e non riuscivo a raccogliere una firma, e allora l’ho scritto, l’ho riscritto… e non ho avuto adesioni neppure da persone di cui mi sarei aspettato la firma... Alla fine sono riuscito, con l’ultima versione, ad avere otto firme. Quel documento nella sostanza, dopo un cappello che riguardava la sicurezza, diceva che Giammanco non poteva restare alla procura della Repubblica. Non è che fu una cosa facile perché Giammanco era un potente. Il Consiglio Superiore della Magistratura ci convocò e non si sapeva se avrebbero trasferito lui o noi: questa era la partita in gioco.

Un atto di sfiducia senza condizioni. Così lo racconta Andrea Purgatori in un suo articolo del 24 luglio 1992.

E adesso sulla scrivania del procuratore capo Pietro Giammanco, anzi sul tavolo di casa, visto che da 24 ore è “malato”, ci sono le richieste di dimissioni di otto collaboratori. Otto magistrati che con un gesto clamoroso abbandonano la Direzione distrettuale antimafia. Non è una “resa”… ma una «forte denuncia» della necessità che venga riaffermato il «principio di responsabilità» e della gravissima «mancanza di volontà politica, inefficienza amministrativo-organizzativa e impreparazione tecnica che hanno impedito al Viminale e agli organi di polizia di svolgere sul campo un’efficace prevenzione del terrorismo mafioso», di «proteggere i bersagli più esposti e sventare stragi annunciate». Un atto d’accusa che colpisce il sistema giudiziario al più alto livello nella persona di Giammanco (una guida “non” autorevole evidentemente) come le strutture dello Stato (con il ministero dell’Interno in testa).

(…) «Siamo ancora disposti anche a sacrificare le nostre vite, ma a condizione di sentirci partecipi di uno sforzo collettivo» dicono gli otto. Ma nulla potrà cambiare se la Procura non recupererà «quella unità di intenti, quello spirito di collaborazione, che oggi appaiono compromessi». Una situazione insostenibile «com’è dimostrato dall’esistenza di divergenze se non da spaccature divenute financo di pubblico dominio dopo la strage di Capaci, ulteriormente acuitesi dopo la strage di via D’Amelio, divergenze e spaccature che solo una guida autorevole e indiscussa potrebbero ricomporre e sanare». (…) L’invito al Procuratore capo perché si faccia da parte è secco. Corroborato dalla «piena solidarietà ai colleghi dimissionari» da parte di altri nove giovani magistrati della Procura.

L’istruttoria è affidata al “Comitato Antimafia” del CSM. Quattro giorni di sedute a porte chiuse in cui emergono tutte le tensioni e le contraddizioni che animano il distretto giudiziario palermitano. Alla fine il procuratore Giammanco, uno dei primi ad essere sentito, negherà tutte le accuse mossegli rifugiandosi dietro una domanda di trasferimento che verrà accolta nel giro di poche ore [nell’agosto dello stesso anno].

Di quei verbali si perderà ogni traccia per ventotto anni. Verranno secretati e messi da parte: perché?

IL CSM E GIOVANNI FALCONE

Una risposta prova ad offrircela, nel corso della sua audizione, il giornalista Salvo Palazzolo.

PALAZZOLO, giornalista de La Repubblica. Io ho cercato di approfondire con i componenti dell’epoca del CSM, ma ho incontrato una certa ritrosia e, sostanzialmente, nessuna spiegazione plausibile… Forse all’epoca c’era la preoccupazione di mettere nel circolo le attenzioni di Borsellino. Ricordo quando ebbi la possibilità di fare una conversazione lunga con la signora Agnese Borsellino, la signora Agnese mi raccontava che nei primi tempi lei era invitata a incontri importanti, ma il motivo era sempre uno: autorevoli rappresentanti dello Stato, rappresentanti delle forze dell’ordine, esponenti della magistratura le facevano sempre la stessa domanda: «Paolo cosa aveva scoperto? Cosa stava facendo Paolo?».

Ancora più netta è la valutazione di uno degli otto firmatari di quel documento, l’avvocato Antonio Ingroia. Non era un caso, ci dice durante l’audizione, che quei verbali fossero finiti “nel dimenticatoio nazionale”:

INGROIA, già magistrato. È lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura che aveva bocciato più volte Giovanni Falcone… Così come qualche anno prima Paolo Borsellino aveva rischiato di essere sottoposto a procedimento disciplinare perché aveva rilasciato un’intervista dove aveva denunciato il calo di tensione sulla lotta alla mafia… la vicenda Meli, Falcone, eccetera…

E ancora, aggiunge Ingroia, c’era il timore fondato che potesse passare un messaggio sbagliato, quello della protesta come strumento dialettico “vincente” in seno all’organo di autogoverno della magistratura.

INGROIA, già magistrato. Alcuni componenti, quelli più ‘vicini’ – tra virgolette - alla nostra posizione, ci comunicarono, come indiscrezione, che stavamo rischiando di essere sottoposti a procedimento disciplinare perché avevamo osato ribellarci al capo.

FAVA, presidente della Commissione. Per la lettera che avevate scritto.

INGROIA, già magistrato. Per la lettera degli otto, perché altrimenti passava il principio che basta una ribellione di alcuni Pm per rimettere in discussione l’autorità del capo dell’ufficio.

FAVA, presidente della Commissione. Ovvero, basta una strage di mafia per esprimere qualche perplessità sulla sicurezza.

INGROIA, già magistrato. Esatto. Nel contempo, però, qualcuno consigliò a Giammanco, in modo – con tutto il rispetto del termine che userò – molto democristiano, di fare domanda per andare via, andare in Cassazione. Così lui fece e il CSM ha chiuso: non era accaduto nulla, nessuno era stato sottoposto a procedimento disciplinare, Giammanco aveva tolto il disturbo. Poi venne Caselli e tutto passò in cavalleria.

L’ex Pm non si risparmia, in conclusione, un’ulteriore riflessione su quella secretazione durata decenni.

INGROIA, già magistrato. In occasione di un anniversario, non ricordo quale, il CSM si vantò di avere proceduto alla desecretazione di tutte le audizioni che riguardavano Falcone e Borsellino: vero, furono desecretate quelle in cui avevano parlato loro, Falcone e Borsellino, da vivi. Ma rimasero segrete le audizioni successive, quando loro erano morti. COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS

Il sistema mafioso settentrionale si ferma con il metodo Falcone. Antonio Anastasi su Il Quotidiano del Sud il 19 febbraio 2021. Una mafia sempre più sofisticata, che si avvale di facilitatori scovati nel mondo politico-istituzionale, e sempre più delocalizzata, capace cioè di proiettarsi dai territori del Sud messi sotto scacco con metodi violenti verso le aree più produttive del Paese. Perché là c’è più polpa da succhiare. Ne abbiamo parlato col dirigente superiore della polizia di Stato Lorena Di Galante, prima donna a divenire capo reparto della Dia nazionale (ne dirige la seconda Sezione).

Partiamo dall’inchiesta condotta dalla Dia di Catanzaro che ha portato nelle settimane scorse all’operazione “Basso profilo”, condotta contro una presunta cricca affaristico-mafiosa che aveva importanti referenti istituzionali. Emerge uno spaccato inquietante. Molti degli indagati sono funzionari pubblici o pubblici amministratori. Sono spesso i politici i facilitatori per ottenere appalti pubblici o importanti commesse in cambio di voti dei clan. È un po’ un emblema di come si sono evolute le mafie negli ultimi anni?

«Ciò che è emerso dall’indagine di Catanzaro è la conferma che la criminalità organizzata ha ormai assunto una forma liquida, andando ad occupare gli spazi che si creano quando vi è un vuoto dovuto sia alla presenza di soggetti infedeli sia quando è possibile il condizionamento degli assetti sociali che permettono di infiltrare un sistema che prima consente di produrre profitto, poi crea reinvestimento, come a volte accade nella complessa struttura dei procedimenti degli appalti. Ciò che è stato accertato con l’indagine coordinata dalla Procura distrettuale di Catanzaro è la conferma del realizzarsi di un livello sempre più sofisticato delle associazioni criminali che si avvalgono indistintamente di professionisti e pubblici ufficiali. Nel nostro caso, è stata fotografata la capacità del principale indagato di tessere relazioni in ambienti criminali, creando un equilibrio tra le cosche interessate agli affari, riuscendo ad accontentare tutti, ognuno con la sua parte di guadagno».

La cronaca degli ultimi anni dimostra che le infiltrazioni della ‘ndrangheta sono in tutte le regioni d’Italia e in particolare al Nord, la zona più produttiva del Paese. Il fatturato delle mafie al Nord è molto più consistente rispetto agli affari al Sud. E’ un dato che chiama in causa la società civile del Nord, che con boss e loro gregari fanno spesso affari?

«La criminalità organizzata cerca di attecchire là dove vi è la possibilità di produrre profitto, la forza è creare una rete di affari che vada oltre il territorio di provenienza. Il desiderio di ricchezza facile non ha esclusivamente identità geografica, è legato principalmente alla mancanza di scrupoli di chi si vuole arricchire illegalmente».

Le infiltrazioni delle mafie nei finanziamenti europei riaccendono l’attenzione su una delle possibili opportunità di espansione dell’economia criminale durante la pandemia. Da alcune inchieste sono già emerse forme di assistenzialismo da parte dei boss alla ricerca di consenso sociale. In Italia la rilevazione delle movimentazioni economiche sospette è iniziata, come annunciato dal procuratore nazionale antimafia. Ci sono già dati sul numero di aziende coinvolte in tal senso?

«La crisi pandemica iniziata lo scorso anno è stata oggetto di attenzione già dal mese di aprile del 2020, quando il capo della polizia, direttore generale della pubblica sicurezza, prefetto Franco Gabrielli, ha istituito l’Osservatorio permanente di monitoraggio e analisi sul rischio di infiltrazione nell’economia da parte della criminalità organizzata. L’Organismo è istituito presso la Direzione centrale della Polizia criminale ed è costituito dai rappresentanti della Polizia di Stato, dell’Arma dei carabinieri, della Guardia di finanza e della Direzione investigativa antimafia che si riuniscono periodicamente per realizzare una circolarità informativa sulle evidenze del fenomeno pandemico, anche per pianificare iniziative di prevenzione e contrasto all’infiltrazione della criminalità organizzata nei settori di maggiore interesse, che in questo momento potrebbe permettere l’acquisizione illecita di patrimoni e, conseguentemente, il loro reinvestimento. Inoltre, la Commissione Europea ha adottato un Piano di azione sulla prevenzione del riciclaggio dei capitali di illecita provenienza sotteso all’attuazione di regole comuni e alla trasparenza del mercato unico. La direttiva del Consiglio d’Europa del giugno 2019 promuove, infatti, la circolarità informativa in materia finanziaria, soprattutto con il fine di attuare una sempre più significativa azione di contrasto soprattutto nei confronti dei cosiddetti reati gravi, tra i quali figurano l’associazione di tipo mafioso, il riciclaggio e il terrorismo. Al riguardo, merita una particolare menzione l’attenzione che il nostro sistema pone alle movimentazioni sospette di denaro, che sono uno dei punti di forza delle strategie di contrasto del nostro Paese: le segnalazioni di operazioni sospette. L’Ufficio per l’informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia riceve dai soggetti obbligati una comunicazione qualora vi sia il sospetto che un’operazione finanziaria celi una operazione di riciclaggio ovvero qualora si sospetti che il capitale possa essere provento di attività criminali. In questo contesto istituzionale di prevenzione, dunque, più che di “aziende” parlerei di soggetti coinvolti e di settori economici aggrediti dalla criminalità, soprattutto in questo momento che vede protagonisti soggetti senza scrupoli propensi alla realizzazione di profitti illeciti sfruttando la difficoltà sociale in atto».

In Europa si sta prendendo finalmente coscienza dell’attacco globale sferrato dalle mafie e la Conferenza delle Parti sulla Convenzione Onu sulla criminalità transnazionale ha approvato all’unanimità la risoluzione italiana, il metodo Falcone, “Follow the money”, sia pure tardivamente. Ritiene che qualcosa nel resto del mondo cambierà e gli altri Stati terranno conto della legislazione italiana antimafia?

«Ritengo che vi sia già la presa di coscienza che la legislazione antimafia italiana sia un modello. Ad esempio, nel dicembre 2019, l’Albania ha istituito la Procura speciale anticorruzione (Spak) che ha competenza in materia di corruzione e criminalità organizzata. L’Albania ha condiviso il modello italiano nel contrasto all’espansione delle consorterie criminali anche con il rafforzamento dell’aggressione ai patrimoni illecitamente acquisiti e con l’individuazione dei reinvestimenti. Il recepimento di un modello europeo di legislazione antimafia da parte dei Paesi dell’Unione sarebbe un segnale forte, che permetterebbe di contrastare la transnazionalità delle organizzazioni criminali mafiose. Si realizzerebbe, così, la visione globale del metodo Falcone».

Lupo: «L’antimafia “nostalgica” è come uno Stato contro lo Stato». Intervista allo storico: «L’antimafia è indietro di trent’anni, e spesso si schiera contro lo Stato». Errico Novi su Il Dubbio il 28 novembre 2021. «Uno Stato nello Stato: l’antimafia degli anni Novanta è una forza, una componente formata da persone con responsabilità e funzioni istituzionali che ritengono di dover conservare un sistema di risposta alla mafia adatto al quadro di trent’anni orsono. E pur di conservare tale prospettiva, da cui non riescono a sciogliersi, qualcuno è pronto a contrapporsi persino ai giudici: ai magistrati di sorveglianza o ai giudici della Corte costituzionale».

Salvatore Lupo è uno storico, non un giurista. Ed è forse la formazione che prescinde dalla sola meccanica del diritto a dargli la forza di guardare negli occhi le cose. Incluse la mafia per come è oggi e l’antimafia per come si è conservata immutabile rispetto ad alcuni decenni fa. Il professore di Storia contemporanea dell’università di Palermo, autore di alcuni volumi decisivi sulla mafia, è impietoso nel definire il paradigma antimafioso: un po’ nostalgico, un po’ irriducibile nei propri schemi.

Della mafia s’è cristallizzata l’immagine stragista degli anni Novanta.

È quanto dico e scrivo da tempo. Parliamo della mafia stragista, o corleonese, anche se il secondo aggettivo risente di un’estensione forzata, perché i primi mafiosi stragisti non erano corleonesi. In ogni caso si tratta di un periodo che è cominciato e finito da un pezzo. È trascorso quello che si definisce un tempo storico, dall’epoca in cui lo stragismo mafioso ha concluso la propria vicenda.

Quindi siamo aggrappati a un totem?

Semplicemente, quello schema non esiste più. Lo suggeriscono i dati. La violenza delle cosche è stata innanzitutto inframafiosa, e sappiamo come oggi l’incidenza degli omicidi legati al crimine organizzato sia diminuita nettamente: ora parliamo dei femminicidi, cioè di delitti legati a dinamiche sociali e sottoculturali. Il fenomeno di trent’anni fa ha poi avuto, come sappiamo, una connotazione violenta proiettata all’esterno, terroristica, e in questo deriva dal modello del terrorismo politico. Ma è evidente come non solo sia scomparso lo stragismo mafioso, ma anche come il suo modello, il terrorismo politico, sia a propria volta archiviato da tantissimo tempo.

Ci siamo affezionati allo stato d’eccezione?

Alla mafia stragista, lo Stato ha risposto in modo efficace e rude. Non mi stupisco, non trovo incomprensibile quel tipo di reazione. Affermare lo Stato di diritto e difenderlo non significa ignorare le diversità della storia. D’altra parte l’opinione pubblica ha apprezzato quel tipo di risposta. Solo che non è più tempo per quella rudezza.

Non tutti sono d’accordo: c’è chi chiede di preservare gli stessi istituti di allora, a cominciare dall’ergastolo ostativo senza possibilità di un perdono slegato dalla collaborazione.

Ecco, mi dispiace che l’antimafia, che dovrebbe costituire un crogiuolo di legalità, un laboratorio contro fenomeni di malaffare, di illegalità complessivamente intesa, si riduca a un paradigma forcaiolo che contraddice i principi generali del diritto. Nella vicenda dell’ergastolo ostativo come in altre simili. Non esistano più i presupposti di quella reazione brutale operata trent’anni fa dallo Stato: pensare di perpetrarla non è utile né alla libertà né all’ordine. Tutti sanno che un po’ di indulgenza, persino nelle carceri, è funzionale e necessaria.

Alcune letture critiche dell’antimafia intravedono anche una tendenza a preservare funzioni, interessi, vere e proprie vicende professionali possibili solo in quella cornice.

Guardi che si potrebbe dire la stessa cosa per gli interpreti del modello passivo e indulgente affermatosi negli anni Settanta: non parliamo di cose nuove, tutti gli apparati funzionano secondo una logica di continuità. Anche Carnevale, per dire, era legato a un modello del passato, lo giudicava degno, agiva di conseguenza. Allo stesso modo alcuni magistrati antimafia si sentono allievi di Falcone. Mi limito a dire che non è più il tempo in cui Falcone ha dovuto adottare determinate strategie di risposta, perché non è più nemmeno il tempo di Riina. Non si può far finta che la storia sia ferma: ma alcune figure, alcuni protagonisti dell’antimafia, inclusi alcuni magistrati, si sono formati in quell’atmosfera e non riescono a uscire da quella logica. Però vorrei che un concetto emergesse senza equivoci.

Dica pure.

Anche in chi resta ancorato a un modello ormai estraneo al presente, non c’è né complotto né cattiva volontà, si tratta semplicemente della tipica cultura degli apparati.

Parlamentari e magistrati convinti che nella nuova legge sull’ergastolo ostativo servano paletti più severi sembrano quasi diffidare della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità dell’istituto per com’è ora.

Sì, comprendo la sua analisi, ma questo dimostra semplicemente che non si può semplificare e dire che quell’impostazione sia sempre a favore dei magistrati: è per i magistrati solo quando condannano. Se assolvono, li si contrasta. Avrà visto che le più scomposte correnti del movimento antimafia si sono distinte in scene vergognose, in proteste pubbliche nelle aule di tribunale, quando degli imputati sono stati assolti.

Ma scusi, quindi l’antimafia è una specie di partito nostalgico?

Aspetti. È un partito la parte di questo fronte che sta nell’opinione pubblica. Nel caso della magistratura, si tratta di un pezzo di istituzione: è lo Stato, la burocrazia che si è formata a una certa cultura, in una data situazione storica. Ha difficoltà, e non ha interesse, ad abbandonare quella impostazione. Ha interesse piuttosto a giocarsi, nelle istituzioni, partite che possono condurre a polemizzare con chiunque. Anche con il Capo dello Stato, In altre parole, non possiamo spiegarci la posizione di tali componenti della magistratura come ispirate a un assoluto e intransigente rispetto per lo Stato: sono componenti che vogliono giocarsi le loro partite. Nel processo trattativa si è ritenuto di colpire il ministro della Giustizia o il ministro dell’Interno per scelte e atti compiuti nel pieno delle rispettive competenze costituzionali. Spesso si dice che non avrebbe dovuto essere il governo, o un ministro, ad assumere certe decisioni, ma qualcun altro. E ci risiamo: ci risiamo con la logica dell’eccezionalismo. Che però, alla luce della storia, non si giustifica più.

E invece abbiamo ancora una legislazione antimafia da stato d’eccezione.

È sbagliata l’idea per cui le leggi contro la mafia debbano essere eccezionali, prescindere dai principi generali del diritto. Devono invece essere leggi intese a colpire un fenomeno deteriore e pericoloso ma nel quadro dei princìpi generali del diritto.

E vale anche per l’ergastolo ostativo.

Se deve esserci, secondo Costituzione, la possibilità che l’ergastolo sia lenito, che contempli un perdono, così deve essere. Non si può dire che in certi casi il perdono è escluso.

Si diffida della Consulta, ma più di un partito, più di un magistrato, vuole sottrarre le decisioni sulla liberazione degli ergastolani ostativi ai giudici di sorveglianza e attribuirle al solo Tribunale di Roma. Come se non fosse materia adatta a loro, a quei singoli magistrati territoriali.

Però un’idea simile implica l’idea di una magistratura speciale, che è un’idea pericolosa, e che il pensiero liberale e democratico ha sempre contrastato. Ci sono gli incidenti della storia e tra questi anche eventuali decisioni giudiziarie cedevoli, condizionabili, ma vanno risolte con gli strumenti già a disposizione, con le inchieste. D’altronde, anche il magistrato penale che non assolve mai opera in modo non condivisibile. Ciascuno è esposto a condizionamenti, ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità e per ciascuno è possibile intervenire in caso di errore. Ma non è con lo stato d’eccezione che ci si mette in salvo dagli incidenti della storia.